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PROGENIE DEGENERE
L’origine del male
di Maria Rosaria Cofano
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INDICE
DINIEGO – I Capitolo
LA VILLA – II Capitolo
L’INGEGNO DEL RAGNO – III Capitolo
FAME – IV Capitolo
PRESAGIO – V Capitolo
UN BRUTTO RISVEGLIO – VI Capitolo
LA QUARTA PORTA – VII Capitolo
IL SEGNO – VIII Capitolo
Avvio
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I Capitolo
DINIEGO
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- 1 -
x232, un fallimento numerato pronto a replicarsi. Il figlio del purificatore diede fuoco al suo castigo. Era la prova di Samuel Ortega. Cinque anni prima, in un tardo pomeriggio di maggio, l’innocenza cercava ancora se stessa. A piccoli i, sporchi di sangue, avanzava lungo una scala eburnea, fino alla parete di vetro.
Nella mano insanguinata stringeva il ciondolo della mamma, una chiave d’argento affilata, che dolce affondava nella carne marchiando la colpa senza lacrime.
<<Musmè!>> da lì vedeva il suo cavallo e lo chiamava. La macchia nera di lucido crine si offriva ad un tiepido sole, come l’errore nel secondario verde della visione infinita. Lo sguardo fisso e già confuso. Nella figurazione di quegli attimi il crimine spariva; ma la filastrocca intonata del gioco come eco rimbalzava di parete in parete, nell’assenza irreversibile non voleva arrendersi.
Oltre la scala cerco la spia, dove la festa non è andata via.
Sopra il riflesso disegno il mio cerchio.
Dietro lo specchio rimango in silenzio.
Nessuno mi vedrà. Nessuno mi troverà.
Chi vincerà? Chi vincerà?
<<Musmè rimani in silenzio. Nessuno ti vedrà… nessuno ti troverà>> ripeteva parte della filastrocca e tutto quello che aveva intorno cominciò a girare. Nel cerchio immaginario perse l’equilibrio. Braccia sconosciute la sollevarono. Il ciondolo cadde in terra. La notte era nera… fu l’ultima volta che vide.
Il suo nome era Ela. Non aveva provato dolore, per quanto fatto e non urlato dall’amore che non teme confronto, se non il rischio di perdersi. Tutto era successo, quando aveva nove anni ed altri cinque erano trascorsi simulando l’attesa in una realtà preclusa, candida come l’innocenza e smarrita come la ragione.
Senza desiderare il tempo perduto, il ricordo andava e veniva, non doveva arrendersi. Insistente, nell'isolamento forzato, sopravviveva a fatica tra visioni e decontestualizzazioni spaziali dalle proporzioni variabili; dove la luce era un’illusione, ata dalle pareti alla memoria secondo un’artificiosa logica, che le dava il riposo, il risveglio, il respiro. Non vedeva corpi, materia da toccare e capire, ma ancora declamava a labbra mute “quella filastrocca” ed un piccolo uomo la spiava, sempre.
- 2 -
Fiamme e fumo incorporavano urla strazianti, ma non visibili fughe dalla
disperazione. Una polvere granulosa scivolava lungo gli angoli della stanza imbottita dell'apatica Ela. In quell'inferno qualcuno afferrò la sua mano.
<
> era la voce di un ragazzo, Samuel, impaziente di nutrire la sua ossessione. Le fece posto sotto una coperta bagnata. Lo seguì senza rimpiangere la tana di quegli anni.
L'ultimo corridoio, l'ultima stanza, l'ultimo fuoco e c’era ad aspettarli la libertà. Fuori, da quel rasente e convesso complesso strutturale, di un geometrismo architettonico avveniristico, per una distribuzione a tre placche granitiche e circolari, i cui diametri convergevano nel terreno, serrandosi all'infinita distesa di verde con un costrutto-cognitivo, che sembrava non essere di questa terra.
Samuel fissava gli enormi pannelli specchiati a congegno termico, posti lungo la parete perimetrale e che l’incendio aveva automaticamente aperto.
Superata l’uscita di sicurezza, abbandonavano quello strano luogo con una sinistra lentezza, in un tardo pomeriggio di un’incerta stagione, dove il vento soffiava leggero e l’odore del verde stordiva come una mendace verità.
Indossavano la stessa e pesante camicia verde oliva, dotata di una cintola elastica, che penzolava lungo la schiena e non avrebbe più frenato l’istinto, i i verso il tramonto e oltre l’inferno della ragione.
A guardarli erano così simili. Entrambi con la testa rasata. La statura media di Ela, pressappoco quella di Samuel, non lo dissociava per ossuta corporatura, flemma, tanto meno distinzione sessuale; ma erano di spalle, una sorta di specchietto per le allodole, perché ad invertire il punto di vista, tutto cambiava e
ancora li accomunava irreparabilmente. Non era la mera constatazione del brutto, assolutamente opinabile e soggettivo, quanto la percezione di un sinistro presentimento che davano. Lei, come adolescente disturbata, manteneva una gestualità infantile, silenziosa, apparentemente indifesa. Dai grandi occhi neri, e sguardo livido di una sensazione impronunciabile. I tratti spigolosi ed il naso irregolare si addolcivano lungo la bocca carnosa, da cui iniziava una lunga cicatrice, che superava il mento fino a perdersi dietro l’orecchio destro, a formare la lettera “S”. Per Samuel non deturpava, non violava la bella pelle dell’unica creatura capace di rendere desiderio raggiungibile la debolezza, il calore che rifuggiva, perché affetto da un anomalo candore, inquietato di una malevola gioventù. Condizione pura ed oltraggiata allo stesso tempo, che i lineamenti regolari descrivevano tra banalità e disturbo incontrollabile che aveva e che dava di un’identità amorfa; per questo duttile, nel conformarsi mutevole alla sostanza del dolore inferto senza coscienza e che il bianco vestiva d’indifesa paura. Un etereo letale di ventiquattro anni, mentre Ela ne aveva solo quattordici.
- 3 -
La strada intrapresa tendeva ad assottigliarsi nella desolazione, quando l'immensa prateria sprofondava in un silenzio irreale. I crampi alle gambe erano diventati insopportabili, ma non potevano fermarsi. Nell’oscurità si orinavano addosso. Non era la sofferenza che avrebbe potuto piegarli e come ogni momento si riempiva del coraggio accecato delle loro azioni.
Superavano i ruderi di un borgo medievale, tracce di un ato dove la vita aveva perso ideali e realtà. Camminare sul respiro della storia, quando la visione naturale e illimitata svelava una tregua possibile, le luci di un paese, mentre il rumore di un elicottero sfiorava la fuga.
Strisciare nell'erba smisurata, centellinare i respiri, rimandare ad attimi di orrenda memoria. Quella valle, desolata come la loro coscienza, si riempiva di
follia. Tutto era già perso.
Oltre la rigogliosa erba, c’era una vecchia cascina e un furgoncino bianco parcheggiato a ridosso dell'entrata. Non erano soli.
Un uomo tarchiato e corpulento, in gran fretta spostava e caricava sul veicolo contenitori di stagno. Salitovi, ingranò la marcia, lasciando – ignaro e colpevole - quel posto ai nuovi intrusi, sempre più vicini all'entrata spalancata.
Il piccolo vano principale era già la modesta cucina, dove sul tavolo il pranzo inquietava per la precisione inviolata. Distesa sul pavimento, un'anziana donna, col capo coperto di sangue, cercava aiuto per poi accasciarsi di fronte all'indifferenza.
Samuel violò quel pasto ed Ela fece altrettanto. L’azione si consumò lenta. Fu la volta della povera sventurata, svestita brutalmente, ma che non dimenticava il pudore in quel poco che le rimaneva da vivere.
<<Metti questi!>> le ò i vestiti (una camicia bianca, una gonna grigia di cotone e scarpe nuove). L’odore del sangue si mischiava alla lavanda. Ela rimase imibile.
Lui esitava giusto un attimo; poi l'aveva afferrata per un braccio, voltata. Le mani gli tremavano, quando tirava il laccio dagli occhielli della camicia di forza, che scivolò pesantemente sul pavimento lasciandola completamente nuda. Vedere quello che voleva lo rendeva impacciato e temeva, quando non aveva mai temuto, se perdeva il coraggio spudorato, impronunciabile, se le mani non osavano dove potevano già spiare, affondare, godere… per solo limitarsi a
sfiorare. Frenare la violenza in un crescendo, che vibrava dolorosamente sotto le dita, mentre cedevano allo stordimento di un corpo caldo, che subiva senza riserbo, che anche vestito degli abiti di una povera vecchia non allontanava la voglia, ma stranamente dava ai sensi l’attesa di osare, quando quella pelle avrebbe cercato la sua.
Finita la calda vestizione le accarezzò dolcemente il viso, il collo e ancora fino al seno, dove chiuse l’ultimo maledetto bottone.
<<Ecco, ecco… che dici, ci… sarà qualcosa per me? Vestiti, intendo! Non parli, però ti lasci toccare. Ti piace essere toccata. Toglimi questa merda di dosso, perché così combinato non vado da nessuna parte. Devo cercare dei vestiti, ma non riesco a pensare se ti rimango vicino>> afferrò la propria costipata camicia, sperando di vedere le mani desiderate muoversi sulla sua pelle, fino a gemere di quello che non conoscevano; ma nell’indifferenza della ragazza, l’incapacità di riconoscere una sensazione e per questo subirla nell’apatia.
Al piano superiore della vecchia cascina, c’erano solo due stanze e ancora la precisione violata nell'ultimo giorno. La prima, la stanza da letto, profumava di rose. Colori tenui per le tende e il copriletto. Tanti ricordi stipati, dalle foto in vecchie scatole di latta - poste nel primo cassetto di un logoro settimino in noce alla disposizione meticolosa degli indumenti, ordinati per tessuto e colore. La luce polverosa si adagiava timida sulla modesta mobilia, per divenire più decisa là dove, superata la piccola finestra socchiusa, precisa cadeva su una bella cornice d’argento, con dentro la foto di cinquant’anni prima. Due giovanissimi coniugi, con in volto la fresca intenzione, senza l’attesa del dolore della vita, ma di come quel click iniziasse il primo giorno sazio all’avidità del giorno dopo… e fu la volta dell’altra stanza, che disadorna recitava un’assenza spezzata. Solo abiti da lavoro, appoggiati ad una logora sedia di vimini. La vestizione mancata di un povero contadino, ato a miglior vita. Il ricordo intatto e fermo a quel giorno, venerato nel feticismo ossessivo e reale, era diventato la ragione di tutti i giorni della vecchia agonizzante al piano di sotto.
