Bruno Giusti sca Fazioli
Ritorno alla bellezza
Cure oncologiche e capelli: un aiuto concreto
prefazioni di: S. Ecc. Mons. Claudio Giuliodori Prof. Em. János Sandor Petöfi
Interventi di: Prof. Luciano Latini Prof. Egidio Aldo Moja
Postfazione: intervista con S. Em. Card. Ersilio Tonini a cura di Edoardo Danieli
Edizioni SIMPLE
INDICE Prefazioni Lasciate che mi presenti Il cancro cambia la vita La comunicazione medico-paziente La comunicazione centrata sul paziente La Psiconcologia Il progetto “Ritorno alla bellezza” Incontri Mi vedo bene (Prof. Luciano Latini) Un parrucchiere in Ospedale (Prof. Egidio Aldo Moja) Una lezione particolare (Prof.ssa sca Fazioli) Incontro con S.Em. Card. Ersilio Tonini (a cura di Edoardo Danieli) Le testimonianze
Conclusioni Approfondimenti Note bibliografiche
Ritorno alla bellezza Cure oncologiche e capelli: un aiuto concreto di Bruno Giusti e sca Fazioli
isbn: 9788862598927
EDIZIONISIMPLE 62100 Macerata Stampato da
Via Trento, 14 - 62100 Macerata Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore. Copyright © Edizioni Simple Prima edizione luglio 2009 Diritti di traduzioni, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
In copertina: ‘Atto quarto’, bozzetto dell’opera Manon Lescaut di Dante Ferretti, scenografo, premio Oscar nel 2005 per il film The Aviator di Martin Scorsese, premio Oscar 2008 per il film Swenney Todd di Tim Burton. In D.Ferretti, L’arte della scenografia (The art of production design), a cura di (edited by) Gabriele Lucci, Mondadori Electa/Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine dell’Aquila, 2005. Per gentile concessione dell’Autore.
Dedicato a mia moglie, a mio figlio Leonardo e a tutti coloro che hanno condiviso con me sogni, ioni ed affetti
Bruno
Dedicato a mia moglie, a mio figlio Leonardo e a tutti coloro che hanno condiviso con me sogni, ioni ed affetti Bruno
PREFAZIONI
S. Ecc. Mons. Claudio Giuliodori Vescovo di Macerata Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia.
Quando nella nostra vita irrompe una malattia che intacca profondamente l’esistenza sconvolgendola dal punto di vista fisico, affettivo, spirituale e sociale, tutto dentro e attorno sembra vacillare. Un’ombra soffocante avvolge pensieri e sentimenti oscurando attese e speranze. È la drammatica esperienza che vivono tutti coloro che si trovano ad affrontare un problema oncologico. Molti sono i progressi della medicina nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura. I tumori fanno meno paura, ma restano ancora numerosi i casi e ogni volta si ripropone un dramma umano da affrontare, una situazione destabilizzante con cui imparare a convivere. In questo scenario, che il più delle volte viene affrontato solo dal punto di vista sanitario, emerge sempre di più l’importanza della dimensione umana. Come vengono affrontate la diagnosi del male e la necessità di cure che modificano anche l’immagine di sè? Il male non ferisce solo il corpo. I suoi effetti si ripercuotono su tutta la persona e la sofferenza più grande non è certo quella fisica, ma quella interiore che spesso viene tenuta dentro e in molti casi è più devastante del male stesso. Curare la persona nel suo insieme e non solo il corpo è la grande sfida che attende oggi le strutture sanitarie, i familiari e tutti coloro che si accostano a chi sta affrontando una prova tremenda. L’attenzione al vissuto profondo della persona che affronta un ciclo di chemioterapia e ai risvolti del suo dramma interiore di fronte alla caduta dei capelli, che non è un aspetto affatto banale in quanto palesa pubblicamente la propria situazione, ha portato l’Associazione Oncologica Maceratese coordinata dal Prof. Luciano Latini, primario del Reparto di Oncologia dell’Ospedale di Macerata, a promuovere un innovativo intervento di o rivolto in modo particolare alle donne. Artefice e geniale esecutore di questa iniziativa è il Dr.
Bruno Giusti che da anni aiuta le donne ad affrontare in modo meno traumatico la caduta dei capelli. Il suggestivo racconto di tale esperienza raccolto in questo libro ci aiuta a capire da una parte quanto profondo sia il dramma vissuto dalle donne che perdono i capelli e dall’altra quanto bene si possa fare con interventi mirati e qualificati come quelli posti in essere dall’Associazione Maceratese ed in particolare dal Dr. Giusti che, attraverso questo progetto di accompagnamento personalizzato, che va sotto il nome di “Ritorno alla bellezza”, è riuscito a far tornare il sorriso sulle labbra di molte donne e a dare una concreta speranza di poter continuare a vivere in una certa normalità. È davvero un progetto straordinario frutto di una grande generosità e di una eccellente professionalità che ha trovato in Bruno Giusti una sintesi mirabile. Intelligenza e cuore hanno lavorato con grande maestria, producendo un modello di intervento concreto ed efficace oggi imitato da tanti altri centri che operano in questo settore. Gli effetti positivi raccontati e testimoniati da tante donne sono oggi certificati da ricerca scientifica a cui lo stesso Giusti ha dato il suo contributo con studi che gli hanno valso anche il conseguimento della Laurea in Scienze della Comunicazione. Non si può non percepire dentro questo progetto il soffio dello Spirito rigeneratore donato da Gesù Cristo nel momento di maggiore sofferenza, dall’alto della Croce. Il progetto “Ritorno alla bellezza”, apparentemente di natura solo estetica ed esteriore, in realtà porta dentro di sè la forza della vita, di quella vita interiore che traspare nella bellezza del corpo. Certamente la bellezza interiore sostiene e alimenta quella esteriore, ma anche quella esteriore contribuisce a rinvigorire quella interiore. E così, nei momenti di malattia e di maggiore prova, il viaggio dell’anima può continuare come prima e, forse, più di prima.
Prof. Em. János Sándor Petöfi Ph.D. Gianna Angelini
Chiunque si occupa di processi di significazione legati al mondo della comunicazione, sa che l’aspetto esteriore, la manifestazione fisica di un oggetto relazionale, è di fondamentale importanza per la definizione del suo significato. Assieme al contesto in cui tale oggetto vive, infatti, la sua forma esteriore contribuisce ad offrire una direzione interpretativa a colui che lo recepisce. Tale direzione è tanto più evidente, quanto più la forma che lo contraddistingue è carica di valori. Gli individui comunicano, da sempre, utilizzando diversi linguaggi contemporaneamente. Alcuni, di tipo intenzionale, sono il frutto di apprendimento e di esperienza, altri derivano più o meno inconsciamente da una serie di variabili sociologiche, psicologiche, oltre che comunicative, interne ed esterne, oltre che proprie. Il linguaggio dei capelli è senz’altro uno di questi ultimi. Nonostante, infatti, la biologia ci insegni che i capelli non hanno scopo funzionale per la razza umana, la quale potrebbe sopravvivere benissimo anche se fosse completamente calva, essi hanno assunto col tempo una importanza tale da avere oggi un ruolo cruciale per la definizione stessa del benessere generale di ogni individuo. La capigliatura è parte della nostra struttura corporea, essenziale a determinare e manifestare la nostra identità. Essa è indizio dello stato fisico e psicologico della persona, ma anche della sua condizione sociale e professionale. Essendo oggetto di manipolazioni, i capelli rispecchiano le modificazioni culturali e sicuramente il linguaggio dell’Io verrebbe spogliato di una delle sue risorse più ricche senza i capelli. In questo senso, il trattamento dei capelli costituisce in sè un segno dell’umano e l’attenzione che si dedica loro è un presupposto fondamentale per qualsiasi età, tipologia, razza a cui si appartenga. Il primo livello sintattico della comunicazione del capello è sicuramente il suo colore. Colui che vede, tende spontaneamente ad attribuire un significato ulteriore alla fisionomia che il colore dei capelli contribuisce a creare. Tanto che è difficile tutt’oggi scardinare il binomio stereotipato di “amore-tradimento” attribuito generalmente alle donne bionde (il primo modello di bellezza, la dea Afrodite, era bionda così come era bionda la Venere nascente del Botticelli) o quello di “creative ed indipendenti”, ma anche “confuse ed eccessivamente libere”, attribuito alle donne rosse. Il processo è una derivazione di combinazioni socio-culturali determinate, ma pressochè immediato. Nella storia umana, nessuna cultura è mai rimasta indifferente ai problemi dei
capelli. Tradizionalmente sede di forza, di energia, di fertilità e virilità, i riferimenti al loro trattamento, per una sorta di memoria mitico-storica comune, si perdono nella notte dei tempi. Nella nostra cultura occidentale una gran massa di capelli costituiva patrimonio indispensabile alla potenza di un sovrano; basta pensare alla vistosa parrucca di riccioli inanellati di Luigi XIV ed al fatto che l’appellativo di “Cesare”, “Kaiser”, “Zar”, attribuito nel corso dei secoli a sovrani o condottieri, ha anche un risvolto etimologico riferito a lunghi capelli da tagliare. La stessa corona regale, del resto, ha il significato di abbellimento della capigliatura (e di dissimulazione di una incipiente calvizie). Poichè una diversa lunghezza dei capelli fra maschio e femmina fa parte del nostro patrimonio culturale, tanto da apparire come un attributo importante del dimorfismo sessuale, siamo ancestralmente abituati a considerare che se un essere umano ha i capelli lunghi è femmina e se li ha corti è maschio. Ma cosa succede quando i capelli non ci sono più? Allora è come se ci fosse una regressione ad una condizione, come quella infantile, nella quale non si sono ancora ben differenziati i due ruoli, con i diritti ed i poteri che essi comportano. La perdita dei capelli può essere, pertanto, inconsciamente vissuta dal maschio come perdita di virilità o castrazione, e dalla donna come perdita di femminilità. Proprio in relazione a questi significati ulteriori, imporre il taglio dei capelli è sempre stato segno di profondo disprezzo. Gli antichi romani tagliavano i capelli dei prigionieri, delle adultere (in quanto i capelli sono sempre stati considerati simbolo di virtù muliebre) e dei traditori, così come, durante la seconda guerra mondiale, donne accusate di facili costumi o di collaborazionismo con il nemico venivano rasate e poi costrette a mostrarsi ai concittadini. Quando, però, non sono intenti punitivi a causare cambiamenti, ma ad imporli è la vita stessa, le interpretazioni ulteriori cui è esposto il corpo defraudato, denudato, si velano di una cupezza che difficilmente l’intelligenza umana è in grado di dissipare senza aiuto. Quando il taglio dei capelli, in realtà la loro rasatura, diventa traccia di minacce vitali, il mutamento figurale del nostro corpo appare in tutta la sua innaturalezza. Poichè il processo di significazione che esso
innesta avanza spontaneamente, lavorare affinchè produca comprensione, necessita di grande sforzo cognitivo. Bruno Giusti, con questo testo e con la descrizione del programma “Ritorno alla bellezza”, propone a tutti di comprendere questo sforzo e tentare di farlo. Egli offre la testimonianza del suo operato volontario come segno di speranza tangibile per coloro che soffrono, ma, soprattutto, per coloro che vorrebbero essere loro vicini nel modo giusto. Evitare un trauma che non è solo fisico, ma, soprattutto, psicologico, per tutte le conseguenze che esso impone, è in parte possibile, sebbene non semplice. In questo senso, lo scritto che Bruno Giusti ci offre è un lavoro prezioso. Che come ogni bene prezioso è raro, ma genera ricchezza arricchendo chi lo possiede, interiormente.
Lasciate che mi presenti
Spesso è inutile e vana la volontà non di chi intraprende cose facili, ma di chi vuole che siano facili le cose che ha intraprese” Seneca
Fino a cinque anni fa avevo solo la licenza di quinta elementare. Dopo le elementari, avevo frequentato i primi due anni di “Avviamento professionale indirizzo commerciale” a Portoferraio nella mia Isola d’Elba, ma poi decisi di seguire le orme di mio padre che all’epoca aveva una bottega da barbiere. Così, nel 1962, lasciai definitivamente gli studi per fare il parrucchiere in varie parti del mondo. Nell’ottobre del 2002 fui chiamato ad insegnare nell’ambito del “Corso professionale per acconciatori” presso l’Istituto Enrico Fermi di Ancona, come responsabile dell’indirizzo didattico “L’arte del parrucchiere”. Un bel giorno il preside della scuola mi chiama e mi dice: “Guardi Giusti, lei ha le mani che parlano, ma le manca un titolo di studio adeguato per poter firmare i diplomi validi nell’ambito della Comunità Europea”. Io lo guardo e gli chiedo: “Tra quanto tempo dovrò firmare quei diplomi?” “Due anni” fu la risposta. “Bene, non si preoccupi, quando sarà il momento, sarò in grado di firmarli”. Quel giorno andai direttamente all’istituto Enrico Fermi di Macerata e mi iscrissi per conseguire la licenza di terza media; nello stesso giorno, mi recai all’istituto Giovanni Pascoli, dove si poteva fare l’iscrizione al corso di studi superiori in Ragioneria.
Lascio a voi immaginare i sacrifici fatti nei successivi due anni per arrivare al diploma. Quante albe ho visto insieme alla mia gatta Betty che assonnata mi teneva compagnia! Nel giugno del 2004 sostenni e superai l’esame di maturità. Con il mio diploma in mano, andai subito dal preside ad Ancona in modo da poter mettere la mia firma da insegnante sui diplomi in questione, dopo di che tornai a Macerata, con ancora più grinta di prima. Mi recai, così, all’Università e mi iscrissi alla Facoltà di Scienze della Comunicazione, indirizzo sociologico. Il 18 Marzo 2008, con grande emozione ed immensa gioia, mi sono laureato nell’Aula Magna dell’Università di Macerata all’età di 66 anni, discutendo una tesi in psicologia sociale dal titolo: “La cura del corpo nel viaggio dell’anima”. Il primo a farmi gli auguri fu un amico che mi chiese: “E ora, con questa laurea, cosa ci farai?”. La mia risposta fu: “Ora deciderò cosa fare da grande”. Ho voluto raccontare il mio bizzarro percorso di studi per diverse ragioni. Quello che veramente mi ha spinto a riprendere gli studi è stata la consapevolezza che la cultura è quanto mai necessaria per arricchirsi e, quindi, per poter dare il meglio di sè stessi di fronte alle necessità del prossimo. Inoltre, come parrucchiere innamorato della propria professione, anche se tardi, ho capito che l’arte senza cultura non ha storia. Ma, soprattutto, il mio percorso vuole essere un esempio per tutti coloro che, indipendentemente dall’età, hanno il coraggio di rimettersi in discussione e di migliorarsi nonostante i sacrifici a cui si devono sottoporre. Molto spesso più di quelli immaginati, ma il raggiungimento della meta dipende dalla semplice forza di volontà. In fondo non si ha nulla da perdere, ma solo tanto da guadagnare. Trasformare la mia tesi di laurea in questo libro mi ha dato una grande emozione. Spero che arriviate a leggere queste pagine fino in fondo, perchè è proprio nell’ultima parte del libro che la fragilità del malato oncologico e l’importanza di essere a lui vicini, è di più immediata percezione. Grandi emozioni le ho ricevute anche da tante persone che, in questi anni, mi hanno incoraggiato negli studi nonchè stimolato nella stesura di queste pagine, dal Vescovo di Macerata Sua Eccellenza Claudio Giuliodori, alla mia vicina Ada, dal Professor Egidio Moja, al mio amico Giammario, e così via con una lista lunghissima di persone che, al di là della loro posizione culturale e sociale,
hanno tutte come comun denominatore l’essenza dell’anima e dei sentimenti, nonchè la dignità del proprio pensiero insieme al rispetto di quello altrui. Non mi dilungo a citarle tutte una per una; ognuno di loro, conoscendomi, sa che è nei miei pensieri anche se non verrà personalmente citato in queste pagine. Non posso tuttavia esimermi, in questa sede, dal ricordare l’amico di famiglia, il compianto Gaspare Barbiellini Amidei, validissimo giornalista, già vice-direttore del Corriere della Sera, che univa ai suoi numerosi incarichi anche l’insegnamento universitario in Italia e in Svizzera. Nonostante il lavoro lo tenesse costantemente lontano dalla sua Elba, vi tornava appena possibile, specialmente nel mese di agosto quando i suoi innumerevoli impegni lo lasciavano più libero. La prima cosa che faceva appena sceso dal traghetto, prima di proseguire per la sua villa a Lamaia, era quella di are al negozio di mio padre per farsi tagliare i capelli: ogni volta non si dimenticava di chiedere mie notizie. Due anni fa ebbi occasione di raccontargli della mia esperienza universitaria con l’onore di ricevere anche le sue parole di incitamento e di entusiasmo per la mia avventura: sarei stato veramente felice di fargli leggere la mia tesi prima di discuterla, per avere i suoi preziosi consigli. Purtroppo la sua improvvisa scomparsa non mi ha dato questa possibilità, e per questo mi sembra giusto ora rivolgergli il mio particolare pensiero: “Giace in un piccolo cimitero dell’Elba dove d’inverno è sempre primavera; castagni e colline colorate che lo circondano, raggi di sole e stormi di gabbiani gli fanno compagnia; anch’io sono nato là… All’Elba si torna perchè protegge dagli affanni della terraferma, o almeno Dio l’ha creata perchè così possa essere”.
