Fabio Sorrentino
Sangue Imperiale
arkadia © 2013 arkadia editore
Trattandosi di opera di fantasia, qualsiasi riferimento a cose o persone realmente esistenti e da considerarsi puramente casuale
Collana Narratori Eclypse 31 Prima edizione novembre 2013 isbn 9788868510428 Arkadia Editore 09125 Cagliari – Viale Bonaria 98 tel. 0706848663 – fax 0705436280
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Et maiores et posteros vestros cogitate (Pensate ai vostri avi, pensate ai posteri)
Publio Cornelio Tacito Agricola, 32
Dedicato a me, e a me soltanto, che volli e volli sempre, e fortissimamente volli.
Vittorio Alfieri
Avvertenze per il lettore
Questo è un romanzo storico e, pertanto, si basa su uno scenario che si è cercato di ricostruire nel modo più meticoloso possibile. Laddove si è ritenuto opportuno sono stati lasciati inalterati i termini latini di uso quotidiano, cercando di non infastidire la lettura con note o rimandi non necessari. In taluni casi, al contrario, si è preferito utilizzare una traslitterazione moderna, per non ingenerare confusione. È questo il caso di termini come legatus legionis (comandante di una legione), o legatus Augusti pro praetore (governatore di una provincia), che sono stati resi semplicemente con i termini, rispettivamente, di comandante o governatore nella maggior parte dei casi. I nomi delle città sono stati trascritti nelle loro grafie latine e sono facilmente individuabili. Si rinvia comunque al glossario al termine del volume.
Prima parte
Giano Bifronte
1
Sinuessa, anno 849 ab Urbe condita (96 d.C.),
tre giorni prima delle none di settembre.
Alla Taverna “il dio Sole”.
«Ti dico che l’Ispanico lo sgozzerebbe come un agnellino», insisteva Labieno mentre agitava con determinazione il piccolo bicchiere rivestito di cuoio, contenente i dadi.
Trebonio Macrino lo fissò negli occhi: «Allora? Che dici?» «Divina Spes, concedimi il favore del tuo sguardo», invocò il siculo, alzando il capo al cielo. Poi esclamò con convinzione: «Due sei, e dimmi bugiardo!» Un’ultima mescolata e la mano vigorosa rovesciò sul pancone le preghiere del liberto. Prima di controllare il punteggio, Labieno sbirciò di sottecchi l’espressione divertita di Trebonio Macrino. Avrebbe voluto infilargli su per il sedere il rotolo con il quale il suo interlocutore si grattava il mento in quell’istante, facendogli ingoiare quel ghigno fastidioso che aveva dipinto sulle labbra fin da quando avevano iniziato a giocare. «Bugiardo!», ridacchiò trionfante il soldato, dopo aver scorto i dadi. «Bugiardo e fanfarone! E con questa fanno cinque», concluse Trebonio. «Dannazione», rispose seccato Labieno. Con aria rassegnata prese quattro sesterzi dalla saccoccia che teneva dinnanzi a sé sul bancone e, bestemmiando, li ò all’amico. «Questi sono gli ultimi che mi spilli, brutto…»
Le sue parole furono rapidamente interrotte dalle minacce di Trebonio. «Brutto che? Forza, dammi una ragione per scannarti!» Il siculo arrossì di livore, tuttavia tacque, affogando in gola il resto dell’imprecazione. A quel punto il romano lanciò baldanzoso una delle monete in aria, lasciandola tintinnare più volte sul tavolaccio al quale erano seduti. «Tornando all’Ispanico», riprese Macrino, «mi sa che hai ragione, in fondo. Massimino non avrebbe speranze contro quella bestia.» Labieno annuì vistosamente, poi continuò la sua valutazione su colui che considerava il principe dell’arena: «Negli ultimi giochi gladiatori, l’Ispanico ne ha fatti fuori quattro di fila in meno di mezza clessidra. L’imperatore quasi non credeva ai suoi occhi, e sappiamo che Domiziano non è tipo da vantare le capacità altrui…» «Più che altro, direi che è abile nello sfruttarle a dovere», commentò infastidito il soldato, mentre con noncuranza restituiva le monete vinte allo sfortunato Labieno. Questi sorrise e, con un cenno della mano, richiamò l’attenzione del garzone dell’osteria. «Che fai?», chiese Trebonio, voltandosi in direzione dell’ingresso. «I debiti di gioco vanno pagati», spiegò ammiccando il liberto, «quindi ti offro un’altra brocca gelata di rosso di Capua.» «Devi sempre esagerare, tu!», lo ammonì Macrino. «Ricordati che abbiamo un lavoro da sbrigare e dobbiamo raggiungere Liternum entro l’ora undecima, possibilmente sobri.» Usciti dalla caupona, i due risalirono in sella alle loro cavalcature e presero a seguire l’ultima celebrazione del potere imperiale nel campo dell’edilizia: la via Domitiana. Il loro viaggio era iniziato il giorno precedente verso l’ora quinta. Erano partiti da Roma con tutta calma, attraversando Porta Capena nella calura di metà mattino e la città era sembrata stranamente tranquilla agli occhi di Trebonio. Di solito a quell’ora il vociare persistente e fastidioso dei mercanti, ritti di fronte ai loro banchi di esposizione, era una costante alla quale difficilmente ci si sarebbe potuti abituare. Alla voce roca dei pescivendoli si univano le richieste lamentose di un folto nugolo di mendicanti, trasferitisi in pianta stabile in quel luogo e pronti a sfinire con la loro insistenza i numerosi
viandanti in arrivo o in partenza dall’Urbe. Tutto invece era inaspettatamente placido e silenzioso in quei pressi, zona di confluenza per le stradine provenienti dal Palatino, dall’Aventino e dal Celio. L’unico rumore percettibile era il continuo e sommesso defluire dell’Aqua Murcia, sostenuto a fatica dall’antica arcata della porta cittadina. Una volta allontanatisi dalle mura, Macrino e Labieno avevano aumentato l’andatura dei loro corsieri, decisi a raggiungere Formiae non oltre l’inizio della prima vigilia. Avevano superato Aricia in poco tempo, tirando dritto di buona lena fino a Tarracina.
In prossimità delle rovine di Norba Latina lo scenario naturale cambiava radicalmente. L’ampia zona paludosa che sembrava voler accompagnare i due fino a destinazione, circondando in lontananza i lati della Regina viarum, veniva sostituita gradualmente da lunghe distese di campi coltivati. Erano terre fertili e saggiamente dissodate, strappate agli acquitrini e alle padule disseminate anni prima per tutto l’Agro Pontino grazie alla perizia e alle solide conoscenze idrauliche degli ingegneri imperiali.
Sforzando lo sguardo al di là delle campagne, Labieno poté notare la presenza di alcune file di gonfi lecci, intervallate da alti assembramenti di pini e querce da sughero. Alle spalle della zona agricola si offriva ai loro occhi il limitare di una folta selva mediterranea. Un lieve venticello proveniente da occidente rinfrancò le loro membra accalorate, donando un po’ di refrigerio in una mattinata divenuta a dir poco rovente: un cielo terso, sgombro dal più minuto brandello di nuvola, si lasciava penetrare arrendevole dalla potenza dei raggi solari. Questi, abbattendosi ovunque sul largo selciato, si riflettevano abbacinanti sulle grosse lastre di leucitite costituenti la pavimentazione, diffondendosi velocemente ai lati della strada.
Una volta arrivati nei pressi di Tarracina, Macrino e il liberto attraversarono le calcinate mura poste a controllo della parte alta della città, decisi a raggiungere la zona del porto. Da quelle parti avrebbero fatto una breve sosta, la prima da quando avevano lasciato l’Urbe, in modo da far tirare il fiato ai loro corsieri e
abbeverarli all’acqua di una polla. Poi sarebbero andati alla ricerca di una popina, giacché la fame iniziava a farsi sentire e ancor più l’afa incalzante dei primi giorni di settembre.
Mettendo le cavalcature al o, continuarono a seguire lo sviluppo della strada che stavano oramai battendo da ore. L’Appia tagliava in due la zona del Foro nella sua parte settentrionale e una fitta serie di pilastrini separava il fondo stradale da quello della piazza circolare. Un nutrito capannello di cittadini, avvolti in candide toghe dal tessuto leggero, si avviava verso il lato orientale dello slargo, in direzione della basilica. Gli uomini camminavano separati tra loro a gruppi di tre o quattro, chiacchierando a voce bassa e lanciandosi a turno occhiate furtive. La maggior parte di essi aveva superato la mezza età. Altri erano decisamente in là con gli anni. “Tempo di elezioni”, pensò fra sé Macrino mentre diversi bambini si rincorrevano sorridenti all’ombra di un lungo portico che affacciava proprio di fronte la via che i due affamati viandanti stavano percorrendo. Le loro voci allegre risuonavano veloci all’interno dell’andito colonnato, diffondendo tutto intorno la spensieratezza e il diletto caratteristici della loro giovinezza. Per il tempo di un respiro, nella mente di Labieno apparve di colpo l’immagine stinta dell’ingresso della vecchia domus nella quale era cresciuto. Per un istante ebbe la sensazione di respirare nuovamente l’odore intenso e avvolgente del mare di Sicilia, l’acredine diffusa dalle reti cariche di pescaggio. Le parole di Trebonio lo ricondussero alla realtà, strappandolo all’incanto in cui era scivolato. «Però! Hai visto, Labieno? Direi che non se la ano male qui», e con l’indice della destra indicò lo spazio che si apriva alle spalle di quella specie di candido propileo. Era lì che era stato eretto il piccolo teatro cittadino. Il fabbricato occupava una zona ridotta ma era una costruzione esteticamente gradevole e funzionale, realizzata in maniera da sfruttare al massimo l’esigua area a sua disposizione. Il siculo portò la mano a coppa sulla fronte per proteggere gli occhi cerulei dagli intensi raggi luminosi, poi scrutò velocemente nella direzione indicata da Trebonio. Il suo sguardo cadde infine verso la parte occidentale del Foro: l’antico Capitolium, oramai vetusto, accompagnava con espressione sofferente i due forestieri nel loro tragitto verso la parte bassa di Tarracina. In direzione della zona dei due moli, la strada aveva preso a discendere con
elevata pendenza. Labieno temé di ruzzolare rovinosamente giù per il lastricato quando il sauro che montava ebbe dapprima un sussulto e poi fece un rapido scarto. Trebonio trovò appena il tempo di arrestare il suo animale prima che questi andasse contro il corsiero del liberto. «Che gli dèi ti fulminino, Labieno! Tieni d’occhio la tua bestia!» «Maledetta serpe», si limitò a rispondere il siculo. «A momenti ci rimettevo la pelle. È giunta l’ora di fermarci, amico.» Macrino annuì, poi indicò una stradina che conduceva a un piccolo slargo antistante i magazzini portuali. «Lì Labieno, accanto alla fontana. Legheremo i cavalli a quel pino e andremo a mangiare un boccone.» La popina di Costanzo era di gran lunga la più affollata nei paraggi. Davanti al solido bancone in muratura affacciato sulla strada gli schiamazzi degli avventori riuscivano quasi a coprire i rumori metallici provenienti dai vicini capannoni marittimi. La fila disordinata dei clienti, in attesa di essere serviti dal proprietario e dalle sue figlie, diventava sempre più confusa con il trascorrere del tempo. L’abilità di Costanzo nel servire quell’orda di affamati e la velocità dei suoi movimenti erano il frutto di anni e anni di intenso lavoro. La fronte madida e l’espressione concentrata contrastavano con la sua sagoma imponente, simile a quella degli antichi lottatori greci di pancrazio. Con le mani perennemente immerse nei grossi dolia di terracotta incassati nel lungo lastrone in muratura, l’oste scrutava il viso dei suoi clienti, attento a vigilare la combriccola di beceri plebei radunati a pochi i. Quando uno di quegli zotici infilò furtivo la destra in uno dei recipienti, una delle figlie di Costanzo, continuando a occuparsi della fornace, fischiò. In un battere di ciglia l’esile polso dello sventurato fu bloccato in una morsa dal possente locandiere. L’uomo alzò lo sguardo spaesato ma non ebbe neanche il tempo di parlare che Costanzo l’aveva già sistemato. Un unico, tremendo schiaffone a man rovescia catapultò il misero ladruncolo indietro di tre i, facendolo cozzare contro gli altri avventori. Questi, senza grossi complimenti, finirono il lavoro iniziato cacciandolo a pedate fuori dalla fila. Una volta arrivato il loro turno, Labieno e Macrino acquistarono pesce fritto, frutta secca con miele e una giara di rosso locale. Consumarono il tutto
all’ombra di una fitta serie di pini delimitanti l’accesso a una lunga e impegnativa salita che conduceva al santuario di Iuppiter Anxurus. La mirabile costruzione, edificata circa centosettanta anni prima per volere del famoso Lucio Cornelio Silla, era arroccata su una radura del monte Neptunius e dominava con la sua maestosità la parte bassa di Tarracina e la zona dei moli.
Terminato il pasto, i due si rimisero subito in cammino per raggiungere Formiae entro l’orario previsto. Un pallido sole pomeridiano iniziava lentamente a calare, trascinando via con sé gli ultimi bagliori di luce. L’avvento della sera mitigò la stringente canicola di una mattinata cocente così che i due viandanti aumentarono l’andatura dei loro purosangue. Intorno alla metà della prima vigilia, Trebonio intravide in lontananza i fuochi della ridente località e, soddisfatto, si rivolse all’amico. «Cosa ti dicevo? I miei calcoli sono sempre precisi!» Il siculo lo scrutò infastidito ma si guardò bene dal replicare. Si limitò soltanto a bofonchiare sommessamente tra sé, poi aggiunse: «Bene. Tutto quello che desidero, adesso, sono una coppa di rosso e una branda.» «Li avrai», rispose con sufficienza il soldato. «Non preoccuparti, brutto frignone.» Le strade iniziavano a svuotarsi. Le lucerne che avevano illuminato per poche ore le botteghe dei commercianti all’imbrunire cominciavano a spegnersi gradualmente mentre gli artigiani, gli orafi, i fabbri e i panettieri erano intenti a riordinare i propri locali di lavoro prima della chiusura giornaliera, pregustando la gioia di una cena saporita come ricompensa per il faticoso lavoro.
Macrino e il liberto capirono che la fama di Formiae, quale rinomato rifugio estivo dei patres romani, derivava dall’amenità dei luoghi intorno ai quali era stata costruita secoli addietro. La quiete e la serenità dominavano lo scenario lussureggiante della florida campagna che abbracciava tutt’intorno quella fortunata oasi di pace. Affacciato a mare verso occidente, il territorio pianeggiante della città andava tramutandosi in rigogliose colline dal profilo addolcito man mano che ci si spostava verso nord-est. Le ville dei patrizi più
facoltosi dell’Urbe, ricche di giardini variopinti e portici colonnati, erano state edificate proprio lungo i poggi ubicati alle spalle del paese.
I due viaggiatori, oramai stanchi di cavalcare, pernottarono in una spaziosa locanda dalle pareti color rosso pompeiano, situata lungo una parallela al cardo maximus della cittadina.
L’indomani ripresero il loro cammino di buon mattino e verso l’ora sesta giunsero a Sinuessa, famosissima in tutto l’impero per le sue splendide terme e per la produzione del Falerno, uno tra i vini preferiti dai facoltosi dell’Urbe.
Nel sole infuocato del primo pomeriggio, i pallidi miliari della via Domitiana sembravano dover cedere da un momento all’altro sotto i colpi di una calura asfissiante. Ogni qual volta ne incrociavano uno, Labieno strizzava gli occhi per proteggerli dagli insistenti fasci luminosi che si irradiavano tutt’intorno e ammirava l’inanimata figura calcarea nella speranza di vederla disciogliersi di colpo sul largo basolato di roccia eruttiva. Il liberto aveva abbandonato Roma di malavoglia per seguire l’ex padrone alla volta di Liternum. I suoi affari come speziale cominciavano a rendere bene proprio in quel periodo dell’anno e poi aveva lasciato in sospeso la questione della fullonica. Dopo anni di risparmi gli si era presentata l’occasione di rilevare una quota dell’attività di Numidio Pampliato, in modo da riuscire a mettere le mani su una lavanderia ben avviata.
“Niente male per un liberto” aveva pensato Labieno, quando aveva saputo dell’affare in corso. Ma poi era saltato fuori quel viaggio, fastidioso e improvviso, e lui era stato costretto ad accettare l’invito di Trebonio, perdendo l’opportunità di firmare il contratto propostogli da quel pollo di Pampliato. Per un piccolo debituccio di gioco con qualche scortichino, Numidio aveva pensato bene di vendere parte
della sua proprietà a una cifra ridicola, in modo da saldare in fretta il conto con i suoi infimi e assillanti creditori.
Pampliato, il rincoglionito, avrebbe trovato facilmente un tipo scaltro, disposto a sfruttare a piene mani la sua dabbenaggine negli affari. A quel punto la possibilità del liberto di concludere l’accordo sarebbe sfumata definitivamente, insieme alla speranza di incrementare una buona volta la sua posizione economica. Così Labieno avrebbe maledetto fino alla fine dei giorni il suo scellerato ex padrone, Gaio Trebonio Macrino, princeps peregrinorum del servizio “G-4” dell’Urbe.
Strada facendo, il siculo aveva cercato di dare un senso alla storia che Trebonio gli aveva raccontato il giorno precedente la loro partenza ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un nesso valido tra gli accadimenti che andava analizzando. Sapeva bene che il capo dei frumentarii prendeva ordini solo dai due prefetti del pretorio e che questi, a loro volta, erano alle dirette dipendenze dell’imperatore. A maggior ragione, considerava alquanto insolito che Domiziano fosse così interessato all’infima faccenda degli omicidi avvenuti nel lupanare di Liternum. Certamente quella serie di efferati assassinii aveva scaraventato il ricco polo commerciale campano nell’inquietudine e nella paura, ma era difficile per lui immaginare il figlio di Vespasiano che, a colloquio con uno dei suoi segretari personali, lamentasse preoccupazione per la gravità dei fatti narrati nelle cronache provenienti da una cittadina di periferia. Del resto lo stesso Domiziano non era estraneo a nefandezze e ignominie, e la politica del terrore era diventata oramai una delle specialità in cui il divino Cesare si prodigava con maggior diletto. Certo non era ancora arrivato al punto di sventrare le sue vittime per poi accomodargli le viscere intorno al collo, a mo’ di preziosi monili. Né sottraeva ai malcapitati nemici gli occhi e la lingua, forse come ricordo dei loro sguardi atterriti negli istanti antecedenti una fine abominevole. Una però cosa era evidente: negli ultimi anni un bel numero di senatori era sparito improvvisamente, e con essi anche i loro beni; per non parlare poi degli appartenenti all’ordine equestre, i nuovi ricchi, dei quali
richiedeva sovente la condanna a morte o l’esilio, ma questo solo nel caso gli fossero particolarmente simpatici.
Tuttavia le sue aggressioni ai danni delle vetuste sagome dei patres non scaturivano da dissennati capricci o insani deliri di onnipotenza, né tantomeno potevano essere biasimate. La prima congiura ordita dai nobili custodi della res publica romana ai danni dell’empio Domiziano risaliva a tredici anni prima. La situazione era precipitata velocemente, mandando in fumo l’attesa cospirazione, e a essa aveva fatto seguito la follia vendicativa dell’imperatore. Molte teste erano cadute e il Senato aveva tremato di terrore. Il secondo complotto, organizzato circa dieci anni dopo, sembrò dover portare finalmente all’eliminazione del tiranno. Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore, diede inizio a una rivolta alleandosi con i feroci Catti, una tribù barbara già protagonista di diverse guerre contro i romani. Grazie al loro aiuto Saturnino riuscì a farsi proclamare imperatore dalle sue truppe. In realtà i sogni di speranza della vessata aristocrazia romana durarono poche settimane: proveniente dall’Hispania con la VII legione Gemina, il giovane e valoroso comandante Traiano raggiunse a marce forzate i territori della rivolta e, con l’aiuto del governatore della Germania Inferiore, Aulo Bucio Lappio Massimo, sconfisse rapidamente l’usurpatore.
Represso anche quest’altro tentativo di deposizione, Domiziano aveva dato sfogo a tutta la propria malvagità, assecondando le sue paranoiche manie di persecuzione ai danni di chiunque potesse essere sospettato di condotta ambigua. Sotto i colpi di spietate rappresaglie erano caduti sia politici che intellettuali. I matematici, i precettori, gli attori satirici e i filosofi furono banditi dall’Urbe, mentre guai ancor più seri si profilavano per coloro i quali avevano abbracciato la religione cristiana. Così, la situazione nell’Urbe, era oramai divenuta insostenibile per tutti i maggiorenti, esasperati dal comportamento squilibrato dell’imperatore. Il popolo, di contro, acclamava a gran voce le sue magnanime elargizioni in denaro e grano, così come i frequenti giochi gladiatori e le numerose feste cittadine alle quali l’astuto Domiziano amava partecipare in prima persona. Mentre navigavano nelle profonde acque dell’incertezza, le elucubrazioni del
liberto furono interrotte dalle parole ridanciane di Macrino. «Che hai, Labieno? Non dirmi che ti mancano già le tue procaci amichette della Suburra.» Il siculo abbozzò un sorriso posticcio, poi rispose evasivo: «Figurati. Le mie preoccupazioni sono altre. Questa faccenda mi puzza parecchio, amico mio.» Trebonio lo investì con un penetrante sguardo indagatore. I suoi occhi verdi brillavano nell’intenso sole pomeridiano. Conosceva l’arguzia e la prontezza di pensiero del liberto, quindi cercò di scoprire quali fossero le sue perplessità. «Sentiamo allora», ribatté Macrino in tono pacato. «Se dici di sentire odore di bruciato, devi anche essere riuscito a individuare la zona dell’incendio, suppongo.» Labieno schioccò la lingua, continuando a osservare la strada che si apriva davanti alle loro cavalcature. Lontano, all’orizzonte, i contorni apparivano confusi e tremolanti, sfocati dall’opera insistente delle torride lame provenienti dal disco solare. «Non mi convince il fatto che abbiano scelto proprio te per questo incarico», esordì il siculo, lanciando una rapida occhiata al suo interlocutore. «L’imperatore avrebbe potuto chiederti di inviare uno qualsiasi dei tuoi uomini migliori, magari Vulpecula o Dracone. Invece ha preferito te. Il capo dei Castra Peregrina, l’uomo di fiducia. Un sacrificio non saperti al suo servizio nell’Urbe, specialmente in questo periodo particolarmente movimentato.» «In effetti stavolta la situazione sembra davvero al limite», si affrettò a rispondere il soldato. «Il ricordo della morte di Flavio Clemente è ancora vivo tra le mura del palazzo. Domizia Longina ha cercato in tutti i modi di convincere suo marito a giocare di astuzia. Gli ha proposto il rientro dall’esilio a Pandateria di sua nipote Flavia Domitilla, ma l’imperatore non ha ceduto.» «Oramai a Roma si scommette sul nome del prossimo sfortunato che cadrà vittima della sua crudeltà», commentò Labieno divertito. «Pensa che all’angolo tra l’Argiletum e il clivus Suburanus c’è un trace che sta tirando su una fortuna con questo nuovo gioco. E dovresti vedere quanti puntano!» Trebonio agitò il braccio sinistro verso il siculo, come a voler scacciar via quella
stupida affermazione. Poi riprese a parlare. Un’espressione preoccupata calò rapidamente sul suo volto, madido per l’afa dell’ora nona che sembrava cingerli d’assedio. «Tornando ai tuoi dubbi, non ti nascondo che anche a me è apparsa strana la decisione di inviarmi a Liternum. Gli omicidi del lupanare devono nascondere qualcosa di grosso, a mio parere. Non vedrei altrimenti la ragione di un simile interesse da parte di Norbano e ancor più di Petronio Secondo…»
Quasi mi obbligava a partire il giorno stesso nel quale mi ha comunicato la notizia.» «Quello, poi!», esclamò infastidito Labieno. «Pagherei per vedere la sua testa calva servita su un vassoio.» Macrino sorrise di gusto. Petronio riusciva a suscitare lo stesso disgusto in tutti quelli che lo conoscevano. Sebbene lo stipendiasse lautamente, perfino Domiziano lo reputava un arrogante attaccabrighe.
La vista in lontananza delle porte di Liternum rallegrò il morale dei due viandanti. Il tratto della via Domitiana che avevano percorso, partendo da Sinuessa, era stato piuttosto breve, sebbene il caldo incessante li avesse tormentati per tutto il tragitto. Giunti in prossimità del Clanius, i campi coltivati avevano lasciato rapidamente il posto a lunghe distese paludose, infestate d’insetti e dall’odore tutt’altro che piacevole. Eppure, lungo gli argini del fiume, fitte distese di viole accompagnavano lo scorrere incessante delle sue acque tumultuose fino all’incontro con il Literna palus. Nei pressi del lago, l’impetuosità del corso d’acqua scemava parecchio e si intravedevano nuovamente, oltre un’esile cortina di salici, le prospere campagne circondate dai lecci e dagli ontani. La colonia romana sorgeva a poche miglia di distanza dalla foce del Clanius. Lì, a sud dell’ampio specchio d’acqua tendente più a una palude che a un lago, Publio Cornelio Scipione aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, costretto dall’indignazione generale a un esilio forzato nella città che aveva donato ai suoi veterani di Zama. Il vincitore del grande Annibale, il valoroso condottiero destinato a glorificare nei secoli il nome di Roma, esecrò pubblicamente i nobili patres durante il processo condotto da Catone il Censore
che lo vedeva come imputato. Lui, l’Africano, idolo dei legionari e appartenente a una delle famiglie più antiche e rispettate dell’Urbe, era stato accusato di frode insieme al fratello dopo la vittoria contro Antioco re di Siria. Deluso e amareggiato dall’assurdo comportamento dei senatori, il comandante aveva deciso di ritirarsi nella tranquillità della sua villa campana, circondato da chi reputava l’unico esempio di virtù romana: i suoi soldati. I sauri dell’inviato imperiale e del suo accompagnatore attraversarono al o l’imponente arco trionfale che dominava l’intera zona antistante l’ingresso della città. Circa cinquecento i oltre la loro posizione, la Porta Publia attendeva l’arrivo dei numerosi carri stracolmi di mercanzie e diretti al porto di Puteoli. La lucrosa colonia di Liternum aveva iniziato ad accrescere la sua ricchezza fin dagli albori dell’impero, sotto il principato del divino Augusto, e aveva saputo sfruttare al meglio la sua vicinanza ai rinomati luoghi di villeggiatura della costa campana: senatori, cavalieri, ricchi liberti, tutti spendevano cifre da capogiro per riuscire ad accaparrarsi una residenza in prossimità della verdeggiante campagna che, svariati secoli addietro, aveva rappresentato il fulcro della Magna Grecia. Con la costruzione della via Domitiana, gli affari per la fortunata Liternum erano addirittura triplicati. Tappa obbligata per chiunque avesse dovuto raggiungere il trafficato porto campano di Puteoli, la colonia era diventata in breve tempo un polo attrattivo per intere carovane di mercanti. Folti gruppi di magones, i biechi venditori di schiavi, inondavano periodicamente gli spazi del Foro con i loro forniti cataloghi di mercanzia umana; i venditori di bestiame si alternavano ai magnarii, che offrivano grano, olio e vino, o con i pomarii, che si distinguevano per i loro banchi di frutta e verdura. Più in là si vedevano i vestiarii con stoffe pregiate provenienti dagli angoli più lontani dell’impero, gli unguentarii, con le loro intensissime essenze profumate, e gli aurifices, che esponevano magnifici gioielli. Liternum osservava ammiccante quell’energico e confuso brulicare di attività e da ognuna di esse traeva quotidianamente il suo profitto. Tutti erano tassati sulle merci vendute o introdotte in città, tutti pagavano dazio per il regolare svolgimento dei propri commerci. «Lo conosci questo Marco Stazio Afro?», esordì Labieno, mentre attraversavano l’affollata strada che conduceva al Foro. «Non di persona», si affrettò a rispondere Macrino. Nelle sue parole si scorgeva
un’inflessione rilassata. «L’imperatore però mi ha assicurato che è un magistrato fedele e integerrimo e che si è detto onoratissimo di ospitarci nella sua domus.» «Fedele e integerrimo?», ripeté divertito il liberto. Per un attimo lo sguardo di Trebonio cadde spietato come una mannaia sulla figura del siculo. Questi non si curò per nulla dell’occhiata omicida e continuò a ridacchiare di gusto. «Oh dèi, se lo dice il divino Domiziano c’è da crederci allora! Ah ah.» «Ridi pure, stupido liberto», lo ammonì il princeps peregrinorum. «Intanto Afro è stato eletto duumvir per il quarto anno consecutivo. Da quanto mi è stato riferito, la scorsa elezione in città si è tramutata in un plebiscito. I decurioni lo sostengono a spada tratta e la popolazione intera beneficia a piene mani delle sue frequenti elargizioni. Chi credi abbia fatto costruire la porta che ora è alle nostre spalle? Gli spettacoli che si svolgono nel teatro sono organizzati a sue spese, così come la distribuzione mensile di frumento extra per tutti gli aventi diritto di Liternum. Dicono che la sua salutatio matutina sia qualcosa d’incredibile.» «Uhm, e non ti sembra strano che un uomo così probo e interessato al benessere del prossimo possa essere tanto in confidenza con l’imperatore? Conosci bene Domiziano, o mi sbaglio?» «Che cosa vuoi dire?», ribatté seccato Trebonio. «Che non ti fidi delle notizie riportate dai miei informatori? Credi sia un ingenuo, Labieno?» «Come potrei pensare questo, amico mio. Dico solo che, non conoscendo il nobile Stazio Afro, aspetterei a star sereno. E poi lo sai, Trebonio: io tengo d’occhio perfino la mia ombra… Non si sa mai scape.» «Dobbiamo essere fiduciosi, invece», osservò pensieroso il soldato. «Anche perché ci serve tutto l’aiuto dei maggiorenti locali per risolvere alla svelta questa assurda situazione. Tre omicidi in dieci giorni, e nessuna traccia dell’assassino. Dicono che i commerci stiano iniziando a risentire gli influssi nefasti di questa faccenda. La popolazione è spaventata e anche i mercanti campani, che prima qui erano di casa, stanno iniziando a evitare la zona.»
«Un affare rognoso, Trebonio. Mi domando solo se Afro conosca la natura del tuo vero lavoro.»
«Non preoccuparti», assicurò Macrino. «Il segreto del G-4 non corre pericoli. Domiziano tiene al suo gruppo di delatori e infiltrati sopra ogni cosa, specialmente negli ultimi mesi. Qui tu e io siamo solo due inviati imperiali con il compito di indagare sugli omicidi e condurre l’assassino nelle mani di Norbano.» In poco tempo il princeps peregrinorum e il liberto si ritrovarono in prossimità del Foro. Un vociare insistente proveniva da quello che poteva essere considerato il cuore di Liternum, la fucina di tutte le attività produttive della colonia. Il caldo iniziava a scemare e un fresco venticello serale avanzava dalle campagne a settentrione, rinfrancando lo spirito e i pensieri dei due uomini. Assicurarono i loro purosangue alla lunga traversa di legno situata all’esterno del Foro e, con o lento, iniziarono ad attraversare il vasto slargo pavimentato in tufo, dirigendosi verso un voluminoso edificio che dominava il fondo della piazza.
2
Roma, il giorno anteriore alle none di settembre.
Nella Domus Augustana.
Pochi erano i momenti di piacere che era abituato a concedersi all’interno delle sue assurde giornate. Uno fra questi era eggiare sotto il lungo portico che circondava il maestoso peristilio della domus. Solitamente i raggi solari di metà mattinata si abbattevano potenti sulla lunga fila di colonne delimitanti lo spettacolare propileo. Arrivati all’ora sesta, gli intensi bagliori estivi sembravano dare vita al marmo numidico di capitelli e pilastri. Allora il giallo carico diventava il colore predominante di quello splendido giardino colonnato ed era davvero una delizia per lo spirito poter godere a piene mani della serenità e della pace che quel mirabile ambiente riusciva a trasmettere. Al centro del sontuoso vivaio Domiziano aveva fatto costruire una graziosa fontana a pianta ottagonale, al cui interno una serie di muretti e siepi realizzava una particolare articolazione a labirinto. L’acqua scrosciava continua dalle bocche di due ninfe marmoree, situate ai piedi dell’esatta copia della statua di Apollo presente nel vicino tempio del Palatino. Di tanto in tanto sedeva a una delle panche di alabastro all’ombra di qualche albero e dedicava un paio d’ore alle sue amate attività letterarie. Una volta diventato imperatore era stato costretto ad anteporre i doveri dello Stato ai piaceri privati della lettura e della scrittura, i suoi più grandi amori. Poi, con il ar del tempo, era tornato a concedere qualche ora al giorno allo sviluppo della sua vena poetica. Con grosso rammarico, i risultati non erano certamente paragonabili a quelli raggiunti durante il periodo giovanile. Troppe ansie, troppe inquietudini minavano oramai da anni la vera essenza del suo animo. L’ombra della congiura era sempre dietro l’angolo. Ovunque posasse lo sguardo, l’imperatore scorgeva complotti e cospirazioni. L’immagine di un pugnale conficcato a tradimento nella sua schiena s’insinuava costantemente nella coltre di pensieri, arrivando fin nei meandri più recessi della sua mente. L’idea era
diventata viva ossessione e quest’ultima si era tramutata in incubo: un paranoico bisogno di protezione da un pericolo continuo e oscuro. Infinite forme di tradimento si materializzavano ovunque lui cercasse riparo. A quel punto un rossore diffuso compariva sul viso dai lineamenti aggraziati, la voce bassa diveniva addirittura roca e l’uomo, da preda inerme, si trasformava in empio cacciatore d’ombre. Cadevano teste e sparivano beni. La rabbia sbolliva, i dubbi e le angosce scemavano di colpo. Ma proprio quando la follia sembrava essersi placata, quell’asfissiante senso d’inquietudine si ripresentava gagliardo, pronto a tormentargli nuovamente i già labili pensieri. Quindi il lugubre circolo vizioso era pronto a ripartire con foga. Mentre era assorto nella lettura dei suoi versi, Domiziano percepì un rumore di i che attraversavano svelti la grande sala quadrangolare del triclinio. Quest’ultima si apriva alle spalle del giardino, verso il lato meridionale dell’imponente palazzo. Durante i numerosi banchetti disposti dall’imperatore, i fortunati ospiti potevano ammirare, attraverso due lunghi corridoi finestrati, la magnificenza di una coppia di fontane ovali che occupavano simmetricamente i due vani rettangolari realizzati ai lati della sontuosa sala da pranzo. D’istinto gli occhi di Domiziano puntarono verso nord-est, cercando per un istante l’ingresso del Lararium, l’edificio che ospitava un manipolo di pretoriani addetti alla sua guardia. Situato accanto alla grande mole dell’Aula Regia.
La sagoma dell’uomo che avanzava verso il peristilio divenne lentamente familiare e gli occhi miopi del divino Augusto iniziarono a distinguerne i contorni, a mano a mano che la figura si avvicinava. Il busto eretto, il torace ampio, quell’impercettibile andatura claudicante, dovuta a una vecchia caduta da cavallo, e, soprattutto, l’immancabile capsa stretta sotto il braccio sinistro. Appena fu dinanzi all’imperatore, il procurator ab epistulis et patrimonio accennò un inchino e attese la concessione del diritto di parola. «Stai diventando una seccatura, Ottavio», si limitò a dire Domiziano, riportando la sua attenzione al papiro che aveva tra le mani. «Quali imminenti sciagure ti hanno costretto a cercarmi questa volta? Credevo di sfuggirti, data l’ora.» Il segretario accennò un sorriso di circostanza, poi con tono sottomesso proferì poche parole accorte: «Divino Augusto, un tribuno della legione Prima Minervia è appena arrivato a palazzo. Si è raccomandato di farti pervenire questo.»
Ottavio Titinio Capitone porse all’imperatore la capsa che pochi istanti prima abbracciava con premura. Poi aggiunse: «A giudicare dalla fretta che aveva di ripartire e dall’espressione preoccupata del suo viso, ho pensato fosse saggio portarti questo documento il prima possibile.»
Detto questo tacque, mentre gli occhi si fiondarono a scrutare il volto dell’imperatore.
Rotto di malavoglia il sigillo, Domiziano diede una rapida occhiata al contenuto del papiro. A metà lettura accennò un greve sospiro, poi, quando ebbe concluso, porse nuovamente il contenitore al suo segretario. «Lo sapevo che non c’era da fidarsi di quella infida carogna di Decebalo. Sta riorganizzando il suo esercito, ingrossandone le file, e lo sta facendo proprio ora che Traiano è impegnato a saltare da una parte all’altra lungo il confine settentrionale dell’impero.» «Appena Traiano avrà sconfitto i Marcomanni», commentò Titinio Capitone, «anche i Quadi e gli Iazigi cadranno sotto i colpi delle nostre legioni. Sarà allora che il divino Cesare potrà risolvere definitivamente la questione dacica.» «Speriamo di averne il tempo», concluse pensieroso l’imperatore. «Se quel bastardo di Decebalo dovesse attaccare all’improvviso, da lupi ci trasformeremmo in docili agnellini. Poche legioni e troppi nemici, caro Ottavio.» A un cenno della destra di Domiziano, il procurator ab epistulis si affrettò a lasciare la tranquillità del peristilio e si diresse spedito in direzione della biblioteca latina. Quando fu nuovamente solo, l’imperatore provò a ritornare per un momento alla stesura dei suoi componimenti mattutini: tutto inutile… La mente era oramai altrove, totalmente rapita da infausti pensieri di guerra. Lo sguardo perso oltre la magnifica fontana a pianta ottagonale, l’Augusto restò ad ammirare i tenui bagliori solari che a fatica si facevano strada nel groviglio di arbusti e di piante dalla folta chioma verde. A un tratto si alzò dal pancone e ritornò a eggiare lentamente tra le colonne gialline che delimitavano il
portico del peristilio.
Liternum, il giorno anteriore alle none di settembre.
Nei pressi del Foro.
Cercare il nobile Marco Stazio Afro nella ressa di volti che a quell’ora affollavano il Foro era apparsa da subito un’idea poco saggia. Probabilmente era già rientrato tra le mura della sua elegante domus, situata di sicuro nella parte settentrionale della cittadina. Attraversando velocemente la colonia, Labieno e Trebonio avevano avuto modo di osservare le differenti modalità costruttive dei vari nuclei abitativi della città. La parte alta di Liternum si ergeva a occidente della Porta Publia e rappresentava la zona residenziale. I robusti muri perimetrali degli edifici, gli spioventi di tegole rosse delimitanti i compluvia, e i portoni riccamente rifiniti lasciavano immaginare l’opulenza di chi viveva all’interno di quelle tranquille abitazioni. Queste affacciavano su ambo i lati della strada principale che, proprio da quei dintorni, iniziava la sua discesa verso la parte orientale della città. Un vasto edificio termale e l’anfiteatro erano stati edificati a poca distanza dalle domus patrizie, quasi a voler sottolineare, con la loro presenza, la differente condizione sociale degli abitanti di quella parte di Liternum. Tutt’altra faccenda era invece camminare per le stradine anguste e polverose che si snodavano nella zona bassa della città. Il loro tracciato si snodava tra orridi casermoni a più livelli, realizzati con materiali scadenti, sempre minacciati da pericoli di crolli e incendi. Che fosse estate o inverno, giorno o notte, una costante penombra avvolgeva quei piccoli sentieri dissestati, spettatori silenti di un’esistenza mediocre e anonima, fatta di duro lavoro e di misere speranze. Avanzando verso il fondo dell’ampia piazza, il liberto fu colpito dalla quantità di statue che ritraevano la figura del fondatore della città, Publio Cornelio Scipione. Il portico, che circondava su tre lati lo slargo pavimentato tramite una lunga fila di colonne in laterizio, era completamente affrescato con dipinti che commemoravano le gesta compiute dal valoroso generale romano, vincitore dei fieri discendenti di Didone. I colori sembravano prendere vita in un tripudio di
differenti tonalità ed era davvero affascinante ammirare quel sorprendente esempio di perizia decorativa. A metà del Foro, una lunga gradinata conduceva verso l’ingresso dell’antico Capitolium, interamente realizzato con grossi blocchi di tufo giallo. L’accesso al luogo sacro era sorvegliato dalla presenza di tre alte colonne dal fusto composito, in parte scanalato e in parte liscio, sormontate da piccoli capitelli corinzi. «Si può sapere dove hai intenzione di cercarlo?», chiese spazientito Labieno. «Non è meglio domandare a qualcuno dove abita, invece di girare a vuoto?» Trebonio evitò di rispondere, limitandosi a zittire l’amico con un rapido cenno della destra. Il suo sguardo puntava verso l’edificio che svettava imponente alla sinistra del tempio. Avanzando il o, sussurrò tra sé: «Se non è a casa, allora è probabile che sia ancora all’interno della basilica.» Il liberto sospirò con aria rassegnata. La piazza, fino a quel momento affollata, andava svuotandosi lentamente e anche gli artigiani iniziavano a serrare l’ingresso delle loro botteghe con grandi ante di legno. Il princeps peregrinorum oltreò le quattro colonne antistanti la soglia della costruzione. Un gruppetto di anziani cittadini incrociò la figura del soldato, dirigendosi verso il centro del Foro. Alcuni avevano un’espressione corrucciata, altri sembravano compiaciuti e pienamente appagati da chissà quale decisione politica favorevole. Gettando una rapida occhiata al di là dell’ingresso, Trebonio notò che solo pochi altri individui si intrattenevano a chiacchierare all’interno della basilica. Due di questi sostavano in piedi in prossimità di una piccola tribuna situata verso il fondo della navata. Voltandosi indietro per un istante, vide la sagoma familiare di Labieno che attendeva oltre la fila di colonne che precedeva l’ingresso. Con un gesto della mano intimò al liberto di entrare ma questi, per tutta risposta, scosse vistosamente il capo, rivolgendo le spalle al suo ex padrone. Un grugnito sommesso risalì la gola di Trebonio. A quel punto non indugiò oltre e si avvicinò ai due uomini che parlavano sommessamente nei pressi del piccolo podio. «Salute a voi, cittadini», esordì Macrino, con voce impostata. I due si guardarono interdetti, non conoscendo l’identità di chi aveva interrotto le loro elucubrazioni. Dopo averlo scrutato a lungo, il più giovane della coppia ricambiò il saluto mentre l’altro, poggiato a una delle semicolonne sporgenti
dalle pareti della basilica, continuava a lanciargli occhiate interrogative. «Cosa possiamo fare per te, forestiero?», continuò il togato con tono deciso e sbrigativo. «Sto cercando il duumviro Marco Stazio Afro», rispose secco, ma senza guardarlo negli occhi. Ricambiava invece con ardore gli sguardi silenziosi e affilati del vecchio dal ventre prominente e dal viso paffuto e rubizzo. «Cosa desideri da lui?», chiese ancora il più giovane. «Devo parlargli», replicò risoluto, continuando a fissare il vecchio. «Sono io l’uomo che cerchi, forestiero», commentò alla fine questi e, nello stesso istante, abbandonò la sporgenza alla quale era poggiato. «Cosa devi dirmi?» Trebonio accennò un sorriso di soddisfazione, poi estrasse il rotolo che portava sotto la veste e lo porse al suo interlocutore. «Il divino Augusto ti porge i suoi più calorosi saluti, nobile Afro.» A quelle parole, il panciuto duumviro si affrettò a leggere il contenuto del papiro, facendo scorrere con bramosia gli occhi lungo le fitte righe del messaggio. A metà lettura, il viso del magistrato s’illuminò di colpo e una smorfia compiaciuta parve accenderne i lineamenti, mettendolo di buon umore. Quand’ebbe finito, richiuse lentamente il documento ed esclamò con aria sollevata: «Salute a te, Gaio Trebonio Macrino. Attendevo con impazienza il tuo arrivo.» Poi guardò l’amico e gli sorrise come a rassicurarlo.
«È oramai quasi ora di cena e tu sarai di certo affamato e stanco per il viaggio. Spero vorrai approfittare della mia ospitalità per l’intera durata della tua permanenza a Liternum.»
Trebonio rispose con un debole cenno della testa. I tre abbandonarono velocemente la basilica, raccolsero Labieno sul limitare e raggiunsero la via
principale che si apriva alle spalle del Foro. Il giovane che era con Afro, dopo averlo salutato ossequiosamente, abbandonò la lettiga del magistrato e si diresse a piedi lungo una ripida stradina che si apriva a sinistra del cardo maximus. La lettiga riprese il suo cammino verso la domus di Afro, sostenuta a fatica dagli otto schiavi addetti al suo trasporto. Labieno cavalcava assorto nei suoi pensieri, affiancando i quattro servi posti lungo il lato destro. Quando incrociò lo sguardo di uno di loro, una profonda tristezza assalì il suo animo. Sospirò profondamente, ricordando il tempo della sua giovinezza. Negli occhi di quegli uomini, la fatica della salita si fondeva alla mesta rassegnazione per la propria misera condizione.
La luce lattiginosa della luna faticava a oltreare la spessa foschia che precedeva l’alba. Rischiarata a malapena dal chiarore diffuso dalla lucerna di un’edicoletta votiva, la misteriosa figura si diresse con o svelto verso l’incrocio tra il vicus Calvus e il clivus Caesaris. Per un attimo esitò, gettando una rapida occhiata nei dintorni. Solo il tranquillo gorgoglio di una polla disturbava il silenzio surreale dell’ora notturna. Davanti ai suoi occhi, la lunga salita polverosa conduceva nella parte orientale della città mentre a sinistra il piccolo vicoletto lastricato terminava il suo percorso collegandosi a un angiporto, la stretta galleria che si snodava sotto un edificio e metteva in comunicazione quella strada con un dedalo di viuzze che si rincorrevano fino alla zona del quartiere popolare.
Avvolta nella sua paenula vermiglia e con il capo celato da un cappuccio, la sagoma imboccò il vicus Calvus e immediatamente fu inghiottita dall’oscurità. Attraversando la soglia dell’angiporto, un odore di ceppi accesi investì improvvisamente le sue narici. Il panettiere, nella bottega posta sul lato destro della sudicia galleria, era già a lavoro per preparare prima del sorgere del sole le sue specialità. Liternum non dormiva mai. L’incappucciato aumentò la cadenza dei i. Il tempo a disposizione per realizzare la sua opera scorreva inesorabile: ancora un paio di ore, non di più, poi le attività mattutine della città avrebbero sostituito l’oscurità e il silenzio che avvolgevano in quel momento la colonia. Tuttavia non avrebbe potuto muoversi prima: la zona verso cui era diretto non gli aveva mai consentito di agire con
calma. Ogni volta il rituale andava portato a termine con rapidità e precisione. Anche quest’aspetto, però, non lo aveva mai preoccupato, poiché tutto gli riusciva orribilmente naturale, ogni movimento fluido e spietato. A volte aveva sbalordito anche se stesso per l’innata freddezza del suo modo di agire. Pensandoci, la destra scivolò inconsciamente sotto la paenula. Le sue dita accarezzarono dolcemente il freddo metallo della lama, poi deviarono di poco il loro percorso: la corda era ben assicurata sul fianco, pronta all’uso. Un’ultima, tortuosa viuzza lo divideva dal vicus Gaudii.
Stretto tra due insulae fatiscenti, quella sorta di oscuro rivolo pavimentato rappresentava l’estremo ostacolo da superare per giungere finalmente nel vicolo della Gioia. Tutto era iniziato in quel luogo. Lì aveva gettato la prospera Liternum dapprima nella rete dell’inquietudine, poi, calcando la mano, era riuscito a farla scivolare in quella della paura.
Non era abbastanza: ancora poche ore e la città sarebbe caduta in ginocchio, tremante per il terrore.
A un tratto l’arcana figura sentì un lento scalpiccio alle sue spalle.
Il rumore diveniva sempre più nitido e vicino.
L’incappucciato restò con il fiato sospeso, la mano pronta sul manico del pugnale. Si acquattò nel piccolo interstizio offerto dall’ingresso sbarrato di una bottega e, immobile, i muscoli turgidi per la tensione, attese che l’ombra alle spalle arrivasse davanti alla sua posizione.
Un unico colpo preciso. La gola traata da parte a parte. Non un sibilo, non un accenno di parola. Il malcapitato sarebbe stramazzato al suolo all’istante, senza emettere un fiato.
Mentre disegnava con la mente la traiettoria da imprimere al suo avambraccio, notò che il calpestio nervoso si era inspiegabilmente arrestato a circa cinquanta i di distanza. La luce lunare proiettò in quell’istante un tenue barlume sul fondo della stradina: l’inseguitore era stretto in un angolo, con il braccio poggiato al logoro muro dell’insula.
Tossì due volte, poi un rigagnolo acre iniziò a prendere forma, partendo dalla base dei suoi sandali consunti. Mentre bestemmiava sommessamente per essersi pisciato sui calzari, l’ubriaco fu attaccato da tremendi conati di vomito. Nello stesso istante svenne, battendo il capo violentemente sull’acciottolato. A quel punto l’incappucciato riprese a camminare, imboccando finalmente il vicus Gaudii e, a metà strada, riconobbe nella penombra la porta gialla del lupanare. Per il tempo di un respiro, un sorriso furtivo attraversò le sue labbra pallide e sottili. Con il dorso della mano si asciugò la fronte, madida di sudore. La calura notturna presagiva l’avvento di un’altra rovente mattinata di fine estate.
Si avvicinò a uno dei due ingressi che conducevano all’interno dell’edificio: entrambe le porte erano state sbarrate. Una voce femminile giunse sommessa alle sue orecchie, attraversando le crepe del malridotto battente di legno. Non si sarebbe arreso al primo tentativo.
A ridosso di una vasta zona d’ombra, non contemplata dal soffocato chiarore della luna, l’uomo perlustrò con lo sguardo la balconata pensile che affacciava in
strada dal piano superiore. Con strabiliante rapidità raggiunse la scala in muratura che conduceva al livello sopraelevato. La stretta gradinata era situata lungo la parete laterale della costruzione, perennemente avvolta nell’oscurità a causa della sua vicinanza a un fetido mostro di cinque piani. A quel punto l’incappucciato fu costretto a muoversi con lentezza. Con la sinistra ben ancorata al parapetto di pietra, l’uomo cercava di scorgere invano l’immagine dei calcei che affrontavano dei gradini invisibili. Dal fondo del balcone i barlumi oramai morenti di una lanterna faticavano a giungere fin sul ballatoio della scalinata. Una volta portata a termine quella pericolosa risalita, il tipo dalla paenula vermiglia scivolò furtivo verso l’estremità opposta dell’aggetto. Una tenda stinta e logora ondeggiava impercettibilmente, incoraggiata da un alito di vento caldo. Dal piccolo spiraglio fra il telo e l’accesso al cubicolo, il misterioso individuo intravide la figura di una donna, sdraiata sul letto in muratura ricavato nella parete a sinistra della soglia. La lupa, rannicchiata sul fianco destro, ronfava pesantemente, mostrando la sua pingue figura seminuda. Il nero corvino dei suoi riccioli arruffati ricopriva gran parte del collo, lasciando soltanto un sottile lembo di pelle scoperta sopra la veste trasparente. Un chiarore via via più intenso attraversava dall’alto la grata posta sulla parete di fondo della cella, raggiungendo il triste giaciglio della povera sventurata. A un o dalla branda una vistosa parrucca arancione faceva bella mostra di sé su di un cassetto di infima fattura. Un istante e la corda iniziò inesorabile il suo mortale lavoro. I muscoli tesi allo spasmo, l’uomo controllò i tentativi disperati della prostituta di liberarsi dalla morsa micidiale. Nell’estremo tentativo di salvare la propria vita, la donna cadde di peso sul pavimento impolverato della stanza dando origine a un tonfo sordo, un colpo nitido e profondo.
L’incappucciato trasalì immediatamente.
Dal piano inferiore risuonò un rumore di i, poi un mormorio insistente. I suoi piani erano andati in fumo. L’opera non poteva essere portata a termine.
Già la voce roca del lenone avanzava attraverso il corridoio centrale del livello
sottostante. Pochi istanti e avrebbe intrapreso la piccola rampa di gradini che conduceva alle celle. Con una rapidità fulminea, l’incappucciato affondò due volte il suo pugnale nel torace della donna, poi le cavò entrambi gli occhi. Il sangue impregnò veloce la sottile veste della vittima, mentre piccoli rivoli cremisi rigarono le gote paffute di quel viso sfigurato dall’orrore di una morte tanto violenta quanto improvvisa. Per un istante l’assassino fu come rapito dalla bellezza del pallido incarnato della sventurata. A quel punto ripose il suo macabro cimelio di vittoria in una saccoccia che pendeva dalla fusciacca nera della tunica, stretta attorno alla vita, al di sotto del mantello. Poi si gettò a perdifiato fuori dal cubicolo, raggiungendo in un baleno la balaustrata del primitivo loggiato di legno. Legò saldamente la corda al parapetto e si calò svelto in strada, proprio nel momento in cui il proprietario del lupanare cercava di forzare la porta della cella. Con i sensi ancora in subbuglio per la tensione, l’omicida cominciò a correre per una tortuosa stradina in salita, protetto dal favore degli ultimi scampoli di oscurità. Arrivato in corrispondenza della fine del clivus Caesaris, l’aggressore arrestò per un istante la sua fuga. Mentre si guardava intorno con circospezione tirò il fiato per qualche momento, permettendo al cuore di riprendere il suo battito regolare. Quindi riprese a camminare, discendendo placidamente la zona dalla quale era partito per portare a termine la sua raccapricciante fatica.
Intanto, dai dintorni del lupanare, grida e schiamazzi attirarono l’attenzione degli abitanti delle insule vicine e la tranquillità notturna si dissolse velocemente prima dell’arrivo dell’alba.
Aurelio Pulcro attese qualche istante prima di ribattere con forza il pugno destro sul legno umidiccio dell’enorme portone a doppio battente. Le borchie di bronzo sembrarono vibrare impercettibilmente sotto il vigore dei suoi colpi decisi. Mentre attendeva rassegnato l’arrivo del portinaio, il capo dei vigiles di Liternum guardò uno a uno i quattro sottoposti che lo circondavano in quel momento: il più anziano non arrivava a ventiquattro anni. Tutto ciò che riusciva a leggere nei loro occhi era un crescente nervosismo, misto a una tacita inquietudine. Inconsciamente Pulcro alzò gli occhi al cielo, quasi a voler ricercare la benedizione degli dèi. Chi poteva biasimare l’espressione dei suoi giovani ausiliari? Erano tutti nativi della colonia, con mogli e figli. Fino a poco
tempo prima la città aveva condotto un’esistenza tranquilla e prospera. Certo anche a Liternum, come in tutte le altre colonie dell’impero, non mancavano storie di corruzione e di connivenza, di frodi e di omicidi. Tutti effetti collaterali di un benessere economico repentino e disordinato, che si era divertito a ottenebrare la mente di liberti e commercianti, di politici e appaltatori. Tuttavia la vita era trascorsa pacifica per un bel pezzo nella terra dei veterani di Zama. E infatti, per ritrovare nella storia locale un episodio di sangue che si avvicinasse vagamente a quelli che ultimamente stavano scaraventando Liternum nell’orrore, bisognava fare un salto nel ato di circa quindici anni. Tutto era iniziato nell’anno in cui Domiziano era divenuto Augusto. Un giovane rampollo di una nota famiglia locale di origine etrusca, i Terrifoni, era stato accusato di aver ucciso in modo raccapricciante un ricco liberto campano, commerciante di vino, con la complicità di un proprio schiavo. Lo scapestrato aveva contratto un forte debito nei confronti del vecchio ex servitore e la questione era finita in un’aula giudiziaria. Inizialmente il tutto era apparso come il solito processo tra lo spocchioso e tracotante omuncolo dell’aristocrazia di Liternum, gonfio di alterigia verso il prossimo, e il freddo, spietato rappresentante della nuova classe sociale in ascesa: i liberti.
A sorpresa il processo si era risolto in favore della parte lesa e a nulla era servito l’impegno profuso dall’avvocato nello sciorinare senza sosta l’elenco di tutti gli illustri e gloriosi antenati del suo assistito, cercando di scampare invano alle richieste di risarcimento avanzate dall’anziano e facoltoso uomo d’affari. Ripensando a quel processo, una sorta di flebile sorriso iniziò a prendere vita agli angoli della carnosa bocca di Pulcro: ironia della sorte, proprio in quel momento si trovava davanti all’ingresso della domus appartenente al giudice che aveva presieduto quello sfortunato contenzioso. Chiedendo un ulteriore sforzo alla sua mente, il comandante dei vigiles cercò di ricordare quale fosse stata l’evoluzione di quella triste vicenda. A un tratto una macabra immagine gli sovvenne alla memoria: il cadavere del ricco liberto rinvenuto, qualche mese dopo, nella fitta boscaglia che si apriva poco distante dalla zona dell’anfiteatro cittadino, con la bocca riempita a forza da una delle sue mani mozzate. La pesante sagoma del mercante giaceva, faccia al cielo, in un’estesa pozza di sangue rappreso. La gola era stata recisa da parte a parte e le viscere gli erano state accomodate con cura intorno a quello che restava della sua testa. Evidentemente gli sciacalli avevano completato lo scempio di quegli orribili
resti. Tutti avevano collegato il ritrovamento del cadavere con la storia del contenzioso fra il vecchio liberto e il giovane altolocato e, a quel punto, una folla di plebei inferociti aveva occupato il Foro. Armati di bastoni, pali e forconi, minacciavano rappresaglie se giustizia non fosse stata fatta. Erano stanchi dei continui soprusi da parte dei nobili o sedicenti tali, di processi farsa che li vedevano sempre sconfitti: i plebei chiedevano una punizione esemplare per il presunto assassino del commerciante campano. Preoccupato dal pericoloso evolversi della situazione, l’alto magistrato che aveva giudicato la controversia originale aveva sollecitato la cattura immediata del nobile giovane squattrinato e cacciato dalla città gli altri membri della sua famiglia. Proprio ad Aurelio Pulcro, che all’epoca era solo un giovane vigil con pochi anni di servizio, era toccato il compito di condurre l’accusato nelle fetide prigioni dell’anfiteatro, in attesa della probabile condanna ad bestias. Il processo che ne era seguito era stato rapido e senza sorprese. Per un istante Pulcro ebbe la sensazione di riascoltare le grida strazianti dello sventurato, costretto a una fine misera e terribile sotto gli occhi della città intera. A niente erano valse le sue dichiarazioni di innocenza e l’alibi fornito dai parenti.
Finalmente il battente sinistro dell’elegante dimora di Marco Stazio Afro iniziò a ruotare con lentezza intorno al robusto cardine di ferro. Un cigolio acuto introdusse verso l’esterno della casa il volto mezzo assonnato del portinaio, un trace dalla mole imponente, vestito con una livrea bianca e dorata, comune a tutta la familia del duumviro di Liternum. Quando lo schiavo riconobbe la figura del capo dei vigiles accompagnato dai suoi capì immediatamente il motivo della loro presenza. Negli ultimi dieci giorni Pulcro era diventato uno dei frequentatori più assidui della casa e di certo le sue non erano state visite di cortesia. Lanciandogli un’occhiata svogliata, il portinaio fece loro segno di entrare e, senza voltarsi ulteriormente indietro, si diresse con o lento verso uno dei cubicoli che si aprivano oltre il vasto impluvium dell’atrio, una bellissima vasca ornata di statue ed erme. Aurelio e i suoi si arrestarono poco oltre l’ingresso, attendendo che la loro presenza fosse resa nota al padrone di casa. Arrivato sulla soglia della stanza da letto del dominus, il trace notò che Arminio, il capo dei famigli, aveva già abbandonato il pancone sul quale era solito trascorrere la notte. Un russare irregolare e profondo proveniva dall’interno del cubicolo, sgusciando agevolmente oltre la sottile porta della camera.
A quel punto il servo picchiettò le grosse nocche della destra sul divisorio in legno.
Mezzo intontito per il brusco risveglio e ancora avvolto nelle candide lenzuola di lino, Marco Stazio Afro si affacciò alla soglia della stanza, sbadigliando rumorosamente.
«Cosa vuoi, Massavone? Non è ancora l’ora prima e io…» Le parole del duumviro furono interrotte dalla risposta sbrigativa del portinaio. «Perdonami, domine. Aurelio Pulcro attende all’ingresso e non è da solo.» «Per tutti gli dèi!», commentò il magistrato, recuperando in un momento l’espressione attenta di sempre. «Manda qualcuno a svegliare velocemente i due inviati imperiali. Intanto conduci Pulcro nel tablinum.» Il trace annuì rispettoso e fece per avviarsi. Nello stesso istante Afro aggiunse: «Trovami quello scansafatiche di Esichio e digli di precipitarsi qui con i miei vestiti. Ora vai.» I primi, timidi raggi solari cominciarono a penetrare dalla grande apertura del compluvium, riflettendosi nel velo d’acqua contenuto nella vasca di raccolta dell’atrio. Il giallo dei mirabili affreschi che addobbavano le pareti della sala iniziò lentamente a squarciare la penombra nella quale era avvolto fino a quel momento il vasto ambiente. Anche l’azzurro del cielo, dipinto nelle scene raffiguranti un gruppo di amazzoni a caccia, sembrava accendersi pian piano, trascinando con sé particolari di un paesaggio realizzato con mirabile maestria pittorica. I rumori provenienti dalla strada lasciavano intendere l’avvento delle prime attività mattutine. Gli abitanti di Liternum si apprestavano a vivere una nuova, angosciosa giornata d’inizio settembre.
3
Roma, none di settembre.
All’interno dell’Anfiteatro Flavio.
Il retiarius era a terra e ansimava vistosamente. Il busto eretto con la fatica degli avambracci, puntellati nella polvere dell’arena, il gladiatore guardava con aria inespressiva il proprio vincitore. Massimino gli si avvicinò con o incerto, il gladio ben stretto nella destra vigorosa. La ferita al polpaccio destro bruciava in modo tremendo. Il colpo, ben assestato, aveva provocato una copiosa emorragia, tuttavia era riuscito a restare in piedi.
L’arena era la sua casa, la lotta la sua ragione di vita. Con uno sforzo senza eguali, aveva cercato di ignorare il dolore e così il combattimento era proseguito con più ardore e ferocia di prima. All’interno della galea, pesante come un macigno, la testa sembrava scoppiare per il calore torrido di quel giorno. Dissimulando la fatica, Massimino fu ben presto sopra il suo avversario. La sua mole gigantesca proiettò immediatamente una chiazza d’ombra sul volto cereo di Ariel il retiarius. D’un tratto il vincitore ruotò il busto in direzione del magnifico podio a forma di esse, realizzato in corrispondenza dell’estremità meridionale dell’asse minore dell’anfiteatro. Attraverso le piccole grate metalliche, poste a protezione degli occhi, il secutor cercò di distinguere la figura dell’imperatore, seduto su un maestoso scranno marmoreo situato giusto al centro della vasta tribuna. Appena Domiziano fece per alzarsi in piedi, l’intera ellisse, che fino a quel momento si era profusa in boati assordanti e assetati di morte, piombò in un silenzio surreale.
L’Augusto discese i due scalini che lo separavano dalla balaustrata bronzea, ricoperta di eleganti drappi vermigli e dorati. Nello stesso istante in cui la sua schiena si staccò dalla spalliera del seggio imperiale, due pretoriani armati di gladio e avvolti nei mantelli si affiancarono alla sua figura, scortandolo fino al limite esterno del podio. Intanto gli altri gladiatori continuavano il loro sventurato gioco mortale: abbandonare anche per un solo istante la profonda concentrazione dello scontro, la tensione muscolare al limite dello spasmo, poteva risultare fatale. Raggiunto l’alto parapetto, Domiziano scrutò a fondo l’intero sviluppo delle gradinate, gremite di spettatori in trepidante attesa. La sua testa descrisse con lentezza un ampio segmento da sinistra verso destra.
L’imperatore attese, cercando di carpire dalla moltitudine di volti senza nome quale fosse il volere recondito del popolo di Roma. A quel punto anche il retiarius abbandonò la maschera metallica del suo vincitore e diresse i suoi occhi verso l’unico ago della bilancia in grado di decidere fra la sua vita e la morte: l’editor dei giochi, il divino Augusto.
«Chi è il secutor?», sussurrò Domiziano nell’orecchio del pretoriano che lo affiancava sulla destra. «Massimino, domine», rispose il massiccio soldato, senza distogliere lo sguardo dai due gladiatori. L’imperatore si sporse ulteriormente dalla balaustrata metallica e inspirò profondamente. Poi, con voce impostata, emise il suo verdetto: «Iugula.» A quelle parole, un boato assordante assalì l’intero anfiteatro. Cinquantamila voci si unirono in un unico, terrificante grido di esultanza. L’intera struttura ospitante i giochi sembrò dover cadere su se stessa in quel preciso momento, mentre centomila gambe battevano all’unisono sulla superficie marmorea delle numerose gradinate dell’anfiteatro. Ariel chiuse gli occhi per un istante, poi sospirò a fondo. Guardò per l’ultima volta il tridente, lontano, dietro le spalle di Massimino, e la spessa rete metallica, compagna inseparabile di decine di scontri all’ultimo sangue nella polvere dell’arena. I calorosi raggi solari investivano la sua schiena, ampia e muscolosa,
mentre piccole gocce di sudore scendevano lentamente dalle tempie, impregnando le gote abbronzate. Con sguardo imibile, il morituro offrì la gola irsuta al suo carnefice e attese in silenzio il momento dell’estremo saluto alla vita. Massimino era stanco, sfibrato per il dolore al polpaccio che sembrava avergli paralizzato i movimenti. Mentre si piegava per compiere il macabro gesto cui era stato destinato, una fitta tremenda risalì implacabile la sua gamba, terminando la propria corsa nella parte superiore della coscia. Per un momento vacillò, dando l’impressione di dover cadere rovinosamente sul corpo immobile del suo avversario. Stringendo i denti riuscì a dominare la debolezza, piegandosi in avanti verso il capo del retiarius. Con un movimento tanto preciso quanto fulmineo, il suo gladio squarciò per intero la gola di Ariel. Un fiotto vermiglio investì il petto del secutor, imbrattando parte della manica loricata. Il gladiatore avvertì nitido il tepore del sangue che colpiva le sue membra, irrigidite dalla fatica. Chiese un ultimo, estremo sforzo al suo fisico provato e, caricando tutto il peso sulla gamba illesa, recuperò lentamente la posizione eretta. La folla acclamava con fischi e urla di gioia il suo invincibile beniamino, lanciando nell’arena fiori e monete per dimostrare tutto il suo favore e il suo entusiasmo. Poggiandosi col braccio destro alla sagoma di un addetto ai giochi precipitatosi ad aiutarlo, Massimino alzò la mano libera al cielo, in segno di saluto e ringraziamento, e incominciò ad abbandonare lentamente l’arena, dirigendosi verso l’arco della porta principale. Da lì si accommiatavano i vincitori. Intanto due schiavi, travestiti con delle maschere raffiguranti Caronte, arpionavano con robusti ganci il corpo esanime del retiarius, riverso in un lago cremisi, trascinandolo tramite delle catene oltre la porta Libitinaria.
Roma, none di settembre.
Nella Domus Augustana.
«Non lo deluderemo», sogghignò truce Partenio. Nei suoi occhi scintillava la luce sinistra del delirio. «Dovremmo rifletterci ancora un po’», commentò pensieroso Saturio. «È tutto così dannatamente rischioso. Se anche uno solo dei pretoriani venisse a
conoscenza del nostro piano, per noi sarebbe la fine.» «I fatti parlano chiaro!», l’ammonì irritato il mastro di camera dell’imperatore. «È una corsa contro il tempo, amico mio. O lui o noi. Le parole di Domizia Longina non danno speranze.» «L’abbiamo servito fedelmente per anni. Ci siamo fatti in quattro per soddisfare i suoi bizzarri capricci, sempre devoti e sottomessi. E lui invece…» Il decurione dei camerieri troncò all’istante il suo discorso. Attraverso l’ingresso dell’ampia cucina, totalmente avvolta da una strana penombra, il liberto riuscì a distinguere la sagoma di Clodiano, tribuno di una delle coorti pretorie. Questi avanzava con il solito o pesante, che andava amplificandosi a mano a mano che la sua figura si avvicinava alla soglia della sala, dalle pareti leggermente annerite a causa dei fumi di due grossi focolari. «Salute a voi, amici», esordì il nuovo arrivato. La sua calma contrastava visibilmente la preoccupazione dipinta sul volto di Saturio. «Cosa ci fai qui?», domandò teso Partenio. «Non avevi una certa questione da sbrigare dalle parti dell’Esquilino?» «Sono qui proprio per questo», rispose Clodiano, avvicinandosi al mastro di camera. Dal suo viso, contornato di boccoli dorati, traspariva una certa soddisfazione e il tono con il quale aveva proferito le sue parole era alquanto trionfante.
«Allora?», aggiunse Saturio, stanco di quel lungo tergiversare. «Perché tanta baldanza oggi?» «I tempi sembrano maturi e tutto procede secondo quanto stabilito, senza intoppi.» «Arriva al dunque, Clodiano», l’ammonì Partenio. Il tribuno gli lanciò un’occhiata greve, quasi a volerlo schiaffeggiare col pensiero. Dopo aver schioccato la lingua, Clodiano rivelò il motivo della sua inaspettata visita.
«Lo farà Stefano. Proprio nel giorno stabilito nella premonizione del povero Ascletarione.» La voce del biondo sembrava decisa, l’espressione del volto mostrava una sicurezza avulsa agli occhi dei suoi interlocutori. In ultimo si abbandonò a un commento sarcastico: «E che non si dica che quello scellerato non è stato accontentato fino all’ultimo momento della sua mostruosa esistenza.» Partenio si irrigidì improvvisamente. Scrutando per un istante la sua immagine distorta, riflessa nel velo d’acqua di una tinozza in rame, cercava di mettere ordine tra la confusione dei suoi pensieri.
«La scelta di Stefano è azzardata, assurda», disse. «Tra queste mura tutti sanno che è stato l’amministratore dei beni di Flavia Domitilla. E poi sbaglio, o proprio alla fine del mese dovrà affrontare un processo per appropriazione indebita? L’imperatore sicuramente…» «L’imperatore un corno!», tuonò Clodiano, con sguardo febbricitante d’ira. Saturio impallidì a quelle parole. Affrettandosi oltre l’uscio della cucina, si accertò che nessuno avesse potuto ascoltare l’imprecazione espressa dal loro compare. Lo stretto corridoio dalle pareti affrescate e dal soffitto a volta appariva un lungo braccio desolato. A quel punto il decurione dei camerieri recuperò la sua posizione dietro il vasto pancone in muratura. Strattonandolo con forza per un braccio, fece segno al tribuno di tacere. Poi, con tono sommesso, gli bisbigliò all’orecchio: «Sei impazzito, stupido sguattero da campo? Dillo che vuoi farci ammazzare! Se quello che hai detto arriva all’orecchio di Domiziano, diventeremo tutti carne per le bestie del Colosseo.» «Saturio ha ragione», commentò Partenio, andosi una mano sul testone rasato. «Dobbiamo essere prudenti, silenziosi. C’è in gioco la vita di tutti e non possiamo agire d’istinto.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Tornando alla scelta di Stefano, da chi è stata presa la decisione? Tra tutti, a me sembra quello meno adatto ad avvicinare l’Augusto.» Clodiano sospirò impercettibilmente. Quindi afferrò una brocca di vino da un ripiano situato alle spalle del pancone dietro al quale si trovavano. Versò il suo contenuto in una coppa di vetro finissimo e, alzando il calice, restò per un momento ad ammirarne le pareti, colorate dal denso nettare vermiglio. D’un tratto sentenziò con voce atona: «Nerva. È stato lui.»
Partenio e Saturio si guardarono sorpresi. Quest’ultimo cercò di capire il senso di quelle parole: «Cosa c’entra adesso il vecchio?» Il tribuno portò alle labbra l’elegante coppa che teneva nella destra. Ne assaporò con lentezza il contenuto, lasciando montare la curiosità nell’animo dei due liberti. Le loro facce mostravano stupore e imbarazzo a un tempo, eppure il nome di quell’anziano patrizio, tanto rispettato dal Senato quanto dal popolo, accese nella loro mente un barlume di fiducia. «È stato Marco Cocceio Nerva a proporre Stefano come esecutore», ripeté. «Domizia Longina e il resto dei senatori sono d’accordo. Se volete il mio parere, è stata la scelta più giusta.» «Non riesco a capire», osservò Partenio interdetto. «Tutti sanno che Domiziano mal sopporta la presenza di Stefano nella sua domus. Se solo venisse a sapere che è stato accusato di concussione…» «Questo non è un problema», tagliò corto il soldato. «Quando sarà il momento, Stefano saprà essere convincente e riuscirà di sicuro a farsi ricevere dall’imperatore. E poi, se qualcosa dovesse andare storto, la presenza di Stefano scagionerebbe tutti noi, salvandoci dalla pazzia sanguinaria di Augusto.» «In che modo?», domandò Saturio, vivamente interessato alla piega che stava prendendo il discorso. «Semplice, amici. Quando la nebbia si diraderà e i giochi saranno conclusi, la folla avrà il suo liberatore, un redivivo Bruto.» «Non vorrei essere nei suoi panni, allora», commentò con ironia Partenio. Clodiano accennò un flebile sorriso, poi continuò a esporre le sue ponderate valutazioni. «Nel caso invece tutto vada in fumo… Beh, Stefano è stato il procuratore di Domitilla, giusto? Era un fedele servitore del compianto Flavio Clemente e ognuno di noi ricorda bene la devozione che il liberto provava per il suo ex dominus. A quel punto non sarà difficile far are la manovra come un folle tentativo di vendetta personale.» Proprio in quel momento, dalla lunga anticamera che si apriva sul lato opposto
all’ingresso del corridoio, confinante con la cucina, una serie di voci divertite accompagnava il tipico rumore delle caligae, battenti sul marmo bianchissimo dei pavimenti. I pretoriani ritornavano ai loro alloggi nel Lararium, affamati e infervorati dalla giornata di violenza gratuita cui avevano assistito prestando servizio all’interno dell’arena. Il volto coperto da un pallore subitaneo, Saturio fece segno al tribuno di lasciarli soli, suggerendogli di imboccare velocemente lo stretto andito situato a poca distanza dalla loro posizione. «I pretoriani saranno qui a momenti», concluse Partenio con voce inquieta. «Ora vai, Clodiano, e attento a dove metti i piedi. Appena avremo notizie sicure da Liternum, troveremo il modo di metterti al corrente.» Clodiano non se lo fece ripetere due volte e scivolò furtivo oltre la soglia dell’esiguo corridoio decorato. I suoi i veloci echeggiarono per pochi istanti, coperti subito dopo dal frastuono metallico che accompagnava i movimenti del corpo di guardia di Domiziano. Partenio si avviò verso la zona che conduceva al triclinio, mentre Saturio tornò alle attività che aveva interrotto alla venuta del suo amico liberto.