Samuel aveva trovato quello che cercava, senza vedere il bene, non lo conosceva. Cercava, cercava e divorava il bisogno nel suo arbitrio. Non senza difficoltà si liberava della lunga camicia, rimanendo nudo. Indossò quei miseri panni, che tornavano ad animarsi grazie ad uno sconosciuto assurdo, che smetteva quelli della reclusione, per rendere l'utile gesto capace di disgregare e congiungere un amore morale finito ad uno amorale appena iniziato. Lasciavano la cascina.
Assuefatti al dolore e figli del peggio possibile, camminavano assenti. Nella fuga, l’ignota paura simulava la voglia di vivere.
A circa cento metri dalla cascina, da una botola semiaperta s’intravedeva una logora e ripida scaletta di legno. Ela la fissava. Suoni astrusi uscirono dalla sua bocca, ma poi riuscì a scandire una parola in modo chiaro: <<Sca… la>> e si urinò addosso.
<
> Samuel finalmente udiva la sua voce e quello che provava travalicava le parole. Per quel suono capace di sanarlo, il bisogno che aveva - come quello di supplicare - non si sarebbe mai arreso nell’abitudine del sempre.
Lei guardava solo la botola e lì si diresse. Afferrò l’apertura divelta.
<
> la scansò bruscamente, ma non voleva saperne ed insieme la sollevarono. Immediato fu il pastoso e umido odore di calce fresca misto a muffa, ma anche il riverbero di una vecchia lanterna ad illuminare un muro di mattoni incompleto in uno spazio già di per sé ristretto.
Dietro il muretto c’erano delle ossa umane, una candela consumata in una ciotola di terracotta, due scodelle arrugginite, un chiodo di ferro dalla capocchia grossa. I resti riposavano in un silenzio letale, che rallentava il cuore fino a sentire il proprio respiro alitare un’altra vita.
Quel posto rendeva Samuel inquieto: il ricordo non soffocava e gli tremavano le mani.
Ela si accasciò in ginocchio. Emise ancora suoni astrusi, senza senso apparente. In realtà parole distorte, che un senso lo avevano, bisognava solo prestarci attenzione. Afferrava la terra polverosa e vedeva il mucchio d’ossa animarsi e rimpolparsi a dismisura. Il pingue infelice graffiava il muro con il grosso chiodo ed il segno profondo tracciava parole, perse, tra colpa e discordia.
Tace la notte ferma ad osservare le mani che riempiono l'ultimo vuoto.
La serenità è un tranello, anche se non sento gridare, qui vive l'odio.
Samuel non vedeva quella negazione, pensava alla sua e soprattutto come farla smettere. Lei invece, dopo averla subita, aveva già raggiunto la scaletta, l’uscita, portando con sé una manciata di terra secca, ceduta al vento in un inizio di notte, che profumava di rosmarino, salsedine e di una libertà, che pretendeva di essere difesa ad ogni costo prima del giorno… prima della pioggia, quando vide la fine di Samuel: il ragazzo rincorreva il suo delirio cercando, nell’estrema sofferenza, la complicità pretesa nei suoi occhi, mentre raggiungeva il limite tra l'esistere ed il perdersi per sempre. In realtà le camminava accanto, e la botola alle loro spalle era quasi allucinazione.
Scorsero una vecchia utilitaria rossa, parcheggiata lungo una stradina a pendenza sostenuta. Lo sportello era aperto, le chiavi inserite.
<<Senza nome devi salire! Maledizione sali!>> la richiamava a gran voce. L’adrenalina aumentava ad ogni o. Lo sguardo alienato sull’auto, mentre lei indietreggiava sparendo nell’oscurità, dove avrebbe atteso di rendere reversibile il vaticinio del suo silenzio.
Al volante non poteva fare a meno di cercarla. Ancora non la vedeva. Rilasciò il freno a mano e la macchina cominciò a muoversi. Forse precipitare avrebbe smesso l'incomprensione, ma senza quegli occhi cattivi addosso non valeva la pena morire. Giusto un attimo, a distrarre la sostanza dalla perniciosa malinconia, ed era oltre l’intento. L’auto precipitava senza di lui, che ruzzolava fintanto da fermarsi proprio ai piedi di Ela.
Il vento apriva e chiudeva la logora imposta della botola, quasi del tutto staccata.
<
> lei di nuovo parlava. La botola si chiuse precisa.
<
> ma non ottenne risposta.
Lasciavano quel luogo, quando il paese smetteva di dormire e le timide luci spiavano l’alba, puntinando l’orizzonte di un’immota realtà bucolica, ammorbata di fango e putrefazione.
Superato uno steccato, varcarono un vecchio maneggio abbandonato e quasi del tutto a cielo aperto. Nella fuga sembravano aver trovato la dimora del Padreterno tanta era la pace, il senso di beatitudine che sprigionava quella totale fatiscenza, ma solo i bambini trovano Dio senza cercarlo.
Avanzavano maldestramente tra tavole sconnesse, sterpaglie corpose e mutilate. Ancora una volta il sole sorgeva senza speranza di cambiarli.
Già la luce accecava, superando quello che rimaneva del tetto. Tanti di quegli uccelli involarono come impazziti, mentre Ela entrava in un nodo di luce. Nell’attimo in cui il calore spiava l’ingenuità perduta, guardava Samuel, di spalle, immobile, completamente coperto da capo a piedi. Nella sua figura si mescolavano senza ritegno il male e la delicatezza di una pelle troppo candida e sofferta, per un istante che meritava di essere vissuto anche nello stremo, se bruciava come l’ultimo giorno da vivere accanto a lei.
Non c'era il bene, non c'era mai stato e forse era giusto ardere in quel castigo di destino assurdo ad accomunarli.
<
> nelle parole sussurrate da Ela la distrazione capace di salvarli.
Si voltò. La sua bella voce lo aveva distolto dall’insopportabile torpore, in cui ricordava il lamento. Sotto il cappuccio rimaneva nascosto. La raggiunse. Il pallore angosciato si fondeva alla luce; disse: <
> e lasciarono quel luogo.
- 4 -
Scesero la ripida valle che conduceva al paese. I colori terrosi delle case, afflitti da un’atmosfera plumbea, dissociavano il verde gridato dei prati che lo confinavano. Niente di più strano sotto i loro occhi. Era come osservare l’inverno con i piedi nell’estate. Un’irreale suggestione isolava il villaggio, dopo averne digerita ogni presenza, ma spiare nelle case, nei negozi, nelle latrine rendeva il peso di quella stasi mostruosamente reale.
<
> Samuel ne era sicuro.
Un bimbo nudo correva, perdendosi nel buio di un vicolo.
<<Ti ho visto bambino! Vieni fuori e unisciti a noi che non abbiamo lacrime!>> rideva di cosa? Di una strana felicità, pretesa a braccia aperte, per quello che aveva di fronte: Ela, che stringeva tra le braccia un fagotto.
<
> Samuel cercava di farle mollare la presa, ma non voleva saperne; le afferrò il capo, avvicinandolo bruscamente al suo <
> le leccava il viso con una sporca eccitazione, che zittiva la rabbia, stretta, dove i sensi pretendevano già la resa.
Il fagotto cadde in terra. Era solo un fascio senza pianto, fango secco avvolto in una federa, che tra le sue braccia sembrava animarsi di una strana apparenza.
<<Sette pietre>> Ela lo fissava; ancora vaticinava ad alta voce, indicando un punto incomprensibile oltre le case. Cominciò a piovere.
<<Sette pietre… che significa? Dobbiamo cercarle o le vedi? Da quella parte?>> lui non capiva, ma aveva la sua voce, i suoi occhi addosso ed erano più importanti dell'unica tregua all'allucinazione. Non poteva che seguirla.
Camminavano l’uno alle spalle dell’altra. Il sole si spegneva all'ombra del riposo. Cominciò a piovere. Trovarono sette grossi ciottoli, adagiati in circolo sull’erba alta e rigogliosa, con sopra incisa una scrittura cuneiforme e l'impresa di svolgerne l’idioma, nello spazio immenso in cui la voce della montagna parlava all’universo.
Lei avvicinò le mani a quell'incognita. I polpastrelli accarezzavano i segni. Il messaggio vibrava d’energia, materia e volti nella folla con la paura gridata in faccia.
Da quel punto sconfinato e pericoloso che era la loro posizione, assistevano graziati all'immensa padrona del mondo, mentre stendeva la sua vorace lingua di fango. Veloce ingoiava il paesino, mentre la pioggia lavava ogni rumore di peccato e sconfitta.
Samuel, ansimante e fradicio, purificato dall'aria fresca respirata a pieni polmoni, non perdeva di vista Ela; neanche il dolore di una terra divorata e benedetta dall'acqua poteva distoglierlo da quello che venerava del suo volto, sfregiato come l'iniziale di un nome, il suo, e dell’oltraggio godeva. Desiderio insensato di essere in quella ferita, quando il tempo gridava le sue diaboliche visioni. Tante volte aveva ucciso che ad esserle così vicino poteva smettere quel dubbio senza rimpianto, saziarlo di quello che immaginava, voleva in qualsiasi momento; invece, inspiegabilmente, frenava l’istinto omicida e solo perché
averla significasse meritare l’attesa.
Bagnati e salvi, un’altra notte ava senza sogni.
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II Capitolo
LA VILLA
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- 5 -
Un uomo corpulento con indosso un pigiama malconcio, gridava concitato ad un gruppo serrato di disperati: <
> poi rivolgendosi a loro <<Sbrigatevi, perché non c’è tempo da perdere! Dobbiamo raggiungere quella gente!>> entrambi si alzarono senza proferire parola, e lo seguirono.
Un bimbo attaccato alla gonna della mamma. Una donna incinta con una sola scarpa. Il vigliacco, il sordomuto, la puttana, il salumiere, il sapiente. Mariti e mogli. Amanti, ladri e l’ambulante. Cani e vecchi, tanti vecchi…
<
> un uomo gridava il senso di colpa di chi ha visto morire la giovinezza, prima ancora di smettere il proprio attempato respiro.
L'ira della montagna li aveva portati a fuggire, spiare, ma il miraggio di una salvezza possibile era già smentito.