In questo libro verrà descritto il progetto “Ritorno alla bellezza” e, più precisamente, il contesto socio-culturale che ne ha determinato l’ideazione, lo sviluppo, nonchè i risultati attualmente ottenuti grazie alla sua realizzazione, almeno per quel che riguarda l’impatto psicologico. Come sarà più dettagliatamente descritto, tale progetto ha lo scopo di aiutare le pazienti oncologiche sottoposte a chemioterapia nel disagio collegato alla perdita dei capelli, problematica sulla quale la maggior parte di esse riversa tutto il vero dramma legato alla loro malattia. Tale progetto, attualmente in atto presso il Reparto di Oncologia dell’Ospedale di Macerata, nasce grazie alla fertile interazione tra il Prof. Luciano Latini (oncologo, primario del reparto) e me (parrucchiere ormai da lungo tempo), complici un piatto di spaghetti ed un sano
bicchiere di Rosso Conero. La realizzazione di questo progetto va al di là dell’intervento sul corpo, dell’intervento estetico; vuole infatti essere un’attenzione amorevole alle pazienti per farle sentire meno sole e meno diverse soprattutto nelle prime fasi della loro malattia, ovvero all’inizio della cura chemioterapica. Il cancro, come tutte le patologie degenerative, comporta conseguenze gravi non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico, alterando in maniera incisiva le nostre relazioni familiari, professionali e sociali. La consapevolezza della propria vulnerabilità e mortalità, e il cambiamento di percezione dell’ambiente circostante rappresentano le problematiche più angoscianti del paziente oncologico che spesso lo portano a sentirsi improvvisamente un soggetto inutile e solo. Ciò peraltro è aggravato dalla natura della comunicazione quotidiana che tende costantemente ad essere ricca di fatti, secondariamente di pensieri e tendenzialmente priva o comunque molto povera di sentimenti. Solo nei momenti in cui siamo chiamati ad affrontare le difficoltà vere riusciamo finalmente a percepire quanto sia, in effetti, più importante l’Essere rispetto all’Avere e arriviamo ad apprezzare veramente le ricchezze interiori di persone fino al giorno prima per noi anonime, così come la povertà e la meschinità di molti di coloro di cui ci siamo sempre circondati. Negli ultimi anni si è assistito ad una sempre più frequente divulgazione di articoli a favore di una medicina più umana, più vicina al malato. All’inizio sembrava solo un brusio, adesso le testimonianze, sempre più illustri, a favore di una medicina che miri a “curare” nel senso più ampio del termine e non solo a “guarire”, sono tante; prime fra tutte quelle degli autori del libro Dall’altra parte, medici illustri, nonchè uomini intensi. Come suggerisce l’oncologo Prof. Gianni Buonadonna in tanti interventi, nonchè nel suo ultimo libro Medici umani, pazienti guerrieri, sarebbe opportuno inserire nelle corso di laurea di Medicina e Chirurgia un esame di umanità. Sono pienamente d’accordo con questo pensiero e anche se non siamo in grado di cambiare le istituzioni, con la mia amica, la Prof.ssa sca Fazioli, cerchiamo di andare in questa direzione nel piccolo del nostro agire quotidiano. Nel corso del suo insegnamento di Patologia Generale, prima di iniziare la parte dedicata all’oncologia, la professoressa parla ai suoi studenti di psiconcologia, li sprona alla riflessione e poi mi lascia semplicemente parlare della mia esperienza
e del contatto psicologico ed emotivo che ho avuto in questi anni con le donne colpite da tumore. È giusto non dimenticare mai quante persone non troppo lontane da noi soffrono e hanno spesso bisogno solo di una mano, un semplice sguardo o un sorriso in più, perchè necessitano di essere amate prima ancora di essere curate. Il mio vuole, quindi, essere un ulteriore suggerimento ad effettuare un’attenta riflessione sull’egoismo della nostra società, sui falsi modelli troppo enfatizzati e divulgati con tanta superficialità. Il presente libro è, dunque, suddiviso in varie sezioni e, più precisamente, in una prima parte introduttiva che tratta le problematiche del paziente oncologico, nonchè la relazione medico-paziente e in particolare la relazione medicopaziente in oncologia. Segue, quindi, una sezione che comprende la descrizione del progetto e cioè l’intervento estetico sulle donne sottoposte a chemioterapia. Per i caratteri specifici dell’intervento estetico operato, nella parte finale è stata aggiunta una serie di informazioni sulla fisiologia del capello e sui meccanismi che ne determinano la temporanea caduta durante il trattamento con i farmaci anti-tumorali.
Il cancro cambia la vita
“la grandezza di un uomo non si misura in base alla sua capacità nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo la caduta” Anonimo
Se il cancro segna la vita, il segreto della cura è l’armonia tra medico e paziente, tra il malato e chi si cura di lui, che si accorge di non essere più solo. Cosa è cambiato nel rapporto medico-paziente da rendere così necessaria una riflessione sull’aspetto della comunicazione? Si possono citare diversi fattori che hanno portato a questa situazione. Innanzitutto, negli ultimi decenni, in parallelo ad altri grandi eventi sociali, si è assistito ad un movimento di autonomia del paziente che lo ha portato a rifiutare una medicina di tipo paternalistico per preferire un approccio in cui anch’egli è parte in causa. Di fatto, il regolamento del consenso informato e l’istituzione del Tribunale per i Diritti del Malato sono chiare dimostrazioni di questa acquisita autonomia. In questo contesto si inserisce poi anche un altro importante fattore, rappresentato dal massiccio aumento di informazione medico-scientifica promossa da giornali e televisioni e, negli ultimi anni, da internet. Oggi accade sempre più frequentemente che il paziente arrivi dal medico avendo già ottenuto informazioni sulle cause della sua malattia, sul suo decorso, sulle terapie disponibili, nonchè sui centri più altamente specializzati presenti nel territorio, grazie a numerosi siti web facilmente consultabili dal proprio computer di casa. Infine, non vanno sottovalutate le profonde modificazioni epidemiologiche che si sono verificate negli ultimi decenni in tutti i paesi industrializzati, Italia compresa, e che contemplano la diminuzione delle malattie infettive accanto ad un drastico aumento delle malattie degenerative, ivi comprese le neoplasie, le patologie cardiovascolari, le degenerazioni del sistema nervoso (come
l’Alzheimer), nonchè l’osteoporosi ed il diabete mellito. Tali modificazioni hanno portato alla formazione di un numero sempre più rilevante di pazienti a decorso cronico-degenerativo, in altre parole di pazienti a lunga degenza che hanno bisogno di un medico di fiducia con cui interfacciarsi e con il quale sanno di dover interagire a lungo termine. A fronte di decenni durante i quali non si parlava di cancro e durante i quali era automatica l’equazione cancro uguale morte, i tumori vengono ancora oggi associati a sofferenza, dolore, difficoltà e sensi di colpa. I bisogni dei malati oncologici sono complessi, dalle mille sfaccettature e vanno oltre gli aspetti strettamente assistenziali e le cure mediche. L’impatto sulla sfera psicologicaemotiva e sociale di una diagnosi di cancro è rilevante, e procura nell’Io un eccesso di angoscia, un vissuto e fantasma di morte, che vorrebbe tener lontano la coscienza dalla realtà. Già Freud in due saggi: Lutto e melanconia e La negazione parla di questo meccanismo utile di difesa, ma, in realtà, le cose sono ben più complesse: all’equazione tra “idea del tumore ed idea di morte” bisogna assolutamente aggiungere: diagnosi, cura, comunicazione di aspetti clinici, ospedalizzazione, implicazioni emotive, interferenze ed esperienze sociali del malato. Infine, non meno importante, la fede religiosa. L’incontro con l’ospedale e l’approccio alla cura è stato vissuto per millenni in modo differente, anche tra popoli diversi e in diversi continenti. L’approccio occidentale alla cura era basato quasi esclusivamente sulla dimensione fisica, organica, contrariamente all’approccio orientale che riconosceva anche a livello della medicina ufficiale, l’importanza essenziale della psiche e dell’energia interiore per il proficuo trattamento della patologia psico-somatica. La medicina occidentale oggi chiarisce che ogni essere pensante ha il diritto di conoscere ciò che ha e ciò che verrà fatto sul suo corpo, non sottovalutando più la cura della psiche e dell’anima che costituisce un valore aggiunto, poichè aumenta la possibilità di esito positivo del trattamento terapeutico. Ogni individuo ha una propria personalità, e, quindi, manifesta in maniera diversa le proprie emozioni di fronte ad una diagnosi di tumore: ciò dipende, come già detto, in gran parte dalle diverse condizioni culturali e convinzioni personali e religiose. Tuttavia, vi sono alcune reazioni psicologiche che si
manifestano nella maggior parte degli individui e non necessariamente secondo una successione temporale precisa. Rifiuto: in una prima fase, la reazione più frequente è quella di diniego. Il paziente non può accettare una diagnosi così drammatica e nega attivamente ogni evidenza riguardo alla diagnosi formulata, cercando di convincersi che ci deve essere stato qualche errore, magari dubitando del referto dell’anatomopatologo o cercando una seconda opinione medica. Rabbia: contemporaneamente o immediatamente successiva alla reazione di diniego, c’è la rabbia. Le emozioni di rabbia sono un tentativo di ribellarsi alla comunicazione della diagnosi di malattia neoplastica. La collera è rivolta verso il destino (“perché proprio a me?”) e verso tutto ciò che è messaggio di vita che continua, ma solo per gli altri. La rabbia è per l’inganno subito, per il doppio gioco del dire, non dire e non voler far sapere. Il paziente tende a manifestare atteggiamenti di ostilità nei confronti di dottori e parenti: per esempio, si additano responsabilità specifiche nell’essere intervenuti troppo tardi, o si incolpano i dottori di non aver saputo fare il loro dovere nella fase precedente alla diagnosi. Questi soggetti assumono un atteggiamento guardingo e restrittivo durante il colloquio con il medico. Senso di colpa: in altri individui prevale un senso di colpa. Il paziente o alcuni membri della famiglia pensano (magari in base ad errate conoscenze mediche) che l’insorgenza della malattia sia stata causata da qualcosa di sbagliato che loro hanno fatto; oppure, che se essi avessero fatto qualche cosa di specifico, la malattia non si sarebbe sviluppata. Reazione combattiva: alcuni pazienti accettano con coraggio e fiducia la diagnosi clinica. Mostrano un atteggiamento di speranza accompagnato dalla ricerca di maggiori informazioni. Vogliono sapere dal medico le loro possibilità di salvezza e si ritengono fortunati perchè il tumore è stato diagnosticato in tempo. Rassegnazione: non si osserva una ricerca di ulteriori chiarificazioni, tranne il caso in cui insorgano nuovi sintomi. La vita si svolge normalmente senza eccessivo interesse per la malattia. Questa è comunque una situazione che si verifica piuttosto raramente. Ansia: l’ansia nei confronti della malattia si manifesta con agitazione psichica o
motoria e insonnia. Uno stato ansioso è comunemente osservato quando il paziente si sottopone a chemioterapia o radioterapia, per i possibili effetti tossici. Il paziente non solo ha paura della morte, ma anche della possibilità di sviluppare lesioni fisiche, danni estetici e la perdita della propria autonomia. Depressione: la reazione psicologica più comune e persistente nei pazienti con cancro è la depressione, nella maggior parte dei casi mista allo stato ansioso. La depressione si manifesta solitamente con un crescente disinteresse per la vita: le emozioni sai appiattiscono, vi è un rallentamento psicomotorio ed il paziente perde interesse nelle attività che svolgeva prima. Alcuni pazienti hanno pensieri incoercibili di morte e non hanno voglia di intraprendere alcuna attività (alcuni tendono a are tutto il loro tempo a letto o in poltrona). Vi può essere la perdita dell’appetito; a questo proposito va però detto che l’anoressia in alcuni pazienti oncologici può essere la conseguenza di una cachessia neoplastica, e non semplicemente una manifestazione dello stato depressivo. La depressione prende sempre più piede con il progredire dei sintomi. Possiamo distinguere due tipi di depressione: una reattiva ed una preparatoria. Reattiva ad una sconfitta su tutti i fronti, per tutto ciò che si è perso, per il sopravvento che una malattia ed il suo strascico sintomatologico può prendere su ogni aspetto del vivere. Perdita dei rapporti sociali, perdita della vita relazionale, perdita di autonomia sia fisica che decisionale, perdita della propria immagine corporea, ecc. La depressione preparatoria è, invece, funzione delle perdite che si stanno per subire: dagli oggetti affettivi alla propria vita. Paura dell’ignoto e dell’abbandono emotivo ed assistenziale. Consapevolezza del proprio avvicinarsi alla morte e delle difficoltà di relazione che questo provoca nel proprio ambiente, non solo familiare, ma anche sanitario. Nell’eventuale fase di malattia terminale la depressione diviene sempre più evidente, specialmente se astenia, anoressia e dolore accompagnano il paziente. Disperazione: questa fase è l’estrema conseguenza della precedente; infatti i pazienti si sentono completamente schiacciati dalla conoscenza della loro diagnosi. Si considerano gravemente malati e quindi prossimi alla morte. La qualità di vita è molto alterata dalle paure. È questa la risposta più negativa e difficile da sostenere da parte dei familiari e dello staff medico.