Roma, il giorno dopo le none di settembre.
Nei Castra Pretoria.
Il tempo stava peggiorando rapidamente.
Il prefetto del pretorio Petronio Secondo guardò oltre la spessa lastra di vetro arcaico che delimitava il vano della finestra più vicina al suo scrittoio. Una lunga coltre di nuvoloni cinerei sostava minacciosa oltre la sommità del Viminale. Lontano, a oriente, il fragore dei primi tuoni lasciava presagire l’arrivo di un rabbioso fortunale di fine estate. Le voci confuse provenienti dalla via Ficulensis, che collegava Roma a Nomentum, permeava le mura della caserma, mischiandosi agli ordini concitati degli istruttori e all’incessante rumore
metallico prodotto dai soldati, impegnati nelle loro esercitazioni quotidiane.
Poggiato alla parete posta di fronte all’ingresso del suo ufficio al secondo piano, Petronio lasciò scivolare la mano sopra il fianco sinistro della lorica muscolata, nera come la pece eppure così rilucente. La cara, vecchia amica tornava a farsi sentire.
Lo squarcio era lungo pressappoco quanto il suo indice. Un graffio, se paragonato all’enorme cicatrice che adornava, come il più truce dei cimeli di guerra, la sua schiena piena e vigorosa. Tuttavia bruciava come il giorno in cui se l’era procurata. Ogni qualvolta il tempo cambiava repentinamente umore, il piccolo sfregio gli causava un dolore acuto, lancinante, che si diffondeva con rapidità verso l’alto, irrigidendogli in poco tempo la zona fin sotto il pettorale. Il prefetto del pretorio trasse un lungo respiro. Poi, sfibbiandosi i legacci in cuoio che trattenevano l’armatura al suo busto, ricoprì la breve distanza che lo divideva dal seggio dorato, situato alle spalle dello scrittoio. Intanto, all’interno delle mura, le ruote dei carri carichi di vettovaglie sfregavano con insistenza sull’acciottolato umidiccio del tragitto che conduceva ai magazzini pretoriani. I cardini vetusti della Porta Decumana frignarono penosamente sotto il peso dei massicci battenti di legno, alti quasi cinque metri. Prima o poi avrebbe dovuto decidersi ad avviare il rifacimento dei quattro vistosi ingressi che portavano all’interno della caserma. In quel momento però, priorità di ben altra natura occupavano la totalità dei suoi pensieri. A breve avrebbe dovuto sfidare l’ira dei suoi uomini, cercando di contrastare l’intensità dei loro sguardi, arcigni e vendicativi. Frugando tra i numerosi papiri occupanti la superficie del suo tavolo, Petronio Secondo recuperò il prezioso documento che aveva scritto poco prima di affacciarsi alla finestra. Distratto, gettò un rapido sguardo alle poche righe contenute al suo interno:
Salute a te, Divina Augusta!
Il servo devotissimo, Petronio Secondo, raccomanda la sacralità della tua persona allo sguardo benevolo degli dèi! Allo scoccare del quattordicesimo giorno prima delle calende di ottobre, il prescelto immolerà il suo coraggio sull’altare della libertà di Roma, preannunciando l’avvento di un nuovo, lungo periodo di pace e prosperità. L’inganno di Tirone avanza con inarrestabile precisione. Il tempo della riscossa matura di ora in ora e la fortuna sembra accompagnare il nostro impegnativo destino. L’intero Senato e i più importanti esponenti dell’ordine equestre ammirano estasiati il tuo altissimo esempio di romana virtù, esaltando segretamente la fermezza con la quale hai intrapreso la tua soffertissima decisione, unitamente all’alto senso di giustizia che da sempre caratterizza la natura del tuo animo. In ogni momento pronto a offrirti i suoi umili servigi, Lucio Petronio Secondo
Quand’ebbe finito di rileggere il breve scritto, estrasse da un cassettino nascosto della scrivania un piccolo rotolo di papiro vergine. Intingendo la punta del pennino in una ciotola di latte fresco che uno schiavo gli aveva portato circa un’ora prima, cominciò a duplicare con meticolosa perizia il messaggio composto in precedenza per l’Augusta. Piccoli aloni biancastri prendevano lentamente vita lungo l’estensione porosa del rotolo, modellati dalla vigorosa destra del prefetto del pretorio. A opera finita, Petronio attese che ciò che aveva usato come inchiostro si fosse asciugato completamente. Intanto bevve a lunghi sorsi il restante contenuto della scodella di terracotta, mentre col pensiero vagava tra i ricordi stinti delle dure campagne militari cui aveva partecipato: quante marce estenuanti, quante privazioni. Sul campo di battaglia il putrido fiato della morte lo aveva sfiorato parecchie volte, ma mai si era lasciato impressionare da quel nauseabondo odore. In Germania un barbaro gli aveva fracassato l’orecchio destro. Poco tempo dopo, a saltare erano stati l’anulare e il mignolo della mano sinistra. Sprezzante del pericolo e noncurante delle numerose ferite subite, Petronio aveva continuato a combattere in testa alle sue coorti, aprendo per primo gli scontri corpo a corpo contro i feroci nemici dell’impero. Le sue imprese gli avevano assicurato la promozione a prefetto del pretorio, la carica
più prestigiosa cui poteva ambire un membro dell’ordine equestre.
Di colpo la mente dell’ufficiale ritornò alla realtà del suo ufficio. Dopo aver battuto con decisione sull’esile divisorio della camera, la figura dinoccolata di un soldato penetrò all’interno di quel rabbuiato ambiente. Il giovane si arrestò a un o dall’ingresso e, stretto nel saluto militare, attese che il suo superiore gli desse il permesso di parlare. Petronio Secondo lo guardò dritto negli occhi con aria severa. D’istinto pose la ciotola vuota sopra il nuovo documento che aveva appena terminato di scrivere, quasi a volerne occultare il contenuto. Poi domandò con tono imperioso: «Cosa vuoi, Aurelio? Non vedi che ho da fare?» Il fulvo pretoriano si affrettò a rispondere con voce impostata. «Un frumentarius dei Castra Peregrina chiede di poterti incontrare, comandante.» «Ti ha detto il suo nome?», chiese pensieroso il prefetto. «Ha detto di chiamarsi Vulpecula e che preferisce conferire con te al di fuori della caserma.» «Digli di attendermi nei pressi della Porta Pretoria, ragazzo», concluse frettolosamente. Il giovane salutò impettito il superiore e, una volta varcata la soglia dell’ufficio, discese velocemente i gradini della lunga scala che conduceva al piano sottostante. L’alto ufficiale abbandonò il comodo scanno su cui era seduto e, prima di lasciare a sua volta la stanza, celò con cura sotto l’abbondante tunica biancastra l’ultimo rotolo che aveva preparato. Ripose l’altro papiro nel piccolo cassetto nascosto dal quale aveva estratto l’occorrente per portare a termine il suo lavoro, confidando di bruciarlo appena se ne fosse presentata l’occasione. Dopo raggiunse a o lento la strada interna che, attraversando per intero l’accampamento stabile dei pretoriani, conduceva in direzione della Porta Pretoria.
Roma, il giorno dopo le none di settembre.
Nella Domus Augustana.
La luce dell’ora quarta filtrava a fatica dagli alti finestroni situati lungo la parete occidentale della basilica Flavia. Attraversando il sottile strato di vetro multicolore delle aperture arcuate, i flebili barlumi solari accarezzavano con leggerezza la doppia fila di colonne in marmo pavonazzetto delimitante la navata centrale dell’ampia sala a pianta rettangolare. In prossimità del lato meridionale di quell’ambiente, a pochi i dalla profonda abside semicircolare, il grigiore diffuso da quella mattinata uggiosa combatteva strenuamente contro i colori accesi dello splendido mosaico realizzato lungo il pavimento della basilica. Settemila tessere in ceramica smaltata, sistemate l’una accanto all’altra dalle mani sapienti di dieci maestri ceramisti. Il soggetto rappresentava un giovane Domiziano, avvolto in una scintillante armatura dorata, nell’atto di puntare l’indice della mano sinistra al cielo. L’Augusto era stato raffigurato in posizione eretta, con folti riccioli bruni leggermente cascanti sulla fronte spaziosa, nonostante nella realtà avesse un semplice ciuffo a coprire la calvizie. Domiziano era stato inoltre rappresentato con il braccio destro che sorreggeva le famose tavole delle leggi romane, mentre lo sguardo, austero e penetrante, fissava imperturbabile l’estrema linea di un orizzonte immaginario.
Le riunioni del consiglio imperiale seguivano oramai un iter prestabilito: in primis vi erano gli affari interni, poi era la volta delle questioni giudiziarie e legislative. Nel mezzo si dibattevano le problematiche economicoamministrative e si vagliava la realizzazione di eventuali interventi di edilizia pubblica. La parte terminale degli incontri era invece riservata allo sviluppo delle campagne militari e, più in generale, alle faccende legate all’esercito. Riunite intorno all’imponente tavolo di porfido rosso, le figure più rappresentative del potere imperiale nell’Urbe attendevano la venuta dell’Augusto, chiacchierando sommessamente tra loro. Il consilium principis era formato da alcuni membri del Senato, perlopiù ex consoli, cui si aggiungevano i magistrati e i funzionari più importanti. Tra loro, immancabili, il praefectus
Urbis e il praefectus vigilium, il praefectus annonae, il procurator a rationibus e il procurator a cognitionibus. Appena la sagoma di Domiziano apparve oltre il vano di collegamento fra la basilica e il peristilio, tutti i presenti tacquero in segno di rispetto. Ottavio Titinio Capitone lo accompagnava sulla destra, seguito due i più indietro dalla prestante figura di Norbano. Quattro pretoriani ben piantati e dallo sguardo truce chiudevano il gruppetto dei nuovi arrivati. Non appena l’Augusto si accomodò sul suo maestoso podio, i soldati si disposero a coppia su entrambi i lati del seggio imperiale. Lo sguardo fiero puntato verso il fondo della lunga sala, i quattro s’irrigidirono in un’immobilità surreale, quasi fossero diventati improvvisamente mirabili statue di granito. Il dibattimento iniziò quasi subito, articolandosi con lentezza tra i mille ordini del giorno della seduta. Contrastando vistosamente con il comportamento generale dei presenti, Capitone sembrava stranamente distratto, quasi assente. I tratti del suo volto erano tirati e una palpabile tensione poteva scorgersi nei grandi occhi castani del segretario particolare del principe. Dal canto suo, Domiziano cercava di accelerare lo sviluppo di quella tediosa assemblea, accettando o rifiutando in maniera decisa le proposte e le argomentazioni formulate dai vari consiglieri: com’era d’abitudine, le mozioni del gruppo dei procuratores, costituito dai suoi più fidati liberti, venivano difficilmente censurate, mentre la faccenda risultava differente per quelle presentate dai vari praefecti convocati nel consiglio. Del resto, trattandosi di senatori e cavalieri, Domiziano era sempre incline a nutrire fastidiosi sospetti nei loro confronti. Quando fu la volta di Capitone, il suo intervento fu breve e raffazzonato. Seduto comodamente nel suo scranno, l’imperatore investì l’ab epistulis con occhiate severe e intimidatorie. Tuttavia tacque, deciso a sciogliere i propri dubbi una volta terminata la lunga concertazione. «Dovresti usare qualche intruglio di Valeno contro l’ansia», esordì Domiziano rivolto al suo segretario, una volta che furono soli all’interno dello splendido giardino colonnato. «Ho solo trascorso una notte insonne, divino Augusto», si scusò frettolosamente Capitone. «Non cercare di dissimulare le tue preoccupazioni, Ottavio. Specialmente con
me. Ti conosco da troppo tempo e comunque non avresti le capacità per ingannarmi.» Il procurator abbassò il capo in segno di resa e si convinse a esporre la natura delle sue afflizioni. «Sono angosciato per la faccenda del lupanare, divino Augusto. Se la verità dovesse venire a galla, i nobili patres richiederebbero il mio esilio immediato, nella migliore delle ipotesi.» L’imperatore alzò gli occhi al cielo. Le sue gote furono pervase da un rossore diffuso, mentre le sopracciglia rialzate si aggrottarono istintivamente. Allora il tono di voce, già di per sé basso, divenne addirittura minacciosamente roco.
«Per tutti i Numi, Ottavio! Se non mi ritornassi così utile, mi sarei già sbarazzato di te da un pezzo… solo per la tua codardia!» «Ma mio signore…», cercò di replicare con un filo di voce Capitone, visibilmente mortificato per aver scatenato l’ira del principe. «Niente ma, intesi?», tuonò Domiziano con occhi torvi. «Ti ho già detto di stare tranquillo. Per risolvere la questione che tanto ti sta a cuore ho inviato sul luogo Gaio Trebonio Macrino, il princeps peregrinorum! Tutto sarà sistemato prima che salti fuori il tuo maledetto nome, in questo modo non correrai pericoli. Cosa altro vuoi che faccia? Che vada di persona a Liternum?» Le parole colleriche dell’imperatore colpirono l’animo avvilito del segretario. A mani giunte e a capo ancora basso, Capitone cercò di placare la rabbia del suo interlocutore. «Chiedo umilmente perdono per il mio comportamento inadeguato, divino Augusto. Ogni tua azione è dettata dalla saggezza della tua venerabile persona e sicuramente avrai adoperato i mezzi più efficaci per giungere tempestivamente alla risoluzione dello scomodo problema, con il quale ti ho assillato nei giorni ati. Tu sei l’artefice della mia fortuna e l’origine della stima di cui godo nell’Urbe. Ordina pure, mio signore, e io sarò felice di obbedire ai tuoi comandi.»
Le parole del procuratore apparvero sincere, ancor di più la sua espressione. A quel punto il figlio di Vespasiano abbandonò lo sguardo duro con il quale aveva scrutato il suo segretario. Con un sorriso conciliante recuperò l’espressione riflessiva di sempre. «Sei il mio più fedele collaboratore», disse, «e l’unico di cui realmente mi fidi. Il resto della mia corte non rappresenta altro che un fascio di erbacce: infidi parassiti di cui presto mi libererò. Non pensare più a questa faccenda e, in quanto al Senato, a breve avrai il piacere di notare radicali cambiamenti nelle file dei vecchi e ingordi patrizi.» Detto questo, fece segno ai quattro pretoriani che attendevano agli angoli del variopinto giardino di seguirlo e si avviò a i veloci in direzione della biblioteca latina.
4
Roma, il giorno dopo le none di settembre.
Nei pressi della Porta Pretoria.
Appena Vulpecula intravide l’arcigna figura del capo dei pretoriani apparire sul lato opposto della strada fece in modo che l’altro riuscisse velocemente a individuare la sua posizione. Dopo di ciò, attese che il prefetto Petronio Secondo muovesse i primi i per raggiungerlo e, lentamente, si incamminò fino all’ingresso di una popina poco affollata, posta in prossimità della via Tiburtina. Salutando con un gesto del capo l’oste restò sull’uscio del locale a osservare di sottecchi gli spostamenti dell’uomo cui aveva chiesto udienza. «Le fogne traboccano in questo periodo dell’anno, vero Vulpecula?», esordì ironico Petronio, una volta raggiunto il frumentario. «Certo», rispose con tono di sfida il legionario. «E i topi che ne fuoriescono possono far imbizzarrire da un momento all’altro gli stalloni dell’imperatore.» Petronio tacque, tuttavia la mascella rigida dimostrò che aveva accusato il colpo. Vulpecula aveva la capacità di innervosirlo al solo sguardo, un’abilità particolare maturata fin da quando il giovane era entrato a far parte del corpo dei pretoriani. Non potendolo cacciare a pedate a causa della sua condotta di servizio irreprensibile, il prefetto era riuscito a liberarsene trasferendolo nel reparto dei frumentarii di stanza nella caserma edificata sul colle Celio.
Vulpecula era un tipo sveglio e spregiudicato. Nei suoi pochi anni di carriera aveva dimostrato indubbie capacità e grande coraggio. Quantunque arrogante e burbero, Petronio riconosceva segretamente il valore di quell’uomo così inviso
ai suoi occhi e, proprio per questo, sforzandosi di anteporre il bene della causa comune alla sua indole collerica, aveva affidato al giovane milite diverse missioni.
«Spero tu abbia qualcosa di importante da rifermi», disse accigliato Petronio. «Sono appena ritornato da Liternum», rispose Velpucula, senza guardarlo in viso. «Il nostro esecutore agisce ancora indisturbato. Come stabilito, ho recapitato il messaggio all’uomo di Capitone. Dovreste stare attenti a quel tipo. Prima o poi potrebbe cedere.» «Attieniti a eseguire gli ordini», l’ammonì a muso duro il prefetto, «ed evitami le tue stupide considerazioni.» Il frumentario ebbe un fremito improvviso. In quel frangente avrebbe voluto estrarre il pugio d’ordinanza e assalire senza pietà il suo tronfio interlocutore. Avrebbe dato un occhio della fronte solo per vedere la sua testa pelata esposta come trofeo sulla porta più alta dei Castra Praetoria. Probabilmente in un corpo a corpo il legionario avrebbe avuto la peggio, ma sarebbe stata comunque una soddisfazione per Vulpecula avere l’opportunità di conficcare il suo pugnale tra le scapole di quel pallone gonfiato. Chiamando a raccolta tutto il suo sangue freddo si limitò ad accennare un sorriso irriverente. Poi si affrettò a sghignazzare divertito.
«Cosa hai da ridere?» «Stai attento, Petronio Secondo. Ricordati della promessa che mi hai fatto e cerca di mantenere la parola data. Sarebbe spiacevole ritrovarti in un fossato, con le palle ficcate in bocca. Oppure vederti dilaniato dalle fiamme, come successe al povero Ascletarione. Domiziano non perdona i traditori, ricordalo prefetto.» La turpe immagine della fine dell’astrologo, unitamente all’ultimo ammonimento, suscitò un certo timore nell’animo del comandante dei pretoriani. D’improvviso il suo aspetto austero e il suo piglio borioso svanirono di colpo. Con aria molto più conciliante si sforzò di sorridere a sua volta. Poi, con estrema calma, commentò la provocazione del frumentario.
«Sono un uomo di parola, amico mio, e stai pur certo che avrai il tuo compenso. Tuttavia, se fossi in te, eviterei di lanciarmi in simili intimidazioni, specialmente contro il capo della guardia imperiale. Se avessi voluto, avresti smesso di respirare già da qualche tempo. Invece, come vedi, sei ancora in piedi, vivo e vegeto, e sei anche tu implicato nella faccenda fino al collo.» Seguì un attimo di silenzio. I due si guardarono a lungo negli occhi, ognuno perso nei propri incresciosi pensieri. Alla fine Vulpecula abbassò lo sguardo e con tono sbrigativo terminò la loro breve e aspra conversazione. «Se non hai altre disposizioni vorrei ritornare in caserma, comandante. Sono stanco morto e, dopo aver cavalcato tutta la notte, vorrei recuperare un po’ del sonno perduto.» «Vai pure», disse asciutto Petronio, anch’egli ansioso di ritornare alle sue faccende. «Renditi comunque reperibile, nel caso abbia bisogno di te.» «Sai dove trovarmi», rispose di malavoglia il giovane legionario.
Evitando scrupolosamente d’impettirsi nel saluto ufficiale, Vulpecula si allontanò rapido per una delle stradine che conducevano verso la zona del Celio. Petronio restò per un momento a osservare la minacciosa cortina di nubi grigiastre che si diradava velocemente dalla zona del Viminale, spostandosi compatta verso occidente. I pigri raggi solari si affacciavano finalmente oltre gli ultimi sfrangiati lembi di nuvola, diffondendo sulla Tiburtina il loro avvolgente abbraccio di metà mattina. Il pericolo del temporale era stato superato e anche il dolore al fianco sinistro sembrava essersi nuovamente assopito. Leggermente sollevato nello spirito, il prefetto del pretorio superò l’ingresso della popina e si accomodò a un piccolo tavolo situato sul fondo del locale. Avrebbe mandato giù un boccone insieme a un buon bicchiere di Falerno, prima di ritornare al suo ufficio per terminare l’ultima parte del lavoro.
Liternum, il giorno dopo le none di settembre.
Nella domus di Marco Stazio Afro.
L’acqua dello stretto canale, dal fondo tinto d’azzurro, gorgogliava timidamente sotto l’ombra della pergola. Alla fine del ruscelletto, nascosto tra i fiori biancastri dei meli, si apriva un piccolo biclinio che sovente era utilizzato per i pasti estivi.
Labieno e Macrino sostavano su una delle panche marmoree situate lungo il lato corto del portico colonnato. Alle loro spalle l’affresco di Diana, immersa in una concitata scena di caccia, donava una profondità impressionante a quel già vasto peristilio. Pendenti dal soffitto, tra una colonna di alabastro e l’altra, gli oscilla ondeggiavano dolcemente sospinti dal caldo vento pomeridiano. «Sarà un’impresa ardua acciuffare il colpevole», esordì il liberto con aria rassegnata. Il suo sguardo era proiettato oltre il tendaggio scarlatto presente sul lato opposto del giardino.
Lame dorate di luce s’insinuavano attraverso le pieghe dello spesso telone divisorio, lasciando intravedere parte del tablino, la stanza di rappresentanza del duumviro di Liternum.
«Dovremo riesumare i corpi di quelle poverette, amico mio. Dobbiamo trovare assolutamente qualche ulteriore indizio sull’assassino.» «Sei impazzito?», l’ammonì Labieno. «Vuoi suscitare l’ira di Plutone?» «Niente, se confrontato alle punizioni di Domiziano», rispose secco il princeps peregrinorum. «E poi, per adesso sappiamo poco o nulla su questo squilibrato omicida. Ci servono prove, dettagli su cui basare la nostra indagine.» «Cerchiamo di fare il punto della situazione, Trebonio», continuò deciso il liberto. «Per adesso cosa abbiamo tra le mani?»
«Uhm… lasciami pensare», indugiò assorto il capo del G-4. Il verde smeraldo dei suoi occhi penetranti sembrò accendersi di colpo, mentre le dita della destra tamburellavano ritmicamente sulla fredda superficie della panchina. Quando fu sicuro di non aver tralasciato alcun elemento, Macrino si lanciò nella sua osservazione. «Di fronte abbiamo un uomo ben piantato, alto pressappoco quanto te. Del resto le impronte che abbiamo incontrato sullo sterrato del clivus Caesaris, durante il sopralluogo con il capo dei vigiles, sembrano parlare chiaro. Abbastanza nitide e marcate, nella media… Appartengono sicuramente ai piedi di una persona con la tua corporatura. Particolare da non tralasciare è che il nostro uomo affrontava il clivo non in salita, bensì in discesa. L’orientamento delle impronte non ammette dubbi a riguardo.» «Ma a questo punto la supposizione relativa alla stazza del nostro uomo va a farsi benedire», considerò Labieno, alzandosi lentamente dal suo posto. «Cosa te lo fa pensare?», chiese incuriosito il capo dei frumentari. «Se ha percorso quella strada in discesa, è molto probabile che lo abbia fatto correndo. Forse aveva poco tempo. In ogni caso ha usato il clivo come via di fuga.» «Questo è certo», lo interruppe Macrino. «Sulla loggia che sovrasta l’ingresso dell’edificio e nel cubicolo dove si è consumato il delitto ho trovato tracce di terriccio rosso, lo stesso che abbiamo notato sotto l’angiporto oltre il vicus Calvus.» «Bene», commentò il liberto, «allora ripeto che non abbiamo indizi per risalire alla corporatura dell’assassino. Anche un bambino, correndo per una strada sterrata in discesa, potrebbe lasciare impronte così nitide e profonde. Giusto?» Trebonio tacque per un momento. Il suo viso abbronzato, dai tratti insolitamente regolari, aveva assunto un’espressione tirata. Le dita ricominciarono a picchiettare con insistenza sul bordo della panca fino a quando un’altra intuizione non gli balenò in mente. «Sbagliato, invece.» Labieno lo scrutò con aria interdetta, mentre Macrino riprese parola per
affrettarsi a spiegare il perché di quell’affermazione. «Se avesse cominciato a correre, l’ampiezza del o sarebbe sicuramente maggiore di quella riscontrata lungo la strada. E quindi di conseguenza le impronte porterebbero in sé tutto il peso scaricato durante la corsa. Allora la tua teoria sarebbe valida.» «Invece?», anticipò il liberto. «Invece le stesse impronte, sebbene meno appariscenti, le abbiamo rilevate anche presso il vicus Calvus. La loro profondità è identica è da attribuire esclusivamente alla sua corporatura massiccia.» «Ammesso che le impronte del vicus Calvus siano della stessa persona che ha percorso il clivus Caesaris, cosa cambia? Abbiamo solo assodato che si tratta di un energumeno sanguinario. Andiamo avanti con le supposizioni», sentenziò Labieno. «Cos’altro abbiamo a disposizione?» «La corda che ha lasciato sul luogo del delitto. Hai notato con che perizia sono stati intrecciati i fili di canapa che la compongono? Seppur di piccolo spessore, quella fune deve essere davvero resistente, non trovi?» «Certamente», commentò il liberto, oramai proiettato totalmente sulla scena del crimine. «Se non ricordo male, sulla lupa sono state ritrovate profonde escoriazioni intorno alla gola. Quindi è ipotizzabile che il nostro uomo abbia usato la stessa corda per cercare di strangolare la sua vittima.» Macrino annuì vistosamente, soddisfatto dalle capacità deduttive del suo amico. «Una corda dai mille usi, insomma», valutò. «Sottile, resistente e abbastanza lunga da permettere di calarsi da un loggiato situato al primo piano.» Labieno che si asciugò la fronte imperlata di sudore con il dorso della destra. «Conosci qualche bottega specializzata nella produzione di quel particolare tipo di fune?» Macrino sospirò lentamente. Poi si alzò a sua volta dalla lunga panchina di marmo e commentò sfiduciato: «Potresti girare tutte le botteghe della zona, ma dubito che troveresti un artigiano impegnato in simili produzioni. Sono lavori lunghi, difficoltosi e dal costo elevato. Per quanto mi riguarda, penso sia stata
importata dalle province orientali.» «Il cerchio delle congetture prende forma lentamente», sogghignò lo speziale con aria soddisfatta. «A questo punto ci troviamo di fronte a un bivio: o il nostro uomo è a sorpresa un ricco sterminatore di prostitute oppure, in maniera meno visionaria, si tratta di uno straniero proveniente dalle zone orientali dell’impero. Magari è un trace oppure un nubiano. E questo potrebbe avallare la nostra ipotesi relativa alla sua mole.» Trebonio si grattò con forza alla base del mento volitivo. Gettando lo sguardo oltre il celato biclinio, vide apparire, alla destra di una lunga e fitta serie di tralci di vite, la figura del capo dei famigli che avanzava lentamente verso la loro posizione. A quel punto si rivolse con voce sommessa al suo amico liberto e sussurrò: «L’ultimo elemento da valutare è il tipo di nodo usato dall’assassino per calarsi giù dal loggiato. È particolare, tuttavia ancora non sono riuscito a riconoscerne l’origine. Ora però, è meglio far finta di niente.» Proprio in quel momento, Arminio raggiunse in pochi i le loro sagome, avvolte nella preziosa ombra del portico colonnato. Con tono rispettoso, ma allo stesso tempo perentorio, il servo più fidato di Marco Stazio Afro disse ai due ospiti che il dominus li attendeva con impazienza nel locale delle terme. Incrociando il loro sguardo per un istante, i due messi imperiali mossero in silenzio dietro la sgraziata figura dello schiavo. Questi li condusse attraverso un piccolo andito dal soffitto a volta, totalmente ricoperto da un interminabile mosaico a tessere verdi, che si apriva alla destra del biclinio. L’elegante corridoio conduceva a una graziosa anticamera dalle pareti finemente affrescate con scene dell’Iliade. Il locale era adibito a spogliatoio e la dominanza del rosso e del dorato conferiva a quel vestibolo una luce particolarmente intesa anche nei giorni più nuvolosi. Oltre quella piccola sala si aprivano in successione una serie di ambienti destinati alla cura del corpo. Dal calidarium una voce familiare giunse alle loro orecchie. Era il duumviro che li invitava calorosamente ad approfittare delle sue terme private. Aiutati da due giovani schiave, Labieno e Macrino si spogliarono velocemente e raggiunsero il loro anfitrione nel largo locale attiguo, arroventato dal calore prodotto dall’ipocausto.
Ager Albanum, sette giorni alle idi di settembre.
Nell’Albanum Domitianii.
Affacciata al loggiato del suo sfarzoso cubicolo, la donna godeva della profonda pace concessa dai primi barlumi dell’alba. Tre mesi e più, segregata in quella splendida prigione dorata. Lo sguardo fisso sul vasto mantello azzurrino del Tyrrenicum, l’Augusta ripensava agli ultimi anni della sua sventurata vita. Lentamente, i tiepidi raggi solari iniziarono a illuminare l’intero sviluppo del versante occidentale della collina, lambita a malapena dalle tranquille acque del lacus Albanus e sede dell’incredibile Albanum Domitianii. Gaio Rabirio, architetto al servizio dell’imperatore, aveva dato prova del suo impareggiabile valore nel campo delle costruzioni, meritandosi onorificenze e titoli a profusione come ricompensa per il suo ineguagliabile ingegno. Quasi sei iugeri di tenuta, da utilizzare sapientemente al fine di esaudire i sogni del volubile Domiziano. Rabirio aveva lavorato notte e giorno senza sosta, profondendo, in quella commissione, fino all’ultimo brandello d’intelletto e conoscenza architettonica. Così era riuscito nel suo difficilissimo intento: realizzare un’opera mirabile, destinata a far parlare di sé attraverso i secoli. L’imperatore aveva dato direttive precise per quanto riguardava l’esecuzione dei lavori e l’architetto aveva dovuto costruire né più né meno di quanto egli ordinava.
Un’impresa a dir poco ardua ma, come sempre, Rabirio era arrivato a soddisfare i desideri del divino Augusto. Il volto della collina era stato trasformato irrimediabilmente: tre enormi terrazzamenti, digradanti verso il mare, fungevano da piattaforma per i diversi corpi di fabbrica che costituivano la residenza estiva dell’intera corte imperiale. Il primo terrazzamento, posto sulla sommità dell’altura, era stato destinato alle abitazioni della servitù, ai servizi e alle massicce cisterne d’accumulo per l’acqua. Questa veniva prelevata da alcune sorgenti situate sulla sponda opposta del Lacus Albanus, ridotto a proprietà privata del sommo Domiziano e sede di numerose e spettacolari naumachie, tanto gradite al figlio di Vespasiano. L’architetto si era addirittura sobbarcato l’onere di progettare i tre acquedotti preposti alla raccolta, di cui uno scavato per oltre due miglia nella roccia viva. Il
livello intermedio, sormontato da una grossa muraglia di sostruzione per le strutture superiori, ospitava l’infinita serie di camere, vestiboli, anditi e loggiati facenti parte del complesso destinato agli appartamenti imperiali. L’ultimo terrazzamento era invece occupato da un susseguirsi di graziosi e variopinti giardini, collegati alle sponde del lago attraverso una sinuosa stradina. A quello stesso livello appartenevano la maestosa eggiata privata dell’imperatore, un criptoportico lungo circa due stadi, e un magnifico teatro a pianta circolare, la cui platea presentava ventidue gradini ancorati alla rupe del bordo craterico del lago.
Una lieve brezza proveniente da sud accarezzò impercettibilmente l’esile collo di Domizia Longina, provocandole un brivido improvviso che si diffuse lungo le sue braccia carnose. D’istinto si guardò intorno, come a sincerarsi che nessuno avesse notato il repentino irrigidirsi del suo corpo, attraversato velocemente da quel lieve palpito. A quel punto un velo di tristezza calò sul viso appesantito della donna. Gli occhi le divennero lucidi e il capo scivolò inconsciamente in avanti. Come aveva potuto avere un simile timore? La sua unica compagna era la solitudine, l’estremo riferimento stabile all’interno della sua penosa esistenza. L’Augusta non era bella. Forse lo era stata un tempo, durante la prima gioventù. In quegli anni i suoi tratti si sarebbero potuti definire delicati ed eleganti, il suo portamento austero e signorile. Due splendide gemme, ambrate e scintillanti, erano incastonate in un volto dall’incarnato roseo e vellutato. Lunghi riccioli neri cascavano dolcemente sulle spalle, mentre un seno florido e sodo dominava un bacino stretto, dai fianchi morbidi e sinuosi. La sua famiglia era stata una tra le più influenti dell’Urbe durante i principati di Caligola e di Claudio. Suo padre, Cneo Domizio Corbulone, aveva servito quest’ultimo come legatus nella campagna di Germania, riportando una serie di importanti vittorie contro i Frisi e i Cauci e acquistando un’immensa popolarità fra le schiere dei legionari. Con la salita al trono del giovane Nerone, il generale Corbulone era stato inviato in Oriente come comandante delle operazioni contro i Parti. Dotato di capacità militari fuori dal comune e di grande esperienza sul campo di battaglia, l’impavido generale era riuscito a sconfiggere in breve tempo i nemici secolari dell’impero, conquistando le città di Artaxata e Tigranocerta e ristabilendo la supremazia di Roma nelle province orientali. Tuttavia la sventura attendeva silenziosa il momento propizio per sferrare il
primo di una lunga serie di attacchi ai danni della povera Domizia Longina. Aveva appena dieci anni quando suo padre fu condannato a morte dall’empio Nerone. L’accusa mossa dall’imperatore era pesantissima: il divino Augusto era certo che anche il valoroso generale romano avesse partecipato all’infausta congiura Pisoniana. In pochissimo tempo il figlio di Agrippina si liberò di tutti quelli che riteneva avessero potuto cospirare alle sue spalle: Pisone in primis, poi Fenio Rufo, Senecione, Quinziano, Scevino e Antonio Natale. La morte raggiunse anche le illustri figure di Lucano e Petronio. Perfino Seneca, un tempo tutore del giovane principe, fu costretto a tagliarsi le vene e a bere la cicuta. Cneo Domizio Corbulone scelse invece di togliersi la vita gettandosi sulla lama del suo gladio. Ripensando al suo amato padre, le gote paffute di Domizia furono rigate dalle lacrime: che mesta esistenza aveva condotto fino a quel momento! Quanto si era dimostrato avverso il fato e quanto continuava a esserlo, anche nella maturità.
Lontano, a ovest, le barche dei pescatori scivolavano mute sulla placida distesa turchese, increspata a malapena da piccoli sbuffi schiumosi e biancastri. Alcuni uomini calavano in acqua le numerose reti da pesca, rese luccicanti dai primi, decisi bagliori di luce che iniziavano a riflettersi senza sosta sulla superficie tremolante del Tyrrenicum. Nello stesso istante altre imbarcazioni tiravano a bordo i tramagli calati in mare all’imbrunire del giorno precedente, resi gonfi e pesanti dall’abbondanza di pesci. Guardando quelle scene di duro lavoro giornaliero, Domizia tornò a immergersi nel profondo dei suoi tumultuosi pensieri. Avrebbe barattato tutte le sue ricchezze per assaporare nuovamente il gusto intenso e appagante della felicità, smarrito oramai da troppo tempo nel corso della sua travagliata vita.
D’improvviso le ritornarono in mente i ricordi del suo primo matrimonio. Aveva circa quindici anni e, mai come in quel giorno, si era sentita serena e soddisfatta. Nella sua mente di ragazza aveva preso a immaginare un futuro roseo e gaudente, servita e rispettata in quanto moglie di un nobile senatore romano. Certo, Lucio Elio Lamia non si poteva dire né giovane né piacente. I suoi lineamenti erano tutt’altro che armoniosi, ma sicuramente era un uomo probo,
equilibrato e dai modi signorili. In aggiunta, era ritenuto uno dei più saggi tra i nobili patres e le sue parole avevano notevole peso durante le assemblee del Senato. La giovane e ingenua Domizia pensò che non avrebbe impiegato molto tempo per imparare ad amare il suo venerabile sposo. Quante vane illusioni avevano affollato il periodo della sua gioventù! Quanti frangibili sogni avevano alimentato la certezza di un avvenire sereno! Durante un banchetto offerto dal generoso imperatore Tito, la morigerata moglie di Lamia aveva conosciuto il giovane Domiziano, fratello del divino Augusto. Da quel fugace incontro, tra i due era nata un’insana ione che condusse velocemente al divorzio di Domizia dall’anziano senatore e al successivo matrimonio con l’unico erede al principato. In origine, l’amore per Domiziano sembrava dover durare in eterno. Affascinante, colto e dall’aspetto piacevole, il fratello di Tito nutriva una profonda devozione per la sua nuova compagna. Il loro affiatato legame sembrò doversi saldare ulteriormente con l’arrivo del primo, atteso figlio della coppia. Sfortunatamente, le cose precipitarono con l’improvvisa morte del nascituro. Domiziano diventò rapidamente freddo, quasi ritroso nei confronti della povera Domizia. A volte non le rivolgeva la parola per giorni e spesso rifuggiva gli sguardi ionali della sua amorevole sposa. La donna aveva addebitato quell’inspiegabile comportamento alla tragedia che aveva colpito pochi mesi prima la loro vita coniugale.
Quando il figlio minore di Vespasiano sostituì il compianto Tito alla guida dell’impero, i rapporti con la sua coniuge erano diventati oramai gelidi. Le voci sulla tresca amorosa fra il novello imperatore e sua nipote Giulia iniziarono a circolare con sempre maggiore insistenza, dilaniando lentamente il cuore innamorato della sventurata Domizia. Quelli che seguirono furono anni vuoti e oscuri, dominati da una profonda e costante tristezza. La flebile speranza di un improvviso ritorno di fiamma da parte di Domiziano era stata definitivamente calpestata dall’onta del sofferto esilio, tanto improvviso quanto inspiegabile e, anche quando l’Augusta fu richiamata dal ritiro forzato nel quale era stata costretta, i rapporti con suo marito non riuscirono a ritornare quelli di un tempo. Oramai il loro legame era pura formalità, un’immagine posticcia da regalare alla folla, ignara e credulona, durante le feste, i banchetti e le numerose cerimonie ufficiali alla presenza del popolo.
Proveniente dal corridoio che conduceva all’ampio cubicolo, uno scalpiccio incalzante raggiunse la soglia del lungo loggiato, riccamente ornato di piante e fiori variopinti. Domizia ebbe giusto il tempo di affacciarsi all’interno della sua camera. Nello stesso istante, la figura di una schiava dalle lunghe trecce corvine apparve sull’uscio dell’ambiente, attendendo il momento di prendere parola. L’imperatrice, stretta nella sua leggera veste di seta gialla, accennò un lieve gesto del capo. «Domina, c’è un uomo nell’atrio che aspetta di essere ammesso al tuo cospetto.» «Qual è il suo nome?», domandò Domizia con aria ancora assorta. «Massimo, domina.» L’Augusta riuscì a celare a fatica il suo interessamento. Conosceva bene Massimo. Era un uomo di Partenio e sicuramente le recava notizie importanti dall’Urbe. Informazioni fondamentali, legate alla buona riuscita dell’impresa alla quale aveva deciso di prendere parte. Simulando una certa indifferenza, la donna intimò alla giovane di condurre il visitatore nel piccolo vestibolo che fungeva da anticamera per la sala del maestoso triclinio. Quando l’esile sagoma della schiava sparì oltre l’ingresso del corridoio, Domizia versò all’interno di una coppa dorata poche dita di rosso schietto, denso come il sangue di un gladiatore. Bevve avidamente il tutto in un unico sorso, noncurante della robustezza di quello scuro e mieloso nettare. Poi si avviò spedita al luogo dell’incontro: il momento della verità si avvicinava inequivocabilmente e la donna sentiva gravare sulle sue spalle tutto il peso di quell’azione meschina e disdicevole. Per un momento accarezzò l’idea di arrestare immediatamente gli ingranaggi della macchina di morte che lei stessa aveva avviato con grande determinazione. Poi, dai recessi più celati della sua mente stanca, prese vita il ricordo di quell’interminabile pomeriggio, quando era venuta a conoscenza delle sciagurate e abominevoli trame di quella bestia immonda che aveva preso anni addietro come marito. Davanti ai suoi occhi, sbarrati per lo sgomento, rivide per pochi attimi la figura aggraziata di Lucrino mentre, con aria sorridente, le mostrava il piccolo papiro sul quale aveva disegnato il ritratto dell’imperatore. Accanto all’elementare bozzetto, realizzato dalla mano inesperta del fanciullo, l’Augusta
aveva notato un elenco contenente diversi nomi, tutti appartenenti alla cerchia dei confidenti imperiali. La grafia era indubbiamente quella del suo sposo e, accanto a ogni nome, poteva leggere interfice: “uccidi”. Lucrino era un bambino adorabile e curioso e Domiziano aveva provato da subito una forte simpatia per il fanciullo. Nei caldi pomeriggi di fine estate i due solevano intrattenersi nelle stanze private dell’imperatore per diverse ore, giocando e dando la caccia a interi battaglioni di mosche. In uno di quegli incontri il bambino aveva trovato chissà come uno dei documenti riservati del divino Augusto e, ignaro della sua importanza, vi si era dilettato sopra con i suoi disegni. Domizia rabbrividì, rievocando quell’assurda scoperta: il figlio di Vespasiano stava progettando la fine di tutti i suoi più fidati collaboratori. Partenio, Saturio, Petronio Secondo, Castore… tutti sarebbero stati raggiunti dalla follia sanguinaria dell’imperatore. Domiziano aveva risparmiato il solo Titinio Capitone, inserendo in quell’infame lista perfino lei e il fidato Norbano. Una voce maschile, roca e penetrante, interruppe di colpo le sue opprimenti elucubrazioni. «Ave, divina Augusta», esordì l’uomo di Partenio, una volta entrato nella stanza affrescata. Longina poggiò il calice vuoto sopra il freddo basamento marmoreo di una grossa specchiera. Con un cenno della destra intimò alla serva di lasciarli soli così la giovane ancella, abbozzando un rapido inchino, si dileguò oltre la porta che conduceva nel vestibolo destinato ai banchetti. «Che notizie mi porti?», si affrettò a domandare l’imperatrice. La sua voce era incerta e il viso tirato manifestava un’ansia difficile da dissimulare. «Ti porto un messaggio da parte di Petronio Secondo, domina», rispose asciutto il liberto. Intanto si era già avvicinato alla figura appesantita dell’Augusta, porgendole un piccolo rotolo. Mentre Domizia stendeva le lunghe dita affusolate per afferrare il prezioso papiro, Massimo aggiunse sornione: «Latte e cenere, divina Augusta.» A quel punto la domina si guardò intorno. In un angolo della piccola anticamera notò la presenza di un vecchio braciere, spento oramai da mesi. Sul fondo dell’utensile era ancora presente uno spesso velo di cenere. Con cura aprì il documento, cospargendone la superficie con una manciata di polvere grigia, raccolta dall’interno del caldano.
Una fitta serie di parole iniziò lentamente a prendere vita. L’imperatrice lesse attentamente il contenuto della missiva, poi sospirò profondamente, chiudendo gli occhi per un istante. Intanto il messaggero ammirava estasiato i mirabili dipinti che lo circondavano, attendendo le disposizioni della donna. Domizia nascose il papiro sotto la sua elegante veste. Accingendosi a commentare le notizie lette, le parole sembrarono morirle in gola. Chiamò a raccolta tutta la fermezza del suo animo, tuttavia la voce apparve tremante e impastata. «Puoi dire a Petronio Secondo che l’imperatrice avalla le decisioni finora prese. Tutto proceda com’è stato stabilito, confidando nell’aiuto degli dèi…» Una volta partito il liberto, l’imperatrice corse a perdifiato nel suo cubicolo. Raggiunto l’interno della stanza, sbarrò la porta alle sue spalle e si gettò di peso sull’alto torus, piangendo a lacrimoni e singhiozzando senza tregua. Aveva tradito suo marito, suggellando, in quel modo, il più deplorevole fra i crimini.
5
Liternum, sette giorni alle idi di Settembre.
Nella zona commerciale.
Labieno seguiva la giovane schiava a una ventina di i di distanza, mentre si addentrava fra la ressa di volti che affollava gli ingressi delle diverse botteghe situate alle spalle del Foro. La bellezza di Claudia lo aveva rapito fin da quando aveva incrociato per la prima volta il suo sguardo profondo e penetrante. Un paio di occhi corvini risaltava nell’incarnato pallido di un viso ovale, dai tratti armoniosi e delicati. Una cascata di fili dorati si adagiava languidamente sulle sue spalle minute e, accarezzata dagli intensi bagliori dell’ora quarta, enfatizzava la grazia di quella figura esile e slanciata. La bianca livrea a fasce paglierine sembrava cercare con bramosia un contatto continuo con quel corpo sensuale, mentre il lembo inferiore della tunica, corta sopra le ginocchia, scopriva due gambe affusolate e bianchissime, simili a quelle di una divinità femminile. Mentre pedinava l’avvenente ancella di Marco Stazio Afro, Labieno ripensò a ciò che era successo la notte precedente. Era da poco sopraggiunta l’inclinatio ma lo speziale tardava a prender sonno, arrovellandosi continuamente tra le candide lenzuola del suo giaciglio. D’un tratto aveva udito un bisbigliare continuo provenire dagli alloggi posti al piano superiore della domus nella quale era ospite. Una voce maschile, bassa e roca, trapelava soffocata attraverso il sottile solaio del cubicolo occupato da Labieno. Facendo mente locale, il liberto aveva capito che doveva trattarsi della camera di Claudia e, approfittando dell’oscurità in cui era piombato il piano terra dell’abitazione, aveva deciso di abbandonare il suo letto per raggiungere furtivamente la rampa di collegamento fra i due livelli sovrapposti. Un impalpabile fascio di luce, prodotto da un moccolo malridotto
presente all’interno della stanza, si era diffuso timidamente verso la zona del corridoio, attraversando il piccolo spiraglio formatosi tra il vano d’ingresso e la porta, socchiusa alle sue spalle. Grazie a quel flebile chiarore, lo speziale aveva gettato uno sguardo circospetto verso il lato del lungo andito che conduceva al cubicolo del dominus. A quel punto aveva notato che la panca occupata solitamente da Arminio era vacante. In quel preciso istante la mente affilata di Labieno aveva associato un volto a quella profonda voce maschile che mormorava nel bel mezzo della notte. Con o accorto era riuscito a giungere fino al limitare superiore della scalinata e lì aveva pensato bene di distendersi sul fianco, nascosto dallo spessore dell’alto parapetto in pietra. Sporgendo impercettibilmente il capo verso il ballatoio, Labieno aveva tenuto d’occhio la porta del cubicolo della schiava per tutta la durata di quella borbogliata conversazione, carpendo qui e lì stralci di raccomandazioni e ammonimenti. «Bada bene, lurida sguattera. Cerca di non combinare guai domattina. C’è mancato poco che mandassi tutto all’aria la volta scorsa», aveva mormorato severo Arminio. «Io non sono la tua schiava, brutto caprone», aveva risposto con voce tremante l’ancella. «Ti ho già detto che non voglio entrarci in questa tua faccenda e poi…» In quel preciso momento le parole sommesse della serva erano state interrotte da un gemito di dolore a cui aveva fatto seguito la voce sinistra e accigliata del capo dei famigli. «Posso rovinarti quando voglio, stupida sgualdrina. Che ne pensi se raccontassi al dominus chi è stato a far sparire l’argenteria dalla credenza? Mi divertirei da morire nel vederti combattere contro le fiere dell’anfiteatro.» Le minacce sussurrate da Arminio avevano sortito l’effetto desiderato. Nella posizione in cui si trovava, Labieno aveva avuto modo di notare la sgraziata sagoma del servitore uscire di soppiatto dalla camera di Claudia. Annusando il pericolo di essere scoperto, lo speziale aveva deciso di recuperare l’ingresso del suo cubicolo, prima di essere raggiunto dall’ignaro uomo di fiducia di Afro. Mentre scivolava verso la parte inferiore della scalinata, il liberto era riuscito a intendere le ultime, soffuse raccomandazioni che quel turpe individuo aveva
rivolto alla giovane. «Nascondi bene il rotolo e fa in maniera che arrivi a destinazione prima dell’ora sesta di domani. Se qualcosa dovesse andare storto, te ne farò pentire amaramente.» Una volta ritornato nella sua stanza, lo speziale era rimasto a rimuginare a lungo su quel misterioso incontro notturno e sull’enigmatica figura di Arminio. Alla fine, deciso a svelare la ragione di quell’abboccamento segreto, si era ripromesso di seguire gli spostamenti della fanciulla, avendo cura di non tradire le proprie intenzioni. Alle prime luci dell’alba aveva infinocchiato Macrino dicendogli di doversi recare velocemente nella zona del quartiere commerciale alla ricerca di una manciata di semi di Aesculus Hippocastanum. Nei giorni precedenti, infatti, il nobile Marco Stazio Afro si era spesso lamentato per una continua pesantezza alle gambe, accompagnata da un forte prurito e da un ingrossamento delle sue varici. Labieno si era prontamente offerto di preparargli un decotto molto particolare, capace di alleviare le sue svariate sofferenze. Uscito dall’ampio portone della domus, il liberto aveva seguito per un breve tratto la strada che conduceva in prossimità del Foro, poi, guardandosi bene attorno, aveva trovato un buon nascondiglio dal quale sorvegliare il portone della dimora del duumviro di Liternum. Appena aveva scorto la bella Claudia abbandonare l’ingresso della villa, ne aveva seguito l’incedere fino a quando la schiava non aveva superato abbondantemente il basso divisorio dietro il quale lo speziale era riuscito a imboscarsi. Sicuro di non poter essere più scoperto, Labieno aveva iniziato il suo pedinamento, cercando di scoprire dove fosse diretta la serva. Oltreati gli affollati banchi d’esposizione dei magnarii e dei pomarii, Claudia voltò improvvisamente in una stradina che correva parallela al vicus Scipionis. Ogni qual volta il liberto cercava di ridurre la distanza dalla giovane ancella, la moltitudine di acquirenti e semplici curiosi riversata in strada sembrava ostacolarne i movimenti, rendendo sempre più complicato il suo tallonamento. D’improvviso lo speziale ebbe l’impressione che la folta chioma della donna fosse sparita dal suo campo visivo. Tra spintoni e imprecazioni, Labieno cercò ostinatamente di raggiungere il fondo della stretta viuzza nella quale si era addentrata la sua preda. Ansimante e stanco per la fatica, lo speziale aveva
oramai perso quasi ogni contatto con l’oggetto del suo inseguimento quando, aguzzando oltremodo la vista, riuscì ad adocchiare per un istante il profilo di Claudia che emergeva oltre il muro d’angolo di una bottega, situata all’incrocio tra un viottolo e un’ampia arteria lastricata. Accanto alla sagoma eterea dell’avvenente ancella si ergeva la figura di un uomo di spalle, per metà coperta dalla selva di facce che si accalcava al mercato. Assalito dal sospetto, Labieno cercò di annotare nella sua mente i pochi dettagli che riusciva a rilevare osservando quel misterioso individuo. Di statura media, ben piantato e scuro di carnagione, il tipo indossava una stretta tunica verdastra, leggermente sbiadita. Dal suo fianco destro pendeva una specie di scarsella in cuoio, stranamente rigonfia come se contenesse degli arnesi da lavoro. Proprio quando lo speziale stava recuperando furtivamente terreno rispetto ai due ignari interlocutori, la giovane schiava porse all’uomo un piccolo rotolo di papiro. Appena l’ebbe preso in consegna, l’arcano nerboruto avvicinò il suo capo a quello della serva e le poggiò la destra su una spalla. Dopo aver sussurrato poche parole all’orecchio di Claudia, il tipo si allontanò a o svelto verso la grossa via pavimentata che conduceva all’esterno dell’area commerciale, facendo perdere velocemente le proprie tracce.
Dal suo canto Labieno si ritenne soddisfatto di quanto era riuscito a scoprire e si limitò a immergersi nuovamente in quella bolgia di suoni e odori, alla ricerca dei suoi preziosi semi di Aesculus Hippocastanum.
Liternum, sette giorni alle idi di settembre.
Alla taverna “Croce del Sud”.
Aurelio Pulcro era il ritratto stesso dello stupore. La mano ferma a mezz’aria nell’atto di portare alle labbra il boccale di rosso speziato, il capo dei vigiles guardava come intontito il suo interlocutore. Per un momento pensò che il caldo gli avesse giocato un brutto scherzo. Forse era stata la stanchezza. Di sicuro le richieste dell’inviato imperiale non potevano essere serie.
«Scusami, Macrino, ma penso di aver frainteso», disse, grattandosi con forza la mano sinistra. Era la seconda volta che ripeteva inconsciamente quel gesto. Una contrazione nervosa inconsulta, segno di disagio o forse di fastidio. «Niente errori», commentò serafico il princeps peregrinorum. «Ti ho chiesto quando potremo riesumare i corpi di quelle sventurate.» Pulcro tacque per il tempo necessario a trarre un lungo sorso di vino. Poi poggiò rumorosamente il bicchiere semivuoto sul pancone mezzo scorticato e si pulì le labbra umide con il dorso della mano. Prima di aprire bocca, si schiarì la voce, deciso a stroncare quell’assurda decisione. «Mai, amico mio. Non riuscirai a ottenere l’autorizzazione per portare a termine la tua perversa impresa.» Il volto disteso di Macrino si rabbuiò di colpo. «Chi ha parlato di autorizzazione, Pulcro? Ricorda che sono stato inviato qui dal divino Domiziano.» «Un atto sacrilego resta tale anche se commesso dall’imperatore in persona», l’ammonì accigliato Aurelio. «La città vive da giorni avvolta nella paura e nello sgomento. Attirarsi addosso le ire di Plutone non mi sembra il modo giusto per…» Macrino batté con forza il palmo della mano sul desco di legno al quale erano accomodati. Il suo viso era diventato livido dalla collera e una luce sinistra risplendeva attraverso i suoi profondi occhi verdi. «Ascoltami bene, compare. Tu fai quello che io ti dico, e alla svelta! Fosse per me, sarei rimasto volentieri a Roma a badare ai miei affari, lasciandovi da soli a sbrigarvela con questo pazzo criminale. Ma Domiziano mi ha affidato questa rogna e io sono intenzionato a sistemare la faccenda nel minor tempo possibile.» «E cosa credi, che io non voglia acciuffare quanto te quel mostro sanguinario?», ribatté infervorato Pulcro. «Resta il fatto che io ci vivo qui, capito? La gente sa chi sono e conosce mia moglie e i miei figli. Cosa pensi che succederebbe se mi vedesse aprire tombe e profanare sepolture?» L’irruenza di Trebonio Macrino sembrò lentamente sbollire. In fin dei conti, il
comandante dei vigili non aveva tutti i torti. Nei diversi anni di servizio come delatore del divino Augusto, Macrino era riuscito ad apprendere il modo d’agire, semplice e brutale, delle folle stanche e inferocite. Sarebbe bastata una voce appena bisbigliata, una sottile insinuazione, oppure una subdola maldicenza per trasformare un vago sospetto di colpevolezza in una rapida esecuzione capitale, da eseguire nel centro dell’ampio slargo del Foro come monito per gli empi e gli scellerati. Ammorbidendo i toni del discorso il princeps peregrinorum decise di adottare una tecnica diversa, facendo intendere al suo interlocutore di comprendere a fondo la natura della sua reticenza. «A volte i miei modi sono bruschi e inappropriati, Aurelio. Ammetto che la mia proposta può risultare balzana e fuori luogo, specialmente considerando il momento di tensione che la città sta attraversando. Tuttavia sono sicuro che studiando accuratamente le spoglie di quelle sventurate potremmo ricavare ulteriori indizi per stringere la rete intorno al nostro uomo. Liternum soffre e deve essere aiutata usando qualsiasi mezzo.» Le parole accorte di Trebonio colsero nel segno e furono interpretate dal capo dei vigiles come una richiesta di collaborazione. «Hai la mia parola», rispose più disteso. «Cercherò di offrirti tutto il sostegno di cui necessiti, Macrino. Ora però mi sorge un dubbio.» «Sentiamo», commentò interessato il capo dei frumentari. «Chi ti assicura che i corpi delle lupe assassinate non siano ridotti in cenere e seppelliti dentro un’urna?» «Semplice. Da quanto mi ha detto il lenone, le poverine erano tutte schiave straniere, senza alcun legame affettivo qui in città. Non penso quindi che per quelle sciagurate siano stati predisposti riti funebri ordinari. Nella migliore delle ipotesi gli addetti che lavorano alla necropoli avranno avvolto i loro cadaveri straziati in un telo e poi li avranno sotterrati velocemente.» «È possibile», rispose Pulcro. A quel punto ingollò un altro sorso di rosso e tornò a grattarsi vigorosamente la sinistra. «L’ideale sarebbe agire domani, magari a notte fonda, evitando di essere
osservati. Dovremo farci indicare il luogo preciso in cui sono state seppellite e poi lavorare rapidamente di vanga, cercando di finire il lavoro alla svelta.» «In tre la vedo dura», osservò sfiduciato Trebonio. «In tal caso costringerò un paio dei miei a seguirmi.» «Ci servono un bel po’ di lucerne per esaminare bene le salme, sperando che i bagliori luminosi non tradiscano la nostra presenza all’interno della necropoli.» «Le mura di cinta sono alte abbastanza», lo rassicurò Pulcro. «Il problema è capire cosa vai cercando, amico mio. Posso assicurarti che quell’infame ha fatto scempio delle sue vittime, lasciando ben poco da poter studiare. Raramente ho visto un tale folle accanimento su dei corpi senza vita. A parte l’ultimo caso, quel macellaio ha squarciato la pancia a tutte le sventurate, accomodandogli le viscere intorno al collo. Poi ha cavato loro gli occhi, che non sono stati mai ritrovati. Uno strazio indescrivibile, credimi.» «È scaltro, veloce, spietato», considerò pensieroso Macrino. «Ma noi dobbiamo beccarlo a tutti i costi.» La fermezza del suo sguardo sembrò infondere speranza nell’animo di Aurelio. Con un gesto della mano Pulcro richiamò l’attenzione del garzone della taverna e, mentre questi si avvicinava al tavolo con estrema lentezza, si rivolse al princeps peregrinorum. «Vedrai che specialità in questa bettola! Il locale lascia a desiderare ma servono il miglior garum che abbia mai assaggiato.»
Roma, sette giorni prima delle idi di settembre.
Nei pressi del Ludus Magnus.
Aveva da poco superato la Porta Viminalis e si apprestava a imboccare il vicus Patricius, quando a un tratto il dolore al fianco sinistro si ripresentò vivo e lancinante. Il respiro spezzato in due, Petronio Secondo per un attimo credé di
svenire. Le gambe erano pietrificate e il volto appariva pallido come un lenzuolo mondato di fresco. I quattro pretoriani, che lo seguivano due i indietro, si affrettarono a reggere il loro comandante, ma questi li allontanò con un brusco gesto della mano. La fronte imperlata di sudore, l’ufficiale cercò di recuperare il fiato, sforzandosi di riassumere l’espressione severa di sempre. Una fievole acquerugiola iniziò a cadere sulla valle stretta tra l’Esquilino e il Celio, portando con sé un’insolita corrente d’aria fredda proveniente da nord-est. Rassegnato, il capo della guardia imperiale alzò per un istante gli occhi al cielo: erano giorni che quei continui cambiamenti atmosferici stavano mettendo a dura prova il suo fisico ammaccato e malconcio. Deciso a ritornare nei Castra Praetoria prima della fine dell’ora undecima, Petronio riprese il suo o regolare, arrivando in breve alla fine della strada che stava percorrendo. Di lì attraversò la popolosa zona della Suburra, con le sue donnine in affitto e i suoi mostruosi casermoni fatti di malta scadente e pietre grossolane, alti come torri e sempre vogliosi di nuovi sopralzi.
In quel luogo risiedeva il cuore pulsante di Roma, tra le sue viuzze fetide e tenebrose aveva mosso i primi i l’immortale Giulio Cesare.
Arrivato nei pressi del Foro di Augusto, l’ufficiale deviò a sinistra, ritrovandosi nel vicus Sandalarius. Giunto in fondo al vicolo, prese a percorrere un piccolo slargo lastricato che si apriva sulla destra e finalmente poté scorgere le mura del Ludus Magnus. Una volta trovatosi in prossimità della porta dell’edificio, ordinò ai suoi uomini di attenderlo all’esterno e rapidamente varcò la soglia della più importante scuola gladiatoria dell’Urbe. La costruzione era realizzata interamente in mattoni e costituita da tre livelli. Al primo piano erano situate le camere degli atleti, angusti bugigattoli che correvano lungo i quattro lati del Ludus. In ognuna di esse un’unica grossa apertura affacciava nel vasto giardino porticato, circondato da una lunga serie di colonne tuscaniche in travertino. Il livello ancora superiore era occupato dalle stanze di servizio nelle quali erano custodite le scenografie, i costumi di scena e il materiale per gli allenamenti giornalieri dei gladiatori.
Accompagnato da un inserviente, Petronio superò la zona dello spoliarium e del sanarium, ritrovandosi a percorrere un breve andito che fungeva da collegamento con il cortile centrale. L’acquerugiola era diventata oramai pioggia fitta e nella grande arena, contornata dalla cavea marmorea, due uomini flagellati, legati a dei grossi pali di legno, lanciavano di tanto in tanto lamenti disumani. «Cosa hanno combinato quei due?», chiese il prefetto del pretorio allo schiavo che lo affiancava. «Hanno rubato trenta sesterzi a un rudiarius. In origine Pompeio voleva ucciderli, poi ha preferito solo punirli.» «Come mai?», ridacchiò divertito l’ufficiale. «Il vecchio Pompeio sta cominciando a diventare comionevole?» «I gladiatori costano, comandante», rispose asciutto l’inserviente. «E quelli più degli altri. Il biondo è un gallico, uno dei migliori secutor che abbiamo. L’altro ha un futuro come mirmillone.» «La disciplina è disciplina!», tuonò Petronio Secondo. «Se hanno sbagliato è giusto che vengano puniti in maniera esemplare.» «I sesterzi contano più di tutto», ribatté seccato lo schiavo. «Fino a quando schiattano nell’arena non ci sono problemi. In caso contrario, sono soldi gettati al vento, un investimento a perdere.» Dopo aver attraversato il lato corto del portico colonnato, l’ufficiale superò un ampio vestibolo che fungeva da sacello e si ritrovò di fronte alla porta dell’ufficio di Pompeio. «Salute a te, vecchia canaglia», esordì Petronio sorridente. Il lanista non sembrò felice di vederlo. Con un gesto della mano congedò l’inserviente e fece accomodare il capo dei pretoriani su di una panca logora e umidiccia. «A che devo l’onore della tua presenza?», domandò sarcastico Pompeio, mentre offriva al suo ospite un boccale colmo di un rosso tra i più luridi dell’Urbe, più simile a posca che a vino.
L’ufficiale ingollò un piccolo sorso di quella beffarda mistura. Quand’ebbe sacrificato la sua gola e il suo stomaco, commentò con aria disgustata: «Chi ti ha rifilato questo veleno? È più aspro dell’aceto!» «Se avessi saputo della tua visita mi sarei procurato una giara di Falerno gelato.» Petronio posò velocemente il calice ancora pieno sul tavolino situato alla sua destra. «Sono venuto per parlare con qualcuno dei tuoi atleti, Pompeio.» Il lanista lo scrutò con aria investigativa. «A che proposito, se mi è concesso?» «Non ti è concesso, vecchio mio», rispose perentorio il prefetto del pretorio. «Ciò che devi ricordare, invece, è che Petronio Secondo non dimentica chi gli è amico.» Così dicendo, lanciò al lanista un fagotto tintinnante. «Spero che bastino per il tuo disturbo», aggiunse l’ufficiale, mentre Pompeio contava avidamente il contenuto della saccoccia. «I ragazzi sono nella mensa. Uscendo da qui, segui il corridoio di destra. Ti condurrà a una piccola scala in muratura che porta a un locale seminterrato. Li troverai tutti lì. Oggi carne di maiale, fave e un paio di focacce. Se vuoi unirti a loro non fare complimenti.» Il capo delle guardie imperiali abbozzò un sorriso divertito, poi abbandonò il lanista alle sue faccende e prese a percorrere il lungo andito di collegamento con la sala adibita a refettorio. Il locale era freddo e spoglio e un pungente odore di muffa traspirava dalla superficie delle spesse pareti in tufo. Due lunghe serie di tavolacci erano disposte lungo i lati maggiori di quel malsano ambiente, infestato da scarafaggi e moscerini. La zona centrale era sgombra e serviva da aggio per gli schiavi addetti alle vivande. Stretto nel fondo del lato corto più lontano dall’ingresso, un largo bancone in muratura permetteva la cottura dei cibi e il loro mantenimento tramite grossi dolia incassati.
Quand’ebbe varcato l’ingresso della mensa, Petronio lanciò un’occhiata sull’intero sviluppo della sala. A un tratto notò il testone rasato di Primo, intento a masticare voracemente gli ultimi bocconi della sua formella di pane. Accanto all’enorme macedone, un tipo dalle braccia completamente ricoperte di sfregi sorseggiava con avidità il contenuto di un grosso boccale di terracotta. “Ecco anche Galieno”, pensò Petronio.
Senza indugiare oltremodo, l’ufficiale raggiunse il pancone sul quale erano stravaccati i due gladiatori. Nell’avanzare, il prefetto del pretorio percepì un centinaio di occhi torvi che osservavano silenziosi ogni suo più piccolo movimento. Attorniato da quella schiera di lottatori rudi e sanguinari, che fra le sue fila nascondeva assassini, disertori, reietti e individui assetati di sangue, il capo dei pretoriani stimò che mantenere un basso profilo sarebbe stata di certo l’idea più saggia. Per una volta mise da parte i suoi modi bruschi e arroganti e, arrivato di fronte alle sagome massicce di Primo e compare, si limitò a dire con tono sommesso: «Salute, campioni. Dobbiamo parlare.» Il testone lo guardò fisso negli occhi per il tempo di un respiro. Poi si alzò in piedi di scatto e fece segno a Galieno di fare altrettanto. Quindi si rivolse a chi li aveva salutati. «Questo non è il posto ideale, comandante. Seguici.» Dopo aver risalito la piccola scalinata di pietra, i due ignorarono il lungo corridoio che aveva percorso in precedenza Petronio Secondo. Il macedone s’infilò oltre una piccola porticina verde che si apriva alla sinistra del ballatoio, seguito dal suo compare e dalla figura pensierosa del capo dei pretoriani. Quando l’accesso a quel misterioso ambiente si richiuse dietro le loro spalle, i tre si ritrovarono completamente immersi nell’oscurità. Oltre al buio pesto, Petronio udì uno stillare incessante di gocce. Queste precipitavano in piccole pozzanghere presenti evidentemente sul terriccio bagnato nel quale in quel momento stavano affondando i loro calzari. «Brutti bastardi, dove avete intenzione di portarmi?», esclamò il prefetto del pretorio, vinto dall’angoscia che quel luogo tetro e misterioso riusciva a trasmettere. «Stai calmo, comandante», rispose sornione Primo. Poi accese una lucerna che
penzolava dal basso soffitto arcuato. «Adesso forse riuscirai a capire dove ti trovi.» Da flebile barlume, la luce della lanterna divenne via via più intensa, riuscendo a rischiarare sufficientemente i contorni di quella che agli occhi di Petronio apparve come una sorta di grossa galleria sotterranea. «Ora puoi parlare liberamente, comandante», sogghignò sarcastico Galieno. «Dove siamo?», domandò l’ufficiale. «Ma come, non l’hai capito?», commentò in tono pacato Primo. «Sei nella gola del gladiatore, il aggio sotterraneo che conduce direttamente sotto l’arena dell’Anfiteatro Flavio.» «Ecco svelato il mistero delle vostre magistrali apparizioni nell’ovale della morte», osservò il prefetto del pretorio. «Comunque, sono venuto fin qui per dirvi che tutto è stato organizzato per il quattordicesimo giorno prima delle calende di ottobre. Portate con voi quattro o cinque dei più gagliardi e fidati. Bardatevi di tutto punto e presentatevi a palazzo prima dell’ora sesta, con la scusa di rendere omaggio alla figura dell’imperatore. Sapete bene che Domiziano adora le vostre pantomime quindi sicuramente vi sarà dato libero accesso e vi sarà ordinato di attendere nell’anticamera del suo cubicolo. Una volta lì, occhi aperti e mani al pugio, intesi?» I due si limitarono ad annuire. «Nessuno dovrà avere accesso all’interno degli alloggi imperiali e se Stefano dovesse trovarsi in difficoltà, entrate e prestategli soccorso.» «Ovviamente a cose fatte…», cercò di concludere Galieno. «A cose fatte sarete entrambi uomini liberi, vi do la mia parola. Ora portatemi fuori da questo lurido buco. E alla svelta», tagliò corto Petronio Secondo. Le fitte al fianco stavano cominciando a farsi risentire e i suoi uomini attendevano da troppo tempo all’esterno del Ludus Magnus di Pompeio.
Liternum, sette giorni alle idi di settembre.
Nei pressi dell’Anfiteatro.
«Vorresti spiegarmi cosa ci facciamo qui, al calar del sole?», esordì seccato Labieno. «Sono in cerca di pace, amico mio. E poi ho bisogno di riflettere.» «E la vieni a cercare qui la tua pace?», s’infervorò il liberto, «tra le lapidi della Necropoli? A volte mi spaventi, Trebonio.» Il princeps peregrinorum rise di gusto. Una calda brezza proveniente da sud scarmigliava i suoi riccioli corvini sopra la fronte e una strana luce risplendeva nella profondità del suo sguardo, proiettato in direzione della Porta Publia. «Diciamo pure che siamo qui in ricognizione, Labieno», osservò a un tratto Macrino, mentre si voltava a scrutare la stradina che conduceva all’ingresso dell’Anfiteatro. «Non vorrai mica farmi intendere che stai ancora pensando di…» «Shh!», l’ammonì il capo dei frumentari. «Certamente, stupido chiacchierone. Domani notte. Ho chiesto a Pulcro di darci una mano.» «E lui?», chiese esitante lo speziale. «All’inizio ha reagito come te.» «Da persona ragionevole, quindi», lo beccò ironico Labieno. «Poi sono riuscito a convincerlo che si trattava di un’attività fondamentale ai fini dell’indagine», concluse con aria vittoriosa Trebonio. «A proposito d’indagini», ripeté Labieno, «ho scoperto qualcosa d’interessante. Ho l’impressione che qualcuno stia tenendo d’occhio i nostri movimenti in questa faccenda.» Macrino si fermò un istante. Il rossore diffuso dal tramonto sembrava voler
incendiare le campagne situate poco fuori le mura della città, alle spalle della zona nord-orientale. Le folte chiome dei salici, posti a guardia della necropoli, iniziarono a gemere con insistenza, attraversate da un vento improvviso e risoluto che aveva scalzato la docile arietta pomeridiana e le sue arrendevoli carezze. Il capo dei frumentari scrutò a fondo l’espressione pensierosa del suo amico liberto, poi, andosi la destra sul mento volitivo, osservò con attenzione la cupa schiera di nuvole grigie che andava addensandosi velocemente sopra il versante lontano del Literna Palus.
«Stanotte pioverà, caro Labieno», disse infine. Lo speziale restò attonito. Poi esclamò a muso duro: «Hai capito quello che ti ho detto, Trebonio? Qualcuno ci spia, per tutti gli dèi! E tu mi parli del tempo…» A quelle parole, il princeps peregrinorum parve destarsi dall’inspiegabile stato di contemplazione in cui era scivolato. «Certo che ho inteso, brutto stupido! Pensi che sia sordo?» «E allora?», ribatté asciutto Labieno. «Non t’interessa conoscere la natura dei miei sospetti?» «Se vuoi parlarmi di Arminio, conosco in dettaglio tutta la vicenda», si limitò a rispondere Macrino. Il siculo ammutolì. Trebonio aveva forse letto tra i suoi pensieri? O forse Claudia, sentendosi minacciata da quell’individuo viscido e abietto, aveva pensato bene di confidarsi con il princeps peregrinorum? «Hai forse parlato con…» «La bella serva sulla quale hai messo gli occhi?», lo anticipò divertito il capo dei frumentari. «No, caro Labieno. La donna non c’entra.» «E allora come hai fatto a scoprire che volevo parlarti di Arminio?»