Si fece avanti il sordomuto sui quarant’anni, dal ridicolo berretto a visiera e maglietta e pantaloni chiari imbrattati di fango. Stringeva tra le mani un ferro a forma di “U”, in cui aveva impilato le chiavi di casa di tutte le anime presenti.
Improvvisamente i sospiri, i sussurri crebbero fino al vociare sguaiato. Tra spintoni ed insulti tutto degenerò, come una furiosa tempesta di mare griderebbe
alla notte l’ira precisa della sua devastazione, sovvertendo ogni pronostico di vedere ancora la luce di Dio.
A portare la massa allo scompiglio fu Ela. In preda ad un turbamento inaspettato cominciò a correre tra la folla, e subito dopo aver afferrato le chiavi dalle mani del sordomuto, che per la disperazione si percuoteva e graffiava il viso a sangue.
In quel delirio generale, Samuel gridò: <
>.
La folla poteva schiacciarli, ma indietreggiava.
Immobile, sul ciglio vertiginoso, con lo sguardo della follia, Ela cercava la ricompensa per tutte le azioni negate. Fissava il mare. Il cuore le batteva forte, mentre tra le dita sentiva scivolare le chiavi, che precipitavano nel suono lontanissimo e con loro la speranza. Ancora di più sporgeva il corpo, senza considerazione del pericolo, poiché l'ultima chiave, quella incisa sul suo palmo, voleva congiungersi alle altre e con loro lasciarsi cullare dall’acqua, da quella grande madre sconosciuta.
Samuel l'afferrò alla vita e caddero rovinosamente all'indietro. <
> non piangeva, lo stesso c'era l'intensità del pianto nel tono della sua voce.
La spinse nel vuoto. Trattenuta solo per il polso oscillava paurosamente.
Ela per un po’ rimase inerte, accettando quel pericolo; poi cercò di afferrare la mano di Samuel, quella stretta che ancora le dava il dolore del presente. Lui, perso nella delirante azione, non vedeva quanto la ragazza lo cercasse per vivere, ma si era distratto solo un momento.
L’afferrava con forza, smettendo quella punizione. Era salva. Strinse i pugni contro il petto, facendosi ancor più piccola tra le sue braccia. Solo questo lo saziava.
Della vita avevano conosciuto l'orrore primario, quello che in silenzio oltraggia e divora l'innocenza. La libertà che scoprivano era ancora un luogo sporco ed assassino, per quello che potevano vedere e meritare. La folla era sparita.
- 6 -
Affamati, camminavano senza aspettare che le forze tornassero. I loro pensieri erano lontani. Di fronte a quella faccia del mondo non avevano provato stupore. Lei continuava a vegliare i pochi ricordi. Il volto di sua madre diventava più sfocato. Era naturale percepirla più vicina nella limitata stanza imbottita dove era cresciuta e che ora, nella cruda libertà, rischiava di perdersi irrimediabilmente.
<
> invertì il o e subito lui l'afferrò strattonandola come a destarla.
<
prima che accadano, eppure non vedi il male che mi fai, non vedi quello che sei per me>> quanto sgomento c'era nei suoi occhi. Supplicava qualcosa che non aveva mai conosciuto ed era una colpa che desiderava subire ad ogni costo.
<
> gli rispose.
<
> lui rideva.
<
> gli chiese come a punirlo.
<<Sono te e mi basta. Sono quello che hai dentro e che non sa cercare in questi occhi, dove non sei mai andata via. Non c’è differenza tra noi, se con le parole togli la vita come le mie mani. Sì, sei capace di tutto ed è solo per questo che ti lascio vivere. Ho bisogno di respirare anche il tuo disprezzo, non posso farne a meno>> a nessuno permetteva di vivere dopo averlo sfidato. Abbassò lo sguardo.
La tempesta appena abbattutasi nell'animo di Samuel, in lei scuoteva un presagio senza reazione. Solo per questo accettava di seguirlo in quella realtà inspiegabile, il cui senso non avrebbe tardato la verifica.
- 7 -
Camminarono a lungo, prima di ritrovarsi nel bel mezzo di una fitta vegetazione. Il verde rigoglioso e incolto celava un lungo sentiero lastricato, in fondo al quale una Villa rinascimentale si rivelava in tutta la sua maestosa ed inquietante
imponenza.
Un uomo sulla carrozzella e il suo piccolo cane, percorsero la discesa abitudinaria, per fermarsi proprio di fronte a loro. Il vecchio aveva il volto magro e felice, come di chi ha trovato il cibo dell'anima e ancora non l’ha assaggiato. Il cane iniziò a ringhiare.
<
> Samuel rideva della devozione del cane senza riconoscere la propria.
Ela non temeva quei sentimenti adulterati, poiché riconoscerli significava provarli.
<
> l'uomo, alzava e abbassava la voce mutando espressione, piangeva, rideva, come in preda alla mattana e veloce aggiunse <
> finito l’enigmistico tragicomico dramma, guardò compiaciuto il suo cane, mentre addentava la caviglia sinistra di Ela.
<
> Samuel sbraitava, mentre il vecchio non batteva ciglio, così lo colpì violentemente alla testa col gomito. Il povero sventurato si accasciò scomposto sulla carrozzella che spinse fino a farle prendere velocità. Dietro di lui il cane, a condividerne la sorte, incapace d’essere colpa, per questo fedele al suo padrone,
fosse anche il peggior dei padroni e malgrado le regole corrotte dell’uomo, che se discendesse dal cane non porterebbe il fardello del peccato originale: tradire per natura.
<
> Samuel rimase a guardare la carrozzella, mentre precipitava lungo un declivio. Tornò da Ela, priva di sensi per il morso alla caviglia o per la probabile fame. Facile conclusione. In quella prostrazione, la ragazza subiva il richiamo misterioso di una volontà sconosciuta, che le toglieva le forze con un intento ben preciso.
Nella logica assassina la sollevò con dolcezza, paradosso di una natura criminale, e puntò verso la Villa perseguendo l'irragionevole, come se una parte di lui volesse amare la sua eccezione, sentirsi vittima, oltre che giudice e carnefice.
L'intero edificio - dalle logore finestre crociate e tetto a gronda dal pericoloso camminamento – era collocato su un alto basamento porticato. Due scale perpendicolari conducevano ad una loggia con timpano e volta a botte dai decori a rilievo trafugati. Samuel varcava il grande spazio centrifugo, dominato da un’invadente presenza naturale, rampicata in un tempo pregno di segreti e sospiri. Credeva che fossero soli, ma non era che l’egoismo di un attimo. Ignaro memore di una storia che non cercava, vedeva la tregua per la vita che stringeva tra le braccia dimenticando la sua.
<
> le sussurrava all’orecchio, mentre sedeva in terra, continuando a sorreggerla maldestramente. Lei riprese i sensi.
<<Mia madre mi cerca>> ancora persa in quell’attesa.
<
> ma cosa poteva trovare in quel luogo se non la più grande delle illusioni?
Dopo aver percorso come un animale impazzito, l’interno e l’esterno della maestosa dimora, trovò a ridosso di un pozzo un cesto pieno di pane fresco e mele. Tornò da lei.
La vide in cima alle scale. Un corpo di donna in fiore, denutrito e mistico come il Cristo in Croce, la misericordia che non conosceva.
<
> saliva mostrandole quel nutrimento uscito dal nulla; finalmente l'aveva raggiunta, le era proprio di fronte.
<<Mia madre sta arrivando>> gli disse e Samuel rise. Ela lo respinse bruscamente. Ruzzolò per le scale insieme all'insperato pasto, portando con sé l'ostinazione che non avrebbe smesso fino alla fine dei suoi giorni. Di nuovo in piedi, raccolse cibo e rancore per tornare a nutrirla.
<
> parlava come se a spingerlo giù per quelle maledette scale fosse stata l'ennesima dimostrazione di quello che voleva risparmiarle del mostruoso dissenso, in cui si mescolavano ricordi e trasposizioni che ancora la ragazza non riusciva ad articolare al punto di renderli parola e tatto, comprensione e lacrime.
Questa volta afferrò una mela e lui accettava di saziarsi degli avanzi nel suo disprezzo.
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iii Capitolo
L’ingegno del ragno
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- 8 -
<
> chi avrebbe parlato e chi parlava? Era la voce di una giovane donna.
In quel luogo un truce delitto si era consumato fino a sparire nell’ombra. Nel gioco dei tempi sovrapposti tornava bambina e libera, ma con la conseguenza di un confine reale. Guardava dalla finestra Samuel, mentre fissava l'immenso vuoto dove la montagna accoglieva il vento. L'istinto snaturato, prima ancora di rendersi azione in lui, già era pensiero crudele in lei.
<
> ancora la voce le parlava. Voltò il capo e vide l'acqua sgorgare a fiumi dagli angoli del grande e disastrato salone. L’illogica visione non la scalfiva, quando avrebbe dovuto ghiacciarle il sangue. Lo specchio d'acqua rifletteva un’immagine ed era la prima volta che vedeva la sua colpa. Tutto era cambiato, perché era cambiata.
<<Senza nome, cosa guardi?>> l’arrivo di Samuel la distolse.
<
> ancora lo puniva.
Il suono della sua voce era la giusta ricompensa per il male subìto ed inflitto, lo stesso aveva lo sguardo di chi freni il pianto, lacerandosi il petto fino a godere del dolore crescente che gli dava il rifiuto.
<
> l’afferrava con la voglia negli occhi, pretendeva che lo toccasse, ma lei non ascoltava e fissava il palmo della sua mano. Dov'era la ragione? Dov'era cominciata e dove si era persa, mentre quella ferita cicatrizzava? Dell’immagine riflessa nello specchio d'acqua non le apparteneva il tempo; ancora si sentiva bambina, in cima a quelle maledette scale, con il ciondolo di sua madre stretto in pugno. La lasciò sola.
- 9 -
Ai piedi del pozzo, Samuel trovava ancora il pane fresco e le mele. Chi poteva riporli sempre nello stesso punto senza essere visto? Neanche se lo chiedeva, mentre nella parte opposta dell'immensa costruzione, lei era appoggiata alla profonda nicchia di una parete della cucina, dove avvertiva un odore acre e speziato.
Il miagolio di un gatto, forse il vagito di un bambino, la distolse da quella percezione. Camminava e sempre più vicino le parve il verso. Il gioco ebbe inizio.