La comunicazione medico-paziente
“Il miglior medico è quello che sa infondere speranza” S.T.Coleridge La comunicazione della diagnosi di una malattia cronico-evolutiva come il tumore può essere considerata il fulcro ed il paradigma di tutte le comunicazioni che possono venirsi a creare nella relazione malato-famiglia-operatori sanitari. La depressione del malato oncologico è, infatti, strettamente correlata alla diagnosi e alla prognosi della malattia. Le implicazioni psicologiche della persona che si ammala di cancro, come discusso nel paragrafo precedente, sono notevoli e riguardano tutto il ciclo della malattia, dalla comparsa dei primi sintomi, alla diagnosi, alle cure mediche. Dire o non dire? Chi deve pensarci? come? Quando farlo ed in quale misura? Tradizionalmente sono questi gli interrogativi che ci si pone. Comunicare una diagnosi di cancro non è mai facile, anche se le reazioni dei pazienti sono spesso simili e largamente note agli psicologi. La comunicazione della diagnosi di tumore – problema sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro – ha ancora oggi modalità diverse nei paesi di cultura anglosassone rispetto all’Europa mediterranea e quindi all’Italia. Dagli anni ’60/’70 in rapporto alle decisioni dei comitati di bioetica e per motivi medicolegali, negli Stati Uniti la tendenza è quella di fornire la diagnosi direttamente al paziente. Al contrario, nella maggior parte dei Paesi di cultura latina, dove le posizioni sono più sfumate e discordi rispetto a quanto si verifica nel mondo anglosassone e nordico, viene lasciato un ampio margine all’incertezza ed alla variabilità delle scelte individuali. In Italia, purtroppo, molti medici tendono ancora oggi a sbrigare rapidamente questa poco piacevole incombenza e spesso il tumore non viene comunicato direttamente al malato, ma ai suoi familiari. Si crea insomma una rete di protezione attorno all’infermo, con la collusione tra medico, familiari e persone vicine al paziente. La comunicazione della diagnosi rappresenta uno degli atti più delicati nel
rapporto medico-paziente. Oltre a condizionare tutta la futura relazione tra curante e malato, ha una serie di notevoli implicazioni etiche e medico-legali. Non sempre i medici sono coscienti di ciò. Perciò è importantissimo l’atteggiamento del medico che è bene si dimostri sincero nel comunicare la diagnosi al paziente, diretto e sufficientemente ottimista per quanto riguarda la prognosi: è, inoltre, necessario che il medico sappia interpretare la risposta psicologica dei pazienti alla diagnosi di neoplasia, per poter identificare la possibilità e i tipi di intervento psicologico a loro favore e a favore delle loro famiglie. Per comunicare al paziente tutto ciò che può diminuire l’angoscia e permettergli di accettare la propria malattia, è preferibile che il medico eviti il gergo professionale e parli in termini semplici e comprensibili, dando al paziente spiegazioni precise e accessibili, evitando di parlare dei dubbi che egli nutre e senza insistere sulle eccezioni che ogni malattia presenta. Non è necessario che il medico insista sugli effetti secondari di taluni farmaci. Potrà parlarne solo se si presenteranno. La comunicazione della diagnosi non va ridotta alla sola trasmissione di informazioni. Oltre alla comunicazione verbale, è necessario considerare i vari modi di comunicazione non verbale. La postura, la mimica, la gestualità, il tono della voce e la prossemica svolgono un fondamentale ruolo nella comunicazione tra due soggetti. Informare sulla diagnosi evitando lo sguardo dell’interlocutore o, all’opposto non pronunciare la parola “tumore”, pur trasmettendo fiducia nelle terapie e speranza per il futuro, possono essere considerati due esempi particolari di come ciò che viene detto a parole possa essere in contrasto con ciò che viene detto con altre modalità comunicative. Se la teoria della comunicazione è nota solo ad una piccola parte della popolazione, la pratica della comunicazione è patrimonio di tutti. Prima ancora di comprendere il linguaggio, il bambino impara a distinguere impercettibili cambiamenti nel tono della voce o nell’espressione del viso della propria madre. Queste capacità andranno sempre più affinandosi con la crescita. Il primo importante quesito che occorre porsi su questo tema è se il malato desidera conoscere la diagnosi e la prognosi. Alcune indagini, effettuate in contesti culturali diversi dal nostro, segnalano, in una percentuale oscillante tra il 70% ed il 90% la richiesta dell’ammalato di conoscere la propria diagnosi. Per quanto riguarda la volontà di conoscere la prognosi, anche se infausta, i dati, più
contrastanti, variano dal 30% all’80%. Sulle conseguenze psicologiche alla comunicazione della diagnosi, sia gli oncologi sia gli stessi ammalati segnalano dei problemi di varia entità. Se da un lato viene riconosciuto un maggiore stress emozionale con caratteristiche di transitorietà, dall’altro sono numerosi gli effetti positivi riportati, relativi alle modalità di affrontare la malattia, l’accettazione dei trattamenti, la pianificazione del proprio futuro, la relazione con i sanitari ed i familiari. Bisogna, però, sempre tener presente che le attuali conoscenze provengono da ricerche condotte in Paesi con caratteristiche culturali diverse dal nostro. L’attuale orientamento degli oncologi italiani è di fornire informazioni se l’ammalato ne fa richiesta. È sicuramente pedagogico rispettare il desiderio di conoscenza del paziente se esiste una reale disponibilità del curante ad affrontare questo argomento. Spesso è, però, difficile per l’ammalato esprimere la sua volontà e, per il medico, anche a causa del poco tempo a disposizione, creare le condizioni per far verbalizzare al malato dubbi e paure. Se, nella maggioranza dei casi, il paziente chiede di conoscere la diagnosi, la stragrande maggioranza dei familiari vuole che questa venga accuratamente occultata. La fase avanzata della malattia e la sua prospettiva di morte a breve termine può essere dal malato in parte negata, ma non lo può essere per il familiare. L’angoscia per la futura morte del proprio caro solo in parte può essere mitigata mediante l’uso del meccanismo psichico dello “spostamento”. Questo meccanismo utilizzabile a scopo difensivo consiste nel “trasferimento” dell’accento, dell’interesse, dell’intensità di una rappresentazione da questa ad altre rappresentazioni originariamente poco intense, collegate alla prima da una catena associativa. Utilizzando lo “spostamento”, il profondo senso di impotenza del familiare viene indirizzato principalmente nell’iperattività ed in ciò che è stata denominata la “congiura del silenzio”. L’iperattività consiste nell’attuare il tentativo disperato di trovare il medico che possa scoprire un “clamoroso” errore diagnostico commesso in precedenza, oppure che possa miracolosamente guarire la malattia. Iniziano così i noti “viaggi della speranza”, viaggi che se da un lato mantengono viva la speranza di
guarigione, spesso creano numerosi problemi nell’ammalato che può arrivare ad addizionare nuove sofferenze nei suoi ultimi giorni di vita. La seconda modalità di “spostamento”, attuata dai familiari, consiste nel cercare di creare una “campana protettiva” tale da impedire che l’ammalato possa capire ciò da cui è affetto. I medici vengono preavvisati che l’ammalato non sa assolutamente niente della sua malattia, vengono fatti alterare i referti ed in casa si parla di tutto meno che della cosa più importante. La relazione che il malato ha con i familiari viene così a modificarsi radicalmente. Il tema dominante, quello della morte e della prossima separazione, viene apparentemente estromesso dagli argomenti di discussione, determinando un inevitabile impoverimento della comunicazione. Non si sa più cosa dire, perchè tutto quello che è essenziale viene taciuto e tutto quello che non è essenziale viene detto. D’altronde, parlare di morte a chi sta morendo significa far rivivere tutte le esperienze di separazione avute mobilitando tutte le emozioni ad esse legate. Il tentativo del familiare di nascondere la verità è però spesso fallimentare. Di solito è l’ammalato stesso che, da innumerevoli piccoli segnali provenienti dall’ambiente che lo circonda, e da importanti sintomi provenienti dal proprio corpo, capisce di avere ancora poco da vivere ed accetta la “congiura del silenzio” venutasi a creare intorno a lui. In una indagine realizzata su 120 pazienti seguiti a domicilio da un’équipe costituita da medici, infermieri e volontari, è emerso che, a giudizio dell’équipe, in molti casi il malato aveva una completa o vaga conoscenza della malattia, ma era conscio di essere in fase terminale. In un altro studio condotto su 80 pazienti in fase terminale era emerso che complessivamente 62 ammalati avevano parlato della loro possibilità di morire selezionando uno o più interlocutori a cui rivolgersi: 22 ne avevano parlato con lo staff dell’ospedale, 43 con il coniuge e 53 con un intervistatore. Nel triangolo malato-famiglia-sanitario, è quest’ultimo elemento ad essere designato alla diagnosi ed alla cura. C’è però una comprensibile titubanza del medico sulle conseguenze psicologiche di una diagnosi di inguaribilità. In un’indagine effettuata su 313 medici è risultato che il 90% era dell’opinione che “di solito è meglio discutere prima con un familiare che cosa comunicare al
malato di cancro”. Capire profondamente i motivi che spingono il familiare a mentire sulla verità non vuol dire accettarli e farli propri. È l’ammalato che deve essere considerato il principale interlocutore. Nell’ambito della comunicazione della diagnosi di tumore, dire o non dire la verità non corrisponde a far sapere o non far sapere. La stragrande maggioranza dei malati ha una coscienza di essere ammalato che convive con altri stati di coscienza che negano l’esistenza della malattia. Il dire la verità da parte del sanitario corrisponderebbe a dare una conferma incontestabile a qualcosa che già si sapeva, ma che magari non si voleva sentir dire. È stato detto che l’ammalarsi induce frequentemente un processo di “infantilizzazione”. Una persona che fino a poco tempo prima aveva nel contesto familiare un ruolo decisionale anche per altri, diventa un “bambino” accudito dai familiari “genitori”. Questo processo, che scaturisce nel sistema familiare, spesso modifica e stravolge i rapporti preesistenti. Il processo di infantilizzazione del malato è direttamente proporzionale alla gravità della malattia. Nel caso del malato in fase terminale si assiste ad una vera interdizione delle capacità di intendere e di volere. La medicina che ha come primario obiettivo la guarigione è una medicina dell’obbligo. Questa prevede dei protocolli di trattamento che possono essere solo accettati o rifiutati ed il rifiuto delle cure comporta la rinuncia a guarire. Al contrario, la medicina palliativa, l’area della medicina che si prende cura del malato giunto nella fase di inguaribilità, è la “medicina delle scelte”. Al malato viene prospettato un ventaglio di possibilità terapeutiche ed in questo modo diviene maggiormente protagonista della sua cura. Ma quale possibilità ha di scegliere un malato che non conosce, neppur lontanamente, ciò da cui è affetto? Quale possibilità di scelta ha il malato che non fa domande, ma con lo sguardo chiede di capire di più e non trova nel medico alcuna disponibilità? Cento anni or sono, Tolstoj, in La morte di Ivan Il’ic fece fare al suo personaggio questa riflessione che può essere considerata il paradigma del malato d’oggi: “Il maggior tormento di Ivan Il’ic era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse
tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento... Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli fero, non ci sarebbe stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola... Era un orribile tormento per Ivan Il’ic. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo”. Non è certo possibile rispondere in modo univoco, con un si o con un no, se è corretto o meno comunicare la diagnosi al malato in fase avanzata di tumore. La prima difficoltà consiste nel porsi questa domanda sull’ammalato senza speranze di guarigione quando ancor oggi, in Italia, meno della metà degli ammalati di cancro con buone possibilità di guarigione non viene messa al corrente del proprio stato. La seconda difficoltà sta nel fatto che, mentre per alcuni è preferibile conoscere a cosa vanno incontro perchè desiderano fugare ogni dubbio, per altri è preferibile non saperlo. Una terza difficoltà è connessa alla persona che deve comunicare una diagnosi di inguaribilità e di morte. Parlare ad un malato inguaribile della sua morte, richiede sicuramente un grande lavoro personale di messa in discussione della propria paura di soffrire e di morire. Come affermato sopra, l’intensità del trauma conseguente la diagnosi di tumore dipende dalla personalità del soggetto, dalle esperienze pregresse, dall’ambiente in cui si relaziona e, inoltre, dal tipo di tumore diagnosticato, dal valore simbolico e reale dell’organo colpito. Il progetto “esistenziale” dell’individuo, il suo progetto di vita, viene sconvolto destabilizzando la persona e determinando una marcata angoscia conseguente all’alterazione del vissuto corporeo e dell’identità, nonchè un forte incremento di pressioni pulsionali ed emotive che inducono spesso un processo regressivo. Dopo la prima fase di shock con la brusca modifica dell’immagine di sè e del proprio futuro, seguirebbe la fase reattiva, di presa coscienza della malattia in cui vengono effettuati i trattamenti. La fase di elaborazione ovvero di riflessione, è successiva ai trattamenti quando il paziente ritrova uno stile di vita spesso profondamente modificato. Risulta,
quindi, determinante l’ottica di comprensione, accettazione ed elaborazione della realtà da parte del paziente. Il paziente oncologico ha bisogno di elaborare il trauma psicologico della diagnosi di tumore e di acquisire elementi che gli consentano di rompere dentro di sè lo schema cognitivo (l’equazione “cancro=morte”) e di trovare un progressivo adattamento alla malattia che consenta di adottare un comportamento di compliance, cioè di completa fiducia nei confronti dei medici, ovvero dei suggerimenti sia diagnostici, ma, soprattutto, terapeutici che gli saranno progressivamente proposti. Il paziente e la famiglia devono adattarsi ai cambiamenti della vita che questo evento può comportare con la minore sofferenza possibile. La sofferenza psicologica con cui si reagisce alla scoperta della malattia ed ai trattamenti terapeutici si configura come una psico-patologia che produce conseguenze, spesso a lungo termine.
La comunicazione centrata sul paziente
“Non esistono malattie. Esistono solo malati” A.Trousseau
Come indicato dal nome, la medicina “centrata sul paziente” inserisce l’aspetto biologico della medicina tradizionale in una prospettiva il cui protagonista è il malato. La medicina tradizionale centrata sulla malattia appare oggi oggetto di numerose critiche: una serie di contributi nella letteratura recente suggerisce l’importanza di un allargamento del modello biologico di intervento nella pratica clinica medica, e in particolare viene suggerita l’utilità di un modello di medicina. È interessante notare che la presentazione del modello di medicina “centrato sul paziente” risulta in letteratura sistematicamente accompagnata da un riferimento al modello tradizionale. Questo uso è probabilmente suggestivo di una caratteristica irrinunciabile della nuova proposta: essa si fonda sui principi e sulle specificità del modello tradizionale e non intende rinunciare nè agli obiettivi (l’identificazione della malattia e l’impostazione di un trattamento terapeutico efficace) nè al metodo scientifico (la verificabilità sperimentale) che la caratterizzano. Questa medicina si propone, in effetti, non tanto come un’alternativa, ma come un allargamento del modello tradizionale. Tale allargamento si concretizza nella proposta di due novità concettuali e operative che si inseriscono nel metodo clinico. Si tratta, in primo luogo, della riflessione sugli scopi dell’intervento clinico: accanto ai due obiettivi tradizionali (diagnosi e terapia) viene suggerita l’importanza di raggiungere un terzo obiettivo, quello della comprensione del vissuto di malattia del paziente, con un allargamento dai dati biologici alla prospettiva del malato. Le riflessioni relative alle abilità relazionali
rappresentano il secondo aspetto in cui il contributo della medicina “centrata sul paziente” è stato particolarmente ricco. Proporre come obiettivo strategico anche la prospettiva del paziente, comporta un uso professionale e consapevole della comunicazione e della relazione nelle consultazioni cliniche e nel percorso di cura. La capacità di comunicare e costruire una relazione con il malato diviene, non un retorico bon-ton nè una pratica occasionale, ma un’esigenza irrinunciabile. In particolare ne possono essere discussi tre livelli: un livello generale di scopi, un livello più operativo relativo all’articolazione degli scopi in un processo comunicativo-relazionale e un terzo livello, pratico, che riguarda le capacità e le tecniche specifiche. Negli anni Ottanta, quando la teoria della medicina “centrata sul paziente” è stata concettualizzata per la prima volta e applicata nel campo della ricerca e della formazione medica, si trattava di un modello periferico e apparentemente riservato a un piccolo nucleo di apionati. Il modello trasformato è stato inizialmente considerato da molti, in effetti, una scienza “soft”: prendersi cura del malato ed entrare in empatia con lui erano riconosciuti come aspetti importanti di un’umanizzazione della medicina, ma pochi osservatori si erano resi conto del ruolo di precursore che questa visita medica avrebbe avuto nella medicina contemporanea. Il modello “centrato sul paziente” costituisce oggi la base di molti curricula di università sparse in tutto il mondo, dal Nord America all’Australia, ando per l’Europa e il sud-est asiatico. Il modello ha trovato poi un’ampia eco anche all’interno dei percorsi di formazione pre- e post-laurea e di educazione continua, con una serie di esempi anche italiani. Infine, va sottolineato come il modello oggi abbia una rilevanza imprescindibile all’interno della ricerca. La letteratura medica internazionale è testimone di una centralità sempre maggiore che le communication skills hanno nella pratica clinica medica: il numero di articoli sul tema è in costante espansione ed oggi se ne contano, indicizzati dal 1996 al 2005, 13.854 su Medline e 14.819 su Embase. I lavori che testimoniano i vantaggi dell’applicazione di un metodo clinico “centrato sul paziente” sono in progressiva crescita, suggerendo che esso garantisce un miglioramento degli outcomes soft quali la soddisfazione del medico e del paziente, ma anche vantaggi clinici quali una migliore compliance. In base a questi risultati, i campi di applicazione della ricerca si sono estesi dalla medicina generale ad altri ambiti
clinici.
La Psiconcologia
“La vita non ha senso, ma il senso dà significato alla vita” B.Giusti
Il primo pensiero di chi riceve una diagnosi di cancro continua ancora oggi ad essere: “Non mi rimane molto tempo da vivere”, anche in caso di buona prognosi. Questa idea è dettata spesso più dalla paura che la malattia evoca, che dalla realtà. In medicina esistono delle malattie che mettono a rischio la vita (basti pensare all’infarto, all’ictus, ad alcune malattie neurologiche) che tuttavia non evocano lo stesso spettro di una condizione senza speranza. Oggi la medicina, che ha trionfato su tante malattie, si scontra con il limite delle malattie degenerative. Il cancro, tra queste, ha occupato, nell’immaginario collettivo, per il vissuto di angoscia ed impotenza, il posto che era stato della peste, del colera o della tubercolosi. Nella vita quotidiana tendiamo a non pensare alla sofferenza, alla morte, tendiamo a negarle, a credere che possano capitare agli altri, ma non a noi o ai nostri cari. Una diagnosi di tumore rappresenta un evento traumatico in quanto per molte persone questa malattia continua a rappresentare una triade di sofferenza, disperazione e morte. L’impatto sulla sfera psicologica-emotiva e sociale di una diagnosi di cancro è rilevante per molti malati e per far fronte a questi bisogni si è sviluppata una vera e propria disciplina scientifica: la Psiconcologia, che si propone di intervenire sulla prevenzione, informazione ed educazione sanitaria, formazione del personale sanitario e dei volontari, attività di ricerca ed attività clinica. In Italia i primi contributi della disciplina risalgono agli anni Ottanta. L’aumento delle probabilità di cura del paziente oncologico pone luce, oggi,
sulla qualità di vita del paziente che non si conclude affatto con questa diagnosi. Si avverte l’assoluta necessità e continua attenzione per sostenere la miglior qualità della vita dei pazienti, la migliore cura possibile nella direzione della umanizzazione del percorso di malattia. La cura dei malati oncologici necessita, forse più che in altre malattie, un approccio globale, che prenda in considerazione la persona nella sua completezza e complessità. Nel percorso assistenziale che segue una diagnosi di tumore, vanno perciò attentamente controllati sia gli aspetti medici sia gli aspetti psicologici del paziente e del suo nucleo familiare. Il modello organizzativo di assistenza alla persona deve, come ben sottolineato nella risoluzione europea per il tumore al seno, tener conto anche del sostegno psicologico emotivo. La Psiconcologia si pone come disciplina specifica “di collegamento” tra l’area oncologica e quella psicologico-psichiatrica nell’approccio al paziente, alla sua famiglia e all’équipe che di questi si occupa. Gli obiettivi specifici di questa disciplina nell’area della prevenzione e della diagnosi precoce, della valutazione e del trattamento delle conseguenze psicosociali del cancro e della formazione del personale, vengono ormai proposti nei diversi paesi come punti centrali dell’intervento in oncologia. La Psiconcologia si situa come interfaccia da un lato dell’oncologia dall’altro della psicologia e della psichiatria, ed analizza, in un’ottica transculturale, due significative dimensioni legate al cancro: - l’impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente, la sua famiglia e l’équipe curante; - il ruolo dei fattori psicologici e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie. È un ambito di studio la cui complessità rende necessario lo sviluppo costante di un corpo di conoscenze e di una pratica specifica che implicano l’uso di particolari metodi di osservazione, di analisi e di raccolta dei dati. La specificità della Psiconcologia consiste nel suo rivolgersi ad un paziente il cui disagio psicologico non dipende primariamente da un disturbo psicopatologico, ma è generato dalla situazione traumatizzante della malattia.