«Semplice. La notte precedente al nostro primo incontro con Aurelio Pulcro non riuscivo a prendere sonno così decisi di fare un giro nel peristilio per rilassarmi. Attraversando il corridoio che porta all’atrio, notai che il pancone fuori il cubicolo di Afro era vuoto.» «Continua», s’incuriosì lo speziale. «Lì per lì non diedi molta importanza alla cosa. Pensai che Arminio fosse impegnato in qualche faccenda privata, capisci cosa intendo?» «Certo», sghignazzò il liberto. «Quando ritornai nella mia stanza, erano ate all’incirca un paio d’ore e la porta della camera del duumviro era ancora incustodita.» «Bene. Ora senti cosa ho da dirti io», aggiunse Labieno, impaziente di rivelare al capo dei frumentari la sua misteriosa scoperta. «Fammi finire», lo redarguì Macrino. «Molto probabilmente l’insonnia in questo periodo sta colpendo entrambi visto che, proprio ieri notte, ti ho beccato acquattato sulla gradinata in marmo che collega i due livelli della domus di Afro. Eri intento a origliare il discorso fra Arminio e la bella Claudia.» Labieno trasalì. Un’espressione tesa calò improvvisamente sul suo viso ovale e gli occhi azzurri avvamparono di collera: se c’era una cosa che proprio non gli andava giù, era fare la figura del brocco davanti al suo ex padrone.
«Non ti crucciare, amico mio», cercò di rabbonirlo Trebonio. «È stata solo una fortuita coincidenza il fatto che fossi lì in quel preciso momento. Tuttavia hai fatto un ottimo lavoro, senza dubbio.» «Ottimo, ma inutile», sentenziò il liberto ancora irritato per l’accaduto. «Certo che no!», esclamò il capo dei frumentari. «Nascosto com’ero dietro il pannello di legno posto a chiusura del tablino, sono riuscito a carpire solo qualche parola di quel bisbigliare continuo.» «Io invece ho inteso gran parte del loro discorso», disse in tono di rivalsa lo
speziale. «Speravo andasse così, infatti», ammise il princeps peregrinorum. «Ho avuto la mia conferma quando, poco dopo l’alba, mi hai detto che andavi nella zona del Foro per cercare non so quali semi medicamentosi.» «E quindi? Cosa c’è di strano?» «Per prima cosa, tu che esci di casa all’alba. In tanti anni che ti conosco non hai mai avuto così fretta di fare acquisti. Punto secondo: raggiungendo la zona commerciale alle prime luci, al massimo avresti dato una mano ai venditori a levare i battenti di legno dalle loro botteghe e a sistemare le merci sugli espositori e all’interno degli ambienti.» «E quindi mi hai seguito anche stamattina, giusto?», chiese rassegnato il liberto. «Non ci ho pensato minimamente. Mi fido delle tue capacità e sapevo che avresti portato a termine la tua misteriosa operazione, di qualsiasi cosa si fosse trattato.» «Sai del papiro?», accennò a quel punto Labieno. «Cosa? Quale papiro?», rispose incuriosito Macrino. «Allora lascia che ti descriva come ho trascorso la mattina…» Mentre il siculo parlava, i due si avviarono a o lento verso la casa di Afro, abbandonando la zona della necropoli che si apriva alla destra dell’Anfiteatro. Il tempo andava peggiorando rapidamente e i grossi nuvoloni cinerei avevano raggiunto oramai l’arco trionfale, posto a poche centinaia di i dalla porta d’ingresso di Liternum. «E così il servo devoto di Marco Stazio Afro usa la docile ancella per inviare messaggi segreti a uno sconosciuto individuo dal piglio vagamente militare, giusto?», commentò serafico Trebonio, una volta ascoltata l’interessante rivelazione del liberto. «Proprio così, Macrino. Tra l’altro, quel tipo aveva qualcosa di familiare, anche se non sono riuscito a scorgere il suo viso. Mi sbaglierò ma ho l’impressione di
averlo già visto da qualche altra parte.» «Le tue impressioni si sono rivelate molto preziose in altre occasioni», osservò il princeps peregrinorum, «e questa scoperta inattesa avalla la mia bizzarra ipotesi, che a questo punto non è più tanto assurda.» «Sarebbe a dire?», l’incalzò il siculo, rapito dalla frase pronunciata dal suo compare. «Durante le nostre frequenti discussioni pomeridiane, ho notato qualcosa d’insolito all’interno dello splendido giardino della domus.» Labieno era tutto orecchie e una strana eccitazione montava dal profondo del suo animo. Vedendo il palese interessamento dello speziale, il capo dei frumentari avanzò la sua stramba teoria. «Secondo me, il portico colonnato di Afro è stato posto sotto sorveglianza.» «Non riesco a seguirti. Cosa intendi dire?», chiese interdetto il siculo. «Ricordi la statua di Venere posta lungo il limitare sinistro del giardino?» «Certamente. Un’opera a dir poco mirabile. Peccato che la trascuratezza di Afro la tenga per metà celata tra quel groviglio di mirti e di allori.» «Infatti. Proprio per godere al meglio della bellezza della scultura, ieri mi sono addentrato in quella specie di argine floreale. Beh, alla fine del piedistallo marmoreo su cui è poggiata l’opera ho visto una piccola bocca circolare in argilla. L’apertura fuoriesce di appena un dito dal terriccio che circonda il basamento della scultura.» «Davvero una scoperta affascinante!», motteggiò ironicamente il siculo. Lo sberleffo sembrò non toccare che di striscio Macrino che, al contrario, continuò con voce accalorata la sua narrazione. «Chinandomi per studiare meglio la cosa, ho notato che una lunga striscia di terreno appariva smosso e dissodato da poco, a differenza della restante parte che invece risultava compatta e ben più sbiadita.»
«Dove vuoi arrivare, Trebonio? Siamo quasi arrivati alla domus, dunque ti consiglio di stringere.» «Per farla breve, mi sono accorto che quella lunga serpentina di terriccio rivoltato si sviluppava fino al piccolo divisorio in muratura posto a protezione del biclinio. Aiutandomi un po’ con le mani, ho capito che il terreno era stato scavato per disporre un tubo di argilla il quale sbuca oltre il muro di cui ti ho parlato.» «E guarda caso la statua si trova proprio davanti alla panchina dove noi siamo soliti sostare, protetti dall’ombra del portico», commentò atono Labieno. «Esattamente.» «Devo presumere quindi che Arminio, completamente nascosto dal divisorio e dalla fitta serie di meli presenti nella zona del biclinio, abbia placidamente ascoltato gran parte delle nostre conversazioni e conosca le nostre future intenzioni», osservò amareggiato lo speziale. Macrino annuì, anche se appariva insolitamente tranquillo, quasi allegro. «Non capisco», concluse il siculo, a pochi i dal massiccio portone della residenza di Afro. «Non sembri per niente impensierito.» Macrino lo fissò per un istante. Poi, con aria rassicurante, si limitò a rispondere in tono deciso: «Abbiamo scoperto il suo gioco, caro Labieno. E ora saremo noi a controllare l’astuto Arminio.»
6
Liternum, sei giorni alle idi di settembre.
Nella domus di Marco Stazio Afro.
Il solido battente iniziò a ruotare sotto l’energica spinta di Massavone. Aurelio Pulcro attraversò velocemente l’ingresso, poi attese che il trace lo introducesse alla presenza del duumviro. Il portinaio fece per raggiungere il cubicolo del dominus ma il capo dei vigili lo ammonì improvvisamente. «Hai la coda, Massavone?» Il volto di Pulcro era madido di sudore e arrossato per lo sforzo prolungato e intenso. Aveva raggiunto in pochissimo tempo la casa di Afro, lasciando di corsa la zona centrale del Foro. Il trace lanciò un’occhiata torva all’ospite inatteso. «Tra un po’ inizierà il solito viavai di supplici, meglio lasciarlo aperto.» «Credi a me», rispose convinto, «oggi non ci saranno visite per il tuo padrone. Anzi, faresti bene a richiudere quel portone se non vuoi correre rischi inutili.» Le parole decise di Pulcro indussero Massavone a seguire il suo consiglio. Accompagnata da un profondo cigolio, la pesante imposta ritornò a sbarrare l’ingresso dell’abitazione e così l’atrio e il lungo corridoio furono avvolti nuovamente da una leggera penombra. Dopo, il nerboruto portinaio superò l’ampia sala dell’impluvium e si avviò verso la camera da letto del duumviro di Liternum. Nel silenzio del dilicum, Aurelio Pulcro si sentì improvvisamente circondato da un folto gruppo di amazzoni a cavallo. Queste, abbandonando il maestoso
affresco di cui erano protagoniste, sembravano accerchiarlo su tre lati. Le frecce già incoccate nei loro grandi archi ricurvi, le giovani donne guerriere scrutavano la figura ossuta del soldato con sguardo intenso ed espressione minacciosa, quasi avessero visto dinanzi alle loro cavalcature la preda che stavano braccando da tempo. L’inquietudine prodotta da quella sorta di allucinazione fu tale che, al saluto di Macrino, Aurelio trasalì di colpo. «Ancora lui?», aggiunse Trebonio, dopo avergli dato il benvenuto. Il veterano annuì. Poi cercò di spiegare il motivo della sua agitazione. «Stavolta però ha superato i limiti, figlio di una cagna!» Proprio in quell’istante Massavone fece segno al graduato di seguirlo nel tablino. Trebonio li accompagnava poco dietro, mentre con lo sguardo ricercava affannosamente la rassicurante figura del suo amico liberto. «Salute a te, Pulcro!», esordì Marco Stazio Afro, abbandonando con fatica la comoda seggiola nella quale era sprofondato. «Oramai le tue visite inattese stanno diventando il soggetto principale dei miei incubi notturni.» «Beato te, nobile Afro», ribatté contrariato l’altro. «Almeno la notte riesci ad andare a dormire.» A quel punto il magistrato supremo di Liternum cercò di arrivare al motivo dell’incontro. «Cos’altro è accaduto, Pulcro?» «Devi raggiungere immediatamente la zona del Foro, nobile Afro. La piazza sta cominciando ad affollarsi di gente inferocita. Alcuni sono armati di bastoni e chiedono a gran voce di parlare direttamente con te. La situazione diventa difficile e pericolosa.» «Come mai questa reazione?», domandò stranito Macrino. «Cosa ha scatenato la loro rabbia?» «L’assassino ha colpito di nuovo», commentò atono Pulcro. «Poco prima della fine del conticinium, un servitore del Capitolium ha raggiunto uno dei miei
uomini che era di ronda nella zona del lupanare. Lo schiavo era terrorizzato e ha farfugliato al mio sottoposto di seguirlo al tempio. Poi ha cominciato a correre come un forsennato in direzione del Foro.» «Vai avanti», disse Afro, sprofondando nuovamente nel cuscino imbottito della sua sedia. Il magistrato appariva teso e il suo sguardo era il ritratto della rassegnazione.
Un o oltre la soglia dello studio, il neo arrivato Labieno ascoltava con attenzione le parole del relatore. Di tanto in tanto le sue gemme azzurrine cercavano di incrociare lo sguardo assorto del princeps peregrinorum, provando a inseguirne i pensieri. «Quando è arrivato all’interno della cella tripartita, il vigile ha trovato il corpo dilaniato di una giovane prostituta ai piedi della statua di Giove. Il sacerdote giaceva svenuto a pochi i dal cadavere e il viso della divinità era stato totalmente imbrattato col sangue della lupa. Anche in questo caso l’assassino ha portato via gli occhi della sua vittima e ha posto le viscere intorno al collo marmoreo del padre degli dèi. Ho dovuto piazzare dodici dei miei uomini davanti alle colonne d’accesso al tempio per evitare che la folla potesse vedere lo scempio e il sacrilegio perpetrati dal nostro immondo omicida. Sfortunatamente, quando sono arrivato sul posto, la notizia era già trapelata e frotte di plebei stavano iniziando a rumoreggiare e ad agitarsi.» Il duumviro di Liternum era pietrificato. Il suo viso contratto risplendeva di un pallore quasi lunare e le mani stringevano in maniera spasmodica i comodi braccioli del seggio al quale era seduto.
«È la fine», sentenziò con un filo di voce. «Se la popolazione si lascerà prendere dal panico, dovremo sperare solo in un intervento divino per evitare gli scontri e le persecuzioni contro i maggiorenti della colonia.» Il suo capo perfettamente tondo scivolò all’indietro e un profondo sospiro fece vibrare la sua pingue figura, appesantita dal vizio e dall’abbondanza nei quali aveva trascorso gran parte della sua vita.
«Devi parlare in piazza, nobile Afro», osservò turbato Pulcro. «Cerca di ristabilire l’ordine e di rassicurare la folla. Se non lo farai, stai pur certo che saranno loro a farti visita e ti assicuro che la cosa non sarà piacevole.» «Dov’è ora il sacerdote?», chiese laconico Labieno. «Il mio sottoposto l’ha aiutato a riprendersi, ma era ancora scosso per l’accaduto.» «Dobbiamo assolutamente parlargli», commentò deciso Macrino, guardando dritto negli occhi il suo amico liberto. «Potrebbe fornirci informazioni utili riguardanti il suo aggressore. Ogni particolare può essere fondamentale ai fini della nostra indagine.» «Pensate che lo abbia visto in volto?», suggerì speranzoso Marco Stazio Afro. «Questo è sicuramente da escludere», si affrettò a ribattere Trebonio. Labieno annuì vistosamente, andosi una mano tra la folta chioma. «Già. Se avesse creduto solo per un istante di essere stato scoperto, a quest’ora conteremmo due cadaveri. La sua efferatezza non ha limiti.» La pesante tenda color porpora, che divideva l’ambiente dello studio dall’ameno giardino colonnato, iniziò a ondeggiare impercettibilmente. Sottili lame di luce attraversavano i piccoli spiragli che andavano via via formandosi lungo le pieghe d’incontro dei diversi strati formanti lo spesso divisorio di tessuto. Per un attimo Macrino fu rapito dal suggestivo gioco di colori proposto dai primi bagliori mattutini, tenui e carezzevoli poco dopo il sopraggiungere dell’alba. Poi, non appena incrociò l’espressione turbata e afflitta del duumviro di Liternum, il princeps peregrinorum ritornò velocemente alla cruda realtà dei fatti che stavano discutendo, proponendo all’irrequieto capo dei vigiles una strada per affrontare quella tediosa situazione. «Se vogliamo stemperare gli animi dobbiamo agire alla svelta. Non c’è un momento da perdere. Quanti uomini hai a tua disposizione, Pulcro?» «Qui fuori ne ho cinque», disse asciutto il soldato. «Bene», commentò Trebonio. «Mi auguro siano tipi svegli. Tu, nobile Afro,
dovrai portare con te Massavone, Arminio e un altro paio di elementi validi. Scenderemo tutti insieme e senza lettiga. Una volta giunti al Foro, Aurelio e i suoi ti scorteranno fin su i gradini della basilica e lì cercherai di infondere fiducia alla folla in subbuglio. L’oratoria non ti manca di certo e questo è il momento di sfruttarla a piene mani. Intanto io e Labieno perlustreremo la cella del tempio e faremo qualche domanda al sacerdote. È già stato portato via il corpo della poverina?» «Ho dato ordine di sorvegliare l’ingresso del Capitolium e di soccorrere il ministro di Giove. Tutto qui.» «Sbrighiamoci allora», tagliò corto un insofferente Labieno, «abbiamo chiacchierato abbastanza.» Dopo aver assemblato la sua piccola scorta, Marco Stazio Afro abbandonò le sicure mura della sua domus e si avviò a o svelto in direzione della piazza cittadina. Davanti alla sua sagoma, muta e prominente, procedevano spediti tre dei cinque vigili che avevano accompagnato Pulcro. I restanti ausiliari proteggevano il lato destro dell’alto magistrato, affiancati dall’enorme Massavone. Un accigliato Arminio, seguito da altri due famigli ben piazzati, copriva svogliatamente il lato sinistro di Afro mentre Gaio Trebonio Macrino e Labieno fungevano da retroguardia, chiudendo l’insolita compagnia al seguito del duumviro. A prima vista nessuno di loro appariva armato, eccezion fatta per gli uomini di Pulcro. In realtà gli altri avvertivano nitido il taglio freddo e metallico dei pugnali, stretti in vita sotto le larghe fusciacche.
Avvolto da una leggera brezza proveniente dalle campagne a oriente del Literna Palus, il piccolo drappello avanzava tra gli ampi portoni ancora sbarrati delle abitazioni situate nella parte alta della colonia. Labieno scrutava con aria meditabonda la figura sgraziata del capo dei famigli di Afro. Sfibrata dall’insonnia delle notti precedenti, la mente affaticata dello speziale continuava a lanciarsi in mille enigmatici interrogativi: che cosa tramava in segreto il misterioso Arminio? Chi aveva incontrato la bella Claudia durante il pedinamento del giorno precedente? Qual era l’identità dell’individuo che aveva gettato Liternum nel terrore e nell’isteria? E il suo reale movente? Le voci concitate provenienti dal Foro iniziavano a diventare sempre più vicine e
chiassose. A meno di sessanta i dall’ampio slargo della piazza cittadina, il duumviro della colonia arrestò il suo incedere pesante e sofferto e si voltò in direzione di quelli che considerava i due messi imperiali. La sua espressione era glaciale, così come il tono della voce. Solo una serie di piccolissime goccioline di sudore all’altezza delle tempie lasciava trapelare la tensione che albergava nel profondo del suo animo. «Io mi esporrò in prima persona per cercare di stroncare i pericolosi focolai di questa protesta improvvisa. Da quel momento in poi l’intera città confiderà in me e mi riterrà responsabile della cattura di questo spietato assassino. Se dovesse riuscire a perpetrare anche solo un’altra delle sue nefandezze finirei trucidato per mano dei miei stessi elettori. Datevi da fare, signori», concluse imperioso il panciuto magistrato, «o vi posso assicurare fin d’ora che in tal caso anche voi seguireste la mia miserevole fine.»
Roma, sei giorni alle idi di settembre.
Nella domus di Titinio Capitone.
Seduto sulle levigate assi del palco, Cneo Ottavio fissava neghittoso le cinque file di seggiole e sgabelli che costituivano la platea del suo auditorium. Amilio Coturnato era da sempre un caro amico, nonché uomo probo e dalla morale irreprensibile, ma come scrittore non valeva due sesterzi. I suoi lavori mancavano totalmente d’inventiva e, oltre a essere eccessivamente lunghi, erano pesanti e noiosissimi. Opere mediocri e stucchevoli, riflesso di una totale mancanza d’inclinazione per le arti letterarie. Tuttavia il procurator ab epistulis di Domiziano non aveva potuto sottrarsi alla richiesta d’aiuto del suo vecchio compagno d’armi e si era impegnato a organizzare un banchetto al quale aveva invitato tutti i personaggi in vista dell’Urbe. Alla fine del sontuoso convivio, gli ospiti avrebbero abbandonato lo spettacolare triclinio della sua abitazione per raggiungere la sala delle letture. E lì sarebbe andato in scena lo spettacolo del pomposo Coturnato esposto all’implacabile ludibrio da parte dei più importanti maggiorenti della città.
Durante i tre giorni precedenti, Capitone aveva utilizzato tutti i più subdoli stratagemmi al fine di dissuadere il vecchio amico dal declamare in pubblico le sue composizioni, nondimeno ogni sforzo era risultato vano: Amilio sembrava sicuro di riscuotere un consenso mai visto in precedenza e la sua insistenza era diventata addirittura fastidiosa, ragion per cui Ottavio Titinio aveva ceduto alle preghiere del ricco equestre. Lo sguardo vitreo, perso sul pavimento mosaicato dell’auditorium, il segretario particolare del divino Augusto cercava d’immaginare il momento in cui la lunga serie di sedili, disposti similmente alla cavea di un anfiteatro, sarebbe stata occupata dai suoi rispettabili invitati. Questi sarebbero stati sicuramente desiderosi di omaggiare con lodi ed encomi lo sconosciuto protagonista della serata, presentato nientemeno che dal rispettabile Titinio Capitone, mecenate dei più talentuosi letterati ed egli stesso valentissimo scrittore. E invece avrebbero assistito al panegirico della prolissità e della monotonia, alla massima esaltazione dell’inettitudine e della banalità. L’indomani le voci su quella noiosissima serata e sulla misera figura di Amilio Coturnato e del suo benefattore sarebbero giunte fino a Capua e l’onta della derisione avrebbe accompagnato lo sventurato procurator ab epistulis per un tempo infinitamente lungo… Senza parlare delle battute acide e spietate che gli avrebbe riservato Domiziano, una volta ritornato nel palazzo imperiale. Gli serviva un’idea che riuscisse a cavarlo d’impaccio, una sorta di excusatio non petita, magari celata dietro un’introduzione a effetto, che potesse creargli un alibi efficace per la successiva caduta di stile causata da Coturnato. Abbandonando le tavole appena rinnovate della scena, Capitone si avviò con o deciso in direzione del lungo corridoio dal soffitto a volta che conduceva alla zona del tablino. Una volta varcato l’ingresso del suo elegante studio dalle pareti affrescate con finte colonne corinzie, il prode cavaliere al servizio dell’imperatore raggiunse il seggio posto dietro lo splendido desco in legno di cedro e si immerse completamente nella stesura di una breve ma seducente prefazione alla futura lettura di Amilio. Il concetto da proporre al suo autorevole auditorio doveva ruotare intorno alla filantropia della sua persona, quell’innata generosità per la quale andava famoso e con la quale metteva a disposizione i suoi cospicui mezzi in favore di tutti gli autori che ne richiedessero il sostegno, indistintamente dal tipo di lavori trattati e dalle loro abilità letterarie. In questo modo sarebbe riuscito almeno a mascherare la sua complicità in quell’immeritevole lettura, dichiarandosi allusivamente ignaro di ciò che
avrebbero ascoltato i suoi benemeriti ospiti. Proprio mentre era intento a vergare il rotolo che aveva sottomano con le prime righe di quella sorta di arringa difensiva, Titinio Capitone fu interrotto dall’arrivo di Tiberio, il suo fidato liberto di origine campana. «Scusami, dominus», esordì in tono rispettoso l’anziano collaboratore, «ma il prefetto del pretorio attende nell’atrio. Dice di doverti parlare con una certa urgenza.» «Il sordo?», domandò Ottavio con voce inquieta. «No, dominus. Si tratta di Norbano.» A quel punto il procurator abbandonò gli strumenti di scrittura, alzandosi lentamente dalla sedia, e si avvicinò allo spesso telo vermiglio che, seguendo lo sviluppo del lato lungo del tablino, divideva l’ufficio di Capitone dal giardino colonnato. «Accompagnalo nel peristilio», ordinò rassegnato il segretario particolare di Domiziano, «e digli che arriverò a momenti.» Tiberio accennò un inchino e si avviò rapidamente verso l’atrio della domus. Poco dopo, Ottavio Titinio Capitone raggiunse il vasto portico che si apriva nel centro dell’abitazione e notò che il suo inaspettato visitatore sostava seduto all’ombra di un piccolo platano. «Salute a te, valoroso Norbano», esordì in tono conciliante il padrone di casa. «Vedo con piacere che hai accettato il mio invito al modesto convivio organizzato per stasera.» Il prefetto del pretorio gli andò incontro sorridente, tuttavia l’espressione del suo viso era beffarda e sorniona. «In effetti ho ricevuto il tuo codicillum, ma sono qui per un motivo diverso, una faccenda ben più importante. Del resto ho fretta di ritornare al Lararium prima dell’ora duodecima e vorrei sbrigarmi quanto prima possibile.» Alle parole di Norbano i tratti del volto di Capitone divennero tirati e i grandi occhi castani s’incupirono rapidamente, lasciando trasparire un sottile velo
d’inquietudine. «Parla dunque», commentò guardingo Cneo Ottavio, «per quale motivo sei qui?» «C’è bisogno di un tuo intervento a Liternum, amico mio», spiegò imibile uno dei due capi della guardia pretoriana. «Abbiamo il sentore che il tuo Voreno stia iniziando a cedere.» «E cos’altro volete da me?», esclamò stizzito. «Vi ho già appoggiato abbastanza in questo scellerato disegno di morte! Sono stufo di voi e dei vostri infidi piani! Se non hai altro d’aggiungere, io ritorno al mio lavoro…» Ottavio Titinio fece per voltarsi in direzione del tablino ma Norbano afferrò il suo avambraccio sinistro, iniziando a stringerlo vigorosamente con la sua presa ferrea. «Ti senti forte, vero? Brutto codardo! Sai di essere il suo protetto, l’unico a non rischiare la testa, e per questo ora vorresti tirarti indietro. Ma sappi che anche la tua zucca è in pericolo, caro Capitone, e forse sarà l’unica a cadere!» Ottavio restò per un attimo sgomento. Cosa significavano quelle parole? Che cosa stavano tramando gli altri congiurati? «Non riesco a capire», si affrettò a rispondere il segretario particolare dell’Augusto. Il suo tono era tornato mansueto e accomodante, anche se una strana luce inquisitoria risplendeva nel suo sguardo. «Seppur contrario e riluttante, ho sposato la vostra causa cercando di aiutarvi in tutti i modi possibili ed esponendomi più di tutti all’ira dell’imperatore. E voi, come ringraziamento per il mio sostegno, state pensando di levarmi di mezzo?» Norbano si avvicinò al volto cereo e sudaticcio del suo interlocutore. Poi, allentando la sua stretta micidiale, chiarì il senso delle parole che aveva appena proferito. «Alcuni hanno insinuato che tu possa essere tentato di confidare il nostro piano al divino Augusto, caro Titinio. Io però ho riflettuto a lungo e sono riuscito a convincere tutti del contrario.» «Non ho mai pensato di far una cosa del genere», ribatté con fermezza l’ab epistulis.
«Lo penso anche io, Ottavio», osservò sorridente Norbano. «Prima di tutto perché, anche se rivelassi la cosa a Domiziano, la sua ira si abbatterebbe anche sulla tua persona, ovviamente dopo aver fatto trucidare tutti gli altri congiurati.» Capitone ascoltava imbambolato le elucubrazioni dell’ufficiale. «Secondo punto, non meno importante», riprese il capo dei pretoriani, «resta il fatto che, appoggiando la nostra causa, ti assicureresti onori e glorie nonché la possibilità di continuare il tuo prestigioso lavoro anche una volta salito al principato il nuovo Augusto.» «Bisognerebbe conoscere il pensiero di Nerva a riguardo», aggiunse leggermente lusingato Ottavio Titinio. «Il nobile senatore ti ammira molto e si è detto felice di averti al suo fianco quando arriverà il fatidico momento», rispose asciutto il prefetto del pretorio. Una volta calmatisi gli animi, i due sedettero a una delle panche di travertino presenti lungo il lato occidentale dell’ampio giardino colonnato e, sotto la fitta ombra offerta da un pergolato di legno, cominciarono a discutere gli ultimi accadimenti avvenuti nella colonia di Liternum. «Capisci bene che non possiamo rischiare di mandare tutto all’aria per colpa del tuo lenone», disse a un tratto Norbano. «Cosa vuoi che faccia?», chiese pensieroso il procurator. «Basterebbe che tu ordinassi a Voreno di tenere ancora aperta l’attività.» «Ma con quale scusa? Non posso certo biasimarlo per la sua apprensione. Chiunque, estraneo alla faccenda, sarebbe stato assalito dal terrore e avrebbe chiuso già da un pezzo il lupanare. Lui invece, a causa delle mie insistenze, continua a far lavorare le sue donne. Sicuramente la cosa sta iniziando a suscitare parecchi sospetti.» «E allora cosa proponi di fare?», domandò spazientito Norbano. «Io penso che, arrivati a questo punto, non corriamo più pericoli qui a Roma. Certo, il nostro uomo dovrà continuare a impegnarsi nel suo lavoro.»
«Consigli di cambiare obiettivi?», ipotizzò interdetto l’ufficiale. «Proprio così. Domani alle prime luci dell’alba farai in modo che Vulpecula sia fuori il portone della mia domus. Tiberio, il mio liberto, gli consegnerà un messaggio da recapitare a Voreno nel quale concederò al lenone di prendere le decisioni che ritiene più adeguate in riferimento alla situazione di Liternum. Vedrai che il rosso si sentirà immediatamente sollevato e chiuderà ben presto l’attività, tornandosene alla svelta al suo podere.» «Così rischiamo parecchio», commentò preoccupato il prefetto del pretorio. «Se Domiziano dovesse richiamare Trebonio Macrino…» «Non preoccuparti», l’interruppe con voce rassicurante il segretario imperiale. «Conosco quei due meglio di chiunque altro: il divino Augusto è totalmente immerso nelle sue oscure trame, atte a cambiare per sempre il volto del nostro Senato. Per quanto riguarda Macrino, stai sicuro che non si darà pace fin tanto che non avrà acciuffato l’omicida delle lupe. È ostinato e ha una volontà di ferro.» Norbano lanciò un’occhiata oltre la tettoia del lungo pergolato. Il sole stava cominciando a calare e anche l’afa sembrava scemare timidamente grazie all’arrivo di una fievole brezza pomeridiana. Alzandosi dalla panca, l’ufficiale accarezzò lievemente le piastre di bronzo sbalzato presenti sulla sua lorica muscolata. Infine, con aria stanca, si affrettò a sottolineare ciò che maggiormente gli premeva. «Per quanto mi riguarda, desidero solo che i Castra Peregrina siano all’oscuro di tutto quando verrà il momento di agire. A tenere a bada i nostri ci penserà Petronio mentre quelli del Celio sono cavalli senza padrone.» «Sai bene che i frumentarii e gli speculatores prendono ordini solo dal loro princeps peregrinorum», concluse sghignazzando Cneo Ottavio. Dopo aver salutato il suo ospite, il procuratore si ritirò nuovamente nello splendore del suo raffinato tablino, dove riprese con ione la composizione del preludio alla lettura di Coturnato. Norbano raggiunse velocemente l’atrio della domus e pochi momenti dopo era già in strada, percorrendo l’ampio lastricato che puntava in direzione del clivus Scauri: prima di ritornare al Lararium avrebbe cercato di contattare Vulpecula.
Liternum, sei giorni alle idi di settembre.
Alla taverna “Croce del Sud”.
Macrino smise di parlare e ò a osservare disturbato con quanta bramosia il suo amico speziale affondasse la testa nella scodella di terracotta. Labieno sembrava totalmente assente, impegnato anima e corpo a trangugiare con impegno la gustosa zuppa di lenticchie che aveva tra le mani, insaporita da piccoli pezzi di carne di maiale dapprima lessati e poi rosolati in un intingolo aromatizzato. «Per tutti i numi! Ma sei riuscito ad ascoltare almeno una parola di quello che ho detto?», tuonò irritato il capo dei frumentarii. Alzando il capo quel tanto che bastava per adocchiare l’espressione collerica di Trebonio, il liberto si limitò ad annuire lievemente prima di rituffarsi con ardore nella sua attività preferita. La locanda non era molto frequentata e un unico garzone, grassoccio e indolente, si trascinava con o svogliato da uno all’altro dei pochi tavolacci occupati, segnando comande e servendo pietanze. L’interno dall’angusto locale, dalle pareti dipinte di un giallo zafferano oramai stinto, appariva spoglio e poco accogliente. Tuttavia la sala si presentava ben illuminata e dal piccolo ambiente della cucina una delicata fragranza di pane appena sfornato si spandeva fra i vecchi panconi in legno, lisi e in gran parte traballanti. Quand’ebbe vinto l’abbondanza della sua zuppa di legumi, Labieno tracannò d’un fiato un intero boccale di rosso d’Etruria. Poi si lasciò andare a un fragoroso rutto, segno che aveva ben gradito il saporito lavoro del taverniere. «C’è qualcosa di strano in quest’ultimo omicidio», riprese a dire Trebonio, una volta recuperata l’attenzione del suo commensale. «Non penso che l’assassino abbia voluto oltraggiare il padre degli dèi. Anzi, entrando nella cella ho avuto quasi l’impressione che si trattasse di un morboso rituale religioso, una specie di
sacrificio umano in onore di Giove.» «Ho avuto la stessa sensazione», confermò lo speziale dopo aver ascoltato le parole di Macrino. «E penso anche di essere riuscito a capire il perché del suo atroce comportamento.» Il capo dei frumentari sorseggiò le poche dita di idromele rimaste sul fondo della sua coppa, poi lanciò un’occhiata torva al panciuto scansafatiche che tardava a portargli le sue focacce al miele con contorno di uova e funghi. Il liberto notò l’espressione seccata del suo ex padrone e si affrettò a sghignazzare divertito. «Un’attesa snervante, vero? Ritornando all’omicida, credo che si sia trovato spiazzato all’ultimo momento.» «Non ti seguo», ammise asciutto Trebonio, senza distogliere lo sguardo dall’accidioso garzone della locanda. «Allora cercherò di spiegarmi meglio», continuò lo speziale. «Arrivato in prossimità del vicus Gaudii, l’assassino si è accorto di essere stato giocato: nei pressi del lupanare ha ritrovato la ronda notturna ordinata da Pulcro. Mi intendi?» «Certo, vai avanti.» «Bene. Il nostro uomo è ostinato, caparbio… e non si arrende facilmente. A quel punto ha atteso nell’ombra che la coppia di vigiles terminasse il suo giro d’ispezione, allontanandosi verso l’acciottolato alle spalle del bordello. Ieri era luna nuova e quindi pensava di approfittare della completa oscurità delle ore notturne.» «Per fare cosa? Hai appena detto che si è ritrovato bloccato dalla presenza degli uomini di Pulcro», intervenne il princeps peregrinorum. «Dimentichi con chi abbiamo a che fare, amico mio», l’ammonì bonariamente Labieno. «Ricordi lo stratagemma della corda? È un tipo astuto e imprevedibile. Si è nascosto sicuramente da qualche parte, aspettando il momento propizio per agire in maniera fulminea.» «La tua ricostruzione non mi convince, Labieno.»
«Ne hai una migliore?», sbottò collerico il liberto. Macrino tacque, limitandosi a guardare il suo interlocutore con aria di sufficienza. «Bene. Allora lasciami finire. Per una strana e fortuita coincidenza, per la quale convengo di non riuscire a trovare ancora una spiegazione plausibile, il nostro uomo ha notato a un tratto la figura di una giovane prostituta che abbandonava l’ingresso del lupanare, dirigendosi verso la zona del Foro.» «A quel punto ha seguito la sventurata, cercando di sfruttare il momento opportuno per trucidarla», commentò distratto Macrino. La sua attenzione era rivolta a un gruppetto di giovani ispanici che aveva oltreato poco prima la soglia della taverna, occupando velocemente alcuni panconi disposti lungo la parete che delimitava il fondo della sala. I loro lineamenti erano decisi e avevano la pelle raggrinzita e bruciata, segno di una continua esposizione al sole. Un paio di quei tipi erano corpulenti, gli altri smilzi e dall’aspetto scaltro. I modi rozzi e le risate sguaiate dell’infida brigata si accompagnavano perfettamente alle loro sagome volgari e fastidiose da tipici sfaccendati attaccabrighe. Labieno si affrettò a riguadagnare l’interesse di Trebonio, paventando la fine della pace nell’anonima taverna. «Ora viene la parte interessante. L’omicida ha pedinato da lontano la lupa ma è rimasto interdetto quando l’ha vista attraversare le colonne del Capitolium. Forse avrà anche pensato per un momento di abbandonare la sua macabra idea, data la sacralità del luogo. Poi però è stato accecato dalla smania di uccidere: quindi è entrato nel tempio e mentre raggiungeva la cella tripartita ha notato la presenza del sacerdote. Dopo averlo tramortito, ha eliminato la giovane prostituta, sacrificandola come un agnello in onore del padre degli dèi. La sua incertezza nell’agire è avvalorata dal fatto che ha lasciato in vita il ministro del dio, non credi?» «Chissà», titubò Macrino. «Forse ha pensato che Giove avrebbe perdonato le sue azioni, facendo are quell’atto sacrilego come un rito propiziatorio in favore della divinità, appunto.» «La cosa che davvero non riesco a capire», continuò dubbioso lo speziale, «è come sia riuscita a entrare la donna nella cella del tempio e come mai si trovasse lì a quell’ora.»
Il capo dei frumentari accennò un leggero sorriso e i suoi profondi occhi verdi scintillarono al chiarore della lucerna poggiata giusto al centro del loro desco. «Questo lo so io, caro Labieno. E ti assicuro che non riusciresti mai a scoprirne il motivo.» «E allora? Cosa aspetti a parlare?», lo incalzò smanioso il liberto. «Non qui, amico mio», concluse brevemente Trebonio. «Questo posto è diventato improvvisamente affollato e io ho atteso fin troppo a lungo la mia comanda. Usciamo fuori.» Le vie di Liternum apparivano oramai vuote e desolate. Una fresca arietta iniziò a calare velocemente sulla colonia, trascinata da un pallido tramonto che andava gradualmente caricandosi di stupendi riflessi purpurei, incastonati nel blu intenso di un cielo limpido e benevolo di fine giornata. I due messi imperiali si avviarono lentamente in direzione delle terme, situate nella zona nord-orientale della città. Da lì lo sguardo poteva estendersi sconfinato sulle lussureggianti campagne che occupavano la striscia di terra situata tra l’arco trionfale e il versante meridionale del Literna Palus. Alle sue spalle, la fitta selva mediterranea dominava silenziosa gran parte delle sponde di quel lago, a metà strada tra un acquitrino e un bacino idrografico.
7
Liternum, cinque giorni alle idi di settembre.
Nella domus di Marco Stazio Afro.
Il vento ululava gagliardo tra le fronde nodose dei meli e degli allori. Attraversando la zona del peristilio, la sua voce giungeva possente e cupa, accompagnata dall’intenso profumo dei gelsomini e dei prunalbi che impreziosivano lo splendido giardino colonnato dell’abitazione. Arminio giaceva immobile sul suo lungo pancone di legno. Un sacco di juta, riempito di piume, fungeva da cuscino mentre indosso aveva solo una sottile mantella di lana grezza per difendersi dal pungente freddo notturno. Nascosto dall’oscurità dell’inclinatio, Labieno se ne stava rannicchiato sul fondo del lungo corridoio che si apriva alle spalle dell’atrio. L’attesa iniziava a snervarlo, e ancor di più il russare ritmico e intenso del capo dei famigli. Macrino era sgattaiolato fuori dalla casa di Afro verso l’inizio della nocte concubia, appena terminato il dovizioso banchetto offerto dall’alto magistrato, e aveva ordinato al liberto di sorvegliare l’ingresso secondario dell’abitazione fino alla sua venuta, tenendo sempre d’occhio i movimenti di Arminio. Erano già trascorse un paio d’ore da quando il siculo aveva occupato la sua posizione strategica e chissà per quanto tempo ancora avrebbe dovuto aspettare il furtivo rientro del suo ex padrone. Data l’impossibilità di agire, la mente irrequieta dello speziale cominciò a elaborare la lunga serie d’incresciosi avvenimenti che avevano caratterizzato fino a quel momento il loro breve soggiorno nella sfortunata Liternum. Partendo dall’ultimo omicidio, le rivelazioni di Trebonio avevano gettato ombre anche sull’insospettabile figura del ministro di Giove. Voreno non aveva avuto problemi a spifferare al capo dei frumentari i particolari della tresca amorosa tra il sacerdote e la bella Sabina, la lupa assassinata all’interno del Capitolium. Da quanto cincischiava il lenone, i
due amanti erano soliti suggellare i loro reconditi incontri nella cella dedicata al padre degli dèi, approfittando del favore della notte. A quel punto le testimonianze del vecchio Tito Spurinna e del suo schiavo andavano considerate almeno opinabili, specialmente la parte riguardante la storiella della giovane donna giunta al tempio per celebrare un occulto rito purificatorio alla presenza del sommo Giove. Altro grosso interrogativo proveniva dal comportamento alquanto stoico del proprietario del lupanare. Chiunque, trovandosi nelle sue stesse condizioni, avrebbe chiuso su due piedi l’attività, atterrito al solo pensiero di poter incrociare la strada di quell’assassino empio e sanguinario. Invece Voreno il rosso continuava a far lavorare le sue giovani schiave, quantunque le visite dei clienti abituali fossero diventate sempre più sporadiche e frettolose. Dopo il secondo omicidio, Pulcro aveva offerto una pattuglia di ronda allo scopo di sorvegliare gli accessi al bordello ma il lenone aveva rifiutato con fermezza l’aiuto del capo dei vigiles, spiegando che i suoi clienti preferivano divertirsi senza dover rischiare di essere riconosciuti. «Gente strana», aveva confessato il rosso. «Però paga bene e in anticipo.» Ovviamente, dopo il quarto omicidio, l’offerta di Aurelio Pulcro si era tramuta di colpo in imposizione e il proprietario del lupanare aveva dovuto accettare a malincuore le decisioni del graduato. Eppure quel misterioso e feroce criminale era riuscito a colpire di nuovo, e questa volta aveva agito in maniera ancora più immonda e spietata, rasentando il sacrilego e divertendosi a sfidare l’intera popolazione di Liternum. Era come se, con la sua opera, l’assassino cercasse in tutti i modi di far montare la frustrazione e la rabbia dei cittadini, facendosi beffe dei loro esimi rappresentanti e del piccolo gruppo di militi destinati al controllo della pubblica sicurezza.
Labieno non riusciva a capire cosa spingesse il maniaco a trucidare quelle povere sventurate, giovani donne già private della libertà e costrette a una vita di sofferenze e umiliazioni da individui che le trattavano alla stregua delle bestie. Pesanti goccioloni di pioggia cominciarono a battere con insistenza sui coppi di terracotta posti a copertura della domus. Pochi istanti dopo, alcuni lampi
balenarono minacciosi nella cupa profondità di un cielo caliginoso, completamente velato di nubi, e l’aria fu squarciata dal fragore assordante dei tuoni. L’intensità del vento scemò di colpo, diffondendo, dalle scuderie che limitavano la parte settentrionale della villa, un odore pungente di letame misto alla paglia umidiccia. Oramai erano giorni che il liberto non riusciva a chiudere occhi e la stanchezza iniziava a minarne il fisico già di per sé asciutto. Seduto sul pavimento mosaicato del corridoio e con la schiena poggiata alla fredda parete dell’anticamera del triclinio, lo speziale fu assalito da un improvviso torpore e cadde in un sonno profondo ma, dopo circa mezz’ora, fu svegliato da un lungo fischio proveniente dall’esterno dell’ingresso secondario. Udendo il segnale convenuto, il siculo si tirò velocemente su e si avviò circospetto verso il portellone in legno di faggio che ne bloccava l’accesso. Sfilò in fretta il paletto inserito nell’anello del battente e si ritrovò davanti alla figura incappucciata di Trebonio Macrino, bagnato fradicio e sporco di fango fino alle ginocchia. «Com’è andata?», sussurrò con aria smaniosa Labieno. «Male», tossì stizzito il capo dei frumentari mentre, superando la soglia, abbandonava la paenula grigia e imbrattata di terriccio nella quale era rimasto imbacuccato fino a quel momento. Poi aggiunse con aria rassegnata: «Abbiamo scavato in lungo e in largo tutta la zona che ci aveva indicato l’addetto alle sepolture, ma non abbiamo trovato traccia dei corpi delle lupe.» «Grandi numi!», si lasciò sfuggire a voce alta il liberto. «Non possono essere spariti!» «Infatti. Qualcuno li ha trafugati, conoscendo in anticipo le nostre intenzioni. È l’unica spiegazione plausibile.» «Hai trovato segni di rinterro? «Stranamente no», rispose sottovoce Macrino. «Il suolo era coeso e abbiamo faticato parecchio per conficcare i nostri badili nel terreno. Chiunque abbia lavorato lì prima di noi ha avuto il suo bel da fare per spianare e ricompattare il tutto.»
Labieno raggiunse in pochi i l’elegante tavolino in marmo che stazionava alla sinistra dell’ingresso di servizio e afferrò la piccola lucerna in bronzo che vi era poggiata sopra. Velocemente accese la miccia di lino, impregnata d’olio d’oliva, e una luce chiara e vivissima si diffuse pochi istanti dopo nel limitato vestibolo, rischiarando il viso cereo e bagnato del capo dei frumentari. I suoi occhi apparivano arrossati dalla stanchezza e infossati nelle orbite mentre lo sguardo, stranamente spento, si perdeva oltre l’anticamera di collegamento al corridoio principale della domus. Avvicinando la fiamma alla figura di Trebonio, il liberto notò che le gambe del suo amico tremavano e la sua fronte era imperlata di piccole goccioline di sudore. A quel punto appoggiò la destra sul viso di Macrino e si accorse che era caldo come il fuoco. «Hai bisogno di riposare, amico mio. Sei pallido e debole, colpa della dea Febris che ti ha punito con il suo morbo. Ora ti accompagnerò al tuo cubicolo e domani vedrò di prepararti un infuso di silfio. Una bella dormita e un po’ di calore faranno il resto.» Macrino si limitò ad annuire con aria assente, poi, sorretto dal liberto, recuperò a fatica la soglia della sua camera da letto. Labieno lo aiutò a infilarsi sotto le lenzuola, quindi aprì l’arca poggiata alla parete corta della stanza e ne tirò fuori una coperta di lana mista a cotone, sistemandogliela intorno alle spalle. «Che mi dici di Arminio?», sussurrò affaticato Trebonio, mentre il suo amico si apprestava a lasciare la stanza. «Dopo il banchetto ha fatto il solito giro d’ispezione e poi ha raggiunto il suo pancone. Sono ore che russa profondamente.» Macrino scrutò per un istante la figura smilza del siculo, illuminata dal chiarore della lucerna che ancora stringeva nella sinistra. Lo salutò con un cenno del capo e il liberto sparì velocemente. Fuori, la pioggia insistente non accennava a diminuire. Disteso sul comodo giaciglio e avvolto nel buio opprimente della camera, Trebonio ripensò per qualche istante alla sua infruttuosa spedizione notturna e un’espressione sfiduciata gli si dipinse sul viso provato. Doveva trovare una soluzione, e alla svelta.
Una strana forma di ansia cominciava ad attanagliare il suo animo e non riusciva a scorgere il motivo di tale inquietudine. Era come se la sua mente fosse irrequieta e guardinga, quasi presagisse l’avvento di un enorme pericolo, totalmente avulso dagli incresciosi accadimenti che sembravano aver maledetto per sempre la sventurata cittadina.
Forse si trattava di una disgrazia imminente, dalle proporzioni spaventose, o forse era solo il morbo che stava lentamente offuscando la sua logica ferra e le sue spiccate capacità di analisi. A quel punto non gli restò che prendere un lungo respiro e abbandonarsi per qualche ora all’oblio di un sonno profondo. Una bella dormita l’avrebbe sicuramente rimesso in sesto, allontanando quei pensieri tetri e minacciosi dalla sua mente confusa.
Minturnae, cinque giorni alle idi di settembre. Lungo la via Appia.
Il roano vinoso di Vulpecula galoppava oramai trafelato, dopo aver divorato per ore l’ampio lastricato ancora umido della Regina viarum. Il caldo asfissiante dell’ora sesta aveva cancellato in breve tempo il ricordo del vigoroso fortunale abbattutosi sul litorale durante la notte, eppure i grandi basoli di roccia eruttiva continuavano a mostrare i segni della spessa fiumana sotto la quale erano stati seppelliti fino alle prime luci dell’alba. Il frumentario aveva le gambe irrigidite per la lunga cavalcata mattutina e lo stomaco iniziava a borbogliare dalla fame. La partenza da Roma era stata rapida e frettolosa e non aveva avuto il tempo di buttare giù neanche una fetta di pane abbrustolito, magari cosparso di miele. Arrivato fuori la domus di Capitone, il vecchio Tiberio gli aveva consegnato alla svelta il rotolo contenente il messaggio da recapitare al fulvo prestanome del procurator ab epistulis. Oltre a ciò, aveva ricevuto una piccola fiasca, rivestita in pelle di bue e riempita per metà con un
rosso speziato e robusto. Sei ore in sella al suo cavallo e giusto pochi sorsi di vino. Niente soste, neanche per pisciare. Ed ecco che ora smaniava per raggiungere le porte di Minturnae, in cerca di una popina qualsiasi nella quale ristorarsi dopo la fatica della lunga cavalcata. Appena intravide le mura della colonia, Vulpecula mise il suo corsiero al o per dargli un po’ di tregua dopo la folle corsa in direzione di Liternum. Attraversò l’ingresso della cittadina nella confusione dell’ora dedicata al prandium e s’incamminò verso l’affollata zona del porto, percorrendo lentamente la parte della via Appia che fungeva da decumanus maximus. La strada sembrava spaccare temporalmente in due lo sviluppo dell’intero tessuto urbano: a nord resisteva la parte della colonia di epoca repubblicana, con la grande area dedicata al Foro e dominata dalla presenza dell’antico Capitolium. Il suo timpano brunito, sormontato da tre statue marmoree negli angoli, si affacciava austero sul grigio lastricato che ricopriva la via e la doppia fila di colonne tuscaniche, colorate per metà di rosso, formava una sorta di ridotto propileo davanti al quale si aprivano le tre celle sacre destinate a Giove, Minerva e Giunone. Alla sua destra, verso est, si scorgeva la sagoma di un tempietto di più modeste dimensioni, preceduto da una lunga gradinata di accesso. Quello era il sacello dedicato al divo Giulio, dittatore perpetuo di Roma e padre del princeps per antonomasia, il più grande fra gli imperatori, il sommo Ottaviano Augusto. Alle spalle del lungo portico colonnato che conteneva l’intera estensione del Foro, con le sue innumerevoli tabernae dismesse e le sue tribune rovinate dal tempo, svettava silenziosa l’imponente figura dell’anfiteatro cittadino, forse la più antica costruzione fra quelle edificate nella comunità marittima di Minturnae. La zona meridionale era invece di nuova realizzazione, molto più conforme alle regole architettoniche che rappresentavano il modello costruttivo utilizzato fin dagli anni di Vespasiano.
Il Foro imperiale era costituito da uno slargo pavimentato intorno al quale si sviluppavano le sagome della Curia e della basilica, simboli della giustizia e del diritto romano. Sul versante orientale, la piazza pubblica era delimitata dall’ampia zona dedicata al macellum, caratterizzato al suo interno da una prolungata corte scoperta a pianta rettangolare. Al centro del mercato era stata
realizzata un’appariscente fontana, utilizzata oramai come vasca per la vendita dei pesci, mentre, all’ombra dei portici, una moltitudine di tavolacci e banconi era occupata dalle svariate mercanzie dei rivenditori, accorsi in città dalle campagne limitrofe e dalle colonie vicine, decisi a trarre giusto profitto dalla vendita dei loro prodotti. Infine, alle spalle del Foro, defilato sulla sinistra, il complesso edilizio delle terme urbane attendeva l’arrivo dei primi, zelanti clienti. Vulpecula voltò per una stradina che incrociava il decumano ai tre quarti del suo intero sviluppo, deviando verso la punta sud-occidentale di Minturnae. Imboccando il vicolo ciottoloso, il legionario notò l’ingresso di una popina, mezzo nascosto dal carretto traballante e lurido di un venditore ambulante di salsicce. Pochi istanti dopo aveva già legato il suo roano a un vicino sughero dall’alto fusto e si apprestava a varcare la soglia del thermopolium. Superato il lungo pancone a L, Vulpecula si accomodò a un tavolo situato di fronte al vano che ospitava, sul fondo, la scala d’accesso al soppalco superiore. Una tenda giallina, di stoffa leggera, provava a celarne l’interno ma non riusciva a nascondere appieno la sagoma abbondante di uno schiavo, intento ad armeggiare con delle grosse anfore d’olio.
Un garzone smilzo e dall’aria sveglia prese velocemente la comanda del legionario, quindi si allontanò a o svelto in direzione della fumosa cucina. Il soldato lo osservò con aria stanca. Il capo, flesso sul lato, era sorretto dalla mano destra. Questa accoglieva nel suo palmo una guancia smunta e abbronzata, resa ispida da una barba lunga di tre giorni, mentre il pollice scivolava avanti e indietro sotto il mento risoluto. Il caldo andava scemando con lentezza e la popina cominciava a riempirsi di pescatori e artigiani. Una giovane donna oltreò la soglia del locale e, dopo aver salutato il proprietario, si diresse verso il pancone al quale era accomodato l’esausto frumentario. Aveva capelli color mogano, soffici e rilucenti, e ciglia lunghe e ricurve. Lo sguardo, ionale e intenso, contraddiceva visibilmente l’impressione suggerita dal suo fisico minuto, seppur attraente. Arrivata davanti all’apertura riparata dal sottile velo paglierino, la ragazza si volse per un istante a scrutare con ardore la sagoma del legionario, dopodiché s’infilò oltre la soglia del limitato ambiente. Il rumore dei suoi i che salivano la piccola scala in legno sgusciò debole all’esterno di quell’angusto retrobottega, fino a raggiungere la sala adibita a mensa.
Marco Valerio Voluso, soprannominato Vulpecula, fu tentato dal rapido ammiccamento della lupa. In un primo momento pensò di cedere alle lusinghe della vogliosa giovinetta e già stava per alzarsi dal suo scomodo sgabello, puntando lo sguardo dritto oltre la piccola apertura presente nella parete alla sua destra. Era oramai in piedi quando vide avvicinarsi il garzone con la sua porzione di costolette d’agnello in salsa di funghi. Nell’altra mano il giovane reggeva una brocca di Sabino misto a un quarto d’idromele. A quel punto i dubbi sparirono. Il frumentario si riaccomodò al suo posto e iniziò a trangugiare avidamente il costoso pasto, accompagnando ogni boccone con pezzi di focaccia all’olio. Una fame spietata spazzò via di colpo gli astuti allettamenti della giovane donna, quasi come se il soldato non avesse mai assistito a quella scena vagamente sensuale. La testa era china nella capiente scodella e, per il tempo sufficiente a terminare la rapida abbuffata, Vulpecula non pensò ad altro che estinguere velocemente il debito che da troppe ore oramai aveva contratto con il proprio stomaco. Mentre raschiava il fondo rosso della terrina con gli ultimi brandelli di schiacciata, il legionario vide un tipo dinoccolato oltreare la tenda del piccolo deposito e salire spedito verso il basso soppalco. Seguì un cigolare insistente, accompagnato da una lunga serie di gemiti femminili, soffocati a fatica. Vulpecula sorrise divertito. Per la prima volta nella sua vita aveva preferito i piaceri della tavola a quelli della carne. Ma in fondo era giusto così: doveva raggiungere Liternum prima di sera e non poteva di certo vanificare gli sforzi compiuti fino a quel momento solo per il gusto di intrattenersi un paio d’ore fra le braccia di una giovane meretrice. Al suo ritorno nell’Urbe avrebbe sicuramente pareggiato i conti, magari facendo una puntatina nel cubicolo di Lydia, nella zona della Suburra.
Dopo aver pagato il locandiere, il frumentario si rimise velocemente in sella al suo purosangue e continuò a cavalcare per portare a termine il suo lavoro di messaggero. E di traditore. Ebbene sì, aveva tradito il suo superiore, il princeps peregrinorum, e lo aveva fatto per soldi e sotto il miraggio di una promessa: a cose fatte Petronio Secondo
avrebbe ricompensato il suo impegno reintegrandolo nel corpo dei pretoriani. Era stufo di doversi spostare continuamente per le diverse province dell’impero, alla costante ricerca di soffiate e di segreti. A volte comprati a poco prezzo, più spesso estorti dando piglio a una violenza inaudita. Non voleva essere più causa di rappresaglie e assassinii e desiderava abbandonare per sempre la scomoda vita dell’informatore, svestire una buona volta la maschera spiacevole e denigrante dello spione. “Pecunia non olet”, amava ripetere il divino Vespasiano, uomo probo e magnanimo, vanto di virtù e amato dal suo popolo. Se quelle parole erano state enunciate dal padre del divino Augusto, a maggior ragione potevano valere anche per lui, chiamato nell’ambiente Vulpecula per la sua furbizia e la sua prontezza d’ingegno.
Narnia, cinque giorni alle idi di settembre.
Nella domus di Marco Cocceio Nerva.
«So bene che teme la mia influenza», continuò a osservare il vecchio senatore, «e che se non fosse stato per quell’astrologo, a quest’ora sarei sparito dalla circolazione da un pezzo. Ma la mia risposta continua a essere negativa. Non posso tornare a Roma, non ora.» Clodiano attendeva di fronte alla sua attempata figura, basito per le parole pronunciate da Nerva. Non riusciva ancora a credere a quello che aveva appena finito di udire: il prescelto alla successione dell’impero, l’erede segreto del tiranno sanguinario, sembrava volersi tirare indietro proprio nel momento cruciale per la buona riuscita del progetto. «La tua presenza in città è fondamentale, nobile Nerva», riprese visibilmente crucciato il biondo tribuno. «Rappresenti un punto di riferimento per l’intera classe senatoriale e l’ordine equestre stima la tua persona sopra ogni cosa. Devi tornare, se non altro per infondere sicurezza ai congiurati.»
L’anziano patrizio si lasciò scivolare nel comodo seggio imbottito che si trovava alle spalle del lungo scrittoio del suo tablino. L’esile calice in lamina d’oro poggiato sul tavolo da lavoro risplendeva nell’intensa luce del primo pomeriggio settembrino. Nerva lo sollevò con lentezza e ingollò a lunghi sorsi l’intero contenuto di quel mirabile boccale. I tratti decisi del suo volto contrastavano profondamente con la reale natura del suo animo, gentile e benevolo con chiunque avesse avuto modo di conoscerlo. Il mento era pronunciato e due labbra strette e minute venivano sovrastate da un naso grosso che accentuava ancor di più il suo nobile aspetto. Gli zigomi, alti e sporgenti, dominavano le sue guance ruvide, leggermente scavate, mentre ai lati dei grandi occhi verdi, infossati nelle orbite, le orecchie prominenti erano celate da folti riccioli bigi. Quand’ebbe finito di bere, il senatore ripose il calice sulla scrivania e si portò d’istinto la destra in corrispondenza dello stomaco. «Questi dolori sono atroci, Clodiano», borbottò sofferente. «Mi assalgono improvvisamente e con abominevole foga. Poi svaniscono di colpo, così come sono apparsi. Dammi una mano ad alzarmi.» Il soldato si avvicinò alla figura smagrita di Nerva e lo aiutò a tirarsi su. Una volta in piedi, l’anziano patrizio fece segno al suo ospite di raggiungere il vicino peristilio e questi, sorreggendolo con un braccio, si avviò a piccoli i verso il giardino porticato. Il respiro del senatore era affannoso e la sua schiena completamente sudata. Attraversando l’intero sviluppo del tablino, Clodiano pensò che quelle fitte lancinanti dovessero essere ancora più terribili se inferte a un corpo già provato dall’età e da una lunga serie di malattie che ne avevano minato la resistenza e l’integrità. Dopo aver superato la piccola serie di battenti di legno posti a protezione dello studio, i due uomini si accomodarono su una panca situata verso il centro del ricco vivaio, in prossimità di una graziosa fontana ovale circondata da una spessa cortina di cespugli di rose. «Comprendo benissimo l’origine della vostra preoccupazione», esordì a voce bassa Nerva, «ma dovete fidarvi del mio comportamento. Mi avete supplicato di aiutarvi e di guidarvi in questa delicata impresa e io ho accettato senza esitazioni.»
«Ma hai lasciato l’Urbe da tre settimane, ritirandoti nella tranquillità del tuo paese natale. I nobili patres sono inquieti, cominciano a dubitare della tua…» «Non lasciarti ingannare dal mio aspetto sconfitto e dalla mia aria stanca», l’interruppe in tono severo l’anziano patrizio. «Nonostante il corpo sia avvizzito e malfermo, la mia mente è lucida e vigile più che in gioventù.» Dopo quella sorta di ammonimento il tribuno tacque, evitando di concludere il suo pensiero e limitandosi ad ascoltare le parole del vecchio senatore. Il dolore improvviso allo stomaco doveva essere sparito poiché il volto di Nerva appariva oramai disteso e anche la sua espressione era meno rabbuiata. L’anziano patrizio si alzò dalla panca alla quale erano seduti, seguito velocemente dal suo ospite, e insieme cominciarono a eggiare all’interno di quella vasta oasi di pace e tranquillità, completamente ammantata dalla luce abbacinante dell’ora decima e immersa fra gli arbusti, le piante da frutto e le mille specie di spettacolari fiori multicolori. D’un tratto Nerva arrestò i suoi i davanti a una cascata di foglie scabre e oblunghe, colorate di un verde intenso sulla parte superiore e suddivise in tre grossi lobi. Tra gli spessi rami della pianta si nascondeva una gran quantità di piccoli frutti dal tegumento viola scuro, quasi annerito, e dall’aspetto tumido e succoso. «Vedi, caro Clodiano», disse il senatore, mentre con la destra staccava due di quelle sfere ripiene e dolcissime, «il fico nero arriva all’apice della sua maturazione in questo periodo. Se lo cogli adesso, godrai della sua polpa zuccherina e gustosa. Lo sciocco che invece lo spicca anzi tempo non riuscirà mai ad apprezzarne appieno il sapore.» Così dicendo porse al suo interlocutore una delle gemme mielose e si affrettò ad assaggiarne la bontà. «Ecco», commentò soddisfatto Nerva, «cosa ti dicevo, dolci come il nettare degli dèi!» Clodiano abbozzò un sorriso di circostanza ma in cuor suo era profondamente seccato dal comportamento flemmatico e distaccato del patrizio: il tempo scorreva inesorabile e la data prefissata per agire si avvicinava ogni giorno di più. Tutto doveva essere organizzato nei minimi particolari. Non ci potevano essere ripensamenti e tentennamenti. E, soprattutto, non c’era posto per gli
errori.
Pena, una morte lenta e straziante. «A questo punto penso non ci sia nulla che riesca a convincerti a tornare in città, vero?», disse con aria rassegnata il biondo messaggero. Nerva lo scrutò per alcuni lunghissimi istanti, muto e pensieroso. I suoi occhi verdi scintillavano di una strana luce, risaltando, così fissi e penetranti, sull’incarnato pallido, simile all’avorio. «Cercherò di spiegartelo in maniera più diretta, in modo che tu possa riferire la ragione del mio comportamento ai nobili amici del Senato. Circa centoquaranta anni fa la dittatura di Cesare opprimeva l’ombra di quella che era stata per secoli la nostra fulgida Repubblica. Dietro il fraudolento progetto di ristabilire l’ordine e garantire un lungo periodo di pace e prosperità, l’indomito condottiero, vincitore di Farsalo, aveva accentrato intorno alla sua persona l’immenso potere di Roma conquistatrice. Anche in quel caso si arrivò a tramare una congiura e il nome dei cesaricidi restò impresso nella mente delle genti future a imperitura memoria.» «Non c’è bisogno che continui, nobile Nerva», commentò seccato il tribuno. «Tutti conoscono la storia del divo Giulio e della fine miserevole e meritata che colpì i suoi assassini, schifosi traditori di un tale esempio di magnanimità.» Cesare era Cesare. L’unico, il divino, il difensore del popolo. Lui, esponente dei populares e nipote del grande Caio Mario. A Clodiano proprio non andavano giù le parole aspre proferite dall’anziano patrizio. «A davvero?», ribatté divertito l’aristocratico. «Allora saprai sicuramente chi si celava in realtà dietro le figure ingombranti di Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, giusto?» «Che cosa intendi dire?», domandò interdetto Clodiano. Quell’inaspettata lezione sugli accadimenti politici del ato iniziava a irritarlo, tanto più che non riusciva ad afferrare il senso delle pompose parole pronunciate dal suo dotto ospite. In aggiunta, aveva già trascorso l’intera mattinata in compagnia di Nerva, non riuscendo a cavare un ragno dal buco, e la fretta di ritornare a Roma stava
iniziando a macerarlo. «Ciò che stavo cercando di dirti, prima che tu mi interrompessi, è che in realtà dietro la morte di Cesare ci fu lo zampino di Cicerone. Fu lui a organizzare il tutto e a dettare i tempi dell’azione.» «Impossibile!», protestò deciso Clodiano. «Tutti sanno che all’epoca dei fatti Cicerone era addirittura fuori Roma!» «Appunto!», esclamò vittorioso l’anziano senatore. «E questa si rivelò la mossa vincente per raggiungere il tanto agognato scopo. Capisci ora per quale motivo io continuerò a rifiutarmi di tornare nell’Urbe prima che il destino faccia il suo corso?» Il biondo messaggero restò imbambolato. Finalmente era riuscito a comprendere la natura dei continui dinieghi dell’astuto patrizio di fronte alle insistenti richieste espresse dai suoi nobili colleghi. Nerva aveva studiato fino in fondo tutti i possibili sviluppi di quella pericolosa faccenda e agiva in modo da rendere immacolata la propria figura agli occhi dell’opinione pubblica. Chi avrebbe potuto additarlo con sguardo severo, una volta eliminato l’empio tiranno? Chi avrebbe potuto mai pensare a una sua eventuale connivenza con i congiurati, semmai questi fossero stati scoperti prima dell’ora fatidica? Lui, il più rispettato fra i senatori, doveva apparire estraneo ai fatti per avere l’acclamazione del popolo al momento dell’investitura. Lui, ritenuto da tutti uomo virtuoso e vanto di moralità, doveva poter usufruire anche dell’appoggio di quella piccola fetta di senatori ignari della congiura. La sua posizione doveva essere inattaccabile, la sua condotta irreprensibile. «Ebbene», osservò Clodiano, dopo aver portato a termine la sua improvvisa e illuminante analisi, «finalmente potrò riportare ai nobili amici dell’Urbe il reale motivo del tuo repentino allontanamento.» Nerva si limitò ad annuire appagato, poi si affrettò a terminare il discorso. «Dì a Stefano di seguire le mie disposizioni, mi raccomando.»
Dopo il breve colloquio nel peristilio, i due si diressero di nuovo all’interno del tablino e lì il patrizio fece portare da uno schiavo due bei boccali di Cecubo
gelati. Dopo aver bevuto insieme, il senatore raggiunse i locali della sua villa adibiti a terme private mentre Clodiano si fece accompagnare da un’ancella nella zona della scuderia. A quel punto scelse il baio più veloce a disposizione e si gettò al galoppo seguendo la strada che puntava verso l’Urbe, deciso a raggiungere la sua destinazione nel minore tempo possibile.
8
Liternum, cinque giorni alle idi di settembre.
Nell’abitazione di Marco Stazio Afro.
Macrino portò alle labbra il bicchiere contenente il terzo estratto di silfio della giornata, sorseggiandolo lentamente e di malavoglia. Piccole volute di fumo si disperdevano verso l’alto, avvolgendo l’intero cubicolo nel pungente aroma generato dal decotto. «Dovresti essermi grato, Trebonio», esclamò risentito lo speziale, mentre si accomodava nell’angolo lontano del letto. «Oramai queste radici sono diventate merce rarissima e il loro prezzo raggiunge cifre da capogiro. Ringrazia il nobile Afro e le sue influenti amicizie. A quest’ora sarei ancora in giro a bestemmiare.» L’espressione poco convinta del princeps peregrinorum indusse il liberto a cambiare rapidamente argomento. «Come ti senti ora? Il morbo sembra essersi placato e il letto zuppo di sudore è di certo un buon segno.» «Sto molto meglio, amico mio», assicurò Macrino. «Anche se non ancora nel pieno delle forze.» «Non essere impaziente», flautò premuroso Labieno, mentre gli porgeva un piatto con due belle fette di pane, cosparse di sale e olio, e una grossa mela matura. «Vedrai che domani all’alba avrai recuperato appieno.» Il capo dei frumentari si affrettò a terminare la sua brodaglia medicamentosa. Dopo aver riposto sul pavimento il bicchiere semivuoto, il degente si dedicò con impegno al gustoso spuntino offertogli dal siculo. Il suo volto aveva riguadagnato colorito e lo sguardo era tornato energico e penetrante.
«Mentre tu eri in giro, ho avuto tempo per pensare alle nostre indagini», mugugnò a bocca piena. «Allora avrai meditato ben poco», commentò sarcastico lo speziale. «Al punto in cui siamo, procediamo a tentoni.» «Non bisogna abbattersi, caro Labieno. Basterebbe una banale intuizione a diradare la coltre di dubbi che mina le nostre ricerche.» «A quale conclusione sei giunto?», domandò interessato il liberto. «Non parlerei di conclusioni», sottolineò Macrino. «Diciamo che ho rivolto la mia attenzione verso i punti più oscuri della vicenda, cercando di illuminare singolarmente le diverse zone d’ombra che abbiamo circoscritto con le nostre supposizioni.» «Ti ascolto», si limitò a rispondere Labieno, avvicinandosi alla sagoma del malato. «Prima di tutto, Arminio», sussurrò assorto l’altro. «Penso che quasi sicuramente non possa essere l’efferato assassino che stiamo tentando di acciuffare.» «Come fai a dirlo?»
«La notte in cui è avvenuto l’ultimo omicidio occupava il suo pancone, fuori la porta di Afro. Ieri notte non ha tentato di seguirmi e, in aggiunta, il suo aspetto fisico non rientra nel profilo dell’omicida.» «Come spieghi allora la presenza di quello strano tubo nel peristilio? E la consegna del rotolo nelle mani di quel misterioso individuo? Io sono convinto del contrario.» «Bada bene, Labieno», si affrettò a chiarire Trebonio, «non ho mai affermato che il capo dei famigli non sia implicato in qualcosa di losco. Dico solo che lui non può essere il pazzo sanguinario che sta terrorizzando Liternum.» Lo speziale abbozzò una sorta di sbuffo denigratorio ma il suo compare parve non accorgersi di quel gesto.
«Anche Voreno il lenone ci nasconde una scomoda verità, dietro la sua cupidigia. Per com’era scosso e agitato al nostro ultimo colloquio, stento a credere che continui a svolgere il suo mestiere. Si vede lontano un miglio che è terrorizzato a morte da tutta questa faccenda, eppure insiste nel tenere aperti i battenti del suo lupanare. In un paio di settimane ha perso metà delle sue schiave e i suoi guadagni sono ridotti all’osso.» «In effetti è un comportamento inspiegabile», commentò perplesso il siculo. «Così come deplorevole risulta un sacerdote che faccia falsa testimonianza.» «Tito Spurinna è arrivato in città da pochi mesi. A detta di Pulcro, il vecchio ministro è stato colpito da morte improvvisa quattro giorni prima dei Lupercali e Afro non ha potuto indire l’assemblea dei decurioni per una normale elezione del nuovo flamen. Così ha chiesto l’intervento dei Collegi Sacerdotali di Roma e questi hanno inviato Spurinna. Non devo ricordarti io quali sono le mille imposizioni cui è costretto un flamen dialis: la sua confessione non ha valore legale, in quanto non può sottoporsi a giuramento. Di certo poi non poteva rivelarmi il suo vizio…» «A me la sua faccia non piace», eruppe infastidito il liberto. «Allora aggiungilo alla tua infinita lista di invisi, amico mio», sghignazzò sottovoce Macrino. A quel punto lo speziale abbandonò la sua posizione e cominciò a eggiare nervosamente avanti e indietro per la stanza. «Avrei dovuto portare a termine il mio pedinamento! Sono certo che il misterioso contatto al quale Claudia ha consegnato il papiro rappresenta la chiave di volta del nostro enigma.» Trebonio provò ad alzarsi dal suo giaciglio ma al primissimo tentativo una fitta atroce al capo gli troncò i movimenti. Stringendo gli occhi e a denti serrati per quella sorta di stilettata il capo dei frumentari lasciò sfuggire un lieve gemito di dolore. «Sei un maledetto testardo, Macrino», l’ammonì contrariato il liberto, «e reputi i consigli alla stregua delle minacce. Ho detto che necessiti ancora di riposo, il morbo non si è del tutto estinto.»
