roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
IVAN MURGANA - CARMEN SALIS
SA LEVADORA
LA MAESTRA DI PARTO SARDA
AmicoLibro
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Ivan Murgana
Carmen Salis
Sa levadora
La maestra di parto sarda
Proprietà letteraria riservata
L'opera è frutto dell’ingegno dell'autore
© 2017 AmicoLibro
Vico II Santa Barbara, 4
09012 Capoterra (CA)
www.amicolibro.eu
[email protected]
Seconda Edizione Digitale: maggio 2017
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
IVAN MURGANA - CARMEN SALIS
SA LEVADORA
LA MAESTRA DI PARTO SARDA
LA STORIA DI UNA DONNA SARDA
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
Capitolo undicesimo
Capitolo dodicesimo
Capitolo tredicesimo
Capitolo quattordicesimo
Capitolo quindicesimo
Capitolo sedicesimo
Capitolo diciassettesimo
Capitolo diciottesimo
Capitolo diciannovesimo
Capitolo ventesimo
Capitolo ventunesimo
Capitolo ventiduesimo
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
S'Acadèmia de su Sardu onlus at averiguau ca sa faina Sa Levadora est forma a is Arrègulas po ortografia, fonètica, morfologia e fueddàriu de sa Norma Campidanesa de sa Lìngua Sarda, achìpiu de sa Provìntzia de Casteddu su 17/03/2010
L'Acadèmia de su Sardu onlus attesta che l'opera Sa Levadora è conforme al testo Regole per ortografia, fonetica, morfologia e vocabolario della Norma Campidanese della Lingua Sarda, adottato dalla Provincia di Cagliari il 17/03/2010.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Quando sei nato stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te piange.
Detto indiano
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
A tutte le Nonne, Madri, Zie e Sorelle.
Figlie di un tempo che è il nostro prezioso ato.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
LA STORIA DI UNA DONNA SARDA
La vita non è fatta solo di grandi eventi ma anche di piccole storie, di gioie familiari e di tragedie che non fanno notizia. Persone che sono protagoniste nel loro piccolo di storie normali eppure allo stesso momento eccezionali.
E una donna di questo tipo è protagonista di questo libro scritto brillantemente a quattro mani dalla poetessa e giornalista Carmen Salis, fondatrice di AmicoLibro e Ivan Murgana, giornalista e scrittore. Tratto da una storia vera, racconta la vita di Pietrina Murtas, Ajaja, Sa Levadora, che nella sua lunga vita percorre eventi umani, come i suoi quattro matrimoni, e sociali, come lo sciopero delle miniere di Buggerru di inizio novecento.
La narrazione è articolata in due sezioni parallele. Il ritorno in Sardegna di Peppino Setividas, fatto nascere dalla levatrice sarda e adottato ed emigrato a Torino, e i racconti di Pietrina che percorrono quasi un secolo di vita sarda ando per Baressa, Terralba e Ussaramanna.
Rilevante l’inserimento di vari dialoghi in sardo campidanese che hanno l’importante certificazione de “L’Acadèmia de su Sardu Onlus”.
In conclusione la storia di una donna piccola ma grande, semplice ma straordinaria, narrata con sapienza dai due scrittori – alla lettura non si capisce
infatti dove sia intervenuto l’uno e l’altra – che coinvolge senza mai stancare.
Così prendiamo a braccetto Pietrina e la sua storia: appunto la storia di una donna sarda.
Roberto Sanna
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo primo
L'aria tiepida che l'accompagnava nel suo ultimo viaggio annunciava che la primavera era ormai ben inoltrata: in quel giorno di maggio del 1976, già s’intravedevano i primi caratteri dell’estate: presto i grilli avrebbero fatto sentire il loro canto fino a tarda sera, i campi si sarebbero tinti del colore del sole, e la luce avrebbe dominato sulla notte.
Desiderava di poterla guardare negli occhi, ringraziarla, e soprattutto chiederle scusa per non aver saputo prima della sua esistenza.
Rimase fermo a tormentare quel berretto tenuto fra le mani, osservando con muta commozione quella piccola bara muoversi, portata a spalla da uomini elegantemente vestiti.
Tutta quella gente l'aveva seguita con o lento sin dalla sua abitazione. Un morto si accompagna così nel suo ultimo viaggio, non lo si lascia da solo, soprattutto in un paese attento alle tradizioni e fedele ai riti della Chiesa. Qualcuno piangeva, altri sgranando un rosario muovevano le labbra, lasciando uscire un suono che ricordava un canto muto, altri ancora parlavano fra loro, raccontando dei momenti trascorsi insieme a lei nel tempo che fu.
Si sedette, Peppino, su quel muretto che circondava la fontanella e che serviva per riempire d'acqua pulita i vasi dei fiori, e tirando un lungo sospiro intonò a modo suo una preghiera per quella donna che, dopo sua madre, gli aveva dato la vita.
Si incamminò a fatica verso l'uscita del piccolo cimitero prima che il Sacerdote spendesse le ultime benedizioni e che quella folla si disperdesse facendo tornare ognuno alle proprie abitudini; Pietrina Murtas aveva trovato la pace in un giorno di maggio, e probabilmente quel sole e quel tepore le avrebbero illuminato il cammino verso una nuova vita, non terrena. In questo la donna ci aveva sempre creduto, e lo sperava fermamente in cuor suo anche Peppino.
“Ddoi fiat totu sa bidda a s'interru, ma unu frori no ddoi fiat![1]“
Questo avrebbe detto qualcuno, nei giorni a seguire.
Tuttavia, non sono i fiori che rendono meno difficile il trao di un essere umano, e questo Pietrina Murtas l’aveva sempre pensato. I cuscini di rose bianche e le vistose corone di lilium, con tanto di fascia per ricordare chi si è preso tanto disturbo per onorare il morto, sono l’estremo segnale per dimostrare agli altri un rispetto che magari non c’era quando ancora era in vita. Ecco perché ogni volta che si era recata nella casa di un morto per portare una parola di conforto ai parenti, si era sempre preoccupata più di trovare le parole giuste per lenire un dolore difficile da sopportare, che arrivare con un mazzo di fiori. Non lo sapeva la gente, ma se avesse potuto scegliere, Pietrina Murtas, non avrebbe cambiato nulla del suo funerale. Si era congedata dalla vita quando le campagne del paese che l’aveva accolta, come tante farfalle a lungo nascoste nel loro bozzolo, si mostrano in tutto il loro splendore. E chi se ne frega se, nelle strade polverose di Ussaramanna quanto nelle botteghe dove le donne del paese si fermavano a raccontare i particolari del suo funerale, si parlava dell’assenza dei fiori. In cimitero sarebbero marciti, trasformando in un maleodorante ricordo l’immagine di ciò che erano stati quando danzavano sospinti dal vento. Che
stiano sui campi a godersi il sole, che il cimitero è un posto per i morti non per i fiori, fu l’ultimo pensiero di Pietrina Murtas, mentre con un sorriso serafico saliva verso l’alto sbarazzandosi per sempre del suo corpo e dell’ipocrisia che aleggia su questo mondo.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo secondo
“Tu sei vecchio?”
La voce squillante del bambino lo distolse dal torpore che quel sole, unito alla stanchezza del viaggio, aveva costretto l'uomo a un sonno troppo leggero.
Peppino sollevò il capo lentamente, si tolse il berretto e accarezzò, spettinandoli, i pochi capelli bianchi rimasti.
“Certo che sono vecchio. Non lo vedi? Chiederesti mai a un cane se è un cane?” rispose con voce bassa e calma.
“E cosa fai qui? Dormivi, ti ho visto. Per strada dormono i mendicanti e i matti...”
Gli occhi grandi del bambino risaltavano sul viso scarno e scuro, non aveva più di cinque anni, a Peppino sembrò di rivedere se stesso quando, con le biglie in tasca, riusciva a fuggire all'attenzione della mamma per correre nel cortile di Luigino a far le gare.
“Come ti chiami?” gli chiese Peppino.
“Salvatore”, rispose, “ma mamma mi chiama Tetteddu, “e tu chi sei? Hai visto che Ajaja[2]
è andata in cielo? Tu la conoscevi? Perché non vai a casa?” disse tutto in fretta con un unico respiro, come se avesse avuto paura di dimenticare le parole, e avrebbe anche continuato se una voce, probabilmente quella della madre, non l'avesse richiamato.
Si rese conto a quel punto che tutto era finito e che forse sarebbe stata l'ora di riavviarsi verso casa. Il destino un po' si era preso gioco di lui. Quel tempo alla ricerca di Pietrina Murtas: giorni spesi a chiedere, interrogare le persone, sfogliare documenti e a guardare foto ingiallite per poi, una volta trovata, non riuscire ad abbracciarla. Si alzò, si pulì l'impermeabile per togliere la polvere della pietra sulla quale si era seduto, e si incamminò a i lenti per la via che dal cimitero portava verso il paese. Il sole cominciava ad allungare l’ombra delle persone sullo stradone sterrato. Nugoli di zanzare in controluce ballavano una danza frenetica. Peppino Setividas[3], a ogni o che smuoveva la polvere da terra, si chiedeva cosa avrebbe fatto ora che la sua ricerca era terminata. Adesso che la levatrice che lo aveva fatto nascere non c’era più, sentiva che anche una parte di lui era andata via per sempre.
Quel soprannome che si portava dietro sin da piccolo lo doveva proprio a lei, perché quel giorno di metà novembre in una casupola alle propaggini delle miniere di Buggerru, Peppino era venuto al mondo sette volte, si raccontava. Quando nacque, il cielo era nero come il fondo dei tunnel scavati dai minatori. La pioggia graffiava il tetto di lamiere di quell’alloggio del villaggio di Planu Sartu, dove c’era posto appena per un letto, un tavolo e due sedie. Il primo vagito lo dovette a sua madre, che di quella ce n’è una. Ma se fu in grado di
emetterne altri il merito fu solo di Pietrina Murtas, che ogni volta in cui quel cuoricino grande come la zampa di una gatto si fermava, era lì pronta a farlo ripartire. Anche di padre ce n’è uno solo, ma un uomo di mezza età che mette incinta una ragazzina non lo si può definire tale. Quel bambino, che di rimettere nella mani di Dio quella vita appena avuta in dono non ne aveva voluto sapere, era figlio di uno stupro. Ma quelle, specie per una ragazzina sola e che di quel lavoro in miniera non poteva farne a meno, non erano cose da raccontare in caserma. Solo per pochi giorni il figlio della colpa, come un agnello da uccidere per Pasqua, si nutrì del colostro di sua madre. Un figlio della vergogna, lo si dà in affidamento, perché al mondo ce ne sono di donne amorevoli a cui è toccato il peso di avere un ventre arido, pronte a fare proprie le creature di altre femmine. Così, con poche settimane di vita, Peppino Setividas si trovò ad attraversare il mare per raggiungere prima Genova e poi Torino, dove la moglie di un funzionario della miniera gli aveva già ricamato una calda coperta di lana con sopra il suo nome. Ma gli occhi incerti di un neonato non possono servire a imprimere nella memoria ciò che gli accade intorno. Così Peppino non seppe mai di che colore fossero gli occhi della sua vera madre, e di come il suo sorriso illuminasse quella casupola sgangherata nella quale era nato, quando lei se lo stringeva al petto. Di Pietrina Murtas, invece, avrebbe ignorato per buona parte della sua vita, quanto grandi fossero il suo coraggio e la capacità di caricarsi sulle proprie spalle i fardelli degli altri. Camminare dal cimitero sino alla camera che aveva preso in affitto, gli aveva fatto venire fame. Dopo essersi lasciato alle spalle la lunga strada provinciale, svoltò per via Vittorio Emanuele per poi girare a sinistra e raggiungere via Dante Alighieri.
“Entra, pulisci i piedi sulla stuoia per favore. Il caffè è pronto da un po', forse sarà anche già freddo”, gli disse la donna vestita di nero che lo aspettava accanto alla porta. Con un gesto della mano come a cacciar via le mosche lo esortò a entrare, e spostando una sedia con il fondo di paglia nella sua direzione lo invitò a sedersi.
“Stanco sei, vero? Ma sarai anche deluso. Te lo avevano detto tutti che tanto viva non l'avresti rivista. Tu sei settividasa, non lei, nonostante abbia sepolto tre mariti. Con l'ultimo ha perso perché l'ha venduta al diavolo!”
Versò il caffè in un bicchiere anziché nella tazzina e mentre lo porgeva a Peppino sorrideva, scuotendo la testa come se avesse voluto raccontare chissà quali storie.
“Non deve parlare di lei in questo modo, non mi piace”, rispose l'uomo con tono severo cercando lo sguardo della donna. Tzia Santina, era una delle poche zitelle di Ussaramanna; non si era sposata, e non aveva mai visto uomo in casa, nonostante il colore nero che portava nei vestiti potesse farla credere vedova. Per vivere offriva in affitto da sempre le stanze della casa campidanese che aveva ereditato dalla famiglia. Si arrangiava anche con le stoffe, l'ago e il filo, e in paese riusciva qualche volta anche a far tacere i dolori di stomaco e i mali alle ossa. Non aveva mai avuto grande stima di Pietrina, che a detta sua, cercava di “portarle via il mestiere”.
“Sei l'unico a non conoscere la storia, l'unico a non sapere la tua, di storia. Qui in paese, tutti sapevano, e tutti ricordano. Perché secondo te, te l'hanno detto solo ora chi ti ha fatto nascere?”
“Signora, sia gentile, non vorrei essere scortese con lei. È stata molto disponibile, mi ha ospitato e aiutato a capire come muovermi in un luogo, in un paese che non conosco, e gliene sono grato. Ma vorrei non perdesse di vista le ragioni che mi hanno portato ad attraversare il mare. Mia madre, in punto di morte mi ha voluto rivelare una verità che non conoscevo, una verità che potrebbe sembrare dura e crudele ma che invece mi ha arricchito. Mi ha concesso l'illusione di poter conoscere e abbracciare la persona che mi ha aiutato a venire al mondo, e che forse, da quanto mi ha detto, mi ha permesso di restarci”.
“Parli di lei come se fosse la tua vera madre. Lei ha solo fatto quello che credeva di saper fare. Ma non sono certa nemmeno che ne fosse capace. Se il Signore mi
avesse concesso di diventar madre non avrei certo chiamato a farmi da levatrice una come Pietrina Murtas! Oh certo, di figli ne ha fatto nascere, certo! Ma era una che si inventava di saper fare troppe cose. Bevi il caffè ora. Bevi, sennò lo dovrò scaldare”, disse spingendo più vicino all'uomo il bicchiere.
Peppino la guardò mentre voltatasi di spalle manovrava dentro il caminetto cercando di far prendere fuoco a due tronchi di mimosa. Era piccola e ormai il suo corpo ostaggio dell'età e dell'artrosi aveva preso una forma sgraziata e goffa.
Si capiva che non aveva amato Pietrina, e forse non era la sola a pensarla così. Ma lui aveva bisogno di capire, trovare e conoscere ogni particolare della vita di quella donna. Lo doveva a se stesso e alla madre adottiva che in punto di morte gli fece promettere di ritrovarla per dirle quanto le era grata per il dono che le aveva concesso di vivere. Da allora, da quando Peppino decise di iniziare le ricerche che lo portarono a Ussaramanna, i pensieri lo tormentavano, le domande si accavallavano, spesso senza trovar risposta.
“La tua mamma naturale, di quella disgraziata, avresti dovuto cercare. Almeno per vedere dov'è sepolta”, si voltò all'improvviso Tzia Santina, rossa in viso per via del calore che il fuoco ormai produceva, facendo trasalire Peppino che era immerso nei suoi pensieri. “Tu lo sai che fine ha fatto?” continuò.
“No”, rispose Peppino, “di lei so soltanto che venne mandata lontano e morì di silicosi in un istituto. Ma di Pietrina invece so che ha dato tutta se stessa per permettermi di vivere. Vede, lei probabilmente non può capirlo, ma mi è stato raccontato che nessuno avrebbe mai mosso un dito per far sì che un esserino, frutto del peccato, potesse avere la grazia di Dio. Mia madre mi disse che al momento del parto, quando ci fu bisogno di assistere me e la donna che mi stava partorendo, tutti evitarono di farsi coinvolgere. Era una cosa da non vedere la nascita di un piccolo bastardo, era peccato diventare complici dei peccatori ed essere lì a collaborare. Pietrina, allora appena quindicenne, ebbe il
coraggio di non abbandonarci, anche a costo di perdere il lavoro e la stima di tutti”.
“Se vuoi cenare qui, oggi ci sarà la minestra di lenticchie e il formaggio. Puoi restare ancora qualche giorno. Si cena prima che il fuoco finisca”.
L'aria incominciò a restituire il calore del fuoco e il silenzio che seguì fu interrotto solo dallo scoppiettio dei piccoli ramoscelli secchi che Tzia Santina buttò dentro al grande camino prima di lasciare la stanza. Maggio non è mese da fuoco, pensò Peppino incominciando a soffrire di quel calore fuori tempo, si alzò lentamente e si diresse verso le scale che portavano alla sua stanza.
Decise che sarebbe sceso a fuoco spento.
“Peppì, no pongas a menti: in sa vida su chi contat est su chi eus fatu po is àterus[4]“.
La lingua della terra in cui venne al mondo, gli era sempre sembrata una musica dolce ma incomprensibile. Ogni volta che la sentiva ne rimaneva affascinato, ma, come capita a chi ascolta le canzoni in inglese senza conoscerne il significato, gli sfuggiva il senso. Adesso però, gli era chiara ogni parola della donna vestita di nero che si era fermata davanti al suo letto.
“Oh Peppì’, ita est, no mi connoscis?[5]“ il sorriso era quello di chi non ha rimpianti. La voce, ferma e sicura.
Peppino si mise più comodo e appoggiò la schiena alla testiera del letto. Si stropicciò gli occhi incollati dal sonno e mise meglio a fuoco la figura che aveva davanti.
“Non credo di averla mai vista, però la sua voce mi è familiare”.
“Eh, Peppino. Ne è ato di tempo, ora sei anziano pure tu”.
“Mah, l’ha fatta salire Tzia Santina?”
“Peppì, ora posso andare dove voglio e il permesso non lo devo chiedere a nessuno per fare certe visite”.
“Io non conosco il suo nome, ma lei sa il mio”.
“E di che ti meravigli, mica ci siamo mai presentati. Di tempo non ce n’era e io troppo da fare avevo per dirti come mi chiamavo”.
Peppino si ò una mano sulla fronte madida di sudore. La donna dinanzi a sé, lo guardava ancora con lo stesso sorriso serafico.
“Quando ci siamo conosciuti?”
“Oh Peppino Colombo, mi raccontavano che eri un bambino sveglio, ma mi sa che da vecchio poco poco ti sei rimbambito. Sono quella che ti ha fatto nascere!”
“Pietrina Murtas?”
“Eja, proprio io sono. Se sei venuto sino a qui per scavare nel ato, pazienza e voglia di andare sino in fondo devi avere. La verità non è acqua che trovi in tutti i pozzi”.
Quando il sole penetrò dalle fessure della persiana, Peppino istintivamente guardò il polso al quale portava ancora l’orologio. Fissò il soffitto per un attimo, come a voler cercare un significato al sogno della notte appena terminata.
“La verità non è acqua che trovi in tutti i pozzi”, masticando tra sé e sé questa frase scese al piano di sotto, dove la caffettiera di Tzia Santina già borbottava sul fornello della vecchia cucina a gas.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo terzo
“Se vuoi sentire cose buone sul suo conto, non è qui che devi stare, e non è me che devi ascoltare. Vai da Ada”, disse Tzia Santina.
Il caffè sapeva di bruciato, ma Peppino lo sorseggiò lentamente come si fa con un buon vino rosso.
Ada Frau era forse una delle poche donne che avrebbe raccontato di Pietrina Murtas la forza e la grandezza di cuore: l'aveva conosciuta bene e ne aveva anche raccolto i ricordi attraverso la testimonianza dei suoi genitori. Pietrina Murtas rientrò a Ussaramanna dopo essere rimasta vedova per la seconda volta, e Ada allora ragazzina rimase affascinata dalla storia che questa donna minuta ed esile si portava appresso. Di lei si raccontava che era diversa dalle altre e che riusciva a far venire al mondo gli esseri umani così come poteva aiutarli ad andarsene. In casa, da lei, si trovava qualsiasi rimedio per i mali comuni: rimetteva a posto le ossa, curava i raffreddori. E quando il medico non poteva, arrivava lei, pronta a fare le iniezioni e a fornire le aspirine. Tutti in paese la conoscevano e sapevano della sua vita ata, ma nessuno si azzardava a raccontarla a voce alta. Pietrina era rispettata e temuta, amata e odiata. Peppino si convinse che avrebbe dovuto incontrarla Ada, perché comunque il filo, pur seguendolo da un punto qualunque, lo avrebbe portato prima o poi all'inizio della matassa. Tzia Santina gli indicò dove trovarla, e Peppino si incamminò quella mattina verso la Casa rosa che dominava gran parte della via Dante Alighieri. Mentre camminava ripensava al sogno che aveva fatto la notte precedente: pensò che le emozioni e i discorsi di quella donna che gli aveva affittato la camera lo
avevano senza dubbio scosso e costretto a lasciar giocare la fantasia, ma nello stesso tempo, il ricordo di quel sogno lo consolava e lo faceva sentire meno solo e più forte. Quel paese in fondo conservava le sue origini, anche se non vi era rimasto più nulla del suo ato a parte un soprannome. Della sua famiglia disgraziata infatti non rimase che il dispiacere per quello che era stata la vergogna di uno stupro: quella ragazzina si trasferì senza lasciar detto a nessuno dove sarebbe andata. La madre adottiva, in punto di morte gli raccontò la sua storia, e oltre all'esistenza di Pietrina fu solo in grado di dirgli che quella ragazzina che gli diede la vita era morta di tubercolosi. Peppino non chiese alla madre perché fece durare quel silenzio per più di sessant'anni, non domandò il perché di tanti segreti. Non chiese nulla perché quella donna, che distesa sul letto nei suoi ultimi istanti di vita gli stringeva la mano, gli aveva regalato un'esistenza felice e serena. E anche ora con estrema generosità gli stava regalando un'altra porzione di vita.