Ciò implica il riferimento ad un concetto psicologico fondamentale: il concetto di crisi, considerato come “momento di cambiamento”, nell’ambito del quale possiamo distinguere tre momenti: - l’esplicitazione del problema (qui troviamo: il cambiamento nel rapporto con sè stessi e con gli altri, la consapevolezza della propria vulnerabilità e dell’eventualità della propria morte), che ha il valore di una richiesta di aiuto e testimonia il fatto che le circostanze oltreano le capacità di autogestione del problema da parte del soggetto; - la mobilitazione della rete sociale prossima al paziente (familiari, curanti); - lo sviluppo di un nuovo equilibrio attraverso l’individuazione di soluzioni adattive e l’accettazione del cambiamento. L’intervento psicologico clinico in oncologia ha come principali destinatari il malato e la sua rete sociale prossima, costituita in primo luogo dai familiari. Per questi ultimi la possibilità di un o psicologico specifico riguarda non soltanto il periodo di malattia del paziente, ma anche il momento successivo all’eventuale decesso, nelle fasi che caratterizzano l’elaborazione del lutto. Alla figura dello psiconcologo compete, inoltre, un ruolo di sostegno all’équipe che, in particolare nelle fasi avanzate della malattia oncologica, si confronta in modo intenso con la sofferenza del paziente. Risulta, infine, importante, il coinvolgimento di questa figura professionale nei processi educativi e formativi finalizzati a migliorare le capacità degli operatori a valutare, riconoscere e trattare in maniera integrata il dolore. La dimensione psicologica e relazionale rappresenta un elemento di peculiare importanza in oncologia. I curanti, infatti, devono, di volta in volta, saper tollerare e contenere quotidianamente le reazioni emozionali ed affettive dei pazienti e delle loro famiglie, sviluppando una particolare sensibilità rispetto alla percezione dei segni di disagio e dei limiti insiti nelle possibilità di adattamento del paziente stesso alla malattia. Talvolta la necessità – anche legale – di informare il paziente può essere difficilmente conciliabile con il desiderio dei medici di incoraggiare quest’ultimo: la costante collaborazione con psichiatri e psicologi che hanno acquisito una specifica esperienza sulla comunicazione in campo oncologico
permetterà, dunque, di affrontare meglio tali questioni. La psiconcologia risponde all’esigenza di una riflessione specifica sui processi psichici implicati nell’adattamento dei pazienti alla malattia e sulla valutazione della loro qualità di vita. Deve quindi fornire strumenti utili all’organizzazione della formazione di tutte le figure professionali coinvolte e proporre strategie efficaci nel sostegno psicologico al malato. Per tali ragioni, negli ultimi anni, la gestione delle problematiche oncologiche ha assunto un’impostazione organizzativa e professionale multidisciplinare, non gestita più solo da medici oncologi, ma con il coinvolgimento di una serie di operatori che, a vario titolo, intervengono e molto spesso si mettono in gioco per curare non solo gli aspetti organici della malattia, ma anche la sfera psicologica del malato che, spesso, si ammala in maniera altrettanto grave.
Il progetto “Ritorno alla bellezza”
“Il vero amico non è colui che ti asciuga le lacrime, ma quello che impedisce di versarle” E.F.Teixeira
È sulla base di quanto discusso in precedenza, in particolare sulla multidisciplinarietà che ha oggi acquisito l’impostazione organizzativa e professionale delle problematiche oncologiche, nonchè il nuovo concetto di medicina “centrata sul paziente”, che prende origine il progetto “Ritorno alla bellezza”. Tale progetto nasce da un’esigenza manifestata delle pazienti colpite da patologia neoplastica già dal primo impatto con l’oncologo, cioè dalla prima visita: da una statistica effettuata su donne malate, è risultato che circa il 94% chiede al dottore, come prima domanda, non tanto la sua prognosi, quanto il momento in cui perderà i capelli a causa del trattamento chemioterapeutico. Per la donna, la caduta dei capelli è un vero dramma a livello psicologico che, a volte, porta alla disperazione. Il primo impatto con la propria condizione è quello di ritrovarsi improvvisamente dalla sera alla mattina davanti allo specchio senza riconoscersi e sentendosi già calva. Questo è il momento più critico per le donne e necessita di aiuto di una persona che stia loro accanto, senza compatirle. Cos’è, allora, il progetto “Ritorno alla bellezza”? Si tratta dell’assistenza offerta settimanalmente nel Reparto di Oncologia di Macerata di due professionisti, esperti nella cura dell’aspetto femminile, in particolare un parrucchiere ed un’estetista che, di pomeriggio – quando non si eseguono le terapie – danno consigli sapienti alle pazienti sul loro look, perchè possano sentirsi a proprio agio e maggiormente soddisfatte di sè stesse. Con loro, alcune volontarie dell’AVULSS, che prolungano il turno mattutino, con la
disponibilità e la cortesia che le contraddistinguono. In un ambiente accogliente e a disposizione delle signore, ci sono poi diverse parrucche di ottima qualità, di varia lunghezza e nei colori più alla moda, che possono essere apprezzate dapprima su un catalogo e scelte, in un secondo momento, con tutta la tranquillità e la discrezione necessarie, senza l’increscioso assillo del prezzo, di solito decisamente proibitivo. In altre parole, tale progetto si propone di aiutare le pazienti oncologiche ad affrontare più serenamente il grande disagio correlato alla perdita dei capelli, disagio sul quale riversano tutto il vero dramma oggettivamente legato alla loro patologia. Partiamo dal nome del progetto: “ritorno” è il percorso che vorremmo compissero le nostre pazienti in direzione esattamente opposta a quella verso cui la drammatica esperienza della malattia le spinge, inesorabilmente. Il cancro segna la vita, e non solo per le cure a cui bisogna sottoporsi, per gli effetti che ne derivano, per il vuoto e le paure che si creano “dentro” chi si ammala. Ci sono aspetti, se si vuole, più esteriori e superficiali rispetto a quelli fondamentali della guarigione, dell’aspettativa di vita, della tranquillità e della speranza per il futuro, ma non meno importanti. Specie per una donna. Ed arriviamo alla seconda parola: “bellezza”. Quando una donna perde i capelli, l’importanza di essere belli dentro conta ben poco. A costo di cadere nell’ovvietà, vale la pena ricordare quanto conta e sia, in alcuni casi, determinante e “discriminante” l’aspetto fisico nella società in cui viviamo. Il modo di vestire, gli accessori giusti, il taglio ed il colore dei capelli, il trucco che valorizza sono solo alcuni dei fattori che contribuiscono oggi a sentirsi a proprio agio e accettati dagli altri. Dietro a questo progetto, c’è la volontà di stare vicino, in un momento così particolare come quello della malattia, alle donne che ne sono colpite. Esso vuole essere un abbraccio amichevole, una pacca sulla spalla, un suggerimento complice, una stretta di mano rassicurante, una battuta per sdrammatizzare, una parola per dire che tutto tornerà come prima. È un “esserci” quando tutto sembra voltarti le spalle, un voler appianare le difficoltà e i disagi che purtroppo molte pazienti incontrano, in aggiunta a quelli oggettivi legati alla malattia. Nella fase iniziale di questo progetto si esegue un consulto con la paziente, il che
significa ascoltarla, spiegarle in che modo verrà aiutata e rassicurarla dal fatto che avrà una persona al suo fianco per ogni esigenza in tutto il periodo di cura con la chemioterapia. Vengono date alle pazienti anche tutte le informazioni riguardo al danno che i farmaci provocano ai loro capelli. Tali danni dipendono dal fatto che sin dalla prima applicazione, i trattamenti chemioterapici vengono somministrati tramite flebo, entrando così subito in circolo e arrivando quindi velocemente anche al cuoio capelluto. Dopo 12 giorni dalla prima applicazione, le cellule che compongono la matrice sono distrutte, provocando la massiccia caduta della chioma. Subito dopo la chemioterapia, le cellule della matrice ricominciano a formarsi ed il capello ricresce.
Il Progetto “Ritorno alla bellezza” è stato ufficialmente presentato al pubblico una magica sera estiva nel giardino “Colle dell’infinito” da cui Giacomo Leopardi prese ispirazione per i versi della famosa poesia, in occasione di un evento di beneficienza organizzato dalla Contessa Anna Leopardi, da anni membro del Comitato Regionale dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. Dal febbraio 2006 ad oggi, hanno aderito al progetto “Ritorno alla bellezza” 199 pazienti, di cui: il 31% attualmente porta ancora la parrucca, non avendo ancora terminato lo schema terapeutico indicato, mentre il 50% ha tolto la parrucca e risulta clinicamente guarita. In alcuni casi il protocollo inizialmente previsto di otto cicli chemioterapici è stato successivamente ridotto in base ad una regressione oggettiva della neoplasia (8%). Naturalmente ciò non significa che il progetto qui descritto possa essere associato ad una riduzione del trattamento chemioterapico. Almeno senza alcuna evidenza scientifica inequivocabile, che esula completamente dalla mie competenze professionali, questo non può essere assolutamente affermato. Tuttavia ritengo, per esperienza diretta, che la qualità della vita di queste pazienti ne trae sicuramente beneficio, come documentato da alcune testimonianze esemplificative riportate nelle pagine successive.
Vorrei prendere spunto da una frase di Albert Einstein che mi ha particolarmente colpito per la semplicità del concetto come solo le grandi persone dotate contemporaneamente di genio e sensibilità sono in grado di esprimere con tanta efficacia. Analizzando e valutando ogni giorno tutte le idee, ho capito che spesso tutti sono convinti che una cosa sia impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non sa e la realizza. Sicuramente in campo oncologico, al di là del lungo volontariato finalizzato alla raccolta di fondi per sostenere la ricerca sul cancro, mi sentivo nella veste dello sprovveduto. Ma, armato del desiderio di operare più incisivamente in questo campo, ho cercato di valutare come la mia professione potesse essere di aiuto, se non altro psicologicamente, per le pazienti prossime ai trattamenti chemioterapici. La mia sensibilità era quella del parrucchiere che ben sa quanto la donna rifletta sul suo aspetto esteriore tutte le sicurezze del suo mondo interiore. Con questa emozione ho iniziato il progetto descritto e man mano che questo prendeva corpo ho avuto modo di ritrovare in tanti trattati di psiconcologia il valore reale di quanto stessi facendo. Forse era banale, forse no, per me sicuramente è stato spontaneo. Una logica conseguenza. Lascio al lettore, ma soprattutto alle donne a cui ho affidato la mia professionalità e sensibilità, le opportune conclusioni. Sant’Agostino scriveva: “Aggiungi alla scienza l’amore e la scienza sarà utile non per sè ma per l’amore”. In definitiva, due sono le “parole-chiave” di questo progetto: Umanità, perchè basta veramente poco per far sentire meno solo qualcuno. Disponibilità, perchè molti dei problemi non direttamente legati alla malattia sono solo “falsi” problemi, che si possono aggirare con facilità, per esempio la disponibilità di tempo, da regalare come cosa preziosa e rara a chi pensa di non averne più o di non averne abbastanza.
Incontri
Sono qui raccolte le storie vere di Silvia, Lucia e Paola (alle quali ho dato nomi di fantasia).
Il mio primo appuntamento
Ore 15: il mio primo appuntamento in studio. Quel giorno, aspettando la mia prima paziente, i pensieri si sovrapponevano veloci nella mente, mescolandosi alle mie emozioni. Non devo forzarla in nulla, ma farle capire che la voglio solamente aiutare grazie a quello che possono fare le mie mani. Pensa a tutte le tue esperienze, ripercorri tutti gli anni ati a lavorare allo Sferisterio quando ogni sera mettevi decine di parrucche agli artisti, alle ballerine ed al coro; fai appello a tutta la tua sensibilità perchè la situazione è ben differente da quella vissuta. Prima di tutto cerca di metterla a suo agio con dolcezza. Infondile fiducia… FIDUCIA, sì, sì… si deve innanzitutto fidare di te. Ad un tratto sento bussare e mi distolgo immediatamente da tutti questi pensieri. Silvia: Permesso? Buonasera, signor Bruno, sono Silvia ed ho un appuntamento con lei. Bruno: Buonasera, signorina Silvia, si accomodi, la stavo aspettando. Mi sento gelare il sangue; avevo davanti a me una bella ragazza, forse venticinque anni, capelli lunghi fino alle spalle, occhi verdi, corporatura da modella! Ma come è possibile che una ragazza così stia veramente male? Era accompagnata da un’amica. Silvia: Si… si… eccomi. Hanno tanto insistito che venissi da lei per un consiglio qualora mi cadessero i capelli, ma se devo essere sincera io non ho nessuna intenzione di prendere una parrucca. La voce denotava ansia anche se si imponeva un atteggiamento disinvolto. Silvia: Sa, io ho i capelli lunghi, come vede; e voglio restare così. Comunque,
dato che sono qui, possiamo vedere qualcosa, se vuole… Mi dica lei, altrimenti vado via, non voglio farle perder tempo! Bruno: No, rimanga. Guardiamo insieme qualche modello, vediamo se riusciamo a trovare qualcosa che le possa piacere e, adattarsi bene al suo viso, naturalmente che non sia troppo diverso dalla sua attuale pettinatura. Cominciamo così a sfogliare un catalogo di parrucche, con vari colori e tagli. Silvia inizia a provare quelle a disposizione. Silvia: Questa no, per carità, sembra la pettinatura di mia nonna! Questa mi fa proprio sembrare un pagliaccio. Ad un certo punto coinvolge nella scelta anche l’amica Roberta. Una parrucca, un commento di scetticismo tra loro. E si va avanti così per una mezz’ora. Con calma e dolcezza cercavo di mostrarle tutta la mia esperienza per risolverle il problema, ma soprattutto quello che volevo era la sua fiducia. I gesti e le parole mi venivano spontanei: mi sentivo profondamente toccato dalla presenza di una ragazza così bella e giovane, colma d’ansia e di angoscia anche se cercava disperatamente di nasconderlo. Alla fine è crollata e ha sfogato tutto il suo malessere interiore, il suo dramma con un gran pianto. Non riesco a descrivervi il mio stato d’animo di allora. Ho cercato di tirare fuori il meglio di me stesso per calmarla, per arrivare a darle un pizzico di fiducia e serenità ed alleviare quel macigno che le pesava sul cuore. Terminato lo sfogo improvviso, Silvia si è quindi alzata di scatto. Silvia: Basta. Non va bene niente. Roberta, andiamo via. Grazie, signor Bruno, è stato gentilissimo; mi dispiace se le ho fatto perdere tutto questo tempo. Bruno: Aspetti signorina! Mi dispiace di non essere riuscito ad aiutarla. Prenda in ogni modo il mio biglietto, caso mai ci ripensasse. Mi telefoni, io sono sempre disponibile a darle un consiglio, un aiuto. La saluto e, mi raccomando, conservi tutta la sua grinta. Così il mio primo appuntamento si era risolto con un fallimento. Ero un po’ depresso e frustrato. Chissà che cosa mi ero messo in testa di fare… forse avrei dovuto insistere. Avevo molti dubbi, ma soprattutto mi dispiaceva di non essere
riuscito ad esserle in alcun modo di aiuto. Invece le mie parole non erano andate perse. Con mia grande sorpresa, dopo due giorni mi è arrivata una sua telefonata. Silvia: Buonasera, signor Bruno, sono Silvia. Posso venire a chiederle un consiglio? Ero veramente convinto che non l’avrei più risentita e che lei avrebbe risolto diversamente il problema. Così non dimenticherò mai quella telefonata insperata: ero pieno di entusiasmo e di gioia e non vedevo l’ora che arrivasse l’incontro. Oggi, dopo aver incontrato centinaia di pazienti oncologiche, posso dire che la reazione di Silvia rientra nella norma e non sarei più stupito della sua telefonata di ripensamento, piuttosto mi stupirei del contrario. Silvia: Buonasera signor Bruno, sono venuta ancora a chiarirmi le idee e a disturbarla, ma sa, mi capisca, è stato così difficile per me accettare l’idea che posso perdere i capelli… io insegno e mi vergognerei troppo senza i capelli, come mi potrei presentare al lavoro? Sicuramente aveva parlato del suo problema con la cara amica. Succede che le amiche non siano a volte in grado di darti l’aiuto di cui hai bisogno; penso che lei abbia infine deciso di affrontare il problema da sola e di rivolgersi a me; probabilmente ero riuscito in qualche modo ad ispirarle fiducia. Bruno: Signorina, sapesse che gioia rivederla! Rimettiamoci qui a sedere e vediamo di nuovo con calma quale è la migliore soluzione per lei: insistiamo finchè non troviamo una pettinatura nuova adatta al suo viso; le faccio ora il nuovo taglio o quando meglio lei lo desidera. Faremo poi lo stesso taglio alla parrucca così nel caso ne avesse bisogno è qui, già pronta. Vediamo: beh, innanzitutto, data la lunghezza dei suoi capelli, io direi di escludere subito le parrucche corte. iamo a quelle un po’ più lunghe che più assomigliano al suo taglio. Pian piano, con meno ansia e diffidenza del primo incontro, troviamo una parrucca con colore simili ai suoi capelli. Bruno: Lo facciamo ora il taglio ai suoi capelli? Le va? Per il momento non è cambiato niente, meglio farlo ora, così si abitua al suo nuovo look. Si fidi. Vedrà
che se dobbiamo mettere la parrucca nessuno se ne accorgerà. Glielo assicuro. È vero che non sono un mago, ma ci metterò tutta la mia esperienza perchè la questione mi sta molto a cuore. Silvia: Questa che abbiamo scelto non è male, ma è sicuro che non se ne accorgerà nessuno? Bruno: Questa che abbiamo scelto è la parrucca più adatta al suo viso e alla pettinatura che di solito porta. Silvia: Vabbè. Per oggi basta. Vedremo quello che succederà… Forse domani vengo e faremo questo taglio, così ci prepariamo psicologicamente al futuro. L’indomani mattina arriva: la vedo che non è ancora del tutto convinta. Bruno: Stanotte non ho fatto altro che pensare al taglio che le devo fare. Voglio un risultato eccezionale. Così capirà da sola che andrà tutto bene. Silvia: Grazie Bruno… Mi raccomando… tagli poco però! Bruno: Stia tranquilla, cercherò di fare una magia. Così mi metto al lavoro, con l’entusiasmo di un ragazzino. L’ultima spazzolata prima di concludere et voilà. Silvia: Bruno, grazie, questo taglio mi piace molto… Speriamo però che non li perda per davvero i capelli e quindi che non debba aver bisogno di mettere la parrucca… Che Dio mi assista… Sa tutte le mattine vado in chiesa a pregare e chiedo sempre a Dio che mi dia tanta forza per affrontare questa prova. Arrivederci e grazie, grazie di tutto. Ci risentiamo. Dopo 15 giorni mi chiama al telefono e sento subito il tono deciso della sua voce. Silvia: Bruno, devo venire da lei al più presto per un appuntamento, preferibilmente verso sera. Bruno: Va bene, Silvia. Cosa ne dice di domani sera alle 19? Silvia: Benissimo, ci vediamo domani sera.