In una stanza dall’arredo ligneo, saturo di polvere, c’erano stipati contenitori di vetro e ceramica. L'ingegno del ragno aveva lasciato ovunque il proprio segno. Scansava il corpo e schivando l'effetto ne tutelava l'ingegno… lo vide.
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> era il vecchio che Samuel aveva ucciso. Al
centro della stanza denigrava i suoi intrugli, perdendosi tra magia, scienza e non dimentico della superstizione, tutto tornava impeccabile nel disordine del sapere. Si muoveva veloce sulla sua carrozzella, tessendo fili immaginari di un’astrusa alchimia, brontolata. Poche parole chiare non svelavano l’arcano malcontento, intuibile dalla smorfia caricaturale assunta, quando il risultato deludeva l’intento.
<
> il vecchio indicava l'ombra del gatto oltre la sua, e che Ela seguì fino alla stanza dei sedici ritratti: otto raffiguravano una giovane donna ed altri otto un uomo, con il volto indefinito in ogni singolo dipinto. Entrambi indossavano una tunica bianca, seduti su di un faldistorio, tra il pozzo e la Villa in una notte lunare… la luce soffusa spiava la fastosa e torbida costruzione, invadendo i meandri della sua falcidia. Apparenze.
Solo in uno dei ritratti della giovane donna c’era il gatto, composto, proprio ai piedi della sua Padrona.
<
> il vecchio cantava con una voce da ragazza.
<
> Samuel credeva che a cantare fosse lei, quando una nuova prostrazione pungolava l’inspiegabile che gli permetteva di reggersi in piedi.
<<Sei bianco e orribile >> Ela gli parlava, ma non era la sua voce.
Lui indietreggiò, cadde e corse. Cadde ancora e senza dolore degli urti, turbato
da quelle parole, che avevano la forza di lacerare senza poterne fare a meno, voleva gridarle di chiudersi nel silenzio. Sì, è vero, era bianco, malato e non poteva smettere di vivere solo perché la amava. Certo, di un amore insano, condannato, che lascia il segno della sua proprietà e ne rivendica il possesso, ma era l’unico modo che conosceva… ed Ela, era di nuovo “sola”.
<
> la giovane voce di nuovo le parlava.
Il piccolo gatto, sotto il ritratto dove era raffigurato, assumeva la stessa postura del dipinto, come a voler ritrovare l'attesa di “quella carezza”.
Percepì il denudarsi della vita interiore, dove i pensieri cattivi nascevano imperfetti, per poi depravare precisi nelle mani di Samuel. Ascoltava la voce del vento, mentre il ritratto della giovane donna si animava di mestizia. Non poteva che vivere naturalmente quell’inspiegabile evento, che, generando una terrifica paura, avrebbe giustificato azioni inconsulte e tutto per una sinistra sazietà, arrivata a colmare lo stomaco con la forza di una reale sopravvivenza.
Il gatto, ai piedi del quadro, scioglieva la fissa postura per sparire lungo le scale.
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IV Capitolo
FAME
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- 10 -
Il cielo caliginoso invadeva la cupa solitudine del giardino, confinandolo in un silenzio irreale. Lungo l’ampio porticato ad archi, un soffio leggero ava a mutare quella condizione. Samuel non avrebbe cambiato nulla di quel momento.
<
> Ela indicava il pozzo istoriato a vasca quadrangolare, dai bassorilievi sfregiati sulle quattro specchiature della vera. Lì era finita la voce della Villa, sacrificata con l'innocenza in grembo, spinta a forza nel buco profondo da mani tozze e curate. Voleva spostare il pesante lastrone di pietra che lo copriva.
<
> constatò Samuel, mentre cercava di spostarlo; e finalmente cadde, assestandosi in terra vicino ad una colonnina angolare.
<
> era portato a cannibalizzare il presente con una metodica paradossale, che non gli permetteva di rimandare al giorno dopo la crudeltà del giorno prima, se non rinnovarla con l’unica tregua capace di placare la sua pazzia: l’omicidio.
<
> ripeteva Ela fissando l’imbocco del pozzo, dove sporse il corpo più del dovuto. Sentì un brivido lungo la schiena, quando qualcosa di leggerissimo sfiorò la sua mano. Non era paura. Voleva fidarsi di quella manifestazione paranormale, che saliva dalla buia profondità alitandole sul viso lo stordimento capace di attrarre fino alla caduta. Aveva quasi raggiunto la mano
irreversibile, dolce come la carezza di una madre…
<
> Samuel gridava contro di lei, contro il pozzo, mentre l'afferrava alla vita <
> riuscì a dissuaderla.
Esausta scivolò in terra, assumendo la consueta posizione fetale, quindi si addormentò.
<
> il folle vegliava quel sonno dimenticando il suo.
- 11 -
Ela, al centro di un’enorme sala, cedeva al aggio del vento, che veloce invadeva i corridoi, rimbalzava le pareti delle stanze, graffiate dal rumore infranto di voci lontane. Lo strepito d’improvviso diveniva vicino e intermittente, mutando il suono frantumato in un celestiale mottetto. Nello stato in cui il suo corpo si lasciava invadere dalle correnti - che divenivano accenno di un accordo sublime - nuvole grigie e polverose erano già pioggia, tanta pioggia.
Tende porpora lacerate, reggevano il peso del tempo nella totale e caotica fatiscenza; prima respinte e accarezzate dal vento, intrise d’acqua rimanevano inchiodate in un verticalismo, che gocciolava un ritmo fastidioso e veloce. Era finita l'estasi.
Con l'ombra del gatto accanto a sé, scopriva una nuova dimensione, fatta di suoni, odori, tatto, materia oltre il potere d’ascolto di respiri dimenticati, che si rendevano vicinanze inquietanti, accettate senza timore. I sensi, rimasti sopiti nella parte più violata della sua incoscienza, divenivano desiderio di presenza e consistenza. All’improvviso, però, tutto sembrava già visto, toccato. Forse a trattenerla, confonderla c’era la paura di dimenticare sua madre, per questo sminuiva quella distrazione.
Perdeva sangue. Lo sentiva scivolare lungo le gambe. Con un forte dolore all’addome percorse la sala, raggiunse le scale. Vide l'uscita e con lo sguardo cercava Samuel… per poi trovare conforto nella pioggia generosa, in cui pulire quella ferita di donna.
La pioggia smetteva il suo impeto e come lavava la terra a perdita d'occhio, mondava la più bieca delle intenzioni, i suoi pensieri, le mancanze, tutto quello che non conosceva. Nel conforto di un attimo il ricordo tornava insistente, quando la tempesta riprendeva a caricarsi polverosa e decisa, ingoiando del tutto il paesaggio.
Inginocchiata nella terra fangosa, si liberava dei fradici vestiti. Nuda, guardava le sue mani. Il sangue si mescolava all'acqua e Samuel le era sempre più vicino. La fissava inquieto.
Raccolse la camicetta e coprì quello che ancora non gli aveva concesso, con la brama di perdersi oltre misura nell’assoluta appartenenza che avrebbe supplicato fino a sentirsi perdente.
<
> soffocava i sensi con l’ansia di un cenno, che non arrivava a sfamare la voglia sotto la pioggia, avida fino alle ossa. Essere quella stessa pioggia,
scivolarle addosso, lavare le ferite dell’oscuro.
- 12 -
<
> Ela gridava, dimenandosi senza controllo. Bruciava di febbre e Samuel non sapeva come soddisfare quella strana richiesta.
Nel delirio vedeva la giovane donna del pozzo, la Padrona, cercare aiuto nella sua alterazione; con indosso la bianca veste della notte, leggera quanto la sua esistenza, fluttuava terrorizzata in una corsa vana. La chioma scura si scioglieva nell’oscurità sotto la presa del suo carnefice, che dava di sé le sole linee di una possente e cupa sagoma, senza uscire dall'ombra.
<
> afferrò il braccio di Samuel, in cui affondava le sudice unghie, ma senza distogliere lo sguardo dal delirio… e cominciò a calciare in modo sempre più convulso <
>.
<
> gridava di quella terribile giornata, dove ogni attimo afferrava faticosamente quello successivo, trascinando il tempo come il peso della loro condanna. <<Sta calma… calma>> ripeteva sotto voce, mentre la bloccava con forza, respirandone l’affanno, la rabbia e sotto la pelle febbricitante, il castigo del cuore; battito che risuonava nel petto a confondere il suo, dove il desiderio si accendeva tra istinto ed incomprensione. Frenarla ancora, nell’attesa di una quiete possibile, in ore che inseguirono l’alba di un nuovo giorno, sorto senza memoria sui loro respiri.
- 13 -
Lei, completamente riversa sul pavimento, non dava segno di vita. La ferita nella memoria - quella in cui le visioni entravano affilate e chiassose – ancora una volta rimarginava nel silenzio.
Lui, supino, nel sonno proferiva parole astruse, quando la luce del giorno prepotentemente lo riportò alla realtà. <
> gridava, ma tra le mani non aveva niente, erano solo sporche. La delusione lo turbava. Ricordava d'aver corso a lungo e senza sosta per una strada buia, dove l'odore del pane caldo proveniva dalle radici del mondo; di come quella fragranza fosse capace di avvolgere e consolare nel farsi nutrimento. Un nutrimento che non riusciva a vedere né toccare, lo stesso nutriva ma senza saziare, se non poteva condividerlo con l’unica ragione. Finalmente lo aveva stretto al punto di farlo scivolare dalla dimensione onirica a quella concreta e maligna in cui Ela delirava. Quell’attimo di pietà era come chiederle perdono per quanto fatto, impresso a sangue, firmando l'appartenenza aberrata dell’unico male comune a legarli indissolubilmente.
Tra le mura pericolanti, ripensava al vecchio che aveva tentato di fermarli. Non era pentito di averlo ucciso, ma ricordare gli dava una certezza: ritenerlo custode di un posto in cui la vita non aveva il semplice compito, poiché questa subiva senza ritegno un'altra realtà che il vecchio "vedeva" come Ela. Per una logica paradossale si convinse d’averne ereditato il “dono”, proprio attraverso il misfatto. Questo gli avrebbe permesso di spiare i silenzi della ragazza, vegliarli, sopprimere le anime che abitavano il suo delirio, distogliendola dall’attenzione che pretendeva. Visioni e illusioni.