La casa che Peppino si trovò davanti era davvero rosa, come Tzia Santina l'aveva descritta; il cancello si ergeva maestoso lasciando intravedere sa pratza de manixu che al centro dominava il pozzo. Ada Frau viveva in quella casa da generazioni, l'avevano costruita i nonni, ci avevano vissuto felicemente i suoi genitori, e ora, lei. Esitò qualche minuto Peppino prima di bussare: non sapeva come giustificare la sua presenza, non aveva idea di come presentarsi. Aveva agito d'istinto quando Tzia Santina gli disse di andare da lei, e non si era preoccupato di cosa dire o fare. Suonò una volta poi un'altra ancora, e quando era sul punto di andarsene vide una figura femminile, piccola e rotonda, venire verso il cancello.
“Buongiorno!” disse Ada.
“Buongiorno signora Ada, perdoni l'invadenza, non mi conosce, le rubo solo qualche minuto. Ho bisogno di chiederle di Pietrina Murtas”, rispose tutto d'un fiato Peppino con il cuore che quasi gli veniva fuori dal petto.
“Ajaja Murtas? Ma l'hanno sepolta ieri!”
“Lo so, lo so. Di questo volevo parlare...”
“Eravate parenti? Viene da fuori?”
“Sì, cioè no. O forse sì... sono un parente e vengo da fuori...”
La donna esitò un attimo, poi aprendosi in un sorriso invitò Peppino a entrare indirizzandolo verso il portale, che si trovava accanto al cancello attraverso il quale stavano conversando. Ada procedeva con o svelto e Peppino la seguiva; mentre camminava ammirava la bellezza che gli si presentava e che già aveva intravisto da fuori: attraversarono la prima piazza e superato il pozzo si trovarono al centro de sa pratza bona, un vasto piazzale sul quale si affacciavano l'ampio loggiato e le stanze. Ada lo fece accomodare in un salottino adatto alle occasioni speciali, così come si usava da sempre.
“Complimenti, è bello qui”, disse Peppino.
“Grazie, si accomodi e mi racconti il motivo della sua visita”, rispose Ada sedendosi accanto a lui, “Ajaja era una persona speciale, io la conoscevo bene. E ci volevamo bene. Lei la conosceva?”
“No. Ma sono qui per questo: per conoscerla appunto, per sapere qualcosa di lei”.
“Che cosa strana, lo sa che un giorno Ajaja mi disse che se casomai qualcuno avesse dovuto parlare di lei, sperava fossi io. E adesso son qui a farlo, con un uomo che non so chi sia né da dove venga, ma sento che è giusto così”.
“Non mi chiede perché voglio sapere di lei?” chiese Peppino che era rimasto in silenzio ad ascoltarla senza interromperla.
“No” rispose la donna, “voglio raccontarle di Ajaja perché lei era una donna che ha lasciato tanto da dire. Questo me lo raccontavano i miei genitori. Ma mi raccontarono anche altro: la sua vita. Un’esistenza che andrebbe tramandata, e i più grandi dovrebbero raccontare ai più piccoli affinché non se ne perda la memoria”.
Le parole pronunciate da Ada scivolavano via lievi come le foglie del castagno a novembre. Quando uno ascolta quello che vorrebbe sentirsi dire, la soglia di attenzione è sempre ai suoi massimi livelli. Peppino seguiva senza battere ciglio il filo della memoria che adesso, come fossero in un giardino sospeso nel tempo, Ada Frau stava tessendo per lui. Temeva che se avesse chiuso per un istante le palpebre, quella piccola donna dai capelli raccolti in una crocchia, sarebbe svanita come un sogno figlio del sopore di un pomeriggio afoso d’estate.
“Le va una tazza di tè?”
“La prego, non si disturbi”.
“Oh, nessun disturbo, chiamo subito Enrica e le dico di far bollire l’acqua. Ho bisogno di sorseggiare qualcosa di caldo per stimolare la memoria”.
Appena Enrica, la giovane domestica che Ada Frau aveva preso con sé quando era rimasta vedova, arrivò con le due tazze fumanti, la donna che avrebbe messo Peppino settividasa davanti al suo ato riprese a raccontare.
“Ajaja Murtas, i miei genitori l’hanno conosciuta bene e insieme hanno mangiato il pane della miniera. Mi spiace non possa sentire da loro come andarono i fatti, ma se ne sono andati ben prima di Pietrina. Mio padre è morto quindici anni fa, mamma l’ha seguito il mese successivo. Ora non ho più nessuno, mio marito mi ha lasciato due anni fa dopo una lunga malattia e il Signore non ha voluto che avessimo figli”.
Ada Frau tacque un istante per soffiare sulla superficie fumante della tazza che teneva in mano. Ne bevve un piccolo sorso e poi riattaccò.
“Mi scusi, lei è venuto da me per sentire un’altra storia, la sua storia, non quella di una vedova sola”.
“Ma no, scherza, nessun problema, ogni tassello della vita degli altri è importante per completare il mosaico della nostra”.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo quarto
“Fa troppo male, non ce la faccio!”
“Dai, che stai andando bene: già la testa si vede, spingi ancora”.
“Ohi Ohi! Pietrì, ma no bastat chi si biat sa conca, totu interu depit bessiri![6]“
Pietrina Murtas sorrise. Sistemò meglio il cuscino dietro la schiena della partoriente e poi mise altri due tronchi di olivastro sul fuoco, dove l’acqua, in una grossa pentola smaltata di bianco e col fondo annerito, pian piano cominciava a riscaldarsi. Insieme - la puerpera e l’ostetrica improvvisata superavano di poco i trent’anni. E non erano neppure le più giovani che sgobbavano dalla mattina alla sera nella miniera di Buggerru. Per rubare il piombo e lo zinco che la Terra nascondeva nella sua pancia, servivano soprattutto braccia giovani e forti. Il vento fuori dall’alloggio che sca Serra condivideva con altre due compagne, si lamentava come un lupo ferito. La pioggia veniva giù di traverso, ma non per questo si abbatteva sul tetto di lamiere di quella casetta fatta di mattoni crudi con meno violenza. Erano sole, Pietrina e sca. Quello che dovevano fare non era affare delle altre due compagne, che quella notte preferirono andare a dormire da un’altra parte piuttosto che vedere nascere un figlio burdo[7]. Così, Pietrina Murtas di Terralba, che con i suoi quindici anni, di parti aveva visto solo quello della
scrofa dello stazzo sopra casa sua, si ritrovò, suo malgrado, a vestire i panni della levatrice.
Quando sca Serra diede l’ultimo colpo di reni battendo come una matta le mani sul materasso dove aveva trascorso le otto ore di travaglio, Pietrina Murtas prese quel piccolo torace e lo estrasse piano dalla tana nella quale si era nascosto per nove mesi, sfuggendo come un bandito alle ingiustizie della vita.
“Unu mascu est, Francè![8]“
La lampada a olio adagiata sul comodino, sfrigolava come un pezzetto di lardo in una padella, nonostante la fiamma danzasse incerta, Pietrina non esitò un istante nel recidere il cordone ombelicale, e con altrettanta tempestività si accorse anche del colore cianotico del bambino. Senza perdersi d'animo e senza lasciarsi sfuggire parola, tentò di rianimare il piccolo. Ricordava qualcosa che aveva sentito dalle donne anziane riguardo allo stringere forte i glutei, lo fece ma senza risultati.
“Tutto bene Pietrì? Perché non lo sento piangere?” disse preoccupata sca.
“Tranquilla, è bello e forte, ora lo senti vedrai…” ripose Pietrina mentre provava ancora una volta a massaggiare quel cuoricino, e lo fece fino a quando la creatura non esplose in un pianto strozzato e benedetto.
“Dio sia lodato ', ce l'abbiamo fatta!” sussurrò Pietrina risentendo anche il suo sangue circolare nelle vene.
Da quel momento quell’esserino appena venuto al mondo era una persona indipendente dalla donna che lo aveva portato in grembo per quaranta settimane, e debitore alla giovane donna che gli aveva permesso di vivere. Non disse del pericolo corso, Pietrina a sca. Si ripromise di parlargliene in un momento migliore e sicuramente più lontano nel tempo. Lo fece vedere alla mamma, come premio per uno sforzo che qualunque donna, sia giovane che più in là con gli anni, affronta volentieri se poi il risultato è una creatura da stringere a sé. Poi lo lavò bene, versando l’acqua che aveva riscaldato su un catino, per pulirlo dal liquido che gli aveva dato la vita.
“Nato è nato, ma ora sai cosa devi fare. Colombo te l’ha detto, lo dai a lui che lo fa crescere come figlio suo e così puoi restare a lavorare in miniera”.
“Già lo so, ma prima di vederlo mi sembrava più facile”.
“Lo fai per lui e anche per te, che se torni a Ussaramanna con un figlio senza babbo di futuro non ne hai”.
“Gesugristu mi perdonit[9]“, disse sca Serra mentre le lacrime già le correvano veloci lungo le guance fino a raggiungere il collo.
“Chiederai perdono per altri peccati che commetterai, ma non per questo. Non è mai peccato mettere al mondo un figlio”.
Continuò ad assisterla nei tre giorni successivi, arrivando di corsa alla casupola che ospitava sca e il suo bambino. Le puerpere, sentiva dire spesso in giro, dovevano mangiare per poter dare il latte buono; se non si nutrivano, la montata lattea non arrivava e il bambino non poteva crescere bene,
“Lascia che le si secchi tutto in petto”, ripetevano sua madre e le anziane del paese, perché tutti sapevano che il bambino sarebbe stato tolto a sca per consegnarlo a un'altra famiglia. Pietrina con questo pensiero rimase tre giorni, e dopo la miniera, correva da sca per portarle tutto quello che riusciva a conservare nascondendolo nella sua cassetta del pranzo. Il lavoro in miniera era faticoso, Pietrina arrivava con gli abiti umidi e sporchi di polvere, ma era l'unico momento che poteva dedicare alla giovane mamma e al suo bambino, non poteva permettersi di rientrare a casa per lavarsi e mettere vestiti puliti e asciutti, sua madre le aveva proibito di tornare in quel luogo.
A loro avrebbero pensato la natura e il dottor Colombo, uomo buono e distinto.
“Quanto è bello Pietrina questo figlio che mi ruberanno domani?” sussurrò sca guardando quell'esserino che dormiva beato fra le sue braccia, “Tanto sca, è tanto bello. Ma non pensare che non lo vedrai più. Lo cresceranno bene, io credo che gli diranno che è figlio tuo, vedrai... tu non puoi fare la mamma, non puoi. Devi tornare in miniera e tutti faranno finta di nulla. Tutto tornerà come prima”.
La miniera. Andare a lavorare in miniera significava infilarsi in un buco ogni mattina e rimanerci per dieci, dodici ore: sentire martellare sulle pietre con picconi o le continue esplosioni delle mine fino ad assordarsi; respirare le polveri sottili dei minerali frantumati e rischiare la vita per l'esalazione di gas striscianti e inodori come il grisù, oppure per i crolli delle gallerie. E significava anche ogni sera ritrovarsi coperti di polvere fin negli angoli più nascosti e doversi strofinare per un'ora in una tinozza, per poi la mattina dopo ricominciare. A questa vita doveva ritornare, sca Serra, lei e le altre donne avevano come compito la cernita del materiale estratto dal lavoro degli uomini: dovevano pestare con la massetta le pietre mineralizzate per frantumarle e separare così i vari minerali dalle parti sterili. Un lavoro che detestava, aveva iniziato a dieci anni a fasciarsi con gli stracci le mani per non ferirsele troppo.
E quella mattina sca lasciò quella baracca gelida d’inverno e rovente d’estate che l'aveva vista diventar donna e madre accompagnata da Pietrina; lo fece senza voltarsi, perché di lì a poco sarebbero arrivati altri a cullare e scaldare quel piccolo fagotto che, avvolto dentro a una sciarpa di lana, dormiva sereno.
“Sono orfana Pietrina”, sussurrò sca tra le lacrime mentre a o sostenuto camminava accanto a quella piccola levatrice, perché così da quel giorno l'avrebbero chiamata, “sono orfana di un figlio!”
sca aveva quindici anni ma il mare non l’aveva mai attraversato; la sua piccola creatura invece, il giorno dopo che lei gli aveva dato l’ultimo bacio reso umido dalle lacrime, si imbarcò su un piroscafo con quell’uomo che avrebbe chiamato padre per tutta la vita. Ma l’esistenza di ogni essere umano, soprattutto se gli anni e l’esperienza sono pochi, non è fatta per sopportare troppi fardelli nello stesso tempo. Le ferite della violenza subita, ancora sanguinavano, e probabilmente, mai si sarebbero cicatrizzate. Il dolore di aver messo alla luce un bambino e poi di averlo dovuto affidare a un estraneo, pulsava nelle tempie come la peggiore delle emicranie. Non avrebbe dunque sopportato a lungo le fatiche e le privazioni della miniera, sca Serra. Ancora pochi mesi restò, sempre con lo sguardo perso e il viso contratto in una perenne maschera di dolore, a fare la schiava dei si a Buggerru. Non ci sarebbe più stata polvere di calamina da respirare, nella vita di sca Serra, il destino avrebbe avuto in serbo per lei altro pane da mangiare che quello nero della miniera.
“E così te ne vai, Francè? Bai cun Deus, amiga mia[10]“.
“Grazie Pietrina. Grazie per tutto quello che hai fatto”.
Non si dissero altro, perché altro non c’era da dire. A parlare furono i
loro occhi, gli stessi che in quella notte in cui una divenne madre e l’altra levatrice, si rassicurarono a vicenda.
Si abbracciarono forte, poi una rimase ferma e l’altra cominciò a muovere i suoi i per lasciarsi alle spalle il villaggio di Planu Sartu e le sue migliaia di anime affamate di speranza e assetate di giustizia.
Non si voltò nemmeno una volta a guardare quello che stava abbandonando, sca Serra. Lo sguardo restò fisso verso l’orizzonte, dove in mare le barche cariche delle budella estratte dalla pancia delle montagne di Buggerru, partivano per raggiungere il porto di Carloforte. Il minerale sarebbe arrivato ad Anversa, ad arricchire i signori della Malfidano che avevano in concessione lo sfruttamento della miniera. La miseria e le frustrazioni invece sarebbero rimaste a Buggerru, che per quelle solo i minatori e le loro famiglie avevano l’esclusiva.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo quinto
Il maestrale soffiava da più giorni, sembrava calare la notte ma invece si riposava per riprendere la sua corsa alle prime luci dell'alba.
Se il vento che arrivava dal mare d’inverno era terribilmente freddo, d’estate riusciva a dare un po’ di refrigerio al villaggio. A Buggerru il maestrale giocava un duplice ruolo nella vita degli abitanti che popolavano la Piccola Parigi. Era l’alleato che riusciva a spiegare le vele delle barche che partivano cariche di minerale verso Carloforte, ma era pure il nemico che, soffiando forte sulle dune, insabbiava l’unica strada che univa Buggerru a Flumini. Un ostacolo che costringeva chi portava le scorte alimentari in paese, ad abbandonare la strada via terra per intraprendere quella del mare.
“Se continua così, non si farà la processione in mare...” disse pensando a voce alta Pietrina mentre affettava il pane per la cena. Era preoccupata, la festa di San Pietro era l'unica occasione per fare quattro i in mezzo alla gente, per seguire la processione che da quella chiesetta arrampicata sulla montagna scendeva giù, fino al mare, per poi far salire sulla barca più bella il Santo.
“Non farci troppi pensieri sulla festa”, le fece eco il padre, “non mi piace che te ne vada in giro da sola, non sei più una bambina. Se vuoi andare alla processione, ci andrai con i tuoi fratelli!”
Raimondo Murtas non era un uomo severo, ma la sua parola non veniva mai messa in discussione dai tre figli. Certo, i maschi erano maschi, e di quello che facevano quando non erano con lui dentro la galleria Henry poco gli importava, ma per quella figlia femmina era diverso. Sarebbe dovuta diventare una donna morigerata come sua madre, quella ragazzina. Non come quelle che vanno dietro alle braghetas[11] degli uomini e vergogna non ne hanno.
Pietrina si fermò un attimo a guardare il padre, che seduto ancora con i vestiti impregnati di miniera, masticava con la bocca aperta quel pane che aveva appena messo sul tavolo. “Lo vedremo quando sarà il momento...” la voce di Efisia, la madre, arrivò insieme ai brontolii dei due fratelli che con mala grazia spostarono due sedie per sedersi a tavola di fianco al babbo. “Lo vedremo noi”, disse Augusto, il più grande, “non ti sarai mica montata la testa negli ultimi tempi eh?” sghignazzò, e a lui si aggiunse la risata stridula di Giampiero, il secondogenito.
“Basta così, Pietrina sa bene che l'unica cosa a cui deve pensare è lavorare e servire la sua famiglia. Non perdiamo tempo a ricordarglielo, vero sa sposa de babu?[12] E allora, sediamoci e mangiamo che son stanco e affamato. Non vedo l'ora di buttarmi sul letto”.
“Potreste almeno lavarvi prima di sedervi a tavola”, disse Efisia voltandosi a guardare gli uomini accomodati, e volgendo uno sguardo severo a Pietrina con la mano le fece cenno di star zitta e di sedersi anch'essa.
Finita la cena era compito di Pietrina riassettare la cucina e preparare la cassetta con il pranzo del giorno dopo per il lavoro di tutti. Anche controllare che nelle lampade utilizzate dal padre e dai fratelli per farsi luce tra le tenebre della miniera ci fosse sempre l’olio, era compito suo. La Malfidano, oltre che a sfruttare quelle povere anime che ogni giorno si tuffavano in un oceano di
oscurità, non forniva loro neppure gli attrezzi da lavoro.
Efisia non lavorava più in miniera da quando una bruttissima artrosi le aveva deformato le mani rendendola invalida al lavoro. Non poteva svolgere nemmeno i lavori più pesanti in casa, ma aveva insegnato tutte le arti a Pietrina, che sempre affamata di cose nuove imparava velocemente e con entusiasmo. Sapeva come rammendare gli strappi, come sostituire i polsini delle camicie da lavoro che si usuravano, come tagliare le stoffe, ma la cosa che più le piaceva fare erano le asole. Erano perfette nella loro rifinitura, ogni giro di filo era assolutamente allineato e non c'era sfilacciamento del tessuto che le sfuggisse. Mai e poi mai si sarebbero disfatte le asole di Pietrina. Era orgogliosa e soddisfatta di sé e non si lamentava mai per il duro lavoro, anche se le mani le dolevano. E soprattutto non aveva dimenticato la gioia e l'emozione che aveva provato quel giorno nel veder nascere e accogliere fra le sue braccia, quel bimbo. Erano ati due anni da quel giorno, non le era più capitato di vivere quella esperienza, anche se al villaggio ormai tutti la chiamavano Pietrina sa levadora, dimenticandosi del suo cognome.
Nel frattempo era cresciuta, il suo corpo si era aggraziato prendendo le forme morbide e sinuose di una donna: non era molto alta ma aveva un corpo proporzionato, i suoi occhi scuri spiccavano come ematiti sul pallore del viso, dove una bocca rossa e carnosa illuminava lo sguardo di chi la guardava. Non aveva nessuna pretesa, sapeva accontentarsi di tutto, l'unica cosa che negli ultimi tempi si era scoperta a desiderare erano un paio di scarpe da donna che aveva visto su una rivista. Qualcuno l'aveva dimenticata alla Cantina, e lei, furtivamente, l'aveva sfogliata, un giorno che era andata a comprare del sapone. Non ne aveva mai posseduto un paio veramente sue, quelle che indossava solitamente erano scarponi da uomo che le avano i fratelli una volta smessi. In genere erano deformati e di qualche misura più grande, ma fasciando per bene i piedi non si sentiva più il fastidio di ballarci dentro. Tutto sommato erano comode, il percorso per arrivare ai lavatoi della miniera non era proprio agevole, e con quegli scarponi forti e robusti, per quanto vecchi e consumati, si riusciva a camminare senza troppa fatica. Ma quelle scarpe nere, lucide come uno specchio che tenevano in alto la caviglia su di un piccolo tacco, le erano piaciute proprio tanto, e a parte il fatto che non avrebbe mai potuto comprarle non sarebbero
certo state comode per camminarci.
Sarebbe bello poter avere quelle scarpe e indossarle per la festa di San Pietro!
Questo, ogni tanto Pietrina pensava.
Il mese di giugno del 1903 arrivò ad ampie falcate, facendosi strada come qualcuno che teme di fare tardi a un appuntamento.
Pietrina lo aspettava dall’inizio dell’anno perché quello era il mese della festa di San Pietro, l’occasione per una ragazza della sua età di mettere il vestito buono. Era bello il vestito che teneva da parte per le occasioni speciali, la gonna plissettata aveva il colore del corallo, la camicia invece era bianca e sfoggiava un ricamo così delicato che sembrava essere tessuto dalle zampe di un ragno. Lo scialle poi, che alla sera quando la brezza del mare soffiava diventava il miglior alleato di ogni donna, era un’esplosione di colori, una tavolozza che avrebbe fatto comodo al miglior paesaggista. Il fazzoletto lo usava per coprire la testa solo in chiesa, altrimenti non l’avrebbero vista bene in faccia, i giovanotti che, come lei, andavano in giro in cerca di sguardi ormai non più innocenti.
“Rimani sempre vicino ai tuoi fratelli, altrimenti alla festa non ci vai più”, si raccomandò il babbo prima che i suoi tre figli uscissero di casa.
“Oh babbo, e dove volete che me ne vada da sola, che magari mi perdo pure”, gli rispose furbetta Pietrina.
“Andate e divertitevi, ma tornate prima di cena”, aggiunse Efisia.
La processione che portava il simulacro del santo dalla chiesetta alla spiaggia, era un serpente di fedeli. San Pietro, dall’alto del carro a buoi sul quale l’avevano piazzato, a ogni buca sulla strada, perdeva le reti che i pescatori gli avevano messo in mano. Non era buon segno: il santo che doveva proteggere quei poveri cristi che si avventuravano col solleone e con il freddo che scavava sino alle ossa per il vasto mare, non poteva perdere le reti a ogni metro!
Le donne di una certa età salmodiavano senza sosta, incuranti del sole del pomeriggio che rendeva arroventata la strada polverosa verso il mare. Le più giovani, furtive, guardavano di sottecchi i ragazzi che si davano di gomito, sperando che i destinatari di quegli sguardi clandestini fossero proprio loro. Anche i fratelli di Pietrina facevano a gara con gli altri maschi per farsi notare.
Così Giampiero e Augusto si dimenticarono della sorella per mettersi, come cani da caccia, a seguire le tracce lasciate dalle figlie di un tonnarotto di Porto Paglia, giunte sino a Buggerru per la festa. Pietrina si ritrovò d’improvviso libera dalla guardia dei due fratelli. Procedeva dietro la processione senza guardarsi troppo attorno. Quando il corteo arrivò in spiaggia, la statua del santo venne issata sulla barca più bella di Buggerru. Chi aveva la possibilità si apprestava a salire sui barchini per seguire la rotta del santo.