Dopo aver aiutato il suo ex padrone a recuperare la posizione supina, Labieno lo costrinse a terminare il decotto che, oramai freddo, giaceva ai piedi del letto. Quand’ebbe terminato la sua penitenza, Macrino commentò i pensieri del siculo a riguardo dell’enigmatico individuo avvistato giorni prima nei pressi del mercato. «Hai detto che quel tipo aveva qualcosa di familiare. Probabilmente lo abbiamo già incrociato qui a Liternum, senza prestarci troppa attenzione. Sicuro di non riuscire a ricordare altro? Pensa a qualche particolare, un dettaglio anche all’apparenza insignificante.» «Ci ho provato per due intere notti, Macrino, ma niente. La strada era affollatissima e io quasi non riuscivo più a vedere la schiava. Erano distanti e c’era una confusione incredibile per via dell’ora. Ho avuto solo modo di scorgere quell’uomo, di spalle, che prendeva in consegna il rotolo e si allontanava veloce.» «Uhm. Forse hai ragione tu», meditò assorto il princeps peregrinorum. «Conoscere la sua identità potrebbe risultare fondamentale per chiarirci quanto meno la posizione di Arminio.» «Potrei lavorarmi Claudia», suggerì con un filo di speranza lo speziale. Il suo viso sembrò illuminarsi di colpo e il celeste carico dei suoi occhi non faceva altro che evidenziare il trasporto con il quale aveva pronunciato quel nome. «Lavorarti Claudia?», ridacchiò di gusto il capo dei frumentari. «Sono sicuro che impegneresti tutte le tue forze per infilarti nella sua branda. Ben inteso, capisco che lo faresti soltanto per estorcerle con arguzia informazioni importanti ai fini delle indagini. Tuttavia dubito che riusciresti a cavarne qualcosa: conosci bene la pena a cui va incontro uno schiavo che abbia derubato il proprio padrone. Non tradirà mai il capo dei famigli, ha troppa paura.» «Già», confermò lo speziale. «Ma qualcosa dovremo pur fare per uscire una buona volta dal pantano in cui ci hanno condotto le nostre congetture.» Detto questo, il liberto tornò a sedersi ai piedi di Trebonio e iniziò a fissare demoralizzato la parete rossa posta alle spalle del letto decorata di motivi neri e dorati. «Dobbiamo distribuire bene il nostro impegno, caro Labieno», concluse con tono deciso Macrino. «Bisogna dividersi i compiti: tu cerca di stare attaccato ad
Arminio, notte e giorno, e prova a scoprire quanto più puoi sul suo conto. Domattina presto io uscirò finalmente da questa prigione e andrò a trovare di nuovo il nostro amico Voreno. Vedrai che qualcosa d’interessante salterà fuori.» Proprio in quell’istante una giovane serva di origine germanica bussò alla porta del cubicolo: la cena era pronta e il nobile Marco Stazio Afro richiedeva la presenza dello speziale per trascorrere qualche ora in sua compagnia. Il liberto salutò velocemente l’amico e si diresse spedito verso la zona del triclinio. Prima di sparire oltre la soglia della camera, l’ancella lanciò un sorriso fugace al princeps peregrinorum, indi richiuse alle sue spalle il limitato divisorio in legno. Trebonio sospirò profondamente. Poi cominciò a scrutare l’alto soffitto a cassoni, perso in una sorta di contemplazione. Sdraiato pancia all’aria, Macrino provò ad affiancare nella sua mente le poche tessere che aveva a disposizione, al fine di indovinare il soggetto principale del tenebroso mosaico di eventi davanti al quale stava oramai scervellandosi da giorni.
Roma, quattro giorni alle idi di settembre.
Nei pressi dell’Aventino.
Superata la zona del Foro Boario, stranamente silenziosa nelle prime ore del giorno, Clodiano si avviò di buona lena verso la parte alta del colle. Tenendosi alla sinistra dell’antico tempio di Cerere il biondo tribuno iniziò a risalire il clivus Publicius, puntando lo sguardo oltre la fine della lunga arteria che aveva preso a percorrere. A metà strada riuscì a scorgere alcuni carri, fermi a pochi i dallo scalone d’accesso al sacello dedicato a Diana. I barrocci erano carichi di materiale da costruzione e diversi schiavi sonnecchiavano accoccolati in angusti bocconi di spazio, fra pile di mattoni e sacchi di calce. «Finalmente», borbottò tra sé Clodiano, una volta giunto in prossimità dell’edificio. «Era ora che si decidessero a rifarne la facciata.»
Il tempio versava in condizioni di degrado fin da quando lui aveva memoria e, benché parecchio praticato per la profonda venerazione che gli abitanti dell’Aventino provavano nei confronti della dea, nessuna opera di restauro era mai stata realizzata negli ultimi centoventi anni.
Alla fine della faticosa salita Clodiano imboccò una stradina che deviava verso sinistra, collegando il clivus Publicius con il più grande vicus Piscinae Publicae. Il lato sinistro del camminamento era occupato da una serie di alti e robusti portoni in legno rinforzato, per la maggior parte borchiati da grossi ovali bronzei. Lì abitavano le famiglie in vista della zona e su tutte erano ben riconoscibili le domus del generale Marco Ulpio Traiano e del suo amico Lucio Licinio Sura, entrambi impegnati a difendere gli estremi confini settentrionali dell’impero. Giunto a metà strada, il biondo riccioluto si arrestò davanti all’ingresso di una misera abitazione dalle pareti tinte di un rosso sbiadito. Un’unica finestra, piccola e poco illuminata, si affacciava timidamente sul polveroso lastricato e ai lati dell’accesso alla casa erano situate due panche dall’aspetto malridotto. Clodiano attese un momento, guardandosi velocemente intorno. La candida luce dell’ora prima si diffondeva generosa sopra le lunghe distese di coppi in terracotta mentre più a sud il frastuono dell’Emporium, già in piena attività, perveniva ovattato alle spalle di quella piccola oasi tranquilla.
“Il lavoro di molti per il privilegio di pochi”, pensò d’istinto Clodiano. La via appariva muta e solitaria. Lanciò due brevi fischi, acuti e simili al richiamo dell’allodola. Poi tacque, rivolgendo il suo sguardo alla piccola apertura sotto la quale aveva interrotto i propri i. Pochi istanti dopo la porta d’accesso all’anonimo fabbricato si aprì e un’anziana donna, smagrita e dal volto solcato da profonde rughe, lasciò entrare l’inatteso ospite. «Come va, Merula?», esordì sorridente il soldato.
«È sopra», rispose seccata la vecchia, mentre si affrettava a coprire il suo capo imbiancato con uno sdrucito panno nero. Clodiano la salutò con un gesto della mano, quindi si avviò spedito per l’angusta scalinata di marmo che portava al piano superiore, stretta tra due pareti rigonfie per l’umidità. Arrivato in cima al ballatoio, scostò con la destra la pesante tenda di stoffa verde posta a chiusura del cubicolo. «Accomodati», esordì il padrone dell’alloggio. Il tipo, basso e segaligno, dava la schiena all’ingresso ed era impegnato a infilarsi una tunica bluastra, attraversata da lunghe strisce verticali color porpora. Il tribuno afferrò uno sgabello e prese posto a ridosso della finestra. «E bravo Stefano… È proprio un bel posticino, sai? Piccolo, accogliente e in una zona ben frequentata.» Il giovane liberto accennò un amaro sorriso. Lui, collaboratore speciale del compianto Flavio Clemente, era abituato a tutt’altro tenore di vita. Fino a un anno prima aveva soggiornato nella magnifica villa del suo ex padrone, nipote di Vespasiano e marito di Flavia Domitilla, console di Roma assieme al cugino, il divino Domiziano. La splendida domus in cui aveva prestato servizio era situata a pochi i di distanza dalla residenza imperiale ed era immersa in una smisurata distesa verde, sul colle Palatino. Alle sue direttive aveva avuto uno stuolo di schiavi e il patrimonio di famiglia era stato affidato completamente alla sua oculata e sapiente gestione. Poi era accaduto l’irreparabile e la sventura si era divertita a ridurlo in miseria: il suo padrone condannato a morte, la domina confinata a Pandataria e lui costretto a trovare un buco dove poter vivere. «Ridi, ridi pure, Clodiano», l’ammonì lo smilzo interlocutore, «oramai sono avvezzo a essere dileggiato dal destino.» «Ti giuro, Stefano, che dico sul serio!», si affrettò a chiarire il biondo pretoriano. «Mi accontenterei di un buco per stare da queste parti.» Il liberto aprì una vecchia cassapanca situata in un angolo della camera e ne estrasse un bel paio di calcei. A quel punto sedette sul suo giaciglio e cominciò ad annodare le lunghe striscioline di cuoio presenti sui calzari sul dorso dei piedi e lungo le caviglie.
«Che ha detto il vecchio?», domandò a un tratto il tipo smagrito, parlando con aria assorta. « È sofferente nel corpo, ma ha una mente affilata come un rasoio.»
«Bene», commentò soddisfatto Stefano. «Tornerà qui a Roma?» «Solo a cose fatte», rispose asciutto Clodiano. «Vuole fugare qualsiasi tipo di dubbio intorno alla sua persona, qualunque sia l’esito di questa maledetta faccenda.» Il volto del liberto si irrigidì all’istante. Il tono di voce divenne imperioso e i suoi piccoli occhi corvini scintillarono nella penombra del cubicolo, lasciando trapelare un’incredibile sicurezza nei propri mezzi. «Questa vicenda ammette un unico finale. Quel mostro sanguinario pagherà con la morte l’orrenda catena di delitti di cui è stato mandante. Il suo animo perverso e scellerato espierà una volta per tutte le ignominie di cui si è reso autore e le sue abominevoli azioni saranno mondate con il suo lurido sangue!» Clodiano restò attonito. Stefano dimostrava una determinazione fuori dal normale e le sue parole erano audaci e pesanti come macigni: raramente aveva visto un uomo montato da tanto ardore e da una tale smania vendicativa. In quel frangente capì quanto la scelta compiuta da Nerva fosse stata sagace e scrupolosa. Né Petronio Secondo, né Norbano, né alcun gladiatore avrebbero potuto rimpiazzare il liberto nel momento culminante per la realizzazione del loro ardimentoso piano. Stefano non era spinto da gloriose motivazioni ideologiche o politiche, non sposava la loro causa per la voglia di libertà o per il raggiungimento dell’estremo bene comune. La sua era una vendetta personale, pura e semplice. Domiziano rappresentava la personificazione del male, in lui il liberto vedeva tutto ciò che lo aveva condotto in rovina, cancellando anni di vita agiata e tranquilla. Lo avrebbe colpito senza pietà, fino all’ultimo brandello di forza, fino a quando il braccio non si fosse intorpidito per lo sforzo. «C’è dell’altro?», aggiunse d’improvviso l’ex uomo di fiducia di Flavia Domitilla e di suo marito, risvegliando Clodiano dalla sorta di estasi in cui era scivolato.
«Ah, sì», osservò stranito il tribuno. «Si è raccomandato di dirti che dovrai agire nel suo alloggio, dopo l’ora sesta. In quel frangente lo troverai solo, intento al suo riposo pomeridiano. Fino allora fascia il tuo braccio con vistose bende, come se fosse ferito, e fai in modo di farti vedere spesso al suo cospetto così bardato. Ciò ti aiuterà a nascondere agevolmente il pugnale, quando sarà il momento.» Stefano ascoltò con attenzione le parole del biondo graduato. Prima di congedarsi Clodiano si avvicinò al liberto e gli strinse la destra con vigore. Poi gli sussurrò all’orecchio: «Sei la nostra unica speranza, amico mio. Ti saremo sempre grati per l’onere e il rischio che hai deciso di accettare. La nostra riconoscenza sarà eterna.» «Nessun obbligo», concluse in tono deciso Stefano. «L’unica ricompensa a cui anelo è rappresentata dalla fine di quell’uomo.» Prima di lasciare sgattaiolare il tribuno fuori dall’abitazione, Merula aprì il portone e lanciò un’occhiata furtiva in giro. Le attività mattutine della città erano iniziate da poco e la via era ancora sicura. Clodiano uscì velocemente calcandosi in testa il cappuccio scuro della sua paenula. Prima di abbandonare del tutto il breve scorcio di strada che conduceva al clivus Publicius, alzò gli occhi in direzione della limitata apertura posta sopra l’ingresso. Un’ombra, mezza celata dietro la parete, mostrò la destra in segno di saluto. Allora Clodiano si voltò definitivamente e prese a discendere a o svelto l’acciottolato che conduceva fuori dalla zona aristocratica dell’Aventino.
Roma, quattro giorni alle idi di settembre.
Sul colle Viminale.
L’enorme lettiga dorata avanzava lentamente verso la sommità del vicus Longus, seguita da uno stuolo di curiosi e protetta da un nutrito gruppo di pretoriani. I denti digrignati per lo sforzo prolungato, i sedici numidi, divisi in gruppi di quattro sui diversi lati della splendida portantina, sembravano oramai allo stremo delle forze. Le loro teste rasate e imperlate di sudore luccicavano
nell’abbacinante luce dell’ora quarta, risaltando fra i preziosi drappi multicolori che delimitavano il raffinato tettuccio di legno. Otto pontefici, avvolti in candide toghe di lino, accompagnavano l’appariscente palanchino stretti fra due ali di legionari in assetto da guerra. In testa al corteo, quattro cavalieri inveivano con voce roca contro gli occupanti della strada, sfollando i anti con le loro lunghe picche metalliche e lanciando occhiate torve a chiunque si attardasse a lasciare libero accesso alla scorta del divino Augusto. A circa trenta i dalla piccola gradinata antistante il tempio dedicato alla gens Flavia, un braccio virile sbucò oltre il limitare destro della lettiga, tendendo il palmo della mano verso l’alto. Il lungo codazzo si arrestò all’istante sotto le direttive del capo dei numidi e i quattro leoni di bronzo, costituenti gli appoggi della sontuosa portantina, toccarono con delicatezza il suolo. «Eccoci, amita», sussurrò con voce accorta Domiziano, «siamo arrivati.» Fillide lo guardò dritto negli occhi, grandi e malinconici. Poi gli accarezzò i folti riccioli corvini. «Dammi una mano a scendere, divino Augusto. Oramai le mie gambe sono malferme e l’affanno non mi concede tregua.» La bocca dell’imperatore si schiuse in un tenero sorriso. Facendo scorrere il prezioso drappo divisorio, Domiziano aiutò la sua anziana nutrice ad abbandonare l’interno della lettiga. L’affetto che provava per quella donna era profondo, sincero. Fillide gli era stata accanto fin da quando era in fasce, educandolo come una madre premurosa e ricoprendolo d’amore e di cure. Ricordava ancora con tenerezza gli anni della sua infanzia: quanti giorni spensierati aveva trascorso in sua compagnia, quante favole e quanti giochi solevano inventare insieme.
Prima ancora che il divino Augusto arrivasse a poggiare un piede in strada, quattro granitici pretoriani si affrettarono a fargli da scudo con le loro ingombranti figure mentre il restante gruppo di legionari creò due cordoni continui, che arrivarono a lambire il primo scalino della rampa d’accesso al vasto recinto porticato. A quel punto il figlio di Vespasiano cominciò ad avanzare lentamente verso la zona d’accesso al sacello, preceduto dalla sua piccola scorta. Stretta al suo braccio, l’anziana donna arrancava con aria mesta e
sofferente, quindi alle loro spalle seguivano i pontefici, contriti e con il capo coperto. L’imperatore prese a salire il podio che conduceva all’interno del tempio dedicato alla gens Flavia ma dovette interrompere ben presto i suoi i: la nutrice aveva preso a tossire con veemenza e il fazzoletto portato alla bocca appariva imbrattato di sangue. «Come ti senti, amita?», domandò preoccupato Domiziano. «Vuoi che ti faccia accompagnare a palazzo?» «Non preoccuparti, divino Augusto», accennò con un filo di voce Fillide, «sono abituata a queste crisi improvvise. Basteranno pochi sorsi d’acqua.»
Con un gesto della mano, il fratello di Tito richiamò uno dei suoi pretoriani, facendo segno di portargli da bere, e questi gli porse velocemente una piccola fiasca rivestita in cuoio.
«Prendi», le disse il divino Augusto, accarezzandole con il palmo della destra le spalle strette e ricurve, «e cerca di placare questa brutta tosse.» Appena la donna si fu ripresa, i due superarono gli ultimi gradini del podio ed entrarono infine nell’oscura cella del tempio. Il sacerdote addetto al culto dei Flavi s’inchinò in segno di rispetto e l’imperatore ordinò a due pontefici di accendere la fitta serie di lucerne che pendevano da entrambe le pareti laterali dell’edificio sacro. Un tenue chiarore iniziò a diffondersi all’interno della camera avvolta dalla penombra; dapprima timido, poi sempre più vivido e deciso. A un tratto Domiziano attraversò l’ampia sala rettangolare, delimitata da una doppia fila di colonne corinzie, e raggiunse una lunga serie di esedre che sporgevano dal muro di fondo dell’ambiente. In corrispondenza di ognuno degli incavi semicircolari erano state sistemate delle superbe statue di marmo, raffiguranti i maggiori esponenti della dinastia dei Flavi. Tra i diversi busti spiccavano per grandezza e splendore le effigi di Vespasiano e del suo figlio prediletto, il compianto Tito. L’imperatore s’inginocchiò davanti alle due sculture e si coprì il capo con un
lembo della sua toga verde smeraldo, orlata in tutta la sua lunghezza da una sottile striscia di seta dorata. Poi, coadiuvato dalla schiera dei pontefici, offrì libagioni allo spirito dei suoi cari e si raccolse per pochi minuti in preghiera. Quand’ebbe finito, il divino Augusto volse la sua attenzione a un piccolo simulacro posto sul versante sinistro della lunga parete di chiusura del sacello. L’opera rappresentava la figura di una giovane donna dall’aspetto piacevole e attraente. Una spessa corona di boccoli dorati contornava una fronte regolare, sormontando due gemme azzurrine e un naso dritto, lievemente schiacciato. La bocca era piccola ma carnosa e il mento tornito e aggraziato. Sotto il piedistallo sul quale si trovata la statua, quattro pontefici disposero un pesante pancone di marmo e iniziarono a preparare l’occorrente per il rito sacrificale.
«Non a giorno che non avverta la sua mancanza», bisbigliò malinconico Domiziano. «So bene cosa intendi», assicurò sottovoce Fillide. «Ho amato Giulia dal primo momento in cui l’ho stretta fra le mie braccia. La sua improvvisa morte ha lasciato tutti sgomenti.» «Fra un paio di giorni sarebbe stato il suo genetliaco… trentadue anni», osservò con occhi lucidi l’imperatore. Il suo sguardo era fisso sul volto marmoreo della giovane nipote, figlia di Tito, e dalle sue gote scivolavano piccole lacrime furtive. «Come mai l’Augusta non torna a Roma?», chiese a un tratto l’anziana nutrice. «Hai per caso deciso di recarti sul lago?» «Non ne ho la minima intenzione», chiarì stentoreo l’imperatore. I tratti del suo volto s’indurirono di colpo e il tono di voce divenne quasi roco. «Più siamo lontani, meglio è per entrambi. La sua sola presenza m’innervosisce e sto pensando seriamente di…» Le parole di Domiziano furono interrotte dalla venuta di uno dei pontefici: i tre vitelli bianchi erano pronti per essere immolati e gli altri sacerdoti attendevano solo il suo consenso per procedere al sacrificio. L’imperatore avvolse il suo braccio destro intorno alla gracile sagoma di Fillide e raggiunse il lungo tavolo in pietra. Poi sgozzò i tre candidi bovini e ne raccolse il
sangue in un catino di terracotta offrendolo, tra preghiere e suppliche, come omaggio agli dèi. Prima di abbandonare il sacello dedicato alla sua gens, Domiziano si arrestò a pochi i dalle colonne che costituivano il propileo. A quel punto fece uscire i ministri dal luogo sacro e tornò solo con la sua vecchia nutrice all’interno della cella del tempio.
«Sono preoccupato, amita», rivelò a mezza voce, «e spero che confidandomi con te riesca almeno a lenire l’inquietudine che attanaglia da troppo tempo il mio animo.» «Parla pure, figlio», rispose con aria benevola la donna. «Sento che mi resta poco da vivere. È una sensazione costante, opprimente, che mi scaraventa nel terrore più nero.» «Per fortuna godi di ottima salute», iniziò a controbattere serena la nutrice. «E vivrai ancora per molto…» «Ascoltami, Fillide!», esclamò a muso duro l’imperatore. I suoi occhi apparivano infossati e stanchi ma erano infiammati da una strana luce di delirio. «Se io dovessi morire improvvisamente, promettimi che le mie ceneri saranno mischiate a quelle dell’amata Giulia. Devi occuparti personalmente di questo mio ultimo volere, intesi?» Fillide restò muta, stupita dall’inaspettata richiesta del suo padrone. «Hai capito cosa ti ho detto?», ribatté Domiziano in tono meno duro ma ugualmente deciso. «La tua richiesta sarà esaudita a un’unica condizione, divino Augusto.» «Sentiamo», replicò di malavoglia l’imperatore. «Che io sia ancora viva per portare a termine l’incarico che mi hai appena affidato», sorrise leggermente l’anziana donna.
Domiziano la abbracciò calorosamente e insieme abbandonarono il tempio e presero a discendere la breve gradinata del podio. In pochi minuti si ritrovarono nuovamente di fronte alla splendida lettiga e, saliti all’interno del palanchino, Domiziano ordinò al corteo di ritornare velocemente alla Domus Augustana.
9
Liternum, quattro giorni alle idi di settembre.
Nel vicus Gaudii.
«Cerchi compagnia, bel moretto?», chiese la giovane lupa, mentre ammirava compiaciuta la figura prestante di Macrino attendere interdetta a un o dal malconcio ingresso del lupanare: era la terza volta che picchiava energicamente il pugno sulle ante scheggiate del portone, ciò nonostante l’interno del locale sembrava stranamente solitario. «Devo vedere il proprietario», rispose asciutto il capo dei frumentari. «Ma a quanto pare sono tutti in giro.» «Sono partiti», precisò ammiccante la donna. «Ma non preoccuparti. Sono sicura che riuscirò a soddisfare appieno le tue piccanti fantasie.» «Partiti?», domandò stupito Trebonio. «Che significa partiti? Dove sono andati e quando?» «E io cosa posso mai saperne?», abbaiò la prostituta, punta dalla delusione. «Sono uscita stanotte a metà dell’inclinatio per raggiungere un cliente. Quando sono tornata, non c’era più nessuno. Né Voreno, né le ragazze.» Il princeps peregrinorum stentava a credere a ciò che aveva udito. La sua mente faticava a immaginare il rosso lenone che, agevolato dall’oscurità offerta dalla notte, abbandonava furtivo le porte di Liternum con il piccolo seguito di schiave straniere. Fino a pochi giorni prima, la stoica determinazione di Voreno nel voler portare avanti a tutti i costi la sua attività lanciava non poche ombre sulla sua figura segaligna e trasandata. Ora invece che la mano sanguinaria dell’assassino sembrava essersi temporaneamente placata, quel tipo dall’aspetto dimesso e dallo sguardo inquieto aveva deciso di chiudere improvvisamente i battenti e di
sparire senza lasciare traccia di sé. Un modo di fare quantomeno contradditorio e che era apparso tale agli occhi di Macrino fin dall’inizio di quella sfortunata e assurda faccenda. «Come ti chiami?», chiese a un tratto. «E a te cosa interessa?», protestò la giovinetta, resa guardinga per l’insolito comportamento del soldato e per il palpabile nervosismo che trapelava dall’inflessione della sua voce. «Sei venuto fin qui per fottere o per conversare?» Trebonio tacque e con piglio deciso fece per avvicinarsi alla graziosa figura della lupa. Tuttavia riuscì a muovere giusto un o e nella mano della donna apparve inaspettato un piccolo pugnale a doppia lama. «Stai indietro, bastardo, o giuro su Venere che ti scanno come un capretto.» «Calma, calma», cercò di rabbonirla Macrino. «Che ti prende, ragazza? Fino a un istante fa morivi dalla voglia di offrirmi i tuoi servigi e ora vuoi accopparmi?» «Fai troppe domande per essere un cliente», osservò impaurita la prostituta. «Infatti non lo sono», precisò Trebonio, «e non ho alcuna intenzione di farti del male.» La giovane donna scrutò per un momento l’uomo che aveva di fronte. Un bel paio d’iridi verdi risaltavano in un volto abbronzato e piacente. La tunica color porpora, ricamata con motivi dorati, appariva leggera e di altissima fattura, evidenziando le forme di un corpo armonioso e atletico, cesellato da anni di allenamento e all’apice del vigore fisico. Un mento volitivo e ben rasato donava a quel viso un’aria sicura e autoritaria mentre i folti riccioli corvini, accorciati con cura nei lati, suggerivano un’espressione vagamente aristocratica. Sforzandosi di ignorare i suoi sospetti, la ragazza decise di fidarsi e lasciò scorrere il pugnale all’interno della manica dalla quale era improvvisamente sbucato. «Il mio nome è Valeria», disse con aria imbarazzata, «ma i più mi conoscono come Licisca.»
«Devi essere ben spaventata per andare a zonzo con quell’arnese», osservò in tono conciliante Macrino. «Prova tu a girare di notte per questa maledetta città, sapendo che c’è un pazzo che può sgozzarti da un momento all’altro», ribatté la lupa. «Da quanto non mangi?», chiese pensieroso il capo dei frumentari, notando il pallore esasperato del suo viso e gli occhi profondamente infossati nelle orbite. «Due giorni», ammise epigrafica Valeria. «Pochi clienti, niente soldi. Niente soldi, niente pane.» «Allora andiamo alla popina di Mario», propose affabile Trebonio. «Metteremo qualcosa sotto i denti e intanto mi spiegherai per bene questa storia della partenza.»
Svoltando a destra alla fine del vicus Gaudii, i due presero a risalire un viottolo polveroso, stretto fra una serie di alti edifici popolari dall’aspetto tutt’altro che ospitale, e arrivarono in poco tempo all’incrocio di tre strade più ampie che si aprivano intorno a una vecchia edicoletta votiva di Cerere.
La popina affacciava ad angolo sul camminamento più largo, quello che si dirigeva a destra del crocicchio, ed era più affollata del solito. Mario era un vecchietto affabile e dall’aria gioviale, con un grosso naso paonazzo e l’espressione costantemente avvinazzata. Si divertiva a intrattenere gli avventori, in fila davanti al lungo bancone a L, con i suoi numeri di prestigio e i suoi trucchetti da baro navigato, mentre due schiavette celtiche si barcamenavano alla meglio per servire velocemente i clienti. Quando trovava il tipo giusto, un pollo ingenuo e dalla saccoccia oltremodo gonfia, faceva di tutto per farsi sfidare a dadi. Dapprima iniziava timidamente, perdendo due partite e vincendone una. Poi, quando l’ignaro forestiero si era oramai fatto prendere la mano, lo bastonava senza pietà lasciandolo praticamente in sublicaculum. Inoltre, per rendere l’atmosfera sempre allegra e accogliente, il brioso locandiere aveva preso alle sue dipendenze due mimi e un flautista che si prodigavano in improvvisate rappresentazioni teatrali a dir poco dissacranti.
Superato l’ingresso del locale, Trebonio e Valeria si accomodarono a un tavolo situato lungo la parete di fondo della popina, leggermente in disparte rispetto agli altri. Mario riconobbe il viso del capo dei frumentari e fece segno a una delle schiave di posporre le sue faccende e correre a prendere la comanda dei nuovi venuti: erano rari, infatti, gli avventori che lasciavano mance prima di abbandonare la locanda e Trebonio apparteneva a questa ristrettissima cerchia. «Allora», esordì Macrino, una volta che ebbero ordinato, «mi dicevi che Voreno è partito. A che ora sei ritornata al lupanare?» La donna lo guardò intensamente, cercando di capire le sue reali intenzioni: chi era quell’uomo e perché si dimostrava così gentile? «Sono tornata dopo un paio d’ore», si limitò a rispondere la lupa, «e il portone era stato già sbarrato. Quindi ho raggiunto il cubicolo al piano superiore, pensando di poter entrare da lì, ma la finestra era chiusa con le ante di legno. Ho avuto paura e ho atteso l’arrivo dell’alba rannicchiata sul fondo del loggiato.» «Uhm. Strano che Voreno non ti abbia informato delle sue intenzioni», rifletté a voce alta Trebonio. In quel momento una delle ancelle di Mario servì loro il prandium: costoletta di maiale in purea di piselli, due bruschette di pane cosparse di garum e una brocca di Veientano freddo, reso meno aspro dall’aggiunta di spezie. La giovane prostituta si lanciò con ardore sul cibo, dedicandosi completamente alle pietanze che aveva davanti a sé. Dal canto suo, Macrino mangiava di malavoglia, lanciando di sottecchi occhiate comionevoli alla sua meschina commensale. Valeria aveva un viso intrigante e delle labbra carnose e seducenti. Gli occhi erano grandi, espressivi, tinti di un castano chiaro dai riflessi cangianti, seppur velati da un impalpabile velo di tristezza. Le curve del suo corpo sbucavano timidamente al di sotto della logora veste viola, di lana leggera, e l’azzurro carico della parrucca riccioluta risaltava su un incarnato fin troppo cereo, segno di una prolungata e pericolosa malnutrizione. A un tratto la donna abbandonò il contenuto del suo piatto e restò a guardare impaurita il suo sconosciuto benefattore come se avesse avuto una sorta di premonizione. Poi, con voce rotta dal pianto, cominciò a supplicare Macrino. «Ti
prego, non riportarmi al mercato degli schiavi. Ti giuro che non volevo abbandonare Voreno, è stato lui a sparire senza aspettare il mio ritorno. Io ero uscita a lavorare, devi credermi, domine!» «Certo, Valeria», la rincuorò Trebonio. «Ora finisci il tuo pasto e non avere timore. Io non sono il tuo padrone né ho intenzione di riconsegnarti nelle sue mani.» «Ti ringrazio, domine», sorrise impacciata la giovane lupa. «Allora insisti?», replicò bonariamente. Nello stesso tempo versò del vino in una coppa di rame e la porse con delicatezza alla giovane affamata. Lei bevve con bramosia il contenuto del largo calice, poi spiegò l’origine del suo timore. «uQuando mi hai richiesto a che ora fosse partito Voreno, ho capito che eri il padrone del lupanare. Negli ultimi giorni un tuo…» Macrino si bloccò di colpo. «Vuoi forse dirmi che il rosso non è il titolare dell’attività?», l’interruppe visibilmente interessato. «Sì, domine. Lui lavora per te, giusto? A te appartiene il lupanare e tuoi sono i soldi con i quali Voreno acquista le sue donne.» Una strana luce attraversò le gemme smeraldo di Macrino e il suo viso cambiò rapidamente espressione: poteva approfittare di quell’equivoco per frugare tra i segreti del lenone, senza dover cercare di strappare sofferte rivelazioni all’uomo in questione, magari usando ammonimenti e becere minacce di vario genere. «In effetti avevo premura di parlargli», mentì con fare disinteressato lo scaltro legionario. «Ma senza dare troppo nell’occhio. E invece lui cosa fa? Chiude il mio locale nel bel mezzo della notte e mi pianta all’improvviso. Mi pagherà un copioso indennizzo, stupido di un ubriacone.» La donna lo guardò con aria soddisfatta. Più volte Voreno l’aveva umiliata davanti alle altre sciagurate, deprecando la sua dabbenaggine e la sua ritrosia alle richieste troppo oscene di clienti alticci e violenti. Spesso alle sue infami imprecazioni avevano fatto seguito gragnole di schiaffoni a man rovescia, giusto per ricordarle la misera condizione in cui versava da tempo la sua insignificante
esistenza. Ora però Valeria aveva la possibilità di riscattare parte delle vessazioni che aveva dovuto subire, ripagando a dovere quell’uomo bruto e senza cuore che il fato le aveva scelto come padrone. «Avessi visto come bestemmiava ogni volta che il tuo uomo si allontanava dopo le visite al lupanare…», insinuò a mezza voce la ragazza. «Ah, il mio uomo?», le fece eco Trebonio, accorto a non lasciarsi sfuggire alcun commento che potesse interrompere le confessioni gratuite della lupa. «Sì, domine. Quel giovanotto simpatico e dallo sguardo sveglio, di una mezza spanna più basso di te. Potrebbe dirsi un uomo interessante, peccato per quell’orribile cicatrice che gli deturpa l’interno del braccio.». Trebonio ascoltava attentamente le asserzioni della donna, sorseggiando con lentezza la mistura annacquata che Mario spacciava per vino di prima scelta. A un tratto la sottile nebbiolina che avvolgeva subdola l’infido campo delle sue congetture fu spazzata via da un’improvvisa illuminazione. Il frumentario allora attese che la donna ingoiasse l’ultimo boccone di pane e garum, poi si lanciò di nuovo all’attacco della sua ignara preda. «Dì la verità, Valeria, cosa diceva quello smidollato di Voreno?» La lupa si lasciò andare a un flebile sorriso: il tempo della vendetta era finalmente giunto e lei avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per assicurare al dispotico lenone un castigo esemplare. «Si lamentava continuamente della tua cocciutaggine e avidità», rivelò a capo chino la donna. «Diceva che prima o poi l’assassino avrebbe accoppato anche lui a causa del tuo stupido puntiglio di voler continuare a tenere aperto il bordello.» «Continua», la pungolò Trebonio, simulando una mimica accigliata. «“Quello scribacchino deve avermi preso in odio”, ripeteva negli ultimi tempi. “Vuole vedermi squartato come un maiale”. Infine due giorni fa, a notte inoltrata, si è presentato il tuo galoppino alla porta del locale. Voreno l’ha fatto entrare nella sua stanza e sono rimasti a parlare fitto fitto per un paio d’ore. Io ho cercato di origliare dall’altra parte del corridoio ma non sono riuscita a intendere l’argomento della loro conversazione. Quando il tuo collaboratore è ripartito, il rosso appariva visibilmente sollevato e sventolava trionfante il papiro che tu gli
avevi inviato come se fosse la gualdrappa del corsiero di Cesare. “Si è deciso finalmente”, ha mugugnato sorridendo, prima di ritornare alle sue faccende.» «Ti ringrazio, Valeria», chiosò il princeps peregrinorum, appena la giovane ebbe terminato la sua breve narrazione. «Saprò come trattare quel meschino infingardo.» «Sei un uomo magnanimo, domine», osservò melliflua la lupa. «Io stavo per assalirti e tu mi hai offerto da mangiare. Un altro, al tuo posto, mi avrebbe fatta torturare per un simile oltraggio.» Macrino a quel punto si alzò dallo sgabello e aprì il marsupium che pendeva dalla sua fusciacca. Ne estrasse una decina di sesterzi e li pose nelle mani della povera sventurata. «Fanne buon uso, Valeria», le disse, avvicinandosi pericolosamente al suo volto delicato. Per il tempo di un respiro fu vinto da uno strano e incontrollabile trasporto e quasi le sue labbra sfiorarono quelle dell’esterrefatta prostituta. Poi il raziocinio tornò nuovamente a dominare sull’istinto e l’inspiegabile impulsività, che aveva fino allora controllato i suoi movimenti, fu soffocata all’istante. La bocca deviò sulla fronte alabastrina della giovane donna, regalandole un lungo e tenero bacio. Pochi istanti dopo il capo dei frumentari si avviava lesto in direzione della parte nord-occidentale della città mentre Valeria, seduta al tavolo e ancora intontita per l’accaduto, fissava con aria sognante lo spiazzo che si apriva oltre l’ingresso della popina.
Roma, quattro giorni alle idi di settembre.
Nella domus di Ottavio Titinio Capitone.
Le parole del magister ministratores, il sovrintendente dei camerieri, furono
accolte dagli sguardi soddisfatti, carichi di ammirazione, degli illustri ospiti del procurator ab epistulis. «Mammelle di scrofa farcite di ostriche, lingue di airone in salsa di more e polpettine di ghiro al garum», ripeté la moglie di Amilio Coturnato all’edile che la affiancava, mentre faceva segno al suo puer ad pedes di versarle la terza coppa di mulsum. «L’illustre Capitone sa come stupire i suoi commensali», commentò serafico il giovane magistrato, nauseato dal pungente tanfo, misto di profumo e sudore, che emanava la nobile e grassoccia matrona. La gustatio di quel sontuoso banchetto sembrava dover durare in eterno: in principio le quattro graziose cillibae, strette intorno ai tre triclinari, erano state ricoperte da golosissime porzioni di frittate di noci cosparse di miele; poi era stata la volta di un enorme vassoio di libum, le focacce di farina e formaggio, cotte in un letto di alloro, con la crema di asparagi, precedute da diverse patinae piscium, padelle colme di pesci, ricche di triglie, gamberi e tocchetti di polpo. Ottavio Titinio era avvolto in una magnifica veste di bisso ambrata e discorreva amabilmente con il suo invitato speciale, un senatore dal naso aquilino e dall’espressione tronfia che occupava impettito il locus consularis, il lato sinistro del triclinare centrale destinato agli ospiti di maggiore riguardo.
Mentre i ministratores si affrettavano a portar via i piatti vuoti e i numerosi avanzi dell’antipasto per far spazio alle diverse portate delle primae mensae, il piccolo gruppo di symphoniaci cominciò a flautare un motivetto ritmato e orientaleggiante. Dall’ampio ingresso del triclinio, che affacciava direttamente nel giardino porticato della casa, una compagnia di sensuali gaditanae iniziò a dare vita a una spettacolare danza acrobatica, affiancandosi a un paio di lussuriosi cinaedi che ancheggiavano a ritmo di musica, coperti da sottilissimi veli trasparenti e multicolori. Quel breve e inatteso interludio riuscì a catturare da subito l’attenzione dei banchettanti i quali, commentando interessati la provocante esibizione, continuavano a sbocconcellare divertiti e a sorseggiare generosamente dai loro calici fra battute, risate e perfide frecciatine appena mormorate. A un tratto lo sguardo del padrone di casa superò la confusione di gambe sinuose
e di volti aggraziati che occupava la soglia della spaziosa sala da pranzo e andò a incrociare la faccia seria e pensierosa del fidato Tiberio, nascosto in parte dietro a una robusta colonna tuscanica. Il fidato collaboratore del procuratore sostava acquattato nella penombra generata dalle lucerne presenti nel peristilio e lanciava occhiate insistenti al suo dominus. Spinto dal comportamento inconsueto e fastidioso del vecchio servo campano, Ottavio Titinio Capitone abbandonò refrattario il suo posto e si avviò a o lento verso il fondo del giardino, non senza prima essersi scusato con gli ospiti per la sua temporanea assenza. «Cosa vuoi, maledetto?», ringhiò collerico una volta appartatosi con il suo schiavo in angolo nascosto del recinto porticato. «Devi perdonarmi, mio signore», balbettò con un filo di voce Tiberio, «ma non sapevo come avvisarti.» Detto ciò gli porse un codicillum e attese che il padrone ne rompesse il sigillo. «Chi lo manda?» «Un uomo di Nerva ha bussato alla porta, chiedendo all’ostiarius di farsi annunciare alla tua persona. Aiace ha pensato bene di farmi chiamare e io ho preso in consegna il messaggio. Il tipo non poteva attendere ed è sparito subito dopo essersi raccomandato di portare il rullino direttamente nelle tue mani.» Tiberio fece una breve pausa e fissò il pavimento. «Sarebbe stato sconveniente sussurrarti all’orecchio davanti ai tuoi stimati ospiti, oltre che poco saggio», continuò a giustificarsi mentre il suo padrone leggeva attentamente il contenuto del biglietto. «Non pensarci», lo rassicurò assorto Ottavio, «ora accompagnami nel tablino e cerca di ricordare dove hai riposto la cassetta con i cifrari.» L’eco della musica proveniente dal triclinio si era oramai assopito del tutto e la vivace melodia dei flauti aveva lasciato il posto alla voce impostata e corposa dell’anagnostes, impegnato a recitare un pomposo panegirico su Tito. Seduto al suo comodo scranno dai braccioli intarsiati, Capitone cominciò a riscrivere con perizia l’oscura successione di lettere riportate all’interno del codicillo. Quand’ebbe terminato il lavoro, restò per un momento a scrutare lo sviluppo di quelle parole che, in apparenza, non mostravano alcun significato:
No frqvroh ghvnlqdzr gdo suhovfhozr h Bhulnqnr Uair. Od ghfnvnrqh h vzdzd dffhzzdzd dood aqdqnpnzd gdn qrenon sdzuhv fmh orzzdqr frqzur od znudqqnd. bdoe.
«Li ho trovati!», esclamò esultante Tiberio, riponendo sul grande scrittoio da lavoro una serie infinita di rocchetti intorno ai quali erano avvolte piccole strisce di papiro. «Sarà un’impresa capire quale dei tanti faccia al caso nostro», considerò sfiduciato il cavaliere, lanciando occhiate cariche d’ansia alla tenda che si apriva davanti al peristilio: di lì a poco gli ospiti si sarebbero sicuramente chiesti perché il dominus si attardava tanto a riprendere il suo posto nel banchetto. «Potremmo partire dalla “chiave d’Augusto”», provò a suggerire il fidato collaboratore di Ottavio, «è stato il più usato negli ultimi anni.» «Lo scivolamento è facile da intuire», l’ammonì Capitone, «e poi chi lo ha scritto non è così approssimativo. Sicuramente avrà usato un salto più complesso, anche se non particolarmente impegnativo. Non può rischiare di certo che lo slittamento resti insoluto e quindi che il suo messaggio non venga recepito.» Il servo annuì convinto e riprese a scartabellare la gran quantità di rullini disseminati sul lungo desco. Intanto il padrone di casa si era alzato stizzito dalla sua sedia e aveva preso a fare avanti e indietro per l’intera estensione del tablino, le braccia conserte sul petto e il viso rabbuiato. D’un tratto i suoi grandi occhi castani caddero sul magnifico busto di Marco Giunio Bruto che raffinava l’ambiente di rappresentanza della sua dimora. Così l’intuizione lo fulminò inaspettata dal cielo. «Ci sono!», dichiarò vittorioso Capitone, recuperando con slancio il retro della scrivania. «Trovami il cifrario del Dictator!» Tiberio si affrettò a scovare il prezioso algoritmo crittografico e, trovatolo, lo ò velocemente nelle mani del padrone.
Portata a termine la breve decodifica, Ottavio poté finalmente leggere:
Il console designato dal prescelto è Verginio Rufo. La decisione è stata accettata all’unanimità dai nobili patres che lottano contro la tirannia. Vale.
«Come prevedevo», commentò atono il procuratore di Domiziano, mentre porgeva il codicillo originale al suo fedele liberto. «Fallo sparire», disse prima di recuperare l’uscita dell’elegante studio. «E brucia il papiro dove ho trascritto il suo contenuto.» Poi prese ad attraversare il portico colonnato che abbracciava il giardino, puntando dritto verso la sala da pranzo. L’appetito era sparito del tutto, così come lo spirito gioviale con il quale aveva accolto in casa i suoi pregevoli visitatori. Una cascata d’immagini nefaste invase subitanea la sua mente e una strana inquietudine cominciò a insinuarsi nell’animo, attaccandosi alle solide pareti dell’omertà tra le quali si era tristemente rifugiato da tempo.
Liternum, quattro giorni alle idi di settembre. Nei pressi del vicus Calvus.
«Vulpecula!», suggerì esterrefatto lo speziale. La sua figura asciutta si arrestò a metà dello stretto angiporto che i due stavano percorrendo e per un istante le iridi glauche del liberto parvero illuminarsi nella penombra della galleria. «È stato il primo nome cui ho pensato», ammise Macrino, guardandosi bene dal cercar di dissimulare la sua inquietudine. «Lo sentivo fin dall’inizio che questa faccenda puzzava, e parecchio», osservò pensieroso Labieno. «Tuttavia è sempre stato uno dei tuoi uomini migliori e la sua occulta presenza qui a Liternum risulta a dir poco inverosimile.»
«Brutta razza gli spioni», si affrettò a rispondere Trebonio. «Eppure credevo di potermi fidare almeno di lui. A questo punto la faccenda, da complicata che era, diventa addirittura sibillina. Dobbiamo tenere gli occhi aperti, amico mio, e dedicarci alle indagini con più lena che mai.» «Un problema alla volta», consigliò serafico il liberto, «e cerchiamo di essere pragmatici.» Superato l’angusto viottolo coperto, i due messi imperiali si ritrovarono di fronte al serrato labirinto di stradine che si estendeva fino a lambire le prime insule della colonia. Avvolte nella tranquillità dei vespera le vie apparivano piccoli rigagnoli di polvere e ciottoli, muti e solitari dopo l’intensa frequentazione diurna di cittadini e venditori forestieri. Svoltando nella prima traversa che si affacciava timidamente a destra dell’angiporto, Trebonio e il liberto si ritrovarono dopo poco ad abbarbicarsi lungo un’impegnativa e inattesa salita che conduceva a un piccolo slargo pavimentato. In lontananza, sul lato mancino della spianata, campeggiava un’insegna di legno dai colori sgargianti e ancora mezza illuminata dai barlumi fumosi di una torcia. «Eccola lì, la bottega di Meto, il vestiarius», confermò a mezza voce Macrino. «Ancora a lavoro», constatò arrancando il siculo. «Deve guadagnare bene il nostro sarto.» Sebbene cercasse in tutti i modi di mascherare il fiato corto e la fatica dipinta nel rossore del suo volto, il liberto riusciva a malapena a tenere l’agile o dell’amico. D’altronde il vigore fisico del princeps peregrinorum era cosa nota nell’ambiente militare, specialmente fra le reclute fresche di arruolamento che giungevano periodicamente nella caserma posta sulla sommità del Celio. «A detta di Mario il locandiere, negli ultimi anni Meto avrebbe tirato su una fortuna», continuò in scioltezza il capo dei frumentari, «ma di tutto il bel gruzzolo che ha racimolato non gli restano che il locale dove lavora, una catapecchia piccola e cadente, situata nei pressi del Foro, e cinque servette nordiche, tre delle quali gli danno una mano in bottega.» «Come mai?»
«Semplice: Bacco, Venere e i dadi sembrano essere gli amministratori del suo reddito mensile. E c’è dell’altro. Sai con chi faceva coppia fissa il sarto durante le sue notti brave?» «Voreno?», ipotizzò dubbioso Labieno. «Precisamente. Prima di raggiungerti alla domus, ho incontrato Pulcro per capire come mai gli uomini che aveva messo di ronda al lupanare non avessero notato la fuga notturna del rosso lenone.» «Ebbene?», l’incalzò il liberto, mentre giungevano a poche pertiche dall’ingresso della taberna di Meto. «Pulcro cadeva dalle nuvole ed è andato su tutte le furie, mettendo subito sotto torchio i due giovani vigili. Alla fine, terrorizzati dalle imprecazioni e dalle minacce del loro superiore, gli sbarbatelli hanno vuotato il sacco. Ieri notte, poco prima del cambio di turno, i due hanno incrociato Meto che andava alla locanda “Il mulino” per divertirsi un po’, fra una partita ad astragali e una brocca di Falerno. Il sarto ha insistito affinché loro fossero suoi ospiti alla bettola e quei due ingenui hanno accettato di buon grado l’invito, senza curarsi di aspettare il cambio.» «Ma guarda che bizzarra coincidenza!», sogghignò a denti stretti il siculo. «Dopo aver saputo come erano andati i fatti, Pulcro mi ha accompagnato fra la ressa di banconi che sfruttano l’ombra sotto il portico colonnato del Foro e lì ho iniziato a fare un po’ di domande sul conto del lenone.» «Mentre io mi ammorbavo l’anima rinchiuso in quell’oscura prigione», precisò con un gesto di stizza lo speziale. Trebonio accennò un leggero sorriso, quasi a volersi scusare per la sofferta reclusione nella quale aveva forzato il suo fedele liberto. Conosceva bene l’indole curiosa e battagliera del siculo: sicuramente starsene nella dimora del nobile Afro per fare da balia al capo dei famigli gli era apparsa una sorta d’immeritato castigo. «Spero almeno tu sia riuscito a scoprire qualcosa d’interessante sul conto del tuo sorvegliato», aggiunse in tono pacato Macrino.
«Direi proprio di sì», si limitò a bofonchiare stremato il liberto, poggiando le mani sulle ginocchia a ogni o che faticosamente lo avvicinava verso l’uscio della bottega. Una volta raggiunta la sommità del malagevole viottolo i due messi imperiali sbirciarono attraverso le lastre di vetro che occupavano il lato lungo del locale adibito a bottega.
Meto non aveva badato a spese per rinnovare l’aspetto del piccolo fabbricato, sperando di poter accaparrarsi in questo modo la già ristretta cerchia di maggiorenti che preferivano rifornire le loro arcae servendosi altrove. L’esborso economico per installare alle finestre le superbe ma proibitive imposte, realizzate dalla mano sapiente di Mascio il vetraio, era stato davvero ingente. Di contro la sua bottega ne aveva guadagnato in decoro ed eleganza, senza contare il ritorno di immagine che aveva fatto seguito a quella sofferta ma indovinata decisione.
All’interno della taberna il vestiario sonnecchiava raggomitolato sopra una piccola panca, situata a ridosso della parete che correva lungo il limitare sinistro del bancone. Di contro, tre giovani schiave germaniche, vestite con tuniche sgargianti, cucivano a capo chino con aria dimessa. «Che bel modo di lavorare!», sussurrò sdegnato il siculo. «Fossi in loro lo strangolerei nel sonno.» «Calma Labieno», lo redarguì l’amico, «non perdiamo di vista il nostro obiettivo. Hai portato con te il rotolo col sigillo imperiale?» «Eccolo», bisbigliò in tono esultante il liberto, mentre sventolava sotto il naso del compare il piccolo papiro imbrattato di ceralacca. «Bene», concluse soddisfatto Trebonio. «Qualsiasi cosa nasconda, vedrai che il nostro uomo canterà come un uccellino.» Detto ciò i due insoliti avventori si affrettarono a bussare energicamente alla porta della silenziosa bottega: volente o nolente, quella sera Meto avrebbe parlato a lungo e con dovizia di particolari.
10
Roma, tre giorni alle idi di settembre.
Fuori la Porta Viminalis.
Petronio Secondo lasciò scorrere le tre dita sulla fibula dorata che campeggiava poco sotto la spalla destra, accomodandosi lentamente l’allacciatura dell’abbondante lacerna. Un energico refolo di vento investì d’improvviso la sua possente figura e l’ampio mantello opalescente ondeggiò per qualche istante in balia della boriosa frescura mattutina. Lo sguardo proiettato oltre il grande fornice della porta, il prefetto del pretorio iniziò a fissare con impazienza la zona d’incontro fra il vicus Collis Viminalis e il vicus Patricius, augurandosi di scorgere al più presto la sagoma familiare del suo informatore. Percorsi da un riflesso di luce, i suoi penetranti occhi corvini si schermirono d’istinto e caddero sul breve tratto delle Mura Serviane che andava a collegarsi con il confine sinistro del secolare attraversamento cittadino. Le prime difese di Roma, edificate secondo tradizione dal re Servio Tullio, erano oramai ridotte all’ombra di se stesse: un anonimo ammasso di grossi blocchi tufacei, brunito dal sole ed eroso dall’instancabile azione del tempo, alto circa trentatré piedi e largo meno della metà. In un’epoca lontana, quella vetusta linea rocciosa si ergeva irriducibile come unico e glorioso baluardo a difesa della giovane città dai sette colli. Ora invece ammirava, ammutolita e stanca, l’egemonia incontrastata dell’Urbe immortale, padrona del mondo e dominatrice di popoli, confusa e caotica all’inverosimile, enorme caleidoscopio nel quale si specchiavano nel contempo una inconcepibile ricchezza e la fame più nera, oberata di eleganti dimore patrizie e di invivibili mostri residenziali chiamati insule.
Seducente come Palmira e misteriosa come Alessandria d’Egitto. Sospirando profondamente, il capo dei pretoriani accarezzò col palmo della
destra il pettorale sbalzato della sua lorica muscolata, lucida e nera alla stregua di un elegante stallone. Quanto avevano in comune lui e quell’annosa fila di pietre… Del bel giovane di rango equestre, pieno di sogni e speranze, non restava che un ricordo lontano e sbiadito: l’incredibile forza che tempo addietro avvolgeva un fisico prestante era stata affievolita da anni di campagne militari e di marce, mentre il suo aspetto piacevole era sparito sotto la moltitudine di cicatrici che ora gli solcavano malevole la pelle, causandogli improvvise fitte lancinanti. Sul campo di battaglia, nelle fredde e inospitali terre germaniche, aveva dimostrato il suo immenso valore di soldato, combattendo con indomito coraggio contro un nemico tanto coriaceo quanto spietato e che aveva reclamato brandelli del suo corpo in cambio dell’amaro sapore della vittoria. Adesso, ata da poco la quarantina, si ritrovava mezzo monco e sordo da un orecchio per aver compiaciuto un padrone empio e tracotante, un paranoico squilibrato che aveva in mente di mandare all’Averno l’intera cerchia di collaboratori che lo aveva servito fedelmente per anni.
D’un tratto Petronio Secondo ebbe l’impressione di essere osservato e si voltò di scatto verso il campo esterno dei Castra Pretoria, in direzione della Porta Collina. A meno di quindici i di distanza un giovane avanzava spedito verso la sua posizione, tenendo l’elmo ben stretto sottobraccio. Il prefetto del pretorio attese impettito che il soldato gli si parasse davanti stringendosi nel saluto militare, poi esordì nella maniera che era a lui più congeniale: «Odio i ritardatari, Clodiano.» «Scusami comandante», rispose Clodiano in tono poco convinto, «ma ho cambiato itinerario all’ultimo momento.» «Come mai?», domandò il capo dei pretoriani, «mi aspettavo che salissi dal vicus Patricius.» «Venendo, ho avuto il timore di essere pedinato. Quindi a metà strada ho abbandonato la Suburra, deviando per l’Alta Semita.» «Balle», malignò mordace l’alto ufficiale. «Hai un pessimo aspetto e l’aria provata. In effetti sembri uno che ha trascorso la notte a fare bisboccia, tra vino e puttane. Chissà perché ho il sentore che tu provenga dalla locanda di Tertullo.»
Il tribuno non accettò la provocazione, limitandosi a rivolgergli un’occhiata colma d’odio. «Allora», riprese a dire Petronio, soddisfatto del suo appunto, «cosa c’è di nuovo, soldato?» «Nerva ha stabilito chi sarà il suo collega di consolato dopo l’ascesa al trono», sentenziò stentoreo Clodiano. «Ebbene?», lo pressò smanioso il capo dei pretoriani. «Lucio Verginio Rufo», scandì con estrema lentezza l’altro.
Il comandante restò incredulo nel sentire quel nome. Il suo viso s’incupì di colpo e lo sconforto cancellò la sua solita espressione tronfia, divorandone l’arroganza in un unico boccone. «Da chi hai appreso questa sciagura?», farfugliò inviperito Petronio. «Tiberio mi ha portato un codicillo da parte del suo padrone, Titinio Capitone.» «E lui?» «Ha ricevuto un messaggio scritto direttamente dalla mano del nobile senatore», concluse atono Clodiano. «Ma è una pazzia!», esclamò in preda all’ira il prefetto. «A furia di gozzovigliare nella sua villa campestre di Narnia, il campione della Curia deve aver perso il senno! Come si può arrivare a una decisione così scellerata? Avrebbe dovuto scegliere come collega un uomo energico, determinato e ben in vista, un personaggio amato dal popolo e ancor più dai legionari. Invece ha preferito un vecchio dall’aria decrepita e dal ato burrascoso, ritiratosi da anni a vita privata perché perseguitato dai suoi stessi soldati.» «Forse hai ragione», commentò serafico Clodiano. «O forse no. Dipende da quale lato vuoi osservare la moneta, comandante.» «Cosa vai blaterando, Clodiano?», tuonò arcigno Petronio, livido di collera.
«Non c’è nulla di sensato nella scelta di quello sconsiderato!» «Il mio parere vale poco», si affrettò a spiegare Clodiano, «tuttavia permettimi di mostrarti la faccenda sotto un altro punto di vista.» Il prefetto avrebbe voluto prendere a pedate quel giovane tribuno insolente e sbruffone: chi credeva di essere quel bamboccio per parlargli con tanta supponenza? Tuttavia tacque e, a braccia conserte, attese il momento giusto per mortificare a dovere il suo interlocutore. «L’aspetto di Nerva può trarre in inganno», cominciò a spiegare il tribuno. «Dietro la sua figura dimessa e sofferente si cela in realtà un uomo astuto e dalla mente acuta, un politico abile e sagace. Ciò che dici sul conto del nobile Rufo è vero: purtroppo il tempo non è dalla sua parte…» «È con un piede negli Inferi!», enfatizzò seccato l’altro. «Nondimeno», lo redarguì a voce alta Clodiano, «la scelta del nostro capax imperii può considerarsi scaltra e avveduta. Lucio Virginio Rufo è un patrizio, un senatore ed è stato già console sotto Nerone.» «Questo spiega tutto!», sogghignò il prefetto del pretorio. L’ufficiale parve non ascoltare le parole acide di Petronio e continuò a esporre con calma le sue considerazioni. «Come ricorderai, dopo aver sconfitto Giulio Vindice, le truppe capitanate da Rufo lo acclamarono a gran voce imperatore, cercando di obbligarlo ad accettare il comando. Il nobile senatore invece rifiutò con forza l’offerta dei suoi uomini, arrivando perfino a dichiarare che non avrebbe permesso a nessuno di fregiarsi di quel titolo senza una preventiva decisione del Senato.» «E quindi?», lo incalzò Petronio, iniziando a scorgere una nuova chiave di lettura nelle elucubrazioni di quel novello Cicerone. «Marco Cocceio Nerva ha scelto il vecchio Verginio proprio considerando la delicatezza della sua futura posizione. Al popolo non interessa chi sia al potere, la plebe anela solo ad avere la pancia piena e un posto sulle gradinate del Colosseo. Ciò che deve conquistare concretamente il futuro Augusto è il favore incondizionato dei nobili patres. Cambiano gli imperatori, i consoli e i
governatori, ma i seggi della Curia sono occupati da secoli sempre dagli esponenti delle medesime famiglie patrizie. In tal senso, scegliere come collega un uomo che ha sacrificato la sua esistenza per glorificare la potenza dei padri coscritti può rappresentare la mossa vincente per accaparrarsi definitivamente il loro pieno appoggio.» Il prefetto restò a osservare per un momento la figura armoniosa di quel soldato dai boccoli biondi: il ragazzo era un tipo davvero sveglio e, a dispetto delle umili origini, era avvezzo ad addentrarsi nei complessi marchingegni che manovravano le scelte politiche in seno alla Curia. Non per niente aveva scalato i gradini della carriera militare divenendo uno dei più giovani tribuni delle coorti pretoriane. Sicuramente averlo alle proprie dipendenze sarebbe stato un bel vantaggio. «Forse non hai tutti i torti, sai?», dedusse Petronio Secondo a fine discorso, lasciandosi sfuggire un sorriso. «Sei lesto di pensiero. Quando tutta questa faccenda sarà finita, non dimenticare di are per il mio ufficio. Ai tipi in gamba come te fanno di certo comodo un po’ di sesterzi extra.»
«Ci penserò, comandante», si limitò a rispondere Clodiano. Poi, dopo aver eseguito il saluto di prammatica, si avviò a o svelto in direzione della Suburra, oltreando il grande arco della Porta Viminalis. Il sole dell’ora seconda svettava alto in una sorta d’immenso drappo pervinca e i suoi raggi vigorosi iniziavano ad abbattersi senza sosta sui diversi quartieri dell’Urbe. Petronio alzò gli occhi verso il cielo terso e sereno come quello dei primi giorni d’estate. Il tempo si prospettava indulgente per tutta la mattinata e forse le sue annose ferite gli avrebbero concesso un po’ di tregua. A quel punto respirò a pieni polmoni l’odore proveniente dalle campagne a nord della città e prese a percorrere la stradina che conduceva ai Castra Pretoria.
Liternum, tre giorni alle idi di settembre.
Nel teatro del Foro.
La prova del pantomimo era appena a metà del suo corso quando il nobile Marco Stazio Afro iniziò a inveire indignato contro i poveri attori. «Che lurida rappresentazione è mai questa!», tuonò disgustato il supremo magistrato di Liternum. «Quante sconcezze e che volgarità! Dove pensate di essere, in un bordello? Dov’è quello scellerato di Cotta?» In effetti il capo della compagnia di teatranti ci aveva dato sotto di brutto: l’Oreste che aveva inscenato per lo spettacolo serale era a dir poco osceno. Lo stupro subito da Clitemnestra prima di essere sgozzata dal proprio figlio poteva ancora are, ma che l’interprete di Pilade sbucasse improvvisamente nudo sul palco e prendesse da dietro un vivace cinedo, avvolto negli striminziti panni di un Menelao effemminato, beh… ciò era alquanto scandaloso. In aggiunta, il personaggio della bella Elena di Troia era stato affidato a una vecchia grassona dalla pelle raggrinzita, truccata in modo pacchiano e con la bocca sdentata, mentre Elettra, la coprotagonista della triviale rappresentazione, era una giovane mimula di chiare origini africane, sepolta sotto interi sacchi di biacca e con un corpicino fin troppo esile ma stranamente sormontato da due poppe mastodontiche. Alle parole colleriche del duumviro, i flautisti nascosti dietro l’orchestra, sul lato destro della scenografia, bloccarono di colpo il loro brioso motivetto. Pochi istanti dopo, un tipo pallido e segaligno apparve oltre le pieghe del malridotto sipario, avanzando sulle assi del teatro con l’espressione tristemente rassegnata di chi sa di essere destinato ineluttabilmente al patibolo. «Brutto ispanico imbecille!», lo aggredì a gran voce Afro. «Credi di essere furbo? Ti avevo commissionato una rivisitazione raffinata e inedita di una tragedia epica e tu hai pensato bene di mettere su questa specie di depravato baccanale!» «Mio signore ti assicuro che…», fece per scusarsi con un filo di voce un Cotta a dir poco affranto. «Non una parola, ignobile imbroglione!», ringhiò accigliato l’editor della serata. «Ti do un paio d’ore per presentarmi un lavoro decente, altrimenti per te saranno guai.»
Trebonio e Labieno erano seduti un paio di file dietro la pingue figura del magistrato e faticavano a trattenere il riso per quell’inaspettato fuori programma al limite del grottesco. Afro aveva chiesto loro di presenziare in sua compagnia alle prove dello spettacolo in cartello per quella stessa sera e i due messi imperiali non avevano potuto declinare in alcun modo l’invito. Arrivati davanti alle arcate del teatro, il siculo aveva guardato il suo ex padrone con aria abbacchiata: la tragedia non era mai stata il suo genere preferito. Amava invece le esuberanti rappresentazioni improvvisate dai mimi di strada dell’Urbe, dei veri e propri maestri nel riproporre i vizi più celati delle nobili gens dell’aristocrazia romana. I temi principali dei pepati siparietti organizzati dalle compagnie più famose erano legati per lo più a storie di adulterio, ma anche le vicende che narravano truffe, concussioni ed equivoci piccanti riscuotevano lauti consensi.
Dopo la feroce sfuriata, il duumviro della colonia si avvicinò ai suoi due ospiti e si scusò per l’increscioso imprevisto.
«Abbiate pazienza, amici, non sapevo quanto becero e sconveniente fosse il lavoro propinato da quel meschino di Cotta. Se volete seguirmi, la mia lettiga attende all’ingresso del Foro. Ci rilasseremo insieme alle terme cittadine, dando a questi idioti un paio d’ore per sistemare la loro vergognosa esibizione.» «Ti ringraziamo, nobile Afro», si precipitò a rispondere Trebonio, «ma col tuo permesso vorremmo continuare a osservare le prove. Magari potremmo essere di aiuto alla tua compagnia di teatranti.» «Davvero gentile da parte vostra», se ne rallegrò il duumviro. «Sono sicuro che saprete consigliare al meglio queste bestie da circo.» Detto questo, il magistrato salutò i due compari e s’incamminò sollecito verso l’esterno del vetusto edificio. «Finalmente!», esclamò sollevato il liberto. «Pensavo volesse sequestrarci per tutto il giorno.»
Macrino abbandonò velocemente il suo seggio e fece segno allo speziale di seguirlo. I due arono davanti al pulpitum, il palcoscenico rialzato e munito di botole per i teatranti. Superarono velocemente le vesumae, i due varchi laterali utilizzati per l’ingresso degli attori e, gettando un’occhiata furtiva verso il fondo della scena, il capo dei frumentari notò che le due ante in legno, destinate a nascondere la zona delle quinte, erano disunite e lasciavano intravedere la figura affranta di Cotta, seduta su di un grosso baule rovinato. Il capo dei mimi se ne stava con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la faccia nascosta tra le mani, bofonchiando arcane imprecazioni contro la cattiva sorte che sembrava averlo preso di mira, mentre il suo gruppetto d’istrioni attendeva apatico le nuove direttive di lavoro. A quel punto Trebonio arrestò la sua silenziosa fuga dallo stabile e disse a Labieno di pazientare qualche minuto. Poi, con o deciso, puntò dritto verso il frons scenae, il fondo del palcoscenico. «Alzati in piedi, amico», intimò in tono risoluto l’inviato di Domiziano, una volta paratosi davanti al compunto commediante ispanico. Lì per lì Cotta lo guardò stranito e continuò a restare seduto. «Sei sordo, pezzo d’idiota? Vuoi che ti prenda a calci?», strepitò furente Macrino. In un battito di ciglia il capo dei teatranti era ritto davanti al suo interlocutore, muto e palesemente intimorito da quel tipo che fino a qualche minuto prima aveva considerato uno spettatore annoiato e distratto. «Bene», riprese a dire l’altro. «Adesso tu farai ciò che io ti ordinerò e in cambio mi assicurerai il tuo silenzio.» «Ma io non…», cercò di schermirsi il povero ispanico, ma Trebonio lo zittì con impeto. «Senti, zucca vuota, ci tieni ad arrivare tutto intero allo spettacolo di stasera?» «Certo, signore.» «Allora farai come ti dico: invece di inscenare l’Oreste tu proporrai Il rapimento di Cassandra. Sai meglio di me che non hai i numeri né il materiale umano per rappresentare la tragedia di Euripide, quindi meglio affidarsi a qualcosa di più semplice e molto più evocativo.» Cotta ascoltava imbambolato le sagge e precise direttive del suo sconosciuto
salvatore. «Il tuo forzuto Pilade dovrà sostenere la parte di Aiace Oileo mentre alla tettona africana affiderai il ruolo di Cassandra, così eviterai anche di insudiciare le toghe dei presenti con tutta quella biacca. Il bel tipino dal culo stretto lo camufferai a dovere e gli farai interpretare la statua parlante di Atena, mentre la grassona dal sorriso provocante sarà la vecchia Ecuba, regina di Troia in fiamme.» «È davvero un’idea meravigliosa!», osservò visibilmente sollevato lo smilzo commediante. «Sarà una rappresentazione suggestiva!» «Mi raccomando», aggiunse perentorio Trebonio, «limitati ai balletti succinti e a qualche scena di nudo. Lo stupro della veggente deve essere simulato quindi evita di farla incaprettare davanti all’intero teatro. Il nobile Afro potrebbe farti evirare per molto meno.» «Come posso sdebitarmi con te, amico mio?», chiese Cotta, colmo di referenza e ammirazione. «Semplice», concluse in tono pacato Macrino. «Quando ritornerà il duumviro, digli che ti ho dato buoni consigli e che ho abbandonato l’edificio poco prima del suo arrivo.» Così, dopo aver organizzato su due piedi l’intera rappresentazione in programma per la serata, il capo dei frumentari si avviò verso l’uscita secondaria del teatro, affiancato da un Labieno profondamente stupito dalle infinite risorse del suo ex padrone. «Non sapevo fossi un esperto conoscitore dei canovacci di pantomimo», ridacchiò beffardo lo speziale mentre sbucavano direttamente oltre l’ampio slargo pavimentato del Foro, in direzione della parte alta di Liternum. «In effetti non lo sono, caro Labieno», tagliò corto il princeps peregrinorum. «Ma la necessità aguzza l’ingegno e noi dovevamo liberarci al più presto dei mimi e del nostro pedante ospite.»
Avvolti dalla calura di metà mattino, i due si affrettarono a raggiungere l’ultima insula della colonia, quella che affacciava con il suo lugubre aspetto sul tratto
finale del cardo maximus, a poche decine di i dalla Porta Sud.
Trebonio procedeva taciturno, serpeggiando a fatica fra la calca di curiosi che si era improvvisamente riversata lungo l’ampio lastricato. Un intero edificio di tre piani era crollato su se stesso a una cinquantina di i dall’incrocio con il clivus Caesaris, seppellendo cinque famiglie e due botteghe sotto un triste cumulo di macerie. I vigili faticavano a ritrovare i corpi delle sciagurate vittime fra lo sfacelo di assi spezzate, mattoni e coppi fracassati e richiedevano a gran voce l’aiuto dei anti più volenterosi.
Procedendo parallelamente al luogo della disgrazia, Labieno rallentò il o per sbirciare fra lo spesso nembo di polvere e la folla di residenti che transennavano con le loro sagome la sezione di strada invasa dalla fiumana di detriti.
«A Roma di scene come questa se ne vedono praticamente ogni giorno e la gente sembra averci fatto l’abitudine, come se morire in questa maniera miserevole appartenga all’ordinamento naturale delle cose», rimarcò a voce basso lo speziale. Macrino parve non udire minimamente le considerazioni del liberto. La sua mente era lontana, rapita da tutt’altro genere di pensieri. Appena usciti dal teatro del Foro, si era immediatamente barricato in una sorta di alienazione contemplativa, immergendosi in una profonda analisi degli indizi raccolti durante la sua ricognizione in compagnia di Aurelio Pulcro. A detta di Lucio il vetraio, Voreno era arrivato in città circa dieci anni prima ma aveva intrapreso la sua redditizia attività di lenone solo dopo un lustro abbondante. Prima di allora si era dedicato a piccoli lavori saltuari da manovale, anche se a volte spariva dalla circolazione per giorni interi. Publio il mugnaio, impegnato a caricare il retro della sua bottega con sacchi di cereali e anfore d’olio, si era limitato a scambiare giusto qualche battuta con il capo dei vigiles. «Lo conosco poco», aveva asserito il commerciante. «Ma per quanto ne so è sempre stato un maneggione. So che anni fa ha dovuto abbandonare la sua città,
Sinuessa, perché aveva contratto un bel debituccio con dei tipi poco raccomandabili.» Poi era stata la volta della visita notturna nella taberna vestiaria di Meto e lì le informazioni erano fioccate precise e numerose. Accompagnato dalle minacce di Macrino, il sigillo imperiale aveva svolto appieno il suo lavoro intimidatorio e le parole del sarto erano riuscite a completare il quadro intorno alla sfuggente figura del lenone. Tra le varie confessioni era saltato fuori che Voreno in realtà non era mai stato il proprietario del lupanare, limitandosi a gestirlo per conto di terzi. Poco prima di intraprendere la sua attività di protettore il rosso aveva avuto una breve relazione con una cosmetica di nome Azia, figlia di un liberto di Capua, e insieme avevano vissuto per circa un anno in un buco al quarto piano dell’ultima insula cittadina. Poi la storia era terminata in malo modo e Voreno si era trasferito per qualche mese a Roma, ritornando infine a Liternum con la saccoccia tintinnante e una dozzina di graziose fanciulle straniere da cui ricavare profitto. La sera precedente la sua fuga notturna, il lenone aveva chiesto all’amico vestiario di aiutarlo a eludere la ronda dei vigili, evitandogli così il fastidio di dover rispondere alle domande sospettose di Pulcro e dei due messi imperiali. Meto, non senza farsi ricompensare a dovere, aveva accolto di buon grado la richiesta del rosso e aveva escogitato un modo per adescare le due giovani reclute in servizio. Del resto una delle donne scannate dal feroce assassino di prostitute era di sua proprietà e Voreno doveva ripagargli da tempo il doppio del valore della lupa. A pochi i dalla sordida facciata del casermone che lambiva l’estremo punto meridionale della colonia, Trebonio si decise a sciogliere il prolungato silenzio nel quale era scivolato durante tutto il tragitto. «Ci siamo, Labieno», esordì mentre scrutava l’opprimente gigante di mattoni che, con poche finestre, dominava l’ultimo tratto di strada. «Azia dovrebbe abitare ancora qui, almeno secondo le parole di Meto.» «Come pensi di convincerla a parlare?», indugiò dubbioso il siculo. «Aspetta e vedrai», replicò con convinzione il capo dei frumentari; indi prese a salire il primo dei tre gradini antistanti al grosso portone dell’insula, spalancato per l’afa stringente.
Imboccato l’androne dell’edificio, i due si trovarono davanti a uno stretto corridoio, completamente avvolto dalla penombra. A metà di quel lurido andito, dalle mura scrostate e rigonfie, si dipartiva la faticosa rampa di scale che conduceva ai piani superiori. Due grossi dolia in terracotta erano posti agli angoli della parete di fondo del fabbricato e ammorbavano, con il loro tanfo nauseabondo, l’intero spazio d’accesso ai livelli sopraelevati. Appena li vide avvicinarsi, l’ostiarius si alzò di scatto dallo sgabello sul quale ciondolava stravaccato fino a pochi istanti prima e si sbrigò ad assumere un’espressione a metà strada fra il torvo e l’investigativo. Il portinaio era un tipo basso e tarchiato, con un faccione squadrato e rubizzo, coperto da una barba di almeno tre giorni. Indosso vestiva una tunica consunta e inzaccherata, un tempo forse di colore giallo ocra, mentre una vistosa benda verdastra ricopriva il suo occhio sinistro. Con fare deciso si parò innanzi ai due messi imperiali, sbarrandogli il aggio che portava alla lunga serie di gradini dietro le sue spalle. «Cosa posso fare per voi, cittadini?», guaì con voce roca l’uomo, rigirando fra le mani un piccolo bastone nodoso, in legno d’ulivo. «Cerchiamo una donna», rispose stentoreo Macrino. «Siete nel posto giusto, amici miei», ridacchiò di gusto l’ostiarius tendendo svogliatamente il palmo della destra. «Al quinto piano è appena arrivata una giovane di nome Licisca, graziosa e docile come un agnellino.» Trebonio faticò a celare la sua meraviglia. Ancora Valeria, la ragazza incontrata durante la sua visita nel vicus Gaudii. Labieno aprì il marsupium e ne estrasse quattro sesterzi. Poi squadrò il loro tarchiato interlocutore e precisò in tono conciliante, giocherellando distrattamente con le monete: «Sappiamo che un tempo in questo stabile viveva una cosmetica, una certa Azia. Ci chiedevamo se era ancora qui e se potevi in tal caso accompagnarci alla porta della sua camera.» L’uomo non ebbe esitazioni e, impegnandosi nel mostrare la sua espressione più accomodante, rispose in tono mellifluo: «Come potrei rifiutarmi di aiutare due gentiluomini come voi? Vi condurrò io stesso al suo alloggio. Abita ancora qui, su, al quarto piano.»