Ore 19 del giorno dopo, Silvia arriva da sola, già con il fazzoletto sulle mani e le lacrime agli occhi. Silvia: Presto Bruno, facciamo questa rasatura, non ci voglio più pensare. Bruno: Calma, calma Silvia. Perchè proprio a questa ora? Silvia: Sono venuta ora perchè poi, quando vado a casa, è già buio e non mi vede nessuno. Pensi ho detto al mio fidanzato che andavo a cena dalla mia amica… non ho voluto dire niente a nessuno, neanche ai miei genitori. Era molto risoluta, ma era evidente che si sottoponeva al mio intervento drastico con enorme sofferenza. Incominciamo la rasatura e sento dentro di me un’enorme ribellione. Guarda cosa bisogna fare contro la vita ed il tempo, contro il destino che può segnare la vita. Mentre le mie mani procedevano alla rasatura, sentivo solo singhiozzi, e singhiozzi, sempre più forti e profondi. Durante il lavoro ho cercato di distrarla, spiegandole anche come e ogni quanto lavare la parrucca, come indossarla, ma sono state tutte parole al vento. Per quanto si sforzasse di ascoltarmi, la sua mente era in tutt’altro luogo, in balia dei suoi tumulti interiori. Finito il lavoro, ho sentito la necessità di allontanarmi per un momento per allentare la tensione accumulata. Non è assolutamente possibile rimanere imibili a tutto questo: ero emotivamente molto provato. Silvia: Abbiamo finito! Andata. Su, forza, mettimi la parrucca così mi guardo. Bruno: Aspetta, ora mettiamo la parrucca, ma prima ritocchiamo il taglio. Il lavoro deve essere perfetto. Quando ho finalmente finito, le porgo lo specchio. Silvia si guarda, si alza e vedo il viso illuminarsi finalmente con un grande sorriso, mi viene incontro, mi abbraccia e, sussurrando con pianto e gioia, mi dice: Silvia: Da oggi sarai il mio angelo custode perchè ho capito che esiste ancora qualcuno in grado di lavorare per dare felicità alle persone che hanno bisogno, di lavorare senza interesse ma solo con il cuore. Grazie Bruno. Hai fatto un lavoro
superbo! Ora vado a casa un po’ più felice delle altre volte; stasera non mi vedrà nessuno; vediamo domani mattina come sarà il primo impatto con i miei genitori. Bruno: Ma puoi andare ovunque perchè nessuno se ne accorgerà, vedrai. Ciao Silvia, buonanotte. Dopo due giorni arriva una telefonata di Silvia. Sento una voce nuova, stupenda e gioiosa. Silvia: Bruno, ieri mattina sono uscita dal bagno, pettinata e truccata come tutte le mattine… mi siedo e faccio colazione in cucina. C’erano i miei genitori, aspettavo qualche commento o sguardo, invece come se nulla fosse… come tutte le altre mattine. Così tutto il giorno è ato senza che nessuno si accorgesse, il comportamento di sempre da parte di tutti anche a scuola. Pensare che mio padre ha fatto il parrucchiere… Neanche il mio fidanzato se ne è accorto! Sono molto felice Bruno, non pensavo di poter risolvere questo dramma così facilmente! Ogni tanto Silvia si faceva vedere in negozio per controllare la ricrescita dei suoi capelli. Un bel giorno la vedo entrare in negozio senza parrucca, con i suoi capelli neri corti, con i suoi occhi verdi: era stupenda… truccata, ben vestita, raggiante… Con un grande sorriso mi fa: Silvia: Mi riconosci? Scherzo! Sono finalmente ritornata alla vita e ti voglio personalmente annunciare che a gennaio del prossimo anno mi sposo! E allora, capisci, sono nelle tue mani, perchè quel giorno mi devi fare tu l’acconciatura da sposa ed il mio sogno è sposarmi con i capelli lunghi. Ora voglio proprio vedere se sei veramente bravo! L’ho guardata. Bruno: Non preoccuparti per il giorno del tuo “SI” faremo l’extension e l’acconciatura con i fiori d’arancio. Silvia: Bruno sono tanto felice; non ti scorderò mai.
La formetta di formaggio di Lucia
Ore 14.30: Appuntamento presso lo studio in Ospedale con una nuova paziente, la signora Lucia. Lucia: Buongiorno, signor Bruno. Bruno: Buongiorno signora, come va? Lucia: Come vuole che vada… Ieri ho fatto la prima visita dal Prof. Latini e mi ha detto che devo fare sei cicli di chemio. Con voce commossa e con uno sguardo tirato ma dolce, aggiunge: Lucia: Ho chiesto al professore se questa cura mi poteva far cadere i capelli. Lui mi ha guardato e con molta calma mi ha spiegato il decorso della cura. “Vede quello che succede domani non lo so, ma con molta probabilità questa cura le caà una caduta dei capelli molto consistente 4 o 5 giorni prima dell’inizio del secondo ciclo”… Mi è caduto il mondo addosso. Quindi la signora Lucia si interrompe e comincia a piangere. Bruno: No… no, su signora, non deve fare così. Vedrà che dopo la cura, i suoi capelli ricresceranno più folti e più belli di prima. Vede signora, da questo momento mi prenderò cura di lei e faremo questo cammino insieme per tutto il periodo della chemio. Lucia: Ma dice proprio sul serio? Il professore ieri mi aveva detto “Guardi signora, non si preoccupi dei capelli, pensi a guarire… per i capelli la aiutiamo noi, abbiamo un parrucchiere che si prenderà cura di lei”… ci posso credere allora? Bruno: Certo che ci deve credere. Ci sono qua io. Allora, cominciamo a pensare al look che le piace di più. Cerco di distrarla un po’, facendole vedere delle parrucche di alta qualità; lei mi guarda in faccia con sguardo smarrito.
Lucia: Signor. Bruno, non ce n’è una che mi piace! Io voglio restare come sono ora, con lo stesso taglio e colore. Guardo il marito che l’aveva accompagnata, che così interviene: Marito di Lucia: Ma guarda Lucia, fatti consigliare dal signor Bruno, lui se ne intende… Cerca di provarne almeno una, vedrai che qualche cosa verrà fuori. Lucia: Tesoro, che ne puoi sapere tu… non te ne intendi e poi non conosci i colori. Bruno: Signora, prima scegliamo il colore della parrucca il più possibile simile ai suoi capelli, dopo sceglieremo un taglio nuovo, adeguato al suo viso. Scelto questo, lei verrà fra due o tre giorni per fare il taglio ai suoi capelli, così si abitua al nuovo taglio. Lucia: No, no, no… io voglio restare come sono. Non voglio cambiare niente, anzi spero che i capelli mi durino e non cadano mai. Ma poi finalmente sceglie un nuovo taglio e dopo qualche giorno arriva in negozio con il marito per farselo fare. Va via abbastanza contenta, ma ancora con tanto timore per quello che avverrà. Lucia: Bruno, il taglio va bene… mi piace. Speriamo però che i miei capelli restino, che dice quando devo ritornare? Il marito la guarda e le sorride dolcemente. Marito di Lucia: Stai molto bene Lucia con questa nuova pettinatura… al poi ci penseremo… Arrivederci Bruno, ci sentiamo presto. A questo punto la signora mi domanda quanto è il costo di tutto facendomi capire di non avere tante disponibilità economiche. Lucia: Sa, noi viviamo di pensione e non abbiamo grandi possibilità. Bruno: Signora Lucia, stia tranquilla… come le ha già detto il Prof. Latini, pensi a guarire. Quel che riguarda il mio intervento è tutto gratis. Il mio impegno di volontariato è di arrivare con lei fino alla nuova ricrescita dei capelli alla fine della cura per gioire insieme. Tutto il resto è offerto dall’Associazione
Oncologica di Macerata. Lucia: Ma veramente? Oh, grazie di cuore… che Dio la benedica, le sarò riconoscente per sempre. Bruno: Arrivederci signora, stia tranquilla. Sarò sempre al suo fianco in tutti i momenti in cui ne avrà bisogno. Dopo 15 giorni, arriva la telefonata della signora Lucia, colma di agitazione e disperazione. Le dico di raggiungermi in negozio. Lucia: Bruno, sono disperata… ho un magone alla gola. Il marito, sempre accanto, la seguiva con molta attenzione. Bruno: Buongiorno, signora vediamo con calma cosa succede. Tranquilla, faremo un buon lavoro e nessuno si accorgerà di nulla e lei non cambierà immagine. Il marito viene mandato a fare una eggiata. Lucia: Sì, tesoro… vai a fare una eggiata, così ti distrai e quando ritorni, per favore… non ridere! Bruno: Venga, signora andiamo qua in questa stanza dove non ci vede nessuno. Lei non si guardi allo specchio, così la rasatura non le darà tanto dolore… avrà modo di abituarsi pian piano. Così inizio a parlare soprattutto per distrarla, le spiego in che modo deve convivere con la parrucca. Non stacco mai gli occhi da lei; nel frattempo lei piangeva. Avverto quanto questi momenti siano difficili anche per me. Non è facile rasare una persona, sapendo di menomarla nel suo lato estetico più evidente. Lucia: Ma quanto ci vuole ancora? Speriamo che ricrescano presto, non posso proprio sentirmi così… sento anche freddo. Mi dovrò comprare un cappellino? Che dice? Bruno: Stia tranquilla, abbiamo quasi finito. Ora proviamo la parrucca a cui
facciamo lo stesso taglio che avevo fatto ai suoi capelli. Vedrà quanto starà bene! Nessuno se ne accorgerà. Intanto la signora incomincia ad asciugarsi le lacrime. Il primo duro impatto è ato. Quasi alla fine del taglio si intravede un lieve sorriso, incomincia a guardarsi allo specchio, prima davanti poi dietro. Quindi mi guarda e accenna un sorriso. Anche io mi lascio prendere dalla commozione e mi sento felice perchè mi rendo conto che con poco sono riuscito ad alleviare l’ansia e la disperazione di questa donna, a darle un po’ di serenità. Mi guarda ancora, sorride di nuovo. Lucia: Non pensavo che fosse così bravo! Vediamo cosa dirà mio marito! Il marito rientra dalla eggiata, guarda la moglie. Marito di Lucia: Ma Lucia… è da un’ora che sei qui e ancora non hai trovato il coraggio di rasarti i capelli? Lei lo guarda, si alza, gli va incontro e lo abbraccia. Lucia: Ma sul serio non ti sei accorto che porto già la parrucca? Marito di Lucia: Ma dai… ma veramente?… ma stai benissimo! Non vedo differenza… Dai, tesoro, stasera si va a festeggiare… ce ne andiamo a fare una bella cenetta di pesce, ti va? E così, mano nella mano, felici, escono dal negozio. Anch’io ero felice vedendo quelle due persone stringersi e camminare insieme verso un ritorno alla speranza. Durante i cinque mesi di terapia, la signora Lucia tornava da me, di tanto in tanto, per farmi controllare la crescita dei suoi capelli: tutto nella prassi fino alla fine della cura. Terminati i cicli di chemioterapia: Bruno: Ancora due mesi di pazienza, signora Lucia e poi si potrà togliere la parrucca.
Un bel giorno la vedo entrare nel negozio, chiedendomi con garbo e dolcezza se potesse disturbarmi. Bruno: Certo. C’e qualcosa che non va? Sa deve avere ancora un poco di pazienza… comunque, la trovo in forma. Lucia: No Bruno, guardi, veramente sono venuta per portarle questa formetta di formaggio che ho fatto io con le mie mani… È per lei, Bruno… non è che si offende, no? Lei è la persona che mi ha dato più felicità e che mi è stato più vicino in quei momenti così difficili per me. La ringrazio di cuore e non la scorderò mai. Ci siamo abbracciati con tanto affetto e gioia. Secondo voi che valore ha quella forma di formaggio?
L’incontro con Paola, una compagna di università
Paola mi telefona una sera. Paola: Bruno ho bisogno di incontrarti, solo tu mi puoi consigliare. Così le fisso un’appuntamento per il giorno dopo. Era un piovoso martedì pomeriggio mentre nello studio aspettavo Paola. Mi ero portato un libro di psicologia, pensando che le potesse servire per l’esame che doveva dare. Ero immerso nella lettura quando sento bussare alla porta. Era lei, elegante e molto timida accompagnata dalla madre. Mi viene incontro e mi abbraccia con particolare forza. Paola: Sono disperata, Bruno. Mi hanno scoperto un piccolo melanoma sotto il braccio. Scoppia subito a piangere e a tremare. La madre si discosta per non farsi accorgere dalla figlia, ma intuisco che anche lei stava piangendo. Bruno: Dai Paola, vieni a sederti qui. Spiegami meglio. Non ti abbattere, forse è meglio di come sembra e poi devi pensare che c’è sempre qualcuno sopra di te che veglia e ti protegge. Paola mi racconta tutto il suo iter, poi conclude: Paola: Sono già arrivata al terzo ciclo di chemioterapia e devo farne altri tre. Il dottore mi ha consigliato nel frattempo la scelta della parrucca perchè c’è la possibilità che il trattamento mi faccia perdere tutti i capelli. Mentre lei parlava, tenevo a fatica sotto controllo i mille pensieri che attraversavano improvvisamente la mia mente; tornavano alla mente i tanti momenti di studio ati insieme, le difficoltà incontrate e le tante risate quando avevamo bisogno di allentare la concentrazione; contemporaneamente sentivo inesorabile crescere dentro di me una rabbia incredibile contro un destino infame, sfacciato direi, che voleva segnare con una prova così pesante la vita di una persona di appena vent’anni. Lei continuava.
Paola: Vedi Bruno, i capelli un po’ mi cadano già… Che pensi? Mi cadranno tutti? Sai, non ci dormo la notte al pensiero… tante volte mi sveglio di soprassalto, mi alzo, vado in bagno e mi guardo allo specchio… mi tocco i capelli e proprio non posso immaginare di rimanere calva. Bruno: Paola, prima di tutto, un o alla volta. Non pensare a quello che succederà domani, ma cerca di risolvere le cose momento per momento. Lo so, ci vuole molto coraggio, ma tu sei tenace e ce la puoi fare. Allora, vediamo, in base alla mia esperienza, i capelli effettivamente si perdono facilmente con la cura che stai seguendo, però è anche vero, te lo assicuro, che ci sono state persone sottoposte allo stesso protocollo chemioterapico che sono arrivate alla fine delle applicazioni senza il bisogno di ricorrere alla parrucca. Consideriamo, quindi per ora la possibilità, perchè non è detto che tu debba avere necessariamente bisogno di mettere la parrucca. Paola: Ma dici sul serio? Certo, è vero, ogni persona è diversa ed ogni caso è a sè. Bruno: Ad ogni modo, per non crearti ansia, cominciamo a preparaci con un nuovo taglio; scegliamo la parrucca in modo da essere pronti nel caso ne dovessimo avere bisogno. Che ne dici? Discutiamo, sfogliamo cataloghi e, alla fine, Paola sceglie. La madre seguiva i nostri discorsi ed acconsentiva, anche se ignoravo che nel suo paese gestiva un negozio di parrucchieria. Bruno: Allora Paola, siamo d’accordo? Ci vediamo domani per il nuovo taglio? L’indomani arriva un po’ triste, ma ferma nella decisione ormai presa. La madre era sempre lì con lei. Finito il taglio, con l’approvazione della madre, porto Paola in un’altra stanza e, per distrarla, le propongo uno scherzo. Sopra il nuovo taglio appena fatto, mettiamo la parrucca scelta e rifaccio su questa di nuovo lo stesso taglio appena eseguito sui capelli di Paola. Taglio nuovo, parrucca sopra con taglio identico: chiamiamo la madre che mostra qualche segno di impazienza. Madre di Paola: Paola, dai, ti ho già detto che il taglio ti sta molto bene, si vede che Bruno ci sa fare. Vedremo ora, quando dovrai metter la parrucca se l’effetto
sarà lo stesso. Paola, a questo punto, scoppia a piangere, un pianto di gioia in ogni modo; aveva chiaramente realizzato che se avesse dovuto aver bisogno della parrucca, nessuno avrebbe notato nulla. Con un gesto veloce, toglie la parrucca, guarda la madre ed esclama: Paola: Mamma, tu devi cambiare mestiere perchè in tanti anni di lavoro non hai capito che la parrucca già l’ho in testa! Dopo i primi istanti di stupore, si sono abbracciate. La mia felicità era immensa. Ero anche io commosso. Ci siamo abbracciati anche noi senza dire una parola. Paola: Ti voglio bene, Bruno… grazie… ora il cammino mi sembra meno in salita. L’ho pregata di chiamarmi in qualsiasi momento avesse avuto bisogno. Bruno: La parrucca è qui, pronta per te, anche se spero ardentemente che non ne dovremo avere bisogno. Un giorno Paola mi cerca: non riusciva a parlare dall’emozione. Aveva finito i cicli di chemioterapia previsti ed i suoi capelli stavano sempre lì al loro posto. Paola: Bruno puoi tenerti la parrucca… non ci serve più. La settimana prossima vado a dare l’esame di psicologia. Ciao, cara Paola, che la vita ti sorrida. Ti auguro tanta salute e felicità. Non pensare più al ato e neanche troppo al futuro, ma vivi con gioia ogni momento trascorrendo ogni giornata con tutta la tua intensità.