Pietrina osservava la scena, certa che per lei la processione di San Pietro fosse ormai finita. Si sbagliava, sa levadora, perché inaspettato, arrivò l’invito che avrebbe cambiato quel pomeriggio afoso e anche un pezzetto della sua vita.
“Ti va di salire, c’è ancora posto qui!”
“Ma io non ti conosco, e poi sono venuta con i miei fratelli, non posso tornare a casa senza di loro”.
“Sono quelli là i tuoi fratelli? Credo che, impegnati come sono, non si accorgeranno neppure della tua assenza. Dai, salta su”.
Ci mise poco a farsi convincere, Pietrina. Quegli occhi neri l’avevano scrutata con attenzione, e fatta sentire desiderata. Quando lui le tese la mano per salire a bordo di quella piccola barca quasi al completo, lei la afferrò e con un salto gli fu accanto.
“Mi chiamo Giovanni Scalas, e tu come ti chiami?”
“Pietrina Murtas. Lavori anche tu in miniera?”
“Sì, io e mio fratello ci siamo trasferiti qui due mesi fa. Veniamo da Baressa”.
“Io e la mia famiglia invece veniamo da Terralba e ci siamo stabiliti a Planu Sartu tre anni fa, e di lavare il tesoro dei si mi sono già stufata”.
“Ti capisco, io sono appena arrivato e già me ne voglio andare”.
Si sorrisero. Poi stettero in silenzio, osservando la baia costellata da decine di barche. Poi si guardarono negli occhi e si sorrisero ancora. Giovanni, ardito, le sfiorò la mano e lei fece finta di nulla. Dentro di sé, però, Pietrina
rideva come una bambina.
I giorni successivi alla festa trascorsero senza grandi mutamenti, dopo quelle ore ate insieme, si erano salutati con un sorriso che però prometteva molte cose. Giovanni cercò di prendere informazioni su Pietrina, chiedendo ai colleghi, alle donne che ci lavoravano insieme nel lavatoio. Quella ragazzina lo aveva affascinato, nonostante la sua giovane età, mostrava di possedere la disinvoltura e la maturità di una donna fatta.
“Pietrì, insà? Ti praxit[13]?”
Pietrina si voltò verso il padre e fulminandolo con lo sguardo riprese a cucire. Le asole del suo vestito erano ormai consunte, e nonostante la sua bravura nel realizzarle, avevano bisogno di essere rinforzate da ambo i lati.
“Babbo lo sa che ti sei scelta un bel giovanotto eh! La gente vede e racconta. Sei troppo giovane e abbiamo bisogno di te in casa. Vedi di non metterti in testa di sposarti. Le due lire che porti con il tuo lavoro aiutano. Non ti ho mica cresciuta per andare a servire altri uomini!”
“Queste saranno cose da vedersi babbo, non si metta certi pensieri, non ho scelto nessun uomo e quando lo sceglierò sarà ricco, in modo che io, non debba far da serva a nessuno!” sorrise e alzandosi dalla sedia fece una specie di giravolta lasciando ruotare il vestito come fanno le bambine quando vogliono giocare a far le ballerine. L'uomo la guardò stranito: non era proprio di sua figlia fare la vezzosa e soprattutto rispondere in quel modo, ma non diede troppo peso al fatto: tutto sommato Pietrina era una ancora una bambina, nessun uomo si sarebbe preso la briga di portarsela a casa e farla diventare una signora. Avrebbe avuto modo di sfruttare le sue braccia e il suo salario ancora per qualche anno.
Ne era certo ma si sbagliava.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo sesto
Gli uomini avevano poche occasioni per incontrare le donne che lavoravano in miniera. Il loro lavoro si svolgeva all'esterno delle gallerie: separando la pietra dal minerale, lo sistemavano nei vagoni che arrivavano sino alla spiaggia, dove piccole imbarcazioni lo caricavano per portarlo a destinazione.
Gli uomini invece stavano a contatto con la terra e il buio del sottosuolo, in fondo alle gallerie umide si lavorava incessantemente tutto il giorno, picconando la roccia, e a parte la pausa di mezzogiorno, durante la quale si fermavano per mangiare il pasto che si erano portati da casa, per il resto del tempo non si faceva altro che respirare polvere e diventare vecchi presto. Giovanni da quel giorno della festa continuava a pensare a quegli occhi neri, e ogni tanto si incantava alla luce data da un piccolo lume a olio, e lì cercava di immaginare il viso della sua Pietrina.
“Ma quello non è Giovanni?” Tzia Tana diede un pizzicotto sul braccio a Pietrina che le camminava con o svelto accanto; il sole era ancora alto, e lei non vedeva l'ora di rientrare a casa per potersi godere ancora un po' la giornata ora che l'estate regalava qualche ora in più di luce.
“Sì è lui”, rispose arrossendo, “corri, avanza con il o, non voglio che mi veda così che sono brutta”, disse abbassando il capo e accelerando
l'andatura.
“Pietrina, Pietrina!” la voce di Giovanni arrivò forte e chiara a tutte le donne che si apprestavano al rientro, in tante si voltarono a guardare quel giovane che agitando il braccio chiamava a gran voce un nome di donna, altre si voltarono a guardare Pietrina che invece accennava a non volersi fermare.
Giovanni le si parò dinnanzi, aveva fatto una piccola corsa per raggiungerla e aveva un po' di affanno; le donne, compresa Tzia Tana, si allontanarono lasciandoli soli in mezzo a quella stradina bianca, mista di terra e sabbia.
“Che fai Pietrì, mi scappi?” disse Giovanni prendendole la mano “mica vorrai farmi venire l'affanno ogni volta che ti vedo?” avvicinò la mano della ragazza alle sue labbra baciandone il dorso. Pietrina sentì il cuore riempirsi d'emozione tanto che sembrava voler scoppiare, e lasciando che il giovane continuasse a tenere la sua mano, sorrise diventando tutta rossa.
“Posso accompagnarti a casa?”
“Credo di sì, ma poi dovrai fare la strada due volte per ritornare alla tua”, rispose Pietrina sentendosi stupida. Quanto era bello quel giovane che tenendole la mano le camminava accanto: bello e dolce. Così diverso da quei maschi che era abituata ad accudire a casa sua. Si incamminarono verso casa parlando di tutto, e tenendosi per mano.
“Quella laggiù è casa mia”, disse Pietrina fermandosi, “e questo, il mio albero di fichi!” aggiunse appoggiandosi con la schiena al grosso albero che
troneggiava qualche metro più avanti dalla sua abitazione. Il sole ormai si accingeva a salutare il giorno, e mentre gli ultimi raggi si coloravano di rosso, Giovanni prese dolcemente tra le mani il viso di Pietrina e la baciò.
Rimase a pensarci su tutta la notte, Pietrina. Mentre si girava e rigirava nel letto cercando di prendere sonno, le sembrava ancora di sentire le labbra di quel ragazzo tanto bello appiccicarsi alle sue.
“Il bacio? È come due mungetas[14] che si uniscono!” Pensava ai discorsi tra bambine, quando i gesti compiuti dagli adulti come il darsi un bacio apparivano tanto disgustosi quanto privi di senso. Se da piccola pensare che la bocca di un altro potesse stare incollata alla sua le faceva ribrezzo, adesso, Pietrina sa levadora, non vedeva l’ora che le ricapitasse di nuovo.
Ci furono altri baci quell’estate. Qualcuno aveva il sapore del mare, qualche altro invece conservava il retrogusto amaro della polvere di calamina.
Se agli inizi i fratelli di Pietrina, ma soprattutto il babbo, non vedevano di buon occhio la storia d’amore tra Pietrina e Giovanni, quando il giovanotto di Baressa bussò alla casa della sua amata per parlare con la famiglia, il clima divenne più disteso. I mesi scivolarono via lenti, il lavoro per i due innamorati restava sempre massacrante, ma l’uno aveva comunque l’altra, e questo per il momento poteva bastare. Il 1903 fu un anno duro per i minatori di Buggerru. I licenziamenti senza preavviso e senza una buonuscita erano all’ordine del giorno, e i nomi dei lavoratori non graditi finivano in liste di proscrizione cosicché non potessero più trovare lavoro neppure in altre miniere. Ma come spesso capita nella vita, anche i fatti che sembrano fiaccare l’animo umano, finiscono invece per infondere nuova fiducia nei propri mezzi. Stava germogliando, il seme della rivolta. Ma i minatori non sapevano che a innaffiarlo sarebbe stato il loro stesso sangue.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo settimo
“Pietrì, Pietrina!”
Tra i lavoratori riunitisi davanti alla sede della direzione generale della miniera, Giovanni Scalas cercava la sua amata.
La delegazione sindacale, capeggiata da Giuseppe Cavallera - che già nel 1900 aveva guidato la rivolta dei battellieri di Carloforte - all’interno rivendicava condizioni di lavoro più umane e diritti che nella miniera della Malfidano ogni giorno venivano calpestati. Fuori, invece, c’erano loro, quelli che quotidianamente si infilavano nei tunnel bui e freddi e che a volte ci morivano pure, e quelle donne, schiave delle laverie. Non avrebbero trovato giustizia né dentro né fuori i minatori di Buggerru. Chi mai avrebbe potuto pensare che mentre loro chiedevano il rispetto dei diritti che spettano ai lavoratori di tutto il mondo, l’avido direttore Achille Georgiades attendeva impaziente l’arrivo dell’Esercito.
“Giovanni!”
La ricerca del giovane innamorato di Baressa si concluse con l’abbraccio della sua adorata.
“Stai con me Pietrì, che tira una brutta aria”.
“Ma no, vedrai che alla fine i nostri delegati riusciranno a spuntarla”.
“Non lo so, Pietrì. Ho come una brutta sensazione”.
E così, lo Stato che mai si era preoccupato di come venissero trattati i minatori sardi, a cui sino ad allora mai era importato che una società se in territorio italiano sfruttasse dei cittadini italiani, decise di intervenire. Troppo facile sarebbe pensare ai soldati che si schierano dalla parte dei più deboli, pronti a impugnare le armi per spezzare le catene della classe operaia oppressa. Eh no, altri fini aveva l’arrivo dei soldati giunti in gran fretta da Iglesias!
“Bregùngia![15]“
“Carònnias![16]“
Le urla di rabbia dei minatori erano rivolte a quei compagni che si erano adoperati per preparare gli alloggi destinati ai soldati. La vittima che si metteva a disposizione del carnefice: la preda che, anziché scappare, si consegnava al cacciatore. Impossibile mandare giù quel boccone così amaro. Anche per chi la testa l’aveva sempre chinata, accettare un simile affronto fu impossibile.
Quando non bastarono più gli insulti, a volare furono i sassi. Uno colpì un soldato. Fu l’inizio della carneficina.
I militari, per tutta risposta, spararono sulla folla. Per i minatori che si trovavano in prima fila, fu come trovarsi nella camera della morte che i tonnarotti preparavano prima della mattanza. Ma come potrebbe un tonno ribellarsi al suo destino? Furono in tre a cadere. Salvatore Montixi, Felice Littera, e Giustino Pittau morirono sul colpo. Giovanni Pilloni sarebbe morto in seguito a causa delle gravi ferite riportate.
Il sangue rimase sul selciato. Rosso, come quello dei tonni. Ma questi non erano tonni, erano uomini, anche se la Malfidano non li aveva mai considerati come tali. Ai colpi secchi degli spari, seguirono le urla. C’era chi imprecava. Chi piangeva e chi cercava di prestare soccorso ai compagni rimasti a terra.
Pietrina e Giovanni erano rimasti nelle retrovie del drappello di minatori che quella domenica avevano deciso di alzare la voce per rivendicare i loro diritti.
Avevano udito solo gli spari e visto il fumo da questi provocato.
La ragazza che a soli quindici anni aveva fatto nascere senza l’aiuto di nessuno un bimbo, sembrava una statua di cera. Bianca e immobile, rimase Pietrina.
“Pietrì, Pietrì, andiamo via prima che tornino alla carica”.
Ma sa levadora non si muoveva, come ipnotizzata da quelle immagini di morte,
non riusciva a schiodarsi da lì.
Allora Giovanni se la caricò in braccio e corse via, lontano da quei tonni umani rimasti a terra.
A Buggerru il vento del cambiamento cominciò a soffiare forte.
L’urlo di rivolta dei minatori sardi attraversò il mare, sino a raggiungere Roma e Milano dove ci furono violenti scioperi, arresti e altri morti. La scossa tellurica generata dai picconi dei minatori della Malfidano fece tremare le fondamenta del Governo e Giovanni Giolitti non poté fare altro che dimettersi.
Tante cose cambiarono a Buggerru, ma nella testa di Pietrina ormai c’era spazio solo per un pensiero, quello di andare via. Scappare da quel posto che per sempre le avrebbe ricordato il sangue versato da quei poveri uomini, immolati come agnelli sull’altare di un dio a cui interessava solo il profitto.
Furono giorni difficili, quelli che seguirono ai terribili fatti del 4 settembre. Pietrina si era ripresa dallo choc, ma non era più tornata alla laveria.
A ridarle il sorriso fu la proposta di Giovanni, che le chiese di diventare sua moglie. Non esitò un istante a dirgli di sì: primo perché di quel ragazzo con gli occhi scuri e il sorriso gentile, in verità se ne era innamorata sin dal giorno della festa di San Pietro; secondo perché quel matrimonio rappresentava un aporto verso una nuova vita. I genitori, pur di vederla felice, non si opposero a quelle nozze.
Era bella, quel giorno Pietrina.
Mamma Efisia le aveva sistemato i capelli che un velo bianco lungo quasi sino ai piedi aveva ricoperto. Il vestito, non era di quelli d’alta sartoria. Le donne che andavano in sposa ai dirigenti della miniera non si sarebbero accontentate di quel cencio. Ma Pietrina sa levadora andava in sposa a un minatore e non a un capoccione della Malfidano, e di questo ne sarebbe andata fiera tutta la vita.
“Giovanni Scalas, vuoi tu prendere in sposa la qui presente Pietrina Murtas?”
“Sì, lo voglio”.
“Pietrina Murtas, vuoi tu prendere in marito il qui presente Giovanni Scalas?”
“Sì, lo voglio”.
Si baciarono, come se quella fosse la prima volta.
Gli applausi dei pochi parenti presenti, riempirono la chiesa di San Giovanni Battista, che sembrava tanto un antico tempio greco. Dopo la strage aveva giurato che mai avrebbe più avuto a che fare con la Malfidano e con quei dannati si, Pietrina. Non sapeva però che il progetto di quella chiesetta dove aveva giurato amore eterno al suo Giovanni, era stato realizzato dai tecnici
della miniera.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo ottavo
“Ada, ma secondo lei, non fu una sciocchezza lasciare il lavoro in miniera?”
“Peppino caro e chi lo sa. Certo, avrebbero potuto continuare a stare là, invece in tutta fretta andarono a Baressa, dove effettivamente l'unico lavoro che poteva portare pane in tavola era la campagna. Di forza e volontà certo che ne avevano, ma a Buggerru sarebbero campati meglio”.
Ada osservava con curioso affetto quell'uomo che sedutole innanzi, sembrava rovistare nei ricordi della donna per ritrovare il suo ato. Il tempo lo aveva segnato come aveva già fatto con altri, e come non avrebbe mai risparmiato nessuno; ma lui conservava nello sguardo, quel piacere di accrescere il proprio sapere, caratteristico dei bimbi che vogliono conoscere ogni cosa che serva per diventare forti. Un sapere che gli era stato negato e che gli era necessario per impossessarsi delle sue origini.
“Era bella Pietrina da ragazza?” chiese Peppino alzandosi in piedi e mettendosi accanto alla finestra. Si erano spostati in cucina, una bella stanza, arredata con pochi mobili, ma accogliente.
“Eh non so, se era bella. Può darsi, io non lo so dire. Era chiacchierona, furba, una brava ballerina!” rispose Ada alzandosi anche lei e avviandosi verso il camino che incominciava a reclamare la legna. Peppino scostò la tendina dalla finestra e volse lo sguardo al piazzale: tutto era ordinato e curato. Era un'immagine che lo aiutava a riportare dentro se stesso un po' di pace e serenità. Intanto Ada ravvivò il fuoco e si portò vicino ai fornelli per scaldare altra acqua per un altro tè.
“Le andrebbe un'altra tazza Peppino?”
“Ancora del tè? Ma sì, Ada, volentieri”, si scostò dalla finestra pensieroso, rimase in piedi a guardare la donna che affaccendata fra fornelli e camino si muoveva con destrezza, come solo le massaie sanno fare. La osservava ammirato e si chiedeva se lui avrebbe offerto il suo tempo allo stesso modo se una sconosciuta si fosse mai presentata a casa sua per chiedere notizie su qualcun altro. Ma questa probabilmente era la Sardegna che i continentali non raccontavano, quell'isola che comunque, senza rendersene conto, aveva sentito sua sin dal momento che vi mise piede.
Si rimise seduto, questa volta spostando la sedia in direzione del camino per godere non solo del calore, ma anche della vista. Stare davanti al fuoco a maggio e per di più in Sardegna. Se mi vedessero i miei amici mi prenderebbero in giro, si schernì Peppino. Non aveva certo freddo, ma guardare la legna ardere lo aiutava a immaginare e a dare un colore alle parole di Ada che raccontavano i fatti.
“Non amava la solitudine Ajaja, e non era certo una che restava con le mani in mano. I primi anni del matrimonio li hanno trascorsi, così mi raccontarono, ad arrangiarsi per portare il pane a tavola. Lui trovò lavoro presso un fattore che per poche lire gli faceva far di tutto. Come d'altronde era a quei tempi. Giovanni non temeva la fatica, allora i campi si seminavano a mano: con un braccio si teneva il cesto e con l'altra mano si spargevano i semi nel campo arato. Certo che non
c'erano le attrezzature di oggi, le braccia e la forza degli animali dovevano bastare”, disse Ada, mentre versava il tè fumante nella tazza.
“E Pietrina cosa faceva? Lavorava?”
“E certo! Le ho detto già che non è mai rimasta a tenersi le mani calde. Lei incominciò a lavorare come contadina dove c'era bisogno: toglieva le erbacce che infestavano i campi, e lo doveva fare usando anche la zappa. Ah, certo che aveva le braccia per farlo, non come oggi che certe donne non vogliono nemmeno fare i lavori di casa. E poi, Peppino, glielo avranno già detto, Ajaja sapeva inventarsi di tutto: curava i mal di schiena, la febbre, faceva le iniezioni, riusciva a fare tante cose. E fra queste lei poteva anche far nascere i figli degli altri”.
La disse sorridendo quest'ultima frase. Peppino la guardò intensamente e sorrise con lei.
“Questa è l'unica cosa della quale sono certo!” aggiunse Peppino sottovoce.
“Ajaja comunque non diventò madre subito: lasciarono are ben quattro anni lei e Giovanni prima di mettere al mondo il primo figlio”, aggiunse Ada, “anni di duro lavoro e di fatiche. In quegli anni però, lei affinò le sue capacità di levatrice. Alla fine il suo coraggio e la sua forza erano proprio destinati a prendere la vita fra le mani che altri avevano concepito, portandola al mondo,” fece una pausa, sembrava riflettere su ciò che aveva appena detto; guardò verso il fuoco e avvicinando le mani alla tazza, rimase qualche minuto a osservarne il contenuto, come se dentro ci avesse visto qualcosa.
“Il fuoco è nutrito Ada, io ancora no”, sospirò quasi Peppino spostando il suo sguardo dal fuoco alla donna. “Continui, la prego. Mi racconti ancora di lei...”
Ada si stropicciò le mani, si assestò bene sulla sedia, e dopo aver sorseggiato un po' di tè riprese a raccontare di Pietrina Murtas.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo nono
“Ih, là che non muori mica! Fa male, lo so, ma vedrai che come vedi la testa venire fuori ti a tutto il dolore”.
L’avevano chiamata nel cuore della notte, sa levadora. E lei, con gli occhi ancora stanchi dal giorno prima, come sempre non ci aveva pensato due volte a recarsi a casa della puerpera. Quando Pasquale Cabras aveva bussato alla sua porta, aveva lasciato a letto Giovanni, si era vestita in fretta ed era salita a cavallo col futuro padre.
“Rosé, rimani tranquilla e fai tutto quello che ti dico io, e presto vedrai nascere il bambino”.
Rosetta Floris aveva ventitré anni ed era al primo parto. Lei e il marito ci avevano provato altre volte ad avere un figlio, ma le gravidanze si erano sempre interrotte bruscamente. Per Pasquale Cabras, che proveniva da una famiglia con nove figli, avere una casa senza bambini dopo tre anni di matrimonio era quasi una maledizione. Le colpe di ogni interruzione della gestazione le aveva sempre addossate alla moglie, perché, secondo lui, in realtà lei di figli non ne voleva.
“Anziché fare la guardia alla porta, fai qualcosa di utile”, lo redarguì Pietrina.
“Cosa devo fare”, rispose sgarbato lui.
“Oh Pasquale Cabras, guarda che non sono venuta sin qui per sopportare la tua indolenza ma per far nascere un bambino. Metti a riscaldare una pentola d’acqua e getta altra legna sul fuoco che in questa casa si gela”.
Lui non disse nulla, lasciò la stanza del travaglio e corse fuori nella legnaia a prendere altri tronchi.
Le labbra di Rosetta, che sino a quel momento erano rimaste serrate per il dolore, si aprirono in un sorriso.
“Così lo devi trattare, Rosé! Fatti rispettare”, le disse Pietrina strizzando l’occhio.
Di legna il fuoco ne divorò parecchia perché quella notte fu lunga. Sa levadora era arrivata sentendo il canto della civetta, e ora, sul fumaiolo della piccola casa all’ingresso del paese, toccava al gallo a esibirsi.
“Sono stanca”.
“Respiri profondi, Rosé. Continua a spingere che già la testa si vede”.
Pasquale Cabras era rimasto fuori dalla porta a fumare il suo solito trinciato. I suoi i avevano scandito come un pendolo le ore di quella notte senza stelle.
Accadde in un attimo. Il pianto della creatura, e poi la porta della stanza da letto che si aprì di colpo.
“È una femmina, Pasquale. Avete avuto una bambina!”
La piccola già stava tra le braccia della mamma, ma il papà non la guardava con gli occhi di chi vede per la prima volta il proprio sangue diventare corpo.