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V Capitolo
PRESAGIO
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- 14 -
Tra le mura consumate, la natura dimorava forte ed invadente. Dalla vita alle ombre in quel luogo si frantumavano ricordi, che potevano sfiorare come carezze di vento o scuotere l’anima con rumori impossibili, capaci di rendere l’ultimo respiro una feroce condanna. Nella visiva anarchia di un dominio aperto, anche l'invisibile ava logico nel caotico nonsenso.
Nella stanza dei sedici ritratti, Ela riconosceva la donna del pozzo, dipinta otto volte. Sette erano le stanze in cui aveva corso incontro alla pietà, mentre nell'ottava trovava il gatto screziato, per l'appunto presente nell'ottavo ritratto. Seduta su un faldistorio - l'assassino - nell'attesa guardava a destra il suo destino, il pozzo, l'epilogo del misfatto. La giovinezza iniziata alla lussuria fino all’abitudine inveterata, portava in grembo il bisbiglio, l'onta della scomunica ed era bella, avida, capricciosa e preziosa come la Villa dominata dallo sfondo lunare. L’ultimo desiderio, il pane del cieco, profumato e caldo, tra le mani di una fedele ed ambiziosa carogna; anche lui dipinto otto volte, ma dai tratti indefiniti dalla colpa, rimasta segreta, quanto più riconducibile al vero assassino, che comprava il silenzio a caro prezzo, per poi riservargli una fine altrettanto cruenta.
Sedici ritratti, dipinti da chi? Forse dal vecchio sulla carrozzella? No, solo dall’alterazione e nell’alterazione poterli leggere. Una simbologia diabolica, che decideva vita e sorte, ma come incognita, dopo la perfezione, incitava all’indagine, al raggiungimento della trascendenza attraverso la femmina sacrificata all’arcano aggio.
Otto, come le pugnalate inferte al ventre della giovane amante del vescovo. Un'anima dal nome nascosto, negato, mai vissuto, che nell’ultimo giorno aveva gridato pietà per la vita che le cresceva dentro.
Dall'altra parte della Villa, dietro la scalinata, sotto il loggiato che la circondava, in uno degli appartamenti al piano terreno, Samuel rideva di quello che aveva trovato: il ritratto del vecchio, ucciso all’entrata. La raffigurazione era identica. Seduto sul solito faldistorio, nella consueta veste bianca, guardava verso destra il pozzo. Della sedia vescovile - emblematica del presule omicida - non v'era traccia nella Villa, se non nella visibile e mirabile rappresentazione pittorica. Rientrare per forza in quella iconografia, senza realmente carpirne il senso, ne fuorviava il messaggio. La sterile ripetizione confondeva una già enigmatica verità, che pretendeva di essere risolta, non copiata. Tra l’altro, i tratti senili rivelavano l'attesa della morte, avvenuta per mano di un pazzo, non certo di un dignitario; dunque, difettava di tempo e forma.
Ghignava, mentre lo lacerava irrimediabilmente, con l’intento di scaraventarlo nel pozzo, sperando di placare la fame di quel lurido buco; così fece, prima di tornare da Ela, la cui gracile figura sulle scale si muoveva con la grazia di una farfalla accarezzata dal vento. Dolcezza amara di un soffio fugace. Desiderosa di salire, ma senza fretta. Un gradino dopo l'altro raggiungere il tetto. Rimanere in bilico lungo il pericoloso camminamento. Fissare il visibile e perdervi sostanza. Vagare come spirito nel cielo aperto. Librare, tagliare la traiettoria, tornare a sfiorare l'immenso prato incolto. Superare gli alberi assolati. Aggirarsi flessuosa tra le pietre aguzze ed aspre. Di nuovo in alto, verso l’azzurro terso, per ripiombare nel corpo a supplicare quell’estasi e nelle mani vuote trovare la risposta: il volto di Samuel, che accettava il dolore, perché era lei a darglielo. Quello, il prezzo da pagare per meritare la requie, nient'altro.
Il forte vento di quella giornata avrebbe sollevato un toro, ma il suo esile corpo rimaneva sorretto da quell'abbraccio, nel punto più alto di una libertà avulsa da ripensamenti, che non pretende di capire o spiegare, solo scegliere di divenire ombra e alle ombre mescolarsi.
Lui tornava carponi, avvolto in una coperta lisa e trattenuta a stento. La vide in bilico sul tetto, dominarlo austera senza timore della caduta. Il vento sembrava stordirlo, indurlo a desistere. Si trascinava sulla terra secca e polverosa, serrando la bocca, coprendo gli occhi.
<
> ripeteva tra sé e poi gridando. Varcava l'enorme sala, in cui quella furia sibilava il suo controllo in ogni pertugio e cercava le scale, quelle che lo avrebbero condotto al tetto. Si arrampicava oltre l’ultimo gradino, per vederla nella sottile veste bianca chiazzata di sangue, accogliere il vento, gonfiarsi di vita nel ventre. Non era lei. Nella lunga chioma bruna, nel profilo delicato e mortalmente diafano, non la riconobbe; neanche ebbe pietà, terrore del miraggio.
<<Maledetta! Cosa le hai fatto?>> cercava di afferrare quell’inconsistenza nella luce sempre più bassa, annuncio di una notte prematura richiamata da un tempo blasfemo.
<<Sono qui>> gli sussurrava, e lui continuava a girarsi intorno senza vederla.
<
> ancora non la vedeva.
<<Sono qui>> gli prese la mano e la strinse incrociando le dita alle sue. Aveva negli occhi la voglia di chi ha solo annusato uno strano desiderio, con l'indecisione di poterlo richiamare o sovvertire.
<
per nessun motivo>> guardava la mano di Ela stringere la sua, non mollare la presa, come a cercare protezione, quella capace di rendere l’altezza raggiunta con incoscienza una discesa sicura; ma la paura percepita in quella stretta era una finta resa, per indurlo a credere di avere il controllo, quando si finiva per andare incontro a quanto già visto ed era in grado di rendere reversibile. Non era il bene.
Lasciavano la Villa. Nell’oscurità superavano il percorso lastricato, ritrovandosi nella fitta vegetazione che la custodiva, dedalo oltre il quale l’entità non osava spingersi. Il volto della ragazza trasfigurò, si udì un suono acuto e Samuel perse i sensi.
<
> vedeva la Padrona china su di lui, indignarsi e ridere; poteva ucciderlo e per questo tornava alla Villa. Nel diversivo temporale rendeva possibile la sua sopravvivenza, ma l’illusione ricominciava con maggiore ostinazione là dove la follia l’aveva interrotta.
Straordinario miraggio all’alba. Udiva un rullare di tamburi diffondersi lungo la valle, segnare il o a cinque artisti di strada. Giullari colorati di arcobaleni stellati, che illuminavano la notte più buia sulla faccia della terra. Componevano un'allegra compagnia, che attraversava come anacronistica felicità la sua decisione, regalandole un sorriso, prima del castigo. Era cibo per gli occhi, che saziava di un’eccezione piena di niente, di vento, eppure dolce come il primo riso sul suo volto… ed erano già spariti.
<
> la Padrona parlava di pietà, coscienza e sentiva quelle parole infrangersi sulle pareti della memoria, dove si perdevano, prigioniere come lei di
quello spirito, che non voleva lasciarla andare oltre le mura della sua ostinazione.
Tutto quello che per anni era rimasto muto nell'irragionevole, ancora non era libero di decidere. C'erano forze estranee a confondere la sua apatia, gesti che volevano relegarla all'impossibilità di svelarsi. Aveva lasciato Samuel privo di sensi nel bel mezzo di quel groviglio di vegetazione, convinto lo spirito a risparmiargli la vita, ma già sentiva crescere il bisogno di nutrirsi proprio del suo delirio, mantenendo il controllo nell'apparente, mendace sottomissione. Era di nuovo di fronte alla Villa, quando proprio nella labirintica vegetazione, lui, dolorante tornava in sé e già la cercava.
<
> camminava a stento, trascinando la voglia e l’ansia. <
> rimuginava, quando il rumore di un imponente camion lo riportò alla realtà. Si nascose dietro un albero, da dove la vedeva rimanere immobile, per una naturale e pericolosa predisposizione che aveva, proprio nel punto in cui un'altra azione annullava la sua.
Dal veicolo scesero due uomini. Quello più alto e corpulento non aveva un braccio. Lo chiamavano Titta, all'anagrafe Giovanni Battista Sabbarino. L'altro era un se con origini valenciane. Il suo nome era Raoul Gaullart. Filibustiere trentenne dalla corporatura esile e dinoccolata, capigliatura bruna e fittamente riccioluta; mascella sfuggente, piccoli occhi chiari e naso perfetto. Nella conversazione cercava continuamente l’approvazione dell’attempato compare, come riprova di una torbida complicità.
<<Titta fidati! Qui c'è solo un vecchio pazzo! Lo chiamano il Barone. Gli taglio la gola e la roba sarà al sicuro>> parlava e lo fissava.
<<E quella cagna?>> gli rispose il monco indicando Ela.
<<È merce, no!>> il se rideva sguaiatamente, mentre faceva rotolare una fiche da poker sulle nocche delle dita e la tensione aumentava fino a arsi l'indice tra le gengive, riflesso incondizionato di un vizio che gli toglieva la paura.
<
> Titta ripensava alle perversioni condivise e per questo annuiva sardonico.
<<Sempre amico mio, sempre>> subito gli rispose il tralignatore.
L'uomo senza il braccio sinistro era un italiano del nord, di Chioggia; figlio di una prostituta alcolizzata e di un pescatore abusivo e pappone, di cui si erano perse le tracce dopo la morte per overdose della moglie e di un giovane portoricano. Certamente nessuno lo avrebbe rimpianto, compreso il figlio, che più di una volta aveva tentato di toglierlo di mezzo, quando la famigliastra inveterata era ancora al completo.
Raoul, nato ad Aix-en-Provence, parlava un italiano con un ridicolo accento franco-partenopeo, ancor più aggravato da una voce stridula ed asessuata. Da circa sei anni viveva a Napoli tra spaccio, scommesse e marciapiede.