Mi vedo bene
Prof. Luciano Latini Primario Reparto Oncologia, Ospedale di Macerata
“Il cancro ha abbrutito il mio animo e abbruttito il mio corpo! Non sono mai stata una ragazza bellissima, ma… ora, con la chemioterapia, sono e mi sento brutta. I vestiti che non ti entrano più…, la zip della gonna che non si chiude… il viso gonfio… il colorito stile “gallette di riso soffiato”, e, soprattutto, la testa: dentro e fuori TABULA RASA!” sca 33 anni, una laurea in architettura, un cancro al seno, un discreto senso di ironia, che la aiuta ad affrontare la malattia, ma… non basta. Non basta!
“Dopo la diagnosi di cancro sono balzate alla ribalta della mia mente due delle poesie da me preferite: «Quant’ è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia… del diman non v’è certezza…» … per ovvi ed evidenti motivi… E l’altra, che ho sempre ricordato per l’incisività e la brevità, ma che oggi assume un significato assolutamente diverso: «Soldati. Si sta come (…) dopo la chemio, sulla mia testa i capelli…». Probabilmente non era proprio così... ma è così che riecheggia nella mia mente!” Donato, 48 anni, una laurea in economia e commercio, un cancro…, una moglie prima latitante, ora premurosa (e… un’amante prima premurosa, ora latitante). “Quando o davanti allo specchio… evito di guardarmi! Provo un profondo senso di sconforto. È come se le precarie condizioni dei miei capelli rappresentassero la precarietà della mia vita!”
Luisa 62 anni, casalinga, madre di tre figli ed un cancro...
Questi sono soltanto alcuni esempi del senso di disperazione secondaria che manifestano i pazienti che, dopo la diagnosi di cancro, devono fare i conti con tutti gli effetti collaterali, connessi e correlati alle terapie antiblastiche, tra cui l’inesorabile alopecia. Nei più, la preoccupazione primaria è legata all’evoluzione della malattia ed alle aspettative di vita. Gli effetti collaterali della chemioterapia costituiscono un aspetto importante di questo trattamento, perchè alterano, se pur temporaneamente, la qualità della vita del paziente. Questi effetti indesiderati si determinano in quanto la maggior parte dei farmaci chemioterapici colpiscono le cellule che proliferano rapidamente, quindi non solo quelle tumorali, letteralmente impazzite, ma in misura più blanda, anche altre cellule dell’organismo in attiva proliferazione, come quelle del midollo osseo, della cute, delle mucose e dei bulbi piliferi. I capelli, le sopracciglia, la pelle e le unghie (volendo qui tralasciare gli altri fattori connessi con la vita di relazione e sessuale del paziente oncologico, che pure vengono temporaneamente compromessi), inesorabilmente risentono delle terapie anticancro. Questo aspetto collaterale e consequenziale delle terapie antiblastiche, insieme alle cicatrici lasciate dal bisturi, finisce per segnare (non solo fisicamente) i pazienti, la loro dignità, il piacere di relazionarsi, la loro grinta, la loro voglia di vivere. E così molti pazienti si lasciano vivere! Non si può trascurare la circostanza che la perdita dei capelli in primis, perchè più evidente e manifesta, ma anche la caduta o la deformazione degenerativa delle unghie e il progressivo pallore dell’incarnato, incrementano la sofferenza del paziente oncologico, aggiungendo ulteriore dolore al dolore della infausta diagnosi.
Dunque, la malattia nella malattia! Cosa fare? Intervenire in maniera concreta è importante sotto il profilo umano, ma anche per il benessere stesso del paziente. Così è nato il progetto “Ritorno alla bellezza”. Il programma esprime il percorso che vorremmo compissero i nostri pazienti (uomini e donne) in direzione diametralmente opposta a quella verso cui la terribile esperienza della malattia li spinge. Abbiamo allestito una stanza del nostro reparto di oncologia con il mobilio e l’attrezzatura tecnica tipiche di un salone di bellezza. Tutti i martedì pomeriggio, i malati che lo desiderano, possono incontrare specialisti ed avere una consulenza totalmente gratuita di look management, ovvero suggerimenti su come truccarsi, come utilizzare al meglio la parrucca, oppure come acconciare i capelli che stanno ricrescendo, come ridisegnare sopracciglia temporaneamente assenti, come preservare o migliorare un buon aspetto, in armonia con un corpo che è cambiato e con cui bisogna imparare a convivere. In particolare, i nostri pazienti possono usufruire gratuitamente della parrucca più confacente al loro look. Infatti, a disposizione dei malati ci sono diverse parrucche di ottima qualità, di varia lunghezza e nei colori più alla moda. In vista della preannunciata alopecia, il paziente, con l’aiuto del parrucchiere, sceglie la parrucca che poi viene opportunamente acconciata e quindi sistemata nel momento più appropriato, con discrezione, tranquillità, serenità e, soprattutto, senza l’assillo del prezzo, che è usualmente molto elevato. La scelta di collocare il servizio all’interno del Reparto di Oncologia, è motivata dall’esigenza di creare un riferimento certo per il paziente e di evitare allo stesso eventuali ulteriori disagi. Non sono i pazienti che devono organizzarsi, cercare, prenotare, andare... ma sono i tecnici che vanno incontro al malato!
Dopo la diagnosi di cancro, i pazienti hanno tutt’altro per la testa, o magari si sentirebbero poco legittimati a preoccuparsi del proprio aspetto esteriore, nel momento in cui la loro esistenza sta andando alla deriva, come la zattera di un naufrago. Il nostro progetto è inspirato dalla volontà di aiutare, di stare accanto, in un momento così particolare come quello della malattia, ai pazienti che ne sono colpiti. “Stare accanto” con discrezione, con autentica compartecipazione, per cercare di alleviare, almeno in parte, la sofferenza. Per colmare il vuoto, che il cancro inesorabilmente ingenera nel malato. Per ridare uno spessore psico-fisico a quella tabula rasa, di cui solo chi ha vissuto, direttamente o indirettamente, il cancro, può comprendere pienamente il senso.
Un parrucchiere in ospedale
Professor Egidio A. Moja Professore Ordinario, Cattedra di Psicologia Medica Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano
“Questo libro è su Bruno Giusti, parrucchiere in un ospedale”. “Ebbene?”, osserva il collega cui lo racconto, “che c’è di insolito? Uno degli aspetti per cui i nostri Ospedali sono diversi da quelli più vecchi, è la presenza di servizi quali banche, negozi, uffici postali, edicole e, appunto, parrucchieri. Allora, che c’è di insolito?” Quello che dice il mio collega è vero: la presenza di molti servizi negli ospedali è in grande crescita. Per spiegare allora cosa c’è di insolito nell’attività di Giusti partiamo da questi servizi. Ci sono differenti ipotesi sul perchè gli ospedali moderni non ne vogliano assolutamente fare a meno. Una, quello che a me appare più convincente, consiste nel considerarla una risposta del sistemamedicina alle critiche di essersi arroccato in spazi tecnologici insensibili ai bisogni quotidiani delle persone e quindi inumani. Un ospedale è, ad esempio, pronto a combattere per ottenere le più moderne apparecchiature tecnologiche; poca, o nessuna, energia viene posta per chiedere strutture – che so, ambienti adeguati ai colloqui anche drammatici che contrassegnano alcune storie cliniche – rivolte ai bisogni del paziente e non ai bisogni della malattia. Gli ospedali, secondo questa interpretazione, sono stati costruiti intorno e per la malattia e, davanti all’accusa di essere luoghi disumani, rispondono aprendosi a qualche refolo di normalità quotidiana. È stato osservato che queste aperture, sicuramente di valore per i pazienti, non rappresentano certo la definitiva soluzione del problema “umanizzazione” negli ospedali, ma ne costituiscono una sorta di risposta in termini alberghieri. La medicina può continuare ad ignorare la prospettiva del paziente nelle
consultazioni, i suoi desideri nelle decisioni terapeutiche, i suoi bisogni nel ciclo di cura in modo del tutto indipendente dalle comodità dei luoghi in cui questo accade (di nuovo: questa osservazione non deve farci giudicare come secondari gli aspetti dei servizi forniti degli ospedali). Ma allora cosa deve fare il sistema-medicina per dichiararsi davvero attento ai temi dell’umanizzazione della medicina? La risposta è inevitabilmente assai più complessa di un intervento in campo alberghiero e richiede un ripensamento degli obiettivi e delle modalità che contrassegnano gli incontri tra i professionisti della salute ed i pazienti. Obiettivo di questi incontri non dovrà essere solo la determinazione (peraltro doverosa e irrinunciabile) di possibili patologie e del relativo progetto terapeutico, ma anche la raccolta della prospettiva del paziente. Quali bisogni, quali pensieri, quali desideri, quali aspettative sono generati in lui dalla malattia? In una medicina attenta alla persona, la raccolta di questi elementi richiederà la medesima cura che viene usualmente prestata alla raccolta dei sintomi organici. Questo non per accettare in modo acritico la prospettiva del paziente, ma per utilizzarla e discuterla in una serie di aggi davvero condivisi. Tutto questo viene spesso indicato in letteratura come “medicina centrata sul paziente”. Possiamo a questo punto tornare al mio collega. Bruno Giusti, posso ora spiegargli e indicargli questo libro che lo testimonia, non è in alcun modo un servizio fornito da un ospedale ai pazienti. È un esempio, piccolo e forse neppure tanto piccolo, di medicina centrata sul paziente realizzata da un nonmedico. È un professionista capace di raccogliere pensieri e sentimenti dei pazienti e di discuterli e di utilizzarli per costruire cose il cui valore terapeutico, anche se si declina nel mondo insolitissimo delle parrucche, è drammaticamente percepibile. In un celebre libro di storia critica e di sociologia della medicina, Thomas McKeown si concede una originale battuta. Dopo aver attribuito a San Pietro il curioso compito di ammettere in Paradiso solo le persone che hanno realizzato qualcosa di concreto in terra, McKeown dichiara: “… se io fossi San Pietro… (tra i medici) avrei ammesso (solo) i chirurghi di urgenza, i dentisti e, con qualche riserva, gli ostetrici; tutti specialisti – si noti en ant – che hanno a che fare con pazienti in prevalenza sani”. Personalmente non sono così sicuro dei compiti affidati a San Pietro, ma se così fosse allora possiamo stare sicuri che Giusti erà l’esame come una saetta.
Una lezione particolare
Prof.ssa sca Fazioli Patologia Generale Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche
Non è più una sorpresa per me constatare l’interesse particolare che suscita ogni volta agli studenti la parte del programma di Patologia Generale dedicata all’Oncologia. Si percepisce già dalle loro espressioni quando preannuncio l’inizio di quest’argomento nelle successive ore di lezione. Indipendentemente dal Corso di Laurea in cui il mio insegnamento si inserisce, so che la sezione dedicata ai tumori esercita su di loro una curiosità del tutto speciale: sono tante le domande che mi rivolgono con genuino interesse, a volte durante la lezione, molto più spesso al suo termine. So bene che sono le ore in cui è più facile conquistare la loro attenzione ed è anche la parte sulla quale è difficile trovarli impreparati all’esame. Mi soffermo ogni tanto ad analizzare il motivo di questo atteggiamento e ritorno sempre sulle stesse considerazioni. È la malattia che culturalmente ci fa più paura; una patologia che d’improvviso può rovesciare il nostro destino; qualcuno a noi vicino ne è stato colpito e ne vogliono sapere di più… Probabile anche tutto questo nell’insieme. Del resto non è un atteggiamento dissimile da quello che riscontro nei miei interlocutori quando mi chiedono quale sia la mia professione e su cosa sia focalizzata la mia attività di ricerca. Raramente trovo un atteggiamento di indifferenza, più comunemente tante domande a cui non è sempre facile rispondere in modo chiaro e comprensibile senza l’ausilio di una terminologia a me molto familiare ma purtroppo ormai troppo tecnica.
L’anno accademico 2007/2008 ha visto l’inaugurazione del Corso di Laurea in Scienze Infermieristiche anche nella sede di Fermo. Primo anno di Corso di Laurea, secondo quadrimestre. Primo anno in assoluto. Mi sono trovata di fronte una classe un po’ particolare. Non, come generalmente accade, formata da giovani ventenni freschi di liceo. Al contrario un’audience particolarmente eterogenea in termini di età e situazioni personali. Elevata la percentuale delle persone che, iscrivendosi al corso, avevano ripreso gli studi dopo una discreta interruzione dalle scuole superiori. Molte le persone nel duplice ruolo di studenti e lavoratori. Alcune madri ed alcuni padri di famiglia. Inizio delle lezioni dedicate allo studio dei tumori. Questa volta decido di non seguire la solita scaletta. Niente DNA e meccanismi molecolari per il momento. Conscia dell’attesa per l’inizio dell’argomento, ritengo più opportuno porre l’accento sulla fragilità del malato oncologico e sui temi e gli scopi della Psiconcologia, descrivendo le problematiche che in questo testo sono state già discusse. Poi semplicemente o la parola a Bruno che si presenta con la semplicità che lo contraddistingue. Parla innanzitutto della sua laurea appena ottenuta e degli sforzi compiuti per raggiungere questo traguardo, nonostante il suo lavoro e le sue molteplici attività. Lo fa con l’entusiasmo e la soddisfazione di un ragazzino: impossibile non esserne contagiati. Ci è sembrato lo stimolo e l’esempio giusto da proporre a questa classe con la strada particolarmente in salita per i motivi sopra esposti. Poi Bruno descrive il progetto “Ritorno alla bellezza”, la sua esperienza, il contatto con le donne malate: confesso che ogni volta riesce a commuovermi, nonostante non siano state poche le occasioni in cui abbiamo parlato insieme. Quindi non c’è da stupirsi se ho visto la maggior parte degli studenti con gli occhi lucidi, in qualche caso anche le lacrime. Non aggiungerei altro, se non che quel giorno le domande erano solo per lui e questo ha fatto onore a chi ha ascoltato. Il mio corso di Patologia ha poi ripreso il suo normale percorso. In chiusura del mio insegnamento, ho ritenuto opportuno ricordare agli studenti che al di là delle innumerevoli nozioni da me esposte e necessarie per una loro preparazione professionale, la lezione a cui avrebbero dovuto sempre fare riferimento era proprio quella svolta da Bruno. Mi hanno applaudito e mi sono commossa. Naturalmente l’applauso era soprattutto per Bruno. Naturalmente ripeteremo l’esperienza.
Ho condiviso con Bruno le gioie e le fatiche che la stesura di queste pagine hanno comportato con la speranza che quanto proposto, anche se non cambierà il corso della storia, possa rappresentare un messaggio positivo e uno stimolo alla riflessione.
Incontro con S. E. Card. Ersilio Tonini a cura di Edoardo Danieli
Quando Bruno Giusti ha consegnato al Cardinal Ersilio Tonini, già Vescovo di Macerata, la prima bozza di questo volume, c’erano la Prof.ssa sca Fazioli ed il giornalista Edoardo Danieli. Ne è seguita una conversazione di cui il testo che pubblichiamo è l’indelebile e grato ricordo.