“Avvicinati Pascà, guardala da vicino quanto è bella la figlia nostra”.
“Speravo che dopo tutti questi anni in cui la sorte mi ha girato le spalle, la fortuna avesse finalmente guardato verso di me. E invece no, ecco che mi nasce una femmina!”
Rosetta si fece d’un tratto seria, la coltellata arrivò dritta al cuore. Dopo una notte di dolore, mai si sarebbe aspettata di sentire quelle parole da suo marito.
Era stata brava, glielo aveva detto più volte sa levadora, ma ora il padre della bambina che aveva appena dato alla luce, se ne usciva con quella che
sembrava un’accusa nei suoi confronti. Come se fosse stata colpa sua, se il destino aveva scelto di renderla madre di una femmina anziché di un maschio.
“Pasquale, non era scritto che dovevate avere un maschio. E non era neppure previsto che questa bambina mandata dal Cielo, un padre come te dovrà sopportare. È nata femmina, e speriamo che un giorno abbia il carattere della madre, che di somaro in questa casa basti tu”.
Pietrina si poteva permettere di trattare il neo padre in quel modo. Lo conosceva da anni, perché anche lui aveva lavorato in miniera. Pasquale Cabras, non aveva mai brillato per intelligenza. Non era un uomo cattivo, ma possedeva il difetto di non pesare mai le parole. Accortosi delle sciocchezze uscite dalla sua bocca, si avvicinò alla moglie e le diede un bacio in fronte. Poi prese la bambina, e la sollevò per vederla meglio alla luce che nel frattempo era penetrata dagli scurini della finestra.
“Ma lo sai che è davvero bella, Rosé?”
“Come la chiamiamo, Pascà?”
“Margherita, poita comenti e s’arreina depit cresci, sa pipia![17]“
Quando Pietrina tornò a casa, Giovanni era ancora a letto che dormiva. Non si infilò sotto le coperte per paura di svegliarlo, ma rimase supina a sentirlo respirare. Il numero dei bambini che aveva già fatto nascere in tutto il circondario cresceva, ma aspettava il momento che anche il suo ventre venisse benedetto. Presto, anche sa levadora sarebbe diventata madre.
Le parve di sprofondare in un sonno profondo, ma in realtà dormì solo per pochi minuti, perché a svegliarla furono i movimenti bruschi di Giovanni che sgusciava fuori dal letto.
Si alzò, e come sempre si premurò di preparare una frugale colazione visto che il marito si apprestava a incominciare la sua dura giornata di lavoro. “Oggi rincaserò tardi Pietrina, non aspettarmi per pranzo. Ho promesso a Vincenzo di aiutarlo nel pomeriggio a tirare su un muro nel recinto dei maiali”. Pietrina si avvicinò al tavolo dove il marito stava consumando un pezzo di pane che aveva ammorbidito dentro al latte caldo, spostò la sedia, e si sedette di fronte a lui.
“Perché devi aiutarlo? Ti pagherà per questo lavoro?”
“No Pietrì, lo sai che ha meno soldi di noi. Gli è crollato il muro che confina con Tziu Peppi, e se non lo mette a posto son guai”, rispose Giovanni senza sollevare lo sguardo dalla tazza.
“Proprio oggi che avevo rimediato una gallina... non puoi andarci domani?” gli chiese imbronciandosi come fanno i bambini.
“No Pietrì, la gallina la cucini per cena, è uguale. Cosa cambia?”
“Nulla cambia Giovanni. Ma è che tu la devi smettere di lavorare come un disgraziato a titolo di favore per tutti”.
“Il lavoro questo è. Non posso certo lamentarmi. La scelta l'abbiamo fatta insieme, non dimenticarlo. Anche tu allora lavori gratis. Pensi che non mi sia accorto che ieri notte non eri accanto a me quando mi sono addormentato?” adesso Giovanni la guardava dritta negli occhi e aveva assunto un’espressione scura.
“Io non lavoro gratuitamente!” sbottò Pietrina alzandosi di scatto dalla sedia e dandogli le spalle, “sai benissimo che mi pagano come possono. Sola non sono tornata da casa di Rosetta: una gallina e i fagioli già sgranati ti ho portato!” incrociò le braccia continuando a mostrargli la schiena, indispettita. Giovanni si alzò, e sentendosi in colpa per quello che aveva appena detto, le andò vicino; poggiò le mani sulle sue spalle, le fece risalire fino alla nuca infilando le dita tra i suoi riccioli, liberandoli dalle forcine e lasciando che le cadessero lungo il collo. Lei non si mosse, ma le carezze di Giovanni avevano fatto svanire la tensione: si voltò, e lui non poté fare a meno di ammirare quegli occhi grandi e scuri dentro i quali tante volte si era perso. Lei fissò lo sguardo sulle labbra di lui, grandi e carnose. Giovanni lasciò scivolare le sue mani sui fianchi di Pietrina, e attirandola a sé fino a sentirne il calore del corpo, si lasciò avvolgere dalla ione.
“Voglio un figlio Giovanni”, sussurrò Pietrina.
Dopo quelle parole furono solo i loro respiri a parlare. Non c’era più posto in quella modesta stanza da letto per le galline da cucinare o per i muri da ricostruire. La ione che investì come una tempesta Pietrina e Giovanni spazzò via qualsiasi altro pensiero dalle loro menti. I loro cuori divennero un solo cuore. I loro corpi giovani, si plasmarono come tenera creta in un unico corpo. Alla fine, stremati, si fermarono a riposare distesi sul letto a pancia in su.
I respiri si fecero di nuovo regolari e la nebbia della ione che li
aveva uniti si diradò lasciando campo libero alla disputa iniziata poco prima.
“Te la preparo stasera la gallina, non ti preoccupare”.
Lui sorrise, le sistemò i capelli arruffati e la baciò.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo decimo
Angela aveva imparato da qualche tempo a preparare il caffè: quando l'acqua bolliva, bastava aggiungerci i chicchi torrefatti che sua madre comprava nella bottega di Tziu Cineddu, che macinava suo fratello Mario, divertendosi troppo a giocare con quella scatola dotata di manovella che li trasformava, in polvere di caffè. Nella stanza accanto alla cucina, Pietrina sdraiata sul suo letto, girata su di un fianco, offriva il seno florido e candido all'ultima nata: Amelia.
“Sistema le scodelle per la colazione!”, urlò Pietrina dalla stanza da letto ad Angela che sentiva armeggiare in cucina, “prendete il pane che vostro padre ha abbrustolito ieri notte e portatelo a tavola. Io finisco di far mangiare questa creatura e vengo da voi. Il caffè è pronto? Non ne sento il profumo...”
“Mamma stia tranquilla, è tutto pronto per la colazione!” rispose Angela, fiera di aver portato a termine come sempre i suoi compiti. Lei era la primogenita e sentiva di avere la responsabilità dei suoi fratelli: ora più che mai, visto che da due mesi era arrivata anche la sorellina.
Pietrina si affacciò all'ingresso della cucina dopo qualche minuto. Cercò di sistemarsi i capelli e la camicia alla meglio; ormai tutti i vestiti le stringevano un po' troppo il seno gonfio di latte, e i fianchi, che ancora conservavano le forme di una donna diventata madre da poco tempo. Guardò i suoi figli seduti a tavola che attendevano di poter inzuppare il pane raffermo dentro la scodella piena di
caffellatte, e sorrise: “Forza, mangiate. Davvero mi stavate aspettando? Su, che si raffredda!” fece per sedersi, quando qualcuno con dei colpi forti e decisi incominciò a bussare alla porta di casa.
“Apri Pietrì! Aprì che oggi mi ammazzo!” Pietrina si tirò su dalla sedia, e facendo segno ad Angela e Mario di ritirarsi in camera da letto si apprestò ad aprire.
“Che succede, Madonnina mia, Rosetta? Che hai, sei diventata matta?” Davanti a lei, una donna in lacrime, sui trent'anni, spettinata e con il viso contratto dalla paura, sbraitava, pronunciando parole incomprensibili.
“Entra, e cerca di calmarti. Raccontami tutto!” Pietrina preoccupata, riconosceva che l'amica non era in sé, e cercando di tranquillizzarla la fece accomodare accanto a lei. Le teneva stretta la mano mentre la donna parlava e senza mai togliere attenzione a quello che raccontava, cercava di controllare, tendendo un orecchio alla stanza da letto, anche cosa facevano i suoi figli. Soprattutto sperava che Amelia non si fosse svegliata a causa di quel frastuono, anche se sapeva che Angela se ne sarebbe potuta occupare senza problemi.
“L'ho tradito Pietrì! Son stata debole, il diavolo mi ha fregata. Ha preso le forme di un uomo bello e intelligente e mi ha tentata! Sono in peccato, sono sporca Pietrì!” e ricominciava a piangere e a battersi il petto. Pietrina in cuor suo pensava che finalmente Rosetta aveva trovato moneta per saldare il conto a quel disgraziato e prepotente di marito che aveva, ma non lo disse: l'amica era troppo spaventata e agitata per quello che era successo, e lei non voleva peggiorare la situazione.
“A chini non sciit baddai, est mellus chi no andit a sa festa![18]“ si limitò a cantilenare Pietrina, mentre il suo pensiero già correva a immaginare
cosa sarebbe successo se il marito della donna avesse scoperto il tradimento. Intanto l'avrebbe cacciata da casa, le figlie l'avrebbero ripudiata, e per tutti sarebbe diventata sa bagassa de bidda[19] Pietrina aveva sempre nutrito una certa antipatia per quell'uomo che trattava con sufficienza la moglie, e che le aveva fatto sfornare i figli solo perché sperava che prima o poi sarebbe nato il maschio che desiderava. Avrebbe volentieri preso a sberle quell'uomo cafone e arrogante che trattava Rosetta come un animale da monta. “La devi smettere Rosé: è cosa fatta ormai. Ora che è successo devi ritornare in te. Non era il diavolo, era un uomo e ti è anche piaciuto! Quindi smettila. La soluzione la troviamo, ora ricomponiti e smettila di fare l'isterica. Mi stai anche spaventando i figli!” Pietrina fece finta di essere seccata ma in realtà lo faceva per riportare alla normalità l'amica. Uscì in cortile e ritornò con una brocca di acqua fresca con la quale le fece sciacquare il viso, e mentre Rosetta continuava a tirare su con il naso per via dei piccoli singhiozzi che ancora non finivano, Pietrina prese dalla dispensa una scatola dove teneva le sue erbe. Aveva imparato a usarle negli anni: mise a bollire nel pentolino una manciata di fiori di camomilla e una manciata di biancospino; la tisana sarebbe servita a tranquillizzare l'amica. Ma un pensiero stava trovando dimora nella mente di Pietrina: non sarebbero bastate a riportare l'ordine nella vita di Rosetta, né la tisana né tantomeno la sua amicizia e comprensione. Qui ci voleva, secondo lei, sa mexina de s'ogu[20].
“Eh calmati, su! Adesso vediamo se sei davvero presa d’occhio o sei solo presa da quello che ha in mezzo alle gambe quell’uomo che non è tuo marito”, la canzonò sa levadora.
“Tu ci scherzi, Pietrì, ma quell’uomo il diavolo c’aveva in corpo. Mi ha guardato negli occhi quando ero al fiume e da quel momento non ho capito più nulla”.
Il diavolo che aveva sedotto Rosetta, non aveva né zoccoli né corna, e, tantomeno, sapeva di zolfo. Si chiamava Giacomino Piras e i suoi occhi neri come le notti ate sul Carso a combattere il freddo, riflettevano ancora gli orrori de sa Gherra Manna[21]. Dopo il conflitto mondiale del '15-'18 era tornato
a Baressa. Posato il fucile aveva impugnato nuovamente la falce: i suoi campi di battaglia avevano ripreso a essere quelli imbionditi dal grano, dove tutt’al più doveva sradicare la malerba e non la vita di altri uomini come lui.
Era bello, Giacomino Piras, e lo sapeva. D’inverno quando aveva tempo se ne andava al fiume a pescare le anguille, e ogni tanto, nel suo cesto ci finiva pure qualche lavandaia come Rosetta. Il pastrano sempre poggiato sulle spalle anche quando l’inverno si era congedato e, a un lato di quella bocca disegnata con un pastello vermiglio, un filo d’erba fresca. Erano i dettagli del suo marchio di fabbrica.
“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e otto”.
“Che conti, Pietrì?
“Oh Rosé, però o ti citis o abarras pigada de ogu… o cun is pamporis[22]“.
In mezzo bicchiere d’acqua Pietrina aveva già versato tre chicchi di grano e ora aggiungeva uno a uno i piccoli cristalli di sale grosso: un gesto che faceva parte del rito per togliere il malocchio. Come sua mamma prima di lei, quel rituale l’aveva imparato quando era poco più che bambina, e da allora aveva messo le sue conoscenze magiche a servizio della gente. Sempre senza chiedere una lira a nessuno, che quello era un dono e le cose che ci vengono regalate non si possono rivendere.
Sapeva scacciare il malocchio dalle persone, ma anche dagli animali, Pietrina. E se non fosse stato per lei, che un anno per la festa di San Giorgio
aveva rimesso in piedi i buoi della processione, il patrono manco uno dei cento portali del paese avrebbe visto.
Rosetta non capiva quello che l’amica stesse dicendo, ma sapeva che quella formula recitata mentre le sue dita si muovevano sicure sopra il bicchiere, erano la quintessenza di quel rito ancestrale.
Dopo dieci minuti quella litania cessò, e Pietrina spiegò all’amica cosa aveva fatto.
“Guarda, se fossi stata presa d’occhio il chicco di grano si sarebbe sollevato verticalmente e, mentre girava, sulla sua superficie avremmo notato delle bollicine”.
“E insandus?[23]“
“E insandus no ses pigada de ogu Rosé, ma maridu tuu tenit is corrus su pròpiu[24]“.
Si guardarono e scoppiarono a ridere.
Ora gli occhi di Rosetta non erano più quelli di una cerva impaurita, lo sapeva lei quanto Pietrina: a farsi prendere come un’anguilla al fiume da Giacomino Piras ci sarebbe andata ancora.
In quel mezzo bicchiere d’acqua col sale grosso e il grano, Pietrina non aveva trovato il malocchio, ma almeno aveva annegato i sensi di colpa dell’amica per avere reso cervo un marito asino.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo undicesimo
Come già le era capitato altre tre volte nella vita, Pietrina da levatrice si trovò nuovamente a vestire i panni della partoriente. Per lei, abituata a far nascere i figli delle altre, vedere venire al mondo una creatura sua era una soddisfazione diversa. Non doveva né impartire ordini né tantomeno dispensare consigli, perché, nonostante ai suoi parti avesse assistito un’altra levatrice, sapeva benissimo cosa fare. Dopo Angela e Mario era nata un’altra bambina che avevano chiamato Amelia. Tre figli, tre bocche da sfamare che Pietrina e Giovanni, come rondini senz’ali, faticavano a crescere, ai quali si aggiunse pure la piccola Zelinda. Se Amelia era ancora una bambina, Angela era ormai una donna e a Mario poco mancava per essere considerato un uomo fatto. Dai capelli, che teneva sempre raccolti, già si intravedeva qualche capello bianco, ma, nonostante non fosse più giovanissima, solo qualche ruga delicata d’espressione aveva fatto capolino sul viso di Pietrina. Aveva quarantadue anni sa levadora, quando divenne madre per la quarta volta, e cinquanta suo marito Giovanni.
“Eh, cosa vuoi che sia, ce la caveremo come abbiamo sempre fatto”, rimbrottò il consorte Pietrina.
“Sì, ma non siamo più così giovani, Pietrì”.
“E allora? Per un giorno che perdiamo di gioventù altrettanto ne
guadagniamo in esperienza. Ce la caveremo, vedrai”.
Era stata sempre lei, dal giorno in cui si erano conosciuti, a sostenerlo e a fargli guardare il futuro con fiducia. Pietrina Murtas era una donna che, nata lontano dalla miseria, sarebbe stata l’arma in più di qualsiasi consorte con velleità di una carriera politica o militare. Lo sapeva bene, Giovanni Scalas, che considerava la sua compagna come un favore della sorte, di quelli per i quali mai ci si potrà sdebitare.
“Sarà così, Pietrì. Se lo dici tu, sarà senz’altro così”.
E così era stato. Anche se non più giovanissimi, i due coniugi erano riusciti a non far mancare nulla anche a questa nuova creatura. Pietrina, tra una puerpera e un’altra, e con un malanno e l’altro da curare ai compaesani che bussavano alla sua porta, si era riscoperta una madre attenta e premurosa. Ora che, dal punto di vista anagrafico poteva essere già nonna, assaporava il gusto si sentirsi chiamare mamma da una bimba che aveva scoperto da poco di avere una voce.
E Zelinda, dopo aver imparato a parlare, non voleva saperne di stare zitta. Conosceva già il padre Nostro e l’Ave Maria a memoria, e un canto da osteria sentito dal papà, che però Pietrina, ogni volta che si apprestava a intonare, interrompeva posandole una mano sulla bocca.
Quando Zelinda si ammalò di malaria aveva solo quattro anni.
La seppellirono in una mattina di pioggia fitta, tanto fitta e leggera che sembrava il pianto degli angeli.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo dodicesimo
Era composta in un vestitino rosa di organza che faceva risaltare il viso cereo. Le mani incrociate sul petto stringevano forzatamente un rosario, e i suoi piedi erano uno sopra l'altro, legati da un pezzo di garza bianca e rivolti verso la porta, come a indicare alla morte la via d'uscita.
Era da almeno due ore che la gente andava e veniva nella casa di Pietrina per rendere omaggio al dolore che quella perdita prematura aveva procurato. Quello che non mancava mai nei paesi come Baressa era il calore delle persone quando qualcuno veniva al mondo, o quando un altro lo lasciava, perché gioia e dolore andavano sempre condivisi.
Ai lati del tavolo, dove avevano sistemato il corpo della bambina, stavano sedute Pietrina e Angela. Entrambe con lo sguardo perso nel vuoto, pregavano e piangevano sottovoce le lacrime rimaste. Pietrina teneva fissa la mano sul capo di Zelinda e non perdeva di vista le labbra che ogni tanto si schiudevano in un falso sorriso, che lei con una carezza chiudeva prontamente.
“Mettiamole una garza anche in testa...” consigliavano le anziane, “così la bocca non si apre”, ma Pietrina non sentiva quei consigli e non li avrebbe voluti nemmeno sentire. Non avrebbe permesso di trattare come un agnello la sua bambina. Già era troppo che le avevano legato i piedi. Nella stanza da letto si erano riuniti gli uomini, compresi Mario e la sorellina Amelia: cercavano di
tenere in piedi ora un discorso e ora un altro, mentre dalla cucina arrivavano i lamenti delle donne che come in processione, avano intorno al tavolo dove il corpo della bambina giaceva, e segnandosi il capo con il segno della croce, alcune piangevano e si battevano il petto per il dolore. Insieme a Pietrina e a Giovanni, rimasero tutta la notte a billai[25] Zelinda: Rosetta, Don Pibiri e qualche anziana che si era offerta di sgranare rosari per rendere sereno il aggio della bambina da questa vita all'altra.
“Depis ponni in su baullu is arregordus de sa pipia...[26]“ disse Tzia Mundicca, interrompendo le sue preghiere, “quando uno muore deve portare con sé le cose sue, sennò torna a disturbarci...” Don Pibiri lanciò un'occhiataccia alla donna, scuotendo il capo le si avvicinò, e sedendosi accanto le disse sottovoce di non dire cose che andavano a offendere il Signore, perché quelle erano credenze pagane, non cristiane.
“Poita chistionais de Zelinda a comenti si fessit morta? Issa est bia...[27]“ fu l'unica cosa che disse Pietrina per molto tempo a venire. Non parlò per giorni e giorni, si limitava ai cenni per le cose indispensabili. Angela e Mario, ormai giovanotti, misero da parte il dolore per poter mandare avanti la famiglia che in quel momento era paragonabile a una sedia zoppa. Amelia aveva bisogno di cure e affetto. Quando non si è più bambine, ma è troppo presto per esser considerate donne, la presenza di una mamma è come un paralume pronto a proteggere una candela che oscilla al primo alito di vento.
Giovanni oltre al dolore per il lutto che li aveva colpiti, incominciava a preoccuparsi per la salute mentale di Pietrina. Tante volte si era sentito che il dolore aveva fatto diventar matto qualcuno.
E lui questo temeva. L’idea che il faro della sua casa sino ad allora capace di guidare barche grandi e piccole verso acque sicure potesse oscurarsi, lo gettava nello sconforto più totale.
“Ma dove vado senza di te, Pietrì?”, masticava spesso tra sé e sé Giovanni mentre la vedeva fissare inebetita le braci del camino durante le lunghe sere invernali.
Non bastavano le parole, e non servivano gli abbracci. Pietrina non parlava con nessuno, si limitava a preparare da mangiare per il marito e per i tre figli, ma non per sé. Era dimagrita a vista d’occhio e sul suo viso, ora scavato, gli anni sembravano aumentati di colpo come le pretese di un usuraio.
Si dice che ogni essere vivente è chiamato a sostenere solo il peso del fardello che può sopportare. Non sapremo mai, nel caso di Pietrina, se quando il giovane parroco di Baressa Antioco Pibiri bussò in casa de sa levadora, quanto quelle braccia stanche avrebbero ancora potuto reggere il peso di un macigno listato a lutto.
“Ebbè, signora Pietrina, come andiamo?”
Il sacerdote era stato invitato da Angela, che, preoccupata per sua madre, aveva chiesto aiuto. E il curato sassarese, non era rimasto insensibile davanti a quella richiesta.
Pietrina, seduta di spalle rispetto all’ingresso di casa mentre rammendava un vestito di Amelia, si girò di scatto.
“Don Pibiri, si accomodi! Ora che ha visto casa mia, potrà smettere di credere a quel che si dice in giro”.
“E che si dice in giro?”, rispose il prete prendendo la sedia che la donna gli aveva avvicinato.
“Ma come, le comari che si confessano tutte le mattine dopo la messa delle sette non gliel’hanno detto? In casa conservo le teste dei morti disseppellite dal camposanto e appese al camino ci sono le zampe dei corvi presi al laccio da mio marito”.
Il prete sorrise, perché di dicerie sul conto di quella donna fuori dal comune, in giro se ne dicevano tante. Ma lui non era pesce che abboccava all’amo dei pettegolezzi, e, ogni volta che qualcuno gli spifferava le presunte gesta di una Pietrina brùscia e levadora[28], troncava sempre la discussione sul nascere.