Il portiere tese il braccio in avanti e intascò veloce la ricompensa per la sua disinteressata disponibilità, quindi fece segno ai due visitatori di seguirlo e, neghittoso, prese a risalire il susseguirsi di traballanti gradini che conducevano pericolosamente verso l’alto.
Le condizioni in cui versava quello sfortunato edificio erano deplorevoli: superato il secondo piano, i mattoni crudi e sbrecciati che costituivano gli scalini erano stati sostituiti da semplici i in legno, vacillanti al solo respiro degli sfortunati inquilini; il fetore di urina, caratteristico dell’ingresso, era stato soppiantato da un miasma misto di muffa e fumo. Questo sembrava traspirare direttamente dalle pareti dell’insula, insudiciate con macchie di grasso, pedate e graffiti di vario genere. Ciò che restava dei pianerottoli era invaso da avanzi di cibo e cumuli di stracci, miseri giacigli occasionali per gli sfrattati di turno. I corridoi intermedi erano invece simili a piccoli cunicoli sotterranei, bassi e soffocanti, rischiarati a fatica dagli strenui barlumi di luce prodotti da una vecchia coppia di lucerne situate ai loro estremi, mentre gli accessi alle stanze si mostravano tutti ugualmente anonimi e polverosi. «Di certo non è come stare nelle ville del Palatino», osservò il loro accompagnatore, a metà della rampa di raccordo fra il terzo e il quarto livello, «ma almeno non ci sono ladri e piantagrane.» Giunti sullo striminzito ballatoio del penultimo piano, il guercio indicò una porta tinta di rosso che si apriva sul fondo di un brumoso corridoio.
«Lì», sillabò sfuggente. Poi, senza aggiungere altro, cominciò a scendere per rioccupare velocemente lo sgabello situato nell’androne. Prima che la sua figura si eclissasse oltre il corrimano della scala, l’uomo aggiunse in tono deciso: «Di qualsiasi cosa si tratti, usate discrezione. Non voglio perdere il posto a causa vostra.» Indi riprese il suo cammino verso la luce. «Con chi credeva di parlare quell’animale?», sibilò inviperito il siculo, mentre si accingevano a bussare allo scheggiato battente in legno dell’alloggio. «Meglio sorvolare, Labieno», stornò pacato Macrino. «Se da centurione ti ritrovassi a dover vivere per il resto dei tuoi giorni in una simile topaia, forse a
lungo andare faresti la sua stessa fine.» Stavano quasi per abbandonare i loro intenti, dopo aver picchiettato invano per qualche minuto, quando una calda voce femminile trapelò attraverso il divisorio amaranto. «Chi è?» «Mi hanno detto che qui dimora Azia la cosmetica», rispose in maniera suadente il princeps peregrinorum. «Sono venuto per richiederne i servigi, sempre che sia in casa.» La porta ruotò verso l’esterno, scricchiolando penosamente, e dall’uscio della stanza spuntarono dapprima un viso femminile, poi una grossa spranga. «Chi siete e cosa andate cercando?», chiese accigliata l’affittuaria, osservando a turno i due sconosciuti. Macrino attese qualche momento prima di proferir parola. Quindi fece un o avanti e cominciò a rispondere in tono accorto. «Sono dolente di averti arrecato disturbo, Azia, ma avevo urgenza di parlarti quanto prima. Il mio nome è Gaio e sono un mercante di spezie orientali. Lui è il mio servo Evandro. Tutto ciò che ti chiedo è un po’ del tuo tempo. Ti assicuro che sarai ricompensata adeguatamente per la pazienza che vorrai dimostrarmi.»
La cosmetica traò lo sguardo dell’inaspettato visitatore con un’occhiata affilata e circospetta, cercando di scandagliare i recessi del suo animo: non vi trovò malvagità, al contrario percepì in quel volto abbronzato e dai lineamenti decisi una sorta di energica fierezza. A quel punto, poggiando la stanga nell’angolo di muro che si apriva alla sua destra, mormorò ai due di entrare e liberò finalmente la soglia della camera. L’ambiente era fosco e spoglio, grande all’incirca il doppio di un comune cubicolo. Al centro dell’esiguo vano era stato piazzato un piccolo tavolo quadrato, acciaccato e malfermo, mentre lungo il lato sinistro della parete di fondo era incassato un basso giaciglio. Ai piedi di quest’ultimo trovavano faticosamente posto un braciere spento e una vecchia cassapanca per gli abiti.
Azia additò le uniche due sedie che campeggiavano nell’alloggio e nello stesso tempo cominciò ad armeggiare con un paio di lucerne, mezze annerite a causa dell’uso prolungato e restie a procurare luce. Mentre si accomodava intorno al tavolo, Macrino prese a osservare con interesse la sua silenziosa e austera ospite, intenta a battibeccare con i lumi. La donna, che non doveva superare la quarantina, indossava una subucula di lino viola e un supparum celeste dalle venature color indaco, i cui margini superiori erano collegati tramite una sottile fibula di bronzo e un grazioso cammeo ambrato. Una piccola cintura le cingeva il busto appena sotto il florido seno; un’altra, più larga e decorata, le si avvolgeva stretta intorno alla vita. Ai piedi calzava un paio di solae, semplici sandali color zafferano dalle fibbie intrecciate, mentre la caviglia destra era ornata da un pendente rosso. Alcuni nastri porpora legavano diverse ciocche dei suoi morbidi capelli ondulati, tinti di biondo dalla spuma chattica e raccolti in cima grazie a un raffinato ago crinale d’osso. Le orecchie minute ponevano in bella mostra due buccolae e un impercettibile velo di cerussa che le imperlava il viso ovale, dai tratti delicati. Il suo sguardo era malinconico e sensuale a un tempo e gli occhi, tinteggiati di un verde carico, erano contornati da un sottilissimo filo di stibium. Qualche anno addietro la sua doveva essere stata certamente una bellezza rara e Macrino stentava a credere che l’insipido lenone dall’aspetto dimesso fosse riuscito a conquistare il cuore dell’avvenente cosmetica. «Allora?», esordì Azia, ancora impegnata a ravvivare la fiamma prodotta dalle lucerne. «Qual è il motivo della vostra visita?» Trebonio attese qualche istante prima di aprire bocca, voltandosi d’istinto verso Labieno: l’espressione del siculo mostrava una certa indifferenza, anche se il movimento nervoso e ritmato della sua gamba destra lasciava intuire bene quali fossero i suoi reali pensieri. A quel punto Macrino schioccò rumorosamente la lingua e diede inizio alla sua improvvisata interpretazione. «Alcuni anni fa dovevo intraprendere un lungo viaggio d’affari verso le province orientali dell’impero ma, sfortunatamente, attraversavo un periodo di gravi ristrettezze economiche. Così mi rivolsi a un vecchio amico il quale, non senza difficoltà, riuscì a prestarmi una cospicua somma di denaro, consentendomi infine di partire. Tanto tempo è ato da quel giorno e, ringraziando gli dèi, ho avuto modo di rimpinguare adeguatamente le mie finanze. Ora sono qui per estinguere il mio debito e omaggiare l’amico benefattore.»
«Bella storia», commentò atona la cosmetica, «ma non vedo come io possa esserti d’aiuto.» «Sono a Liternum da un paio di giorni», continuò Trebonio, «e ho preso un po’ a chiedere in giro per la città sul conto della mia vecchia conoscenza. Speravo che qualcuno potesse condurmi da lui, che lo conoscesse insomma…» «E quindi?» «Quindi sono rimasto di sasso per le notizie che ho appreso. Non solo è diventato ironicamente famoso nella colonia, ma addirittura da un paio di settimane il suo nome è sulla bocca di tutti per via della turpe vicenda degli omicidi nel lupanare», recitò indignato Macrino. «Mi hanno detto di cercarlo lì, però il locale è chiuso e un mendicante mi ha confidato di averlo visto abbandonare la città in piena notte. Alcuni mi hanno detto che tu…» «Non so chi ti abbia spedito qui», l’interruppe inviperita la donna, «ma di sicuro sei nel posto sbagliato, cittadino. Sono una onesta io, non una meretrice. Non ho mai avuto nulla a che fare con il tuo Voreno e ora vi prego di andare.» Trebonio sospirò profondamente e, lentamente, si alzò dalla seggiola e fece segno al liberto di fare altrettanto. «Non ho mai pensato che tu potessi essere quel genere di donna», assicurò con voce risoluta, puntando i suoi occhi dritto in quelle due perle color smeraldo. «E mi ero illuso che potessi aiutarmi a rintracciare l’uomo che hai appena nominato. Ti saresti meritata un’ottima mancia e avresti agevolato le mie ricerche. Scusa ancora per la mia intrusione nella tua casa. Vale Azia!» I due messi imperiali erano già usciti dall’alloggio e avevano appena imboccato, sconsolati, i primi gradini della lunga scala in legno quando la voce di Azia, proveniente da metà pianerottolo, interruppe la loro discesa. «Fermati», disse la donna, stavolta con voce docile e rassegnata. «Tu hai bisogno di sapere e io di mangiare. Ciò che dicono è vero, conoscevo bene Voreno. Entra in casa è ti dirò qualsiasi cosa tu voglia sapere sul suo conto. Le mie parole in cambio dei tuoi sesterzi…»
11
Roma, tre giorni alle idi di settembre.
Nella Domus Augustana.
«Divina Pallade, perché?» Il grido si propagò nell’aria orribile e profondo e attraversò come un tuono la vasta anticamera, oltreando la zona delle scale e affacciandosi ancora nitido sul limitare del piccolo giardino a pianta circolare. Partenio, maestro di camera, fu il primo a giungere trafelato all’esterno del cubicolo imperiale. Fermandosi a un o dall’ingresso, il liberto intrufolò il suo testone rasato oltre la soglia del padiglione, sperando in cuor suo in un’improvvisa concessione degli dèi immortali. Poco dopo, la sua molle figura fu affiancata da quella ben più atletica di Norbano il quale, superandolo con o deciso, si avviò verso il fondo dell’elegante sala, ricoperta interamente da splendidi affreschi dai contorni dorati.
Mentre avanzava, il prefetto del pretorio lanciò un’occhiata investigativa ai due sottoposti che stavano dirigendosi verso l’uscita per recuperare la loro posizione e che avevano fatto irruzione per primi nella stanza da letto del divino Augusto. La loro espressione appariva interdetta e borbogliavano fra loro a denti stretti. «Cosa è successo, divino Augusto?», recitò allarmato il capo dei pretoriani una volta avvicinatosi alla sagoma dell’imperatore. «Ho udito le tue urla fin dal peristilio interno.» Domiziano indossava una leggera tunica di seta color porpora, stretta intorno alla vita grazie a una larga fusciacca di bisso giallo. Era inginocchiato a piedi nudi davanti alla statua di Atena guerriera, un simulacro della dea in elmo, scudo e
spada che vegliava oramai da anni il riposo pomeridiano dell’Augusto.
«Sparisci!», ringhiò con voce roca il figlio di Vespasiano, voltandosi di scatto verso l’alto ufficiale. «Trovami Ottavio Capitone. Digli di venire qui, subito!» La schiena di Domiziano era madida di sudore. I tratti del suo volto apparivano distorti in una smorfia di paura unita a una profonda disperazione. Gli occhi erano stanchi, tremendamente infossati nelle orbite scure.
Norbano pensò bene di non replicare. Dopo essersi stretto nel saluto di prammatica, scivolò rapido oltre l’accesso al cubicolo dell’Augusto e s’incamminò in direzione della biblioteca Apollina, contrariato dall’accoglienza rabbiosa riservatagli dall’imperatore e trascinando via per un braccio l’ignaro Partenio. «Ma cosa gli è preso?», sussurrò interdetto il maestro di camera, mentre brancolava dietro il capo dei pretoriani. «E che ne so! Mi ha ordinato di mandargli il procurator ab epistulis, abbaiandomi poi di sparire. Giuro su Marte che non l’ho mai visto in questo stato. Sembrava stravolto, meglio cambiare aria.» «Forse ha avuto un malore?», suggerì fiducioso il liberto. «Io non credo. In tal caso mi avrebbe chiesto di Valeno. Aveva più l’aspetto di chi ha appena vissuto un’immane sciagura.» Capitone era in piedi davanti a uno scrittoio sommerso di missive e rotoli slegati, intento a minacciare un indolente servus a codicillis. Il suo ufficio fiancheggiava il lato orientale della spettacolare Cenatio Iovis, una sala grandiosa per dimensioni e gusto decorativo, fornita di un pavimento di marmo bianchissimo e dotato d’ipocausto. L’enorme padiglione era utilizzato solitamente per approntare gli sfarzosi banchetti invernali e presentava un’elegante abside, poco profonda, incassata nella parete di fondo, ai lati della quale erano situati i vani che conducevano verso la doppia biblioteca del tempio
di Apollo. Vedendoli sbucare inaspettatamente all’interno del suo tablino, Ottavio troncò all’istante la sua lunga sequela d’imprecazioni contro l’abulico servo e gli andò incontro con aria sorpresa. «L’imperatore ha urgenza di parlarti, procurator», riferì con voce stentorea Norbano. Dalle sue parole traspirava una sorta di tacita apprensione. «Strano», ponderò lentamente il segretario personale dell’Augusto. «Questa è la sua ora di riposo.» «Non farlo attendere», ribatté secco l’ufficiale. «Vuole vederti da solo e alla svelta.» «Il motivo?», replicò Ottavio, mentre rigirava tra le mani un piccolo stilo acuminato. «Non l’ha detto. Era ai piedi di Atena e sembrava pregare e inveire insieme», si limitò a rispondere il capo dei pretoriani. Il procurator fece segno allo scribacchino di levarsi di torno, poi raccolse personalmente una capsa, cacciandovi dentro un rotolo pronto all’uso e tutto l’occorrente per scrivere. A quel punto abbandonò il suo ufficio e prese a dirigersi verso l’ala degli alloggi imperiali, accompagnato dalle taciturne figure di Norbano e Partenio. A metà strada il capo dei pretoriani si guardò intorno con circospezione. Poi, assicuratosi di essere soli, ruppe il silenzio che avvolgeva il loro incedere e si rivolse nuovamente al segretario di Domiziano, posandogli una mano sulla spalla. «Spero tu voglia condividere con noi le pene che affliggono il divino Augusto.» Ottavio gli lanciò un’occhiata torva. «Non essere angustiato, amico mio», sussurrò placido l’ufficiale, senza badare all’espressione guardinga e severa del procurator. «Ricorda quello che ti ho detto durante il nostro ultimo incontro. Se nascono sospetti, non potrò salvarti ancora.» Detto questo, Norbano si congedò con un gesto del capo e ritornò alle sue faccende dalle parti del Lararium mentre Partenio, imboccando un corridoio dal
soffitto a volta che si apriva a pochi i sulla sinistra, fu inghiottito lentamente dalla penombra offerta dall’andito. «Divino Augusto!», esclamò sbigottito Ottavio una volta superato l’ingresso del cubicolo imperiale. Domiziano giaceva immobile, con l’ampia schiena poggiata al piedistallo della statua e le ginocchia rannicchiate contro il petto. La fronte poggiava sconsolata nel palmo della sinistra mentre l’altra mano impugnava l’elsa rossa del suo gladio, inseparabile amico durante le solitarie ore notturne. Riconosciuta la voce del suo attendente, l’imperatore alzò gli occhi dal pavimento mosaicato e lo investì con uno sguardo a metà strada fra il supplichevole e il prostrato. Il suo volto era pallido come il latte, il mento cascante verso il basso e le sue membra si mostravano irrigidite in un’inquietante sorta di abulia. «Dammi una mano a rialzarmi», mormorò con voce sommessa il figlio di Vespasiano. Capitone lasciò cadere la capsa che portava in spalla, poi lo aiutò a recuperare il piccolo sgabello dorato posto a metà della spalliera sinistra del letto, celato in parte dalle lenzuola e con sopra ancora gli eleganti sandali dell’Augusto. Domiziano vacillò per un istante poi, con fatica, riuscì a salire sull’alto giaciglio, sprofondandovi schiena all’aria e con la spada ancora stretta nella destra. Il procurator gli diede una mano a rigirarsi. L’imperatore sembrava un pesantissimo ciocco di quercia, duro e inerte come la pietra. Ottavio gli accarezzò la fronte, lucida e imperlata di sudore, poi liberò il gladio dalla morsa in cui era stretto e lo spinse sul limitare desto del letto. «Cos’è successo, divino Augusto?», domandò apprensivo il segretario, mentre si accomodava al panchettino. La testa affondata in un soffice cuscino di piume, Domiziano fissava con occhi sbarrati l’alto soffitto a cassoni della stanza, muto e con l’espressione ancora stravolta. «Parlami, domine. Quale oscuro male ti ha improvvisamente colpito?» «È finita, Ottavio», balbettò inorridito l’imperatore. «Gli dèi hanno deciso di punirmi e già la meridiana segnala l’avvento della mia ultima ora.»
«Perché dici questo? Che cosa ha minato il tuo animo valoroso?» «Sei un caro amico, Ottavio… forse l’unico», continuò con un filo di voce Domiziano, «e per anni sei stato un collaboratore fedele e zelante. Prima di avviarmi all’Erebo, voglio ricompensarti per il tempo che hai speso al mio fianco. Ti nominerò senatore.» «Ti ringrazio, divino Augusto, ma ti prego, raccontami cosa ti è accaduto.» «Una visione, Titinio. Un’orrenda e terrificante premonizione, foriera di dolore e morte», esclamò tremante l’imperatore. «Ti ascolto», replicò serioso il segretario, avvicinandosi ancor più al suo interlocutore. «Aruleno Rustico, ricordi?»
Capitone assentì, posando lo sguardo altrove. Come poteva dimenticare una fra le vittime più illustri dell’ultima, insana tornata di omicidi ordinata dall’uomo che aveva di fronte? Aruleno era stato un eminentissimo letterato, un autore talentuoso e in aggiunta un suo caro amico. Tre anni prima Domiziano ne aveva ordinato la condanna a morte e insieme a lui era stato giustiziato anche un altro valente storico di nome Erennio Senecione. I due erano stati accusati di aver lodato nelle loro opere rispettivamente Trasea Peto, famoso oratore di epoca neroniana, appartenente ai circoli stoici, ed Elvidio Prisco, suocero di Trasea e anch’egli fervente sostenitore degli ideali repubblicani. Il figlio di Vespasiano, oltre a far giustiziare pubblicamente Rustico e Senecione, aveva imposto ai triumviri capitali di bruciare in comizio e nel Foro i loro scritti, inneggianti il ritorno della moralità e della libertà senatoriale. «Il suo fantasma mi è apparso in sogno. È sbucato improvvisamente dalla fitta catena di ulivi che domina l’affresco», continuò ancora agitato l’imperatore, indicando la lunga parete disegnata che delimitava il fondo del cubicolo. «Aveva gli occhi iniettati di sangue e una luce intensissima orlava lo squarcio intorno al suo collo. Ha preso ad avanzare verso di me e brandiva un lungo pugnale dalla punta nera come la pece. Non potrò mai più dimenticare l’abominevole ghigno dipinto sul suo volto!»
«È stato solo un incubo, divino Augusto. Ora è tutto ato», cercò di rabbonirlo il procurator. «Nessun incubo! Ti dico che era una premonizione, una lugubre profezia! Si trovava a pochi i dal mio letto e ripeteva di essere venuto per porre fine alla mia esistenza. La sua voce era mostruosa più del suo aspetto. A quel punto ho infilato la mano sotto il cuscino, cercando disperatamente il gladio», seguitò a narrare Domiziano lanciando un’occhiata nervosa alla lama che giaceva al suo fianco. «Ma quando l’ho tirata fuori, nel pugno stringevo il dorso di un enorme serpente a tre teste. L’ho scaraventato via, provando a scendere dal letto per fuggire dalla camera, ma il mio corpo era diventato pesante come il granito. Mi sentivo come paralizzato.» «E poi?», l’incalzò Ottavio, rapito da quella assurda descrizione. «Ho invocato l’aiuto di Minerva, sperando nel suo intervento divino, e in quell’istante è accaduto l’irreparabile. La statua di Pallade guerriera ha iniziato a prendere vita ed è scivolata giù dal suo piedistallo. Ha preso a fissarmi con aria imperiosa, puntandomi addosso i suoi abbaianti occhi cerulei. Poi ha lasciato cadere la spada e si è voltata, avviandosi verso l’affresco. Io l’ho pregata, supplicata di fermare la mano assassina di Rustico ma lei mi ha risposto che non poteva, che doveva farsi da parte e lasciare che il destino seguisse il suo corso. L’altissimo Giove aveva deciso così. Infine è montata su di un cocchio trainato da quattro stalloni, scuri come la notte, e si è precipitata in una specie di baratro.» «Oh potentissimi dèi!», esclamò pensieroso il segretario. «Bisogna organizzare subito dei lauti sacrifici in onore della triade Capitolina, non c’è dubbio. La tua visione deve essere interpretata dai pontefici. Ma dimmi, che ne è stato di Aruleno? È sparito?» L’imperatore lo fissò a lungo prima di rispondere. Nel suo sguardo proliferava il germe della paura e la bocca fu colpita da uno spasmo improvviso. Infine si portò entrambe le mani al volto, farfugliando atterrito. «Mi ha… mi ha… mi ha squarciato il petto, pugnalandomi sette volte al cuore!»
Liternum, tre giorni alle idi di settembre.
Fuori le mura della colonia.
Trebonio mise al o il suo docile palomino a poche pertiche dall’Arco Trionfale e si preparò ad attraversare con lentezza l’unico fornice di quel mirabile monumento, stretto fra i fusti scanalati di una coppia di doppie colonne a capitelli compositi. Sopra i quattro sostegni campeggiava un’alta trabeazione, realizzata in marmo lunense e pentelico, il cui fregio celebrava l’incredibile vittoria di Scipione sull’esercito del valoroso Annibale.
Aurelio Pulcro, silenzioso in sella al suo corsiero affiancava il lato sinistro del princeps peregrinorum mentre Labieno seguiva dappresso con lo sguardo rivolto verso nord-est, ad accarezzare il vasto mantello verde scuro delle campagne che si aprivano in prossimità della sponda meridionale del Literna Palus. Nello stesso istante in cui i tre varcarono la zona d’ombra fornita dalla fascia arcuata del fornice, un vigoroso sbuffo di grecale investì le loro tuniche, avvolgendole in un improvviso e gelido abbraccio. Quindi la brezza aleggiò furtiva lungo l’ampio lastricato della via Domitiana alle loro spalle, superò il profilo addolcito di una piccola duna e serpeggiò in direzione dell’antica colonia romana. «Il tempo sta cambiando», osservò pensieroso lo speziale, «sarebbe meglio rinviare la nostra eggiata pomeridiana a domani.» «Pulcro conosce bene la zona», rispose d’istinto Macrino. «Vedrai che non ci impiegheremo molto.» Il capo dei vigiles accennò un mezzo sorriso. «La villa affaccia sulla sponda sud del lago. Oramai è cadente, in stato di abbandono, ma è immersa nel verde, circondata da una folta schiera di ulivi. L’Africano è stato seppellito lì vicino, in un sepolcro sopra il quale resiste un suo busto arcaico. Ai lati della tomba vedrete due statue togate. Sono senza volto ma si dice raffigurino il padre e lo zio, Publio Scipione e Cneo Scipione Calvo.»
«Ingrata patria, non avrai le mie ossa!», recitò in tono solenne il siculo. «Ecco, appunto», ribatté infervorato Pulcro, «prima che l’imperatore dia le vostre in pasto alle fiere e il nobile Afro mi cacci a pedate da Liternum, vediamo di ricostruire un po’ gli avvenimenti. Cosa avete scoperto stamattina?» Mentre le cavalcature avanzano ancora al o e i tre parlottavano tra loro, un sottile velo di bruma andò velocemente addensandosi verso il fondo del selciato, sbucando in lontananza dalle macchie sparse di lecci e ontani e ingoiando interamente il profilo della lunga cortina di salici che si apriva oltre la striscia di terra coltivata. «Uccellaccio del malaugurio», bofonchiò stizzito il capo dei frumentari, lanciando un’occhiata in tralice al liberto. «Se continua ad aumentare così, sarà pericoloso.» «Non pericoloso», confermò atono Aurelio, «ma letale! Dalle parti del lago non ci si arriva con questa nebbia. Mi spiace contrariarti ma la nostra visita salta, caro Trebonio. Non ci resta che ritornare in città e consolarci con un bel congio di rosso gelato. Intanto, mi dite cosa vi ha raccontato la cosmetica?» La luce proiettata dagli ultimi raggi solari cominciava a scemare rapidamente, aiutata nel suo diradarsi dalla comparsa di un lungo mantello grigiastro di nuvoloni carichi di pioggia. I nembi minacciosi sopraggiungevano plumbei e solleciti dall’entroterra occidentale e, dopo aver funestato il vecchio municipium di Atella con una quantità impressionante d’acqua e fulmini, sembravano volersi abbattere rabbiosi sulla zona comprendente la colonia e il Literna Palus. Mentre cercavano di guadagnare velocemente l’ingresso della Porta Publia, Trebonio rivelò al capo dei vigili le informazioni che aveva appreso dalla sensuale bocca di Azia.
Voreno aveva conosciuto la donna circa un anno dopo il suo arrivo a Liternum e fin dall’inizio aveva dimostrato un certo interessamento per l’affascinante cosmetica. A quel tempo Azia era però sposata con un anziano commerciante di garum, un uomo austero e scostante, quindi il lenone aveva dovuto sopire ben
presto l’irrefrenabile trasporto che provava nei confronti della donna. Tre anni dopo l’arrivo di Voreno nella colonia, il marito di Azia si ammalò improvvisamente di un grave e oscuro morbo, che lo portò a subire una lenta e straziante agonia, inchiodato in un letto. Quando, in capo a dodici mesi, il vecchio commerciante esalò infine l’ultimo respiro, la cosmetica si ritrovò sola e senza il becco di un sesterzio: le modeste sostanze del mercante erano state interamente dilapidate in inutili intrugli curativi, parcelle per esosi cerusici stranieri e in curiosi rituali magici, celebrati da semplici ciarlatani travestiti da falsi guaritori. Ridotta in povertà, la donna scivolò nella disperazione più nera e fu proprio in quel periodo che lo scaltro Voreno provò a sferrare l’ultimo, decisivo attacco alle reticenze opposte della sventurata. Dopo anni vissuti nel grigiore di una vita mediocre e solitaria, spesi a far da balia a un consorte avvizzito e insensibile, Azia avvertiva dentro di sé un enorme bisogno di affetto e la pressante esigenza di sentirsi nuovamente desiderata. Così, sfruttando la sua debolezza e l’innocenza del suo animo puro, l’astuto lenone riuscì a soggiogare in poco tempo il cuore della donna che tanto bramava. Insieme si trasferirono in una misera stanza al quarto piano di una delle insule cittadine e per un po’ condussero una vita parca ma apparentemente felice. Tuttavia, con il are dei giorni, la vera natura di Voreno cominciò a venire a galla: in principio si trattò solo di qualche battibecco coniugale, farcito di urla e minacce, poi dalle intimidazioni si ò ben presto a pesanti manrovesci. A ciò si aggiunsero i rientri a tarda notte, sempre ubriaco fradicio, e le frequentazioni via via più assidue delle lascive asinelle di Liternum.
La relazione amorosa, che la donna aveva creduto sincera e ionale, si era trasformata in un rapporto mostruoso e deforme, un incubo senza fine del quale doveva assolutamente provare a liberarsi. Una sera, rincasando prima del previsto nell’alloggio, Azia scoprì il rosso lenone intento a frugare nel suo portagioie, contenente i pochi risparmi racimolati con il sopraggiunto mestiere di cosmetica. La donna, esasperata da quell’uomo sordido e abietto, gli si avventò contrò con rabbia, urlandogli con tutto il fiato che aveva in corpo di sparire per sempre dalla sua vista. Voreno, per tutta risposta, la picchiò selvaggiamente, lasciandola semisvenuta sotto una valanga di calci e pugni. Poi abbandonò la stanza, rovesciando l’arredo e intimandole di tacere
sull’accaduto. Dopo essersi ripresa a fatica, la donna afferrò i pochi brandelli di coraggio che le restavano e si trascinò dolorante fino all’ingresso di una lussuosa dimora situata dalle parti del Foro. Una volta accolta all’interno delle mura, la domina, sua affezionata cliente, le chiese chi era stato a ridurla in quello stato. A quel punto Azia crollò tremante ai suoi piedi, supplicando di aiutarla a liberarsi del suo ignobile carnefice. La padrona di casa la ospitò per un paio di giorni nella sua casa, facendola accudire amorevolmente dalle numerose ancelle. Poi, quand’ebbe sistemato la faccenda, le assicurò che poteva far ritorno al proprio focolare senza darsi pensieri: Voreno non l’avrebbe mai più sfiorata.
«Bene», glossò a voce bassa Pulcro, mentre i tre corsieri varcavano la soglia della Publia, già spazzata da un vento incessante, «ora conosciamo a fondo le sventure della povera cosmetica, ma nulla di significativo che possa ricondurci alle nostre indagini sugli omicidi.» «Se non mi avessi interrotto», l’ammonì pacato Trebonio, «ora avrei già finito di raccontarti la parte più interessante della storia.» Aurelio scrutò con aria stanca la fetta di cielo malevolo che sovrastava i tetti in argilla della città. Nell’aria si avvertiva già un intenso odore di muschio, che da lì a poco si sarebbe frammisto a quello ancor più incisivo di terra bagnata. La parte alta del cardo massimo era avvolta da un profondo silenzio, complici l’ora duodecima e il tempo avverso. I portoni degli edifici erano sbarrati e anche le taberne che affacciavano ai lati della strada mostravano oramai i battenti lignei di chiusura, serrati dall’interno mediante robusti chiavistelli. «Si profila un lungo temporale», riprese a dire il capo dei vigili, «meglio raggiungere in fretta la Croce del Sud. Lì potremo portare avanti il discorso con tutta calma.» «Ottima idea», replicò soddisfatto Labieno, lasciando soffocare in gola le obiezioni di Trebonio. «Ho proprio bisogno di smontare da questa specie di mulo e mettere qualcosa sotto i denti.» Oltreando la soglia della taverna, Macrino ebbe l’impressione che l’oste avesse dato una leggera sistemata all’interno del piccolo locale: le pareti
avevano recuperato un po’ del loro colore zafferano, le svariate macchie di unto, che ricoprivano il pavimento, erano in gran parte scomparse e anche gli spessi strati di polvere presenti sulle mensole, sporgenti dalle mura laterali, erano stati rimossi alla buona. I clienti erano pochi, giusto tre panconi occupati verso il centro della sala, e il solito garzone, rotondo e lavativo, se ne stava seduto su di una larga botte di rovere, con i piedi penzoloni e l’aria assonnata. Pulcro e i due messi imperiali si accomodarono a un tavolo abbastanza defilato sulla sinistra. Da lì potevano controllare tutto ciò che accadeva nella sala e tenere d’occhio gli avventori che avrebbero oltreato l’ingresso. A un cenno risoluto di Trebonio, il grasso aiutante di bottega si trascinò a o lento davanti al loro desco e raccolse con insopportabile flemma le diverse ordinazioni. Dopo averle annotate il giovane puntò dritto verso l’angusto ambiente adibito a cucina. «Ritornando alle confessioni di Azia», esordì sottovoce Macrino, una volta allontanatasi la pingue sagoma del garzone, «siamo riusciti a scoprire che Voreno gestiva il bordello per conto di una grossa personalità dell’Urbe, un uomo influente e facoltoso, molto probabilmente legato alla cerchia dei collaboratori imperiali.» «Ma che bella notizia…», sussurrò in tono sarcastico Pulcro. «Ci mancava solo l’ombra lunga di Roma in questa disgustosa vicenda. Quindi la cosmetica infine si è riavvicinata al lenone, devo presumere.» «Supposizione errata», chiosò svogliatamente il liberto, visibilmente indispettito per l’insostenibile mancanza del vino al loro tavolo. «In realtà la donna non ha mai più scambiato parola con quel rosso figlio di un cane. Ha semplicemente ricevuto un rapporto dettagliato sugli affari di Voreno dalla ricca matrona che l’aveva aiutata a liberarsi del suo carnefice.» Aurelio scrutò il volto dello speziale con espressione titubante, mentre si grattava nervosamente il palmo della mano sinistra. Prima che potesse aprire bocca in cerca di spiegazioni, fu anticipato dalle parole chiarificatrici del princeps peregrinorum. «Le cose sono andate in questo modo: la sera stessa dell’aggressione ai danni di Azia, la sua protettrice sguinzagliò i suoi ex gladiatori per le vie della colonia. Aveva comandato loro di stanare il viscido lenone e di accopparlo alla svelta,
gettandolo poi in qualche vicolo buio e solitario dalle parti del vicus Gaudii. Inspiegabilmente però, Voreno riuscì a scampare all’agguato notturno e si rifugiò nella bottega del suo amico vestiarius. Il mattino seguente era già sparito dalla circolazione. La matrona era un osso duro e, determinata a vendicare la giovane amica, inviò due suoi scagnozzi a Sinuessa e altri tre a Roma, con l’ordine di portare a termine il lavoro in cui avevano miseramente fallito.» «Ma in qualche modo quello scaltro di un rosso è riuscito a salvarsi ancora dalle lame dei pugnali», imboccò a mezza voce Pulcro. «Non esattamente. Una volta raggiunta l’Urbe, i tre uomini al soldo della domina rintracciarono il lenone ma non poterono fare altro che tenerlo d’occhio. Voreno, infatti, annusato il pericolo, era riuscito a ingraziarsi i favori di una giovane etera di nome Aspasia. La prostituta era l’amante di molti personaggi di spicco della città, alcuni addirittura vicini all’imperatore, e l’introdusse così nei circoli aristocratici di Roma, facendogli stringere parecchie amicizie influenti. Fin tanto che restava nella Capitale, il rosso era praticamente intoccabile. Quando, dopo svariati mesi, Azia lo rivide nuovamente qui a Liternum, fu subito assalita dalla paura e si affrettò a richiedere l’aiuto della patrona. A quel punto la domina le raccontò i trascorsi romani del lenone e la tranquillizzò a riguardo del suo futuro: Voreno era tornato nella colonia solo per affari e oramai non aveva più bisogno dei suoi soldi. Di lì a poco avrebbe tirato su un grosso lupanare, da gestire per conto di un misterioso e abbiente individuo che abitava dalle parti del Palatino.» «Davvero una scoperta interessante», osservò pensieroso Pulcro, appena Trebonio ebbe finito di parlare. «Questo potrebbe spiegare molte cose. Forse l’assassino dilania le lupe per colpire lo sconosciuto proprietario del bordello. Potrebbe essere un valido movente, non trovi?» «Chissà, forse vuole rovinargli gli affari», considerò Labieno, mentre con impazienza scrutava l’incedere lento e ciondolante del giovane servitore della locanda. Appena il garzone ebbe poggiato sul tavolo la brocca gelata di Volturno, accompagnata dal piccolo panierino colmo di moreta e dal tegame contenente le polpette di manzo in salsa di funghi, il siculo parve rapito dal delicato profumo delle pietanze e scivolò di colpo in una dimensione parallela, dedicandosi esclusivamente alla cura del proprio stomaco. Ogni rumore sparì alla vista del cibo e le parole dei due commensali cominciarono a giungere alle sue orecchie come un brusio soffuso e incomprensibile, una sorta di monotona nenia senza alcun senso. Trebonio guardò l’espressione divertita di Aurelio poi,
con i suoi profondi occhi verdi, cercò di incenerire il capo del liberto, completamente chino nell’incavo della terrina. Avrebbe dovuto insegnare l’educazione a quello zotico quando ancora era un suo schiavo nei Castra Peregrina, magari a suon di frustate e digiuni forzati: allora sì che lo speziale avrebbe compreso come ci si comportava a tavola. Evitando di indugiare oltremodo su quello spettacolo così fastidioso, il capo dei frumentari si affrettò a recuperare l’attenzione di Pulcro. «È un’ipotesi da tenere in considerazione e spererei che le cose stessero davvero così.» «Capisco cosa vuoi dire», annuì l’altro, versandosi un mezzo boccale di rosso. «Chiuso il lupanare e sparito il lenone, Liternum potrebbe tornare a respirare. L’omicida non avrebbe alcun motivo per continuare a funestare la nostra colonia con la sua mano sanguinaria.» «Esattamente», replicò Trebonio, aggrottando le folte sopracciglia corvine. «Tuttavia dobbiamo cercare di fare luce su parecchie zone d’ombra in questa complicata vicenda.» «Ti riferisci ad Arminio?», interloquì Aurelio, prima di addentare una delle poche polpette di manzo riuscite a scampare indenni alla furiosa voracità di Labieno. «Troppi enigmi si annidano nella mia mente…», sussurrò assorto Macrino, quasi come se stesse ragionando tra sé. «Come hanno fatto a sparire improvvisamente i corpi delle lupe assassinate? Qual è l’identità dello sconosciuto individuo a cui Claudia ha consegnato il messaggio segreto del capo dei famigli di Afro? Cosa c’era scritto in quel rotolo? E dove si dirigeva Arminio nelle sue fughe notturne?» Dopo aver ingoiato l’ultimo boccone di focaccia cosparsa di salsa ai funghi, il siculo sorseggiò le due dita di vino contenute all’interno della sua coppa. Poi si pulì le labbra con il dorso della destra e, alzando i suoi occhi cerulei verso il viso spigoloso del princeps peregrinorum, aggiunse altri rompicapi alla lunga serie di quesiti proposti dal suo ex padrone. «Senza contare il fatto che non conosciamo ancora il nome del reale proprietario del bordello del vicus Gaudii e, soprattutto, il motivo per il quale l’imperatore si è interessato così tanto a questa vicenda, allontanandoti da Roma senza pensarci
su due volte.» «Qualche idea a riguardo me la sono fatta», rivelò il capo dei frumentari, mentre fissava con sguardo assente l’ingresso della taverna, battuto dai primi grossi goccioloni di una pioggia insistente. «Ma preferisco parlarvene quando sarò sicuro delle mie supposizioni.» In poco tempo la colonia fu attraversata da un violento temporale e i tre si ritrovarono bloccati all’interno dell’umida locanda. Dall’esterno giungevano il nitrire nervoso delle loro cavalcature, spaventate dai boati prodotti dalle folgori, e lo scalpiccio degli zoccoli sull’acciottolato. L’aria divenne improvvisamente gelida e l’ululato di un vento impetuoso cominciò a risuonare in ogni anfratto, in ogni recesso offerto dalle strade di Liternum, fondendosi con l’assillante stormire dei lunghi filari di querce, noci e lecci presenti oltre le mura cittadine.
Turbini di polvere, densi di terra e acqua, rovinavano con forza contro le pareti degli edifici e il continuo scrosciare del piovasco, cupo e deprimente come il lamento delle prefiche, tramutò i clivi in lunghe fiumane di fango e le ampie arterie lastricate in sudici rigagnoli di acqua torbida mista a fogliame, alti fino all’orlo dei marciapiedi. Intorno alla prima fax il rovescio esaurì la sua irruenza, riducendosi a una pioggerella fina ma continua. A quel punto Pulcro e i due messi imperiali approfittarono del momento di stasi per recuperare alla svelta le rispettive dimore. Si avviarono insieme per un breve tratto e poi, raggiunto il secondo crocicchio alle spalle della zona del Foro, si divisero dandosi appuntamento all’indomani. In poco tempo le loro sagome furono inghiottite da un’incalzante oscurità, offerta dal tappeto zaffiro dei nembi rivoltosi. Per un po’ la città scivolò nel silenzio e nella desolazione, poi il temporale riacquistò il primitivo vigore e una serie di saette squarciò nuovamente l’aria, illuminando a sprazzi l’animoso cielo notturno.
12
Roma, il giorno anteriore alle idi di settembre.
All’interno del Ludus Magnus.
«Niente da fare», bissò in tono deciso Pompeio. Le braccia protese sul davanzale del finestrone, il lanista scrutava pensieroso l’arena situata al centro dell’ampio cortile interno, deserta nel silenzio dell’ora prima e completamente infangata dalla pioggia torrenziale caduta durante la notte. «Ascolta, vecchio grassone», tuonò irritato Petronio Secondo, «non sono venuto qui all’alba per proporti un affare. Ringrazia gli dèi che il divino Augusto ti abbia concesso di gestire la sua scuola e che sia tanto magnanimo da ripagarti lautamente per l’improvviso disturbo. Evita di fare storie e attieniti al suo volere.» «Non capisco perché ti sei intestardito proprio su quei due!», polemizzò sfiduciato il canuto titolare della scuola gladiatoria, grattandosi nervosamente la mascella sporgente. «Hai a disposizione cinquanta lottatori, tutti abilissimi sia a mani nude che con il gladio, e tu vuoi portarmi via l’attrazione principale dello spettacolo che sto faticosamente organizzando da un’intera settimana.» «Primo, Galieno, Ventidio il gallico e Turno. E niente storie…» «Anche Turno!», esclamò incredulo Pompeio, staccando di colpo la sua pesante sagoma dalla finestra e investendo il capo dei pretoriani con uno sguardo tra l’attonito e il furente, «Ma deve battersi contro Massimino! È l’unico reziario in grado di tenergli testa! Tanto varrebbe cancellare i munera dal programma dei giochi.» Petronio, divertito dall’espressione disperata del lanista, abbandonò con calma il panchetto al quale era seduto e andò ad accomodarsi alla seggiola imbottita del
proprietario del Ludus, posta dietro una lunga scrivania, stinta e affollata da un gran numero di papiri dal dorso già vergato. «Io ho l’ordine di scegliere i migliori gladiatori della tua scuola», sghignazzò beffardo il capo dei Castra Pretoria, «e di inserirli nella scorta personale dell’imperatore. I tuoi problemi non m’interessano né ho il tempo per cercare di risolverli. Accontentati di questi intanto», e, così dicendo, lanciò al suo interlocutore una saccoccia di cuoio morbido, gonfia di monete d’oro. «Sono circa duecentocinquanta aurei», continuò a dire soddisfatto il prefetto del pretorio, mentre Pompeio era intento a sbirciare all’interno della preziosa scarsella. «Penso possano bastare abbondantemente per l’affitto dei tuoi quattro campioni. Non temere, vedrai che il capriccio dell’Augusto durerà pochi giorni.» «E sia», finse di arrendersi il vecchio lanista, pregustando già l’acquisto di una lunga schiera di nuovi atleti da arruolare fra le file dei disertori macedoni. «Mi toccherà escogitare qualcosa alla svelta per ovviare alla loro inspiegabile assenza nei giochi di domani.» «Sei un tipo sveglio, amico mio. Sono sicuro che troverai il modo di risolvere questo piccolo inconveniente. Ora indicami dov’è l’alloggio di Primo e compagni. Voglio spiegargli la situazione personalmente.» Pompeio gettò un’occhiata furtiva all’esterno della stanza: i primi, candidi raggi solari filtravano timidamente attraverso il drappo biancastro delle nuvole, illuminando a fatica la cavea marmorea alle spalle dell’arena. Due massicci schiavi nubiani avevano già cominciato a sistemare il tappeto rossastro che ricopriva l’ovale, spalando di buona lena le chiazze scurite di fanghiglia e ricoprendole con nuovi cumuli di sabbia asciutta. Il lanista ripose in una cassapanca il donativo ricevuto dal divino Domiziano. Quindi aprì la porta del suo ufficio, chiamò a gran voce uno dei servi e fece accompagnare l’inatteso ospite nell’ala dell’edificio dove si trovavano le celle dei quattro lottatori scelti da Petronio. Giunto davanti al cubicolo dell’enorme macedone dal testone rasato, l’ufficiale si liberò del suo accompagnatore con un rapido cenno del capo. Quando la sagoma dello schiavo sparì oltre il lato corto del portico al primo piano, Petronio bussò con insistenza alla stretta porta di legno che chiudeva l’accesso alla camera.
«Che ci fai qui a quest’ora, comandante?», chiese Primo con voce rotta dal sonno, dopo aver incrociato lo sguardo imibile dell’uomo in lorica nera. «Oggi è giorno di libertà per me.» «Devo parlarti. Ci sono novità», rispose il prefetto del pretorio. Senza attendere la replica del gladiatore, il capo dei pretoriani si infilò nella stanza, spintonando di lato la prestante figura del macedone. Primo grugnì stizzito, poi richiuse il sottile divisorio alle sue spalle e recuperò il bordo del giaciglio. «Serviti pure», ringhiò, mentre Petronio addentava con tracotanza una grossa mela matura che giaceva sul comodino posto alla destra del letto, «in fondo era solo la mia colazione.» «L’imperatore mi ha incaricato di assoldare i quattro migliori atleti del Ludus Magnus. Dovranno fargli da guardie del corpo, saranno la sua ombra giorno e notte.» «Ma per quello ha uno stuolo di pretoriani!», l’interruppe stupito il macedone. «La sua paranoia aumenta all’inverosimile», ribatté asciutto Petronio. «Oramai sospetta di chiunque ed è arrivato al punto di voler sostituire i suoi fedeli soldati con alcuni di voi… Sai bene quanto ami vedervi sputare sangue nell’Anfiteatro e quanto elogi la vostra ferrea disciplina negli allenamenti.» Primo abbozzò un sorriso compiaciuto: are dalla sua oscura cella alle spettacolari camere della Domus Augustana non gli dispiaceva affatto. Finalmente avrebbe abbandonato una buona volta il lezzo mordace della mistura di sangue e sudore alla quale era stato costretto per anni. Senza contare i fiumi di vino, le ancelle compiacenti e i regali delle vecchie matrone che lo attendevano a palazzo. «A chi hai pensato di preciso?», si limitò a chiedere sornione il lottatore, grattandosi un orecchio con finta aria disinteressata. «Non pensare di fare il furbo con me, brutto figlio di cagna», ridacchiò il capo dei pretoriani. Poi si adagiò sul letto basso e duro del combattente e inspirò a fondo, prima di riprendere parola.
«Tu, Galieno, il gallico e Turno formerete il suo nuovo gruppo di guardaspalle. Gli dèi sono con noi e dobbiamo sfruttare al meglio questa favorevole coincidenza.» «Non ti seguo», provò a schermirsi il testone macedone. «Appena sarò uscito dal Ludus, tu avviserai gli altri tre del loro nuovo incarico. Avervi già a palazzo nel giorno della vendetta, e per di più fuori la porta del cubicolo imperiale, renderà tutto più semplice. Un’unica raccomandazione: la mattina designata per l’assassinio, lasciate sgattaiolare Partenio all’interno della stanza da letto. Prima che Domiziano torni per il suo riposo pomeridiano, il gladio che nasconde sotto il guanciale deve essere sparito. Intesi?» Primo annuì di malavoglia: l’imperatore amava i tipi come lui e si era sempre mostrato benevolo con gli atleti del Ludus. Divenire poi la sua guardia del corpo e rischiare di incorrere in una pena capitale a seguito della sua dipartita era un pericolo tutt’altro che trascurabile. «Vi aspetto verso l’ora nona sul Palatino, per introdurvi al cospetto del morituro», concluse a mezza voce il prefetto del pretorio. L’inflessione di quelle parole era pacata e incisiva a un tempo e nei suoi occhi albergava un’incrollabile sicurezza verso la buona riuscita dell’impresa comune. Petronio Secondo si alzò dal letto, raggiunse in due i la soglia della cella e aprì velocemente la porta che dava sul lungo corridoio interno. «Un’ultima cosa», aggiunse, lanciando al suo interlocutore ciò che restava della mela. «Mi raccomando la puntualità: Domiziano odia i ritardatari.» In un attimo il divisorio in legno si richiuse dietro il dorso dell’armatura rilucente, quindi i suoi i riecheggiarono dapprima pesanti e nitidi, poi sempre più lontani e indistinti. Primo restò a lungo a scrutare i resti rossicci che stringeva nella sua manona da gladiatore. Ciò che fino a poco prima aveva l’aspetto di una mela dolce e succosa, si era in breve trasformato in un torso scarno e malconcio, rosicchiato fino al nocciolo. «Ecco ciò che rimarrà della fulgida dinastia dei Flavi…», mormorò tra sé l’imponente macedone. Quindi si svestì, indossò la tunica migliore che
possedeva nella sua limitata arca e si avviò lentamente verso la cella dell’amico Galieno.
Liternum, il giorno anteriore alle idi di settembre.
Nei pressi dell’anfiteatro.
Trebonio si avvicinò al volto marmoreo di Mercurio e sorseggiò lentamente il gelido rivolo d’acqua che fuoriusciva continuo dalla bocca della divinità. Indi si appoggiò al bordo esterno della piccola vasca rettangolare posta sotto la polla e, alzando lo sguardo al cielo, prese a scandagliare con strana irrequietezza l’esteso manto azzurrino spruzzato di bianco, come un aruspice in attesa della folgorazione divinatoria. Uscire poco dopo l’alba e eggiare tra i vicoli dell’Urbe, ancora mezzo assonnati e avvolti da un sottile alone di caligine, era diventata col tempo un’abitudine molto proficua, oltre che gradevole. Solitamente in quei frangenti di soave isolamento riusciva a immergersi appieno nel cuore delle proprie riflessioni e ad analizzare in maniera cavillosa le questioni più spinose e contorte che il suo lavoro gli propinava con metodica regolarità. Le sue abilità deduttive, unite a un’acuta capacità di sintesi, sembravano raggiungere l’apice della produttività durante quelle brevi eggiate ascetiche. Da quando però il fato lo aveva costretto nell’enigmatica colonia di Liternum, l’incanto si era improvvisamente spezzato e l’immagine dello stoico pensatore alla ricerca della verità assoluta si era tramutata di colpo in quella ben più misera di un errabondo segugio che, privato per l’ennesima volta del suo fiuto, rovista qui e lì nella sozzura in cerca di un’improbabile pista da seguire.
Ripensando alla questione del lupanare, le congetture e gli indizi raccolti dal
princeps peregrinorum parevano delimitare nella sua mente un sentiero scosceso e insidioso, un infido percorso che conduceva univocamente a pochi i dalla soglia di una delle domus più importanti e illustri del Palatino. Per quanto cercasse di interpretare la summa dei segnali e delle tracce ogni volta attraverso connotazioni differenti, la sagoma che prendeva ostinatamente forma davanti ai suoi occhi risultava a dir poco familiare. In ato, il nome dell’etera Aspasia era circolato parecchio negli ambienti aristocratici di Roma e un paio di volte Trebonio l’aveva intravista di sfuggita mentre la donna si recava in lettiga a partecipare a raffinati banchetti, farciti il più delle volte con rappresentazioni teatrali e declamazioni letterarie. Rimestando a fatica nel groviglio di ricordi relativi a quel laborioso periodo, il capo dei frumentari osservò che in entrambi i casi aveva beccato l’avvenente accompagnatrice a parlottare con una sua vecchia conoscenza, un uomo potente e rispettato, uno degli artefici principali della fulgida fiamma dell’impero. In aggiunta erano arrivate le confessioni di Valeria, la lupa incontrata all’esterno del bordello e alla quale aveva offerto il pranzo pochi giorni prima. Durante il loro incontro la giovane prostituta gli aveva rivelato la misteriosa presenza di Vulpecula dalle parti del lupanare: si trattava certamente di visite insolite, avulse dalle sue incombenze lavorative, e soprattutto pilotate da qualcuno sito in alto loco. Ma ciò che maggiormente aveva rapito l’attenzione di Macrino era stato l’appellativo utilizzato da Voreno per indicare il suo anonimo datore di lavoro: “quello scribacchino”. Il capo dei frumentari respirò a fondo l’aria fresca delle prime ore del giorno, poi immerse una mano nell’acqua increspata del fontanile e la ò delicatamente fra i folti riccioli corvini. Quindi abbandonò il seggio di fortuna e riprese a camminare a o lento in direzione della caserma dei vigili, situata a metà del secondo vicolo che si apriva alle spalle del Capitolium. “Non può essere”, cercava di convincersi nelle sue meditazioni, “non ha senso… perché aprire un’attività tanto meschina e infamante, con tutte le ricchezze e il prestigio che ha accumulato in questi anni?”. Ma più riesaminava gli elementi in suo possesso, più i contorni di quella figura diventavano nitidi, quasi palpabili. Inoltre, l’immagine che oramai gli si era impressa nella testa riusciva a decifrare in maniera esauriente la malcelata apprensione del divino Augusto nell’atto di affidargli quel gravoso incarico e
l’insistenza di Norbano e Petronio Secondo nel voler velocizzare al massimo i preparativi per la sua partenza verso Liternum. Riluttante, Macrino cercava nei propri recessi mentali qualche percorso alternativo, una deviazione, un angusto aggio segreto che lo conducesse quanto più lontano possibile dall’idea che aveva preso forma oramai dentro di sé. Ma ogni volta i tentativi di fuga fallivano miseramente e la figura di quell’uomo ritornava a farsi viva in tutta la sua autorevolezza. Snervato dal lungo elucubrare, il graduato arrestò il suo incedere a poche pertiche dall’ingresso del tempio dedicato alla triade capitolina. Appoggiandosi al muro scalcinato di una taberna ancora chiusa, Trebonio restò a osservare a lungo il servo del flamen dialis che spazzava a capo chino l’ultimo, esteso gradino della rampa d’accesso all’edificio religioso. Lo schiavo doveva essere giovane, anche se i tratti marcati del viso, la pelle raggrinzita e la fronte rugosa invecchiavano di parecchi anni il suo aspetto. Avvolto in una leggera tunica marrone, corta sopra le ginocchia, il corpo appariva vigoroso e i fianchi, leggermente appesantiti, erano fasciati da una larga cintura di canapa. Il capo era tondo e rasato, mentre gli occhi, gonfi e sporgenti, avevano pupille piccole come capocchie di spilli.
Calzava un paio di calcei, nuovi eppure parecchio scoloriti, e l’unico ornamento in quella figura dimessa e anonima era rappresentato da un grazioso bracciale di rame, munito di vivaci mezze lune colorate in pasta vitrea. A un tratto, quasi come si fosse accorto di essere osservato, il servo si voltò di scatto verso la sagoma di Macrino, investendola con uno sguardo tutt’altro che benevolo. Tuttavia, dopo un istante d’attesa, indossò nuovamente la sua espressione sottomessa e, chinando il capo, accennò un flebile saluto. Trebonio ricambiò la cortesia e si avviò spedito nella sua direzione, deciso a scambiare quattro chiacchiere con il ragazzone pelato. «Ave, Upilio», esordì in tono pacato il capo dei frumentari, fermandosi a pochi i dalla rampa d’accesso al tempio. «Mattinata di pulizie?» «Sì, signore», rispose dall’alto il servo, continuando a dedicarsi al suo lavoro. «Dopo il temporale di ieri è necessario.» «Senti un po’, è dentro il flamen? Vorrei scambiare qualche parola con lui.»
Upilio interruppe la sua attività, appoggiandosi alla robusta scopa. Un energico sbuffo di vento aleggiò sul cumulo di lerciume che lo schiavo aveva appena raccolto, sparpagliando di nuovo lungo i gradini il mucchietto di foglie ingiallite e accantonate in un angolo. Il servo restò a guardarle con aria assente mentre scivolavano, altalenando nell’aria, sulla superficie marmorea della lunga rampa. Poi sospirò rassegnato e rivolse la propria attenzione al volto abbronzato di Macrino. «Le celle sono vuote, signore. Oggi niente offerte, i fedeli non hanno accesso al tempio. Il sacerdote resterà in casa tutto il giorno: deve rivedere il cerimoniale per la dedicatio di domani. Io ho avuto l’ordine di ripulire l’ingresso e l’interno del Capitolium e poi di richiuderne le porte.» «Magari posso fargli visita al suo alloggio in tarda mattinata. Dove vive Spurinna?» «La seconda casa nella via alle spalle del Foro, signore… l’unica a due livelli. Prima vivevo al terzo piano di un insula, poi il flamen ha voluto che mi trasferissi nella sua abitazione. Mi ha donato un bel cubicolo al livello rialzato.» «Generoso da parte sua», commentò interessato Trebonio. «È un uomo probo e rispettato. È arrivato in città da pochi mesi ma è già riuscito ad accaparrarsi la stima dei cittadini.» «Soprattutto delle giovani devote, bisognose d’aiuto», aggiunse sferzante il capo dei frumentari. Il viso di Upilio divenne rubizzo dal livore, tuttavia tacque e, dopo aver lanciato un’occhiata carica d’odio al messo imperiale, abbassò il capo e riprese ad armeggiare con la sua scopa. Trebonio notò il disappunto dello schiavo, quindi cercò di recuperare la conversazione, ammorbidendone alquanto i toni. «Immagino debba essere stato spaventoso per te assistere a quella scena orribile. Sabina scannata come un agnellino, il povero Spurinna privo di sensi e riverso in un lago cremisi, a pochi i dal cadavere ancora caldo della lupa. Spero tu sia riuscito a riprenderti dall’incubo di quella notte.»
Lo schiavo, continuando a pulire l’alta gradinata, rispose in maniera sbrigativa. «Ringraziando gli dèi, dicono che il lupanare è stato chiuso e quindi non dovremo mai più sorbire le scene terrificanti degli ultimi giorni.» «Dimmi, Upilio», l’incalzò lesto il princeps peregrinorum, «da quanto sei qui a Liternum?» «Sono nato qui, signore, e fino all’età di quindici anni ho servito nella domus di una vecchia famiglia patrizia. Poi il destino ha voluto che la miseria si abbattesse sulle mie spalle: i miei padroni hanno lasciato la città e venduto tutti i loro schiavi ad altri abitanti della colonia. Io sono stato acquistato dal vecchio flamen dialis, che gli dèi lo assistano negli Inferi, e da allora sono diventato una specie di custode del Capitolium.» «Poi il vecchio sacerdote è improvvisamente deceduto e tu sei ato sotto la protezione di Tito Spurinna.» «Esattamente», notificò stentoreo lo schiavo. «Ti ringrazio per aver risposto alle mie domande, Upilio», concluse a quel punto Trebonio, «e scusami se ho interrotto le tue faccende mattutine.» Lo schiavo accennò un mezzo sorriso di prammatica, quindi si voltò e ritornò a dedicarsi alle sue pulizie, scendendo al primo gradino d’accesso al tempio. Macrino stava per imboccare il viottolo che conduceva nei pressi della caserma di Pulcro quando a un tratto un’idea gli balenò in mente. Allora tornò rapidamente indietro ed esclamò con voce profonda. «Un’ultima curiosità, giovane amico. Non ricordo bene il motivo della tua assenza durante il rito purificatorio celebrato dal flamine per conto della bella Sabina. Dov’eri prima di ritornare al Capitolium?» L’espressione del servo palesava un misto d’imbarazzo e turbamento: di certo non si aspettava quell’interrogatorio mattutino né tantomeno una chiusura così piccante e inquisitoria. Per il tempo di un respiro, tra i due calò un opprimente silenzio, simile a quello che aleggiava sui campi di battaglia negli istanti che precedevano lo scontro decisivo.
Poi Upilio cominciò ad articolare con lentezza la sua argomentazione, rivolgendo l’attenzione alle colonne composite del vetusto edificio sacro. «Ricordo che ho aperto le porte del tempio sul finire dell’inclinatio, accompagnato da Tito Spurinna. Poi ho lasciato che il flamen accomodasse la cella centrale per il primo rito, quello purificatorio, e l’ho lasciato da solo per circa un’oretta. Quando sono tornato la prima volta, la cerimonia era già cominciata e ho visto Sabina inginocchiata davanti alla statua del dio, scalza e con il capo velato. A quel punto ho preso la via di casa per recuperare l’animale che Spurinna doveva sacrificare alla pietà di Giove.» «Di che animale si trattava?» «Un capretto bianco.» «Uhm… vai avanti», commentò atono Trebonio. «Dovevo ritornare al tempio in capo a mezza clessidra ma la stanchezza mi ha tirato un brutto scherzo e mi sono appisolato vicino all’animale. Quando mi sono destato, era trascorso metà del gallicinium. A quel punto ho strattonato il capretto fuori dall’abitazione e mi sono fiondato al Capitolium, mortificato per l’enorme ritardo. Quando sono arrivato lì, beh… sapete com’è andata!» «E l’animale?» «Sarà scappato, che ne so! Ero stravolto, terrificato, e ho cercato subito di chiedere aiuto alla ronda dei vigiles nei pressi del lupanare.» Trebonio annuì, fingendo profonda comprensione, poi si lanciò in un ultimo quesito prima di liberare definitivamente lo schiavo dalla morsa dell’interrogatorio. «Capisco, Upilio. Ma mi domando cosa aveva commesso di tanto abominevole la povera asinella per dover sottoporre il suo grazioso corpicino alla purificazione e all’espiazione tramite sacrificio.» Lo schiavo restò a guardarlo muto, mentre un flebile velo di tristezza si dipingeva nei suoi occhi castani. Dopo aver sospirato impercettibilmente, il custode del Capitolium liberò un’incredibile confessione.
«Era venuta per chiedere l’aiuto del padre degli dèi. Violata dal suo padrone, aveva scoperto appena due giorni prima del suo assassinio di essere incinta. Sabina aveva paura che il lenone potesse vendere il futuro figlio, una volta datolo alla luce, e quindi voleva affidarsi alla protezione divina e sottrarre il nascituro dalle grinfie di quel lurido di Voreno.»
Aurelio Pulcro aveva l’aria strapazzata di chi ha ato l’intera notte ad arrovellarsi fra le lenzuola, preda di una feroce insonnia. La sua voce, solitamente imperiosa quando si trattava di distribuire ammonimenti e indicazioni alle reclute, appariva stanca e svigorita mentre le guance scarne e il pallore diffuso sul suo viso allungato lasciavano trapelare tutta la tensione e la spossatezza accumulate in quelle prime due infuocate settimane di settembre. «Che hai? Dovresti vedere la tua faccia oggi», esordì Trebonio, una volta congedatisi i quattro vigiles a cui Pulcro aveva consegnato gli ordini del giorno. «Oramai dormire è un lusso, amico mio. Non ricordo quasi più l’ultima volta che ho potuto godere in tranquillità del mio torus.» «Ti capisco», assentì il capo dei frumentari, spalancando le imposte mezze socchiuse della finestra che si apriva a sinistra dello scrittoio di Aurelio. «Anche a me questa assurda faccenda sta togliendo il sonno.» Pulcro si portò una mano a coppa sugli occhi affaticati, per schermirsi dalle fulgide lame solari che cominciavano a filtrare vigorose attraverso il piccolo vano. Poi, alzandosi dalla sedia, si avvicinò a una madia e ne ripose all’interno alcuni rotoli appena visionati. «C’è stato un altro crollo ieri notte, il secondo in pochi giorni. Una vecchia catapecchia abbandonata si è letteralmente sbriciolata sotto i colpi del temporale. Il guaio è che crollando ha lesionato l’edificio attiguo, la bottega di un vetraio nella quale dormivano il figlio e due suoi schiavi. Ovviamente la ronda è corsa a casa mia e quindi addio riposo.» «Ubi dolor, ibi vigiles», recitò sorridendo il princeps peregrinorum. «Tuttavia il nostro zelo ci ha portato a scoprire qualcosa d’interessante. Mentre io rilevavo l’entità dei danni subiti dalla taberna del vetraio, uno dei miei uomini
ha chiesto di parlarmi a quattr’occhi. È saltato fuori che, mentre cercavano di liberare una parte del viottolo affollato di detriti, tre reclute hanno scoperto fra le macerie una tunica gialla, inzaccherata di grosse macchie scure. A quel punto ho visionato ciò che restava del reperto e mi sono accorto che quelle chiazze erano in realtà tracce di sangue.» «Dove è accaduto il crollo?», domandò con sguardo rapace Trebonio, desideroso di far luce su quella scoperta tanto inaspettata quanto rivelatrice. «Nel vicus Aquarius, in prossimità delle mura cittadine. È il quarto a sinistra, partendo dall’ingresso delle terme.» «Avete scoperto nient’altro?» «Era buio pesto e i miei ragazzi lavoravano al chiarore delle torce e con le cosce immerse nella fanghiglia creata dalla polvere e dall’acqua caduta durante la nottata. Sono arrivato sul posto che aveva appena smesso di piovere e, dopo aver ritrovato la veste, è incominciata a venir giù di nuovo un’acquerugiola fitta fitta, segno che il temporale stava recuperando vigore. Quindi ho dato ai miei ragazzi l’ordine di tornare in caserma… tengo molto alla loro salute. Ho appena detto però a quattro reclute di ritornare sul luogo e scandagliare perbene le rovine. Forse potrebbe saltar fuori qualcos’altro.» «Hai fatto benissimo, Aurelio», si complimentò eccitato Macrino. «Anzi, li raggiungerò al più presto per seguire di persona il loro lavoro.» Detto questo si versò una coppa di latte da una larga scodella in terracotta e sorseggiò assetato il liquido opalescente. «Ottimo», osservò soddisfatto, dopo aver ato la lingua sulle labbra ancora macchiate di bianco. «È di capra… Davvero gustoso.» A quelle parole, Trebonio parve scivolare in un breve stato di estasi, rapito dal nugolo di riflessioni che era tornato improvvisamente ad alimentare l’instancabile fucina dei suoi pensieri. Un’ipotesi sordida e remota cominciò a serpeggiargli fulminea nei meandri della mente, uno scenario nuovo e inaspettato dove gli indizi sembravano finalmente legarsi gli uni agli altri tramite una connessione di certo debole, tuttavia indotta da una sorta di filo logico.
«Qualcosa non va, Macrino?», lo risvegliò bruscamente il capo dei vigiles. «Sciocchezze» tagliò corto il frumentario, «mi ero incantato sulla capra.» Pulcro lo guardò stranito, poi gli chiese il motivo della sua visita mattutina. «Nei giorni ati, quando eravamo a casa di Afro, ricordo che mi accennasti una storia», attaccò spedito l’ufficiale, sfregandosi l’indice della destra sul mento ispido per il primo filo di barba. «Un evento luttuoso accaduto nella colonia di Liternum parecchi anni addietro. Ero curioso di conoscerla nei dettagli, dato che la vittima, se non ricordo male, fu ritrovata nelle stesse pietose condizioni delle nostre lupe.» «In effetti il modus operandi dell’assassino fu il medesimo, solo che in quel caso il colpevole fu subito processato e condannato a morte nell’arena. Da allora non abbiamo avuto più questo genere di problemi nella colonia, fino a un paio di settimane fa, ovviamente.» «Di cosa si trattava, nello specifico?» Aurelio ritornò ad accomodarsi dietro lo scrittoio in legno d’abete e, lanciando lo sguardo nel cielo terso e rilucente che campeggiava oltre il limitare della finestra, cominciò a inseguire lo scorrere dei propri ricordi, sforzandosi di ricostruire la vicenda nella sua totale integrità e senza omettere alcun particolare. Appena ebbe terminato la narrazione, qualcuno bussò in maniera decisa alla porta dell’ufficio. Quando Trebonio la aprì, si ritrovò davanti il viso rubizzo e madido di sudore del suo amico siculo che, salutando Pulcro con un lieve gesto della testa, raggiunse uno sgabello posto in un angolo della stanza e vi si gettò sopra, stanco e ansimante. «Da chi stavi fuggendo, Labieno?», lo interrogò incuriosito Macrino. Lo speziale riprese fiato, quindi si asciugò la fronte con il dorso del braccio e si lanciò sulla scodella di latte, divorandone il contenuto. Quand’ebbe finito di ristorarsi, si appoggiò al bordo della scrivania e spiegò il motivo della sua improvvisa apparizione. «Questa storia mi sta snervando, sembra un assurdo labirinto.» «Cos’altro è successo, sentiamo», lo beccò preoccupato il capo dei frumentari.
«Tutto e niente, dipende da che valore dai agli avvenimenti. Stamattina, dopo la tua sparizione mattutina, mi sono ritrovato a far colazione da solo nel peristilio di Afro. A un tratto è sbucato quel simpaticone di Arminio, insieme a Massavone e un altro giovane servitore e hanno cominciato ad armeggiare tra le frasche, ai piedi della statua di Venere. Io un po’ mangiavo e un po’ li tenevo d’occhio e ho notato che stavano dissotterrando quel tubo d’argilla di cui mi parlasti la settimana scorsa. Terminato di mangiare mi sono recato con un pretesto nel tablino di Afro che, a dire il vero, era già chino e pensieroso tra i suoi mille codicilli. Dopo aver girato un po’ intorno all’argomento, gli ho chiesto cosa stessero combinando i suoi tre servi in giardino e lui mi ha svelato il mistero di quella lunga serpentina di creta.» «Vai avanti, sono davvero curioso», lo spronò Trebonio, scambiandosi un’occhiata interessata con Aurelio. «La statua della dea che abbiamo più volte ammirato è stata introdotta nel giardino solo cinque mesi fa. Prima, al suo posto, c’era una fontana ovale della stessa grandezza. Ora riesci a immaginare la reale funzionalità di quel tubo?» «Temo di sì», mormorò in tono sconfitto il princeps peregrinorum. «Penso fungesse da alimentazione per il canale che scorre al riparo della pergola, fra i meli piantati davanti al biclinio.» «Esattamente. Il duumviro aveva comandato al capo dei suoi famigli di disfarsi del condotto appena dopo la scomparsa del fontanile ma il servo ha fatto orecchie da mercante fino a quando l’alto magistrato non ha minacciato di frustarlo davanti all’intera servitù se avesse notato ancora quell’inutile ingombro sotterrato fra gli arbusti fioriti.» Macrino aggrottò la fronte in una smorfia di acrimonia e, incrociando entrambi gli avambracci sul petto, iniziò a camminare avanti e indietro per l’ufficio di Pulcro, con il capo chino e lo sguardo proiettato sulla porzione di pavimento che si estendeva davanti ai suoi i. I tratti del viso mostravano un’espressione accigliata, palesando il profondo rancore che il capo dei frumentari provava con se stesso per aver commesso un errore di valutazione così grossolano. «Quindi l’ipotesi secondo la quale Arminio abbia spiato i vostri discorsi e sia implicato in qualche modo nella sparizione dei corpi delle lupe cade miseramente, giusto?», valutò di contro Aurelio.
«Penso proprio di sì», rispose secco Trebonio, alzando per un istante gli occhi verso la figura assonnata del graduato, «anche se resta ancora da scoprire se il servo del duumviro sia implicato o meno in questa storia tanto intricata. Non dimentichiamo la faccenda del rotolo consegnato da Claudia a quello sconosciuto individuo e che il…» «In effetti mi sono precipitato qui in tutta velocità proprio per questo motivo», lo interruppe infervorato l’amico liberto. «Dopo aver parlato con il nostro ospite, ho pensato bene di attendere il tuo ritorno all’interno del mio cubicolo. Dopo poco però sono uscito, considerando che un bel grappolo d’uva avrebbe allietato l’attesa, e quando ho messo il naso fuori dalla stanza, ho visto Arminio che bisbigliava qualcosa a Claudia.» «Sei riuscito a capire di cosa parlottavano?», l’incalzò pressante il princeps peregrinorum, arrestandosi a poche spanne dalla figura seduta dello speziale. «A dire il vero ho compreso solo qualche parola. I due erano sul fondo del corridoio al piano terra, proprio di fronte all’anticamera del triclinio. Il capo dei famigli mi dava le spalle, coprendo quasi del tutto il corpicino ben fatto dell’ancella. Non vorrei sbagliarmi, ma a un tratto Arminio mi pare abbia mormorato: “Devo incontrarlo stanotte”, e subito dopo ha indicato l’ingresso secondario della domus. Poi Claudia deve avergli fatto una domanda, almeno ipotizzo, e lui ha sibilato qualcosa del tipo: “la terza fila da destra oltre la Publia”. Alla fine ho aspettato che i due ritornassero alle loro faccende e sono uscito di casa per venirti incontro, sicuro di trovarti qui.» «Buon lavoro, amico mio», si congratulò Macrino, battendogli una mano sulla spalla, «ora non resta che organizzare una bella scampagnata notturna, sei d’accordo Aurelio?» «Certamente. Vi manderò due…» «Allora stasera avrai l’onore di essere invitato alla mensa del nobile duumviro di Liternum», tagliò corto con voce stentorea Trebonio. «Ma io veramente avrei bisogno di…» «Niente ma», interloquì concitato il capo dei frumentari, «dobbiamo acciuffare l’assassino al più presto. Ho il presentimento che una terribile sciagura stia per abbattersi sulle nostre teste. Non chiedetemi di cosa possa trattarsi, so solo che è
una sensazione soffocante che avverto da un paio di giorni.» «Parli come un augure», ridacchiò divertito il siculo, mentre si alzava dal suo sgabello, «è la lontananza da Roma a sortire questi strani effetti?» «Non scherzare, Labieno», l’ammonì fosco l’ex padrone. «Ho come l’impressione che gli omicidi di Liternum nascondano un terribile segreto.» «Quand’è così», replicò Pulcro con aria rassegnata, «sono disposto a sacrificare un’altra nottata di riposo.» «Bene. Prima di recarti a casa di Afro, farai appostare uno dei tuoi fuori al portone del lupanare e un altro nei pressi dell’ingresso di servizio della domus, ordinandogli di pedinare chiunque esca dall’abitazione durante il banchetto.» «Che c’entra adesso il bordello?» «Ascolta e vedrai. Sono sicuro che Arminio aspetterà la fine del convivio per sgattaiolare fuori di casa, approfittando del favore della notte. A quel punto io e Labieno usciremo con te per la nostra solita eggiata nei dintorni. Una volta lontani dall’ingresso, noi due raggiungeremo la posizione del tuo uomo e seguiremo gli spostamenti del fedele servo di Marco Stazio Afro mentre Labieno, aiutato dal tuo sottoposto del vicus Gaudii, dovrà trovare il modo di intrufolarsi all’interno del lupanare.» «Per fare cosa, se mi è concesso?», interrogò indispettito il liberto. «Cerca indizi, prove, tracce. Scava tra le madie e le cassapanche, nei cubicoli e nella stanza del lenone. Metti tutto a soqquadro, non m’interessa, l’importante è che tu riesca a trovare un rotolo, una pergamena, dei pugillares, qualsiasi cosa riguardi la corrispondenza tra Voreno e il suo benefattore dell’Urbe. Devo dare spessore alle mie supposizioni, consistenza alle mie congetture. Penso di essere arrivato a scoprire la vera identità del misterioso proprietario ma si tratta di un nome troppo ingombrante, troppo importante da pronunciare senza l’aiuto di riscontri inconfutabili.»