Il più pericoloso dei due era l'italiano. Aveva lo sguardo di chi ogni giorno rivendichi la propria irreversibile condizione, divorando quanto di indifeso e perfetto ferisca l'imperfezione. Il se - che dell'età della perfezione non ricordava che le fughe dall'odore acre del mosto e la fatica nei campi - non accoglieva "per discendenza" lo stesso disgraziato retaggio del suo compare,
perché era cresciuto con l'amore di una madre, un padre; persone semplici, ricche di sentimento e dai valori solidi che non aveva ereditato nel rispetto della vita e della terra. Incapace di assimilare la devozione che la natura esige, nell'attesa della sua lenta ed a volte anche ingiusta ricompensa, si era ritrovato imbrigliato nel guadagno facile del male e un treno dopo l'altro, complice subordinato e compiacente al fianco di Titta, però, divenendone il punto debole: Raoul aveva conosciuto il bene, Titta no.
La figura possente dell'italiano - sul metro e novanta, canuto, occhiate oblique e taglienti da capobranco, naso aquilino, zigomi alti, mascella larga e barba incolta - si avvicinava a quella gracile di Ela.
<
> le puntava la pistola, quando notò la cicatrice che le attraversava il volto fin dietro la nuca. <
> con la canna della Beretta seguiva il lungo sfregio, mentre sentiva crescere l'eccitazione dopo avergliela infilata in bocca.
<< È scema!>> disse il se, mentre la tratteneva per il collo.
<
> gli rispose alterato il chioggiotto, mentre andava a pisciare.
<
> lei sospirava parole di quello che sapeva certo.
Raoul cominciò a strattonarla, spingendola a ridosso del camion. <
solo non è! Che stupido! Poco importa! Tutti hanno le ore contate, compresa te, puttanella ritardata>> la spinse bruscamente. Aprì il portellone e si udirono lamenti strazianti. Distolto solo dall’olezzo sgradevole, si strofinò il naso. Il fetore, il dolore ormai avevano la stessa consistenza. Afferrata, sollevata a forza, trattata peggio di un animale, le chiuse attorno al collo un collare di ferro provvisto di una corta catena, fissata al gancio di una parete metallica. Tornò sui suoi i, richiuse il portellone e incrociò lo sguardo del compare, che gli indicò la Villa. Lì si diresse.
Samuel aveva assistito inerte all'intera scena. Nel trattenere l'accanimento si era morso le labbra a sangue.
Erano ati circa venti minuti. Titta dava le spalle al camion. La giornata non era particolarmente calda, eppure lo stesso continuava ad asciugarsi il sudore colato dalla fronte. Qualcosa non gli quadrava. Troppo tempo era ato. Uno strano presentimento intaccava il suo fallace piano.
<
> parlava tra sé ed era vicino, sempre più vicino alla Villa, dentro la Villa… e lo vide scendere la lunga scala della sala principale. Non aveva più lo sguardo satiro e beone di vita, ma lo sgomento totale negli occhi, come se qualcuno lo avesse svuotato delle sue luride certezze, allucinato di un terribile destino.
<
> ripeteva con un filo di voce. Lo sguardo era assente, imperscrutabile. Quale follia o paura aveva spiato e scosso il fondo buio della sua sporca anima?
<
> gli mollò un ceffone; lo stesso Raoul non riusciva a distrarsi da quanto visto e voleva uscire al più presto da lì.
Abbandonata la Villa, a o sempre più frenetico raggiunse il camion. Aprì il portellone e di nuovo il fetore di un’inenarrabile realtà lo invase. L’esecrabile stordimento gli diede – seppur per un istante – la certezza di averla scampata ancora una volta. Giusto il tempo di portarsi il braccio al naso e Samuel lo colpì violentemente alla testa. Si accasciò bruscamente in ginocchio. Prima di svenire lo vide. Era bianco e terribile sotto una logora coperta. Non ebbe il tempo di gridare, di supplicare la pietà che non meritava. Perse i sensi. Il folle gli rovistò in tasca, trovandovi delle chiavi.
Salì sul camion dove, tra i lamenti e il pianto disperato dell’innocenza stipata a forza, vedeva solo Ela, incatenata per il collo in un angolo. Dopo averla liberata, pretese quelle chiavi. Fu il primo a scendere.
<<Buttati… non aver paura. Ti prendo>> così fece. <
> la stringeva con un trasporto, un’intensità che Ela subiva con indifferenza. Il cuore del folle batteva forte di vita, quella stessa vita che era capace di spezzare senza rimpianto. Dolce eccezione, dolce male, che veloce scorreva nel sangue amaro, e gli dava il conforto di sperare anche solo in uno sguardo. Un respiro dove bruciano le ragioni degli amanti, e la ione si mischia al sangue, fino a desiderare la morte corrisposta come culmine del piacere. Le tratteneva il viso. Sfiorava le labbra, che non proferivano parola, che non conoscevano amore, che non cercavano le sue. Poterla avere, spiare il suo vuoto. Rimanerle dentro anche senza accettare di essere respinto. Il vero male è amare, per questo la desiderava, ma ora doveva allontanarla da sé, indicarle il posto dove nascondersi e attendere il suo ritorno.
Ela non capiva quello che provava, i suoi erano solo ricordi sbiaditi; anche ricordare sua madre, cos’era? Dubbi di una strana creatura, che per comprendere le proprie sensazioni, aveva bisogno di toccare quello che non c’era. Arrivata dove Samuel le aveva indicato di nascondersi, lo attese senza timore di perderlo.
Intanto lui, dopo aver trascinato il corpo di Raoul dietro il camion, si diresse alla Villa.
Dentro si muoveva spedito, come se quei luoghi fossero usciti dal suo ingegno. Vide Titta, seduto in terra, fissare la nicchia di Ela nell'ampio vano della spettrale cucina. Aveva lo stesso sguardo allucinato del suo compare: occhi sbarrati, muso livido e rigido, come se qualcosa gli avesse freddato il sangue, ma senza togliergli l'ultimo respiro, lasciandolo immobile, indifeso, nell'attesa del colpo fatale perpetrato da chi non si crede esistere; quando invece arrivava concreto il castigo di Samuel, che dopo averlo colpito brutalmente alla testa si diresse verso l’uscita, dove fece cenno ad Ela di tornare.
La ragazza lasciava il cespuglio con un senso di vuoto che ora quel gesto colmava, come se nei suoi silenzi ci fosse finito senza merito. Per questo, solo per questo lo avrebbe seguito. Era di nuovo di fronte a lui.
<
> le parlava, sembrava felice.
Ela vedeva alle sue spalle la giovane donna del pozzo. Esile e gravida nella sottile camicia da notte. Camminava prima di loro, prima di altri i persi nella stessa direzione, dove ne emulava vezzosa gli atteggiamenti, mescolandosi ai corpi in parvenza ed essenza, fino a sostituirsi al pensiero, divenirne compimento nel dispettoso andare di un soffio, che avvolgeva senza dolore e stordiva di morte.
Samuel di quello stordimento non percepiva neanche il rumore della natura. Voleva solo rimanerle accanto.
Insania, nient'altro d'ambire se non ascoltare il silenzio, come se ad ogni parte corrispondesse un'altra e ad ogni ferita l'altra, che puntualmente ricuce, e solo allora provare a ricordare il dolore innocente in una precarietà crudele, che non poteva essere una vita da vivere senza il senso della sua definizione.
<<Seguimi>> le sussurrava all'orecchio lo spirito che lui non vedeva, ma che subiva, piegato in terra, per un crampo lacerante allo stomaco. Morso di fame bestiale. Svenne.
Lo spirito le indicava la Villa, dove ad attenderla c’era un’amnesica punizione.
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VI Capitolo
UN BRUTTO RISVEGLIO
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- 15 -
Raoul, alla guida del camion serrava la bocca affilata; quasi non vedeva la strada per la fretta di allontanarsi da quei luoghi. Le mani gli tremavano e la velocità sembrava l’unica salvezza. Titta - dal canto suo - tratteneva gli urti con l'unico braccio che gli rimaneva.
Erano feccia, che resisteva come solo la carne triste sa fare, ma la paura li tradiva. Sul volto del giovane se ogni lineamento tirato ne dava evidente e chiara lettura, mentre l'italiano la celava più nel presentimento che nella considerazione ragionata: non lo avrebbe mai ammesso.
<
> gli chiese sarcastico, ma Raoul non ascoltava; aveva la testa da tutt’altra parte e continuava ad accelerare sconsideratamente lungo una strada che si presentava cupa e scoscesa.
<
> parlava ad alta voce, cercando di esorcizzare l'impossibile visto e subìto, condividerlo nella stessa dannazione.
<
> mentiva, non poteva fare altrimenti se non aveva il controllo.
<
> (riferendosi a Samuel, per via del fetore a precederlo) <<Ma sì! Ci vendiamo questa carne fresca e poi il Messico. Ieri ci siamo proprio divertiti. Non è vero? Sai cosa mi diceva mia madre? Che se non riesci a spiegare quello che fai, allora te lo devi aspettare. Non ho mai capito cosa volesse dire, ma forse c'entra con tutto questo. Mi torna in mente proprio ora quella santa donna di mia madre! Chi se ne frega! Titta, mi fido solo di te! Sei tutta la mia famiglia>> ricordava il rispetto confondendolo con la furbizia, perché seminare il male nella terra fertile fino a vederla degradare gli dava gioia.
<
> il chioggiotto parlava della sua vita privata, quando non lo aveva mai fatto.
<
> il se sorrideva ripensando all’infanzia.
<<Sì, del culo! Credi che stia scherzando? Non riesco a capire se sei un fesso integrale o mi canzoni per furbizia. Parli troppo e a vanvera. Vuoi dare
l’impressione che qualcosa di buono frulli nella testa di merda che ti ritrovi. Stai attento, non ti lascerò mandare il piano a puttane!>> l'espressione di Titta era impietosa e aggiunse <
> e con la mano destra batteva la spalla sinistra, come se la parte vacante chiamasse a sé la medesima condizione per placarsi.
<
> c’era solo da augurarsi che la canaglia smettesse il terrifico racconto, già imbrigliato in una morale astrusa quanto ridicola.
<<Stronzate di buchi vari! Ti fosse salita per il culo, eri più contento… vero? Falla finita, non lo dirò un'altra volta! Mi hai rotto veramente i coglioni>> gli rispose con una stizza che non dava spazio a repliche.