“Le frasi leggere che si dicono in giro, se le porta via il vento, inutile dar loro troppa importanza”, commentò Don Pibiri.
“Sarà così, ma quando l’oggetto di quel che si dice in giro siamo noi, il vento sembra non esserci e le cattiverie ristagnano nell’aria. Ma a me poco importa, sono altri i miei pensieri”.
“Lo so, per questo sono venuto a trovarla. È da un po’ che non la vedo a messa e volevo vedere come stava”.
“Sono viva, ora lo sa”.
“Perché non è più tornata in chiesa dal giorno del funerale?”
“Perché rimettere piede in chiesa mi ricorda proprio il giorno del funerale”.
“Zelinda è con Dio ora, non può pensare solo alla figlia che ha perso, c’è una famiglia che non può fare a meno di lei”.
“Lo so che è con Dio, ma continuo a domandarmi perché si sia preso la mia bambina, io ne avevo più bisogno di lui”.
“Sa cosa penso? Che in questa vita ricca di grandi gioie ma anche di immensi dolori dovremmo fare tutti come lei”.
“Si spieghi”.
“Dobbiamo tenerci pronti a partire. Lei, ha sempre a portata di mano la borsa dove tiene tutto quello che le occorre quando va in aiuto di chi bussa alla sua porta. Bene, ogni cristiano dovrebbe comportarsi allo stesso modo, tenersi pronto a partire perché Dio può chiamare da un momento all’altro”.
“Da pecora nera del paese a donna da imitare”, si schernì sa levadora.
“In un certo senso”, ammise Don Pibiri con un sorriso.
Mentre rimetteva la sedia al suo posto, il prete invitò Pietrina ad andare a messa la domenica successiva. Si erano parlati per pochi minuti ma si erano intesi benissimo. Quel parroco, che quasi avrebbe potuto essere suo figlio vista la differenza di età, aveva toccato le corde giuste. Quando si accomiatò le disse ciò che da un prete mai si sarebbe aspettata.
“Sa, io e lei siamo dalla stessa parte in fondo: lei cerca di curare i malanni con i metodi che le hanno insegnato, io di avvicinare il più possibile la gente a Dio. In entrambi i casi agiamo per il bene delle persone”.
Si strinsero la mano sull’uscio. Mostrandosi con quella stretta la stima reciproca.
Poi Pietrina guardò i i del prete perdersi nella strada acciottolata che dalla sua casa riportava alla chiesa. E mentre una leggera bruma cominciava a offuscare i contorni dei tetti e dei comignoli, nella sua mente quel vento che spazzava via le parole leggere delle malelingue soffiò così forte da mandar via anche i pensieri più tristi.
Poche ore più tardi, quando Antioco Soddu si precipitò a rotta di collo a bussare alla sua porta perché sua moglie Angelina urlava come una lupa per il dolore dovuto alle contrazioni, Pietrina non ci pensò nemmeno un attimo.
Prese la sua borsa e lo seguì. Sa levadora era tornata.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo tredicesimo
“Quasi mezza giornata è trascorsa, Ada. Ho bussato alla sua porta che era mattino e ora dalla strada arriva il profumo del pranzo”, si stiracchiò buttando un po' indietro la schiena Peppino, cercando di sostenere con le mani i fianchi indolenziti dall'immobilità a cui si era costretto stando seduto per tutto quel tempo sulla sedia.
“Già, è vero... ma sa che le dico? Potremmo anche mangiare qualcosa mentre racconto. Che dice Peppino, mettiamo in tavola due cose da mangiare? E visto che ho detto stamani a Enrica di ritirarsi, dovremo fare da soli!” sorrise Ada timidamente alzandosi dalla sedia.
“Cara Ada, le confesso che un certo languorino lo sento, e accetterei di buon grado la sua offerta!” disse Peppino sorridendo.
Sotto lo sguardo curioso e compiaciuto dell'uomo, Ada in un attimo apparecchiò la tavola per il pranzo. Sulla tovaglia bianca, con un ricamo al centro che ricordava un fiore del deserto, salame, formaggio, olive e pane stuzzicavano l'appetito solo a guardarli: seduti uno di fronte all'altro, iniziarono a mangiare.
“In questi giorni, mi sono reso conto di quante cose che mi appartengono ho perso...” sospirò Peppino mentre finiva di assaporare un pezzo di pecorino fresco.
“Non avete il pecorino su in Piemonte?” domandò con curiosità Ada.
“No, non mi riferivo a questo. Certo non abbiamo queste delizie, ma io mi riferivo ad altre cose...” continuò sorridendo.
“E a cosa? Cosa si è perso? Qui non avevate lasciato nulla mi pare, o mi sbaglio?”
“Sentendola raccontare”, proseguì l'uomo “mi accorgo di quanto invece possedevo senza saperlo”.
La donna sorrise, e forse non cogliendo del tutto la complessità di quel pensiero, sollevò le spalle porgendogli un vassoio colmo di amaretti e di formaggelle.
“Ora prepariamo anche il caffè”, disse Ada alzandosi e avviandosi verso la cucina a gas”, perché per andare avanti con la vita di Ajaja serve che restiamo svegli!”
“Povera Pietrina, certo che la vita le ha dato, ma le ha anche tolto...”
“Mica è finita, è solo l'inizio quel dolore Peppino, perché un altro grande lo ebbe quando morì Giovanni, suo marito. Dopo qualche anno dalla morte di Zelinda, incominciò ad accusare dei malesseri e questa tosse che non lo lasciava in pace; Pietrina provò tutti i rimedi che conosceva, finché non lo costrinsero un giorno a scendere a Cagliari e a fare una visita al sanatorio, così si chiamava quel posto. Gli fecero una lastra e la diagnosi non lasciava speranze: silicosi. Lo curarono per qualche mese, ma peggiorava di giorno in giorno. Non riusciva più a fare un o per via dell'affanno e presto la debolezza lo costrinse a stare a letto. Pietrina era stanca e disperata, ma mai lasciò trasparire niente di questo. Non si perse d'animo nemmeno quando Angela e Mario, che ormai si erano fatti una famiglia, ma che non riuscivano a sostenersi con lo scarso lavoro che poteva offrire il paese, decisero di emigrare in Belgio a cercare fortuna. Non voleva fermare Pietrina il futuro dei suoi figli facendogli pesare la malattia del padre, e nemmeno Giovanni lo voleva: con loro rimase Amelia.
“Morì di silicosi quindi Giovanni?” la voce di Peppino interruppe il silenzio che aveva avvolto la stanza.
“Sì, morì tenendo strette le mani di Pietrina. Il loro fu davvero un grande amore”.
“Rimase sola? E Amelia?” chiese preoccupato Peppino.
Ada sorrise guardando gli occhi dispiaciuti e curiosi dell'uomo.
“Si vede che tante cose non le sa”.
“Certo che no, come potrei saperle?”
“Una mattina di ottobre del 1942, sposò Gennaro Pisu di Ussaramanna. Ma si dice che non fu amore, si racconta che lo fece esclusivamente per sopravvivere al dolore”.
“Sa Ada, non riesco a immaginare Pietrina con un altro uomo, dopo l'amore che di lei e Giovanni mi ha raccontato”.
“Per dimenticare e continuare a vivere lasciò la casa che li aveva visti uniti e felici per andare ad abitare in quella del nuovo marito, vedovo anche lui. Dopo la morte di Zelinda, aveva capito che quel Dio di cui tanto le avevano parlato poteva essere parte di lei anche se tante cose della Chiesa non le condivideva. Non andava spesso a messa, non pregava, non si copriva il capo con il velo. Era una donna che faceva di testa sua, come un cavallo che non vuole vivere con una staccionata intorno, e se c'erano tante persone che la rispettavano e la tenevano in considerazione, altre avevano un brutto concetto invece del suo modo di essere. Anche a Baressa arrivò qualche sfollato, messo in fuga dalla bombe che piovevano come grandine su Cagliari, e che non avevano pietà né per i tetti delle case né per le teste della gente. Pietrina, anche in quel caso, si dimostrò una donna di gran cuore, medicando le ferite della carne e dello spirito di quelle povere anime. Ma non ò molto tempo che la morte bussò di nuovo alla sua porta: Gennaro Pisu sano non doveva essere, perché un giorno, all'improvviso, mentre si trovava a dar da mangiare ai maiali, gli si fermò il cuore. Lo trovarono dopo molti giorni, Pietrina allarmata lo mandò a cercare, non si tratteneva mai così tanto dai maiali, e lì lo trovarono con la faccia e le braccia mangiate dalle bestie. Una morte brutta, ne parlarono a lungo”.
“Poveretto...” sussurrò Peppino.
“Eh sì, dicevano che non avesse fatto in tempo nemmeno a sentire su carru de sa morti, tanto il cuore gli si spaccò in fretta!”
“Sentire cosa?” chiese Peppino incuriosito.
“Il carro della morte. Si dice che quando uno sta morendo sente le anime che vengono a prenderlo. Ma non per chi muore di disgrazia come è successo a Gennaro. Naturalmente questo fatto alimentò le cattive lingue e le dicerie che nutrivano le bocche dannate, e Pietrina, ancora una volta, decise di andar via e di lasciare la casa dove aveva vissuto. Ma stavolta abbandonò pure il paese che l’aveva accolta dopo essere fuggita da Buggerru e dalle sue miniere. Fu allora che arrivò qua, a Ussaramanna, visto che aveva ereditato una casa dal marito”.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo quattordicesimo
Si era trasferita a Ussaramanna da sola, sa levadora. Amelia si era sposata con Adamo Trincas, un giovane che aveva partecipato alla campagna di Russia, e dopo aver annaspato nel fango della steppa era tornato a Baressa per lavorare nella falegnameria di famiglia. La sua roba Pietrina l’aveva caricata su un carretto trainato da un asinello, per portare tutti i suoi averi a destinazione non serviva certo tanta mano d'opera. Quando arrivò a Ussaramanna pioveva che Dio la mandava. L’inverno non era ancora cominciato, ma il freddo era già di quelli che la sera faceva stringere davanti al camino le famiglie a sentire i racconti dei tempi andati. La casa nella quale andò a vivere, rappresentava l’unico bene che le aveva lasciato in eredità il marito. Chiamarla casa, forse, era eccessivo, visto che quelle quattro mura di terra cruda ricoperte da un guscio di tegole foderate di muschio, a fatica potevano ospitare degli esseri umani tanta era l’umidità che alitavano le sue pareti. Non era ospitale quella minuscola abitazione, ma Pietrina si rimboccò le maniche e ne fece un posto dignitoso. Alla finestra laccata di celeste, ci mise un geranio, che quello mai doveva mancare nei suoi davanzali. Davanti alla porta, un vaso di basilico e uno di garofani. Il cortile era piccolo anche per le due galline che si era portata da Baressa, ma non mancavano mai né il becchime per loro né le uova per lei. La scopa di saggina, come una sentinella a guardia di un ingresso da presidiare, se ne stava appoggiata fuori dalla porta di casa. Ci spazzava via le foglie secche portate dal vento e i brutti pensieri, Pietrina. Il suo arrivo a Ussaramanna venne accolto tiepidamente. Chi non ne aveva rispetto, si limitava a chiamarla “quella là”, i più maligni invece, l’avevano nominata sa brùscia[29]. Ma c’era anche chi, in quella donna che aveva ato i sessant’anni, ci vedeva qualcosa di eccezionale. Agli occhi delle persone capaci di valicare gli ostacoli posti dal pregiudizio, Pietrina Murtas era una donna straordinaria, in grado di sentire suoi i problemi degli altri. Cominciarono a chiamarla Ajaja Murtas, non solo perché nel frattempo era
diventata nonna, ma perché in quel modo volevano sottolineare il rispetto che meritava. Nonostante fosse ato quasi mezzo secolo dalla prima volta in cui fece nascere un bimbo, non si era dimenticata della sua missione. Non aveva scelto lei di vestire i panni della levatrice, come l’acacia che nasce nel deserto e nel corso dei millenni si è adattata a vivere senz’acqua, si era rassegnata al destino che per lei era stato scritto. E quell’impegno era intenzionata a portarlo avanti sino a quando le sue forze gliel’avrebbero consentito.
Il o si era fatto più lento, ma non per questo le impediva di raggiungere le case di chi aveva richiesto il suo aiuto: nonostante l’avanzare inesorabile del tempo continuava a occuparsi di nascite e malanni.
Una mattina di primavera alla sua porta aveva bussato Enrico Sini, un agricoltore che possedeva buona parte delle terre che si trovavano all’ingresso del paese. Era rimasto vedovo quando sua moglie aveva cercato di dargli un figlio. La poverina era tisica e non aveva voluto ascoltare i consigli di un medico cagliaritano che l’aveva esortata a non portare avanti nessuna gravidanza. La donna morì al quinto mese, e con lei anche quella creatura che portava in grembo. Rimasto vedovo, Enrico Sini si era risposato, ma il timore di perdere un’altra moglie a causa di una gravidanza non lo aveva mai abbandonato, neppure quando la sua seconda consorte, robusta e forte, era rimasta incinta e portava avanti la maternità con serenità, il suo cuore era riuscito a darsi pace.
Il bussare alla porta de sa levadora fu deciso.
“Buongiorno, è lei Ajaja Murtas?”
“Sei nella casa giusta, perché mi cerchi?”
“Mi chiamo Enrico Sini, vivo qui vicino, mia moglie sta per avere il bambino, ma è incinta di sette mesi!”
“Portami da lei, mi racconti tutto mentre facciamo la strada che tempo non ne abbiamo”.
I due si incamminarono alla volta della casa in cui Enrico Sini e sua moglie abitavano. Non era facile sbagliarsi, era la più grande di Ussaramanna.
“È il primo parto?”, chiese Pietrina
“Sì, è il primo”, rispose l’uomo, visibilmente agitato.
“Stai calmo, che se rimani con quegli occhi spiritati e continui a metterti le mani tra i capelli come un disperato, tua moglie non l’aiuti mica!”
“Credo che queste complicazioni siano colpa mia”.
“Figlio mio, capita che a volte i bambini arrivino prima dell’ora, non è colpa di nessuno”.
“No invece, le dico che sono io la causa di tutto. La mia prima moglie è morta in gravidanza, e ora la seconda rischia di fare la stessa fine. Sono nato sfortunato e faccio ombra a chi mi sta vicino!”
“Oh, acaba-mi-dda cun custas tontesas[30]! Tanto sfortunato non sei se vivi in questa casa e ricordati che veniamo chiamati da Lassù quando è il nostro momento, non un giorno prima, non un giorno dopo”.
E in effetti già dal cancello, come aveva notato Pietrina, l’abitazione dell’uomo che aveva bussato prepotentemente alla sua porta, appariva maestosa e degna di un uomo facoltoso. In fondo, tanto sfortunato non doveva essere uno che aveva al suo servizio una cuoca, una governante e uno stalliere.
Il giorno dopo, il sorgere del sole salutava una nuova vita. Il primo vagito di quel bimbo, Pietrina lo dedicava come sempre a quella creatura, la prima, che vide nascere in un giorno lontano e di cui non seppe mai più nulla.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo quindicesimo
Le ore pomeridiane di luglio erano sempre calde e sonnolente, ma non nei giorni a cavallo della festa del santo patrono; questi erano giorni in cui nessuno s'impigriva. Tutti, credenti e non, bene o male, partecipavano ai preparativi. Il paese era in fermento, come in un lungo sabato del villaggio: Tzia Peppa Sini, la perpetua di Don Giorgio Zanda si occupava degli arredi della chiesa, dei fiori, dei ceri che sarebbero stati portati in processione, mentre le donne cattoliche avevano il compito di organizzare i tavoli, i dolci e la raccolta delle offerte per la parrocchia. Non era certo un periodo di benessere quello che il paese stava attraversando, ma San Quirico veniva supplicato e venerato affinché proteggesse e aiutasse ognuno a confermare la fede e a ritrovare la speranza perduta. Pietrina in quei giorni osservava con curiosità tutto quel movimento; nessuno l'aveva coinvolta nei preparativi della festa, e lei a dirla tutta non si era nemmeno proposta.
La mattina del 15 luglio, il giorno della festa del Santo Patrono, Pietrina decise che comunque sarebbe andata ad ascoltare la Messa. Avrebbe inoltre smesso gli abiti neri che da tempo dichiaravano il suo lutto, e mentre raccoglieva dentro alla sua crocchia i lunghi capelli ormai quasi bianchi, stabilì che quell'anno, avrebbe avuto forse anche voglia di ballare di nuovo.
“Castia-dda, ita faci, est bènnia a sa festa![31]“ borbottavano le donne più anziane
“E ita ti-ndi parit, no est fèmina sena de vìtziu[32] Ajaja Murtas!” aggiungevano le più giovani ridacchiando.
Pietrina non si curava dei commenti, e decisa a godersi la giornata di festa, quella sera, mentre tutti si erano riuniti in piazza, si accomodò su una panchina di pietra dalla quale poteva godere della vista del palco.
“C'è gente convinta che una donna senza un uomo è come una botte senza il vino...” a parlare era Bernardo Todde, che vestito con abiti buoni e con il sigaro incastrato fra i denti e la guancia guardava Pietrina sorridendo.
“Di dicerie se ne sentono tante, anche che un uomo senza donna è come una bocca senza denti, come una terra senza seme...” rispose Pietrina senza voltarsi.
“Questo è vero. Ma siccome a me piace sfidare le dicerie, e me ne infischio di chi se ne riempie la bocca, che ne dice di ascoltare quei piedi che sta facendo danzare sotto alla gonna e di venire con me sul palco a ballare?” Bernardo nel dire questo si portò davanti a Pietrina, che, dapprima si fermò dubbiosa a guardarlo dalla testa ai piedi, poi porgendogli la mano per essere aiutata ad alzarsi acconsentì alla sua richiesta.
Ballò Pietrina, per tutta la sera, come solo lei sapeva fare. Tutti mormorarono, poi sussurrarono, poi come un pubblico che sa apprezzare uno spettacolo di prim'ordine, accompagnarono i suoi movimenti ritmandoli con il battito della mani.
Da quella sera, ogni sabato alle diciannove in punto, Bernardo ava a
prendere Pietrina a casa per poi andare insieme alla sala del bar di Pino, dove si giocava a carte, si beveva qualcosa e si ballava al suono della fisarmonica di Peppi.
Fu l'inizio di una nuova storia, se non d'amore, di affetto, amicizia e di serena convivenza. Bernardo Todde era vedovo, i suoi figli erano emigrati da anni verso paesi più fertili e produttivi, la solitudine gli stringeva il cuore da così troppo tempo, da fargli prendere il coraggio di chiedere a Pietrina di sposarlo. Glielo chiese alla fine di una serata dove avevano ballato e riso per tutto il tempo, A cosa serve arrivare a consumare la candela fino all’ultimo frammento di cera, se non hai goduto della sua luce sino in fondo? si era domandato Bernardo prima di chiedere la mano di quell’amica speciale. Da quando era rimasto vedovo, si sentiva come l’ultimo cero dell’altare ancora , ma ora che la fortuna gli aveva fatto trovare un paralume per fargli compagnia, voleva dare un senso all’ultimo tratto della sua vita prima del buio.
Il giorno delle sue terze nozze cominciò con il rumore di un carro che arrancava sul terreno appesantito da un acquazzone di fine estate. Se il sole non era riuscito a entrare dagli scuri ben chiusi, il cigolio insistente delle ruote che cercavano di guadagnare metri nel fango aveva bussato come un picchio alle orecchie della promessa sposa.
Settembre volgeva ormai al termine e l’odore autunnale del mosto inondava le strade del paese, avvolgendole del caldo e rassicurante pensiero che presto si sarebbe assaggiato il vino novello.
L’orario concordato con Don Giorgio non lasciava spazio ad altre interpretazioni se non a quella che i due desideravano sposarsi senza avere addosso gli occhi dei curiosi.
“Ti sposo, ma appena sorge il sole già marito e moglie dovremo essere”, aveva risposto sa levadora alla proposta di matrimonio di Bernardo.
Da testimoni avevano fatto la perpetua del parroco e il sagrestano, altra gente in quella chiesa i promessi sposi non ne avevano voluto.
Si dice che tutte le spose il giorno del fatidico sì, siano belle: bene, Pietrina, vista l’età non si poteva considerare proprio così, ma il suo volto serafico e quegli occhi che scintillavano davanti all’altare della piccola chiesa, rivelavano la presenza di un fascino antico. Ogni ruga sul suo viso era un sentiero percorso in quella vita che le aveva regalato gioie e dolori. Sottili ragnatele che incorniciavano la sua pelle un tempo levigata, che però non riuscivano a indurire il suo sguardo o a rendere meno dolce il suo sorriso.
La funzione religiosa celebrata da Don Giorgio fu piuttosto sbrigativa, dopotutto non c’erano raccomandazioni da fare ai nuovi marito e moglie, che di quegli accorgimenti che vengono elargiti ai giovani sposi non ne avevano certo bisogno. I loro sì riecheggiarono nella chiesa vuota in ogni banco, e si baciarono sulla guancia.
“E adesso Pietrì? Adesso cosa facciamo?”, disse Bernardo quando il portale della chiesa si era chiuso alle loro spalle.
“Eh, Bernà, ora c’è poco da fare, tu porti la tua roba a casa mia, io ammazzo una gallina e la cucino che oggi festeggiamo”, le rispose Pietrina sorridente prendendolo sotto braccio.
Mentre il sole era in procinto di traare quel tendone di nubi che
copriva il cielo, chi ancora se ne stava sotto le coperte, si perdeva lo spettacolo di due vecchi che per strada si divertivano a saltare le pozzanghere tendendosi a braccetto.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo sedicesimo
“Di me, Ada. Di me...”
“Cosa Peppino? Cosa di lei?”
“Di me, cosa sa? Cosa può raccontarmi?”
“Quel poco che sanno tutti Peppino...”
“La prego, me lo racconti quel poco che sanno tutti. Io non lo conosco”.
Ada sorrise dolcemente mentre guardava quell'uomo che tormentava le mollichette di pane sulla tovaglia di lino, senza sollevare il capo a guardarla mentre gli parlava. Aveva ascoltato in religioso silenzio tutte le storie che lei aveva narrato su Pietrina Murtas, senza mai interromperla, senza fare troppe domande. Ma ora, sembrava che la necessità di trovare una collocazione in quella storia, fosse vitale come l'ossigeno per i polmoni, come l'acqua piovana nei giorni torridi d'agosto.
“Lei, ha mai chiesto di me?”