Seconda parte
Caccia all’uomo
1
Liternum, il giorno anteriore alle idi di settembre.
Oltre l’Arco Trionfale.
Era appena sopraggiunta la nocte intempesta quando la sagoma familiare di Arminio sgattaiolò con inaspettata rapidità fuori dall’ingresso secondario dell’elegante dimora del duumviro. Per un istante le fasce dorate della sua livrea bianca luccicarono nella pallida macchia di luce lunare che lambiva l’accesso di servizio della domus. Dopo aver gettato un’occhiata furtiva nei dintorni, l’uomo si strinse nella mantella color cuoio e superò la piccola chiazza traslucida, mescolandosi alle ombre notturne. «Ci siamo», bisbigliò Trebonio, nascosto insieme ai suoi compari dietro una fitta cortina di biancospini e viburni. «Diamogli il tempo di allontanarsi un po’.» Arrivato alla fine di un angusto viottolo, il capo dei famigli di Afro imboccò la parte del cardo massimo che attraversava la zona alta della colonia e s’incamminò spedito in direzione della Porta Publia. A quel punto i tre segugi abbandonarono il loro nascondiglio e cominciarono con circospezione il pedinamento a distanza. Di tanto in tanto Arminio rallentava il suo incedere e trafficava con qualcosa nascosta sotto la paenula, quindi si riaccomodava le vesti e riprendeva ad avanzare a i veloci verso il luogo del suo misterioso abboccamento. Occultato dall’estesa lingua scura proiettata dalle tenebre, il princeps peregrinorum seguiva con lo sguardo la sua ignara preda, inoltrandosi lungo il susseguirsi di portoni che affacciavano sul limitare interno del marciapiede destro. Intanto Pulcro e il suo scagnozzo facevano lo stesso dal lato opposto dell’ampio lastricato. Trebonio avanzava rasentando le mura delle abitazioni, immerse nel profondo silenzio della notte, mentre col pensiero ripercorreva gli eventi che avevano caratterizzato una giornata ricca di scoperte.
Subito dopo aver lasciato la caserma dei vigili, il capo dei frumentari si era precipitato nel vicus Aquarius in compagnia di Labieno e lì aveva partecipato alle operazioni di rimozione dei detriti, portate avanti con instancabile lena dai giovani attendenti di Aurelio. Tra la massa di mattoni, tegole spezzate, monconi di trave e calcinacci venuti giù durante il crollo, oltre alla tunica gialla chiazzata di sangue, era stata recuperata anche una graziosa buccola verde, recante nel centro un piccolo cammeo vermiglio. Macrino aveva esaminato con attenzione il prezioso reperto e di colpo gli erano saltate in mente le parole proferite dal lenone durante il loro ultimo incontro: «Le ragazze erano dodici», aveva affermato Voreno, «ma le celle del piano terra sono solo otto, quattro per lato. Sopra c’è solo un altro cubicolo, quindi capirai bene che alcune erano costrette a lavorare per strada.» Nel seguito di quella chiacchierata obbligata, il gestore del lupanare aveva dichiarato di aprire l’attività intorno alla prima fax e di chiudere i battenti del bordello verso la fine della media noctis. Quindi le ragazze che tornavano un po’ più tardi dal proprio giro di visite erano obbligate a picchiare all’infinito i pugni sullo squallido portone dell’edificio, in attesa che qualcuno dei servi si decidesse a farle rientrare. Com’era ovvio immaginarsi, le prime tre vittime dello scellerato assassino di Liternum erano state le lupe costrette a mercanteggiare il proprio corpo fra i vicoli della colonia o nei luridi abituri dei loro clienti. Ciò che però risultava inspiegabile era il luogo dov’erano stati rinvenuti i tre cadaveri mutilati: i resti della prima sventurata giacevano riversi in un lago cremisi ai piedi della piccola scala in muratura che conduceva al piano sopraelevato del bordello; la seconda prostituta era stata assalita nell’oscuro rivolo pavimentato che sbucava a circa metà del vicus Gaudii, mentre la terza poveretta aveva vissuto i suoi ultimi momenti di terrore a ridosso di una taberna che si apriva lungo una polverosa salita, la stessa che confluiva nel crocicchio nei cui pressi si trovava la popina di Mario. Tutte sventrate a pochi i dal bordello, insomma. Il feroce omicida aveva reciso le loro vite a poche pertiche dalla salvezza, quasi come se avesse voluto dimostrare con quel gesto la propria bravura di aguzzino, la sua orrenda abilità di macellaio. O forse aveva voluto palesare con i fatti una lugubre, muta ed esecranda dichiarazione d’intenti: trascinare la cittadina nello sgomento e nell’abiezione. Magari per vendicarsi di qualcosa o, peggio, per semplice delirio di onnipotenza.
Una volta preso in consegna il piccolo monile, Trebonio aveva deciso di recarsi
nell’ultima insula della colonia, quella nei dintorni della Porta Sud, con la speranza di poter riordinare le idee rivolgendo qualche domanda a Valeria.
La ragazza era sembrata poco contenta di rivedere il suo volto, forse perché era riuscita a scoprire nel frattempo la verità sul conto di Macrino. Tuttavia lo aveva fatto accomodare nel buco che aveva affittato all’ultimo piano di quell’edificio umido e fatiscente e si era sforzata di parlargli senza rancore. Quando il capo dei frumentari le aveva mostrato la buccola ritrovata sul luogo del crollo, i grandi occhi castani di lei erano diventati lucidi per le lacrime.
«Era di Artemisia», aveva rivelato la giovane lupa, con la voce rotta dall’emozione, «mia sorella. Glieli aveva donati un uomo gentile e facoltoso, non uno dei luridi sozzoni con i quali abbiamo a che fare di solito. Lei adorava quegli orecchini, era convinta che mettessero in risalto i tratti del suo viso.»
Artemisia era stata la terza donna a cadere sotto le abominevoli grinfie dell’omicida. Da quanto asseriva Valeria, sua sorella era una giovane scaltra e non si attardava mai in strada più del dovuto, rientrando nel lupanare sempre prima dell’orario di chiusura.
«È andata con qualcuno che conosceva bene, non c’è altra spiegazione», aveva concluso singhiozzando. «Qualcuno di cui doveva fidarsi.»
La tunica, il monile di Artemisia, le parole affrante della giovane lupa, cariche di dolore… La vecchia catapecchia nei pressi delle terme, decrepita e abbandonata, doveva essere stata fino al giorno precedente la tana del lupo, il luogo dove l’empio squilibrato era solito incontrarsi con le proprie vittime. Magari giaceva insieme a loro, s’inebriava con le gradevoli essenze emanate da quei corpi candidi e aggraziati, contemplava le curve dei loro fianchi e la linea suadente di quelle schiene madide di artefatto piacere, pregustando il momento in cui
avrebbe affondato senza pietà il suo pugnale nella carne delle povere sciagurate, eccitato dai loro sguardi atterriti.
D’un tratto l’abbaiare arrochito di un cane riportò Trebonio alla realtà di quella fredda notte di settembre: Arminio aveva appena abbandonato il cardo massimo e si apprestava a varcare la Porta Publia, l’ingresso situato nella parte settentrionale della colonia. Macrino accelerò la frequenza dei suoi i per non perdere contatto con il capo dei famigli, poi attraversò circospetto dall’altra parte della strada e si ricongiunse con Pulcro e il suo scherano.
«È il momento di aprire bene gli occhi», sussurrò in tono risoluto il messo imperiale. «Ora che è fuori dalle mura cittadine, vedrete che accenderà la lanterna per farsi strada tra le sepolture. Secondo Labieno, dovrebbe inoltrarsi tra la terza e la quarta fila di sepolcri. Mi raccomando: una volta sparito oltre il ciglio della via, noi ci divideremo. Voi acquattatevi alle sue spalle, io lo sorprenderò frontalmente al momento opportuno.» A circa trenta i dalla cinta muraria, il servo di Afro si arrestò d’improvviso e prese ad armeggiare con la lumiera che nascondeva sotto il mantello. Intorno al suo profilo, immerso in una fitta oscurità, si diffuse lentamente un impalpabile alone alabastrino. Una volta illuminati i propri spostamenti, Arminio riprese a camminare di buona lena fin quando non si eclissò nel punto descritto con precisione dalle parole di Macrino. Nell’aria echeggiò un fischio breve ma acuto, seguito da un altro simile come risposta. Era il segnale: il capo dei famigli stava per incontrare il misterioso individuo contattato giorni prima da Claudia. Trebonio scivolò carponi fra i basamenti dei sepolcri e s’insinuò silenzioso fra i cumuli di malerba e di ortiche che infestavano la spianata lungo il bordo sinistro del selciato. Riconosciuta la voce bassa e soffocata di Arminio, il princeps peregrinorum si acquattò alle spalle di una massiccia edicola commemorativa che s’innalzava a metà del lungo filare di sepolture e restò a scrutare di sottecchi lo svolgimento di quell’incontro.
«Dobbiamo trovare una soluzione alla svelta», mormorò il capo dei famigli, avvicinandosi alla sagoma di un uomo rannicchiato contro un’alta pietra sepolcrale. Il tipo si tirò su con lentezza e il chiarore della lanterna cominciò a rivelarne i lineamenti. Un viso spigoloso, coperto da una barba ispida e rossastra, si legava a un corpo gagliardo e dall’aspetto granitico tramite un collo taurino, segnato da un’indecifrabile scritta in rilievo sulla pelle. I suoi occhi corvini erano attraversati da una strana luce, un connubio ben dosato di forza e audacia, mentre le mani, enormi e carnose, erano avvolte in bende mezze sdrucite e macchiate di sangue rappreso. «Scusami fratello», rispose l’uomo con voce profonda, «ti giuro che sparirò al più presto, levandoti dagli impicci.» «Ma va», si schermì Arminio, «non voglio abbandonarti in mezzo ai guai. Dico solo che è rischioso per te rimanere ancora nei dintorni. Stai pensando a cosa fare?» «Certo, ma non vedo soluzioni. Sono uno schiavo fuggito due volte. Se riescono ad acciuffarmi, mi taglieranno la gola o peggio mi daranno in pasto alle fiere.» Trebonio aveva ascoltato abbastanza: era il momento di agire. Con un balzo sbucò sul lato sinistro dell’edicola funebre. Nello stesso istante il misterioso energumeno dalle mani fasciate spintonò con vigore Arminio e si gettò a perdifiato nell’oscurità che ammantava i filari di sepolcri. Pochi istanti dopo si udì un tonfo sordo, un crocchiare confuso e prolungato di sterpaglia secca e in fine una serie di aspre imprecazioni. Quindi l’uomo riapparve alle spalle del fedele servo del duumviro, con una vistosa escoriazione su uno zigomo e trascinato sotto braccio da Pulcro e dal suo sottoposto, con il gladio sguainato nella destra. «Ora che siamo tutti nuovamente riuniti», esordì in tono duro e sarcastico Trebonio, «spero vorrai svelarmi i motivi della tua insolita sortita notturna, caro Arminio.» «Non aprire bocca, fratello. Che vadano agli Inferi!», maledì schiumante di rabbia il fuggitivo.
Il capo dei famigli alzò la lanterna quel tanto che bastava per illuminare il volto serafico e imperscrutabile di Macrino. Lanciandogli un’occhiata traboccante d’odio, Arminio si limitò a rispondere stentoreo. «Non sei il mio padrone e non devo spiegarti un bel niente.» Poi abbassò lentamente il capo e restò a fissare con espressione rassegnata il terreno umidiccio intorno ai suoi calzari. «Quest’uomo è uno schiavo fuggito», asserì infervorato Pulcro, mentre indicava la parola fug marchiata a fuoco sul collo del prigioniero, «e tu lo stavi aiutando a scappare. Adesso andremo dal nobile Afro, gli racconteremo della tua bravata e vedrai che vuoterai il sacco alla svelta. La tortura è l’unico mezzo per avvalorare le confessioni di un servo.» «Fuggito due volte, Aurelio», precisò atono il capo dei frumentari, «e forse è proprio l’uomo che ha gettato la colonia nel terrore. Mi sa che abbiamo trovato il nostro colpevole.» «No! Aspettate vi prego», li interruppe con voce implorante un Arminio improvvisamente prostrato. Con gli occhi lucidi e la fronte sudata si avvicinò al princeps peregrinorum, poi si gettò ai suoi calcei supplicando: «Vi racconterò tutta la verità, lo giuro, ma non denunciate l’accaduto al mio padrone. Mio fratello non è l’assassino delle lupe e non merita il vostro risentimento.» «Allora alzati in piedi», inveì a muso duro Macrino, «e sbrigati a parlare.» «Quest’uomo si chiama Bibulo ed è mio fratello minore», prese a chiarire il capo dei famigli, indicandolo con aria affranta. «Faceva parte di una familia rustica che lavorava in una grande proprietà terriera a poche miglia da Capua. Una notte, per sfuggire alle tremende vessazioni del liberto che gestiva l’azienda agricola, questo scellerato è scappato dall’ergastulum, pensando di poter farla franca e abbandonare per sempre il suo padrone. Invece è stato riagguantato, torturato, marchiato a fuoco col simbolo dell’infamia e venduto a un mango per pochi sesterzi. Otto mesi fa è stato acquistato come gladiatore da un rudiarius al servizio del famoso Pompeio. Avrebbe dovuto combattere per la prima volta nei giochi indetti nell’Urbe per l’Epulum Iovis ma ha pensato bene di fuggire ancora, incosciente com’è. Tuttavia resta mio fratello, sangue del mio sangue, e non potevo abbandonarlo alle sue sventure. Sapeva dove trovarmi e ha chiesto il mio aiuto fintanto che si sentiva braccato. Sopravvive nella zona delle paludi.
Così, quando posso, gli porto da mangiare e gli lascio qualche moneta, scervellandomi giorno e notte per trovare una via d’uscita ai suoi problemi ma oramai…» Macrino restò a scrutare a lungo l’espressione rassegnata e stanca di Arminio: il suo viso era pallido, la schiena ricurva e gli occhi infossati nelle orbite violacee. L’inflessione della sua voce lasciava trasparire un’apprensione sincera e logorante per il futuro di Bibulo, un ragazzone dal ato tormentato ma dallo sguardo fiero e deciso. D’un tratto l’immagine del fuggiasco imprigionato fra Pulcro e il suo attendente, con le mani rotte a sangue e i capelli arruffati per la violenta colluttazione, si sovrappose ai racconti carichi di pene, maltrattamenti e castighi narratigli dal suo ex schiavo Labieno. Conosceva bene in che condizioni erano costretti a vivere i servi impiegati nelle tenute agricole che si estendevano opulente a poche miglia da Roma e non riusciva a biasimare del tutto le azioni di quel giovane sventurato, reo soltanto di essere stato partorito dal grembo assoggettato di una schiava.
«Suppongo tu sia al corrente della pena in cui incorrono coloro che favoreggiano gli schiavi fuggiti dal loro padrone», replicò Trebonio, sfregandosi le labbra meditabondo. «E ancor più coloro che non ne denunciano il ritrovamento. Aurelio è un funzionario della legge e io sono un messo imperiale… Adesso spiegami: come dovremmo comportarci con voi due?» Il capo dei famigli restò immobile fra Trebonio e i tre alle sue spalle, volgendo il capo al cielo e proiettando lo sguardo verso i tenui bagliori lattiginosi emanati dal disco lunare, in quel momento sgombro dalla cortina di nubi cineree che ne aveva occultato a lungo le fattezze. «Lascia libero Bibulo, magnanimo Macrino, e fai pure di me ciò che vuoi», propose con un filo di voce Arminio. «Potreste raccontare la verità e magari dire che sia riuscito a scappare. Sono pronto a qualsiasi punizione purché sia risparmiata la vita di mio fratello.» «Che ne pensi, Aurelio?», chiese pacato il capo dei frumentari. «Cosa ci converrebbe fare?» «Dobbiamo consegnarli entrambi alla custodia del nobile Marco Stazio Afro», tuonò perentorio Pulcro. «La legge deve essere sempre rispettata.»
Arminio chinò di nuovo il capo: il verdetto era stato emesso, unico e insindacabile. «Eppure una via d’uscita ci sarebbe», ipotizzò a voce alta Trebonio. Quindi si grattò perplesso il capo e mosse i primi i in direzione del giovane fuggiasco. «Tu agli atti sei stato acquistato da Pompeio, gestore del Ludus Magnus per conto del divino Augusto. In un certo senso potremmo quindi affermare che, entrando a far parte dei beni della scuola gladiatoria, il tuo vero padrone sia in realtà Domiziano stesso, giusto? Pompeio è come se stesse utilizzando un semplice usufrutto. Beh, io in questa colonia rappresento l’autorità imperiale fino a quando non riuscirò a fare chiarezza sulla vicenda degli omicidi. Pertanto da ora in avanti erai sotto la mia custodia. Poi, quando ritornerò nell’Urbe, ti riconsegnerò al tuo legittimo proprietario.» «E al duumviro? Cosa diremo ad Afro?», protestò d’istinto Pulcro, frastornato dal discorso rapido e cavilloso del princeps peregrinorum. «Nulla», specificò con naturalezza Trebonio. «Se il mio ragionamento è esatto, così come credo, io ho soltanto ritrovato una proprietà della quale ho il diritto di disporre pro tempore e come meglio credo. Allo stato dei fatti, tutto è finito nel migliore dei modi, senza bisogno di scomodare la legge e gli alti magistrati, per adesso. Tu», continuò a dire il capo dei frumentari, additando la faccia trasecolante e allo stesso tempo sollevata di Bibulo, «erai per mio volere sotto il comando di Aurelio Pulcro come ausiliario dei vigiles e già da stanotte alloggerai in caserma. Sai leggere e scrivere?» «Un po’, signore» sussurrò il fuggitivo, con voce rotta dallo stupore. «Bene, allora sarai demandato ad attività d’ufficio. Appena puoi, copri quello sfregio con un focale e vedi di liberarti di quel bracciale di bronzo. Evitiamo di dare troppo nell’occhio. In quanto a te», aggiunse, voltandosi verso la figura sudaticcia di Arminio, «ricordati che mi devi un grosso, enorme favore. Intesi?» «Tutto quello che desideri, domine», l’ossequiò sottomesso il vecchio servo. «Ma insomma!», ribollì incredulo Pulcro, con gli occhi infiammati di livore. «Chi credi di essere per…» «Io qui rappresento l’Augusto! Per gli dèi!», tuonò spazientito Trebonio, sgranando le sue gemme smeraldo contro il compagno d’indagine. «Ficcatelo
bene in testa, Aurelio! Abbiamo già troppe rogne e dilemmi da sciogliere in questa dannata Liternum, non occorre complicare ancor più la situazione. Prenderai Bibulo con te, almeno per il momento… E poi un aiuto in più non guasta mai in certi casi. Ora vi prego, lasciamo velocemente questo luogo spettrale e ritorniamo in città. Domani si celebrerà la dedicatio del Capitolium: Afro presiederà la funzione e si prospetta una lunga e tediosa giornata.»
Liternum, idi di settembre.
Nel Foro.
La grande piazza cittadina era inondata da una luce abbacinante e appariva come un enorme catino dalle pareti marmoree. Lo spazio antistante la tribuna celebrativa, posta a pochi i dalla rampa d’accesso al Capitolium, era gremito di fedeli. Questi si accalcavano gli uni sugli altri in religiosa adorazione e la lunga fiumana di volti arrivava a lambire il candido portico colonnato che delimitava la parte meridionale del Foro. Alcuni avevano il capo chino e pregavano in tono sommesso, aprendo le braccia e rivolgendo i palmi al cielo. I più invece seguivano con fervore la cerimonia sacra, spingendo lo sguardo in direzione dell’ara sacrificale e portandosi le mani alla fronte per proteggersi dall’intensità dei potenti bagliori di metà mattina. Trebonio occupava suo malgrado un posto tra le prime file, affiancato da un Labieno sonnacchioso e parecchio contrariato dalla lungaggine della cerimonia. A poche pertiche dai loro calzari, l’imponente altare votivo in alabastro era stato imbandito con le usuali offerte per il rito: una terrina contenente una mistura di faggio e polenta, un calice di vino rosso e una formella di pane, un piatto di fichi secchi accompagnati da carne di bue, bagnata nell’olio, e una pirofila di pesce arrostito, speziato al sesamo e ricoperto di farina di spelta. Dietro il lungo pancone in pietra, un elegante pulvinare ospitava il simulacro di Giove ad altezza umana, disteso orizzontalmente rispetto alla folla di devoti e con il capo riccioluto proiettato verso la chiostra di doni. Il nobile Marco Stazio Afro, primo fra i triumviri epulones, indossava una splendida toga bianca di bisso, impreziosita da venature color avorio, e sostava con piglio ascetico dietro
il flamen dialis, fiancheggiato dai suoi due colleghi di cerimoniale. Inginocchiato davanti alla tavola liturgica e con il suo candido apex ben calcato sulla testa, Tito Spurinna alzò le braccia al cielo e invocò tre volte a squarciagola il nome del padre degli dèi. Dalla ressa accalorata degli astanti si diffuse un gorgoglio cupo e profondo, una sorta di supplichevole lamento indirizzato alla sagoma genuflessa del sacerdote. A quel punto il flamen dialis scamlò con vigore un grosso sonaglio luccicante, quindi fece segno all’alto magistrato di Liternum di presentare l’ecatombe ai fedeli. Afro, coadiuvato dagli altri epulones e da Upilio, fece sfilare i tre animali davanti all’altare dedicato a Giove e arrestò la loro erella all’interno dello spazio sacrificale, addobbato con una lunga serie di nastri vermigli: erano un maiale, un caprone e un giovane bue dal manto pallido. «Se non si decidono a sbrigarsi, giuro che vado a scannarle io quelle povere bestie», bofonchiò irritato l’ex schiavo di Macrino. La nottata era trascorsa insonne per lui, impegnato a scovare nel bordello di Voreno una traccia, un indizio o un semplice segno che potesse aiutare Trebonio a risalire all’identità del vero proprietario del locale. Era ritornato nella domus del duumviro poco prima dell’alba, sfinito per la sua minuziosa perquisizione e abbastanza moggio per il risultato ottenuto: i cubicoli delle lupe, infatti, erano risultati freddi e maledettamente vuoti, mentre l’ufficio del lenone e la sua camera avevano offerto una quantità impressionante di cianfrusaglie di poco conto e di rotoli zeppi di calcoli senza un apparente significato, forse semplici note contabili portate avanti per la gestione del bordello. Dopo un paio d’ore trascorse a spulciare tutti quegli insulsi papiri a caccia di un nome o di un’informazione utile, Labieno si era demoralizzato così tanto da gettarsi di colpo sul vecchio giaciglio di Voreno, perdendosi per un po’ fra le ombre proiettate sul soffitto dalle lucerne a olio usate durante l’ispezione. Era scivolato così in un insolito stato mentale, a metà strada tra l’inedia e il dormiveglia, per ridestarsene d’improvviso solo dopo circa mezza clessidra. Mentre cercava di tirarsi su per continuare il suo penoso lavoro, si era accorto di un piccolo lembo annerito che sporgeva dal cumulo di cenere ammassata in un braciere, posto a poche spanne dalla testata del letto. Pertanto aveva estratto lo scampolo dalla brace spenta per fiutare di cosa potesse trattarsi. Ciò che stringeva tra le dita altro non era che un frammento di fanniana, sicuramente i resti di una missiva indirizzata al gestore del bordello. Le uniche parole leggibili sul quel brandello di costoso papiro riportavano un semplice e formale saluto:
OTC Voreno suo salutem dicit.
La restante parte del testo era sparita insieme con le speranze dello speziale di riuscire a scoprirne il contenuto. Irritato per l’assurda sortita notturna cui era stato costretto e ancor più amareggiato per le ore di sonno andate irrimediabilmente sprecate nel vano tentativo di trovare un’improbabile prova, il liberto aveva deciso di ritornare mestamente nell’abitazione del suo zelante ospite, sicuro di doversi sorbire le imprecazioni e gli improperi del princeps peregrinorum. Quindi era sgattaiolato in fretta fuori dal lupanare, portandosi dietro quel piccolo frammento di papiro a dimostrazione di tutta la buona volontà profusa durante le ore di ricerca, e, dopo aver congedato il vigile che lo aveva aiutato, si era avviato a o svelto verso la zona nord-occidentale di Liternum. «Stai ancora torturandoti le meningi sull’affare di ieri notte, vero?», sussurrò il siculo, avvicinandosi all’orecchio di Trebonio. «Eppure sembravi così convinto delle tue affermazioni.» «Infatti è così. Ero solo intento a riflettere sul profilo dell’assassino. Ora taci, e mostra un minimo di rispetto per la funzione.» Lo sguardo con il quale il capo dei frumentari aveva investito lo speziale era freddo, distaccato e l’inflessione della sua voce ben si accompagnava all’espressione di sdegno e supponenza dipinta sul suo volto. Intanto Afro aveva già cosparso il capo delle tre vittime sacrificali con il vino e la mola salsa e fatto scorrere simbolicamente la punta del coltello da macello lungo il dorso dei morituri. Tito Spurinna gli stava dappresso a mani giunte, pregando a bassa voce e con le spalle rivolte alla numerosa platea pubblica: il porpora del filo attaccato al suo copricapo spiccava nella macchia opalescente proposta dalle vesti raffinate dei triumviri epuloni. Macrino fissava con aria assente la statua del padre degli dèi, attendendo in silenzio il termine del rituale votivo. La sua posa appariva rilassata e i tratti del viso distesi, tuttavia il continuo giocherellare con la graziosa fibula d’argento, posta all’altezza della spalla mancina, lasciava intuire il suo reale stato d’animo. Più che preoccupazione, la traccia riportata da Labieno sul finire della notte gli aveva procurato una prorompente smania d’agire. Erano infatti bastate le tre
iniziali vergate sul quel brandello di papiro bruciacchiato per dipanare definitivamente i dubbi e le incertezze che si erano annidate per giorni nel profondo delle sue congetture. L’indizio avallava appieno le sue teorie e nello stesso tempo comprovava quanta sollecitudine avesse dovuto infondere alle future investigazioni, al fine di braccare al più presto l’omicida delle lupe. Oramai non c’era più possibilità di errore: il vero proprietario del lupanare era certamente Ottavio Titinio Capitone, procurator ab epistulis del divino Domiziano e suo uomo di fiducia. All’ombra di quel nome finalmente trovavano un’adeguata interpretazione le inspiegabili insistenze dell’imperatore nel voler affidare proprio a lui quell’incarico così avulso dalle sue solite competenze, nonché la premura di Norbano e Petronio Secondo nel volerlo vedere partire al più presto alla volta di Liternum. A ciò si aggiungeva la spiegazione per l’astruso comportamento di Voreno nel voler continuare a gestire la sua attività; per l’infida presenza di Vulpecula e per le confessioni di Azia durante il loro colloquio nell’insula.
Il tempo scorreva inesorabile e lui si trovava nel mezzo di due giganteschi fuochi: da un lato c’erano Afro e l’intera cittadina di Liternum, che attendevano con impazienza la cattura dell’efferato assassino, mentre dall’altro spuntava l’effigie traballante del segretario speciale di Domiziano, pronta a essere esposta al pubblico ludibrio e alle spietate invettive della maggioranza dei padri coscritti dell’Urbe. Che ghiotta occasione sarebbe stata, per tutti quei senatori, poter additare con sdegno la figura fino allora venerabile di Capitone! La storia degli omicidi era già nota fra i vicoli e nelle piazze della Capitale prima della sua partenza e, se i dettagli reali di quella fosca vicenda fossero saltati fuori all’improvviso, c’era da star sicuri che i nobili patrizi della Curia avrebbero cercato di fare a pezzi l’immagine del procurator, chiedendone magari l’allontanamento da Roma o peggio, allo scopo di isolare definitivamente l’empio figlio di Vespasiano. L’imperatore si sarebbe trovato a quel punto davvero solo: le uniche due persone di cui si fidasse ciecamente erano infatti Capitone e Gaio Trebonio Macrino, princeps peregrinorum dei Castra arroccati sul colle Celio. D’un tratto un lungo vagito, acuto e straziante, squarciò il silenzio mistico nel quale era piombato l’intero piazzale.
La gola del maiale era stata recisa di netto dalla possente lama del coltello, esaltata dai riflessi argentei generati dalla potenza abbagliante della luce. L’animale era poggiato su una lunga lastra marmorea, forata nel centro, e aveva il muso legato, così come le zampe anteriori e posteriori. Si dibatteva con impeto, contorcendosi orribilmente in preda agli ultimi spasmi di vita, e il suo sangue sgorgava copioso dalla trachea, tranciata con perizia dalla mano sinistra del sacerdote. Afro e Upilio si sforzavano di tenere ferma la vittima con il collo in corrispondenza dell’apertura creata nella spessa piastra opalina, in modo da poter raccoglierne il sangue all’interno di un bacile posto sulla base dell’altare, proprio al di sotto del foro.
Dopo aver lanciato un ultimo, lacerante mugghio, l’animale divenne immobile, come pietrificato, e solo allora il duumviro e il custode del Capitolium si allontanarono dall’ara sacrificale. Spurinna estrasse le interiora del maiale e le controllò, poi le infilzò ancora grondanti di umore purpureo con uno spiedo posto sulla fiamma di un braciere. Alla fine si volse verso la folla e, con la toga completamente lordata di sangue, alzò le braccia in segno di offerta a Giove. Il bue seguì la stessa sorte della prima vittima, anche se nel suo caso Afro e Upilio furono sostituiti dai restanti epuloni, ma quando venne il turno del caprone, ultimo sacrificio della cerimonia, il capo dei frumentari ebbe l’impressione di aver notato qualcosa di strano. Terminata l’immolazione, la statua di Giove fu trasportata insieme alle offerte all’interno del Capitolium mentre il flamen dialis, i triumviri e gran parte dei partecipanti all’assemblea dei decurioni si ritirarono nella basilica attigua al tempio per celebrare il ricco banchetto di commemorazione. Per il resto degli astanti erano stati allestiti una lunga serie di panconi di legno, carichi di vettovaglie offerte dalle diverse corporazioni dei bottegai le cui attività seguivano lo sviluppo dei tre portici colonnati delimitanti la zona del Foro. Così la ressa di fedeli cominciò ad abbandonare il centro della piazza e a spandersi lungo il perimetro dello slargo, dando inizio a una sorta di chiassosa festa cittadina. «Perché hai rifiutato l’invito di Afro?», domandò uno stupito Labieno al suo ex padrone, nel mezzo del baccano e del cicaleccio generale.
«Non abbiamo tempo per sollazzarci», l’ammonì con piglio rude l’altro. «Ricordi perché siamo qui? Ne ho abbastanza di questa colonia e dobbiamo risolvere le nostre indagini al più presto.» «Comprendo la tua preoccupazione, ma si sarebbe trattato solo di un paio d’ore di meritato ristoro, vista la notte movimentata che abbiamo trascorso entrambi.» «Ore preziose», precisò Trebonio, puntando lo sguardo verso nord-est, oltre l’accesso al Foro. «Tempo che dedicheremo al nostro lavoro. Dobbiamo assolutamente interrogare il padrone della vetreria danneggiata dal crollo di quella catapecchia. Forse lui e suo figlio potranno dirci qualcosa d’interessante a riguardo di quella vecchia casa abbandonata.» «Intendi andarci adesso? Chi ti dice che non sia già qui in mezzo alla gazzarra?» «Uhm… probabile», osservò Macrino, aggrottando per un istante le sopracciglia. «Tuttavia faremo un tentativo. Nel caso ritorneremo qui e lo cercheremo tra la folla.» Labieno sbuffò risentito: il tanto meritato riposo stentava a farsi vedere… La stanchezza stava iniziando a prendere il sopravvento sul suo senso del dovere e, strano a dirsi, lo speziale cominciava a sentire la mancanza dei grigi e uggiosi casermoni che costituivano il complesso dei Castra Peregrina. «A proposito», chiese a un tratto il princeps peregrinorum, mentre si avviavano spediti dalle parti del vicus Aquarius. «Deve essere accaduto qualcosa tra Spurinna e il duumviro durante l’ultimo sacrificio, anche se non sono riuscito a scorgere bene la scena. Ho solo avuto modo di notare l’occhiata in tralice che Afro ha lanciato al giovane flamen.» «È certo», sbottò scostante il siculo, «quel novellino di sacerdote stava mandando all’Erebo il buon esito della dedicatio. Ringraziando gli dèi, la calca era distratta dalle parole degli altri due epuloni» «Perché? Cosa ha fatto?», l’incalzò Trebonio, colto da vivo interesse. «Ma come, non te ne sei accorto? Spurinna stava poggiando le mani sul collo del caprone!» «E quindi? Cosa c’è di anormale: Afro aveva il compito di scannarlo e il
sacerdote cercava di dargli una mano.» «La faccenda di Capitone deve averti stranito sul serio!», tuonò il liberto, inviperito per la lunga camminata in salita e l’afa soffocante che sembrava braccarlo a ogni o. «Sveglia ufficiale! Un sacerdote di Giove non può neanche nominarla una capra, figurati toccarla o ancor peggio sacrificarla!»
2
Liternum, idi di settembre.
Nei pressi delle Terme.
La visita repentina nella bottega del vetraio del vicus Aquarius aveva aggiunto un altro importante tassello al mosaico d’informazioni recepite dal Macrino. Con somma soddisfazione di Labieno, quando arrivarono davanti alla taberna, i due messi imperiali scoprirono che l’artigiano non era a lavoro: come gran parte dei commercianti, aveva preferito partecipare alla funzione religiosa svoltasi nel Foro. Al suo posto però riuscirono a interrogare il figlio, un ragazzo bruno di carnagione e dallo sguardo vispo, i cui tratti apparivano insolitamente orientali. Il giovane era intento a dirigere i lavori di ripristino architettonico della bottega, seguendo con attenzione l’operato dei suoi tre schiavi. Non appena Macrino gli rivolse le prime domande, il ragazzo si mostrò cordiale e propenso a soddisfare la curiosità dei due forestieri. «Disabitata da anni, certo», chiarì subito il figlio del vetraio, «ma durante le ultime due settimane qualcuno aveva preso l’abitudine di sgattaiolarci dentro spesso, di solito ben oltre la prima fax.» La notizia suffragava in pieno i presentimenti e le ipotesi di Trebonio, quindi il capo dei frumentari si lanciò con fervore alla scoperta dei dettagli relativi a quell’importante rivelazione. Il giovane continuò il suo racconto dicendo che dalla vecchia abitazione provenivano di sovente strani rumori, e solo nel cuore della notte. Spesso era stato tentato di lasciare per un attimo il lavoro, cui il padre l’aveva costretto nelle ore destinate al riposo, per andare a controllare cosa accadesse in quell’edificio un tempo abbandonato.
«Così una volta mi sono deciso e l’ho fatto», ammise con un mezzo sorriso il figlio del bottegaio. «Mi sono acquattato sul retro della catapecchia e ho lanciato una rapida occhiata all’interno, utilizzando la stretta feritoia che si apriva su quello che un tempo doveva essere l’orticello posteriore.» Il ragazzo non era riuscito a vedere granché, dato che l’interno dell’abitazione era avvolto in gran parte dall’oscurità e la finestrella si trovava parecchio in alto. «Non ho il fisico del legionario, io», aveva ridacchiato il giovane, «e ci si doveva aggrappare ai bordi dell’apertura per guardare dentro.» Tuttavia l’improvvisato spione era riuscito a capire ben presto cosa stesse avvenendo in quel luogo incustodito, schernendosi per l’infondata preoccupazione dalla quale si era lasciato influenzare. «Ricordo di aver intravisto, in un debolissimo barlume di luce, la sagoma di una donna distesa sopra un tavolaccio traballante», rivelò compiaciuto. «Gemeva di piacere mentre un tipo con il capo coperto ci dava dentro di brutto, tenendole le gambe appoggiate sulle sue spalle.» Trebonio si ò una mano fra i folti riccioli corvini e assentì con decisione. Il suo volto non lasciava trapelare alcuna emozione ma dentro di sé bruciava d’impazienza poiché sentiva avvicinarsi il momento della verità, l’istante in cui avrebbe potuto dare una svolta decisiva alle sue indagini. A quel punto chiese con voce atona se il ragazzo fosse riuscito a distinguere il viso dell’amante o se avesse notato qualcosa di particolare in quella sconosciuta figura. Il giovane vetraio scosse il capo in senso di diniego, poi sembrò quasi scusarsi per quella sua mancanza.
«Erano in posizione defilata rispetto alla mia visuale», si rammaricò, «quindi non potevo vederli in faccia… Ora che ricordo però, un dettaglio sono riuscito a fissarlo: dalla fusciacca stretta intorno alla vita del tipo pendeva qualcosa di chiaro, simile a una specie di corda avvolta su se stessa.» Così, dopo aver ringraziato per la disponibilità, i due messi imperiali avevano deciso di ritornare dalle parti del Foro, ragionando lungo il cammino sugli elementi raccolti durante i diversi giorni d’indagine.
«Le mie supposizioni hanno trovato un riscontro positivo», esordì Macrino, rivolgendo lo sguardo in direzione dell’ingresso delle terme, insolitamente vuote a quell’ora. «È spuntata di nuovo la corda, visto amico mio? Possiamo affermare con sicurezza che il nostro uomo amasse godere dei servigi delle sue ignare vittime, prima di spedirle all’Erebo.» «Perché non ammazzarle dentro la catapecchia allora?», suggerì snervato il liberto, oramai senza più forze a causa dell’insonnia prolungata. «I corpi delle prime tre donne sono stati ritrovati nei dintorni del lupanare, parecchio distante dal vicus Aquarius, non trovi?» «Non riesci ad assimilare il suo modo d’agire, Labieno.» «È un pazzo!», replicò aspro lo speziale, ridotto ai limiti della sopportazione. «Un folle abominevole e sanguinario, Trebonio! Non ragiona sulle cose: agisce e basta, spinto dalla sua mente malata.» «Ed è qui che sbagli», l’ammonì serioso il princeps peregrinorum. «Sembra quasi che tu abbia cambiato la tua visione della vicenda. Sai bene quanto sia freddo, scaltro, calcolatore… Usa i suoi crimini per dimostrare la propria onnipotenza. Se avesse strangolato e poi squartato le vittime all’interno di quell’abituro, probabilmente nessuno avrebbe potuto rabbrividire per le sue azioni. Invece l’assassino ha agito così di proposito! La sua intenzione è trascinare la colonia nel terrore, nella paura. I suoi sono plateali atti di sfida, forse verso i maggiorenti locali, forse verso i duumviro di Liternum o addirittura verso Capitone… Oppure sta semplicemente sfidando noi due, caro Labieno.» «So solo che sono spossato e che ho bisogno di dormire», borbottò con un filo di voce il siculo, il capo ciondolante a ogni o e le spalle ricurve per la pressante stanchezza. «Capisco», sospirò rassegnato Trebonio, «tuttavia cerca di seguire i miei pensieri ancora un po’. Poi potrai raggiungere alla svelta la casa di Afro per dedicarti al tuo meritato riposo.» Lo speziale prese un lungo respiro, quindi annuì di malavoglia e attese le congetture del suo ex padrone. «Ci troviamo di fronte a un uomo alto pressappoco quanto te e dalla corporatura robusta. Dalle impronte che ha lasciato in giro, indossa sicuramente dei calcei.
Per quanto riguarda la sua provenienza, l’ipotesi dell’energumeno straniero è oramai da escludere: si tratta sicuramente di un viso conosciuto, un abitante della colonia, altrimenti le lupe non avrebbero rischiato di appartarsi con lui in quella catapecchia abbandonata… Specialmente Artemisia, la sorella di Valeria.» «Io terrei d’occhio Bibulo», lo imboccò diffidente il siculo. «La descrizione che hai appena fatto lo rappresenta appieno e per giunta è uno schiavo fuggito, un poveraccio con tanto odio nell’animo e senza più nulla da perdere.» «Siamo già dimentichi del nostro ato?», lo redarguì abbozzando un sorriso il princeps peregrinorum, mentre procedevano lungo la parte del cardo massimo che fiancheggiava l’isolato posto alle spalle del Foro. «Io non ho mai provato a fuggire», contestò risentito il liberto, «anche se a volte ne avrei avuto tutte le ragioni per farlo.» «Che vuoi dire, Labieno? Non ti ho sempre trattato con rispetto?», si sincerò deluso Macrino. «Non parlavo di te, Trebonio. Conosci bene la mia storia prima del nostro incontro.» Il capo dei frumentari parve risollevato dalle parole dello speziale: pur facendo attenzione a non dimostrarlo, Macrino aveva sempre considerato il siculo più un amico che uno schiavo. Ricordava ancora quando lo aveva acquistato da un mango durante una fiera dalle parti del Macellum. Sporco, malnutrito e pieno di lividi, lo aveva da subito preso sotto la sua ala protettrice. Dapprima lo aveva spedito nella domus di sua sorella Flavia, destinandolo alle cure di premurose ancelle per diversi giorni; poi gli aveva trovato una sistemazione all’interno della caserma sul Celio, affidandogli l’autorevole carica di suo segretario personale. In aggiunta, appena tre anni dopo il loro incontro lo aveva affrancato, iscrivendolo come cittadino romano nelle liste dei censori, e gli aveva permesso di dedicarsi allo studio della sua ione giovanile, l’antica arte dell’erboristeria. «Tornando a quella sera», riprese a dire Labieno, «le confessioni lamentose di Arminio non sono riuscite a sciogliere il mio riserbo. Continuo a non vederlo di buon’occhio.» «Io al contrario sono convinto della sua estraneità ai fatti. Le sue parole mi sono apparse sincere e poi gli alibi sono oramai tutti a suo favore: l’arcano del tubo è
stato svelato e la sera in cui sono stati perpetrati gli ultimi due omicidi il capo dei famigli di Afro se la dormiva della grossa, così come quando uscii per effettuare lo scavo nella necropoli.» «Eppure non hai ritrovato i resti delle lupe», insinuò con tono deciso il siculo, mentre svoltavano per il viottolo che affacciava sulla zona d’accesso alla piazza cittadina, ancora affollata di festeggianti. «Lo so, amico mio, ed è un mistero che ancora non sono riuscito a svelare: è come se l’assassino avesse previsto le nostre intenzioni… Per quanto riguarda la tunica sporca di sangue, ritrovata tra le macerie dagli uomini di Pulcro, sto cercando di elaborare la mia teoria. Ho l’impressione che siamo vicini alla verità più di quanto non riusciamo a vedere, anche se le zone oscure sono ancora troppe.» Appena superarono le porte del piccolo teatro di epoca sillana, situato nella parte meridionale del Foro, Trebonio notò che i portatori di lettiga di Afro si stavano avvicinando con indolenza all’alta gradinata della basilica, segno che di lì a poco il nobile avrebbe fatto ritorno alla sua elegante dimora. Di sottecchi scrutò il volto smagrito del suo ex schiavo: lo speziale aveva la fronte imperlata di goccioline di sudore e due profonde occhiaie campeggiavano sotto le sue iridi cerulee. «Penso che il nostro aristocratico ospite stia per tornarsene nella parte alta della città», concluse pacato Trebonio. «Meglio che tu raggiunga i suoi schiavi, magari potresti approfittare dello spazioso palanchino. Io intanto andrò a far visita ad Aurelio: voglio elaborare con lui il punto della situazione e domandare se ha scoperto qualcosa sul conto di Bibulo.»
La visita alla caserma dei vigili si era rivelata un buco nell’acqua. Entrando nell’ufficio di Pulcro, Trebonio notò che la sua sedia era occupata dall’attendente capo, un uomo ben piantato, con il viso ovale e il naso aquilino, intento a scribacchiare l’inventario del magazzino su un rotolo già imbrattato per metà. «È andato alla Croce del Sud, signore», gli aveva spiegato il vecchio con voce querula. «Dato che è giorno di festa, ha preferito consumare un boccone alla taverna. Mi ha incaricato di sostituirlo fino al termine del turno. Se si tratta di
qualcosa d’urgente, puoi trovarlo lì.» Macrino restò deluso dalle parole del milite, infatti sperava che almeno il capo dei vigiles fosse disposto a elucubrare insieme a lui sui nuovi indizi che era riuscito a portare a galla. Tuttavia, ripensando all’aspetto di Labieno, non poteva di certo biasimare il comportamento dell’alto ufficiale di Liternum: negli ultimi tempi anche Aurelio appariva spossato, nervoso. Le sere precedenti non erano state affatto tranquille, tra il crollo della catapecchia e l’improvviso pedinamento di Arminio.
«Da quando è saltata fuori la vicenda delle lupe», si era lasciato sfuggire l’attendente, «il capo ha trascorso la maggior parte delle notti nel dormitorio della caserma, accontentandosi di una delle brande destinate alle reclute.» A quel punto il princeps peregrinorum aveva deciso di far ritorno alla residenza di Afro senza are per la locanda, non avendo in animo di disturbare i pochi momenti di tranquillità di Pulcro, che si era dimostrato così zelante e collaborativo nello sviluppo delle indagini. Prima di abbandonare la caserma, Trebonio aveva chiesto dove fosse Bibulo e a quali mansioni fosse stato demandato. «Il nuovo ausiliario? Beh… il comandante ha deciso di affidargli il ruolo di stalliere e di magazziniere. È un tipo atletico e vigoroso, ci sarà certo d’aiuto. Non so perché, ma Aurelio vuole che ci sia sempre qualcuno dei nostri a tenerlo d’occhio.»
Durante il tragitto che dalla caserma di Pulcro conduceva all’abitazione del duumviro della colonia, Macrino cercò di inquadrare con accuratezza tutte le tessere oramai a sua disposizione, sforzandosi di intuire il soggetto principale dell’oscuro mosaico rappresentato dagli omicidi di Liternum. La stanchezza però cominciava a minare la sua capacità di ragionamento e più si sforzava per dare un senso alle congetture, più lo svilimento e lo sconforto prendevano a serpeggiare nel suo animo: troppi vicoli ciechi si presentavano nei recessi della sua mente, troppe domande senza risposta. Allora pensò che forse era il caso di tirare un po’ il fiato e concedersi per la prima volta un paio d’ore di libertà, in modo da rinfrancare lo spirito e ritrovare la calma e la pacatezza adeguate per
potersi approcciare nuovamente con energia a quell’arduo labirinto nel quale era stato scaraventato appena raggiunta la colonia. D’improvviso gli apparve davanti agli occhi il viso pallido e grazioso di Valeria e, in un batter d’occhio, decise di andarle a fare visita… Magari l’avrebbe invitata a seguirlo alla popina di Mario e si sarebbe scusato per le bugie che le aveva lasciato intendere durante il loro primo incontro. Una volta arrivato davanti al portone dell’insula, Trebonio gettò un rapido sguardo all’ostiarius che ronfava placido nei pressi dell’infida scala posta al centro dell’atrio. Quindi prese a salire in una fitta penombra che sembrava essere imprigionata in quel lugubre edificio fin dal momento in cui questo era stato costruito. Poi si arrestò, leggermente ansante, davanti all’esile divisorio di legno che proteggeva l’accesso al tugurio affittato dalla giovane. Dopo aver atteso che Valeria aprisse la porta, entrò nel cenacolo della lupa e occupò un angolo della camera, accomodandosi a un piccolo sgabello. L’atteggiamento della donna era a un tempo guardingo e sorpreso, specialmente quando ascoltò il motivo di quella visita inaspettata. Tuttavia la curiosità, i modi gentili di quell’uomo dall’aspetto aristocratico, e ancor più il brontolare incalzante dello stomaco riuscirono a vincere le fragili remore della ragazza. In poco tempo raggiunsero la popina di Mario, stranamente tranquilla in quell’ora, e sedettero a un tavolo nelle vicinanze del piccolo vano adibito a cucina. Appena riconobbe il volto abbronzato di Macrino, una delle schiavette celtiche si affrettò a prendere la loro ordinazione, ritirandosi poi velocemente dietro il lungo pancone ad L per approntare tutto. «Dì la verità», esordì in tono distaccato la bella prostituta, con gli occhi puntati sul vecchio pancone in legno. «Cosa ti ha spinto a venirmi a cercare? Cosa ti serve ancora?» Per il tempo di un respiro, il princeps peregrinorum restò in silenzio ad ammirare i tratti armoniosi della lupa. La parrucca azzurra, gonfia di finti ricci, era finalmente sparita, lasciando il posto alla vera capigliatura della giovane: una lunga chioma liscia e rilucente, di un colore simile a quello del mosto dell’uva fragola. Le sue dita erano sottili e delicate, ceree come l’incarnato del viso, e stringevano con decisione la coppa sulla quale sembravano essersi incantati i profondi occhi castani, somiglianti a quelli di una cerbiatta spaventata.
«Te l’ho detto», ribatté con espressione rassicurante Trebonio. «Ero in giro e ho pensato di are a farti visita. Volevo… volevo semplicemente vederti.» «Tu? Vedere me?», sorrise la giovane donna, forse colta da una punta d’imbarazzo. Poi tacque per un istante, volgendo lo sguardo verso l’ingresso del locale, illuminato dagli ultimi, languidi bagliori di fine pomeriggio. «Ebbene mi hai vista, non scomodarti più a farlo in futuro. So badare a me stessa.» Macrino ascoltò in silenzio le parole sferzanti e risolute della prostituta. D’istinto allungò le sue mani e accarezzò con dolcezza quelle di Valeria. La donna si sforzò di non lasciare sfuggire alcun tipo di reazione, limitandosi semplicemente a scrutarlo con aria pensierosa. «Perché dici questo, Valeria? Ti ho già detto che mi dispiace per quello che ti ho lasciato credere durante il nostro primo incontro. Io… io pensavo potesse farti piacere mangiare un boccone insieme.» «Puoi facilmente rallegrarti della mia compagnia pagando pochi assi a notte.» Il capo dei frumentari restò sorpreso dalla durezza di quelle parole. Tutto ciò che riuscì a fare fu guardala con aria delusa e scuotere vistosamente il capo in segno di resa. «Quand’è così, mi spiace per averti infastidito», si scusò atono. Poi si alzò lesto dal panchetto al quale era seduto e fece per muovere il primo o verso l’uscita. Proprio mentre ava accanto alla minuta sagoma della prostituta, la donna gli afferrò con decisione il braccio e, guardandolo con sguardo tremante, lo pregò di sedersi nuovamente al suo posto. A quel punto la sua voce cambiò inflessione e le parole sgorgarono fuori affrante e velate da uno spesso alone di tristezza. «Scusami, scusami davvero. Tu cerchi di essere solo gentile con una povera sventurata e io invece non faccio altro che offendere le tue generose offerte d’aiuto. Il fatto è che in realtà sono spaventata e non riesco più ad affrontare la misera condizione nella quale mi ha scaraventato oramai da troppo tempo il destino.»
Macrino la osservò in silenzio, le labbra serrate in un’espressione affranta. «Sono una schiava, una prostituta», riprese. «E la mia vita non vale che qualche sesterzio. La perdita di Artemisia è stata un dolore troppo forte, impossibile da lenire. Lei rappresentava tutto il mio mondo: era mia sorella, la mia confidente e l’unica capace di donarmi la forza per andare avanti. o le giornate seduta in un cantuccio del mio cubicolo a piangere e singhiozzare, per ore. Poi la notte continuo a vendere il mio corpo nei sudici soppalchi di qualche taverna, giacendo insieme a bruti della peggior risma, ubriachi e violenti, in modo da racimolare qualche asse per l’affitto. Ecco cosa sono… Una bambola di pezza, un essere senza sogni e senza cuore, macabro divertimento della plebaglia.»
Macrino attese che la lupa si asciugasse le lacrime che le rigavano copiose le gote, quindi le si avvicinò e le sfiorò il capo con il palmo della destra. «Giuro su Giove Onnipotente che troverò l’assassino di Artemisia», cercò di rassicurarla in tono rabbioso il capo dei frumentari, «dovessi rivoltare ogni bettola, casa e anfratto di questa maledetta colonia. L’omicidio di tua sorella e delle tue amiche molto presto sarà vendicato.» «Non erano mie amiche», precisò la giovane, «anche se mi dispiace per la tragica fine a cui sono andate incontro. In realtà le altre lupe non mi vedevano di buon occhio: dicevano che recitavo la parte della sostenuta, della pudica. Solo Artemisia riusciva a comprendere quanto soffrissi nello svolgere il mio orrendo lavoro.» «Voreno è sparito, abbandonandoti in strada. Chissà per quanto altro tempo non ritornerà qui a Liternum. Perché non smetti di obbligarti a un mestiere che odi?» Le labbra seducenti della lupa si schio, lasciando sfuggire un sorriso amaro. Tuttavia, in quella smorfia di malcelata rassegnazione, il viso di Valeria s’illuminò per un istante, esaltando la bellezza dei suoi lineamenti, così garbati e carezzevoli. «Com’è semplice la visione di chi, per volere degli dèi, non ha avuto la sfortuna di venire alla luce servo. Per la gente sono nata puttana, Macrino, e sono destinata a morire da tale. Nessuno si sognerebbe mai di offrirmi un lavoro, non qui almeno.»
«Bene», considerò deciso Trebonio, «quand’è così non ti resta che lasciare la colonia.» «Certo, per morire di fame o divenire lo so di un altro lenone», replicò avvilita la ragazza. «Io… beh, io potrei…» Mentre stava per lanciarle la sua offerta Trebonio ebbe un momento di smarrimento: a cosa era dovuto quell’impulso irrefrenabile che lo obbligava ad aiutare la povera sventurata? Cos’era quell’intensa sensazione di calore che avvertiva all’altezza dello stomaco, e che lentamente sembrava serpeggiare su fino al collo, mentre la ragazza lo investiva con il suo sguardo, muto eppure così intenso? Certamente Valeria era una donna seducente e, a dispetto della sua sfortunata condizione, dimostrava un’eleganza e una grazia riconoscibili solo nelle giovani appartenenti alla classe degli optimates. Tuttavia non era unicamente la sua bellezza a confondere i pensieri di Trebonio. Nella profondità di quegli occhi color nocciola che lo fissavano in trepidante attesa, il princeps peregrinorum riusciva a scorgere il candore e l’innocenza di un animo nobile; la gentilezza di un cuore puro, seviziato fin dall’adolescenza dall’accanimento di una sorte malevola. D’un tratto il capo dei frumentari rivisse la scena finale del loro primo colloquio, avvenuto a pochi tavoli di distanza… Quel senso di dolce stordimento che aveva pervaso il suo corpo mentre sfiorava d’istinto le labbra della prostituta, l’inspiegabile e fortissimo trasporto che aveva guidato il suo viso ad avvicinarsi a quello delicato e bianchissimo della ragazza. A quel punto ruppe gli indugi e decise di cedere al volere del suo cuore. «Potrei portarti con me», disse con voce tremula, «una volta sistemate le cose qui. Ho una piccola casa dalle parti del Celio, a Roma. Potresti dare una mano a Polibio, il mio unico servitore. Sai, oramai è avanti con gli anni e le faccende domestiche non sono mai state la sua specialità.» Valeria restò basita per quelle parole e gli occhi le brillavano di felicità. «Perché fai tutto questo, Trebonio? Io non merito tanta benevolenza», gli sussurrò con voce arrendevole, mentre le sue dita accarezzavano lentamente i riccioli corvini dell’ufficiale. «Ti sbagli, Valeria», concluse lui, vedendo arrivare la sagoma esile dell’aiutante di Mario. «Tu meriti di essere felice e di vivere una vita diversa.» Detto ciò, Macrino diluì l’ardore che divampava nel suo animo in un lungo bacio
ionale, sotto lo sguardo stralunato della schiavetta celtica che, a mani colme, aveva appena raggiunto il loro tavolo.
Non era delusione quella che lo accompagnava nel suo ritorno verso la villa di Marco Stazio Afro.
La delusione infatti, cercando di descriverne il significato, è maggiormente assimilabile al cupo stato d’animo provocato da una subdola tristezza. Essa è generata dall’amara e improvvisa constatazione che le proprie aspettative, i propri sogni o ancor più le speranze coltivate con profondo entusiasmo non ricevono il riscontro auspicato nella cruda realtà dei fatti. Semplicemente, Macrino non riusciva a comprendere.
Che i postriboli non rappresentassero appannaggio esclusivo di stranieri, plebei, faccendieri e loschi individui era oramai cosa risaputa. Patrizi, esponenti del ceto equestre, liberti arricchiti e perfino procuratori imperiali erano soliti frequentare le giovani e raffinate etere che partecipavano ai loro frequenti simposi. Non erano pochi quelli che avevano addirittura dilapidato intere fortune per ingraziarsi i favori delle concubine più famose, ritrovandosi poi letteralmente in subligaculum quando le loro morigerate e virtuose mogli gli presentavano il conto a causa delle loro scappatelle extraconiugali.
Nell’Urbe, così come nelle colonie più ricche dell’impero, alcune fra queste abili accompagnatrici avevano raggiunto la fama di donne abbienti e potenti e non era difficile incrociarle per le vie della capitale accompagnate da uno stuolo di servitori, mentre, distese comodamente nelle loro lussuose lettighe, si attiravano i commenti velenosi e acidi di cadenti e avvizzite matrone dalla nobilissima origine. Morale della favola: sebbene le prostitute fossero tenute in grande spregio dalla società proprio per il vile mestiere che esercitavano – accollandosi gli sprezzanti appellativi di asinellae, puttanae o ancora peggio quadrantariae –, i bordelli e le case di appuntamento risultavano sempre molto frequentati e
rappresentavano una sorta d’istituzione largamente riconosciuta, al pari delle bische o delle arene gladiatorie, oltre a essere una sicura fonte di guadagno per i gestori e i proprietari. In virtù di queste considerazioni, il comportamento assunto da Aurelio Pulcro si presentava quantomeno singolare: perché il capo dei vigiles non aveva rivelato ai compagni d’indagine la sua conoscenza diretta di gran parte delle vittime di Liternum, frutto di una vecchia frequentazione delle giovani schiave di Voreno?
Le affermazioni asserite da Valeria, durante il loro ritorno al casermone posto nelle vicinanze della Porta Sud, avevano colto impreparato il princeps peregrinorum.
«Ma come», si era stupita la donna, scrutando l’espressione imbambolata del suo accompagnatore, «non vorrai farmi credere che non ne sapevi niente? A dire il vero, raramente Pulcro si presentava nel vicus Gaudii. Quando lo faceva, di solito si portava dietro due o tre giovani reclute, in modo da far sembrare il tutto una sorta di lunga ispezione. Il più delle volte, però, preferiva incontrarsi con le ragazze in un luogo appartato, lontano dal chiasso e dalla feccia che addobbavano costantemente l’ingresso del bordello. Ho sempre pensato che lo fe per mantenere un certo riserbo: in effetti, la moglie è un donnone sveglio e dallo sguardo arcigno, con certe braccia grosse come quelle di un contadino, e poi lui qui rappresenta il braccio armato della legge.»
A quelle parole Macrino aveva cercato di gettare un barlume di luce tra le dichiarazioni inattese della giovane lupa, se non altro con la speranza di chiarirsi le idee nella confusione di pensieri che avevano preso ad affastellarsi disordinatamente nella sua testa. «A detta di Artemisia», aveva continuato a cianciare Valeria, «Pulcro era uno dei più gentili e generosi. Non ho mai saputo il luogo nel quale organizzava i suoi abboccamenti ma figurati… questa colonia è piena di vicoli oscuri e fetidi.» «E tu?», aveva sussurrato a un tratto Macrino, con un’inflessione che lasciava trapelare un accenno di gelosia. «Hai mai avuto modo di incontrarlo in quel
senso?» Valeria aveva sorriso, abbassando il capo con un’espressione sibillina. «Io? No, decisamente non ero il suo tipo. A lui interessavano le donne esperte e dal davanzale traboccante», aveva ammesso la ragazza, sfiorandosi con delicatezza il collo diafano. Era quasi giunto in prossimità dell’imponente portone a doppio battente che vigilava gagliardo l’ampio ingresso della domus, eppure il capo dei frumentari non aveva ancora trovato una valida motivazione che potesse giustificare la scelta di silenzio operata dal suo collaboratore. Da quando lui e Labieno avevano messo piede in quel di Liternum, Aurelio Pulcro si era mostrato sempre pronto a collaborare, mettendo a loro completa disposizione tutte le sue risorse in termini di uomini e mezzi. Aveva partecipato attivamente alle indagini, offrendo il suo aiuto al fine di stanare al più presto il pazzo sanguinario che aveva messo in ginocchio la colonia. Pur sapendo che il compito di investigare sul responsabile degli omicidi avvenuti nella sua città era stato demandato a due perfetti sconosciuti, due messi imperiali sbucati d’improvviso dalla lontana realtà dell’Urbe, Pulcro aveva mostrato da subito grande pragmatismo, lavorando fianco a fianco con i nuovi arrivati e instaurando con loro un rapporto di profonda sinergia. Aveva sacrificato intere nottate tra pedinamenti, scoperte di cadaveri e ricerche affannose d’indizi e conosceva fino in fondo le congetture e i progressi maturati da Trebonio e Labieno. A che scopo allora tacere una simile informazione? Era forse la paura di essere giudicato un uomo senza dignitas ad aver indotto Aurelio a insabbiare i suoi legami con le vittime? Oppure c’era dell’altro, magari qualche segreto che l’ufficiale voleva rimanesse tale? Non sapendo riconoscere il bandolo di quella scivolosa matassa, Trebonio decise che per il momento era meglio non dannarsi l’anima con altri ispidi rompicapi. A tempo debito avrebbe cercato il modo di costringere il graduato a parlare, facendosi spiegare il senso di quella significativa omissione. Giunto sulla soglia della dimora, Macrino batté con decisione i pugni sul lastrone di legno rinforzato e attese che Massavone si decidesse ad aprire una delle due ante. Una volta dentro, il capo dei frumentari scivolò velocemente verso il cubicolo del suo amico speziale ma una delle ancelle gli evitò il disturbo di cercarlo invano per l’intera domus, dicendogli che Labieno si trovava nel piccolo locale delle terme in compagnia del duumviro. Non indugiando oltre, Trebonio si armò di una tunica pulita e si affrettò in direzione dell’elegante peristilio, illuminato da una
lunga serie di funalia pendenti dai i delle colonne. Superò la cortina di meli che proteggeva l’appartato biclinio estivo e imboccò lesto l’ingresso dello spogliatoio, deciso a godere anch’egli dei benefici di un breve percorso termale in notturna.
3
Liternum, il giorno dopo le idi di settembre.
Nella domus del duumviro.
«Cosa aspetti a mandarli via, stupido di un trace! Vuoi che il padrone ci prenda a calci nel sedere?», gracchiò inviperito Arminio, lanciando un’occhiata oltre le fauces dell’ingresso.
Intanto il mormorio dell’usuale capannello di clientes, assiepati fin dalle prime ore dell’alba fuori la residenza dell’alto magistrato della colonia per partecipare all’immancabile salutatio matutina, cominciava a sgusciare con insistenza oltre l’atrio, diventando sempre più nitido e diffuso. Massavone scosse la testa, poi si avviò taciturno e con più lentezza del solito verso la soglia del vestibolo, rassegnatosi all’idea di dover subire gli improperi e le maledizioni di quella folta schiera di popolani. Quei luridi approfittatori, valutò tra sé l’ostiarius, non avrebbero accolto di buon grado l’improvvisa defezione di Afro e, come con un branco di cani rognosi che si affollano intorno a un osso di bue, avrebbe sicuramente dovuto utilizzare le maniere spicciole per convincerli a tornarsene alle loro faccende con la sportula vacante. In effetti la giornata non era iniziata nella consueta tranquillità che avvolgeva l’imponente domus di Afro durante le prime ore diurne e, a ben riflettere, sicuramente sarebbe trascorsa ancor più frenetica e agitata. Durante la sommaria pulizia dell’ingresso, cui si dedicava ogni mattina prima dell’arrivo dei supplici, il nerboruto portinaio aveva notato che un piccolo rotolo, ingiallito e stropicciato, pendeva da un lungo chiodo di bronzo, infisso alla buona nel battente sinistro del portone dell’abitazione. Mezzo assonnato e ancora con la bocca impastata dal vino, Massavone si era limitato a presentare lo strano ritrovamento al capo dei famigli, senza curarsi nemmeno di leggerne il
contenuto. Appena scorte alcune righe, Arminio si era invece fiondato nel cubicolo del dominus, uscendone poco dopo con il viso pallido e l’espressione parecchio angosciata.
«Corri a svegliare i due messi imperiali. Digli che il padrone vuole vederli nel tablino», aveva ordinato perentorio il capo della servitù alla bella Claudia. Poi si era dileguato in tutta fretta nella penombra offerta del corridoio, raggiungendo nuovamente la stanza da letto del padrone per aiutarlo a vestirsi. Una volta raggiunto lo studio di Afro, la visione d’insieme che balzò agli occhi di Trebonio non gli lasciò ipotizzare nulla di buono. L’aristocratico era seduto sul bordo della sua seggiola dorata, con i gomiti poggiati sull’elegante scrittoio e le mani che reggevano con sforzo il testone pelato, premendo all’altezza delle tempie. Lo sguardo dell’alto magistrato era fisso sul piccolo rotolo consegnatogli da Arminio, situato sul bel tavolo proprio davanti alla sua pingue figura, visibilmente contrita. «Ah siete qui», sussurrò con inflessione greve il duumviro di Liternum, ruotando appena gli occhi in direzione dei due messi imperiali, fermi sulla soglia dell’ufficio. Poi liberò il capo dalla morsa offerta dai suoi palmi e sprofondò di peso nell’imbottitura del confortevole scranno con braccioli. «Cosa succede, nobile Afro?», si limitò a chiedere Macrino, avanzando verso il suo facoltoso ospite e affiancato dalla sagoma ancora mezzo addormentata dello speziale, che cercava invano di recuperare lucidità stropicciandosi con vigore le spente gemme cerulee. «Cosa succede!», esclamò inalberato il panciuto rappresentante dei maggiorenti locali. «Leggi tu stesso cosa sta per accadere, Gaio Trebonio Macrino! Magari ti aiuterà a riflettere sui miseri risultati ottenuti dal tuo laborioso operato!» Così dicendo, allungò la destra paffuta verso la scrivania e, afferrato il misterioso papiro, lo lanciò con sdegno ai piedi del princeps peregrinorum. Conoscendo il temperamento riottoso del suo patrono e notando l’occhiata in tralice che questi stava lanciando al loro ospite, Labieno strinse con vigore il braccio sinistro del capo dei frumentari, lasciandogli intendere di dominare immediatamente il travaso di bile che già sembrava avergli infiammato il viso.
Trebonio recepì il tacito ammonimento e, prendendo un lungo respiro, si chinò per raccattare quella sorta di guanto di sfida, gettatogli con indignazione dal duumviro. Avvicinatosi al suo amico liberto, Macrino cominciò a recitare a voce alta le parole contenute in quello che assunse velocemente la connotazione di un messaggio minatorio:
Non credere che l’incubo sia finito, Marco Stazio Afro! Liternum cadrà nuovamente sotto i colpi della mia lama e questa volta a pagare non saranno le spudorate del vicus Gaudii. La lunga ombra di Mania colpirà senza alcuna distinzione di classe, abbattendosi furente anche contro la nutrita schiera dei tuoi vili e lerci compari, intrisi fino all’osso nel vizio e nella dissolutezza. Non avrò pace fin quando la mia opera non sarà completata: solo allora capirai cosa significhi vivere nell’onta e nel disprezzo. Possano gli dèi avere comione di voi.
L’orribile avvertimento terminava con una sorta di elementare abbozzo, disegnato sul lato destro del papiro: in esso erano riportate due figure stilizzate. Una rappresentava un uomo a gambe divaricate, stringente in mano qualcosa di molto simile a un pugnale. L’altra era sdraiata ai suoi piedi e dalla zona del collo si dipartivano lunghe strisce d’inchiostro, a voler simboleggiare grossi fiotti di sangue. Dopo aver letto, Trebonio arrotolò il piccolo rotolo e lo ripose con cura all’interno del suo marsupium. Quindi, scrutando il volto preoccupato di Arminio, che sostava immobile nei pressi del tendaggio di divisione fra lo studio e il peristilio, chiese al patrizio se il capo dei vigiles era stato avvertito dell’accaduto. «Non ancora», replicò dolente il duumviro, «e comunque non m’importa avvisare lui. È da te che voglio risposte, Macrino! Sei in città da dieci giorni, inviato personalmente dal divino Augusto per risolvere questa assurda faccenda. Ho accettato di buon grado le direttive dell’imperatore, fidandomi del suo giudizio e della tua abilità d’investigatore, è invece la realtà dei fatti mi lascia deluso e perplesso. Nei nostri frequenti colloqui non hai mai accennato a una probabile pista, tanto meno a un ipotetico elenco di sospettati. Non conosco i
tuoi metodi né ho voglia di comprendere il tuo modo di investigare, tuttavia le tue ricerche sembrano rivelarsi infruttuose. Intanto questo pazzo sanguinario ha intenzione di tornare a seminare il panico nella colonia, stavolta minacciando personalmente la mia persona e i miei clientes. Ora…» «Ora basta», l’interruppe stentoreo Macrino. L’alto magistrato restò per un attimo interdetto, stupito dalla dura e inaspettata reazione del suo ospite. Liberandosi dalla stretta in cui lo aveva bloccato Labieno durante la paternale del pingue aristocratico, il capo dei frumentari avanzò verso la figura tarchiata di Afro. Arrivato davanti allo scrittoio, Trebonio spazzò via con un colpo nervoso i numerosi codicilli che ne riempivano la superficie e, poggiando entrambe le mani sulla superficie libera della scrivania, abbassò il capo portandosi a circa mezza spanna dal viso dell’esterrefatto magistrato. Alle sue spalle, a pochi i di distanza, il siculo alzò gli occhi al cielo, supplicando l’intercessione di Giove affinché scemasse la rabbia del suo ex padrone. «Sai cosa ti dico, stupido grassone borioso?», mormorò a denti stretti il princeps peregrinorum, con gli occhi iniettati di fuoco e le labbra distorte in una smorfia di spaventoso livore. «Io ora lascio questa lurida colonia e me ne torno a Roma. Vedremo allora quanto impiegherà l’omicida delle lupe a fare scempio della tua carne flaccida, magistrato. E se non dovesse accopparti per tempo, allora mi divertirò un mondo quando il divino Domiziano saprà in che modo hai trattato il suo uomo di fiducia. Probabilmente verrà qui di persona», azzardò Trebonio, che oramai aveva perso il controllo, «per decidere quale dei suoi svariati segretari debba prendere il tuo posto.» Afro lo ascoltava immobile, pietrificato per la durezza di quelle parole e ancor più per l’espressione iraconda del messo imperiale. Nella sua lunga carriera politica non aveva mai subito simili minacce né aveva mai avuto modo di affrontare un uomo tanto ardito da sfidarlo con fare così impetuoso. Per un tempo indeterminato, lo studio fu avvolto da un bieco silenzio, poi, non appena il duumviro parve intenzionato a proferir parola, il princeps peregrinorum ripartì all’attacco con più foga che mai. «Se vuoi ancora che aiuti la tua misera cittadina a uscire da quest’incubo», tuonò con voce decisa Macrino, «allora non permetterti mai più di biasimare il mio operato, duumviro! Mentre tu eri impegnato a raccogliere le ovazioni dei tuoi elettori, io combattevo nelle fredde regioni settentrionali, servivo il divino
Augusto in incarichi delicatissimi e sventavo congiure e macchinazioni per il bene dell’impero! So io da quanti giorni non chiudo occhio per acciuffare il misterioso assassino delle prostitute, mentre tu riposi ogni notte nel tuo caldo e comodo giaciglio. Ho rivoltato questa colonia come una tunica, fra interrogatori e investigazioni, quindi non venirmi a parlare di ricerche infruttuose. Se non ti ho fatto ancora un nome è perché, prima di divenire certezze, le ipotesi, le supposizioni e i sospetti vanno adeguatamente comprovati.» Il magistrato appariva basito, sebbene stringesse i pugni per sopportare stoicamente l’invettiva del suo bellicoso ospite: chi era in realtà quell’uomo che aveva avuto l’ardire di rispondergli in un tono così coriaceo? E perché Domiziano si fidava tanto di lui? Non sapendo trovare una risposta a tutti i suoi interrogativi, il nobile Marco Stazio Afro preferì ingoiare buona parte del suo orgoglio. Preso un lungo respiro, si schiarì la voce e cercò di riportare lo scontro verbale entro i limiti del colloquio. «Forse le mie parole sono state esagerate», flautò in tono accomodante, sforzandosi di prendere idealmente a morsi intere montagne d’umiltà, «ma ti assicuro che erano dettate esclusivamente dallo sconforto piombato sulle mie spalle per questa terribile scoperta mattutina. Ti chiedo di restare qui a Liternum per continuare con calma le indagini sulla vicenda: la colonia ha bisogno dei vostri sforzi per ritornare al più presto alla normalità. Avvisa tu Aurelio Pulcro sull’infausta nuova che abbiamo ricevuto all’alba. Un’unica richiesta: non lasciamo sfuggire la notizia della minaccia contro la mia persona all’esterno di questa domus. L’isteria generale è l’ultima cosa che ci serve in questo frangente.» «Come vuoi, Afro», rispose rabbonito Macrino, valutando in cuor suo che la feroce sfuriata aveva ottenuto i risultati sperati. «Porto subito il rotolo alla caserma dei vigiles, in modo da informare al più presto Aurelio. Le strade dovranno essere controllate giorno e notte con più lena che mai e i soldati dovranno sacrificarsi in turni doppi.» A quel punto il nobile magistrato congedò i suoi ospiti e fece segno ad Arminio di far scorrere la pesante tenda porpora che nascondeva i primi, tenui bagliori solari. La luce, oltreando l’ameno giardino porticato, cominciò a diffondersi veloce nel vasto ambiente e in pochi istanti gli affreschi che decoravano le pareti del tablino sembrarono liberarsi dall’impalpabile velo di penombra nel quale si trovavano avviluppati fin dalla notte precedente.