Dall'altra parte del camion, l'andare discontinuo del mezzo sul percorso sconnesso, rimbalzava di contraccolpo nel petto di Samuel, il cui respiro si gonfiava in bocca fino al rigurgito. Incastrato a forza in una gabbia, nella costipazione di gambe e braccia, avvertiva il freddo del metallo sulla carne nuda e candida. Non uno spiraglio di luce oltre le sbarre di ferro. In quella notte maledetta non ricordava la traccia temporale che lo aveva ridotto in quello stato. Voleva solo percepire il respiro di Ela. Ancora una volta viveva la coercizione del corpo, che fremeva per diventare azione terribile, ma rimaneva stranamente in silenzio. Non c'erano solo i suoi respiri a spezzare l’aria, ma quelli di altre giovani vite, destinate dalla marcia volizione ad una lurida fine oltre il confine della coscienza. Indifesi, stipati da giorni tra escrementi e rifiuti, avevano sentito la rabbia e la paura cedere ai morsi della fame e della sete. Tra privazione e prostrazione, sopravvivevano misteriosamente alla torva mente umana. Che importanza poteva mai avere il dolore corale di fronte all'incertezza di averla persa per sempre? A lui interessava subire un unico fiato. I lamenti gli davano un fastidio apatico che non aveva la forza di combattere per quello che ora sapeva certo. All'improvviso il camion cominciò a sbandare.
<
> Titta gridava.
<
> Raoul tratteneva maldestramente il volante, ma ormai non aveva più il controllo del mezzo.
<<Maledizione! Qui si finisce male! Si muore se!>> gridava il chioggiotto, mentre vedeva il rovello di una misera vita argli davanti.
Un grosso albero evitato in un testacoda al limite dell'equilibrio. Il mezzo si assestava bruscamente, lasciando le due carogne illese, quando dall'altra parte, per la violenta frenata, molti di quei poveri disgraziati cedevano giustamente al dolore, alla paura in un pianto straziante.
Raoul, in quella nottata afosa e condannata, sentiva il freddo della fine attutirsi di fronte al volto felice di sua madre, mentre lo vestiva con tanta premura prima di andare a scuola. Ah, quanto gli stava stretto quel banco! Era stato un bambino irrequieto e invidioso, divenuto uno sporco uomo, che poteva ancora cambiare, solo perché si era salvato. L’ipocrita beffava la sorte. Giusto un istante era durata la redenzione fasulla, se poteva ancora gioire di una squallida sopravvivenza, in cui respirare il male sempre e comunque.
<<Siamo salvi! Siamo salvi! Non ci posso credere! Che culo Titta! Corna dure le nostre!>> rideva sguaiatamente.
<
> gli rispose asciugandosi tremante il sudore sulla fronte.
<
> precisò contento, mentre il sole sorgeva lentamente <
> Raoul indicava la Villa <<Siamo tornati al punto di partenza. Com’è possibile? Maledizione, questo è un brutto segno! Io, io non scendo. Non mi muovo da qui! È stata quella maledetta! Ho paura, troppa paura. Non ci torno là dentro!>> e si tracciava dalla faccia al petto una circonferenza spacciandola per un improbabile segno della croce.
<
> gli gridò col sangue agli occhi.
Il se, sceso dal camion, si teneva istintivamente a ridosso del mezzo, guardandosi intorno con fare circospetto; borbottava fra i denti: <
> nulla lo distoglieva da quel brutto presentimento.
Il sole già alto cangiava i contorni del codardo, che apriva il portellone con addosso l’abbaglio a tagliare di netto le viscere di Erode: c’erano più di dieci ragazzini ammassati in una gabbia arrugginita. Alcuni svenuti - forse morti – denutriti e sporchi; avevano più paura della luce che dell'orribile costrizione.
<
> ripeteva, tirandosi la maglia al naso e poi rivolgendosi a Samuel <
>. Versava maldestramente due bottiglie d’acqua sopra la gabbia (un contenuto irrisorio, visto il numero e le condizioni fisiche di quelle povere anime). Lo stesso aveva fatto col pane, lanciato a pezzi grossolani e sempre buttando un occhio alla gabbia in cui Samuel sembrava moribondo. Supplicavano, accalcati come cani contro l’inferriata, per il meglio di quell’inconcepibile pasto, umiliazione ritenuta fin troppo giusta e generosa dal losco redivivo.
<
> gli parlava, assumendo un’espressione terribile, lo stesso Samuel rimaneva imibile nella sua prostrazione.
Ela, trattenuta per il collo da un collare a catena, aveva un aspetto orribile. Oltre al consueto sguardo perso, il viso appariva livido, le mani graffiate, mentre i lerci indumenti e le gambe si presentavano vistosamente chiazzati di sangue.
<
> Raoul gli puntava la pistola <
> Raoul era furioso; aprì la gabbia <<Esci fogna!>> e calciava l’inferriata.
Samuel era nudo. La pelle candida mortificata dai lividi delle percosse subite. Legato mani e piedi, strisciava sofferente fuori da quel buco di ferro. La carogna lo aveva afferrato per un braccio e trascinato quasi a peso morto verso il portellone d’uscita, dove incrociava gli occhi di Ela prima di cadere spinto a forza giù dal camion. Sotto la calda luce si era rannicchiato su se stesso. Sentiva la pelle bruciare. L’impressione che dava era di resa.
Il se subito lo raggiunse, puntandogli la canna della pistola all'occipitale. Cominciò a prenderlo a calci lungo la schiena, e poi gli urinò addosso.
<
> di nuovo lo strattonava con violenza, spingendolo al margine del sentiero a precipizio. Aveva accumulato tanta di quella rabbia e tensione da credere che lo “spettacolo” della rovinosa caduta della fogna potesse placarli. In un attimo di distrazione fatale gli diede le spalle, e quello che poteva sembrare un moribondo si rivelò pericoloso quanto un cane idrofobo, i cui denti affondavano a sangue nella sua caviglia, straziando il tendine d’Achille. I sensi cedevano ad un dolore terribile, togliendogli equilibrio e reazione. La pistola scivolò in terra. Sentiva il freddo scorrere lungo la schiena, dove subì la spinta decisiva. Cadde, ruzzolando violentemente, spirando solo, laggiù, massacrato da una sortita maligna e ritorta.
Samuel aveva la bocca piena di sangue che sputava contento. La corda attorno alle caviglie era già allentata, mentre i polsi non riusciva a slegarli… e qualcos’altro da finire.
Cinque colpi di pistola sparati a bruciapelo straziavano la testa di Titta, senza dargli il tempo di guardare in faccia la morte, confondere il veloce castigo. Lo scempio si accasciava scomposto verso lo sportello socchiuso, assestandosi bruscamente in terra in maniera raccapricciante. Samuel non vedeva che vestiti, tolti con l’impazienza di coprire le sue povere e accaldate membra. Nella tasca della stazzonata giacca a vento trovava un coltello a serramanico e le chiavi per aprire le gabbie. Tagliò la corda, che ancora gli legava i polsi. Coperto dalla testa ai piedi di quell’orrore, salì sul camion. Superata con indifferenza l’esigua gabbia in cui l'innocenza stipata supplicava pietà, liberò Ela. Non gli importava nulla di quella fine, c'era solo lei, coperta di sangue, come del resto anche lui lo era. Lei, che non sentiva il dolore della carne divenire livido, e quello che non era visibile non sapeva se fosse giusto da provare. Solo Samuel, proprio in quel castigo, ritrovava vigore standole accanto. Nel sangue sentiva l’entusiasmo di una sporca idea smuovere un’inaccettabile allegria.
Le ferite potevano rimarginare e l’acre odore del crimine essere lavato in quella giornata, in cui capivano che perdersi non avrebbe significato cedere alla ragione, mai.
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VII Capitolo
LA QUARTA PORTA
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- 16 -
A i lenti entravano in una fitta boscaglia, resa fangosa, a tratti impraticabile dalla pioggia insistente. Ancora a spartirsi il silenzio, che affondava ogni o nella fatica, senza allentare la presa. Era terso il respiro di quella natura, che accettava di essere calpestata e svelava, oltre la macchia, un mare calmo in cui avanzare, lasciarsi spiare, pulire… sanare.
"Rimanimi accanto, anche se il verde acceca. Sfiorami coraggio", Samuel pensava, voleva. Non aveva mai chiesto, solo tolto e ora aveva paura di essere rifiutato dall’unico rimedio, quello che non gli permetteva di dimenticare da chi avesse ereditato il male. I ricordi tornavano taglienti ed era come guardarsi dentro, senza il timore dell'indifesa veste dell'anima. L'anima infetta di un carnefice, che gioiva della condanna, se erano le mani di Ela a decidere, infliggere la verità assoluta in un presente incerto e silenzioso, che si riempiva di calore insano. La violenza, la lussuria, smettevano di avere una distinta connotazione, per la sola volontà di mischiare i sensi, perversi e persi in giochi di mani, che sapevano dove andare a cercare il piacere. Mani, che con la stessa leggerezza strisciavano nel delitto, per l'abitudine dell’istinto di perdersi nello scempio. Proprio di questo danno Ela aveva bisogno per ricordare sua madre, sentirla vicina e questo quando lui la toccava. Appartenenza pericolosa, che trovava un equilibrio distorto nella voglia, che scorreva nelle vene senza incontrare gli ostacoli del pudore.
Le dita di Samuel sfioravano il suo corpo bagnato, offerto come la proiezione perfetta della sua ferita. Sentirlo fremere sulla pelle oltraggiata rendeva il dolore della carne meno profondo, se arrivava a lambire quello che nascondeva e non voleva cedere. Perché? Solo il tempo di denudarsi del tutto. Lasciarsi toccare ovunque… e l'acqua ammorbarsi del loro sangue. Neanche una parola, solo mani
addosso a spiegarle come ci si sente ad essere vivi. Smettere per un attimo di cercare tra quelle dita chi non c’è più. Bere la pioggia. Nella tregua confondersi agli elementi, all’ascolto animale che respiravano e voleva accogliere nel suo seno, per nutrire il seme oscuro, che cresceva in quella sensazione senza paura di assomigliarle.