“Lei chi? Sua madre o Pietrina?”
“Pietrina. La donna che mi ha partorito immagino abbia speso la sua vita, il suo tempo, a piangermi, non a chiedere di me... purtroppo”.
“Ajaja non si è mai dimenticata di lei. Quella era la prima volta che diventava donna e che scopriva la vita, aiutando un'amica a mettere al mondo un esserino, che già, oltretutto, si sapeva nessuno volesse. Settividasa, è un soprannome fortunato che ha voluto darle Pietrina: raccontavano che era così spaventata quando prese quel bimbo tra le braccia, e ancor più quando si rese conto che non respirava. Era un corpo inanimato, muto, immobile, cìrdinu a comenti e sa morti[33]. Quando era più piccola sentì raccontare dalle anziane, che a volte succedeva che un bimbo nascesse morto. Più volte gli batté il dorso, il sedere, ma nulla. Finché non si ricordò che poteva provare a massaggiargli il cuoricino. E così fece: una due tre volte; il pianto strozzato le riempì l'anima di gioia, ma subito dopo la creatura smise di respirare. E di nuovo con disperazione a massaggiarlo, a scuoterlo, ad accarezzarlo, nella speranza di tenerlo in questo mondo”.
“E poi?” chiese Peppino con avida curiosità.
“E poi, finalmente la creatura iniziò a strillare quel pianto che tutti i neonati regalano al mondo. Non la finiva più, sa Peppino? Dicono che piangesse così forte da sentirsi fino al paese!”
“Buffo, sa?” disse sorridendo Peppino, “Buffo che abbia avuto tanta
voce appena nato e da grande non sia riuscito a cantare nemmeno uno stornello!”
“Quel bambino aveva voglia di nascere, altroché...” aggiunse Ada, “tutto il resto credo che lo sappia, Peppino. Quello che si è sempre raccontato è arrivato anche a lei. Magari Pietrina avesse avuto la possibilità di incontrarla prima di andarsene. Ne sarebbe stata felice”.
“Anche io, Ada. Non le so spiegare perché ho sempre sentito che il mio cuore era diviso a metà. Pur non conoscendo i fatti, avevo la netta sensazione che ci fosse qualcun altro ad amarmi, oltre ai miei genitori. Non vorrei che lei si prendesse gioco di me, ma sa... a volte mi capitava, e mi è capitato anche di recente, di fare dei sogni…”
“Peppino, io ci credo ai sogni”, sorrise Ada, “e anche Pietrina ci credeva!”
“Il primo sogno lo feci una delle prime sere di dicembre del 1940, quando mi fecero indossare la giubba con i gradi da caporale. Venni richiamato perché era scoppiata la guerra e trattenuto quindi alle armi. Mi mandarono in Grecia, nel Dodecaneso: mancava poco a Natale quando venni separato dalla mia famiglia, e sinceramente mi ero illuso che me la sarei scampata dall'essere arruolato. Così purtroppo non fu. Quella sera, il pensiero di mio figlio, mia moglie, i miei genitori, mi assillava. Non riuscivo a prendere sonno in quella camerata densa di cattivi umori e odori. A un certo punto, vidi una donna, vestita di nero, non troppo giovane ma dall'aria stanca e sciupata, che sedeva ai piedi della mia branda. Sorrideva e muoveva il capo come se stesse seguendo e ritmando una musica che nessuno sentiva. Poi si alzò in piedi e danzò: leggiadra, elegante, un ballo che non avevo mai visto fare. Rimasi per qualche secondo rapito, ma poi mi misi a sedere sul letto, e mi spaventai del fatto che non stavo dormendo e che quindi forse non avevo sognato”.
“E poi?” incalzò Ada curiosa.
“E poi, dimenticai il fatto fino alla nuova apparizione. Per molti anni non vidi più nulla. Fino a ieri, quando l'ho vista di nuovo, e mi ha parlato”.
“Cosa le ha detto?”
“Parlava in sardo, e anche se ne conosco solo qualche parola poco, sono riuscito a capire che mi stava mettendo in guardia. Diceva che nella vita, in fondo, l’unica cosa davvero importante è quello che abbiamo fatto di buono per gli altri”.
“Sì, allora era proprio lei. Le è apparsa per guidarla in questo difficile viaggio che ha voluto intraprendere per conoscere a chi deve la vita”.
L’orologio appeso alla parete sopra il camino segnava ormai le sedici. Le lancette avevano falciato le ore del mattino e catapultavano Peppino e Ada verso quelle della sera. Quando l’uomo era entrato in quella casa per specchiarsi nella vita di una donna che non aveva mai conosciuto, il sole con i suoi raggi carezzava i tetti delle case di Ussaramanna. Ora invece, sul cielo erano comparse nubi basse e nere che cercavano di ghermirli, come un invasore al di là del confine pronto a sferrare un attacco micidiale. Cadde a terra la prima goccia, segnale che quei nembi gonfi avevano dato il via all’offensiva verso quei tetti che sino a poco prima si erano beati del sole tiepido di maggio.
“Comincia a piovere”, disse Peppino con lo sguardo rivolto verso la finestra.
“La pioggia che all’improvviso prende il posto del sole mi ricorda che tutto è mutevole. Tutto può cambiare, sia in meglio che in peggio”, rispose Ada mentre osservava ardere gli ultimi tizzoni nel caminetto.
“A volte arriva proprio al momento giusto, in altre non potrebbe scegliere attimo peggiore”.
“Peppino, prima ha detto che ha fatto la guerra, sa che non ce la vedo proprio a imbracciare un fucile e sparare?”
“Ada, non mi ci vedevo nemmeno io, ma quando venni richiamato dovetti lasciare il mio lavoro e i miei affetti e partire per la Grecia. Fu una guerra di posizione, ce ne stavamo abbarbicati sulle montagne ad aspettare non si sa cosa. Il silenzio dei turni di guardia era rotto solo dal sibilo del vento, che quando la notte si insinuava tra gli anfratti, pareva quasi un lamento umano. Sembrava dicesse di lasciare quella terra che avevamo occupato senza averne diritto: i più superstiziosi credevano fosse la voce di qualche dio greco che aveva dimorato nell’Olimpo deciso a farci impazzire”.
“E quanto ci rimase a combattere in Grecia?”
“Ci restai sino all’aprile del 1941, dopo essere rimasto confinato su quelle montagne sperdute per quasi cinque mesi. I tedeschi poi decisero di invadere sia la Grecia che la Jugoslavia con un attacco che in poco tempo piegò la resistenza dei due paesi”.
“Cosa le ha insegnato quell’esperienza?”
“Che finché ci sarà l’uomo sulla terra ci saranno le guerre, in fondo fa parte del nostro percorso umano”.
“Ma c’è anche del buono in questo mondo… non deve essere così pessimista!”
“Sì, lo so. Per questo ho deciso di venire sin qui a conoscere la storia di una donna che tanto si era data da fare per far nascere un bambino che nessuno voleva”.
Ada sorrise, mise altra legna sul fuoco che ormai era ridotto a due tizzoni fumanti, e proseguì nel racconto.
“Ma basta filosofeggiare, Peppino. Lei è venuto sin qui per conoscere una storia e io l’ho portata a ripercorrere sentieri di guerra sui quali la sua coscienza in catene si è dovuta incolonnare. C’è ancora tanto da raccontare, perché la vita di Pietrina sa levadora è stata lunga ma soprattutto piena”.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo diciassettesimo
“Ma così schifo ti fa? Guarda che è fatto con un uovo ed erbe spontanee che crescono vicino al fiume, mica con cacca di gallina”.
La faccia del bambino seduto sul tavolo della cucina di Ajaja Murtas era incredibilmente espressiva. Felicino Pes aveva otto anni e una ione irrefrenabile per il calcio. Quel pallone fatto con gli strofinacci vecchi della mamma gli interessava di sicuro più della scuola e degli animali che doveva accudire appena finiti i compiti. Quella mattina Felicino volle provare un tiro a sorpresa per battere quel portiere invisibile che se ne stava a guardia della porta della stalla. Lanciò la palla in aria con le mani e tentò una sforbiciata, ma ricadendo a terra si storse la caviglia e quel mucchietto di stracci legati con lo spago non andò in gol.
“Ma puzza, e poi è caldo!”
“Se vuoi tornare a giocare in pochi giorni, a me, devi lasciar fare. Per are il gonfiore questo impasto è la cosa migliore. Vedrai che in poche ore diventa rigido e così ti tiene fermo il piede”.
Arrangiai ossus[34] era una specialità di Pietrina. Riusciva a rimettere a posto
ogni tipo di slogatura e distorsione, prima manipolando delicatamente il punto dolente, poi immobilizzandolo con fasciature che, unite a strani impasti che solo lei conosceva, diventavano resistenti come le ingessature.
“E quanto lo devo tenere, Ajaja Murtas?”, domandò il bambino quando il lavoro di Pietrina era ormai concluso.
“Po ddu sciri fai a comenti e su molenti de ajaju[35], che non sbagli”, gli rispose lei ridendo.
“E come faceva?”
“Quando poteva poggiare di nuovo la zampa significava che era guarito”.
Il bambino rise di gusto, poi l’abbracciò e tornò a casa con due gruccette di fortuna che gli aveva preparato Bernardo mentre se ne stava seduto in cortile a godersi il sole del mattino.
Il giorno seguente, due galline ancora calde da spennare e una cassetta di bietole e cicoria ripagavano la fatica di Pietrina e alleviavano lo stomaco di Bernardo, che con il suo lavoro da bracciante ultimamente, vista anche l’età, riusciva a portare il minimo indispensabile a sopravvivere.
Pietrina ormai le sue giornate le divideva fra l'orto, che comunque era parte del loro sostentamento, e is agiudus[36] portati dagli abitanti di
Ussaramanna, che appunto le chiedevano di intervenire e la ripagavano come meglio potevano.
Non tutti, purtroppo, vedevano di buon occhio il suo fare, e le malelingue continuavano a viziare di cattiveria l'aria che la circondava non appena usciva da casa. Raramente le sue cure non portavano alla soluzione, o perlomeno, non alleviavano il malessere; da una parte tante persone avevano fiducia in lei e nei suoi rimedi naturali, ma dall'altra cercavano di combatterla sparlando o addirittura minacciandola.
Questo soprattutto dopo un fatto che vide protagonista una giovane donna, moglie di un carabiniere trasferito temporaneamente in paese, in attesa di un bimbo.
Era una mattina di febbraio, fredda e umida: Pietrina dopo aver avviato il fuoco e dato da mangiare alle sue galline si mosse, come spesso faceva, verso la strada che portava fuori dal paese, dove costeggiando il bordo con pazienza e attenzione riusciva sempre a fare un buon raccolto, sia di lumache che di bietole. Per le comari maligne bessiat po arregolli is improddus de su diàulu[37], ma la sua raccolta era indirizzata soprattutto a poter mettere qualcosa in tavola; chiaramente ne approfittava per cogliere anche qualche erba che poi le ritornava utile per i suoi unguenti o per le tisane, e questo faceva di lei per certe persone una brùscia.
Fu quella mattina, che Pietrina venne a conoscenza dei malesseri continui di Luisa, la moglie del carabiniere.
A i svelti, con la lunga falcata che solo i militari sanno esibire, Emilio Velardi le andò incontro.
“Pietrina Murtas! Lei è Pietrina Murtas?”
“Sì. Perché? Che volete? Qualcosa di brutto a Bernardo è successo?”
“No, non è successo nulla, stia tranquilla. Ma avrei bisogno del suo aiuto. Vorrebbe seguirmi a casa? Mia moglie non sta bene... ma non credo sia il caso di chiamare il medico. Credo che potrebbe aiutarla lei...”
“La signora non sta bene?” chiese preoccupata Pietrina.
“Non troppo bene”, disse l'uomo, “ma venga, le racconterò strada facendo”.
Pietrina sistemò le bietole che aveva raccolto nel cesto e si apprestò a seguire Emilio, che camminandole accanto cercava di spiegare i malesseri della moglie come meglio poteva.
“Sono tre settimane che dorme pochissimo, è nervosa, piange senza motivo...” raccontava Emilio “non so più cosa pensare. Questa gravidanza è un dono di Dio, era così felice di aspettare un bambino. Adesso sembra che la cosa non le interessi, anzi. Sembra che la disturbi...” concluse intristendosi.
“Sarà solo un po’ affaticata, una donna quando aspetta un bambino e manca poco per metterlo al mondo, è preoccupata, ha poche forze”, disse Pietrina, mentre cercava a fatica di tenere il o di Emilio.
Arrivati a destinazione, Pietrina venne fatta accomodare e presentata a Luisa.
Chiacchierarono a lungo le due donne, in assenza del marito, Luisa confessò di essere stanca e di non desiderare quel figlio. Pietrina cercò di rassicurala offrendole il suo aiuto, sia per i mesi che mancavano, che per il parto stesso. Sarebbe andata a trovarla tutti i giorni e si sarebbe occupata di lei, dei suoi malesseri, del suo nervosismo, della sua angoscia. Da quel giorno, ogni mattina usciva da casa insieme a Bernardo e percorrevano mezza strada insieme: poi lui svoltava per i campi e lei si avviava a trovare Luisa. Stavano bene insieme loro due, parlavano tanto. Pietrina l'aiutava a vestirsi, metteva a bollire le foglie di timo con la quale le preparava un decotto che l'aiutava a stimolare l’appetito, e lei lo beveva volentieri. Le massaggiava con il suo olio di mandorle la pancia, le gambe, i piedi, che ormai al settimo mese di gestazione apparivano gonfi e pesanti. Tutto procedeva bene, fino a quando una sera, Luisa colta da dolori improvvisi venne trasportata d'urgenza all'ospedale: c'era il rischio di un aborto. Luisa tornò a casa dopo una settimana di degenza e venne obbligata a trascorrere a letto in totale immobilità il resto della gravidanza. Venne imputata la colpa del rischio d'aborto a una tisana preparata da Pietrina a base di cicoria che sarebbe dovuta servire per depurare l'organismo, ma che si credeva, sottoposta a lunga bollitura, fe abortire.
Per Pietrina sa levadora questo fu un colpo terribile, un'infamia, un dubbio che non avrebbe mai potuto sfiorare colei che la vita invece la faceva affacciare a ogni casa.
“Fai beni e bai a galera![38]“ ripeteva spesso Bernardo, quando il malumore lo prendeva alla sprovvista. Aveva gran stima di sua moglie, le voleva molto bene e sentire, anche solo attraverso vaghi pettegolezzi, parlar male di lei lo faceva imbestialire.
“Po unu chi mi bolit mali, dexi mi bolint beni![39]“ ribatteva Pietrina Murtas quando il vento sembrava riportarle le cattiverie dette.
Ma la corteccia di Ajaja non era di quelle che si scalfiscono con un temperino, era la corazza di una quercia capace di resistere anche alle stilettate più profonde causate dalle maldicenze. Se a volte i suoi occhi neri brillavano, era solo perché ancora una volta era riuscita a far nascere una nuova creatura, e non perché i dardi avvelenati delle malelingue avevano raggiunto il suo cuore. Gli occhi di Bernardo invece erano sempre più spesso lucidi a causa del vino, aveva cominciato a bere per non pensare. Per non sentirsi troppo solo nelle sere d’inverno quando la donna che aveva sposato usciva di casa per assistere qualche puerpera.
“Sa vida est aici, Bernà! A chini fait si citit, a chini no fait nudda chistionat mali de chini fait[40]“, diceva sempre quando il marito sembrava dispiacersi troppo per le voci sul suo conto sentite in giro. Ma non sarebbero state le male parole né tanto meno l’età che avanzava a fermare lo spirito di Pietrina Murtas, il cui destino era improvvisamente cambiato quando aveva sentito il vagito del primo bimbo nato grazie al suo aiuto.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo diciottesimo
Il vento sbatteva impetuoso contro il portale di legno, come a voler entrare a tutti i costi, dentro casa di Ajaja.
Seduta con le spalle rivolte verso la porta, i piedi appoggiati al piccolo sgabello, a ogni rumore prodotto dal vento muoveva il capo come a tenere una conta che avrebbe portato a qualcosa. Erano ormai ati diversi giorni dal malessere che aveva colpito Bernardo, il dottore aveva previsto che si sarebbe ripreso visto la buona salute di cui aveva sempre goduto, ma non dava segno di volersi svegliare, e lei continuava a trascorrere le sue giornate a vegliarlo seduta di fronte al letto, perché così almeno poteva vedere il marito in viso e prevederne il risveglio. Lo guardava per tante e tante ore di fila, osservando il suo profilo perfetto, quella bocca che ormai non si schiudeva più, né in sorrisi e nemmeno in smorfie cattive. Ricordando ogni momento buono cercava di dimenticare tutti quelli che invece ultimamente erano stati i momenti brutti. Ma più ci provava, più le mani minacciose del marito che le stringevano il collo facevano breccia nella sua mente. Non c’erano state lacrime e neppure rivoli di sangue in grado di fermare la furia cieca di Bernardo. Niente muoveva in lui un minimo di comione per quella moglie che lo lasciava solo esclusivamente per portare qualcosa da mangiare a casa. Quando Pietrina rincasava dalle sue visite a partorienti o ammalati, lo trovava sempre ubriaco sdraiato sotto un albero in cortile o seduto davanti al camino, biascicando frasi senza senso contro quella donna che ora reputava la causa dei suoi mali.
“Aberei, aberei ca mi bolit bociri![41]“, aveva urlato una notte in cui Bernardo,
cieco dalla rabbia e dal vino stantio, l’aveva fatta scappare con addosso solo la sottoveste. Scalza, così com’era venuta al mondo.
Nessuno le era corso in aiuto, era rimasta a piangere rannicchiata davanti al portone della chiesa, fino a quando il fiato non le era mancato e le lacrime le avevano impedito di vedere oltre. Chiedendo aiuto a quel Dio che troppo spesso non aveva esaudito le sue preghiere.
“Bai-ti-ndi Bernà, ca custa borta mancu sa luna ti podit perdonai![42]“
Ma Bernardo stavolta non l’aveva inseguita, era rimasto riverso davanti al portale di casa, svenuto su una pozza di vomito scura come la notte. Come l’aura che circondava la sua anima, così lontana da giorni in cui si illuminava al suono dell’organetto.
Non le avevano mai sentite le richieste d’aiuto che provenivano dalla strada, i vicini di casa. O probabilmente non le avevano volute sentire.
“Non sono fatti nostri, in fondo se l’è cercata”, diceva la gente. E Pietrina sempre più spesso era costretta a fuggire da casa nelle notti invernali spazzate dal vento gelido che si insinuava tra le strade strette del paese, e in quelle afose d’estate per non essere riempita nuovamente di botte da quello che da agnello si era trasformato in lupo. Nessuna porta si apriva quando bussava in preda alla disperazione, volgendo sempre lo sguardo indietro per vedere se quella belva la stesse ancora inseguendo. L’aveva conosciuto che era buono e gentile: ma ora quel marito sposato all’alba per non dare troppo nell’occhio, era diventato un altro per colpa dell’alcol. Alcuni dicevano che era colpa di qualche sortilegio che lei stessa gli aveva fatto. Non erano servite le preghiere e neppure i tentativi di togliergli il malocchio, i problemi di Bernardo erano solo dovuti dall’alcolismo ormai diventato cronico.
“Custu est pratu torrau[43]“, vociferavano in chiesa, in piazza e ovunque si presentasse l'occasione per poter spettegolare sulla disgrazia che aveva colpito Pietrina. C'era chi sosteneva che Bernardo meritasse quella fine per come si era comportato con la moglie; altri, invece, sostenevano che la punizione fosse per Pietrina, visto che non aveva mai rispettato la sua vedovanza. Su dimòniu[44] si sarebbe sempre portato via in un modo o nell'altro la sua serenità. A Pietrina queste voci arrivavano, ma da donna intelligente e forte che era, continuava a ignorare ogni commento e ogni domanda che andava a sfidare la sua pazienza. Usciva poco e lo faceva nelle prime ore del mattino: non poteva lasciar solo Bernardo a lungo, quindi di fretta sbrigava le commissioni più urgenti, per poi subito riprendere posto nella sedia accanto a lui.
Era l'ottavo giorno dello strano sonno che si era impossessato del marito, spostò lo sgabello in avanti dopo aver portato giù i piedi e si alzò per prendere le foglie di menta che aveva messo a bollire qualche ora prima: usava il decotto per massaggiare Bernardo e allo stesso tempo rinfrescargli la pelle e tenerlo pulito. Lo guardò mentre gli strofinava il corpo immobile con le garze imbevute del liquido profumato, e le tornarono in mente tante parole da dirgli.
“Bernà, di promesse a dire il vero non me ne hai mai fatte tante, però me ne avevi fatta una grande. Era bella quella cosa che dicesti quando mi chiedesti di sposarti, ti ricordi? A cosa serve arrivare a consumare la candela fino all’ultimo frammento di cera, se non hai goduto della sua luce sino in fondo? Così stato non è, Bernà. No.
Che dolore vederti bere fino a sentirti puzzare come un maiale; che dolore vederti sollevare le mani sul mio viso, quelle stesse che mi avevano accarezzata e fatta ballare. Quelle mani che da leggere e delicate che sapevano essere, sono diventate dure e sporche”.
Gli parlava spesso, Pietrina. E attraverso il racconto della sua vita, cercava di esorcizzarne i momenti più cupi, quelli che avrebbero scoraggiato anche l’uomo più temerario, ma non quella donna temprata dal pane amaro della miniera e dai giorni del lutto.
Ma quello se ne stava zitto con gli occhi sempre chiusi, e quando capitava che si aprivano per qualche istante, se ne restavano fissi a osservare il soffitto. E chissà se erano già in grado di guardare oltre quell’intonaco scrostato o erano ancora attaccati a quella vita di cui sembrava non volesse riappropriarsi.
“Bernà, se sapevi lo spavento che mi prendevo certe volte! Capitava alcune sere senza luna e senza stelle di starmene rannicchiata sotto le coperte a cercare un sonno che non arrivava. Quando bussavano alla porta tremavo tutta, ma non c’era uomo accanto a me che potesse tranquillizzarmi, e non c’era nessuno se non il mio istinto a salvarmi dalle grinfie di chi non mi aveva trascinato in campagna perché la moglie aspettava un bambino ma per altri scopi. E non lo sai Bernà, cosa significa perdere un figlio prima che nascesse e seppellirne un altro di pochi anni poi. Ma nel frattempo continui a far nascere quello di un’altra donna, sorridi, sei felice per lei, e te ne prendi cura per giorni. Ma hai la morte dentro, perché non sei riuscita a portare a termine la tua di gravidanza. E pensi di essere la persona più infelice al mondo.