Nell’ufficio al primo piano della caserma dei vigili, Trebonio era impegnato ad analizzare insieme ai suoi compari l’infame avvertimento scritto dall’omicida senza volto. «Non c’è dubbio che il nostro uomo sia un mancino», osservò il capo dei frumentari, fermando, sul limitare esterno della scrivania di Pulcro, i lembi del piccolo papiro che aveva estratto dalla sua scarsella. «Notate l’inclinazione delle lettere verso sinistra», cominciò a interpretare il princeps peregrinorum. «Ciò lascia intendere che l’autore sia solito scrivere con la mano sotto l’asse di sviluppo del testo. In caso contrario, se avesse avuto l’abitudine d’impugnare lo stilo con la più innaturale posizione del polso piegato sopra le lettere, l’inclinazione sarebbe stata opposta.» «Non basta, amico mio», l’interruppe il liberto, massaggiandosi con veemenza la bazza fra pollice e indice, «sono sicuro che comparando la scrittura di un destrorso frettoloso giungeremmo allo stesso risultato.» «Calma, calma, Labieno. Non ho ancora finito: concentrati sui tagli delle T, sugli accenti, sulle sbavature dell’inchiostro e sulla mal destrezza nel seguire la direzione da sinistra verso destra.» «In effetti», esordì pensieroso Aurelio, «le righe puntano verso l’alto, aspetto insolito se fosse opera di una man dritta.» Il capo dei frumentari annuì in segno di approvazione, poi si rituffò con zelo nella sua perizia calligrafica.
«Sembri ancora poco convinto», aggiunse appagato il princeps peregrinorum, dopo aver dato un ulteriore sguardo allo stropicciato papiro. Quindi si accomodò a uno sgabello e con aria trionfante attese la replica del perplesso liberto. «E tu troppo certo, Macrino. Da dove deriva tanta sicurezza?» «Non fermarti alle parole, amico mio», ammiccò Trebonio, mentre si versava una coppa di mulsum da una brocca posta su di un tavolinetto alla sua destra. «Concentrati anche sullo schizzo.»
«L’ho già visto e non riesco a ricavarci niente», replicò il siculo, spazientito più dall’espressione gongolante del suo patrono che dai suoi vani sforzi deduttivi. «Un momento, forse ci sono», suppose a un tratto il capo dei vigili, indicando il disegno raffigurante l’uomo in piedi, a gambe divaricate. «Guarda in che mano stringe il pugnale, Labieno: è la sinistra! Se fosse l’opera di un destrorso, sicuramente avremmo ritrovato la lama nell’altra mano!» «Non solo», aggiunse soddisfatto Trebonio. «Le sbavature nel testo sono dovute al aggio del polso sulle lettere appena vergate: problema che riguarda solo i mancini. E ancora, vedete dove è stato realizzato l’abbozzo?» «Sul fondo destro del rotolo, e quindi?», obiettò debolmente il siculo, oramai quasi rassegnato ad ammettere la validità di quelle oculate ipotesi. «Ebbene, è stata una scelta obbligata. Se avesse provato a realizzare il suo disegno sul lato sinistro del papiro, il braccio gli si sarebbe bloccato in una posizione innaturale e forse avrebbe rischiato ancor di più di impiastricciare il tutto con il taglio della mano, magari al momento di abbozzare la figura sdraiata. Procedendo invece da destra verso sinistra, ha schizzato prima il profilo dell’armato e poi della vittima, senza incorrere in problemi e a braccio rilassato.» «Caspita, Macrino», si congratulò serioso Aurelio, «il tuo ragionamento non fa una piega. Hai scovato un dettaglio non da poco.» Trebonio abbandonò il suo sgabello e si avvicinò alla finestra dell’ufficio, lanciando un’occhiata oltre le spesse lastre che ricoprivano le imposte in legno: il cielo era terso e colorato di un azzurro carico, spruzzato di piccole e gonfie nuvole alabastrine. In strada gli artigiani erano già a lavoro nelle loro taberne e i gli aiutanti di bottega cominciavano a portar fuori i banconi espositori, ingombrando gran parte dei marciapiedi. La colonia si avviava a trascorrere placida un’altra giornata di metà settembre, ignara del pericolo proiettato nuovamente sulle teste dei suoi abitanti da quell’aspra e improvvisa dichiarazione di morte. Con la faccia ancora rivolta verso la finestra e le braccia incrociate sull’ampio petto, il capo dei frumentari chiese a Pulcro di rileggere ad alta voce il torvo monito contenuto nel messaggio, cercando di discernere, tra quelle parole, gli elementi caratterizzanti il profilo psicologico dell’assassino.
«Uhm… Vediamo un po’», interloquì il princeps peregrinorum con aria assorta, dopo aver ascoltato con attenzione la voce di Pulcro. «Le ipotesi di cui discutevamo ieri, caro Labieno, hanno avuto un triste riscontro: da quanto si può facilmente presumere da queste poche righe, l’omicida agisce per sfidare il nobile Afro. Con tutta probabilità ha avuto rapporti con l’alto magistrato, così come conosce bene i suoi amici sostenitori, disprezzandone apertamente i costumi. Più avanti parla d’incubo, certo, ma utilizza anche la parola opera al posto di vendetta… Ciò lascia presupporre che le sue orrende azioni siano frutto di un insano, delirante progetto, ciò nonostante ben architettato nella sua immensa follia: trascinando la colonia nel terrore, vuole indurre la popolazione a schierarsi contro il loro illustre rappresentante.» «In aggiunta, ha provato la bruciante fiamma del disonore», ipotizzò lo speziale, aggrottando le sopracciglia, «e si fermerà solo quando Afro avrà provato appieno la stessa dolorosa sensazione.» «A questo punto penso che abbiamo scovato il reale movente», mormorò tra sé il Pulcro, avvicinandosi alla figura di Trebonio. «Eppure c’è qualcosa che non quadra», titubò incerto Trebonio, abbandonando la sua posizione a ridosso della finestra e raggiungendo lo scrittoio di Pulcro, sul quale era ancora poggiato il piccolo rotolo. «Guarda qui», esortò, indicando al siculo l’ultima frase segnata sopra l’abbozzo. «“Possano gli dèi avere comione di voi…”. “Voi”, e non “te”! Non ha senso redigere una nota tanto fosca all’indirizzo di un unico individuo e poi terminarla in questo modo. Si è tradito, Labieno, oppure ha voluto ammonire anche noi… In ogni caso, conosce il nostro volto e il motivo della nostra venuta in città.»
Le cose non stavano andando per niente bene e il capo dei frumentari era perfettamente cosciente di ciò. Dopo la visita alla statio vigilum, Trebonio aveva deciso di ritornare alla svelta nella dimora del duumviro: le minacce erano state rivolte al nobile Afro e il raziocinio imponeva quantomeno un rapido colloquio con l’intimidito, nella speranza di trarre dalle sue risposte qualche informazione utile per lo svolgimento di quella penosa indagine. Ma Sors, la sorte, sembrava averlo preso di mira e, al suo rientro nell’elegante abitazione sita nella zona nord-occidentale di Liternum, il princeps peregrinorum era stato avvisato da
Arminio che il dominus era uscito subito dopo il loro movimentato incontro mattutino.
«Era atteso nella basilica», aveva precisato il capo dei famigli, a dire il vero molto più accomodante con Macrino dopo la sua impensabile dimostrazione di clemenza nei confronti di Bibulo. «Sarà di ritorno nel pomeriggio: le assemblee dei decurioni sono riunioni lente e macchinose.» Rassegnato a dover attendere ancora a lungo e senza la compagnia di Labieno, che aveva scelto di fare un giro tra le botteghe del Foro, Macrino decise di cercare ristoro immergendosi nella pace del peristilio. I caldi raggi solari di metà mattinata esaltavano lo splendore del giardino porticato, valorizzando la forma raffinata delle sue decorazioni marmoree ed esaltando il tripudio di colori offerto dalle diverse specie floreali. In quella sorta di profonda quiete ascetica, il princeps peregrinorum andò a sedersi a una panca situata alle spalle della statua di Venere. Quindi serrò lentamente le palpebre e percepì la durezza muscolare del suo corpo sciogliersi pian piano, mitigata da un silenzio inverosimile, interrotto sporadicamente dall’amabile cinguettare dei codirossi e degli usignoli. La mente parve scivolare in un fievole stato di semi-incoscienza, perdendosi in una dimensione prossima all’oblio, oscura eppure così gradita. Una volta riaperti gli occhi, Trebonio si sentì pervaso da una sensazione d’immensa leggerezza e le labbra gli si schio in un’accennata smorfia di compiacimento. Quella sorta di scarico emozionale aveva funzionato e ora si sentiva di nuovo pronto a gettarsi fra le beghe delle sue congetture. A dire il vero, la prima considerazione che elucubrò in quel momento fu abbastanza rincuorante: l’omicida aveva palesato l’intento di spostare la sua attenzione verso altre ipotetiche vittime e, essendo poi chiuso il lupanare, probabilmente la recondita faccenda di Capitone avrebbe avuto qualche speranza in più di risolversi nel riserbo, scongiurando così il pericolo di pervenire alle orecchie avvizzite ma ancora molto efficienti dei padri coscritti di Roma. Assunto per certo questo piccolo contentino, Trebonio dovette convenire con se stesso che, di contro, la situazione appariva tutt’altro che districabile. Erano sulle tracce di un assassino freddo e calcolatore, un uomo che conosceva bene le sue vittime, la colonia e i suoi abitanti. Di sicuro viveva all’interno delle mura di
Liternum. Dalle parole vergate sul rotolo che teneva ancora nel suo marsupium, l’opera dell’assassino era mirata a punire in maniera indiretta la sagoma grassoccia e tronfia del nobile duumviro, colpevole di chissà quale iniquità agli occhi del misterioso omicida. A ciò andava a sommarsi quel “voi”, usato a chiusura del messaggio minatorio e che lasciava trapelare la possibilità di essere stati scoperti e addirittura osservati dal folle aguzzino. Il capo dei frumentari restò per un po’ a far mente locale su tutti gli indizi raccolti fino a quel momento, cercando un lontano barlume, un bagliore soffuso che riuscisse a illuminare, seppur debolmente, il percorso tenebroso e impervio nel quale sembrava essersi perso definitivamente. A quel punto le dita della destra scivolarono sull’apertura della scarsella e il princeps peregrinorum rilesse un’ultima volta l’indelebile minaccia vergata da quella mano demoniaca. Mentre ne sillabava il finale, lo sguardo di Trebonio cadde istintivamente sulla parola posta giusto al centro dell’avvertimento. Essa era stata stilata differentemente: le lettere che la formavano erano segnate in maniera più accurata e nell’insieme appariva di dimensioni maggiori rispetto alle altre. Di colpo sentì un brivido percorrergli la schiena. Allora si guardò intorno sbalordito, mentre nella sua testa cominciò a prendere forma un subdolo e pulsante sospetto.
«Mania!», esclamò, dopo un attimo di esitazione. «Come abbiamo fatto a non pensarci!» L’immagine dell’antica dea della morte, trattandosi di un mistico vendicatore, risultava sicuramente la più appropriata. Ma quello che ora attirava la sua attenzione erano le ancestrali origini di quel culto oramai decaduto nell’impero, soppiantato dalle figure ben più venerate di Proserpina e Plutone. Neanche a dirlo, la vecchia Mania era infatti una divinità assorbita dall’antica civiltà da cui i Romani avevano attinto a piene mani usi e costumi: gli Etruschi! Di morti ritornati dall’Ade allo scopo di punire i loro detrattori terreni, Trebonio non ne aveva mai incontrati. Però, a dimostrazione che l’odio e il rancore superassero indenni le porte dell’Averno, si raccontava che il fantasma di Cesare fosse venuto in sogno a Bruto traditore, poco prima della cruciale battaglia
contro Marco Antonio, terrorizzandolo con la famosa frase: ci rivedremo a Filippi! Cercando di essere pragmatici, le cose potevano essere interpretate diversamente: non erano tanto il disprezzo e l’acrimonia a essere imperituri quanto, e in maniera più subdola, il rimorso e i sensi di colpa. Tuttavia, rielaborando gli accadimenti, il capo dei frumentari finiva sempre col cozzare contro quell’ipotesi assurda e inverosimile, eppure così chiarificatrice. A voler essere grulli o creduloni, gli elementi per inneggiare al prodigio c’erano tutti: le vittime massacrate secondo lo stesso macabro rituale, i riferimenti velati all’antica e nobile ascendenza e, infine, l’idea raccapricciante di una duplice e ingegnosa vendetta. Era ovvio ripensare a quel fattaccio di tanti anni prima, quando un giovane nobile di Liternum era stato accusato di aver assassinato un ricco liberto. Ecco i fantasmi che rispuntavano fuori… Fantasmi che avevano un conto aperto con la colonia. In primis contro le lupe, che in una visione malata e distorta della realtà potevano essere elette quali valide rappresentati dei ceti più umili della colonia… proprio quelli che, a conti fatti, avevano richiesto a gran voce la condanna del presunto omicida per placare la loro sete di giustizia. Quindi contro l’alto magistrato di Liternum, che all’epoca della vicenda era stato il giudice che aveva decretato frettolosamente la sua cattura e successiva damnatio ad bestias.
“Devo essere impazzito”, si disse Macrino, mentre svoltava per l’angusto viottolo che sbucava sul lato orientale della piazza cittadina. “Le anime dei defunti non lasciano tracce!”. D’un tratto si arrestò a pochi i dalla vasca di un fontanile, lasciando cadere lo sguardo sulla superficie ondulata dell’acqua, increspata a malapena dal sottile rivolo che la alimentava. Il suo volto, riflesso nella polla, appariva distorto, irregolare, come l’immagine di qualcuno molto simile a lui, sebbene differente nell’espressione. Scrutando le sue deformate sembianze, il capo dei frumentari fu colto da un’improvvisa rivelazione: forse non si trattava di un’ombra malevola e scellerata, bensì di un uomo in carne e ossa! Mentre nel suo animo
l’agitazione montava a dismisura, il princeps peregrinorum cercò di rievocare con accuratezza i retroscena dell’orribile assassinio avvenuto nella colonia quindici anni prima. Il vociare insistente dei mercanti e gli schiamazzi della ressa accalcata nei pressi dei banchi delle botteghe sembrarono sparire di colpo e nelle sue orecchie, come in una sorta di profondo sogno, risuonarono nitide le parole del capo dei vigili: «Il giorno seguente l’esecuzione di Commiano, l’antica gens dei Terrifoni fu obbligata ad abbandonare per sempre la colonia e a subire il vergognoso rito della confisca delle terre e degli immobili. Non potrò mai dimenticare lo sdegno e la collera dipinti sul viso di Sabino, il fratello sedicenne del condannato. Mentre la lunga colonna di carri con gli averi di famiglia sfilava lenta tra la focosa frotta di popolani maldicenti, il ragazzo, avvolto nella sua bella toga e ritto sul barroccio centrale, lanciava occhiate torve a destra e a manca, come una fiera famelica che si ostina ad andare su e giù all’interno della sua angusta gabbia.» Sul momento non aveva dato troppo peso a quelle frasi. Ma ora quelle parole sembravano evocare d’improvviso un simbolismo al limite dell’incredibile. Di colpo Macrino si diede alla ricerca affannosa di Labieno, aggirandosi inquieto all’ombra del lungo portico colonnato che delimitava su tre lati l’intero perimetro del Foro. Si affacciò in tutte le taberne della galleria fino a quando, ansante, non riconobbe la sagoma familiare del liberto nei pressi di un tavolaccio poco frequentato, chino su di un grosso sacco e intento a rovistare fra le radici contenute al suo interno. «Eccoti finalmente!», esclamò con un filo di voce, ponendogli una mano sulla spalla e con il busto vibrante per il respiro affannoso. «Che hai?», chiese incuriosito Labieno, scrutandone la fronte imperlata di sudore. «Adesso mi ascolterai con attenzione, amico mio. Poi deciderai se deliro oppure sono a un o dalla verità!»
4
Liternum, diciassette giorni alle calende di ottobre.
Nella caserma dei vigiles.
Nei magazzini della statio vigilum l’aria era impregnata da un penetrante tanfo di vecchiume, simile a quello prodotto dalle pareti quando vengono attaccate dalla muffa. Il locale era rappresentato da un unico seminterrato in tufo che si sviluppava per l’intera lunghezza dell’edificio in elevazione, una sorta di ampio ed esteso corridoio realizzato all’incirca un paio di metri sotto il piano di campagna. Metà del largo andito sotterraneo era stata appositamente suddivisa con tramezzi in mattoni e così, seppur riducendo notevolmente la zona di transito, si erano ottenuti una serie di ripostigli e scuri bugigattoli, occlusi semplicemente da pannelli in legno rimovibili, dove i vigili riponevano solitamente i ricambi per le loro uniformi e i numerosi strumenti da lavoro. Bibulo era inginocchiato a ridosso di una di quelle celle, circa a metà dello sviluppo del magazzino, ed era intento a riparare un paio di ramponi malandati e delle scale mancanti di alcuni pioli. Ai suoi lati sostava una serie considerevole di asce, seghe e pertiche che attendevano pazienti di essere sistemate nei propri stanzini. Più lontano, quasi sul fondo del sotterraneo, si scorgevano i profili di alcune pile di centones, le coperte che venivano intrise di acqua e aceto per soffocare le fiamme, e quella più triste di un sifone dismesso. Il nerboruto fuggitivo armeggiava tra chiodi e mazzuole e il fracasso generato dal suo continuo battere era amplificato dalla conformazione del luogo, investendo con impeto le figure di Pulcro, Trebonio e Labieno che si erano fermate a discorrere a metà della gradinata d’accesso al seminterrato. «È un’impresa impossibile!», gracchiò il liberto, cercando di superare l’incessante rumore che proveniva dalla zona in cui Bibulo si stava dedicando alle riparazioni. «Come puoi credere di riuscire a scovare Terrifonio Sabino
semplicemente da una descrizione sommaria del suo aspetto? Per giunta sono ati tre lustri e all’epoca era solo un ragazzo.» Macrino abbassò la testa, quasi ad avallare le considerazioni del siculo, poi, lentamente, rialzò gli occhi verso Aurelio e chiese a che punto fossero le ricerche. «Dopo il nostro colloquio di ieri pomeriggio, ho sparpagliato tutti i miei uomini per le vie della colonia», replicò stentoreo Pulcro. «Hanno fatto del loro meglio, cercando in ogni taverna, bettola e popina di Liternum, ma senza alcun risultato. Il problema è che metà dei miei uomini non arriva a dodici anni di servizio. Gli altri invece erano già nella militia all’epoca del maledetto caso dei Terrifoni, quindi ricordano anch’essi l’aspetto del giovane fratello del condannato. Tuttavia Labieno non sbaglia: in quindici anni le fattezze di un uomo possono stravolgersi completamente quindi bisogna solo sperare nella fortuna.» «In mancanza di altre ipotesi dobbiamo continuare a battere questa pista», osservò deciso il princeps peregrinorum. «Disponi nuovi turni di ricerca: che vengano setacciate tutte le botteghe e le abitazioni della colonia. Cerca anche tra gli addetti delle terme e dell’anfiteatro… Potrebbe tranquillamente essersi spacciato per un servo, in modo da mantenere un basso profilo e una maggiore libertà d’azione.» Risaliti nell’ufficio di Pulcro, lo speziale appariva teso e irrequieto. I tratti del suo viso erano tirati e sulle guance scarne i due occhi cerulei risplendevano di una strana luce. Le sue mani giocavano nervosamente con un bicchiere di legno e il pensiero restava puntato sulle ultime riflessioni del capo dei frumentari. «Accetto la tua ipotesi, Trebonio», valutò con voce profonda il siculo, «che seppur balzana resta l’unica a trovare riscontro nelle nostre indagini. Eppure sbagliamo qualcosa. Non so perché, ma ho l’impressione che dovremmo cercare poco lontano dal nostro raggio d’azione. L’omicida sembra conoscerci e seguire i nostri spostamenti. Forse anche noi conosciamo il suo volto, solo che al momento non riusciamo a identificarlo.» Trebonio sospirò a fondo, poggiandosi con l’anca alla scrivania di Aurelio. «Per ora andiamo avanti su questa strada», concluse dopo qualche attimo di silenzio. «Se non altro, sapendo che l’intero reparto dei vigili gli è alle calcagna, il nostro uomo sarà dissuaso dal compiere un’altra, terrificante bravata. Nel frattempo tu e
io torneremo a casa di Afro e cercheremo di analizzare di nuovo tutti gli elementi a nostra disposizione.» Dopo aver ordinato al capo dei vigili di tenerlo costantemente aggiornato sullo sviluppo delle ricerche, Trebonio abbandonò la caserma in compagnia del liberto. Tagliando per una stradina che si apriva alle spalle del vecchio edificio, sbucarono nei pressi dell’angiporto accanto al quale faceva affari l’instancabile fornaio.
Il fragrante odore delle pagnotte ancora calde stuzzicò d’improvviso l’appetito dei due messi imperiali. Erano usciti poco dopo l’alba per immergersi completamente nell’arduo compito cui erano stati destinati, saltando la colazione… Così si ripromisero di mettere qualcosa di gustoso sotto i denti appena giunti nell’elegante abitazione del loro ospite.
Consumata un’abbondante pasto nello splendido scenario offerto dal giardino del duumviro, Trebonio e il liberto restarono un paio d’ore a ragionare su dove potesse nascondersi la figura sfuggente e sconosciuta di Terrifonio Sabino. L’ipotesi del suo ritorno nella colonia, a distanza di quindici anni dal giorno dell’infamante esilio, lambiva i confini del surreale, tuttavia riusciva almeno a sfumare lo spesso alone d’incertezza che avvolgeva le prove raccolte dagli inquirenti. A detta di Arminio, l’alto magistrato di Liternum aveva sempre goduto della fiducia e del rispetto dei suoi concittadini: le sue frequenti elargizioni in favore dei ceti meno abbienti della colonia gli avevano assicurato, con il are degli anni, il pieno favore dell’opinione pubblica. Ma anche i suoi sparuti avversari politici non nutrivano astio o animosità nei confronti del pingue Afro. La sua generosità aveva premiato anche loro, palesandosi sotto forma di indulgenti licenze edilizie, concesse sottobanco e senza troppe verifiche o controlli. Era difficile quindi identificare il misterioso autore del messaggio minatorio, a meno di non fare un lungo tuffo indietro nel ato. Altro aspetto che balzava all’attenzione era sicuramente il modo con il quale erano state mandate all’Averno le povere asinelle del vicus Gaudii: il ventre orribilmente squarciato e le viscere accomodate con cura intorno al collo, i bulbi oculari scarnificati e vuoti, neri come il fondo di un pozzo… Tutto riconduceva alla
vicenda del ricco mercante assassinato dalla mano sanguinaria di Commiano, il primo rampollo della nobile ma spiantata famiglia dei Terrifoni. Sebbene gran parte dei tasselli stesse recuperando faticosamente la sua posizione originaria, o almeno così pareva, la battuta di caccia organizzata da Macrino, allo scopo di abbrancare il fratello minore del vecchio condannato a morte, si stava dimostrando sterile e inconcludente. Dove si rintanava Sabino? Come faceva a operare indisturbato e senza la paura di essere riconosciuto? Aveva dei complici? Ma soprattutto: in che modo era riuscito a eludere la sorveglianza dei vigiles nella sua ultima, abominevole impresa? «È come se stessimo inseguendo un fantasma», eruppe laconico il siculo, mentre abbandonava la panca marmorea alla quale si era costretto per tutto quel tempo, seguendo l’iter deduttivo di Trebonio. «Speriamo che gli uomini di Aurelio riescano a scoprire qualcosa d’interessante», replicò pensieroso il capo dei frumentari, «deve pur mangiare e dormire da qualche parte. Se non fosse crollata come un castello di sabbia, a quest’ora avremmo esaminato o o la vecchia catapecchia abbandonata, quel rudere nei pressi del vicus Aquarius. Sono sicuro che quello rappresentasse il suo ricovero, il posto ideale nel quale attendere il momento propizio per portare a termine le aggressioni.» «A corto di idee e perseguitati dalla Sorte»», commentò disilluso lo speziale. Poi, con espressione rassegnata, mosse i primi i in direzione del corridoio, lanciando lo sguardo verso la porta del suo cubicolo. «Dove vai?», esclamò infastidito Macrino, ancora perso dietro le sue polverose ipotesi e illuminato con forza da una calda chiazza di luce che si spandeva alle sue spalle, intercettando a mezza altezza le colonne delimitanti il peristilio. «A riposare, amico mio. Non possiamo far altro che attendere il resoconto di Pulcro. E sperare nel meglio…» «Hai ragione, Labieno», ne convenne abbattuto il princeps peregrinorum, «e penso che seguirò il tuo esempio. Un bel bagno caldo non potrà che giovarmi. E poi gli affreschi che adornano le pareti delle terme private del duumviro hanno il potere di rilassarmi.» Pochi istanti dopo, i due erano già stati inghiottiti dalla penombra offerta dal
corridoio: lo speziale salutò il suo patrono e sparì oltre la soglia della propria camera; Macrino fece lo stesso, ma per riuscirne subito dopo munito di una bella veste di lino celeste, ricamata finemente e con i bordi dorati. Giunto nel confortevole apodyterium, l’elegante spogliatoio privato, si liberò velocemente della tunica usata il giorno precedente e fece segno a una delle esotiche ancelle di Afro di approntargli il calidarium con olii ed essenze profumate. Quindi, fattosi cospargere la schiena, il busto e le braccia di abbondante cenere di faggio, s’immerse nella larga vasca a pianta rettangolare, dal bordo rivestito in porfido egiziano, e si lasciò rapire dai vapori aromatici di quell’ambiente pervaso dalla tranquillità.
Labieno fu svegliato di soprassalto da una sequela di potenti colpi alla porta. Ancora sonnacchioso, lo speziale lasciò di malavoglia il suo torus per scoprire chi fosse il bruto che, nelle prime ore del pomeriggio, si divertiva a picchiare furiosamente sul battente del cubicolo. «Ti sbrighi a farmi entrare!», esclamò Trebonio, una volta liberatosi l’uscio della piccola porticina. Con una mano scansò il siculo sul lato sinistro e nervosamente recuperò l’interno della stanza, sedendosi sul bordo del letto. «Che modi, Trebonio!», protestò inalberato il liberto.
Il capo dei frumentari parve non ascoltare minimamente le sue parole: aveva appena terminato le abluzioni nelle terme private di Afro ed era completamente nudo, salvo un lungo asciugamano stretto intorno ai fianchi per coprire l’impresentabile, e con i ricci capelli corvini ancora bagnati e appiccicati alla fronte.
Il possente torace piegato in avanti, Macrino fissava con attenzione una piccola mezza luna gialla in pasta vitrea, rigirandola con frenesia tra le dita della destra. «Allora?», gracchiò a gran voce il siculo, furente come una fiera nell’arena per essere stato interrotto in una delle attività a lui più congeniali.
Il princeps peregrinorum gli lanciò un’occhiata torva, una sorta di tacito e collerico ammonimento che suggeriva la frase: posso ancora prenderti a calci quando voglio… Poi si alzò in piedi e si avvicinò al suo liberto, ficcandogli nel palmo sinistro il piccolo ninnolo di vetro. «L’ho trovato ai piedi di una delle panche dello spogliatoio. Devo assolutamente sapere quale tra i famigli del duumviro l’ha smarrito e se c’è una bottega locale che realizza questo tipo di pendenti.» Labieno accennò un timido sorriso. Accostandosi a una piccola madia situata in un angolo della camera, si versò un bicchiere d’idromele e prese a sorseggiarlo lentamente. «Hai sentito cosa ho detto?», replicò in tono severo Trebonio. «Sono quasi certo che nessuna taberna della colonia esegua questi lavori», s’interruppe lo speziale. «Oramai le conosco quasi tutte: di orafi ce ne sono pochi in giro e sono tutti impegnati in altro genere di produzioni: monili, bullae, buccolae o inaures, fibbie e diademi.» «E del proprietario? Che mi dici?» «Semplice: proprio ieri ho notato che la bella Claudia indossava un bracciale di rame con tanti pendenti colorati simili a questo. A dire il vero è un po’ abbondante di misura per il suo esile polso.» «Ne sei sicuro?», si sincerò Trebonio, mentre i tratti del suo volto s’irrigidivano improvvisamente in una smorfia di profonda inquietudine. «Cosa succede, amico? Perché sei così preoccupato?», domandò serio il liberto. «Se le cose stanno come dici, allora forse siamo giunti alla fine di quest’assurda vicenda», concluse agitato Trebonio. Quindi s’impossessò nuovamente del pendente, gli diede un ultimo rapido sguardo e sentenziò atono: «Avevi ragione Labieno, Sabino potrebbe essere più vicino di quanto credevamo. Quando la soluzione non riesce a saltar fuori guardandosi attentamente intorno, allora non c’è altro da fare che rivolgere gli occhi in alto… molto in alto.»
«Cosa significa, Trebonio?», l’incalzò stranito il siculo, impaziente di conoscere la vera accezione di quelle parole. «Ti spiegherò tutto dopo», tagliò corto il capo dei frumentari, andosi una mano tra le folte ciocche scure. «Ora è meglio che vada a vestirmi. Intanto cerca Arminio e digli di presentarsi nella mia camera. Ho un incarico da affidargli, sperando che voglia restituirmi il favore che mi deve.»
Tutti gli indizi cominciavano a collegarsi indissolubilmente tra loro. La figura di Upilio confermava appieno la descrizione fisica dell’assassino, elaborata dai due messi imperiali durante i primi giorni dell’indagine. Le orme lasciate dal folle omicida sui luoghi del misfatto erano sicuramente riconducibili a dei calcei, in aggiunta anche abbastanza nuovi… In pratica gli stessi che indossava giorno e notte il taciturno custode del Capitolium: a dar spessore alle congetture era il fatto che quelli del servo fossero stranamente scoloriti, come se Upilio avesse cercato in tutti i modi di grattare via eventuali macchie presenti sulla loro superficie. Il suo legame con la bella Claudia era attestato dal bracciale che Labieno asseriva di aver visto al polso della ragazza. Macrino lo aveva notato indosso al servo del flamine il giorno della loro chiacchierata sui gradini del tempio. Sicuramente l’aggraziata ancella aveva riferito al suo amante i propositi del princeps peregrinorum ed era per questo motivo che Trebonio non era riuscito a disseppellire i resti delle sfortunate prostitute. Upilio lo aveva sicuramente anticipato. Durante la conversazione all’esterno del Capitolium, il custode aveva rivelato al capo dei frumentari di essere diventato guardiano del tempio all’incirca quindici anni prima, dopo esser stato venduto dalla famiglia patrizia nella quale aveva prestato servizio fin dalla nascita: coincidenza o meno, i Terrifoni erano stati esiliati dalla colonia giusto da tre lustri.
Poiché occupato nelle faccende religiose del tempio più antico della colonia, lo
schiavo dal testone rasato era di certo conosciuto da tutti gli abitanti di Liternum, comprese le lupe che lavoravano nel bordello gestito da Voreno. Probabilmente questo le aveva indotte a fidarsi di lui, accettando di offrire i propri servigi all’interno della pericolante catapecchia del vicus Aquarius. Una volta consumato il rapporto, forse si erano lasciate convincere a farsi accompagnare dalle parti del lupanare, cadendo così nelle grinfie dell’immondo e insospettabile squartatore. L’ombra lunga dell’accusa però non investiva soltanto la sagoma subdola e sorniona di Upilio, bensì anche la figura molto più autoritaria del flamine di Giove… L’anonimo autore del messaggio minatorio verso Afro era certamente un mancino, così come il venerabile Tito Spurinna! Macrino ne era sicuro, avendo assistito per intero alla cerimonia dell’Epulum Iovis. Non ci potevano essere errori: per due volte il princeps peregrinorum aveva visto il sacerdote affondare con perizia il suo braccio sinistro nella gola delle offerte sacrificali. Anzi, nell’ultima immolazione, il nobile Afro aveva dovuto ammonirlo pesantemente con lo sguardo affinché lasciasse la lama lorda di sangue. Possibile che un alto sacerdote non ricordasse uno dei suoi maggiori divieti? Come aveva recitato il suo amico liberto: «Un sacerdote di Giove non può neanche nominarla una capra, figurati toccarla o ancor peggio sacrificarla!» Il ato di Spurinna era avvolto da un alone di mistero. Nessuno conosceva le sue origini, essendo giunto a Liternum solo pochi mesi prima a seguito dell’improvvisa morte del vecchio flamine, anche questa una vicenda sulla quale sarebbe valso la pena indagare. Ancor meno il flamine sembrava un tipo incline alla chiacchiera e alle amicizie. Per quanto aveva compreso Macrino, anche Spurinna amava incontrarsi con le giovani serve che lavoravano al bordello, una su tutte la povera Sabina. A detta di Voreno, il sacerdote aveva avuto una tresca con la lupa e i due erano soliti incocciarsi all’interno del Capitolium, suggellando i loro incontri amorosi fra le sicure pareti della cella dedicata a Giove. Ovviamente la versione del rosso lenone era stata prontamente smentita da Upilio, il quale aveva infarcito il suo adattamento con la commovente storiella dell’improbabile gravidanza dell’asinella e del notturno rito purificatorio. Cosa non trascurabile, sia l’età che l’aspetto del sommo ministro del Capitolium corrispondevano a quelli che, per ipotesi, potevano attribuirsi a Sabino. Tirando le somme, dietro l’immagine terrificante e sfuggente dell’immondo
giustiziere di Liternum, iniziava a scorgersi con insistenza l’esecrabile opera di un vile binomio servo-padrone. Tuttavia il capo dei frumentari voleva scavare più a fondo, cercando di risalire a un particolare, un dettaglio o un semplice ritrovamento che potesse attestare le vere origini del flamen dialis. Rimestando fra le vestigia del ato, Trebonio ricordò che in effetti già un altro Spurinna aveva lasciato il suo segno nell’immortale storia di Roma, come potente indovino al seguito di Cesare: ironia della sorte, l’anziano aruspice aveva vaticinato al divo Giulio immani sciagure proprio nella fatidica giornata delle idi di Marzo. La mitica vicenda si era conclusa con le profezie inascoltate del veggente e con il corpo di Cesare riverso in un mare di sangue ai piedi della statua di Pompeo, dilaniato dalle ventitré pugnalate inferte dalle mani dei congiurati. Possibile che Sabino, una volta divenuto uomo, fosse tornato nella colonia per dispensare terrore e morte utilizzando il profetico pseudonimo di Tito Spurinna, appellativo dall’immensa potenza simbolica e foriero di distruzione? Se solo avesse avuto la fortuna di verificare in qualche modo le supposte origini etrusche del flamine di Giove, il cerchio si sarebbe chiuso in maniera inesorabile, fugando ogni dubbio residuo e permettendo almeno il fermo di entrambi gli indiziati.
D’un tratto qualcuno bussò con discrezione alla porta della sua camera e il princeps peregrinorum, stravaccato sul letto, abbandonò il fitto groviglio di pensieri in cui si era arrovellato fino a quel momento per sbrigarsi ad aprire. «Entra, Arminio», esordì con voce accomodante Trebonio, una volta scorta la sagoma sgraziata del capo dei famigli che attendeva deferente all’esterno del cubicolo. «Avevo premura di parlarti.» «Sono a tua disposizione, domine», affettò ossequioso il servo, a capo chino. Prima di richiudere la porta alle sue spalle, Trebonio lanciò una rapida occhiata su entrambi i lati del corridoio, per sincerarsi che nessuno potesse origliare la loro conversazione. Quindi fece accomodare il capo dei famigli a uno sgabello e, fingendo una certa pacatezza, cominciò a sistemarsi con cura una leggera sopravveste in bisso verde.
«Ho avuto modo di osservare tuo fratello a lavoro nelle mie frequenti visite alla caserma», esordì mellifluo Macrino, «e devo dire che si sta dando davvero un bel da fare. Ho difficoltà a immaginarlo come un servo riottoso.» «Non so come ringraziarti per la tua benevolenza nei suoi confronti. L’hai salvato da una sicura condanna ai remi o alle saline… o peggio ancora, domine.» «Non ringraziare me», flautò compiacente il capo dei frumentari, acconciandosi alla meno peggio le pieghe del prezioso abito attraverso una lunga lamina riflettente. «È stato il suo sguardo a indurmi ad agire in quel modo.» «Bibulo ha un animo buono ed è un gran lavoratore, però non riesce a contenere la sua irruenza. Quando si ficca un’idea in mente, niente riesce a dissuaderlo.» «Capisco», osservò Trebonio, sedendosi sul bordo esterno del letto, proprio di fronte al suo interlocutore. «Stavo pensando che forse sarebbe superfluo ricondurlo a Roma alla fine della mia indagine.» «Come, domine?», si stupì frastornato il capo dei famigli. «Hai inteso bene, Arminio. In fondo la scuola gladiatoria di Pompeio pullula di atleti e di certo il vecchio lanista non sentirà la sua mancanza. D’altro canto il corpo dei vigiles, fin dalla sua costituzione sotto il principato del divino Augusto, ha annoverato tra le sue file frotte di schiavi e liberti, alcuni addirittura divenuti famosi per le loro imprese eroiche. Bibulo potrebbe are effettivo qui nella colonia, che ne pensi?» Il fiduciario di Afro non poteva credere a ciò che aveva udito: per il suo amato fratello poteva esserci ancora speranza. D’istinto si gettò ai piedi del princeps peregrinorum, largheggiando con immensa gratitudine una gran profusione di benedizione e ringraziamenti. Macrino si sentì a disagio per l’inaspettata reazione di Arminio, quindi lo sollecitò prontamente a rialzarsi. Dopo aver atteso che l’attendente del duumviro recuperasse il posto che aveva occupato fino a poco prima, Trebonio cominciò a snocciolare il vero motivo per il quale l’aveva convocato. «Mi servirebbe il tuo aiuto per una questione alquanto delicata», interloquì in tono sommesso il capo dei frumentari. «Chiamiamolo, se vuoi, un piccolo atto di riconoscenza nei miei confronti.»
«Tutto ciò che è in mio potere», ribatté lesto il capo dei famigli, senza tuttavia riuscire a celare la sottile vena di preoccupazione che lampeggiava in quel momento nei suoi occhi. «Bene. A breve io e Labieno ci recheremo al tempio di Giove per richiedere al flamen dialis l’intercessione del padre degli dèi per assolvere il nostro arduo compito. Sarà una celebrazione notturna, un rito privato, insomma.» «Ottima idea», commentò guardingo Arminio, «l’onnipotente Opitulus riuscirà sicuramente a condurvi alla verità.» Macrino accennò un sorriso posticcio, poi tirò dritto al cuore del suo discorso. «Come te la cavi con le effrazioni?», domandò con calma serafica. «Cosa? Non capisco», cercò di temporeggiare Arminio, visibilmente confuso dalla strana richiesta del princeps peregrinorum. «Ti ho chiesto se riusciresti a sgattaiolare all’interno della casa di Spurinna mentre sarà impegnato con la nostra funzione.» «Beh», valutò attento il fiduciario, dominando a fatica lo stupore, «la sua abitazione affaccia tramite una stretta finestrella in una specie di vicolo cieco, un’insenatura larga poco più di sette piedi, sempre scura e solitaria. L’ingresso invece dà sulla strada principale, poco alle spalle del Foro: di sicuro si correrebbero rischi maggiori. Penso che, potendo salire sulle spalle di qualcuno, sarei in grado di forzare la serratura del vano presente al piano rialzato. Però dovrei usare un dolabrum al posto di un usuale grimaldello: il rumore potrebbe insospettire qualcuno.» Il capo dei frumentari ascoltava interessato le argute considerazioni di Arminio, grattandosi con insistenza la punta del naso. Dalla competenza con cui trattava l’argomento e dall’inflessione risoluta del tono di voce, Trebonio intuì che lo schiavo non era nuovo a simili giochetti. In qualità di spia, lavorando sotto copertura e spostandosi qui e lì fra le svariate province dell’impero, Macrino aveva avuto modo di conoscere furfanti e farabutti. Alcuni di loro si erano rivelati anche abili scassinatori… Eppure Arminio ostentava una professionalità degna del mitico Autolico in persona. «Opterei per un extractor», continuò a elucubrare il servo, concentrato a
immaginare le fasi della sua operazione.
«Un che?», domandò Macrino. «Si tratta di un arnese con cui si può schiodare qualsiasi serratura con il minimo sforzo e, soprattutto, senza molto rumore. In poco tempo m’infilerei per la piccola apertura, scivolando furtivo nella stanza.» «Potresti portare Bibulo con te. Ha la possanza giusta per reggere il tuo peso», suggerì, chinandosi in avanti per stringere i legacci dei suoi calcei. «Con tutto il dovuto rispetto, domine», l’interruppe Arminio, «ho solo descritto la maniera migliore per fare ciò che mi hai chiesto. Violare una domus è un reato grave, figuriamoci se si tratta della casa di un sacerdote di Giove. Se Afro venisse a scoprirlo, per me sarebbe la fine.» «Non sei disposto ad aiutarmi dunque?», l’incalzò aspramente Macrino. «Non dico questo, domine, sto solo cercando di spiegarti che…» «Allora niente storie, Arminio», ribatté perentorio il princeps peregrinorum, «concedimi il tuo aiuto e ti prometto che risolverò la questione di tuo fratello.» Il capo dei famigli lo scrutò a lungo, senza emettere fiato. Poi, dopo aver affogato il timore nell’allettante lusinga di Trebonio, si limitò a sussurrare con voce atona: «E sia. Dimmi a che ora dovrei agire e cosa fare una volta entrato in casa.» «Intanto procurati tutto l’occorrente per il lavoro. Per l’orario ci accorderemo dopo la mia visita al tempio», concluse soddisfatto il capo dei frumentari. «Però posso già anticiparti cosa dovrai fare dopo essere sgusciato all’interno: ispeziona ogni stanza, ogni anfratto o possibile nascondiglio. Portami tutto ciò che possa palesare in qualche modo le vere origini del sacerdote.» «Pensi che lui sia…» «Non penso nulla», troncò deciso Trebonio, oramai in piedi sull’uscio del cubicolo. «E ora se vuoi, puoi tornare al tuo lavoro.»
A quelle parole Arminio si affrettò ad accennare un flebile saluto e uscì spedito, la testa incassata mestamente nelle spalle e la solita andatura sgraziata e ciondolante.
Trebonio invece raggiunse l’estremo opposto del lungo corridoio e, superata la piccola anticamera che si apriva davanti al triclinio, imboccò l’uscita secondaria della domus, puntando dritto verso la parte bassa della colonia.
Illuminati fiocamente dal tenue cerchio di luce diffuso da una lanterna e riparati dietro un’alta parete di mattoni crudi, che correva perpendicolarmente al viottolo situato alle spalle del Capitolium, Trebonio e Labieno attendevano impazienti l’arrivo dei due schiavi. Di tanto in tanto Macrino si sporgeva oltre il limitare della barriera d’argilla e lanciava un’occhiata verso la gradinata d’accesso al tempio: la cerimonia notturna era terminata da poco e loro si erano affrettati a uscire per raggiungere al più presto il luogo prestabilito per l’incontro, non prima di aver salutato compitamente il sacerdote. Spurinna e Upilio, invece, avevano indugiato all’interno del luogo sacro, impegnati nelle preghiere di prammatica, previste a fine rito, e nella pulizia della cella centrale, quella dove si era consumata l’interminabile immolazione.
«Perché Pulcro non si è fatto vivo?», bisbigliò a un tratto il liberto, avvicinandosi alla sagoma incappucciata dell’amico. «Divergenze», motivò distaccato il capo dei frumentari. «A dire il vero, quasi voleva proibirmi di uscire di casa stanotte. Quando gli ho rivelato i miei sospetti e le mie intenzioni in proposito, è trasalito di colpo. Mi guardava come se fossi impazzito, con gli occhi sgranati e l’aria avvilita, gracchiandomi contro che stavo per commettere un grosso errore e che non potevo accusare e arrestare un sacerdote di Giove senza averlo colto sul fatto.» «In effetti questo modo d’agire risulta esagerato anche per un messo imperiale», biasimò a mezza voce lo speziale, mentre con la coda dell’occhio puntava nell’estesa macchia scura che incombeva alle sue spalle: da lì sarebbero dovuti arrivare Arminio e suo fratello, ando per uno stretto acciottolato che si
collegava alla strada sulla quale affacciava l’abitazione del sacerdote tramite un piccolo slargo, dominato da una vecchia edicoletta votiva di Priapo. «Ma che avete, voi!», si stizzì arrochito Trebonio. «Tutti gli indizi conducono inequivocabilmente al ministro e al suo aiutante! Se si fosse trattato di un cittadino normale sarebbe andato in pasto alle fiere nel giro di poche ore invece, proprio grazie all’importanza del ruolo che ricopre, Spurinna subirà un regolare processo in uno dei quattro tribunali della basilica Giulia.» «Sempre che l’attendente di Afro sia riuscito a scoprire qualcosa d’interessante», precisò con aria greve il siculo, strofinandosi con vigore le mani per contrastare il freddo pungente della nocte intempesta.
Trebonio restò in silenzio e, senza badare troppo alle illazioni del liberto, tornò a scrutare la zona antistante il Capitolium. I vivi bagliori scarlatti delle torce, inanellate sulle tre colonne composite poste a guardia dell’ingresso, illuminavano nervosamente le spesse pareti in tufo della costruzione mentre i capitelli corinzi sembravano apparire e sparire seguendo il volere delle fiamme tremolanti, increspate da improvvisi sbuffi di vento. Spurinna e il suo schiavo si trovavano ancora all’interno dell’edificio sacro e la chiazza tenebrosa che si estendeva di fronte all’alta gradinata appariva muta e solitaria. D’un tratto Trebonio avvertì uno scalpiccio rapido e soffocato provenire dall’alone oscuro che campeggiava dietro la figura smagrita di Labieno e, alzando la lanterna ad altezza viso, cominciò a scorgere la sagoma familiare del capo dei famigli che avanzava verso la loro posizione, seguito dappresso da quella ben più imponente di Bibulo. «Allora?», l’incalzò Trebonio, appena raggiunti dai due uomini che si erano fermati al fianco del siculo. «Abbiamo cercato ovunque», sussurrò abbattuto il capo dei famigli, avvolto in un ampio mantello di lana grezza, «ma con scarsi risultati. L’unica cosa che abbiamo scovato è questa.» Così dicendo, lo schiavo estrasse da sotto la palandrana un piccolo scrigno a base rettangolare, realizzato interamente in legno e con i bordi arricchiti di intarsi. Mentre lo ava a Macrino, Arminio continuò il suo discorso.
«L’abbiamo trovato nascosto sotto il letto del sacerdote e avvolto in una grande cappa di canapa.» Il capo dei frumentari ispezionò alla luce della lanterna il prezioso oggetto rinvenuto dai due scassinatori: sul coperchio del portagioie una scritta dorata recitava
C. sui fratri T.S. donavit
sul fondo del contenitore, invece, un’immagine inequivocabile spazzava via in un baleno gli ultimi brandelli di dubbio che aleggiavano nella mente del princeps peregrinorum. «Come immaginavo», sentenziò con un filo di voce Trebonio. «Dai un’occhiata anche tu, Labieno.» Quindi ò lo scrigno nelle mani del siculo e cercò di fargli luce, mentre il liberto ne ammirava il dipinto riportato sulla base. Per quanto poté notare lo speziale, la scena rappresentata nel raffinato disegno mostrava una sorta di demone con sembianze umane. Il volto era coperto da una maschera terrificante, sormontata da due orecchie d’asino che sbucavano da un voluminoso cappello a punta, e il suo corpo era adornato da macabre ossa umane. Quella specie di mostro stringeva due grossi guinzagli ai quali erano legati da una parte una fiera enorme e famelica, con gli occhi iniettati di sangue e le zanne schiumanti di bava, e dall’altra un uomo con la testa infilata in un sacco e una mano legata. Fiera e prigioniero erano stati ritratti in combattimento mentre il loro padrone puntava il viso altrove, con un ghigno malefico impresso nel suo viso dai tratti abominevoli. «Cosa diamine significa questo obbrobrio?», mugugnò a denti stretti lo speziale, incuriosito dal sorriso soddisfatto del suo patrono. «Non lo riconosci, amico mio? È la prova finale, il tassello conclusivo di questo turpe mosaico. Questo è un Phersu!»
«Oh Numi!», si lasciò sfuggire Arminio, vinto da un timore ancestrale, «Vuoi dire l’antica divinità etrusca?» «Precisamente», confermò serio Macrino, rivolgendo inconsciamente il capo verso la zona d’ingresso al Capitolium. «Decideva della vita e della morte degli uomini. La tradizione narra che quando un cittadino etrusco, accusato di efferati delitti, si proclamava innocente e non vi erano prove definitive per dimostrarne la colpevolezza, allora veniva sottoposto a una sorta di ordalia: con il capo racchiuso in un sacco, una mano legata dietro la schiena e una spada nell’altra doveva combattere contro un animale feroce, un lupo o addirittura un leone. Se riusciva a sopravvivere era riconosciuto innocente e reintegrato nel suo rango e nei suoi diritti; se soccombeva, la belva che lo aveva ucciso veniva sepolta viva con il suo corpo affinché continuasse a straziarlo per l’eternità.» «E la scritta?», interrogò trepidante Bibulo, che fino a quel momento aveva seguito affascinato l’intera descrizione del princeps peregrinorum. «Commiano lo donava a suo fratello Terrifonio Sabino!», propose eccitato il siculo. «Forza, non perdiamo altro tempo», esclamò a quel punto Arminio, «se loro sono i carnefici delle lupe, blocchiamoli fin quando sono lì dentro!»
Detto questo, il capo dei famigli di Afro si lanciò di corsa per la stradina che conduceva nei pressi del tempio, saltellando con inaspettata rapidità alla volta della gradinata. Dietro la sua figura caracollante si precipitò il ben più temibile Bibulo, deciso a dar man forte alle intenzioni del fratello maggiore. «Per tutti gli dèi dell’Olimpo», esclamò ruggente di livore il capo dei frumentari, mentre cercava di raggiungerli. «Fermatevi, brutti imbecilli! Non ora! Non ora!» Intanto Arminio e Bibulo, sordi a quegli ammonimenti, erano già arrivati a pochi i dalle colonne composite del Capitolium, mentre Trebonio e Labieno si trovavano trafelati a una pertica di distanza dal primo gradino dell’alta rampa.
D’un tratto si udì il caratteristico rumore delle caligae battenti sul lastricato in
tufo e tre potenti bagliori squarciarono la profonda oscurità che lambiva la striscia di selciato in prossimità dell’ingresso al tempio. «Fermi lì, voi!», intimò il più anziano tra i vigiles, tutti con i funalia nella sinistra e il gladio sfoderato nell’altra mano. I tutori dell’ordine erano apparsi d’improvviso dietro alla sconquassata brigata, tagliando per una stradina che raggiungeva l’ampia piazza cittadina dal suo lato meridionale.
«Cosa ci fate qui a quest’ora!», continuò a ringhiare il capo ronda, puntando contro la schiena di Labieno il suo ferro gelato. «Brutto stupido, metti via quel gladio! Sono Trebonio Macrino, messo imperiale di Domiziano, e quello è Bibulo», gracchiò inviperito il capo dei frumentari, indicando l’energumeno sopra la sua testa. «Non riesci a riconoscerci?» Il soldato si affrettò a chiedere scusa e velocemente spiegò il motivo della loro fulminea comparsa. «Perdonami, Macrino. Stavamo correndo verso la domus del nobile Afro, quando abbiamo notato delle figure sospette aggirarsi nell’oscurità del Foro. Non potevamo immaginare che si trattasse di voi.» «Perché correvate verso l’abitazione del duumviro?», domandò stentoreo Trebonio, mentre si avvicinava alla figura del capo ronda, pervaso da uno strano e inspiegabile senso d’inquietudine. «Purtroppo l’assassino ha colpito ancora, comandante», tagliò corto l’ausiliario asciugandosi la fronte con il dorso della destra. «Stavolta ne ha fatte fuori due, entrambe nell’insula dietro la Porta Sud!»
5
Liternum, sedici giorni alle calende di ottobre.
Nei pressi della Porta Sud.
Davanti al portone di quell’insula cupa e fatiscente, la tranquillità della media noctis aveva ceduto velocemente il o a una confusione da mercato, tipica dell’ora quarta. Una folla di curiosi s’intratteneva borbogliante nell’angusto androne del fabbricato e il bisbigliare continuo dei presenti veniva amplificato dallo stretto corridoio d’accesso ai piani superiori. Imboccato il portone dell’edificio, i vigili dovettero farsi largo tra la plebaglia con spintoni e imprecazioni: sulle loro figure e su quelle dei quattro uomini che li seguivano cominciarono a piovere insulti e maldicenze. «Ehi storpio», inveì rabbioso un tipo barbuto e dallo sguardo infido, riconoscendo il claudicante Arminio che chiudeva la fila dei nuovi avventori, «dì al tuo padrone di guardarsi le spalle d’ora in avanti.» «Non ha mosso un dito per sistemare questa faccenda, quel porco altezzoso!», gli fece eco un donnone procace e dai capelli arruffati, stringendo fra le braccia una paccottiglia di cenci dalla quale s’intravedeva l’incarnato perlaceo di un neonato. «Sì», rincarò la dose un vecchio rinsecchito e sdentato, con la voce grulla e le spalle curve, «verremo a stanarlo nella sua casa e poi la daremo alle fiamme!» Il capo dei famigli avanzava a capo chino, senza azzardarsi a guardare in faccia i querelanti: un’incredibile apprensione era calata di colpo sul suo viso tozzo e dai tratti grossolani. Con la sinistra poggiata sulla spalla del prestante fratello, si affrettava a seguire i i intermittenti dei militi, facendo bene attenzione a tenere lo sguardo fisso sulla schiena umidiccia di Labieno.
«Inutili e vigliacchi!», gridò sdegnato un giovanotto biondo dal fondo del corridoio, mentre i vigiles si apprestavano a risalire la lunga e pericolosa scala che conduceva verso i piani alti del casermone. «Ci farete schiattare tutti! Quale protezione offrite alla povera gente?» A quelle parole, Labieno incrociò lo sguardo rabbuiato del capo dei frumentari, intento a seguire il fascio di luce che si estendeva a grappolo sui fragili e scomposti gradini, proiettato debolmente dalla lanterna dell’ultimo soldato. L’afflizione e il rancore trapelavano dalle sue iridi verdi. I denti serrati indurivano ancor di più la sua espressione accigliata, così come la tensione che sembrava non dar tregua ai muscoli facciali. Lo speziale fu colto da un inatteso senso di pietà: più che padrone, Macrino era sempre stato per lui un amico fraterno e negli anni aveva imparato a conoscere il suo modo di pensare. La coscienza di Trebonio aveva sicuramente fatto ammenda degli improperi e delle proteste abbaiate a danno di Arminio e dei vigiles, imputando a se stessa e a nessun altro il motivo di tanto astio e risentimento. “Come ho potuto fallire così miseramente?”, si stava forse chiedendo in quel preciso istante, rodendosi l’animo nella colpa e nel difetto. “In cosa hanno mancato l’acume e lo spirito di osservazione?”. Intanto che salivano verso il luogo del duplice omicidio, il vociare proveniente dall’oscuro androne dell’insula prese a scemare lentamente, sostituito in maniera meno piccante dagli sguardi immusoniti e ostili degli affittuari dei piani intermedi, affacciati agli ingressi dei loro sudici cenacula e stretti in un burbero silenzio. «Siamo arrivati, comandante», esordì trafelato il capo ronda, mentre poneva il primo o sul pianerottolo del quarto piano. Il princeps peregrinorum si sforzò di vincere la fitta penombra dello striminzito corridoio e, aguzzando la vista, riuscì a riconoscere le fattezze del tarchiato ostiarius che sorvegliava indolente l’ingresso di una stanza a lui ben nota. Un brivido gelido percorse d’improvviso la schiena del capo dei frumentari e le mani cominciarono a sudargli per l’agitazione: la camera di Azia! Appena vide avvicinarsi i vigili, il guercio dalla benda verde si scansò velocemente dall’uscio, lasciando libero l’ingresso al capo ronda, seguito dai due messi imperiali.
La stanza era illuminata a fatica da un paio di fumose lucerne che penzolavano sinistre dal basso soffitto annerito, e l’unico finestrone di legno era sbarrato con due traverse. In quella specie di lugubre antro, le unghie uncinate della parca Atropo avevano reciso la vita di due povere sventurate, destinandole a una fine prematura e orribile. «Il portiere dice di aver sentito un po’ di trambusto provenire dai piani alti intorno alla fine della nocte concubia», interloquì atono il milite, fermandosi poco oltre l’ingresso. «Ttuttavia è rimasto dov’era, pensando a una delle tante liti familiari che avvengono in questa specie di enorme letamaio.» «Chi vi ha dato l’allarme?», domandò Labieno pensieroso, cercando di mantenere una buona dose di calma e sangue freddo in quello scenario atroce. «Secondo la ricostruzione del vecchio centurione, a un tratto ha sentito delle urla abominevoli attraversare la tromba delle scale. Quindi si è precipitato qui, trovando la vicina di stanza della cosmetica inginocchiata e tremante per l’orribile scoperta, con il viso stretto fra le mani. A quel punto ha ordinato a uno degli schiavi del bottegaio giù in strada di correre ad avvisarci ed è tornato qui sopra, per evitare che l’intero stabile si riversasse nella stanza a curiosare.» «Capisco. Ora vi prego di lasciarci soli», concluse perentorio il liberto, osservando nel contempo la sagoma afflitta del suo patrono, immobile e a testa bassa, giusto al centro del bugigattolo. «Bloccate l’accesso alla scala all’altezza del ballatoio e congedate il portiere, riferendogli che dopo dovrà rispondere a qualche domanda.» Il capo ronda annuì e fece segno ai suoi sottoposti di uscire dalla stanza. Quindi scrutò un’ultima volta quel luogo maledetto e richiuse alle sue spalle l’esile divisorio in legno. Subito dopo aver udito la porta accostarsi, Trebonio cadde disperato sulle ginocchia, impiastricciandosi l’orlo della tunica in un misto di sangue rappreso e polvere… A meno di un o dal suo respiro strozzato, il corpo senza vita di Valeria giaceva faccia a terra in una piccola pozza cremisi: i grandi occhi castani erano spalancati in un’abominevole fissità e il viso, un tempo grazioso e seducente, pareva immortalato in un’espressione stravolta dal dolore. La sottile veste paglierino della lupa, sdrucita in più punti, era macchiata di rosso all’altezza della spalla e della cintura e le sue gambe esili si mostravano
scoperte, fredde come la notte e pallide come la luna.
Macrino, sventrato in due dalla disperazione, le accarezzò con dolcezza i soffici capelli corvini. Poi, mentre le lacrime gli rigavano le guance smagrite, lo sguardo gli cadde d’istinto sul braccio destro della giovane donna. L’arto era disteso in una posizione innaturale e, alla sua estremità, le dita tristemente macchiate sfioravano una scritta tremolante e incerta, vergata con il sangue:
VDI
Labieno si avvicinò lentamente al suo patrono con aria contrita e gli sussurrò debolmente di alzarsi, cercando di infondergli la forza adeguata per agguantare nuovamente un barlume di lucidità. Lo speziale conosceva bene in che maniera si era risolto l’ultimo incontro alla locanda fra la lupa e l’amico e sapeva anche che Valeria sarebbe dovuta andare con loro a Roma, a tempo debito.
«Cerca di reagire, Macrino», mormorò con voce accorta il siculo, aiutando il capo dei frumentari a tirarsi su. «Ho assoluto bisogno del tuo aiuto in questo momento.»
Gli occhi del princeps peregrinorum, arrossati e fiammanti a un tempo di rabbia e costernazione, si chio per un lungo istante. Trebonio inspirò a fondo tre volte, serrò i pugni come a voler chiamare a raccolta gli ultimi scampoli di energia interiore di cui disponeva e ritornò dritto sulle gambe. Quindi mosse con lentezza il primo o verso il lato sinistro della parete di fondo della camera, affiancando i logori piedi del tavolo rovesciato. Giunto di fronte al letto di Azia, inzuppato di sangue, esaminò in silenzio il cadavere della cosmetica. Dietro di lui, Labieno faceva lo stesso con il corpo esanime della giovane prostituta.
«Strangolata come le altre», ragionò tra sé Trebonio, scorrendo le dita sul collo livido della vittima. «Le abrasioni lascerebbero pensare che il bastardo abbia usato ancora una volta la sua maledetta corda.» «Non qui», replicò sicuro il liberto, chino sul viso di Valeria. Macrino si sforzò di non voltarsi. Strinse ancora una volta gli occhi, per affogare il dolore lancinante che attanagliava il suo cuore. Poi deglutì a fatica e andò avanti con la sua perizia. «Il ventre è squarciato ma le viscere non sono state estratte. Anche gli occhi sono integri. Valeria deve averlo colto sul fatto, costringendolo a interrompere di colpo il suo macabro rituale.» «Penso che tu abbia ragione», confermò assorto lo speziale, «la ragazza infatti è stata colpita alla scapola e al fianco destro. Accettando per valida l’ipotesi di un assassino mancino, deve averlo sorpreso alle spalle, battendosi eroicamente contro il carnefice.» «Cosa?», esclamò stupito Macrino, lanciando un’occhiata incredula al liberto. «Vuoi dire che si è battuta con l’omicida?»
«Parrebbe proprio di sì», replicò calmo lo speziale. «Ha la bocca sporca di sangue, ma non presenta alcun tipo di taglio, escoriazione o ecchimosi sul viso: deve avergli lacerato la pelle, magari mordendolo con impeto sul collo o sulla schiena. A quel punto il bruto ha affondato all’indietro il suo pugnale, ferendola all’altezza della spalla. Valeria deve aver mollato la presa e quindi il tipo ne ha approfittato, colpendola di lato, all’altezza del ventre.» «La spranga giace a poca distanza dal letto, lungo la parete di sinistra», continuò il capo dei frumentari, «forse anche la cosmetica ha provato a difendersi.» «Invece nella mano sinistra di Valeria ho trovato un filo di lana grezza», notò il siculo, avvicinandosi al princeps peregrinorum e mostrandogli da vicino il reperto. «Forse appartiene al mantello dell’assalitore, o alla sua tunica.» Trebonio scrutò a fondo l’esile filamento cremisi che aveva tra le dita, poi si accovacciò di nuovo davanti al corpo della prostituta, stavolta cercando di
dominare qualsiasi tipo di emozione. Il messaggio era lì, lambito dalle sue dita filiformi… Tre lettere incerte, eppure così evidenti sul sottile tavolato di legno chiaro che ricopriva il solaio sottostante. «Cosa aveva intenzione di scrivere, prima di spirare?», meditò perplesso Trebonio, sfregandosi l’indice alla base del labbro inferiore. «Ha cercato di lasciarti un indizio, puoi starne certo. Non so come abbia fatto a capire che Azia fosse in pericolo, tuttavia si è battuta con coraggio contro l’aggressore, almeno fin quando non è stata sopraffatta dalla lama del pugnale.» «Era giovane, carina e dal cuore gentile… Avrei potuto strapparla dallo squallore e dall’infelicità cui era stata costretta», patì avvilito Trebonio, con gli occhi lucidi e la voce rotta. «Avrei cercato di donarle una nuova vita, provando ad alleviarle il ricordo di un’esistenza penosa.» «Forse l’ha riconosciuto», stornò greve Labieno, costringendo il suo patrono a ritornare alla realtà dei fatti. «Forse», bissò assente Macrino, osservando con attenzione ogni anfratto del polveroso impiantito della stanza. Delle orme dell’assassino, oramai tristemente familiari, non sembrava esserci traccia… Il folle sanguinario, prima di allontanarsi rapidamente dalla stanzina presa in affitto da Azia aveva badato bene a non calpestare le estese chiazze cremisi presenti ai piedi del letto e sparse un po’ ovunque intorno al malandato tavolino. «Ora basta, per Giove!», esclamò a un tratto il capo dei frumentari, assillato dall’immagine di Labieno che meticolosamente continuava a scrutare le membra irrigidite della sciagurata prostituta. «Penso non ci sia nient’altro da scoprire, non credi?» «Ti sbagli, Trebonio», mormorò riflessivo lo speziale, ancora carponi sul viso di Valeria, mentre scrutava le dita della sua mano destra.
Visibilmente soddisfatto, si avvicinò all’amico mostrandogli ciò che restava di uno striminzito ciuffo di capelli, colorato quasi per intero di rosso a eccezione
della base. «Era rimasto attaccato fra l’indice e il medio della giovane a causa del sangue», considerò il siculo, vagliando la sua scoperta al timido bagliore di una delle lucerne. «Volendo azzardare, il nostro uomo dovrebbe avere una chioma corvina, forse leggermente ondulata.» «Dettaglio non da poco, giunti a questo punto. Ora non ci resta che ascoltare le testimonianze dell’ostiarius e della donna che ha scoperto i corpi: magari avranno intravisto qualcuno sgusciare furtivo all’esterno del fabbricato. Prima però ordina alle due reclute del capo ronda di piantonare l’ingresso e invia Bibulo alla necropoli… Voglio che Azia e Valeria ricevano una degna sepoltura.» Labieno annuì e si diresse spedito verso il fondo dell’oscuro corridoio d’accesso al piano. Trebonio restò solo nel triste cenacolo, scenario dell’ennesima, assurda tragedia. Era lì che aveva incontrato per la prima volta Azia e in quel luogo adesso commiserava il compimento del suo turpe destino. Mosso da uno strano impulso interiore, si avvicinò al volto sfigurato della cosmetica e ripeté inconsciamente un gesto che aveva visto fare a uno di quei profeti barbuti, provenienti dall’Oriente, durante un funerale segreto. L’emergente setta dei cristiani soleva celebrare le proprie funzioni in anguste camere sotterranee, scavate nel tufo e chiamate catacombe: erano simili a delle celle gelate, poste alcune pertiche sotto il piano di campagna e piene di nicchie e loculi per i defunti. I ministri di quel nuovo credo religioso stavano attirando sempre più proseliti, nonostante i cruenti e inutili tentativi perpetrati dall’imperatore al fine di contrastarli. Nessuno riusciva a comprendere il motivo che induceva frotte di uomini e donne ad abbracciare la nuova dottrina: forse perché il loro Dio era molto diverso dai tanti venerati dai conquistatori Romani; forse perché si diceva avesse inviato sulla Terra il suo unico figlio, sacrificandolo inchiodato a una croce per salvare l’amato popolo, liberandolo così dal male (definito dai seguaci di Cristo con la parola peccato). O forse, in maniera pragmatica, perché quell’unica divinità appariva molto più vicina agli uomini di quanto non lo fosse l’intera schiera dei celesti abitanti dell’Olimpo, troppo alienati dai loro simulacri mortali e troppo impegnati a rincorrere i loro appetiti e le loro ambizioni, tutt’altro che divine, per badare anche alle vicende del genere umano. Bagnandosi l’indice destro con della saliva, Macrino sfiorò la fronte gelida di Azia e descrisse lentamente il simbolo della croce. Poi s’inginocchiò davanti al
corpo esanime di Valeria, le strinse le mani un’ultima volta e le baciò i lunghi capelli color del mosto. Infine alzò gli occhi al cielo e recitò sottovoce e a mani giunte, così come aveva visto fare tante volte nelle funzioni dei cristiani. «Tu, che dicono sia il padre di tutti… Tu, che per loro rappresenti l’origine e la fine del mondo, il giorno e la notte, il sole e la luna… Ti prego: accetta lo spirito di questa donna e fa che possa riposare in eterno fra le possenti mura di quello che chiamano il regno dei Cieli.» Alzatosi in piedi, restò per un momento a capo basso, in segno di rispetto verso quella divinità straniera cui il suo animo affranto e logorato aveva chiesto improvvisamente asilo. A quel punto la sagoma dello speziale si affacciò di nuovo sull’uscio della camera e fece segno al princeps peregrinorum di seguirlo, sparendo quindi dietro il battente dal quale giungeva prossimo il rumore caratteristico delle caligae delle reclute, incaricate di piantonare la stanza fino all’arrivo dei libitinarii. «Ti vendicherò», sussurrò Macrino con voce arrochita da un terribile furore. Quindi abbandonò definitivamente la camera della cosmetica, avviandosi silenzioso verso la lunga e traballante scalinata di legno.
Due settimane, quattordici lunghissimi giorni, e ancora si brancolava nel buio più profondo. Da lì a poco, l’isteria sarebbe scoppiata fra gli abitanti della colonia come una subdola malattia endemica che, una volta propagatasi, miete vittime su vittime a una velocità impressionante. Dopo le rassicurazioni propinate nel Foro dal nobile Marco Stazio Afro e la presunta quiescenza del pazzo sanguinario, il livello di agitazione era andato gradualmente scemando. Poi, come in una notte tenebrosa, la mano dell’assassino era tornata a calare su Liternum, tremenda e opprimente al pari di un fragoroso rombo di tuono del quale non si è visto il bagliore della saetta da cui è stato generato. Pochi indizi validi e nessuna certezza… Questo, in sostanza, era il nocciolo della situazione. Era bastato un rapido scambio di battute con il capo ronda dei vigiles per sbriciolare in un attimo le supposizioni, le sottili congetture e le intricate
ipotesi formulate durante tutti quei giorni trascorsi tra indagini, interrogatori e pedinamenti. Allo stesso modo, la spavalda convinzione di essere finalmente riusciti a sovrapporre l’identità del macellaio con le insospettabili figure di Spurinna e Upilio era svanita di colpo in una enorme bolla evanescente, causa d’afflizione e del più angoscioso scoramento. Tali erano i pensieri che martellavano oramai da ore la mente spossata di Trebonio. Poggiato con la schiena contro il bordo del suo giaciglio, il princeps peregrinorum rimuginava su quella cocente sconfitta seduto sul freddo pavimento in marmo del cubicolo, rannicchiato con le ginocchia al petto e la folta chioma corvina stretta fra le mani.
Lui, il capo dei frumentari, l’uomo di punta del segretissimo G-4 istituito dall’imperatore, era stato giocato per l’ennesima volta da un’ombra malefica e inafferrabile, un misterioso individuo che cominciava ad assumere le sembianze di un essere quasi immateriale e demoniaco, dispensatore di morte e di terrore. Profondere tutto il suo impegno, fino all’ultima stilla di raziocinio e abnegazione, non era servito a risparmiare delle vite innocenti da una fine straziante. Le sue capacità deduttive erano risultate inefficaci, la sua arguzia si era rivelata fallace o comunque manchevole. Infine, la troppa sicurezza nelle proprie congetture si era dimostrata addirittura letale. Ma in realtà, il vero motivo dietro a tutto quell’avvilimento, dietro al dolore abissale che gli stritolava il cuore, era da ricercare nella morte improvvisa e violenta della giovane lupa. Sopra ogni altra cosa, infatti, era l’immagine del volto cereo e inespressivo di Valeria che gli divorava a grossi bocconi l’animo. Le aveva promesso di donarle un avvenire migliore, di portarla con sé nell’Urbe per regalarle una vita diversa… Tutte parole inutili, tutte lusinghe evanescenti. Valeria era stata strappata alla vita dalla mano di un pazzo sanguinario e lui non riusciva a rassegnarsi al pensiero che non avrebbe mai più provato quella strana ma dolce sensazione di soave stordimento nell’avvicinare le sue labbra a quelle morbide e delicate della giovane. Non avrebbe più potuto accarezzarle la soffice chioma, sfiorarle le dita lunghe e affusolate, perdersi nella bellezza di quel viso aggraziato eppure così sensuale… Stoicamente, il capo dei frumentari obbligò i suoi pensieri a cambiare direzione,
sforzandosi di focalizzare la mente sulle informazioni ricavate dagli interrogatori tenuti con l’ostiarius e con la vicina della defunta cosmetica. «Gli affittuari di questa topaia sono gente rozza e incline al diverbio», aveva esordito il guercio veterano, stravaccato nuovamente sulla seggiola posta al lato della vecchia parte di scala in muratura, che si dipartiva dalla mezzeria del corridoio oltre l’androne. «Qui le urla e le diatribe, specialmente ai piani alti, sono all’ordine del giorno. Tuttavia sono rari i casi di furti e le discussioni terminano al più con una testa rotta.