“Questi bambini sono bellissimi”. Il cardinale Ersilio Tonini torna a essere Don Lello nel Reparto che ospita i bambini cerebrolesi dell’Opera Pia Santa Teresa di Ravenna. Una carezza, un saluto, una chiacchierata per ciascuno dei bambini. Là dove altri vedono sofferenza, il cardinale vede sempre la gioia della vita. Là dove si crede di trovare malattia, il cardinale indica la strada dell’amore e della condivisione. “Stiamo al mondo due giorni”, afferma citando il padre Cesare, “viviamoli insieme”. E lui, arrivando da Macerata a Ravenna, con un gesto che colpì profondamente i suoi nuovi concittadini, scelse di vivere a fianco dei malati più gravi che la Provvidenza aveva affidato alla carità dei romagnoli. Il suo appartamento nello splendido palazzo arcivescovile divenne invece il nucleo di una comunità di tossicodipendenti in cerca di salvezza. Nel giardino dell’Opera Pia c’è una barca, a ricordo del mare aperto solcato dal fondatore Don Angelo Lolli. Forse, proprio per questo parlando con il cardinale Tonini, lo spazio dell’intervista scompare e la sua voce diventa quasi un timone che traccia la rotta sul portolano dell’esistenza. La sua, da cui trae linfa, per ricordare la sua straordinaria parabola di uomo e di sacerdote. Quella degli altri, costretti a confrontarsi con un eloquio che non smette mai di portare, con logica e grazia, al punto di partenza: l’amore, la vita, Dio. Lui, uomo di profonda sapienza, solo una volta cita un grande, Socrate in punto di morte: per il resto gli insegnamenti sono quelli del padre, della madre, della campagna piacentina dove è cresciuto. E dove accadono i miracoli. Come quello di Maria Bisi, “una santa donna” dice
di lei il cardinale, che lo aiutò finanziariamente a completare il seminario. “Ringrazio il Signore – diceva la signora – che ancora una volta mi dà l’occasione di mostragli il mio Amore”. Ecco la rotta. Come si fa a stare accanto a chi soffre? La domanda iniziale svapora di fronte alla forza, senza età, di comunicare l’amore, che il cardinale trasmette. “Avere il senso del dono della vita. Da lì bisogna partire. Ne ho seguite tante di persone malate. Mio zio, quando ero bambino, soffriva di svenimenti, tutti gli volevano un gran bene. Il bene degli altri era la sua grazia, la sua forza”. Dunque, prima di tutto, valori per l’uomo di scienza, “per comprendere qual è il limite dell’umano che non va mai superato”. Illumina il ricordo del medico di famiglia. “Sebbene non fosse laureato in psicologia, doveva capire la famiglia fino in fondo, doveva inquadrare il malato in quelle condizioni”. Una famiglia, come quella del cardinale, immersa nel mondo contadino “il mondo più lontano dal progresso, dalla scienza e dalla conoscenza ma in cui i valori primari sono sentiti moltissimo”. Valori che elenca perchè non cadano nel dimenticatoio. “Rispetto; la saggezza del padre”. Rispetto “me lo ha comunicato mio padre, dell’uomo nei confronti della donna. Mio papà non l’ho mai sentito alzare la voce verso la donna. E se la madre sarà più delicata nella comprensione degli stati d’animo, il padre è l’apertura verso la conoscenza. Mio papà ha fatto la terza elementare ma aveva amore per la cultura. Quando andai a scuola mi disse: una conoscenza in più è una ricchezza per i poveri”. E, dal ricordo, affiora un altro insegnamento, per affrontare la vita, la semplicità: “un pezzo di pane, volersi bene, la coscienza netta”. Dunque, l’importanza della famiglia, “perchè i valori veri nascono lì dentro” e il messaggio forte: “bisogna realizzare condizioni in cui i nostri ragazzi siano spinti a stimarsi, ad avere desideri forti e giusti, ad avere il senso vero della vita perchè quello che decidi da ragazzo sarà la tua dote, il tuo senso di responsabilità”. Il cardinal Tonini ha impressa nella mente il momento della scelta, a quattro anni. “Fino ad allora avevo sempre pregato con mia madre, un giorno mi disse: “adesso devi pregare da solo”. Una strada non facile, per motivi economici e culturali come ricorda, eppure percorsa con grande gioia perchè “a salvarmi furono il gusto della conoscenza e il senso di responsabilità”. Ecco la dote della famiglia che ritorna e che il cardinale sintetizza nell’affermazione “rigore di se stessi”. Che per medici e ricercatori, significa innanzitutto “non stravolgere la vita umana”, opporsi a coloro che vorrebbero manipolare gli embrioni per
garantire, come racconta con profondo rammarico, discendenze fedeli ai desideri dei genitori. “La meraviglia, lo stupore per l’essere umano non devono mai venire meno. La tecnica, qualsiasi tecnica è meravigliosa, ma senza etica, senza sapienza, senza sofia, è inutile”.
Le testimonianze
Sono qui riportate fedelmente alcuni interventi dedicati a Bruno in occasione della sua tesi di laurea e le testimonianze di tre pazienti.
All’improvviso
… All’improvviso può arrivare un uragano. Paura, terrore, ma è questione di un attimo poi decidi di raccogliere tutte le forze e ti concentri, decidi che ce la farai. Quindi diventano insormontabili quei problemi quotidiani che dovrai affrontare. Forse sarebbe meglio scomparire per poi tornare dopo, dopo che i capelli saranno ricresciuti. Ho pensato: non potrò presentarmi in ufficio dalle mie colleghe, non potrò uscire per strada, farmi vedere dai miei parenti, avrò in testa la parrucca. Come potrò affrontare il momento di doverla provare dopo aver atteso che i miei capelli inizieranno a cadere, dopo aver rasato la mia testa. Sarà un momento atroce! Mi hanno consigliato Bruno il parrucchiere che collabora con l’ospedale. Lo incontro e già sento di aver esorcizzato il problema. Conosce già tutte le mie paure, sembra che legga nella mia mente, non sarò sola. Ho trovato chi, oltre ad aiutarmi a scegliere la parrucca, ad imparare a metterla, saprà anche aiutarmi a superare questo momento con tanta professionalità ma direi con tanto affetto, comprensione, direi con tanto amore. È come se il dolore di tagliare gli ultimi capelli rimasti sia anche suo, un dolore già vissuto più volte. Sento che ogni mio timore è compreso prima ancora che parli, ogni suo movimento è pieno di sensibilità per la persona che ora è affidata a lui, alle sue mani e alle sue parole. Parole con le quali ha anche cercato di consolarmi anticipando quel momento al quale ancora non oso nemmeno pensare, il momento in cui toglierò la parrucca. Anzi il momento in cui la toglieremo, perchè ho capito che Bruno soffre con noi quando iniziamo questa battaglia, ma poi vuol gioire con noi quando si ritorna a
vedere di nuovo i propri capelli, quando arriva quel tanto atteso momento, il momento in cui per ogni donna inizia: il Ritorno alla bellezza. Grazie Bruno Fabiola
Bruno, parrucchiere molto speciale
Bruno, un parrucchiere molto speciale. Sono ati sette mesi da quando per la prima volta (era l’inizio di agosto 2006) ho fatto il mio incontro con Bruno, il parrucchiere. Dirlo così sembra una cosa banale: quante persone vivono questa esperienza ogni giorno! Anche io prima di Bruno ho incontrato tanti parrucchieri, ma nessuno è speciale come lui, da nessuno sono andata con lo stato d’animo che avevo quel pomeriggio di agosto e, soprattutto, mai ho incontrato un parrucchiere all’opera in un reparto di Oncologia. Una persona che proprio non ti aspetti di trovare! Che ci fa un parrucchiere tra malati oncologici che capelli non hanno più, che ci fa un professionista in un reparto che fa paura solo a nominarlo? Avevo iniziato la chemioterapia e, su consiglio di un’amica e di mia madre, sono andata all’appuntamento con lui anche se, a dire la verità, ero molto contrariata: non volevo la parrucca e avevo ancora i miei capelli in testa. Credo che in fondo in fondo speravo che non mi cadessero, che fi un’eccezione! E invece...sono caduti, tutti! Ricordo ancora quel giorno in cui ad ogni costo ho voluto che Bruno mi rasasse quasi a zero: volevo evitare di vederli cadere e mi era stato consigliato da altri angeli (le infermiere del reparto) di fare così… avrei sofferto meno. In realtà la differenza è che sarei rimasta calva senza accorgermene. Bruno ha cercato in tutti i modi di convincermi a non rasarli: per me è stato doloroso, ma mi sono resa conto che anche lui soffriva a fare quell’operazione. Che persona sensibile: si stava prendendo a cuore la mia situazione! Imparare a gestire la perdita dei capelli è importante, fa sentire meno malati e poi, c’è sempre la speranza che tutto i e che anche la chioma ritorni come prima. Ora, a distanza di mesi, dopo le cure i capelli sono tornati a crescere di nuovo… come in una nuova nascita! E Bruno, è sempre lì, ancora più sensibile ed entusiasta perchè adesso non si parla più di parrucche e di rasoi, ma di taglio, colore e tra un po’, mi auguro, anche di piega! È una persona discreta e disponibile, generosa e professionale. Quello che fa per i malati oncologici è straordinario: grazie al lui il percorso difficile della malattia e delle terapie è più sopportabile e, soprattutto, mette meno paura. Grazie di cuore
Silvia
Quel martedì pomeriggio
Quel martedì pomeriggio, Bruno, che mi aspettava in reparto, mi accolse con un sorriso, mi venne incontro e si presentò. Dovevamo scegliere la parrucca, mi consigliava e rassicurava, io intanto dentro di me pensavo a questo parrucchiere così bravo e affermato… chi glielo faceva fare a trattare sempre con donne che come me vivono il dramma del cancro? A confrontarsi sempre con il dolore, la disperazione? Ascoltavo tutto quello che mi diceva e mi lasciavo consigliare come se la cosa non mi riguardasse: avevo ancora miei capelli! Quel giorno però arrivò presto, i capelli incominciarono a cadere, prima piano piano e poi a ciuffi, nel frattempo avevo maturato l’idea della calvizie e pensavo di essere pronta ad un taglio drastico, ci si convince che il problema dei capelli è irrisorio di fronte al grande problema della malattia, ma quando Bruno finì il suo lavoro con il rasoio, il mio cuore per un attimo si fermò: ero terrorizzata. Lui continuava a sorridermi, parlandomi con dolcezza e mi diceva che con quella bellissima parrucca nessuno si sarebbe accorto di niente e fu così; l’effetto era sorprendente, anzi migliore di prima, il taglio sapiente e l’armonia dell’acconciatura aveva fatto sì che il risultato fosse ottimo. Io in verità non ho mai accettato la parrucca, l’ho sempre considerata un’intrusa, un’estranea e quando mi sentivo un po’ triste andavo dal mio “Angelo” Bruno che mi tranquillizzava e mi aggiustava il taglio, così che vedendomi sempre diversa, sono riuscita ad arrivare al traguardo. Sono le persone come Bruno che fanno la differenza! Grazie Anna
Anna ha voluto così raccontare la sua storia.
Interventi dedicati durante la discussione della tesi di laurea di BrunoGiusti
Periodicamente riaffiora, sia nella letteratura scientifica che sulla stampa “laica”, il tema della umanizzazione della medicina. Un solo esempio, tra i tanti possibili: un importante quotidiano nazionale usa in questi giorni il titolo “Ospedali umani” per caratterizzare il suo inserto “Salute”. Discutere di umanizzazione della medicina, sottende in qualche modo la presenza di una quota, almeno una quota, di disumanità nella medicina medesima. Cosa vuol dire questo? Si ritiene forse che la disumanità, almeno una quota, faccia parte di medici e infermieri? Innata o acquisita? Una risposta assai più seria a questa domanda ci viene da una serie di contributi degli anni Settanta ed Ottanta che hanno chiarito come il modello professionale imperante all’interno della medicina sia tuttora certamente il modello biomedico. Il modello sostiene che la medicina (i suoi percorsi formativi, i suoi obiettivi, i suoi luoghi di attività) debba occuparsi di malattie, intese come alterazioni dalla norma di variabili biologiche. È chiara l’importanza irrinunciabile della malattia nell’agire medico, ma la letteratura citata chiarisce i pericoli del ridursi a questa sola dimensione. La sanità diviene incapace di cogliere la complessità della domanda di salute: tutto quanto non è biologico, somatico, misurabile, esce dagli interessi e dagli obiettivi professionali. Ecco, forse, l’origine di quest’uso inquietante del termine disumanità: un ospedale è, ad esempio, pronto a combattere per ottenere le più moderne apparecchiature tecnologiche; poca, o nessuna, energia viene posta per chiedere strutture – che so, ambienti adeguati ai colloqui anche drammatici che contrassegnano alcune storie cliniche – rivolte ai bisogni del paziente e non ai bisogni della malattia. Il lavoro di Bruno Giusti, testimoniato da questa tesi e in modo ben più emozionante da numerosissimi attestati di gratitudine, si colloca in modo estremamente chiaro nel dibattito sopra citato che vede da una parte la medicina attenta solo all’uniformità statica della malattia, dall’altra i complessi, personalissimi, mutevoli bisogni dei pazienti: rappresenta infatti un clamoroso esempio di come si possano costruire interventi estremamente efficaci
muovendosi “solo” sul piano dei bisogni del paziente. Il lettore, giunto a questo punto della tesi di Giusti, avrà ben compreso la ricchezza della sua proposta. A me preme sottolineare quanto questa sia il risultato della presenza contemporanea in una persona di una serie del tutto notevole di sensibilità e capacità: la capacità di essere un ottimo parrucchiere, la capacità di raccogliere con totale chiarezza i bisogni delle pazienti, la capacità (e generosità) di programmare e realizzare un progetto di intervento, la capacità di promuoverlo attraverso il coinvolgimento di persone e il reperimento di risorse. Anche l’aver affrontato un percorso universitario (siamo qua per una tesi, anche se è facile scordarlo) mi sembra vada ricondotto a questo elenco di capacità: Giusti ha compreso che erano necessari precisi fondamenti culturali per portare il suo progetto dal terreno dell’operatività a quello della discussione e presentazione teorica. Pensato. Fatto.
Prof. Egidio Aldo Moja
Quando il mio amico Bruno mi ha parlato del progetto che aveva in mente, ricordo di aver avuto subito una sensazione ben definita: quella di trovarmi di fronte ad una persona speciale. Perchè mai, mi sono chiesto, un uomo che ha scelto un mestiere diverso da quello del medico, che vive una realtà differente dalla mia, che non sa nulla - per sua fortuna! - di ospedali, di chemio o di radioterapie dovrebbe mai mostrare tanto interesse per il reparto in cui lavoro, al punto di mettere a disposizione la propria professionalità? Che può sapere quel Bruno di “quel” dolore, delle sensazioni che si provano, delle esigenze di chi ha la ventura di imbattersi con la malattia? Queste ed altre domande hanno continuato ad occupare i miei pensieri a lungo. Poi, la risposta è venuta da sè, con la bellezza inquietante delle cose semplici.
Quello che segue è il lavoro di un amico che ci aiuta in uno dei progetti per noi più importanti, il “Ritorno alla bellezza”. Con competenza e gentilezza, ogni settimana, guida alcune delle nostre pazienti nella scelta del taglio dei capelli, nella prova delle parrucche che poi doniamo loro, rassicurandole e coccolandole. Ora ha deciso di incentrare il suo impegno in ambito universitario proprio nella descrizione di tale iniziativa, dimostrando una sensibilità ed una profondità che ignoravo. È per me un onore poterlo ringraziare in questa sede per tutto il suo impegno, per la sua presenza, per il fatto di esserci.
Prof. Luciano Latini
Ci sono uomini il cui operato è visibile agli occhi di tutti e come tali ano non solo alla cronaca, ma anche alla storia. Contemporaneamente, nella nostra quotidianità, può capitare di conoscere persone silenziose, che non amano troppo i riflettori, ma protagonisti di “piccoli-grandi” gesti che veramente fanno la differenza a chi ha la fortuna di incontrarle. Persone semplici ed estremamente sensibili, come Bruno Giusti e credo sia sufficiente leggere le testimonianze allegate in questa tesi per capire che cosa intendo, per apprezzarne le qualità senza necessità di aggiungere ulteriori commenti. La “medicina centrata sul paziente” è diventata oggetto di trattati interessanti, soprattutto stimolanti e necessari per cambiare il rapporto medico-paziente: tuttavia, senza troppo sapere, alcune persone arrivano alle stesse conclusioni perchè mossi dalla loro sensibilità interiore. Proprio per aver avuto l’onore di conoscere in tutti questi anni Bruno, posso tranquillamente affermare che il suo modo di porsi dà alla parola “empatia” la giusta valenza perchè ogni volta che interagisce con una sua nuova clientepaziente, sa con dolcezza come prenderla, come calmarla, come abbattere in poco tempo e con pochi gesti i mille tormenti che alimentano le sue paure interne. Bruno soffre veramente insieme a loro, ne condivide dolore e strazio così come, per fortuna, quasi sempre anche la gioia di avercela fatta insieme.
Quanto iniziato da Bruno rappresenta uno dei progetti più belli e più sconvolgenti, nella loro semplicità, che siano stati attuati negli ultimi anni a o dei malati oncologici. Per quanto sia auspicabile che nel futuro un servizio di questo tipo sia presente in ogni reparto di Oncologia, il successo di “Ritorno alla bellezza” lo si deve alle persone che l’hanno realizzato, ovvero alla sensibilità del Prof. Latini, sempre molto attento alle esigenze cliniche ma anche (o soprattutto?) emotive dei suoi malati, ed a Bruno il grande, che ha dimostrato che con l’umiltà e l’entusiasmo si ottengono e si danno fantastiche emozioni. Indipendentemente da tutti i traguardi che ti vorrai porre nella tua vita e che ti auguro di cuore di raggiungere, grazie Bruno di esistere, a nome di tutte le donne che hanno avuto la fortuna, nella loro disgrazia, di conoscerti.
Prof. sca Fazioli
Conclusioni
“Quando ero giovane pensavo che si potesse cambiare il mondo. Oggi solo che si può cambiare se stessi” J. La Fontane
Come già discusso, l’approccio del clinico verso il paziente può essere fondamentalmente diverso e tale differenza forse distingue al meglio la medicina tradizionale dalla medicina che auspicabilmente vorremmo vedere attuata. In altre parole, il clinico può vedere e trattare, come da tradizione culturale, il paziente come “malattia”; in alternativa può trattare il paziente come “malato”. Questa precisazione, che ben distingue la medicina “centrata sulla malattia” dalla medicina “centrata sul paziente”, a mio personale parere fa la distinzione fra un “dottore” ed un “vero medico”, nella valenza più positiva che posso dare a questo termine. Pertanto il “dottore”, anche scrupoloso, parla solo di prognosi, diagnosi e terapia e probabilmente, nella maggior parte dei casi ottiene ottimi risultati. Ma, soprattutto nell’affrontare le patologie degenerative (quali i tumori, l’aterosclerosi, il diabete mellito), che ormai rappresentano il presente ed il futuro della nostra società (come conseguenza di una medicina sempre più sofisticata nelle sue prospettive terapeutiche ed in virtù di un significativo aumento dell’età media della popolazione), l’atteggiamento necessario è quello svolto dal “vero medico” perchè, nell’insieme, oltre alla malattia prende in seria considerazione anche il modo in cui il paziente “vive” il suo male, al fine di assicurare la miglior qualità di vita di colui che sarà a lungo il suo assistito. Come indicato dal nome, la “medicina centrata sul paziente” inserisce l’aspetto biologico della medicina tradizionale in una prospettiva il cui protagonista deve essere necessariamente il malato.