Per questo Bernà, per non restare sola e perché volevo sentirmi ancora viva, andare a ballare e continuare a fare il mio lavoro che mi sono risposata tre volte. Per questo, per quello, per l’altro: per una serie di motivi per il quale ci vorrebbe un’altra vita insieme per dirteli tutti”.
Ma le parole proferite a quel marito infermo, tornavano indietro come un’eco lontana.
Aveva scosso la testa tre volte, il medico del paese, tornato a visitare Bernardo per l’ennesima volta. Di segnali che fero presagire un suo risveglio non ne aveva trovato. Il respiro di quell’uomo ormai flebile, diveniva sempre più lieve, e il cuore faceva fatica.
Il dottore ne era certo: la notte che stava per arrivare sarebbe stata l’ultima per il terzo marito de sa levadora.
Quando il giovane medico che visitò Bernardo si lasciò alle spalle la porta della piccola casa di Ajaja Murtas, Pietrina restò in piedi fuori dall’uscio a fissare la sua figura perdersi nel buio. Non si era mai sentita così sola in vita sua. Ripulito il mento di Bernardo da un rivolo di saliva, si sistemò al solito posto accanto a lui.
“Pietrì, Pietrì, svegliati!”
Pietrina si era addormentata sulla sedia davanti al letto di Bernardo, e sentendosi chiamare si accorse di quanto le faceva male il collo per essersi appisolata in quella posizione così scomoda. Appena riuscì a capire chi era e dove si trovava, aprì gli occhi ancora impastati di lacrime, rabbia e paura.
“Bernà, sveglio sei?”, gli domandò stupita.
“Eja Pietrì, ma non ho molto tempo perché devo andare”.
“Ma macu ses?[45] Se non ti reggi manco in piedi!”
“Pietrì, vai tranquilla che non mi servono le gambe per andare dove mi chiamano. Piuttosto, non farmi perdere tempo e ascoltami, che di là già mi aspettano”.
Pietrina annuì, si sistemò meglio su quella sedia che negli ultimi tempi era diventata anche il suo letto, e si preparò ad ascoltare.
“Non sono mai stato bravo a parlare, eh Pietrì? Ma nonostante negli ultimi anni della nostra vita insieme non sia stato quel compagno che meritavi, volevo dirti che ti ho voluto bene. Ti ho voluto bene, Pietrì, dal primo giorno che ti ho conosciuta. Ogni volta che ti vedevo ridere, la mia gioia si mischiava alla malinconia, e mi veniva la nostalgia di ciò che non abbiamo vissuto. La pioggia che bagna le nostre guance giovani, la smania di tornare a casa presto da te per fare ancora l’amore, quei figli che insieme avremmo cresciuto. Avrei voluto che il nostro noi, fosse stato quando avevamo ancora più giorni da vivere che da raccontare. Quello che ti chiedo ora è solo di perdonarmi per il male che ti ho fatto”.
“Ohi Bernà, non dire così! Non ti ho odiato manco quando mi hai picchiata, e non ho desiderato di non averti mai incontrato neanche tutte le volte in cui l’alcol ti faceva sputare fuori tutte quelle brutte parole. No Bernà, c’è sempre tempo per correggere un albero che cresce storto!”
Mentre gli parlava, Pietrina si accorse che il viso di Bernardo stava cambiando. Le borse sotto gli occhi erano sparite, le folte sopracciglia e i capelli erano tornati neri. La pelle prima incartapecorita, era di nuovo quella levigata e luminosa dei vent’anni. Il sorriso metteva in evidenza i suoi denti bianchi.
Era stato proprio un bel ragazzo, Bernardo: ora anche Pietrina lo sapeva.
Lei si stropicciò gli occhi, pensando a un’allucinazione provocata dalla lunga veglia, e Bernardo colse il suo stupore nelle sopracciglia aggrottate.
“No, Pietrì, non hai problemi di vista, è così che torniamo quando ci prepariamo a partire. L’ultimo dono che ci viene concesso è quello di specchiarci nei nostri giorni più belli. Ora però di tempo non ne ho più davvero. Ciao Pietrì, e perdonami se questa candela ora non può più restare accesa”.
Ebbe un sussulto Pietrina, si svegliò e portò subito una mano al collo indolenzito per essere rimasto a lungo piegato. Si stropicciò gli occhi e fissò Bernardo sul letto. I respiri erano lunghi e profondi, su traballu de morri[46] lo chiamano, perché come il vivere anche il morire è una fatica immane per ogni essere umano. Si lotta per arrivarci a questo mondo e pure per abbandonarlo. Gli intervalli dei respiri si fecero sempre più lunghi. Poi ne arrivò uno più profondo, ma non ne seguì un altro. Era l’ultimo. Pietrina si sollevò dalla sedia e si avvicinò all’orecchio del marito. Disse qualcosa, ma nessuno sa cosa. Poi sorrise e uscì in cortile a prendere dalla fontana un secchio d’acqua per lavare il corpo adagiato sul letto come un Cristo sceso dalla croce. Fuori pioveva. Il latrato di un cane alla catena portatogli dal vento che si era sollevato, ruppe quel silenzio irreale. Era di nuovo vedova Pietrina, ora anche la notte lo sapeva.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo diciannovesimo
“Peppino, sa pulire i fagiolini?”
“Oh, non so... però credo di poterlo fare... sì!”
“Allora facciamo che mi aiuta! Ma non è che le dispiace?”
“Ma certo che no Ada, ci mancherebbe! Almeno non le sono solo di impiccio!”
“Ma no Peppino, quando mai di impiccio? Mi fa solo piacere parlare con lei, stia tranquillo!”
“Benedetta curiosità, da ore la tengo in ostaggio con i ricordi che mi mancavano. Mi deve perdonare Ada, mi verrebbe da andarmene, ma non riesco, sono sfacciato vero? Mi dica, sono così curioso da sembrare inopportuno e invadente?”
“Ohi Ohi, signor Peppino, ma cosa dice?”
Ada sorridendo tolse la tovaglia di lino dal tavolo e vi poggiò la cesta stracolma di fagiolini freschi e verdi.
“Vede mi ero dimenticata che son da pulire per domani. Sa, andranno sulla tavola della mia amica farmacista, queste donne di oggi che lavorano hanno poco tempo per cucinare, anzi, a dire il vero non lo sanno proprio fare!” nel dirlo si portò la mano alla bocca come a voler soffocare quella risata che invece uscì fragorosa e colorò la stanza.
“Allora, come si fa?” chiese Peppino veramente incuriosito.
“Guardi qua: testa e coda. E il gioco è fatto!” Con un rapido movimento del pollice e dell'indice, tenendo il fagiolino con l'altra mano, in un attimo fu ripulito e sistemato sul vassoio. Peppino osservò compiaciuto e divertito, e subito dopo, imitando la sua maestra, si mise all'opera.
Ada lo guardò e sorrise: quell'uomo distinto, ben vestito e con mani curate meglio di una donna, era seduto di fronte a lei a pulire fagiolini e chiacchierare, proprio come faceva Luiginu. In effetti non era solo quell'immagine a portarla indietro di qualche anno: raccontare di Pietrina le aveva riaperto nel cuore un'altra ferita, che altro non aspettava se non di tormentarla per sempre: non avere avuto figli. Peppino sollevò lo sguardo e si trovò faccia a faccia con la donna; notò che le sue labbra erano schiuse in un sorriso, ma i suoi occhi invece erano malinconici, come appannati da un velo sottile.
“Ada, chiedo sempre di me. Ma, se mi permette di farlo, desidererei anche sapere qualcosa di lei. L'ho per caso involontariamente costretta, con il mio voler sapere, a rattristarsi?” chiese l'uomo tenendo a mezz'aria tra le dita i fagiolini. Ada si scostò dal tavolo portando indietro la schiena, come a volersi allontanare da quella domanda che la costringeva a riaprire una ferita.
“Non è colpa sua. Ogni cosa mi ricorda ancora Luiginu, ogni pensiero mi riporta a lui. Il Tempo è come il mare, conserva i ricordi e prima o poi riporta tutto a riva!”
Si alzò dalla sedia e fece in modo di dar subito le spalle all'uomo mentre si avviava verso il camino che non bruciava ormai che poche braci. Tirò su col naso facendo attenzione a non destar sospetti sul suo stato d'animo, e fingendo di controllare quel fuoco ormai finito si mise ad armeggiare con l'attizzatoio.
“Lei Ada crede alla sincronicità?” chiese Peppino senza voltarsi a guardarla. La donna si voltò e cercando di riprendere la tranquillità che per un attimo aveva perso, gli rispose prontamente abbozzando un sorriso: “Peppino, non incominci a parlarmi difficile, cosa sarà mai questa diavoleria?”, sorrise anche Peppino, “ci sono cose che a volte sembrano degli accadimenti precognitivi Ada, come se ci fossero dei segnali disseminati sul nostro percorso e dai quali veniamo richiamati per vedere il nostro futuro: segnali messi lì per mostrarci la strada. Una sorta di risposta esterna alle nostre domande”, Ada continuava a guardarlo non seguendo il suo discorso.
“Quindi?”
“Quindi Ada, io scopro l'esistenza di Pietrina, arrivo qua e Pietrina muore. Penso che vorrei sapere tanto e una donna che mi affitta la stanza sembra sapere già che dovrò venire in questa casa a cercarla. E poi ci sono i sogni...”
“Peppino, lei sta cercando risposte che ha già. Non c'è bisogno che le cerchi in nessuna scienza incomprensibile. Non poteva essere che così”.
“Lei è una donna pratica Ada...” disse Peppino alzandosi.
“Sì Peppino, anche un po' ignorante per fortuna. Perché certe domande non hanno risposta. Quindi grazie a Dio tante cose non me le chiedo, perché non so nemmeno di dovermele chiedere. Ma adesso, sediamoci di nuovo, i fagiolini da pulire ancora son tanti. Continuiamo a chiacchierare Peppino, continuiamo...”
Le parole distribuite generosamente da Ada ripresero a inondare la stanza di ricordi. Ora erano semi, che sparsi nella mente fertile di Peppino, non tardavano a trasformarsi in immagini. Poi invece diventavano piccoli cristalli di luce, che facevano chiarezza sul ato di una donna appena sepolta e di riflesso aiutavano a conoscere meglio se stesso un uomo venuto da oltremare.
“Le piace il carnevale, Peppino?”
“Francamente no, Ada. Certo, da bambino mi sarò pure mascherato, lo ammetto, ma le confido che crescendo questa festa mi ha sempre trasmesso molta tristezza”.
“Credo che a molti non piaccia perché a pensarci bene è la metafora più significativa della vita. Siamo tutte maschere, e dietro non si sa mai chi si cela veramente”.
“Può darsi, Ada. Ma i miei motivi sono molti più spicci, non mi piacciono né il caos né le parate”.
“Sa, Ajaja andava matta per il carnevale. Le piaceva l’atmosfera che si respirava in paese durante quei giorni e amava preparare i dolci”.
Peppino smise per un attimo di spezzare le estremità dei fagiolini, e poggiò i gomiti sul tavolo chiudendo le mani in un unico pugno.
“Ada, ma dopo la morte del terzo marito poi cosa accadde a Pietrina? Continuò a far nascere i bambini?”
“Tre mariti, tre lutti. Tre lapidi e tre preghiere per i morti recitate ogni sera prima di dormire. Ma Pietrina non cedette allo sconforto, e come fece già in ato, seppe rialzarsi e sfidare quella vita che continuava a metterla a dura prova. Sepolto Bernardo, per qualche giorno andò a vivere a Baressa in casa della figlia, ma un’allodola non è uccello da stia e così, nonostante l’affetto dei nipoti se ne tornò a Ussaramanna”.
“Smise di fare la levatrice?”, chiese con impazienza Peppino, per rinfrescare la memoria di Ada sulla domanda che le aveva posto poc’anzi.
“Lei Peppino segue il calcio?”
“Ero tifoso del grande Torino, ma dopo la tragedia di Superga non sono più
andato allo stadio e non ho più voluto neppure ascoltare una radiocronaca. A distanza di quasi trent’anni è ancora una ferita aperta”. Mentre lo diceva, gli brillavano gli occhi, perché per la sorte infausta di Valentino Mazzola e dei suoi compagni aveva pianto come se gli fossero morti dei fratelli.
Poi si riebbe, chiese scusa per quel momento di debolezza del quale però non si vergognò.
“Cosa c’entra Pietrina col calcio, Ada?”
“Ha presente quando un calciatore esce tra gli applausi dopo aver giocato la sua ultima partita? Bene, Pietrina smise di fare sa levadora congedandosi con un ultimo grande parto, forse il più difficile della sua lunga esperienza. La vista non era più quella di un tempo e anche le forze cominciavano a venire meno. E poi, ormai, sempre più spesso i bambini nascevano negli ospedali, erano poche le donne che continuavano a partorire in casa propria. Per questo aveva deciso che non avrebbe fatto più nascere il figlio di nessuno”.
Peppino fissava Ada senza battere ciglio, impaziente di conoscere l’ultimo atto della carriera di Pietrina Murtas.
“Ma quando la notte di San Lorenzo bussarono alla sua porta, non riuscì a dire di no, e, promettendo a se stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta, si avviò verso la casa della partoriente”.
“Perché fu così speciale quell’ultimo parto?” la interruppe.
“Perché fu doppio, Peppino. La madre si chiamava Maria Lai, era una ragazza giovane e robusta ma le contrazioni divennero insopportabili e così il marito non riuscì a caricarla in macchina per portarla all’ospedale, costringendolo a rivolgersi a Pietrina. Durò tutta la notte, quel travaglio, ma alla fine madre e levatrice, stremate, riuscirono a far nascere quelle due creature. Un maschio e una femmina”.
“Be’, di certo una gran bell’ultima partita, quella di Pietrina”, sottolineò Peppino.
“Da quella volta non assistette più a nessun parto, a chi le chiedeva aiuto, diceva che il suo tempo era ormai ato. Però continuò a occuparsi di slogature e altri piccoli problemi di salute ai quali lei cercava di porre rimedio con erbe e unguenti”.
“Ah, una curiosità, Ada: prima ha parlato della ione di Pietrina per il carnevale, ma che c’entra con gli ultimi anni della sua vita?
“Il carnevale, Peppino! Il carnevale! Galeotto fu quel martedì grasso che riportò Ajaja Murtas a cercare nuovamente di animare quella candela lasciata ad ardere da sola da Bernardo!”
Peppino sorrise, riprese i fagiolini tra le dita e appoggiò la schiena alla spalliera della sedia per godersi il prosieguo del racconto.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo ventesimo
“Ma la frittella la prepara anche quest'anno Ajaja Murtas?”
“No ddu sciu... no ddu sciu![47]” rispondeva Tzia Vittoria Congia, proprietaria del bar tabacchi che si affacciava sulla piazza di Santa Maria, a chi a turno le rivolgeva questa domanda. Il carnevale a Ussaramanna era una festa allegra come in tutto il resto dell'isola: qui era d'usanza, oltre a sfilare e preparare i carri, fare la predica, ovvero tre persone mascherate con abiti da predicatore tenevano un sorta di sermone parlando dei vizi di alcuni compaesani. La festa si concludeva con il rogo di Re Giorgio, che niente altro voleva essere che il carnevale rappresentato da un fantoccio vestito di stracci: e così tra spari di mortaretti, vino e frittelle si ballava su baddu sardu[48] fino a tarda notte. Erano ormai parecchi anni che Pietrina si dedicava alla tzìpula po su mustajoni[49] e come a ogni carnevale si domandavano tutti se avrebbe tenuto fede all'usanza.
“Ma ita? Insa’? [50]” domandava l'impiegata dell'ufficio postale alle donne che la conoscevano bene, “Non lo sappiamo...” rispondevano queste sollevando le spalle, “Pietrina una donna fatta a modo suo è, se farà la frittella lo vedremo martedì!”
Ma la curiosità della frittella non era l'unico argomento sulla bocca degli abitanti di Ussaramanna; il divertimento maggiore del carnevale era appunto sa prèdica e
purtroppo Ajaja Murtas più di una volta era finita nel sermone del carnevale. Molti sapevano e si aspettavano di ridacchiare sotto ai baffi per i riferimenti che si sarebbero fatti riguardo alla vita piuttosto animata di Pietrina. Lei lo sapeva, Chi sa musca macedda bosi pighit[51], ripeteva spesso tra sé pensando alle malelingue.
Alla sua età a preoccuparla non erano certo le dicerie o il tempo che aveva ancora davanti da vivere; quello che desiderava era non restar da sola, perché ogni giornata trascorsa nel silenzio della sua casa la feriva e la indeboliva peggio di una malattia. Le ore le sembravano giorni, a casa il suo daffare era ormai ridotto a poche cose da sbrigare: a parte l'orto, non c'era altro che le interessava e che l'aiutasse a mandar via il giorno.
La notte poi, sembrava popolata da ombre e da voci che la tenevano sveglia. Che fossero i ricordi? Che fossero i suoi peccati? Ogni sera, per quanto non fosse mai stata una donna bigotta, recitava la sua preghiera alla Madonna, che madre e moglie come lei, l'aveva sempre protetta, diceva.
Ma non bastava a darle pace, non era per lei quella solitudine, aveva bisogno delle parole e del calore di un compagno, di questo era certa.
“Eccola Ajaja, eccola!”
“Arribat, arribat![52]“
“Ohi ohi, meno male! La frittella è salva!”
Le risate diventarono un coro, e chi più poteva, ava parola all'altro cercando di farsi sentire gridando quello che aveva da dire: il chiasso prodotto dai tamburi e dal frastuono dei carri rendeva difficile capirsi.
Pietrina, davanti al carro del pupazzo teneva la frittella dentro a una cesta coperta da un panno che la teneva calda. Come ogni anno, non si era tirata indietro a quella promessa tacita fatta tanti anni prima.
Arrivati al centro della piazza i carri si fermarono, i tamburi si zittirono e la gente si spostò ai lati per lasciare spazio alle tre maschere che avevano il compito di fare la predica. Pietrina tolse la gigantesca frittella dalla cesta, due grosse mani la sollevarono da terra come fosse una bambina, e lo sembrava davvero dato che l’età e quelle spalle ricurve l’avevano resa ancora più minuta. Improvvisamente Ajaja si sentì mancare la terra sotto i piedi, poi si ritrovò sul carro al fianco di quel grande Re Giorgio rassegnato al suo destino di condannato al rogo. Strano, per un reale, andare incontro a un processo con la sentenza già scritta come un volgare popolano. Per un istante la gente tacque, poi, dopo che quella collana fragrante fu messa al collo del pupazzo, ci fu l’esplosione di gioia della gente. Era l’ultimo segno di rispetto verso quel monarca fatto di cenci, quella frittella. Scesa dal carro, Pietrina prese posto fra le ultime file della folla.
A trainare il carro del predicatore c’erano quattro uomini robusti vestiti di pelli d’asino, che ragliavano a ogni frustata della maschera incaricata di badare a loro. Ora la gente era di nuovo in silenzio. Tutti, in piazza Santa Maria, che solo in quest’occasione e quando si ballava per Santa Vitalia e Sant’Isidoro era così affollata, pendevano dalle labbra de su bandidori[53]. I presenti mandarono giù di fretta gli ultimi cucchiai della zuppa di ceci, fagioli e lardo di maiale che gli organizzatori come ogni anno avevano preparato in un grande pentolone adagiato al centro della piazza. Sulla piazza, ripiombò il silenzio.
“Bosi bollu chistionai de unu topi arrutu a s’ollu. Est andau a furai in sa sienda
de Giuanni Orrù, ma no si-nd’est acatau ca sa dimigiana fiat stampada, is carabineris ant sighiu is stìddius de s’ollu de olia finsas a sa pratza sua[54]“.
La folla scoppiò in una fragorosa risata, ma tra i tanti presenti, uno solo non ci trovò nulla da ridere. Era Basilio Carta, il ladruncolo che qualche mese prima era stato accusato di aver rubato una cisterna d’olio d’oliva. Ci provò a discolparsi, ma non si era accorto che la notte prima si era lasciato alle spalle una scia oleosa che terminava proprio davanti al suo portale in legno. Ma su bandidori ne aveva per tutti. E nei minuti successivi mise alla berlina altri abitanti del paese, talvolta giudicandone le sottane, altre rimarcandone l’inclinazione a sollevare più il bicchiere che la zappa.
La voce era impostata, il viso nascosto da una maschera di legno, ma per la sagacia delle sue battute e dalla risata, molti l’avevano riconosciuto. Non Pietrina, che in realtà non ci stava troppo a pensare alle parole pronunciate da quello scranno improvvisato. Lei si guardava intorno per godersi i colori dei carri, per guardare gli occhi dei bambini attratti dalla magia del carnevale. E in ogni sorriso rivedeva se stessa, e riprovava la gioia di aver contribuito a farli venire al mondo.
Poi toccò a Pietrina. La voce camuffata non risparmiò neppure lei, ma questo Ajaja in fondo se lo aspettava. Quando il banditore la paragonò a una mantide religiosa, che dopo averli amati, i compagni se li mangiava, il suo sguardo si spense. Una sega-didus bècia[55], così l’aveva definita, perché lei aveva avuto tre mariti, e tre ne aveva seppellito. Un brivido le percorse la schiena. I suoi occhi si fecero lucidi, ma non perché quella parole l’avessero ferita, era solo il ricordo degli amori ati, di quei corpi freddi composti su un letto nuziale a essere riaffiorato da quel sottile strato di oblio sotto il quale aveva sepolto ognuno di loro.
Li aveva seppelliti lì per non impazzire, che se devi piangere tre mariti morti, manchi di rispetto a chi ti ha dato la vita. Lo pensava spesso, Pietrina, non
siamo al mondo per lavare di pianto le tombe, ma per vivere per quanto ci sia possibile, un pezzetto di vita anche per chi ci ha lasciato.
“Spero di non averla offesa, si fa per scherzare”, disse il predicatore appena ebbe vicino Pietrina.
Nel frattempo la gente che affollava la piazza, fissava inebetita il grande pupazzo che cominciava a prendere fuoco.
“Ma no che non sono offesa, pesante già lo è scherzare su queste cose, ma non me la sono presa per questo”.
“Io l’ho vista: prima rideva, ma dopo invece ha asciugato una lacrima. Posso sapere perché?”
“Ma niente, mi sono ricordata di quanto sono sola. Chi muore, lascia vuoti che nonostante tutta la buona volontà non siamo in grado di riempire”.