Doveva essere intorno alla nocte concubia», aveva proseguito il vecchio centurione, «quando ho sentito un bel po’ di trambusto provenire da sopra. Ho pensato che si trattasse di qualche marito ubriaco che si sfogava sulla famiglia e quindi ho lasciato correre. A fine giornata le mie care ferite tornano a farsi sentire e devo mandar giù tre quarti di quello buono per assopire il dolore. Poi però c’è stato quell’urlo disumano che quasi mi faceva cascare dalla sedia. Allora ho preso il bastone e sono corso verso le scale, cercando di capire cosa stesse succedendo. Quando sono arrivato sul pianerottolo del quarto livello, ho visto la povera Marsica che tremava come una foglia davanti al cenacolo di Azia, stringendosi le mani sul viso stravolto dall’orrore. Ho gettato un’occhiata nella camera e ho visto lo scempio. Il resto lo sapete…» Per quanto riguardava la presenza del misterioso assassino, il barbuto portinaio assicurava di non aver scorto nessuno discendere di corsa le rampe che conducevano all’ingresso dell’insula.
«Io ero intento a salire e se avesse usato le scale l’avrei di sicuro incrociato, giusto?» Tuttavia, c’era poco da fidarsi della dichiarazione raffazzonata di quel vecchio rottame da legione, con l’unico occhio ingiallito dall’alcol, la tunica cenciosa e l’alito abominevole, massacrato eternamente dal vino. Non ricordando quanto tempo fosse intercorso fra il trambusto precedente e l’unico, possente grido di Marsica, l’ex centurione si era sicuramente assopito in quel piccolo ma determinante intervallo di tempo: un intermezzo brevissimo, sebbene essenziale
all’omicida per abbandonare indisturbato l’oscuro casermone dopo aver portato a termine la sua opera mortale. Quindi il princeps peregrinorum aveva puntato dritto alle parole di Marsica, sperando di riuscir a far chiarezza sulla fuga dell’assassino. La vicina della cosmetica era pallida come una pezza e tremava ancora per la scena spaventosa che si era mostrata improvvisamente ai suoi occhi. «Vivere in questa topaia è difficile», aveva confessato l’anziana massaia. «Le grida sono così frequenti che nessuno ci fa più caso oramai. Io però conoscevo Azia e sapevo che viveva sola, quindi, quando ho capito che il trambusto proveniva dalla sua stanza, mi sono preoccupata e ho pensato di svegliare mio marito per chiedergli di andare a controllare cosa stesse succedendo. Ovviamente, quello zotico mi ha mandato agli Inferi, girandosi dall’altro lato del torus e bofonchiando di farmi gli affaracci miei una buona volta.» Mossa dal timore, o forse dalla curiosità, Marsica aveva abbandonato il suo giaciglio e, con circospezione, era uscita sul pianerottolo per cercare di origliare il motivo della gazzarra. «Ho indossato la sopravveste poco dopo che il baccano era terminato», aveva continuato a spiegare la casalinga, «e dapprima ho aperto la porta quel tanto che bastava per sbirciare all’esterno. Il corridoio era quasi completamente avvolto dall’oscurità, visto che una delle lucerne che sono poste agli estremi si era spenta già da un po’. Così ho deciso di uscire e ho notato che il battente del cenacolo della cosmetica era appena accostato. Quando l’ho aperto sono quasi svenuta per l’orrore e penso di aver gridato con tutto il fiato che avevo in corpo. Poi è salito l’ostiarius e gli altri affittuari hanno cominciato a uscire dalle loro camere…» In conclusione, dalla fine del trambusto al momento del grido disperato di Marsica era trascorso un arco temporale sufficiente affinché un individuo esperto nella salita e nella discesa delle pericolanti scale delle insule potesse dileguarsi senza essere visto, approfittando dell’ubriachezza del portiere e della discrezione degli altri abitanti dello stabile. Con la testa traboccante di pensieri, Macrino si alzò a fatica dal marmo del pavimento e si gettò indosso una mantella verde di tessuto leggero. Poi uscì dal suo cubicolo e attraversò con o lento il lungo corridoio affrescato che conduceva all’atrio. L’elegante casa del nobile Afro era avvolta dall’oscurità e,
nel silenzio pacificatore dispensato dall’ora notturna, si udiva il solo frinire delle cicale, come una lunga e monotona nenia che cullava instancabile lo spirito assopito degli uomini. Arrivato davanti alla bassa vasca dell’impluvio, il princeps peregrinorum alzò il capo verso la vasta apertura che interrompeva i filari di coppi rossastri, usati come rivestimento per il tetto dell’abitazione. La luna risplendeva nel cielo, coperta impercettibilmente sul lato sinistro dalla soffice estremità di una nuvola. Trebonio rimase a contemplare a lungo il cielo indaco, venato di viola, che ammantava con il suo abbraccio notturno l’intero sviluppo di quella sfortunata colonia. D’un tratto fu investito da un incredibile senso di solitudine e si sentì per la prima volta vuoto e inutile: Roma non era lontana, eppure cominciava ad avvertirne la mancanza in maniera pressante… Chissà se anche Labieno aveva mai provato la stessa sensazione, durante il loro soggiorno forzato in quel di Liternum. Vinto dalla tristezza, il capo dei frumentarii abbandonò il largo andito affrescato che introduceva nella villa del duumviro e recuperò velocemente l’accesso al peristilio, illuminato debolmente dai funalia pendenti dalle colonne dal lungo giardino porticato.
La caserma dei vigiles era pressoché deserta. A parte Bibulo e una coppia di militi intenti ad armeggiare come al solito nel magazzino, l’unica altra figura presente nell’edificio era Aurelio Pulcro, ancora chino sui papiri affastellati sulla scrivania del suo ufficio. Il resto dei soldati aveva da poco cominciato il turno di ronda, stringendo in una sorta di asfissiante controllo le strade, i vicoli, le piazze e i recessi più nascosti della colonia. Il capo della milizia era stato infatti categorico: bisognava riuscire a stanare il pazzo sanguinario, farlo sentire braccato e infondere nello stesso tempo fiducia alla popolazione. Gli errori non sarebbero stati più ammessi, pena l’espulsione dal corpo. Così, nelle ultime tremolanti luci dell’ora duodecima, il greve e metallico rumore delle caligae, battenti di corsa sul selciato, sembrava rimbombare in diversi punti della cittadina, attraversando rapido il vasto slargo del Foro, il cardo massimo e i viottoli che da esso si dipartivano numerosi. Durante la mattinata diversi banditori di piazza avevano letto a gran voce l’ultima direttiva redatta dall’assemblea dei decurioni: superato il tramonto, chiunque fosse stato trovato in giro per la città avrebbe subito un’accurata perquisizione da parte dei tutori della legge. Sarebbe bastato un semplice sospetto o il ritrovamento di un
qualsiasi oggetto contundente per autorizzare le ronde a trasferire con la forza i presunti indiziati nelle segrete dell’Anfiteatro che affiancava il complesso termale. Le strade erano diventate di colpo deserte, le botteghe chiuse e perfino gli ingressi delle bettole si mostravano sbarrati.
Trebonio superò l’entrata della caserma, poi salì le scale che conducevano all’ufficio del capo dei vigiles, attraversò a o svelto una piccola anticamera e si trovò velocemente davanti alla porta dello studio di Pulcro. «Entra pure», lo invitò con indifferenza il graduato, vedendo apparire il viso tirato del princeps peregrinorum oltre la soglia della camera. «Ero quasi in pensiero per la tua prolungata assenza.» «Mi congratulo con te, caro Aurelio», esordì in tono velatamente sarcastico il capo dei frumentari, accomodandosi sullo sgabello situato di fronte allo scrittoio dell’ufficiale. «Le pattuglie corrono avanti e indietro per la città, svolgendo alla lettera le tue disposizioni.» «Gli ordini sono ordini», sentenziò distaccato il militare senza alzare lo sguardo dall’ammasso di rotoli che stava sistemando in piccoli gruppi. «Dimmi un po’, come mai ieri non sei ato all’insula? Ho inviato uno dei tuoi a chiamarti qui in caserma ma mi ha detto di non averti trovato.» «Sono arrivato sul luogo del delitto quando tu eri già andato via. Ieri notte ero a casa, penso abbia il diritto di riposare anch’io, Trebonio.» «Assolutamente», assicurò pacato il comandante delle spie imperiali, abbandonando il suo seggio e muovendo i primi i verso la finestra dell’ufficio. Le ombre lunghe della sera cominciavano a insinuarsi nelle strade e sui tetti della colonia, interrotte qui e lì dalla luce soffusa prodotta dalle torce delle ronde e dalle lanterne delle piccole edicolette votive, erette negli incroci e in prossimità dei fontanili. «Sei riuscito a studiare la scena del crimine?», interloquì atono il capo dei frumentari, gettando ancora un’occhiata all’esterno dell’edificio. «Sono arrivato mentre i libitinarii portavano via i corpi delle due vittime.
Nell’insula c’erano frotte di curiosi e il mio sopralluogo è stato abbastanza frettoloso. Quando siamo ridiscesi, ho dovuto placare un po’ gli animi, visto che serpeggiava grande nervosismo fra i presenti.» «Spero tu abbia almeno notato la scritta sul pavimento», si augurò ingannevole Macrino, avvicinandosi alla figura dell’ufficiale, intento a riporre al loro posto i papiri visionati poco prima. «Quale scritta?» «Quella che la sfortunata Valeria ha vergato col suo sangue qualche istante prima di spirare. Sembrerebbe che la giovane donna abbia voluto lasciarci un messaggio.» «Questa è bella», ridacchiò in tono sommesso Pulcro. «E cosa ha scritto la sgualdrina?» Trebonio investì il volto di Pulcro con uno sguardo carico d’odio e di disprezzo: i suoi profondi occhi verdi fiammeggiavano di rabbia e le membra massicce s’irrigidirono di colpo, come pervase da una forza sovraumana. «Un’unica, semplice parola, Aurelio. VDI… ti dice niente?» «Proprio nulla, a dire il vero. Sicuro che l’abbia lasciata la lupa? Non potrebbe essere un altro sberleffo del nostro uomo?» «Impossibile», ribatté convinto Macrino, scrutando il volto cereo del suo interlocutore. «Le dita insanguinate della povera Valeria lambivano la fine del suo penoso avvertimento. La grafia era incerta e tremante, propria di qualcuno che sta combattendo strenuamente per afferrarsi all’ultimo alito di vita.» «Capisco», annuì meditabondo Pulcro, appoggiandosi con le spalle alla porta della stanza, «e cosa sei riuscito a dedurre da questo fortunato indizio?» «Poi ti dirò. Sai Aurelio», attaccò a spiegare placido Macrino, dando le spalle al capo dei vigiles e versandosi una coppa di idromele da una brocca disposta sulla scrivania del graduato, «avevi ragione sul conto di Spurinna… Sono stato un folle a credere alla sua implicazione in questa assurda storia.» «Ho saputo che, per fortuna, sei riuscito a non perdere la faccia», chiosò con una
punta di soddisfazione Pulcro, «grazie all’intervento dei miei uomini.» Mentre portava alla bocca il calice colmo di liquido fermentato, Trebonio udì uno sfrigolio metallico, lento e soffuso, proveniente dal fondo della stanza. «In effetti è stata una fortunata coincidenza», chiarì il capo dei frumentari, «o sfortunata. Dipende dai punti di vista.» Detto questo, ingollò rapidamente un lungo sorso di idromele e poggiò il bicchiere dal lungo collo sullo scrittoio, volgendo lo sguardo ancora una volta verso la finestra. «Che significa sfortunata? Avresti preferito arrestarli entrambi, scoprendo poi che erano innocenti e coprendoti di ridicolo di fronte al nobile Afro e alla città tutta?» «No, no di certo», sorrise di finto divertimento Macrino. «Tuttavia, per fare irruzione nel tempio non avrei dovuto incontrare la ronda dei tuoi uomini. Questo significa che non avrei trascorso la notte a rilevare mestamente un altro efferato omicidio, stavolta duplice.» Pulcro annuì con un impercettibile cenno del capo. Poi tornò a sedersi dietro la sua scrivania, sistemandosi il focale che gli proteggeva il collo dallo stretto contatto con il corsetto in cuoio irrobustito. Domandò: «Allora, per quale motivo sei venuto a farmi visita?» «Volevo mostrati questo», rispose Trebonio, sfilando dalla cintola un lungo chiodo in bronzo e agitandolo davanti agli occhi del suo interlocutore. «Nella confusione e nell’impeto delle indagini, ho dimenticato di mostrartelo insieme con il minaccioso avvertimento dell’assassino. È quello utilizzato dal nostro uomo per affiggere il piccolo rotolo sul battente della domus di Afro.» Pulcro si sforzò di osservare attentamente il reperto mostratogli da Macrino. Il princeps peregrinorum ebbe l’impressione che un’ombra di turbamento calasse sul viso dell’ufficiale. «Poco male, Trebonio», recitò con voce sicura. «Non so da dove possa provenire.» «Strano. Per puro caso stamattina ho incrociato Bibulo… Era ato a salutare suo fratello Arminio, obbligato a letto da tremendi dolori alla schiena. Uscendo dall’ingresso secondario, quello destinato alla servitù, ha notato questo pezzo di
ferro che giaceva da giorni su di un tavolino di marmo, situato nella piccola anticamera davanti al triclinio.» «E quindi?», l’incalzò un inespressivo Pulcro, abbandonando rapido la sua posizione per avvicinarsi alla madia dove riponeva di solito i documenti. «Lo schiavo non ha dubbi: il chiodo proviene dai magazzini della tua caserma. Oramai conosce a memoria tutti i pezzi del vostro deposito, così come l’equipaggiamento base con il quale vanno in giro i vigiles.» «Stai cercando di dirmi che l’assassino potrebbe nascondersi tra le file dei miei uomini?», domandò stupito l’ufficiale, cominciando a grattarsi con forza il dorso della mano sinistra. «I giochi sono finiti, Aurelio», sentenziò impenetrabile Trebonio, al quale non era sfuggito il gesto istintivo del graduato. «Ora mi seguirai alla domus del nobile Afro per rispondere davanti alla legge delle tue atroci e sanguinarie imprese. Non hai più scampo, lurido mostro!» «Cosa vai farneticando!», esclamò iroso Pulcro, facendo scivolare la sinistra dietro la schiena. «Devi essere impazzito, non c’è altra spiegazione! Arrivare ad accusare me! Io, che ho preso parte alle indagini, io, che sono stato sempre al vostro fianco… io, che ho trascorso le vostre stesse notti insonni nel vano tentativo di acciuffare quell’orribile carnefice!» «Risparmiami la recita, cane rognoso», tuonò con voce arrochita il capo dei frumentari, «e preparati a pagare con la vita il peso dei tuoi crimini!» Così dicendo, fece per muovere il primo o verso la sagoma immobile di Pulcro ma, d’improvviso, nella mano del capo dei vigiles apparve un lungo pugnale dalla lama rilucente. «Ho sempre ammirato le tue capacità, Trebonio», mormorò l’ufficiale con lo sguardo stravolto dall’ebbrezza della pazzia. La sua voce sembrava essersi trasformata in un latrato animalesco e un orribile ghigno beffardo era disegnato fino agli angoli della sua bocca. «La porta è sbarrata e gli uomini nel magazzino non riusciranno a sentire le tue grida. Come vedi sei nelle mie mani. Tuttavia, prima di mandarti agli Inferi, sono curioso di sapere come tu abbia fatto a scoprire la verità.»
Macrino valutò rapidamente la situazione: Aurelio era un tipo robusto, un veterano delle legioni. Era armato, folle e pronto a colpire con ferocia inaudita. Doveva assolutamente temporeggiare, attendere il momento propizio per sferrare un attacco a sorpresa, magari cercando di disarmarlo. «Scommetto che sotto il focale nascondi i segni lasciati dal morso profondo della povera Valeria», asserì serafico Trebonio, puntando il dito verso il collo di Pulcro. «Eccoti accontentato!», sogghignò compiaciuto l’ufficiale, slacciandosi con la mano libera la spessa pezzuola rossa che proteggeva la gola e la nuca. In corrispondenza della scapola sinistra, leggermente più in alto, una grossa ecchimosi violacea circondava una ferita dai contorni arrotondati. «La puttana quasi mi staccava la testa, con quella sua boccaccia da cagna in calore.» Macrino serrò i pugni così forte da far tremare gli avambracci: il suo volto era livido di collera e i nervi facciali tesi fino allo spasmo. Il cuore gridava vendetta e i muscoli erano turgidi all’inverosimile, pronti a dare libero sfogo a una potenza tale da essere ingabbiata a stento dal volere della mente. Non una smorfia, un battito di ciglia, un gesto impercettibile del corpo minarono l’espressione granitica del capo dei frumentari… A tempo debito, Aurelio avrebbe pagato anche per quegli insulti gratuiti. «Allora?», pressò muovendo un o verso il suo massiccio ostaggio. «Sto ancora attendendo la tua valente disquisizione deduttiva. L’ultima dell’illustre Gaio Trebonio Macrino, princeps peregrinorum e capo dei Castra del colle Celio. Ah, ah.» «Sapevi anche questo, vero?», scandì stentoreo Trebonio, «Sei proprio un verme schifoso, una carogna infame, un ignobile topo di fogna. Sì, ascolterai come ho smantellato il tuo abominevole piano e quanto dovrai soffrire per le tue ignominie!» Pulcro mostrò un largo sorriso di sfida, poi intimò al capo dei frumentari di sbrigarsi. «Avevi architettato tutto fin dall’inizio», prese a dire Macrino, attento a scrutare ogni minima reazione del suo nemico in cerca del momento propizio per agire. «Ed hai sfruttato il ricordo di come aveva agito il defunto Commiano nel compiere il suo omicidio, in modo da sviare il più possibile le indagini. Volevi
far are i tuoi crimini come la vendetta di una vecchia ombra del ato, una sorta di punizione divina nei confronti di Afro e dell’intera popolazione locale. Invece avevi un tuo preciso movente.» «Mi stai deludendo, Trebonio», sbuffò ridanciano Aurelio, «è una premessa scontata la tua. Ti consiglio di arrivare velocemente al sodo: non vorrei doverti scannare prima di poter plaudire alle tue immense doti investigative.» «Sei proprio vuoi saperlo, mi hanno insospettito le parole dei tuoi uomini, unite alle rivelazioni della povera Valeria. I primi sospetti sono saltati fuori quando ho saputo che il ligio Pulcro aveva il vizio delle asinelle e che, da quando era iniziata la lunga sequela di assassinii, aveva preso a dormire in una delle brande della camerata, destinate alle giovani reclute, senza più mettere piede in casa. Poi ho incrociato la tua consorte e allora i dubbi si sono affievoliti. In fondo, come biasimarti, con quel mostro di moglie che ti ritrovi?» «Puoi fare di meglio», lo schernì innervosito Pulcro, muovendo involontariamente la gamba destra. L’atteggiamento sferzante e distaccato di Trebonio cominciava a fare effetto. Aurelio iniziava a perdere la calma e a mostrarsi vulnerabile. Era solo questione di tempo. Poi avrebbe abbassato la guardia, commettendo un errore che gli sarebbe stato fatale… Almeno queste erano le speranze di Macrino. «Come fai a non capire che sei stato così stupido da incastrarti da solo?» «Cosa?», esclamò stupito l’ufficiale, sfregandosi ancora una volta il dorso della sinistra contro il mento irsuto. «Se non avessi fatto irruzione nell’insula per soddisfare la tua orrenda follia omicida, forse a quest’ora saresti ancora libero.» «Scusa ma non vedo ceppi intorno ai miei polsi», ribatté ironico Pulcro. «Ancora per poco, lurido bastardo! Hai sbagliato, e alla fine ti sei rivelato un dilettante come tanti altri», rincarò la dose il princeps peregrinorum, cercando in tutti i modi di far saltare i nervi del suo aguzzino. «Non farmi ridere, Macrino. Tu e il tuo liberto brancolavate nel buio più profondo, investigatori dei miei calcei!»
«E i tuoi errori grossolani ci hanno illuminato la mente, invece.» «Tanto che ieri notte avevate l’intenzione di arrestare Spurinna e il suo tirapiedi, non è così?», gracchiò divertito. «Ammetto che le coincidenze stavano per minare l’esito delle mie indagini: il Phersu a evidenziare l’origine etrusca di Spurinna, la morte improvvisa del vecchio flamine di Giove e l’arrivo di un giovane sacerdote, scelto non tra gli aristocratici locali, bensì inviato da Roma. E poi il ato da servo di Upilio, diventato custode del tempio proprio quindici anni fa, in seguito all’abbandono della colonia da parte della ricca famiglia nella quale viveva. Entrambi conoscevano bene le prostitute, proprio come te, e addirittura Voreno mi aveva confessato il legame amoroso tra Spurinna e Sabina. In aggiunta, Upilio ti somiglia molto fisicamente e calza sempre dei calcei. Quando ho scoperto che era legato alla bella Claudia, ho ipotizzato che fosse stato lui a far sparire i corpi delle lupe, imboccato dalle ipotetiche soffiate della giovane ancella del duumviro. Infine, la recita che hai imbastito quando sono venuto qui con il biglietto, che tu stesso avevi affisso al portone della domus di Afro, ha irrobustito le mie errate supposizioni. Il flamine era mancino e anche l’assassino, così come avevi cercato di farci credere tu, industriandoti a dovere con lo stilo.» «Ho dovuto agire alla svelta», osservò piccato l’omicida, «se tu avessi arrestato quei due, saresti partito subito alla volta dell’Urbe e questo non poteva accadere… Sarebbe stato troppo presto!» «Troppo presto per cosa?», insistette con voce decisa Macrino, spiazzato da quelle ultime parole. «Parla, figlio di puttana!» «Ora basta!», tuonò rabbioso Pulcro. «Ti resta pochissimo da vivere. Arriva al punto, e fallo alla svelta!» «Sono state le parole di Bibulo a rivelarmi la soluzione dell’enigma. Il chiodo di bronzo proveniva dai magazzini. Possibile? In quel preciso momento ho ricordato il nodo alla corda che lo squartatore aveva utilizzato per fuggire dal primo piano del lupanare, la notte dell’omicidio della quarta vittima. Per giorni ho cercato invano di ricordare dove avevo già notato quel tipo di legatura, poi di colpo un’immagine ha attraversato fugace i miei pensieri: un veterano della militia vigilum dell’Urbe che si calava con un bambino dal terzo livello di un edificio in preda alle fiamme. Ecco chi conosceva di sicuro quel tipo di
annodatura, i vigiles! Ricordi, Aurelio? Prima ti ho chiesto se riuscivi a interpretare il significato della parola VDI.» «Non significa un bel niente!» «Ti sbagli, io ci sono riuscito. È una sigla, e anche abbastanza famosa. Rappresenta le iniziali di un motto molto in voga all’epoca del divino Augusto: Vbi dolor, ibi vigiles! Dove c’è il dolore, lì troverete i vigili! Ovviamente la povera Valeria non è riuscita a terminare la frase.» «Tutte stupidaggini!», sentenziò Pulcro. «Stupidaggini? Tu eri l’unico a essere informato di ogni nostra congettura e hai lavorato parecchio per sviare e rendere vane le nostre ricerche. Sapevi che volevo esaminare le salme delle vittime, così le hai fatte sparire, così come eri a conoscenza di tutti i turni di ronda e della precisa posizione dei tuoi uomini. Ecco perché il misterioso assassino appariva così sfuggente, letale, imprendibile. Le servette di Voreno ti conoscevano bene ed è stato fin troppo facile per te convincerle ad appartarsi fino a notte fonda nella vecchia catapecchia abbandonata del vicus Aquarius. Quindi, finito il sollazzo, ti offrivi di accompagnarle al postribolo e, giunto nei dintorni del bordello, le eliminavi senza pietà, strangolandole e accanendoti con brutale ferocia sui loro corpi esanimi.»
«Niente male», annotò con una punta di fastidio Pulcro, facendo palleggiare il lungo pugnale da mano a mano. Il suo sguardo era diventato truce, abominevole e un’incredibile fermezza trapelava dalle pupille dilatate, paurosamente fisse sulla figura disarmata di Macrino. «Ora però devo compiere il mio dovere. Mi spiace, Trebonio, ma gli affari sono affari. Addio!» Proprio nell’istante in cui il capo dei vigiles stava per gettarsi sul corpo irrigidito di Macrino, una serie di colpi decisi rimbombò dall’esterno dell’ufficio. «Aprite, per tutti i numi!», minacciò la voce accalorata e squillante del nobile Afro «Vi ordino di aprire, per Giove!» Aurelio sobbalzò per un istante nell’udire le stangate che bordavano potenti la robusta porta dello studio. Un’impercettibile rotazione del suo capo fu
sufficiente al princeps peregrinorum per caricarsi come la fune elastica di una ballista e scaraventare con violenza inaudita tutto il proprio furore contro la sagoma interdetta dell’avversario.
Aurelio, accortosi all’istante dell’errore commesso, scivolò immediatamente sul fianco destro, mandando all’aria il placcaggio sferrato dal capo dei frumentari. La violenza dell’impatto con il pesante desco in legno d’abete fu micidiale e Macrino si ritrovò supino e faccia all’aria, con la fronte sanguinante e uno zigomo completamente fracassato. Digrignando i denti e con gli occhi strabuzzanti dalle orbite, l’assassino si fiondò sulla figura distesa del messo imperiale, investendolo con una fitta gragnola di calci al ventre. Intanto, fuori dall’ufficio, le voci diventavano sempre più concitate e si mischiavano alle mazzate furibonde con le quali il duumviro e Labieno tentavano senza profitto di scardinare l’ingresso. Chiamando a raccolta le ultime stille di forza, Trebonio bloccò a mezz’aria il piede destro del suo assalitore, pronto a sferrare un’altra micidiale pedata, stavolta in pieno viso. Con un movimento tanto inaspettato quanto fulmineo, riuscì a rifilare un colpo di calcagno sotto il ginocchio sinistro di Pulcro. Il capo dei vigiles soffocò il suo lancinante dolore in un mugugno arrochito e cadde rovinosamente con la schiena sul bordo del tavolo che Trebonio aveva rovesciato in precedenza. Sforzandosi, Aurelio arrivò a rialzarsi quel poco che bastava per scagliarsi di peso sul corpo di Macrino. Quindi provò ad affondare la gelida lama metallica nella carne dell’avversario, ma questi fu lesto a bloccargli con veemenza entrambi i polsi. I due uomini erano uno sull’altro, immobili, eppure le loro braccia vibravano per l’immane sforzo. Il filo del pugnale danzava macabro su e giù, scintillando malevolo al chiarore diffuso dalle lucerne, mentre il sangue imbrattava il viso contorto del princeps peregrinorum, scorrendo fra le ciocche dei suoi ricci corvini e cominciando a scivolare lentamente verso la zona degli occhi. D’un tratto Aurelio spinse con tutto il proprio peso, distaccandosi dalla sagoma di Macrino e puntellandosi esclusivamente sulle dita dei piedi. Allora Trebonio cercò di serrare i gomiti per opporre un’ulteriore resistenza ma la stanchezza e il dolore erano troppo stringenti per continuare a difendersi in quella posizione di netto svantaggio. Lenta e inesorabile, la lama cominciò a calare verso la sua gola. L’arma aveva appena lacerato il primo strato di pelle, quando un boato riempì l’ufficio del comandante dei vigili di Liternum.
«Getta il pugnale, Aurelio!», ordinò il siculo, piombando in un attimo alle spalle dell’ufficiale e piazzandogli la punta del suo gladio nel fianco. «È finita, Pulcro!», ingiunse pieno di livore il nobile Afro, sudato e con il volto arrossato. A quel punto Pulcro si gettò oltre il fianco sinistro del suo avversario, poi abbandonò l’arma e si sdraiò sul pavimento, liberandosi dalla tensione dello scontro in lunghi respiri affannosi e con le braccia perpendicolari al corpo. Trebonio s’issò in piedi con enorme fatica. Il suo volto era una maschera di sangue e il livido allo zigomo si era esteso fin sotto la guancia. Mantenendosi il ventre, si avvicinò alla figura di Labieno, intento a controllare anche il più minuto movimento dell’omicida, e gli sussurrò all’orecchio. «Sapevo che saresti arrivato in tempo.» «Davvero?», domandò accorato il siculo, senza distogliere lo sguardo e la punta del gladio dalla sagoma oramai inerme e silenziosa dell’assassino.
«Ovviamente no. Anche se ho pregato gli dèi affinché potessi rivederti.»
Epilogo
Minturnae, quattordici giorni alle calende di ottobre. Lungo la Regina viarum.
La fievole luce dell’alba cominciava a diluire con timidezza gli ultimi avanzi di oscurità di una notte tormentata e incredibilmente lunga. Macrino sforzò lo sguardo oltre l’impalpabile cortina lattiginosa che andava lentamente ispessendosi a poche pertiche dalle loro cavalcature: era esausto, affamato e con il viso tumefatto da un gonfiore grottesco, eppure smaniava per giungere al più presto nell’Urbe. Stringendo le gambe intorno al torace del suo corsiero, il princeps peregrinorum schioccò con forza le redini e puntò deciso lo scorcio di lastricato che si apriva davanti ai suoi occhi. Il cavallo si lanciò al galoppo, seguito dappresso dai purosangue di Labieno e Bibulo, imbacuccati entrambi in spesse cappe di lana grezza. Mentre i basoli dell’Appia Antica sfilavano veloci sotto gli zoccoli ferrati del suo cavallo, Trebonio si esasperava taciturno, ripensando all’interrogatorio della notte precedente e alle incredibili rivelazioni estorte all’assassino. Poco dopo l’arresto, Aurelio Pulcro era stato tradotto nelle segrete dell’Anfiteatro cittadino e lì era stato torchiato a dovere per diverse ore dal capo dei frumentari, alla presenza dello speziale e del nobile duumviro di Liternum.
Fin dalla cattura, il capo dei vigiles si era trincerato dietro un ostinato mutismo e allora dalle minacce si era rapidamente ati ai fatti. Denudato e legato mani e piedi ad alcuni ceppi collegati a una fredda parete in muratura, l’omicida aveva subito l’abilità persecutrice del minaccioso Massavone, l’ostiarius trace di Afro con un ato da inviso carnefice di piazza. Così, al chiarore soffuso dei
funalia, la figura imponente del portiere aveva cominciato ad armeggiare con i suoi lugubri giocattoli di tortura. Durante la prima ora, Aurelio aveva resistito stoicamente alle vigorose scudisciate del suo aguzzino, vibrate con incontenibile impeto tramite un lungo staffile dal manico in cuoio. Poi era stata la volta della mazza chiodata, la cui estremità a punta aveva sfregiato in lungo e in largo la schiena già sanguinante del folle omicida. Tuttavia l’assassino non aveva ancora aperto bocca, limitandosi a gemere sommessamente e a mordersi a sangue le labbra per cercare di sopportare quel dolore immenso e prolungato.
«Ora tocca a me!», aveva sogghignato a un tratto Trebonio, abbandonando le sbarre alle quali era poggiato e sfilando un lungo marchiatore in bronzo dalle mani di Massavone. «Fammi un piacere», aveva sussurrato il capo dei frumentari nelle orecchie di un Pulcro semisvenuto a causa delle continue sevizie, «continua a tenere quella bocca chiusa, così avrò una scusa per farti crepare dallo spasimo.»
Dopo aver reso incandescente l’estremità squadrata della stanga di metallo, Macrino l’aveva spinta senza pietà nel ventre nudo del suppliziato. Lo sfrigolio si era unito a un pesante odore di carne bruciata e alle grida disperate del condannato, che si contorceva fra atroci sofferenze.
Trebonio sembrava essere caduto preda di un demone oscuro e vendicativo e aveva continuato senza sosta a martoriare il petto, le braccia e l’inguine del suo ex compagno d’indagine, incurante delle angosciose urla latrate dal prigioniero, con voce stravolta dall’infinito tormento. Al quarto orribile affondo del capo dei frumentari, Pulcro aveva perso conoscenza. A risvegliarlo ci aveva pensato una violenta secchiata di urina, scaraventatagli addosso dall’imibile Massavone, ancora accalorato e sudaticcio per il prolungato sforzo profuso nel suppliziare puntigliosamente il colpevole. «Staccagli le unghie e i pollici», aveva scandito a quel punto Macrino all’ostiarius di Afro, «però usa la tenaglia, intesi?» Labieno si era quindi avvicinato alla sagoma vermiglia che giaceva
apparentemente esanime legata alla parete di fondo della cella e aveva intimato a Pulcro di destarsi, preparandosi a una nuova ondata di atroci sofferenze. Si era andati avanti con quello stillicidio per circa mezza clessidra, quindi l’assassino aveva alzato bandiera bianca, collassando definitivamente nello spirito e nella mente.
«Basta», aveva implorato Aurelio con un filo di voce, «vi racconterò tutto, lo giuro!» Così la fucina del dolore aveva arrestato di colpo la sua intensa attività, lasciando spazio alle confessioni estorte a caro prezzo dalla bocca colma di sangue del comandante dei vigili della colonia. Le parole di Pulcro avevano lasciato tutti attoniti, tanto che inizialmente Afro e Trebonio avevano ipotizzato un ultimo, penoso tentativo di sviare la realtà dei fatti. Come se il condannato a morte volesse, con quella storia fantastica, celare il vero movente delle sue azioni scellerate. Poi, man mano che la narrazione andava avanti, dopo che erano stati fatti nomi e forniti particolari, l’espressione degli astanti era diventata cupa e una profonda inquietudine si era dipinta sui loro volti. Sette vittime per coprire un’assurda congiura. Questo era in sintesi il crudele risultato che andava profilandosi alla fine di quella lunga e impegnativa indagine. E il motivo di tutto era riuscire ad allontanare il princeps peregrinorum dall’Urbe, tenendolo impegnato fuori dalla Capitale per un periodo sufficiente a portare a compimento un complotto ai danni dell’imperatore, il divino Domiziano.
Pulcro era stato convocato pochi mesi prima a Roma, all’Esquilino, e qui aveva ricevuto disposizioni dal prefetto del pretorio in persona, l’astuto Petronio Secondo. Il calvo ufficiale gli aveva affidato un delicato incarico: Aurelio avrebbe dovuto cominciare a eliminare le lupe che prestavano servizio nel postribolo gestito da Voreno e di proprietà di Ottavio Titinio Capitone, segretario personale del divino Augusto. In cambio dei suoi servigi, a cose fatte, il capo dei
vigili di Liternum sarebbe diventato proprietario di una piccola abitazione, situata dalle parti dell’Aventino, e avrebbe ricevuto un compenso di circa centomila sesterzi. Per quanto riguardava Capitone, il procurator ab epistulis faceva parte dei congiurati e sarebbe spettata a lui l’incombenza di convincere Domiziano a inviare nella colonia Macrino. Capitone avrebbe presentato il tutto come una sorta di richiesta di favore personale a Domiziano che, assecondandolo, si sarebbe però privato, inconsapevolmente, dell’unico ostacolo che poteva opporsi al buon compimento della congiura. Negli anni, i comandanti dei pretoriani si erano succeduti con incredibile rapidità. La maggior parte di loro era stata condannata a morte, altri erano stati imprigionati o sospesi dall’incarico, accusati di cospirare contro la figura inviolabile dell’Augusto. Di loro non ci si poteva fidare pienamente. Ecco perché Gaio Trebonio Macrino doveva essere mandato fuori Roma. Infatti, sebbene il figlio di Vespasiano foraggiasse adeguatamente la sua guardia personale, coprendola di doni e favori, Domiziano teneva sempre gli occhi ben aperti sulle truppe destinate alla protezione della propria persona e sovente aveva incaricato lo stesso capo dei frumentari di indagare fra le loro file, in modo da scoprire i pensieri più reconditi dei legionari deputati alla sua difesa. Il princeps peregrinorum era al comando di svariate centinaia di uomini, tutta gente scaltra e ben addestrata, proveniente dalle diverse province dell’impero, e sarebbe bastato un semplice ordine di Trebonio per far cingere d’assedio la Domus Augustana in caso di pericolo imminente per l’imperatore. Macrino quindi doveva essere allontanato a tutti i costi con un subdolo espediente… e quale migliore pretesto poteva esserci oltre a una missione affidatagli con particolare premura da Domiziano in persona? Dopo i primi, inspiegabili omicidi avvenuti nella prospera e tranquilla Liternum, Ottavio Titinio Capitone era riuscito a portare a termine il suo arduo compito. Mostrandosi preoccupato per un eventuale scandalo che lo avrebbe costretto all’esilio, il segretario personale di Domiziano aveva persuaso l’imperatore con le sue preghiere e questi si era lasciato convincere a impiegare il suo uomo di punta al fine di evitare un vergognoso epilogo. Cosa ne sarebbe stato della dignitas dell’imperatore se il suo più fidato collaboratore fosse stato travolto da una simile sudiceria? Norbano e Petronio, prefetti del pretorio. E poi Partenio, Massimo, Clodiano, Saturio, Stefano e perfino Domizia a… In sostanza, l’intera corte era implicata nel complotto.
«Sarebbero bastati soltanto altri due giorni», aveva concluso esausto Aurelio Pulcro, «e la colonia non avrebbe più sentito parlare dello squartatore delle prostitute. Quando ho saputo invece che avevi intenzione di arrestare Spurinna e Upilio trascinandoli velocemente con te a Roma, ho capito che avrei dovuto colpire un’ultima volta. Non potevi abbandonare Liternum prima del fatidico giorno, avresti mandato in fumo tutti i loro piani. Questa è la realtà dei fatti, non ho altro da confessarvi. Adesso chiedo solo la grazia di una morte veloce, lontano dagli sguardi infiammati d’odio della gente. Fallo per mio figlio e per mia moglie, Macrino: non renderli vittime di una storia nella quale non c’entrano in alcun modo. Non permettere che lo sdegno e la denigrazione investano a vita le loro figure innocenti.» Trebonio, nonostante tutto, gli aveva concesso l’onore di una dipartita rapida e in sordina. La lama del suo gladio aveva traato il cuore di Pulcro con una celerità fulminante e l’assassino non aveva avuto neanche il tempo di emettere un ultimo gemito liberatorio. Il folle omicida delle lupe, colui che aveva terrorizzato per settimane la colonia, era finalmente spirato e Liternum sarebbe potuta tornare a riprendere la propria vita tranquilla.
Roma, quattordici giorni alle calende di ottobre.
Nella Domus Augustana.
Oppresso fin dalle prime luci dell’alba da un’astrusa agitazione, il divino figlio di Vespasiano abbandonò velocemente il podio incassato in corrispondenza dell’abside semicircolare e, dopo aver ordinato al praefectus della Città di portare a termine in suo conto i restanti tre processi, si affrettò a imboccare il vano di collegamento fra l’austera basilica Flavia e il limite settentrionale dello spazio destinato ai giardini. Alle sue spalle, le figure di Norbano e Capitone anticipavano di qualche o i quattro enormi pretoriani che, bardati in assetto da guerra, solevano accompagnare ovunque la prestante figura dell’imperatore. Fiancheggiata la lunga colonna di siepi e arbusti variopinti, interrotta nella mezzeria da tre splendide fontane in stile repubblicano, l’Augusto infilò l’ampio corridoio affrescato che conduceva oltre la sala dei banchetti.
«Che ora è?», domandò pensieroso al capo dei pretoriani, mentre si dirigevano verso l’ala del palazzo approntata con i suoi alloggi privati. «L’ora sesta, domine», mentì serafico Norbano, guardandosi bene dall’incrociare lo sguardo penetrante dell’imperatore. Le labbra di Domiziano si schio in un debole sorriso e i lineamenti del suo viso parvero rilassarsi, come raggiunti da una sorta di inaspettato sollievo. «Bene», flautò in tono appagato l’Augusto, «porta via i tuoi uomini e lasciami solo con Ottavio.» Norbano salutò deferente e fece segno ai quattro legionari di seguirlo verso il Lararium. «Hai visto, amico mio? Avrei dovuto imputare a quel maledetto Largino Proclo la stessa misera fine cui ho destinato lo sfrontato Ascletarione», esordì gioviale il regnante. «Non capisco, divino Augusto», si schermì interdetto il procurator ab epistulis, mentre cercava di tenere il o rapido del suo interlocutore senza far crollare l’alta pila di rotoli sotto la quale erano seppellite le sue braccia. «Come, non ricordi? L’aruspice che ho fatto imprigionare perché ciarlava tanto sull’ora del mio trao», ridacchiò di gusto Domiziano. «Considerando la data e l’ora predette da quella sprovveduta civetta, adesso dovrei essere disteso esanime sul pavimento… Che caprone insolente! Vedrai che bello spettacolo offrirà il suo corpo quando domani ordinerò che sia crocifisso e poi bruciato di fronte al portone della basilica Giulia!» Il procurator si limitò ad assentire senza convinzione e intanto il volto gli si copriva di un inspiegabile pallore, rendendo il suo incarnato simile a quello di una delle tante statue di marmo poste ai lati del lungo andito che stavano percorrendo. Giunti a pochi i dall’elegante cubicolo destinato al suo riposo pomeridiano, l’imperatore liquidò alla svelta il segretario personale, dandogli appuntamento per l’ora undecima all’interno della biblioteca latina. Quindi coprì la breve distanza che lo divideva dal portone della camera e attese che i due gladiatori posti ai lati dell’ingresso si inginocchiassero al suo cospetto. Primo e Turno non
delo le aspettative dell’Augusto e, dopo essersi lanciati in quel saluto tanto untuoso, gli aprirono velocemente i battenti della stanza. Prima di sprofondare nel solitario piacere della lettura, comodamente sdraiato sul soffice letto di piume, Domiziano si avvicinò all’ingresso secondario del suo rifugio, quello che dava sulla gradinata d’accesso al piccolo giardino a pianta circolare. Le voci soffuse di Galieno e di Ventidio il gallico giungevano ovattate all’interno dell’alloggio, attraversando lo spessore dell’alto divisorio rinforzato in bronzo. Rassicurato dalla presenza dei quattro gladiatori su entrambi gli ingressi, l’imperatore si sdraiò sull’alto cubile, si slacciò le eleganti solae dorate e cominciò a dedicarsi alla sua attività preferita. L’orologio ad acqua, posto di fronte alla statua di Minerva vincitrice, aveva appena fischiato l’ora nuova quando dei colpi decisi risuonarono all’esterno del cubicolo imperiale. Sobbalzando, l’Augusto fece scivolare la destra al di sotto del mucchio di morbidi cuscini sui quali teneva poggiato il capo e, con voce allarmata, gracidò stizzito il nome Primo.
Il bestione dal capo rasato scostò timidamente il battente dell’ingresso principale e si affrettò a spiegare il motivo di quel bussare insistente. «Qui fuori c’è il liberto Stefano, domine», interloquì rapido l’uomo dell’arena, «dice di doverti parlare con urgenza. Sembra nervoso e ha bofonchiato qualcosa a riguardo di un grave pericolo.» «Attendi un po’ e poi lascialo are», ribatté asciutto Domiziano, alzandosi velocemente dal giaciglio e recuperando il suo posto dietro un tavolo in porfido rosa, mezzo ricoperto di preziose opere letterarie. Tra i tanti cortigiani che frequentavano il palazzo imperiale, l’ex procuratore dei beni di suo cugino, il defunto Flavio Clemente, era sicuramente quello che più gli era sgradito. Sempre uggioso e con l’aria angustiata, concedergli udienza a quell’ora sarebbe stato davvero ammorbante. Giusto il tempo di srotolare l’autografo dell’Agamemnon di Seneca, e Primo tornò a picchiettare con decisione alla porta dell’alloggio. «Fallo are, dannato scocciatore!», gracchiò infastidito Domiziano, distogliendo lo sguardo dalla prefazione della tragedia.
A quel punto la sagoma smilza e sudaticcia di Stefano sgusciò all’interno della camera, presentandosi con un inchino appena accennato. Il liberto indossava la solita tunica scura e portava il braccio sinistro piegato in prossimità del petto, avvolto in una vistosa fasciatura di lana mista a bende. I tratti del suo viso erano tirati e appariva parecchio agitato. «Non posso concederti troppo tempo», chiarì subito scostante l’Augusto, «quindi sii coinciso, di qualunque cosa tu debba parlarmi.» «Non mi servono troppe parole, divino Domiziano», esordì febbrile Stefano, avviandosi spedito al desco marmoreo e sventolando davanti agli occhi un piccolo rotolo, di poco più grande di un codicillo. «Sono solo venuto a mostrarti le prove di un’orribile congiura!» «Cosa?», esclamò attonito l’imperatore. «Parla, in nome di Minerva! Chi attenta alla mia vita?» «Clemente è vivo, domine, e ancora adesso cospira contro di te!», replicò con sicurezza Stefano, affiancando la sagoma seduta dell’Augusto e andogli l’infausto papiro. «Qui sono elencati i nomi dei suoi complici…» Domiziano, a dir poco turbato da quell’affermazione, si fiondò con avidità sul rotolo mostratogli dal liberto e cominciò a leggerne con trepidazione il contenuto. Un movimento infido da braccio a braccio, seguito da un luccichio improvviso e sinistro.
Domiziano ebbe appena il tempo di ruotare istintivamente il busto per alzarsi. Poi una fitta lancinante all’inguine gli troncò di netto il respiro e la mano corse nella zona interessata dallo spasimo, mentre la candida toga di lino si tingeva già di grosse macchie vermiglie. «Bastardo traditore!», ringhiò arrochito l’Augusto, lanciandosi furente contro il suo insospettabile assalitore. Stefano, non contemplando quella rabbiosa reazione, cadde sotto il peso della propria vittima. Ai piedi dell’elegante scrittoio dell’imperatore, distesi sul freddo pavimento mosaicato, due corpi avvinghiati si dimenavano convulsamente accecati dalla violenza. Il liberto cercava di
affondare in ogni modo la lama nel petto di Domiziano ma i suoi ripetuti tentativi andarono a vuoto, contrastati dal vigore fisico dell’avversario. Le mani insanguinate e ricoperte di ferite, l’Augusto combatteva strenuamente contro il liberto, cercando di disarmarlo e di are così al contrattacco. A un tratto l’imperatore riuscì a far scorrere le sue dita sul viso stravolto dalla fatica di Stefano e lo accecò, fracassandogli ripetutamente la testa sull’impiantito. Sfruttando l’immobilità del nemico, Domiziano riuscì ad abbandonare la sua posizione. Poi, tenendo la destra ben stretta sulla zona della cresta iliaca, l’imperatore si trascinò verso l’alto giaciglio e gettò all’aria la lunga serie di cuscini che nascondevano il suo gladio. Un profondo terrore l’avvolse nel suo mortale abbraccio: della sua fedele spada non restava che il manico intarsiato d’ebano e rubini! Seguì un doppio, fragoroso schianto e i due ingressi al cubicolo si spalancarono a sorpresa. Con il viso stravolto dalla fatica e dalla paura, Domiziano cercò di voltarsi di scatto verso l’entrata principale, gridando a gran voce il nome di Norbano. Nello stesso istante in cui l’Augusto finì di sillabare la sua ultima speranza, una seconda lama gli traò con violenza il braccio sinistro, facendolo gemere per il dolore. Aggrappato ostinatamente alle lenzuola del cubile, l’imperatore scivolò sotto le pugnalate dei nuovi venuti, mentre i lamenti strazianti di Stefano rimbombavano cupi e inascoltati per l’ampia camera da letto dalle pareti mirabilmente affrescate. Clodiano lo colpì al braccio, Saturio al fianco destro, e poi Primo, Galieno, Turno e Ventidio il gallico… Perfino Massimo, liberto di Partenio, volle infilzare il corpo oramai esanime dell’empio tiranno, infilandogli il pugnale alla base della gola. All’arrivo dei pretoriani, i congiurati erano già fuggiti fuori dalla residenza imperiale, dispersi tra i mille vicoli senza volto che attraversavano l’Urbe. Sul momento, a pagare per tutti fu il solo Stefano. Al liberto, ancora disteso lungo il pavimento lordo di sangue, fu recisa la testa di netto ed esposta su di una picca all’esterno del Lararium.
Fu ucciso il diciottesimo giorno del mese di settembre, nell’anno quarantacinquesimo della sua vita, e quindicesimo del suo impero. Il suo cadavere fu trasportato in una bara comune dai becchini, e la nutrice Fillide gli rese le estreme onoranze funebri nel suo fondo suburbano sulla via Latina;
quindi portò di nascosto i resti nel tempio della gente Flavia, e li mescolò con le ceneri di Giulia, la figlia di Tito, che era stata pure allevata da lei (Le vite dei dodici Cesari, Svetonio).
Glossario
Aesculus Hippocastanum: corrisponde al moderno ippocastano, le cui proprietà officinali erano già conosciute nell’antichità. Anagnostes, era lo schiavo addetto alle declamazioni e alle letture di fronte al pubblico. Angiportus, galleria costruita sotto un edificio che metteva in comunicazione due strade. Anche oggi termine usato per definire la medesima struttura architettonica (angiporto). Apex: copricapo di cuoio bianco dalla strana foggia: alla sua sommità era munito di un ramoscello di ulivo al quale era attaccato un filo di lana rosso. Apodyterium: spogliatoio delle terme (sia private che pubbliche). Arca: contenitore, cassapanca, utilizzata dai romani per riporre oggetti e suppellettili, vestiti compresi. Argiletum: antica strada dell’Urbe, corrispondente alle attuali via Leonina e via della Madonna dei Monti, che metteva in collegamento la Suburra con il Foro Romano. Aricia: antica città romana corrispondente all’odierna Ariccia. Asinella: sinonimo di prostituta. Famose le asinellae di Pompei. Augustus: era l’appellativo assunto da Caio Giulio Cesare Ottaviano; oltre agli attributi di Imperator e Caesar, il termine Augustus entrò nella titolatura imperiale divenendo un vero e proprio nome che designava il “monarca” in carica (anche se la Roma imperiale non fu mai una monarchia in senso stretto). Aula Regia: edificio del complesso dei palazzi imperiali di Roma, fatto costruire all’interno della domus Augustana da Domiziano. Era in pratica la sala del “trono”.
Aurifices: di artigiani dediti al commercio di monili, gioielli, bigiotteria, autoprodotti o acquistati da terzi. Buccolae: orecchini a cerchio, solitamente in pasta vitrea. Bulla: ciondolo che, nel caso dei fanciulli, racchiudeva spesso delle invocazioni contro la malasorte.
Caenaculum (pl. caenacula): era così chiamato il piccolo appartamento – o la semplice stanza – delle insulae che veniva solitamente affittato dai più poveri. Calceus (pl. calcei): tipica calzatura romana simile ai nostri stivaletti. Era obbligo indossarlo in pubblico sia per gli uomini sia per le donne, mentre era proibito agli schiavi. Ne esistevano di differenti tipi e fogge, a seconda della modalità di utilizzo o dello status del suo possessore. Calidarium: nelle terme romane, era la zona destinata ai bagni con l’acqua calda. Caligae: calzature dotate di suole con chiodi, in uso presso i soldati romani.
Capsa: contenitore protettivo per rotoli di papiro, in cuoio e dotato di coperchio. Cardo maximus: nelle città romane intersecava il decumanus maximus. Castra Peregrina: ubicati sul colle Celio, erano gli acquartieramenti dei frumentarii e degli speculatores, ossia dei “servizi segreti” dell’impero, di stanza a Roma. Dei due reparti, i cui elementi erano comunque dislocati in tutte le province, facevano parte legionari di vario grado che si erano particolarmente distinti al servizio dello stato. Gli speculatores erano i veri e propri “addetti” allo spionaggio, raccogliendo informazioni. Omologhe le funzioni dei frumentarii (vedi). Castra Pretoria: indicavano il complesso militare che ospitava buona parte della guardia pretoriana di Roma. Era anche la sede degli uffici del prefetto del pretorio (o dei prefetti, nei momenti in cui la carica era ricoperta da due persone contemporaneamente).
Caupona: bettola, taverna. Cerussa: intruglio di biacca e miele utilizzato per abbellire il volto. Cillibae: tavole rotonde usate nei banchetti. Cinaedus: presso gli antichi era così definito un ballerino effeminato e, per estensione del termine, chiunque avesse inclinazioni omosessuali. Clanius: fiume campano corrispondente all’attuale Clanio. Clivus Suburanus: collegato all’Argiletum, rappresentava il principale asse stradale della Suburra. Seguiva le pendici del colle Cispio, dividendolo dal colle Oppio, per terminare presso la Porta Esquilina. Corrisponde in buona sostanza all’attuale tratto che va da via in Selci a via di San Martino ai Monti. Colonia: era un territorio extra cittadino di Roma; le colonie romane erano diretta propagazione della madrepatria e situate in tutto il territorio soggetto al governo romano. Erano rette da una serie di funzionari di nomina locale tra i quali i più importanti erano i duumviri o duoviri (vedi). Codicillus: si trattava di scritti di carattere perlopiù privati, su papiro o tavoletta. Compluvia, plurale di compluvium: nelle dimore degli appartenenti ai ceti abbienti, in corrispondenza del soffitto dell’atrio, i romani solevano far costruire ampie aperture rettangolari che immettevano luce nel caseggiato. La vasca sottostante che raccoglieva le acque piovane era detta impluvium. Consilium principis: era un organo informale che raggruppava i maggiori consiglieri dell’imperatore. Era composto dagli amici del princeps e dai magistrati più importanti. Aveva semplice carattere proposito e consultivo.
Conticinium: per gli antichi Romani era quella fascia del giorno che abbracciava all’incirca il periodo tra le 4.00 e le 5.00 del mattino. Cosmetica: era così definita a Roma un’estetista. Decumanus maximus: nell’urbanistica romana rappresentava l’asse stradale
che congiungeva la parte ovest con quella est della città. Decuriones (sing. decurio): erano rappresentanti cittadini che amministravano una colonia o un municipium. Dal decurionato, composto dagli uomini più influenti e ricchi, erano tratti i magistrati annuali quali duumviri o quattuorviri. Dignitas: l’insieme dei requisiti morali che garantivano all’individuo il rispetto da parte della comunità. Dilicum: per gli antichi Romani era quella fascia del giorno che abbracciava all’incirca il periodo tra le 17. e le 18. Dolabrum: speciale attrezzo demolitore, utilizzato di solito dagli effractores (ladri con scasso). Dolia (sing. Dolium): erano capienti contenitori circolari utilizzati per conservare le vivande. Dominus (anche domine): appellativo che gli schiavi, e anche i liberti sovente, attribuivano al loro padrone (o ex padrone). Non aveva alcuna connotazione religiosa e rappresentava solo un modo deferente di porgere la parola al proprio signore. Domus: la casa signorile dei romani, composta di diversi ambienti, spesso munita di terme e fontane interne.
Duumvir (o duovir): era il principale magistrato di una colonia (vedi) romana; la coppia di duoviri veniva eletta annualmente con possibilità di iterazione del mandato. Diversamente dalla colonia, il municipium romano era retto da quattuorviri. Editor: colui che organizzava – o finanziava – i ludi gladiatori o gli altri spettacoli del circo. A Roma, di norma, a partire dal I secolo d.C. fu prerogativa quasi esclusiva dell’imperatore, che delegava le questioni pratiche a propri procuratores.
Emporium: a Roma era chiamato così l’antico porto fluviale sulle banchine del quale erano sbarcati tutti i generi di prima necessità per la sopravvivenza dell’Urbe. Ergastulum (pl. ergastula): era l’ambiente rurale nel quale venivano rinchiusi gli schiavi dopo il lavoro nei campi. Per estensione il termine andò a designare tutti quei luoghi malsani o invivibili. Familia: indicava il gruppo di persone che appartenevano a uno stesso ceppo parentale. Più famiglie (per esempio i Cornelii) formavano una gens. In senso lato indicava anche gli schiavi che vivevano sotto uno stesso tetto. Familia rustica: era il gruppo di schiavi appartenenti allo stesso proprietario e delegati ai lavori agricoli. Fannianus (o Fanniana): particolare tipo di papiro prodotto in una fabbrica di rotoli (horrea chartaria) da un certo Fannio, famosa per i prodotti particolarmente leggeri e levigati. Flamen dialis: era il sacerdote del culto di Giove. Oltre al flamine che risiedeva a Roma (e che poteva sedere in Senato), in ogni città dell’impero esisteva un addetto al culto di Giove che ricalcava le funzioni di quello dell’Urbe. Formiae: antica città romana corrispondente all’odierna Formia. Frumentarius: distaccato dalle legioni, il miles frumentarius era una sorta di agente segreto il cui compito era quello di osservare e riferire. Come gli speculatores (vedi), i frumentarii alloggiavano, se di stanza a Roma, nei Castra Peregrina (vedi) e si trovavano sotto il comando del princeps peregrinorum (vedi). Gaditana: danzatrice originaria di Gades, in Spagna, molto apprezzata per la sua maestria nella Roma imperiale. Galea: elmo tondo a calotta liscia che non offriva appigli. Ne esistevano di diverse fogge e materiali. Gallicinium: il canto del gallo, serviva a indicare l’ora posta tra le 3 e le 4 di notte e che precedeva l’alba.
Garum: intingolo composto di vari ingredienti con cui i romani solevano condire diverse loro pietanze. Gustatio: nei banchetti rappresentava l’antipasto. Impluvium, vedi compluvia. Inaures: tipici orecchini romani. Inclinatio: per gli antichi romani era quella fascia della notte che abbracciava all’incirca il periodo tra le 24 e l’una. Insula: caseggiato a più piani, parte in muratura, parte in legno, prevalentemente abitato ai piani superiori da gente di modesta condizione economica; al piano terra, di solito, erano collocate attività commerciali. Iugerum (pl. iugera): unità di superfice dei romani corrispondente a circa un quarto di ettaro. Lacus Albanum: l’attuale lago Albano, nei pressi di Albano e Castel Gandolfo. Lanista: designava il proprietario o il responsabile della palestra (ludus) in cui si addestravano i gladiatori. Lararium: edificio del complesso dei palazzi imperiali di Roma, un tempo ritenuto sede dei numi tutelari della famiglia imperiale. Più probabilmente ospitava un corpo di guardia di pretoriani. Legatus Augusti: nel cursus honorum dei senatori, in epoca imperiale, il legato di Augusto designava colui che, dopo la pretura, era inviato a comandare una legione (legatus Augusti pro praetore legionis) oppure una provincia di rango pretorio (legatus Augusti pro praetore provinciae). Di norma, dopo questo incarico, si accedeva al consolato. Libertus: nell’antica Roma era un ex schiavo affrancato, reso dunque libero dal proprio padrone e, automaticamente, divenuto cittadino romano con tutti i benefici che ne conseguivano. I liberti non potevano adire alle principali magistrature dello stato (consolato, pretura, etc.), ma potevano partecipare a quelle provinciali (nelle colonie e nei municipia), intrattenere qualsiasi tipo di commercio e i loro figli, in ogni caso, sarebbero divenuti cives romani optimo
iure, ossia cittadini a tutti gli effetti senza alcun tipo di restrizione giuridica. Libum: focaccia assai apprezzata dai romani. Literna palus: corrispondente all’attuale Lago Patria. Liternum: antica città romana presso Lago Patria, frazione di Giugliano, in Campania. Lorica: era la tipica corazza in uso presso i soldati romani. Ne esistevano di varie tipologie: segmentata, hamata, squamata etc. Ludus Magnus: situato presso il Colosseo (Anfiteatro Flavio), era la maggiore palestra (ludus) dei gladiatori di stanza a Roma. Macellum: a Roma erano così designati taluni mercati che prendevano il nome dei loro costruttori o patroni (es. Macellum Liviae) o che venivano designati per la tipologia di merci contrattate. Era anche sinonimo di horrea e mercati (es. Horrea piperatica, Mercati Traiani etc.). Libitinarius: era colui che lavorava (o gestiva) le pompe funebri. In senso lato designava colui che si occupava di rimuovere i cadaveri (per esempio dopo i giochi gladiatori). Magnarii: mercanti dediti al commercio di olio, grano, vino. Mangones: mercanti dediti al commercio degli schiavi. Mania: divinità romana di origine etrusca che impersonificava la morte. Media noctis: per gli antichi Romani era quella fascia della notte che abbracciava all’incirca il periodo tra le 01.00 e le 02.00. Mimula: veniva così definita una attrice femmina che recitava in una pantomima. Ministratores: domestici destinati alla sala, erano scelti in base all’abilità e all’avvenenza. Mola salsa: farina di spelto bagnata nella salamoia.
Moretum (pl. moreta): erano focacce salate alle erbe e al formaggio, di uso comune. Mulsum: vino mielato, a volte con l’aggiunta di spezie come il pepe. Narnia: colonia romana corrispondente all’attuale Narni. Naumachia: rappresentazione di una battaglia navale.
Nocte concubia: era la fascia della sera che abbracciava all’incirca il periodo tra le 21.00 e le 22.00. Nocte intempesta: corrispondeva alla fascia della sera che abbracciava all’incirca il periodo tra le 22.00 e le 23.00. Nomentum: antica cittadina romana della Sabina, nei pressi dell’attuale Mentana. Norba Latina: antica città romana presso l’attuale Norma. Nundinium: era l’intervallo di otto giorni che intercorreva tra una giornata di mercato e l’altra, utilizzato dai romani come sinonimo della nostra settimana. La settimana intesa in senso moderno, e la suddivisione dei mesi in frazioni di sette giorni, è attestata in alcuni casi già nel I secolo d.C. ma si diffonderà solo a partire dal II e diverrà ufficiale, sostituendo il calcolo nundinale, solo a partire dal 321 d.C. Ora: la scansione delle ore per i romani era differente da quella moderna. All’incirca questa era la ripartizione: tertia vigilia (24.00-03.00), quarta vigilia (03.00-06.00), hora prima (06.00-07.00), e così via fino all’hora duodecima (17.00-18.00), cui seguivano la prima vigilia (18.00-21.00) e secunda vigilia (21.00-24.00). Orchestra: nel teatro greco e latino era la zona destinata al coro e alle danze. Oscilla (sing. Oscillum): erano piccole sculture (di pietra ma anche in terracotta, legno o pasta vitrea) di solito appese come doni votivi agli alberi. Venivano anche utilizzate come decorazioni e nelle case delle persone abbienti.
Opitulus: uno fra i tanti epiteti usati per indicare Giove, in questo caso inteso come “il soccorritore”. Ostiarius: tra i servi di una casa era l’addetto alla porta principale. Per estensione indicava anche il portiere di uno stabile. Paenula: era una sorta di mantella, meno elegante del pallium, munita di un cappuccio. Consentiva una maggiore possibilità di movimento. Pancratius: era un tipo di lotta già in voga presso i greci. Pandateria (o Pandataria): antico nome dell’isola di Ventotene. Pantomimus: nell’antichità greca e romana era uno spettacolo affidato all’azione mimica di un attore, accompagnato da musica e, a volte, da una voce narrante le azioni sulla scena. I greci lo chiamavano danza italica. Patinae pisci: padelle colme di pesci, ricche di triglie, gamberi e tocchetti di polpo Patres (sing. pater): inteso come sinonimo di “padre della repubblica”, ossia appartenente all’ordo senatorius, il massimo consesso amministrativo e politico dell’Urbe. Dalle sue fila erano tratti i magistrati civili (consoli, proconsoli, pretori, tribuni etc.) e i quadri dell’esercito (legati di legione, tribuni laticlavi, etc.). Si distinguevano dall’ordo equestris, i cavalieri (che fornivano un’altra categoria di funzionari statali specializzati), per la banda di tessuto del loro abito (detto laticlavus), più grande rispetto a quello dei cavalieri (che portavano l’angusticlavus).
Pavonazzetto: marmo colorato a fondo biancastro, con venature e macchie purpuree. Pomarii: mercanti dediti al commercio di frutta e verdura. Popina: chiamata più comunemente thermopolium, era un’osteria posta solitamente all’incrocio di due strade. Alcune di esse possedevano doppia entrata e la maggior parte affacciavano sulla via con i loro caratteristici banconi a “L”.
Porta Capena: non più esistente, si trovava all’altezza dell’attuale piazza Capena, a Roma. Porta Viminalis: era una delle più antiche di Roma e si trovava tra la Porta Collina e l’Esquilina, a difesa di uno dei tratti delle Mura Serviane. Praefectus annonae: nel periodo imperiale era un funzionario addetto all’approvvigionamento di Roma.
Praefectus Urbis: era uno dei massimi magistrati della Roma imperiale. La sua giurisdizione si estendeva per 100 miglia in tutte le direzioni dal centro dell’Urbe. Era sempre un ex console. Praefectus vigilum: il prefetto dei vigili, a Roma, era tratto dall’ordine equestre e comandava le coorti di uomini addetti a spegnere gli incendi e a controllare negli orari notturni le vie della città. Prandium: era il pasto che si consumava intorno alle ore 12. Prima fax: così indicavano i romani le ore che vanno all’incirca dalle 20 alle 21. Primae mensae: dopo gli antipasti, nei banchetti, era il vero e proprio pasto, ossia quello costituito dalle pietanze principali. Princeps peregrinorum: comandante dei reparti dei frumentarii (vedi) e degli speculatores (vedi), di stanza a Roma, ossia della “polizia” e dei “servizi segreti” dell’impero, il cui compito era: osservare, documentare, riferire qualsiasi cosa potesse avere interesse per la sicurezza dello stato. I componenti di queste unità erano tratti dalle legioni. Il princeps, il cui grado all’interno di una legione era equiparabile a quello di centurione primipilo, era il sovrintendente dei Castra Peregrina (vedi) e responsabile unico della gestione delle risorse a sua disposizione. Procurator a cognitionibus: era lo speciale funzionario che si occupava di seguire i processi in cui era giudicante l’imperatore in persona. Svolgeva anche altre mansioni di segreteria.
Procurator a rationibus: era un funzionario addetto al fisco. Procurator ab epistulis et patrimonio: segretario speciale dell’imperator, tra gli svariati compiti di sua competenza c’era anche l’esame della corrispondenza intrattenuta con i maggiori funzionari dell’impero e la disposizione delle risposte. Puer ad pedes: si trattava di un giovane schiavo che stava accanto al triclinio pronto a soddisfare qualsiasi desiderio del convitato. Pugio: piccolo pugnale utilizzato dai romani. Puteoli: antica città romana, corrispondente all’attuale Pozzuoli. Quadrantaria: sinonimo di prostituta. Erano le più economiche, così chiamate perché era loro attribuito il valore più basso di un quadrante, un quarto di asse. Retiarius: era un gladiatore che combatteva munito di una rete (da qui il nome), di un tridente e un pugnale. Rudiarius: tra i gladiatori, colui che riceveva il rudis, ossia un bastone di legno simbolo dell’emancipazione. Solitamente i rudiarii proseguivano spontaneamente la loro attività gladiatoria o erano impiegati come guardie del corpo o istruttori. Sabinus: vino rosso molto apprezzato dai romani. Salutatio matutina: era la cerimonia informale in cui i clientes salutavano il proprio patronus, un uomo influente e ricco, magari di nobili ascendenze, capace di dispensare favori e piccoli aiuti. Spesso lo stuolo di clienti era composta da ex schiavi, liberti (vedi). Sanarium: ambiente dei ludi gladiatori usato come infermeria per i gladiatori feriti.
Secutor: era un gladiatore che, solitamente, veniva opposto al retiarius. Era armato di scudo rotondo e gladio.
Servus a codicillis: schiavo addetto alla corrispondenza, soprattutto a scrivere lettere sotto dettatura. Sinuessa: antica città romana corrispondente all’odierna Mondragone. Speculator: vedi sotto Castra Peregrina. Spoliarium: ambiente dei ludi gladiatori usato come obitorio, dove venivano sistemati i cadaveri dopo gli scontri e spogliati delle loro armature. Spuma chattica: era il colorante per acconciature più in voga, arrivato a Roma dalla lontana Germania Stadium: unità di misura utilizzata dai greci e dai romani. Per questi ultimi corrispondeva a 625 piedi (185 metri). Statio vigilum: caserma dei vigili. Stibium: cosmetico utilizzato come contorno occhi. Sublicaculum (o subligaculum): era una sorta di perizoma di lino o altro tessuto che fungeva da biancheria intima. Subucula: tunica femminile in lino, lana o cotone. Suburra: a Roma era il quartiere “malfamato”, abitato dai plebei, dagli stranieri e dagli immigrati. Corrisponde grosso modo all’attuale rione Monti. Supparum: sopraveste, usata in sostituzione della più elegante stola. Symphoniacus: musicista. Taberna: si trattava di un esercizio pubblico, un negozio, oppure un locale adibito ad attività commerciale. Tablinum: era uno degli ambienti di cui si componeva la domus romana; di solito ospitava lo studio del padrone di casa o fungeva da salottino. Tarracina: antica città romana corrispondente all’odierna Terracina. Thermopolium: vedi popina.
Torus: letto matrimoniale oppure giaciglio. Triumviri capitales: quella del triumvir capitalis era una delle prime magistrature del cursus honorum di un romano appena acceduto al Senato. Si occupava con i suoi due colleghi di eseguire gli arresti, controllare le carceri e dare seguito alle esecuzioni pubbliche. Triumviri epulones: nelle città di provincia erano addetti a particolari cerimonie sacre e facevano parte di appositi collegi (detti degli epulones), modellati sull’esempio dell’Urbe. Tyrrenicus: il mar Tirreno, dall’antico nome degli Etruschi, tyrreni. Unguentarii: mercanti dediti al commercio di essenze, profumi, olii profumati. Vespera: i romani indicavano in tal modo l’ora che andava dalle 19.00 alle 20.00, circa, o comunque l’ora che precedeva il tramonto. Vestiarii: mercanti dediti al commercio di indumenti, panni, di media e bassa qualità, principalmente per le categorie meno abbienti del popolo. Con il termine vestiarius si indicava anche il semplice sarto. Via Domitiana: fatta costruire da Domiziano, come proseguimento della via Appia sul tratto costiero campano, collegava Sinuessa a Puteoli. Via Ficulensis: asse viario che collegava Roma con Nomentum (e perciò meglio nota come via Nomentana). Era così chiamata perché in origine conduceva non oltre l’abitato di Ficulea. Vigiles: corpo scelto istituito a Roma da Augusto con l’ovvio intento di contrastare gli incendi. Si diffo nel I secolo d.C. anche nelle città di provincia e assunsero pure incarichi di “polizia” urbana. Erano comandati da un praefectus vigilum.
Vigilia: erano i quattro periodi in cui si divideva la notte (vedi ora).
Ringraziamenti
Su tutti, sento di dover rivolgere un ringraziamento particolare a tre persone davvero speciali. La prima mi ha accompagnato fin dall’inizio del mio cammino letterario guidandomi dall’alto, seduta a cavalcioni su una stella, e sono sicuro che continuerà a starmi accanto nell’incredibile e avventuroso viaggio che rappresenta per me la scrittura. Un forte abbraccio, Peppe, a te che ci sarai sempre.
La seconda è Danilo Russo che, oltre a essere un amico fraterno, è stato a lungo un collaboratore insostituibile nella realizzazione di tutto ciò che ruota intorno ai miei lavori letterari.
L’altra, non meno importante, risponde al nome di Adelaide.
Senza la sua infinita pazienza, probabilmente non sarebbe esistito mai alcun libro del sottoscritto. Ancora, voglio ringraziare di cuore Riccardo Mostallino Murgia e Arkadia Editore per aver creduto nella mia opera, singolare e certamente impegnativa sotto diversi aspetti. Grazie ancora per la fiducia. Altri abbracci affettuosi sono rivolti a Vincenzo Cortese (scrittore napoletano e illustratore di grande talento), a Marìa Prior Venegas – il mio angelo custode all’estero (editor, traduttrice e consulente dell’Algaida Editores) – e a Loredana Rotundo, brillante agente letteraria.
Un grosso grazie a Marisa Marchino, alias Belle Rane, per essersi offerta come primissima lettrice e correttrice di bozze.
Dulcis in fundo, sarebbe impensabile non menzionare lo zoccolo duro di lettori che per primi hanno dato fiducia a un giovane e sconosciuto autore di romanzi storici. Dopo aver apprezzato con entusiasmo il mio esordio letterario Ante Actium. Il destino di un guerriero, molte di queste fantastiche persone si sono prodigate con impegno e ione per spingere al massimo la sponsorizzazione del mio primo lavoro attraverso il aparola e i diversi canali messi a disposizione dal web. Tutti loro sono diventati col tempo buoni amici e li abbraccio con affetto e profonda gratitudine.
Ahimè, per riuscire a citarli tutti, dovrei elencare almeno trecento nomi. Quindi, in rappresentanza, ne riporto fra queste righe solo alcuni: Marco Deda, Bettina Preda, Alberto Cherchi, Fabio Ponti e Walter Polato. Continuate a seguirmi generosi: siete voi il motore in grado di alimentare la mia fantasia e vi assicuro che ne leggerete delle belle… Al prossimo romanzo.
F.S. Napoli, settembre 2013
Indice
Titolo Informazioni legali Esergo Avvertenze Prima Parte - Giano Bifronte Parte 1 - Capitolo 1 Parte 1 - Capitolo 2 Parte 1 - Capitolo 3 Parte 1 - Capitolo 4 Parte 1 - Capitolo 5 Parte 1 - Capitolo 6 Parte 1 - Capitolo 7 Parte 1 - Capitolo 8 Parte 1 - Capitolo 9 Parte 1 - Capitolo 10 Parte 1 - Capitolo 11 Parte 1 - Capitolo 12 Seconda Parte - Caccia all'uomo
Parte 2 - Capitolo 1 Parte 2 - Capitolo 2 Parte 2 - Capitolo 3 Parte 2 - Capitolo 4 Parte 2 - Capitolo 5 Epilogo Glossario Ringraziamenti