Attualmente, purtroppo, in Italia la “medicina centrata sul paziente” è ancora patrimonio di pochi. Tuttavia, notevoli sono i segnali che indicano un cambiamento di direzione in suo favore per cui credo (e naturalmente non penso di essere l’unico) che essa inevitabilmente rappresenterà il futuro approccio del nostro sistema sanitario. Tra i vari esempi che potrei citare al riguardo, ci tengo a riferirne uno in particolare, quello rappresentato dal successo ottenuto negli ultimi anni dal libro Dall’altra parte di Bartoccioni S. et al. (2006), sicuramente dato dalla sensibilità, nonchè dalla capacità comunicativa di grandi clinici ati all’improvviso dalla condizione di medici a quella di pazienti, ma anche dal terreno fertile riscontrato nei lettori a testimonianza della necessità sempre più pressante di essere compresi nel fragile momento della malattia. Ho avuto l’opportunità di partecipare alla presentazione di questo libro presso l’Università Politecnica delle Marche, grazie all’indicazione della mia cara amica, Prof.ssa sca Fazioli, che ben conosce i mie interessi personali e culturali. Al di là dell’evento che mi ha notevolmente arricchito e con la sicurezza di non essere stato il solo ad avere percepito questa forte sensazione, ciò che mi più ha allargato il cuore è stata la constatazione fatta dalla mia amica. Ha infatti notato che l’Aula Magna quel giorno era particolarmente gremita dai suoi studenti di Medicina e di Scienze Infermieristiche, ad indicazione che il background culturale che percepiscono i nuovi operatori sanitari sta finalmente cambiando in senso positivo. L’uomo è coscienza incarnata in relazione simpatica, vitale con le cose e con gli altri. Questo mio scritto, il mio impegno, il mio lavoro, vorrebbero sostituire la solitudine e la disperazione al conflitto di chi soffre con un po’ di speranza, di comunione e di disponibilità. Ho dato all’altro, al “malato”, a chi è afflitto, solo Cura del Corpo e Amore dell’Anima. È facile arguire, pertanto, come il progetto “Ritorno alla bellezza” sia stato di difficile impegno, per nulla esaustivo, ma molto propositivo per i consensi delle pazienti e per i futuri scenari che lascia intravedere. In conclusione, per tutti vorrei essere solo… Bruno, il parrucchiere: offrire un modesto esempio di presenza e dare un piccolo contributo per ispirare, stimolare animi, ampliare e valorizzare programmi.
Con il grande Neruda direi:
Non mi basta il tempo per celebrare i tuoi capelli. Uno a uno devo contarli e lodarli: altri amanti voglion vivere con certi occhi, io voglio essere solo il tuo parrucchiere.
In Italia ti battezzarono Medusa per l’arricciata e alta luce della tua capigliatura. Io ti chiamo scarmigliata e intricata mia: il mio cuore conosce le porte della tua chioma.
Quando ti smarrirai nei tuoi stessi capelli, non dimenticarmi, ricordati che t’amo, non lasciarmi andar perduto senza la tua capigliatura
per il mondo cupo di tutte le strade che solo ha ombra, dolori eggeri, fin che sale il sole sulla torre della tua chioma.
Pablo Neruda: “Me falta tiempo para celebrar tus cabellos”.
APPROFONDIMENTI
Il cancro ed i cambiamenti del corpo
Fisiologia del capello
Nel capello normalmente sviluppato (vedi figura) si distinguono tre parti: 1) una esterna al follicolo, visibile, detta STELO o FUSTO (spessore medio nell’adulto 65-78 micron); 2) una interna al follicolo stesso, detta BULBO “immersa” pertanto nella cute e quindi normalmente non visibile; 3) una ancora più profonda, alloggiata nella porzione inferiore della parte profonda del follicolo, detta RADICE, dove confluiscano le terminazione nervose e i vasi sanguigni, attraverso i quali giunge il nutrimento.
1 Poro sudoripario 2 Ghiandola sebacea 3 Muscolo erettore del pelo 4 Ghiandola sudoripara 5 Follicolo pilifero 6 Stelo del capello 7 Crescita dei capelli 8 Ghiandola sebacea 9 Muscolo erettore del pelo 10 Follicolo pilifero 11 Bulbo pilifero nel follicolo 12 Radice del pelo
La RADICE, contiene, nella parte inferiore, detta “pavimento”, due-tre file di cellule sovrapposte a rapida riproduzione che costituiscono la MATRICE. Queste della matrice sono le uniche cellule germinative (riproduttive) del capello; le cellule della matrice, via via che si riproducono, spingono verso l’alto quelle nate in precedenza; durante la risalita, queste ultime elaborano nel loro interno una proteina chiamata cheratina, andando così incontro al cosiddetto “processo di cheratinizzazione” e diventando progressivamente sempre più rigide. E’ quindi chiaro che tagliare corti i capelli non può “rinforzarli” in quanto quella che si taglia è una parte di fusto, formata cioè da cellule ormai prive di qualsiasi attività rigenerativa. Tagliando il capello in senso orizzontale (vedi figura) se ne può apprezzare la
struttura, suddivisibile in tre parti: - la cuticola: la parte più esterna, formata da un’unica fila di cellule trasparenti e sottili (spessore 0,2-0,5 micron), disposte in fila verticale a livello della radice, mentre a livello del fusto sono sistemate obliquamente, a “scaglie”, con l’estremità inferiore attaccata alla corteccia e quella superiore staccata (tipo “spiga di grano”). Data la posizione in cui si trova, la cuticola è la prima ad essere danneggiata quando il capello è stato maltrattato (shampoo inadeguati, permanenti, spazzolature, ecc.); - la corteccia: la parte più abbondante ed intermedia del capello; è formata da cellule più grosse, di forma fusata, lunghe 90 micron e larghe 5 micron, disposte verticalmente in file parallele; esse contengono un pigmento colorato, la melanina, che tende a ridursi con l’età facendo diventare il capello “bianco” (processo di incanutimento). Quindi, quando si “decolora” il capello (ad esempio con acqua ossigenata), le reazioni chimiche avvengano a livello della corteccia dato che la cuticola, più esterna, non è colorata; quest’ultima, se il capello viene esaminato al microscopio a forte ingrandimento dopo una decolorazione, si presenta infatti gravemente danneggiata o addirittura scomparsa. - il midollo: la parte più interna, formata da cellule arrotondate, disposte a colonne, generalmente separate fra loro da spazi d’aria (l’aria trattenuta ha funzione determinante per la protezione dal freddo e per questo motivo il midollo supera negli animali il 50% dello spessore totale del pelo, mentre è scarsamente rappresentato e talora assente nella specie umana).
1 - La cuticola è rappresentata da 6-10 strati di cellule embricate che sono disposte come tegole su un tetto. La cuticola è ricca do proteine solforate e, quando il capello è sano, ha una superficie liscia. 2 - La corteccia è formata da cellule fusiformi, allungate nel senso del pelo, dai granuli di melanina e dalle fibre di cheratina immerse in una matrice di natura proteica. 3 - Il midollo è costituito da cellule poliedriche corneificate ricche di pigmento.
Il ciclo vitale del capello viene suddiviso in tre fasi: 1) fase di crescita (ànagen): inizia con l’avvio dell’attività proliferativa delle cellule della matrice e prosegue con la discesa delle stessa nella parte inferiore del follicolo. Il periodo dura in media 2-4 anni nell’uomo e 3-7 anni nella donna. Dato che il capello si allunga in media circa 1 cm al mese – ma può, nella donna, arrivare a 1,5 cm – si comprende come le lunghezze massime raggiungibili nei capelli possano essere assai differenti nei due sessi. 2) fase di progressivo arresto delle funzioni vitali (càtagen): inizia con l’arrestarsi dell’attività proliferativa delle cellule della matrice. Durante questa fase, il bulbo rimane collegato alla papilla tramite una colonna cellulare; questa fase dura il tempo necessario (funzione della profondità) al bulbo per risalire fino al colletto e termina con la perdita della guaina e, idealmente, con l’inizio di un nuovo ànagen; 3) fase di riposo funzionale (tèlogen): è il periodo terminale durante il quale il capello si trova ancora nel follicolo pilifero ma le attività vitali sono completamente cessate. Questo capello, pur “morto”, prima di cadere rimane ancora sul cuoio capelluto per un po’ di tempo. I capelli in tèlogen vengono via (senza dolore!) se si esercita una trazione anche modesta. Il bulbo, ormai
atrofico, cheratinizzato, di aspetto translucido, si presenta come una capocchia di spillo alla base del capello facendo preoccupare spesso il paziente che crede, a torto, di aver perduto la parte vivente del capello, cioè quella germinativa, che in realtà è rimasta alloggiata in profondità nel cuoio capelluto pronta, se tutto procede regolarmente, a dare il via ad un nuovo ànagen e ad un nuovo ciclo.
1. Il bulbo si stacca dalla papilla e risale verso la superficie 2. Papilla 3. Il capello è cheratinizzato ed è pronto per essere espulso 4. Il nuovo bulbo pilifero inizia la crescita
a) ÀNAGEN è la fase riproduttiva, che dura da 2 a 6 anni. Durante questo periodo circa l’85% dei capelli si alternano a quelli che non crescono più. Questa fase è caratterizzata da una forte attività metabolica a livello del bulbo.
b) CÀTAGEN è la fase di involuzione o stati della crescita che dura da 2 a 4 settimane. Durante questo periodo si ha una riduzione dell’attività proliferativa e un accorciamento del follicolo.
c) TÈLOGEN è la fase in cui il capello è ormai morto e cadrà entro 2-6 mesi. Durante questo periodo il pelo raggiunge la completa maturità. La crescita del pelo successivo e la sua salita verso l’alto provoca la caduta di quello vecchio.
Il numero totale dei capelli in un giovane adulto varia da 90.000 a 150.000 e
scende a 60.000-100.000 con l’avanzare dell’età. Il diametro medio è 65-78 micron (meno di 50 micron nell’età senile). Il tasso di crescita normale varia da 0,30 a 0,35 millimetri al giorno. Nel follicolo si alternano cicli di crescita e cicli di riposo. Solo di rado la stessa papilla dà origine a più di un pelo: normalmente, ogni volta che un capello in tèlogen è caduto, se ne forma una nuovo che dà il via a un nuovo anagen. Le condizioni di vita del capello sono strettamente legate allo stato del cuoio capelluto, ad una buona circolazione del sangue ed una equilibrata attività delle ghiandole sebacee. Nell’essere umano, a differenza di molti mammiferi, il ricambio dei capelli avviene “a mosaico”, cioè ogni follicolo produce il suo capello indipendentemente da quelli vicini; in questo modo non si alternano, come invece avviene per molti animali, periodi in cui si hanno i capelli a periodi in cui questi non ci sono (muta). Una “accelerazione” del ricambio è tuttavia presente nella maggioranza degli individui in primavera e autunno (effluvium stagionale fisiologico). Il capello in tèlogen può cadere da solo o essere sospinto fuori da quello nuovo in crescita
I chemioterapici
L’uso di farmaci chemioterapici è pratica ormai consueta da anni nel trattamento delle malattie neoplastiche e ampiamente consolidata nell’armamentario terapeutico dei medici oncologici. Rimane tuttavia ancora un evento drammatico per il paziente che si prepara ad affrontare questa nuova esperienza e porta con sè domande, dubbi e mille incertezze. La caratteristica principale delle cellule tumorali è rappresentata dalla loro capacità di moltiplicarsi in maniera, sfuggendo alle normali leggi di controllo dell’organismo; se non distrutte, vanno in questo modo ad invadere vari organi producendo diverse e severe disfunzioni. La chemioterapia è una forma di terapia che si attua somministrando uno o più farmaci detti antiblastici o citotossici. Il loro meccanismo d’azione consiste nell’inibire l’attività delle cellule tumorali fino a che la cellula stessa muore. Poichè tali farmaci si diffondono attraverso il sangue, essi sono in grado di raggiungere le cellule tumorali in qualsiasi parte del corpo: purtroppo, però, possono compromettere la vitalità di altre cellule sane dell’organismo che, come le cellule tumorali, sono caratterizzate da uno stato di elevata proliferazione, come quelle del midollo osseo, delle mucose e dei bulbi piliferi. Questa sensibilità degli organi sani determina la comparsa di una moltitudine di effetti collaterali rappresentati essenzialmente da: - nausea, vomito diarrea, infiammazione della mucosa orale (in seguito alla distruzione delle cellule della mucosa del tratto gastro-intestinale); - anemia, diminuzione dei globuli bianchi e piastrine (per distruzione delle cellule del midollo osseo); - caduta dei capelli (causata dalla inibizione delle cellule dei bulbi piliferi). Grazie ad una intensa ricerca scientifica, sono oggi disponibili efficaci rimedi terapeutici contro la maggior parte degli effetti tossici della chemioterapia. Ad esempio, sono disponibili sostanze biologiche che stimolano la produzione di globuli rossi e bianchi, ne prevengono la riduzione e ne favoriscono la rapida ripresa. Per la diarrea e soprattutto per la nausea e il vomito, sono impiegati agenti farmacologici in grado di eliminare il problema nella quasi totalità dei
casi. Va inoltre tenuto conto che, a differenza delle cellule tumorali, le cellule normali subiscono un danno solitamente a carattere temporaneo e, di conseguenza, la maggior parte degli effetti collaterali sopra menzionati, compresa la caduta dei capelli, cessano alla conclusione del trattamento.
La perdita dei capelli durante la chemioterapia
Quale effetto collaterale della chemioterapia, si può verificare la caduta parziale o totale dei capelli (alopecia), solitamente a ciocche, per lo più durante la doccia o quando ci si pettina; altra evenienza comune è il ritrovamento di ciocche di capelli al mattino sul cuscino. Non tutti i farmaci citotossici causano l’alopecia e, a volte, tale effetto collaterale può essere talmente lieve da essere quasi impercettibile. In altri casi può verificarsi invece un’alopecia temporanea, parziale o totale. In alcuni casi poi può succedere che si verifichino fenomeni quali caduta delle sopracciglia, delle ciglia, dei peli che ricoprono il pube e tutto il resto del corpo. L’entità dell’eventuale caduta dei capelli dipende dal tipo di trattamento antitumorale cui si è sottoposti, quindi dal farmaco o dalla combinazione di farmaci che viene usata (adriamicina, epirubicina, ciclofosfamide, vincristina, taxolo ed etoposide sono più comunemente causa di alopecia), dal dosaggio e dalla sensibilità individuale di ogni paziente. Quando la terapia provoca la caduta dei capelli, di solito il fenomeno si manifesta nel giro di poche settimane dall’inizio, anche se in alcuni casi, molto rari, può evidenziarsi già dopo alcuni giorni. Uno degli interrogativi posto più frequentemente da chi perde i capelli dopo essersi sottoposto a un trattamento chemioterapico è se questi ricresceranno come prima o no. Come già detto, la caduta dei capelli è un effetto collaterale temporaneo ed i capelli torneranno a crescere subito dopo la fine del trattamento. In alcuni casi la ricrescita potrebbe avvenire anche prima della fine del ciclo. Inizialmente i capelli saranno piuttosto sottili e radi per poi tornare folti come prima in un lasso di tempo che va dai tre ai sei mesi. Può succedere che i capelli diventino più ricci o più fini rispetto a come erano precedentemente e, in alcuni casi, persino di un colore leggermente diverso.
Purtroppo le soluzioni finora proposte per prevenire l’alopecia provocata dai trattamenti chemioterapici si sono rivelate prive di documentata efficacia clinica e/o di difficile utilizzo nella pratica quotidiana per tutti i pazienti. Anche l’uso di apparecchiature che provocano una vasocostrizione del cuoio capelluto (ad esempio mediante l’applicazione di ghiaccio) con lo scopo di diminuire la quantità di sangue (e quindi di farmaco) che arriva ai follicoli piliferi non si è rivelata efficace, tanto che negli Stati Uniti, l’FDA (Food and Drug istration) ne ha imposto la sospensione della commercializzazione. I seguenti provvedimenti possono comunque risultare utili per tentare di attenuare le conseguenze psicologiche dell’alopecia che in molti studi è risultato essere per i pazienti l’effetto collaterale più disturbante della chemioterapia: - discutere con il medico e gli infermieri della probabilità che si abbia alopecia con il trattamento chemioterapico e/o radioterapico programmato; - utilizzare una parrucca, eventualmente acquistandola prima dell’inizio della terapia in modo da permettere la manifattura di una il più possibile simile ai propri capelli; - se non si è provveduto all’acquisto di una parrucca prima della comparsa dell’alopecia, conservare una ciocca di capelli quando cominciano a cadere per utilizzarla come campione; - tagliarsi i capelli molto corti prima dell’inizio della terapia, in modo da attenuare l’impatto psicologico al momento della caduta; - non usare trattamenti aggressivi (come ossigenazione, stiratura, arricciatura, permanente, ecc), che possono indebolire ulteriormente i capelli. La perdita dei capelli costituisce un serio problema psicologico sia per gli uomini che per le donne. Molti individui attribuiscono una grande importanza alla propria chioma, giudicandola essenziale per la propria immagine. Di conseguenza perdere i capelli può determinare forte emozioni, quali rabbia e depressione, nonchè stati d’ansia che potrebbero finire addirittura per avere effetti collaterali sulla cura stessa. Inoltre la calvizie potrebbe essere la manifestazione costante della malattia. Si deve, infatti, ricordare che il paziente ha un ruolo attivo nella cura e nella lotta contro il male che lo affligge e che qualsiasi causa di ulteriore stress e disturbo dovrebbe essere alleviata dove possibile. Quindi un’informazione preventiva adeguata sul motivo dell’alopecia,
sulla gravità prevista e sul fatto che con la sospensione del trattamento chemioterapico viene ripristinata la normale crescita dei capelli consente al paziente di ridurre lo stress legato alla perdita dei capelli.
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