“Anche io sono vedovo sa?”, disse l’uomo, che però ancora portava indosso la maschera con la quale aveva inscenato sa predica.
“Vivo a Ussaramanna da parecchi anni ormai, ma non credo di conoscerla”.
Dopo quelle parole pronunciate da Pietrina, l’uomo misterioso che
portava giacca e pantaloni di fustagno, sollevò leggermente la maschera per mostrarle il suo viso. Poi la riabbassò sino al mento, che su predicadori doveva restare sotto mentite spoglie sino alla fine del martedì grasso.
Non conosceva il suo nome, Pietrina, ma lo aveva visto altre volte camminare con o dinoccolato tra le vie strette del paese, dove è impossibile che gli sguardi non si incrocino. Si chiamava Efisio Serra, aveva ato da un bel po’ i settanta, ma lo sguardo era sempre quello di un tempo. Da giovane, quando rientrava dalla campagna al tramonto, le ragazze del paese lo fissavano mentre sudato si lasciava rinfrescare dai leggeri soffi di maestrale che gli spettinavano i capelli. Lo sapeva, che quelle giovani tutte casa e chiesa lo guardavano con malcelato desiderio, e per tutta risposta entrava in paese con la camicia completamente aperta, a far vedere quel petto che per tutto il giorno si era scontrato con il sole cocente. Poi aveva trovato lavoro come capostazione alle ferrovie di Cagliari, e lì aveva vissuto praticamente tutta la vita. Rimasto vedovo, e con i figli emigrati in Germania, aveva deciso di tornare a Ussaramanna, “che il conforto della terra dove da bambino ti sei sbucciato le ginocchia, da grande cura ferite che manco la penicillina guarisce”, era solito dire.
“Le va di fare due i?” Ormai dopo anni di esperienza so come va a finire: lo bruceranno!”, disse Efisio simulando con le mani le fiamme che andavano verso l’alto.
A Pietrina tornò il sorriso sulle labbra, e mentre quell’uomo ancora mascherato le porse il braccio, per un attimo si dimenticò delle battute infelici declamate poco prima. Si allontanarono dalla piazza, leggeri come due gatti che a ogni o non producono rumore alcuno.
Il paese, ora sembrava tutto loro, non c’era anima viva che si aggirasse tra le strade lastricate accarezzate dall’umidità della sera. Tutti erano radunati sulla piazza principale, a vedere Re Giorgio morire sul rogo per l’ennesima
volta, nessuna pietà per lui, che tanto sarebbe tornato puntuale il prossimo anno per farsi arrostire di nuovo.
“Ma le andrebbe di ballare?”, chiese Efisio che nel frattempo si era sfilato la maschera, rendendo ora ben visibile il suo sorriso incorniciato da due baffi ben curati.
“Adesso? Ma dove? Io non ne sento musica!”, rispose lei stupita.
“Questa è casa mia e ho tanti dischi”, replicò l’uomo indicando una casa a due piani incoronata da un tetto di tegole rosse.
Pietrina sorrise, pensò che se avesse avuto mezzo secolo di meno, quello sarebbe stato il pretesto di un giovanotto con ben altre intenzioni.
“Va bene, ma solo un ballo però”, gli disse sorridendo.
Lui spostò verso la parete il tavolo e le sedie della cucina dove si intuiva la mancanza costante di una donna. Prese da un mobiletto posto a guardia del camino il vecchio grammofono che se ne stava adagiato su un centrino dozzinale e lo mostrò fiero a Pietrina. Poi da dentro quel mobiletto tirò fuori i suoi dischi e li sparpagliò come un mazzo di carte sul tavolo.
Erano anni che non vedeva un grammofono, Pietrina. La prima e l’ultima volta che lo sentì suonare era solo una ragazzina e ancora non aveva baciato neppure Giovanni.
“Questo può andare bene”, disse Efisio tenendo in mano un disco e con l’altra lisciandosi i baffi.
Nella piccola cucina che odorava di fuoco spento, arrivò la musica. Era la stessa delle feste, ma non c’era un organetto a produrla. E non c’erano manco i venditori di torrone, i bambini che si rincorrevano e le coppiette che eggiavano. Quella musica ora suonava solo per loro. Ballarono il ballo sardo fino a quando furono stanchi. Poi Pietrina osservò l’orologio appeso alla parete, erano già le sette, il sole era tramontato da un pezzo e lei ormai non se ne andava più in giro con il buio.
“Efisio, mi può accompagnare che ho paura?”
“L’avrei fatto anche se non ne avesse avuta”, rispose lui.
Alla luce fioca di quei lampioni che proiettavano le loro ombre sui muri di pietra, nessuno dei due parlò. Nel tragitto dalla casa di Efisio a quella di Pietrina, si guardarono in faccia una sola volta. I loro occhi ridevano.
“Grazie di avermi riaccompagnata e grazie del ballo, disse Ajaja Murtas sulla porta.
“Grazie a te, per la bella serata”, rispose lui che per la prima volta inavvertitamente le diede del tu.
“Domani pomeriggio vado in campagna a cercare asparagi, se ti fa piacere possiamo andarci assieme”, disse Pietrina senza preoccuparsi di essere troppo sfacciata.
“Se poi ci fai una frittata allora vengo di sicuro”.
Per salutarsi si strinsero la mano per qualche secondo. Sembravano due ragazzini, fermi sulla soglia di casa che si congedano dopo il primo appuntamento. Ma chi se ne frega dell’età se non importa manco a Dio quando ci chiama e se è troppo presto? Alla fine Efisio mollò la presa e si fece più ardito, si avvicinò di un o e le diede un lieve bacio sulle labbra. Quei baffi appuntiti le fecero il solletico e rise. Anche lui lo fece, e nonostante da giovane fosse stato un dongiovanni, arrossì. Poi si salutarono con la serenità di chi ha tanti ci vediamo domani da dire, e se ne andarono a dormire, ciascuno nel proprio letto.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo ventunesimo
“E così, immagino che questo sia stato il nuovo amore, il quarto matrimonio?”
“Certo Peppino, certo. Si sposarono il 26 maggio di quello stesso anno, circondati come sempre da pochi amici, pochissimi intimi”.
“Ci sono mica delle foto?”
“No, Peppino, no.”
“Peccato. Sarei stato curioso di vederla in una foto, anche se lei, Ada, è stata così precisa con il suo racconto, di o in o mi ha consegnato una donna dal carattere ben definito. Una donna forte e allo stesso tempo dolce, determinata, ma sensibile e amorevole”.
Sorrise Ada. L'uomo si alzò e fermandosi un attimo sulle gambe intorpidite dallo star troppo seduto, volse lo sguardo verso l'unico quadro che occupava la parete più grande della stanza. Raffigurato, al centro del dipinto, un grande vaso di terracotta che padroneggiava su di un piccolo terrazzo illuminato
dal sole. Su un lato, un folto cespuglio di gerani rossi che ombreggiavano delle timide e spoglie margherite, e in basso, in un angolo, si intravedeva quello che restava di una vecchia sedia impagliata.
“Le piace quel quadro?” chiese Ada incuriosita, “non mi chieda chi lo ha fatto, perché non lo so...” aggiunse imbarazzata.
“Sì, lo guardavo perché è bello. Non sono in grado di dare dei giudizi tecnici, ma mi trasmette delle belle sensazioni. Come se ci stessi dentro... come se fosse un ambiente familiare”, rispose Peppino senza staccare lo sguardo dal dipinto.
“Oh ma deve essere un quadro che qualcuno ha fatto riprendendo qualche cortile nostro, del paese senza dubbio. L'ho ereditato, per così dire, perché di sicuro non vale niente, dalla mia famiglia. Forse lo aveva fatto qualche conoscente di mia madre, o di mio padre, chissà...”
“Sa il vaso?”
“Il vaso? Cosa Peppino, dica...”
“Quel vaso vuoto, mi fa pensare alla mia vita...”
“Cioè? Peppino, lei ogni tanto mi confonde con i suoi pensieri complicati...”
“La mia vita”, proseguì l'uomo come ipnotizzato dal quadro, “un vaso da riempire, ecco cosa è stato il venire qua. Così come quel vaso ha necessità di ospitare la terra e la vita di una pianta, io avevo bisogno di riempire la mia esistenza di ricordi, di amore, di certezze... e l'ho fatto. Mi mancavano parti di me, e ora le ho”, concluse staccando finalmente gli occhi dal quadro e rivolgendosi alla donna, che in silenzio, lo aveva ascoltato.
“Peppino caro, io non ho fatto nulla, se non il mio dovere. Se davvero quel quadro le piace, mi posso permettere di regalarglielo?”
“Davvero farebbe questo per me?”
“Certo, che lo farei. Sarebbe un piacere sapere che lo porterà in continente e che ogni volta che lo guarderà si ricorderà di noi, di Ussaramanna, di me...”
“Come potrei non pensare a voi, al mio paese?”
“Ha detto mio Peppino...”
“Sì, perché così è, così sento... porterò con me il ricordo di un ato che mi appartiene...”
“Peppino, lei mi ha detto che sua madre, le disse di Pietrina in punto di morte...” Ada si avvicinò all'uomo e si mise a sedere di nuovo invitandolo a fare altrettanto, “ma perché è arrivato così tardi? Non sapeva che Pietrina stava male
da tempo?”
“No... purtroppo” rispose Peppino.
“Quest'ultimo matrimonio è durato tanti anni, almeno dieci, o dodici, mi pare. Ma li ricordo quei due “vecchietti” innamorati. In ogni luogo, se c'era da festeggiare, loro c'erano, almeno finché stavano bene in salute. Secondo me erano felici. Ma lei, negli ultimi tempi, non stava troppo bene. Tutto incominciò con la broncopolmonite due inverni fa: si curò, ma la debilitò tanto. Non usciva più, pensava quasi a tutto il marito, avvalendosi ogni tanto di qualche buona donna del paese che gli dava una mano. Ma anche lui, Efisio, non è che stesse troppo bene. Poverino, non ce l'ha fatta ad andare nemmeno al funerale”.
“Lei, Ada, non andava da Pietrina? Non l'aiutava?” chiese Peppino.
“Certo, che andavo”, rispose Ada con un sorriso che le illuminò il viso, “lei, era felice di vedermi, e mi aspettava. Parlava Pietrina, e mi raccontava le cose che ancora non sapevo”.
“Anche lei, un vaso... insomma…” disse sorridendo.
“Sì, e se vuole pensare che sono anche io un vaso, va bene!”
Risero a lungo, smorzando la stanchezza che quella giornata carica di ricordi e di emozioni aveva appesantito. Poi Ada con un gesto deciso avvicinò la sedia al muro per togliere quel quadro dal chiodo sul quale era appeso da chissà
quanti anni. La parete sembrò d’improvviso nuda, e al posto del quadro rimase sulla superficie bianca un alone grande come il dipinto.
“Oh, ora resterà sul muro questa brutta macchia, mi dispiace”, disse Peppino grattandosi la nuca.
“Ma no, che dice, non si preoccupi! Questa macchia, come dice lei, per me sarà un ricordo prezioso, guardandola io vedrò sempre quella terrazza illuminata dal sole. E mi ricorderò di lei”.
“Chissà, forse gli oggetti sono come noi, dopo aver vissuto a lungo in un posto, soffrono a doverlo lasciare”, rifletté Peppino.
“Perché no? Ma talvolta hanno bisogno di cambiare aria per non essere schiacciati dal peso della polvere”, disse con un sorriso Ada.
Il quadro ò nelle mani di Peppino, che lo osservò da vicino, soddisfatto come un bimbo che ha ricevuto il giocattolo che desiderava da tanto tempo.
“Un’ultima cosa, Ada. Non le ho chiesto se ieri è andata al funerale di Ajaja. Io sono arrivato tardi ma non credo di averla vista”, disse Peppino ormai sull’uscio di casa.
“Non mi ha vista perché non c’ero. Certe volte sentiamo il bisogno di dire addio ai morti per conto nostro, lontano dagli altri. Ho preferito restare a
casa e riordinare le idee per questo incontro”.
“Il nostro incontro? Ma scusi come faceva a sapere che questa mattina sarei venuto da lei se neppure ci conoscevamo?” chiese stupito.
“Ho tralasciato un particolare: in realtà io la stavo aspettando. Pietrina mi è apparsa in sogno due giorni fa e mi ha detto di tenermi pronta perché lei sarebbe venuto a trovarmi per sapere ciò che dopo questa giornata ata insieme le ho raccontato. Ora sa chi era la donna che da ragazzina aiutò sua madre a farla venire al mondo e riuscì a strapparla alla morte quando il suo cuore poco dopo smise di battere”.
Peppino le strinse la mano, poi sentì l’esigenza di abbracciarla. Prima di salutarsi, lui promise che sarebbe tornato a trovarla e le avrebbe regalato un bel quadro, magari un altro terrazzo che si affacciava sul sole. Ada sorrise, e mentre Peppino era ormai in strada sentì il bisogno di dargli l’ultimo consiglio.
“Peppino, quasi dimenticavo, ricordi che la cosa più importante del quadro non sta in quello che si vede”.
Lui annuì, fingendo di capire, pensando che in quel che aveva detto Ada ci fosse una morale.
La schiera di lampioni illuminò i suoi i nella via del ritorno. Solo lo scalpiccio dei suoi i meditabondi riecheggiava nella strada deserta. Il buio si era impossessato del cielo e di tutte le case, ma non della sua mente, dove ogni tassello ora aveva trovato la giusta collocazione.
“Tornato sei? È tutto il giorno che manchi: siediti che ceni, ho preparato minestra di lenticchie”.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Capitolo ventiduesimo
Gli era mancata. Mentre la fissava dalla finestra dello studio del suo appartamento, si era reso conto che la Mole Antonelliana gli era mancata. Sin da piccolo l’aveva osservata con grande ammirazione e rispetto. Sia di giorno, quando il sole rendeva impossibile guardarla troppo a lungo, sia di notte quando dominava maestosa su un letto di luci, ne rimaneva sempre affascinato. Le montagne azzurrine in lontananza e quel cielo aranciato pronto a virare sul nero della sera, gli avevano messo un po’ di tristezza. Pensava ai giorni trascorsi a Ussaramanna, Peppino. Ora che era tornato nella sua Torino, non sapeva perché si sentiva fuori posto, come un albero spuntato in un terreno e poi trapiantato in un altro. Era ata una settimana da quando aveva fatto rientro a casa, dopo che Ada aveva scoperchiato quel vaso di Pandora, sentiva di non essere più la stessa persona. Non aveva avuto neppure la voglia di appendere il quadro che lei gli aveva regalato. Lo aveva poggiato là, coperto da un telo per evitargli l’onta della polvere, su quel divano di pelle, con l’intenzione prima o poi di attaccarlo alla parete. Proprio in quell’istante gli venne la voglia di riguardare quel dipinto che la prima volta gli aveva trasmesso un senso di serenità. Mentre lo prese in mano per liberarlo dalla sua copertura, il quadro gli scivolò dalle mani e cadde rovinosamente a terra. Il vetro della cornice si ruppe, e da dietro la tela venne fuori un foglio di carta piegato in più parti.
E questo da dove viene fuori? Era questo che si nascondeva dietro il quadro, che idiota che sono! pensò Peppino. Si chinò a raccoglierlo, e capì subito che si trattava di una lettera. La calligrafia era elementare, e chi l’aveva scritta aveva utilizzato una matita. Peppino tornò verso la finestra per sfruttare meglio la luce della lampada sulla scrivania accanto alla finestra, e cominciò a leggere.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Caro figlio,
Per tutta la vita mi sono chiesta dove fosse questo mio primo nato, questo figlio che non ho partorito ma ho sempre considerato come mio, e che nome gli avessero dato. Ho speso la vita a fare nascere bambini, ma in nessuna occasione ho provato quello che ho sentito quando sei nato tu. Ero ragazzina come tua mamma quando venisti al mondo, che piccolo com’eri mi chiedevo come avresti fatto a farti strada nella vita. Il destino ha voluto che nascessi in una capanna di lamiere, e sempre lui ha deciso che non fosse la tua vera madre a vederti crescere. Povera sca, non fu facile per lei vederti andare via tra le braccia di quell’uomo che doveva portarti oltre il mare, diviso da lei. Diviso da me. Sei cresciuto lontano dalla terra che ti ha visto nascere, come capita a certi fiori che vengono strappati dal campo per finire il tempo che gli è stato concesso in un vaso. Ma ricorda che chi nasce in questa terra, anche se non lo sa, ne conserverà per sempre il ricordo. Pronto a riaffiorare dal profondo della sua anima quando meno se lo aspetta. Figlio mio, questa isola di graniti scolpiti dal vento, sarà sempre qui, pronta ad aspettarti. Come una mamma. Più di una mamma.
Chissà, magari un giorno la vita ti riporterà sulla strada che avevi lasciato, e sapendo chi eri e da dove vieni tornerai in possesso dell’identità che ti è stata rubata.
A me non rimarrà molto tempo da vivere, ma non ho rimpianti. Ho vissuto la vita che volevo vivere, e rifarei tutto nello stesso modo. Solo avrei voluto vederti almeno un’altra volta e sentire se la tua voce è come l’ho sempre immaginata.
Ti ho sognato più volte nell’arco della mia vita, ma quello che ho fatto stanotte sembrava vero. Tu eri seduto su un muretto fuori dal cimitero e io ti poggiavo la mano sulla spalla per chiamarti, ma tu non ti accorgevi di me. Nessuno si accorgeva di me. Non so se sto scrivendo questa lettera per te, o lo sto facendo per me. Se non deciderò di bruciarla, credo che la darò ad Ada, che ai miei racconti e in particolare a quello della tua nascita ha sempre dimostrato tanto interesse.
Ora ti saluto, figlio mio, che gli occhi sono stanchi e il fuoco ormai è spento.
Pietrina
Sollevò lo sguardo dalla lettera, Peppino. Le luci della città ora erano tante macchie lattiginose che danzavano ai piedi di un gigante appuntito. Poi con il dorso della mano si sfregò gli occhi bagnati di lacrime. Quando li riaprì Torino era di nuovo la città della Mole.
FINE
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Ringraziamenti
Questo racconto, frutto della nostra fantasia, ma ispirato alla figura di una donna realmente esistita, non sarebbe mai nato senza il prezioso contributo delle persone che ci hanno introdotto in un mondo che non conoscevamo.
Grazie ai Comuni di Baressa, Terralba e Ussaramanna e alla parrocchia di San Pietro Apostolo di Terralba per i preziosi suggerimenti.
Grazie a Ersilia Montisci, Vincenzo e Tosella Tanas, Enzo Mattana, Lucio e Tonino Podda, Ada ed Eugenia Malloci, Tiziano Schirru, Roberto Orrù, Piergiorgio Corona e Stefano Siddi.
Grazie a Salvatore Sardu, regista e scrittore, per averci aiutato a ricostruire il periodo storico dell’eccidio di Buggerru.
Grazie all’Acadèmia de su Sardu onlus, per la collaborazione fornita nelle parti scritte in lingua sarda campidanese.
Grazie a Beatrice Cossu, per aver riassunto con pennello e colori l’essenza di questo racconto.
Grazie a Valentina e Stefano, per averci ascoltato e sostenuto quando questo progetto prendeva vita.
Grazie soprattutto a Lello Montisci, per averci regalato i suoi ricordi di bambino, quando nelle giornate assolate d’estate, all’ombra di un albero, ascoltava con interesse i racconti dei tempi che furono.
roberto Normal roberto 2 10 2020-06-05T05:33:00Z 2020-06-05T05:43:00Z 34 27478 156631 1305 367 183742 14.00
Note
[1] C'era tutto il paese al seppellimento, ma un fiore non c'era!
[2] Nonna.
[3] Settevite.
[4] Peppino, non dare retta, nella vita quello che conta è ciò che abbiamo fatto per gli altri.
[5] Peppino, cosa c'è, non mi riconosci?
[6] Ohi ohi! Pietrì. Ma non basta che si veda la testa, tutto intero deve uscire!
[7] Illegittimo.
[8] Un maschio è, Francé!
[9] Gesucristo mi perdoni.
[10] Vai con Dio amica mia.
[11] Pantaloni.
[12] Sposa di babbo.
[13] Pietrina, allora ti piace?
Note 14-29
[14] Due lumache.
[15] Vergogna!
[16] Carogne!
[17] Perché come una Regina deve crescere, la bambina!
[18] Chi non sa ballare, è meglio che non vada alla festa!
[19] La puttana del paese.
[20] La medicina dell'occhio.
[21] La grande guerra.
[22] Pietrì o stai zitta o resti presa d'occhio... o con i calori.
[23] E allora?
[24] E allora non sei presa d'occhio Rosé, ma tuo marito ha le corna lo stesso!
[25] Vegliare.
[26] Devi mettere dentro alla bara i ricordi della bambina...
[27] Perché parlate di Zelinda come se fosse morta? Lei è viva...
[28] Strega e levatrice.
[29] La strega.
Note 30-40
[30] Oh, finiscila con queste stupidaggini!
[31] Guardala, che faccia, è venuta alla festa!
[32] E cosa ti sembra, non è una femmina senza vizio.
[33] Rigido come la morte.
[34] Aggiustare le ossa.
[35] Per saperlo fai come il mulo di nonno.
[36] Gli aiuti.
[37] Usciva per raccogliere gli intrugli del diavolo.
[38] Fai bene e vai in galera.
[39] Per uno che mi vuol male, dieci mi vogliono bene!
[40] La vita è così Bernà, chi fa sta zitto, e chi non fa nulla, parla male di chi fa.
Note 41-55
[41] Aprite, aprite che mi vuole uccidere!
[42] Vai via Bernà, che questa volta nemmeno la luna ti può perdonare!
[43] Questo è piatto reso.
[44] Il diavolo.
[45] Ma sei matto?
[46] Il lavoro di morire.
[47] Non lo so... non lo so!
[48] Ballo sardo.
[49] Frittella per il pupazzo.
[50] Ma allora? Quindi?
[51] Che la mosca macedda vi porti via.
La mosca macedda secondo un'antica leggenda era un insetto gigantesco, dotato di un lunghissimo pungiglione, responsabile della scomparsa di molte popolazioni.
[52] Arriva, arriva!
[53] Il banditore.
[54] Vi voglio raccontare di un topo caduto nell'olio. È andato a rubare nell'azienda di Giovanni Orrù, ma non si è accorto che la damigiana era bucata. I carabinieri hanno seguito le gocce dell'olio d'oliva fino al suo cortile.
[55] Una mantide religiosa vecchia.