Tutto sembrava già scritto, naturale quanto gli uccelli, che in cielo tracciavano percorsi precisi inseguendo fili invisibili nel vento. Un vento leggero, che asciugava vestiti e pelle, senza temere il giorno del giudizio. Per Samuel tornava il ricordo della quarta porta, mai chiusa dalle mani del padre. Un ampio spazio sempre prigione - che lo avrebbe accolto desiderando un buco di terra fresca, in cui contare i vermi nell'attesa della fine. Niente ci rende più schiavi delle azioni condivise nel male. Avanzavano a i lenti i suoi bassi fratelli, e prima ancora sua madre, lungo lo stretto corridoio in cui si sprecavano fiori freschi, secchi e marci. Il puzzo d’inganno nella precisione d’ogni singolo, inutile soprammobile; e la copia modesta di un quadro, Sul veliero, appeso sopra ogni porta, prima di chiuderla definitivamente, come se tutti fossero costretti dalla fede a guardare nella medesima direzione, non perdere di vista la rotta verso una geenna di Paradiso. Le mani del padre giudicavano e giustiziavano ed erano così piccole, quando aprivano decise le basse serrature, chiuse sugli occhi della propria famiglia, che accettava quel giudizio senza resistenza, amando ancora, se non di più, le mani del boia, che serravano l’inconcepibile spacciandolo per la meritata benedizione del “padre buono”.
Quattro porte di legno, rinforzate in acciaio, chiuse a chiave e con tanto di catenacci arrugginiti. Il tocco della pazzia interrotto dal suono dell’ultima porta spalancata, quella di Samuel. Aveva visto una freddezza, che non lo avrebbe risparmiato nella desolazione di una campagna claustrale, quell'undici novembre segnato sul calendario con una “P” (Purefazione) accanto ad una croce. Il giorno del giudizio di uno psicopatico, che, nel nome della follia religiosa, rendeva i propri figli puri e perfetti attraverso l’espiazione consumata nell'isolamento definitivo, in cui avrebbero pregato fino a cancellare l’onta di non essere nati come lui li avrebbe voluti. Colpendo quando l’azione non ha senso, perché non si aspetta, se per un tempo si è stati felici, credendo di essere amati secondo ragione e sentimento.
Nell’anno 1996, quattro mesi incriminati, di ognuno l’undicesimo giorno. Agosto: si apriva la porta della stanza destinata a sua madre, la bella Natalia, trentasei anni, rea d’aver generato l'imperfezione. Settembre: la seconda stanza “accoglieva” il primogenito, Carlos, diciassette anni, affetto da nanismo di Laron; amava in maniera carnale Jole, sua sorella, nana armonica ed aveva quasi quindici anni, quando l’undici ottobre varcò la terza porta con in braccio il figlio dell'incesto. La quarta stanza era destinata a Samuel, splendido bambino, proporzionato e dalla pelle bianchissima.
Con la rassegnazione in volto, il merito del castigo, avevano abbracciato e baciato il marito, il padre, prima di varcare amorevolmente la propria prigione e quando la porta del perdono si chiudeva sui loro volti, nella testa del povero piccolo Samuel la ragione non sapeva dove andare a nascondersi, e così si era persa. Tante volte, nelle notti fresche che non bruciavano sulla pelle, era scappato con la bicicletta dal fetore insopportabile, con l’imprudenza che non poteva spiegare perché, dietro quelle porte, l’isolamento irreversibile fosse il dono di una redenzione giusta, assoluta, imperdibile. Lo stesso era tornato, prima che il giorno freddo cominciasse a scaldarsi e ancora timido gli dava il tempo di varcare come un verme la soglia di casa, impugnando una corta ascia, quando il processo delle azioni doveva completarsi nella quarta stanza, che lo aspettava solo perché era troppo bianco; ed invece avrebbe recitato lo spettacolo truce di un figlio chino sul piccolo padre, che accoglieva in pieno petto tre colpi impietosi e altri due in terra a mozzargli le mani. La violenza inflitta dal figlio interrompeva il paterno malvagio disegno, che, efficace nella calma fredda e convincente, si era reso trama di una disperata e distorta dottrina d’amore, nel rispetto dell’Unico Creatore e della realtà repulsiva dell’imperfezione. “Solo Dio ci ama per come siamo! Tutti ridono di noi e hanno ragione. Figli miei, vivere non ha senso se continuiamo a sbagliare!” urlava e accarezzava. Condannando il difetto correggeva se stesso, e lasciava alla morte il diritto di consumare e rigenerare quella che considerava la sua progenie degenere.
Il coraggio innocente, oppostosi alla sistematica fine, lo aveva spiazzato. Gioiva di Samuel, in cui vedeva l’evoluzione ancor più decisa del proprio giudizio, se
non temeva il rischio di oltraggiare il principio. Le piccole mani del padre, raccolte e bruciate, non avrebbero più sigillato l’imperfezione, già assetata di sangue: quando guardava negli occhi le sue vittime, rivedeva quelli dei suoi fratelli e la stessa porta si chiudeva ancora… ancora e la ragione era sempre del padre.
Come Ela, ma all'età di dieci anni, entrava nella Clinica psichiatrica italiana di Igor Odexa, la x231. Psichiatra e criminologo di fama mondiale. Nato a Londra. Figlio illegittimo di un politico russo e di una nana equilibrista inglese. Gran parte della sua infanzia la trascorse in giro per il mondo su una roulotte pidocchiosa, e mentre la madre si esibiva - osannata o derisa - in lui cresceva una smodata curiosità per i comportamenti umani, soprattutto quelli inclini al male. Aveva quasi dodici anni e la fretta di tornare all’accampamento circense. Camminava spedito, attraversando a ritroso un bosco fitto e profumato. Gli piaceva ascoltare il suono pulito di una tranquillità naturale, lontano dal trambusto intriso di segatura e sterco. Dietro un albero c’era Enrique, un giocoliere argentino trentenne, dal ato losco e la figura grassoccia. Stranamente da lì sembrava piccolo, talmente piccolo e indifeso da percepirlo bambino, con la testa fracassata, i pantaloni abbassati; lungo la coscia il numero 231 tatuato, un sasso in bocca e sul torso la lettera “X” tracciata col sangue.
Igor non gridò, nemmeno svenne. Guardò l’orologio, mancavano pochi minuti alle diciannove, e la luce era già bassa. Fissava attentamente quello che voleva capire. Senza paura toccò il cadavere, che tra le mani ancora calde stringeva un piccolo bottone azzurro strassato; lo mise in tasca e continuò a pensare. Era uno dei bottoni di Mischa, una contorsionista lettone di tredici anni. Non l’aveva vista compiere il misfatto e l’intuizione andava accertata secondo una speculazione concreta.
Mischa, leggera e inaspettata, gli o davanti sconvolta e piena di sangue. Chiuse gli occhi. In ginocchio la ragazza lo supplicava di non dire niente e rideva. Piangeva e gridava: “Non ne so niente… non ne so niente!” ripeteva, pulendo le sue mani sporche di sangue sul maglione di Igor. Non erano più soli.
Dalla gente alla giustizia, come il o veloce della perdizione doveva ancora capire, per capire cercare ed assistere, ma senza il tempo di scoprire il danno. Mischa si allontanava all’ombra del padre, il giocoliere seppellito, il segreto anche. Tutti complici, compreso lui. Il desiderio smodato di risolvere quanto preclusogli, lo portò a cercare l’omicidio ovunque: nelle strade buie, in case assolate, nei vicoli ciechi; come anche vivere in luoghi di perdizione, assistere ad analisi autoptiche, senza trascurare giornali, libri, carceri minorili, cliniche psichiatriche. Dopo la laurea in medicina a Londra, si specializzò in psichiatria e criminologia a New York. Il padre non volle mai incontrarlo, però pagò i suoi studi e coprì diversi scandali, dovuti alla ione di Igor per i bordelli e gli allucinogeni. Della madre non gli era mai importato più di tanto. Era una donna di poche parole, priva d’istruzione, dai sorrisi centellinati, affettivamente distratta, meticolosa, ma soprattutto dedita in maniera viscerale al proprio mestiere, e che probabilmente avrebbe preferito ad un figlio geniale un modesto clown. Non sapeva nemmeno che fine avesse fatto, se l’era persa lungo strada dell’ambizione, divenendo uguale al padre, un uomo affascinante e strano, connubio capace di suscitare, nella virtù della sapienza, un senso d’intoccabilità desiderabile. La sua piccola statura (ca. un metro e quarantacinque), giovane camminava spedita verso l'elogio logico e precoce agli studi. Ora, alla soglia dei sessant’anni, rallentava stordita dalla vanagloria, dopo aver fatto e disfatto della mente umana anche l'inaccettabile ben celato; trasformando una limitata e schernita statura in ammirazione e rispetto, schiacciando il pregiudizio all'altezza dell’intelletto vigoroso. Ammaliatore irriverente, brillante, al contempo misterioso, ombroso se la curiosità per una presunta o inesistente vita privata diveniva parola chiassosa, interruzione all’apologia di quegli studi, valsi il sacrificio di una vita intera. Nella Clinica x231 accoglieva solo bambini assassini, con un brutto ato e senza futuro. L'intento era quello di speculare e teorizzare il giovane seme del male, rischiando la prova nel limite di un'affettività riprodotta artificialmente fino al cruento parossismo. Il difficile percorso rimosso, afferrato dove il danno subìto si mischiava a quello inflitto, legando misfatti, colpe di memorie violate di altri alle proprie, e quando non erano più bambini cattivi ma adolescenti pericolosi e manipolabili - a cui l’oblio indotto ancora sottraeva l’ordine per capire – salivano al livello x232, dove crescevano lasciando corrispondere al caos mnemonico un’appresa apatia. Imbrigliato, nel circolo imperfetto, anche il bene, che distratto dal senso del tempo, ava senza vergogna o pentimento… dimenticato, per un potere maligno capace di gestire il pensiero, sorbirlo, quando era già sostanza. Gli automi sopravvissuti allo spegnimento mentale, salivano al terzo livello, l’x233, quello che chiamavano “La Voliera”. Uno spazio ampio, troppo aperto, in cui la
sconosciuta e debordante libertà, li portava ad autodistruggersi. Precipitavano in un liquame mortale, dove del loro aggio non rimaneva neanche una traccia calvarica. Di questi tre livelli, nessuna menzione. Igor considerava quest’ala della Clinica preclusa “alla luce”, una sorta di serra da alienista, dove gli piaceva variare gli innesti omicidi, creare e monitorare ibridi pericolosi, metterli alla prova prima dell’annientamento.
Samuel, scappato alla mostruosa cura di Odexa, tornava solo alla sua infanzia, allo sguardo del padre, lo stesso di Ela. Occhi che non avevano paura, anche se il corpo era di una creatura indifesa, che tante volte aveva subìto l'abuso in silenzio ed ora cresceva in grembo la violenza sconosciuta che non era riuscito a fermare o darle.
Le accarezzava il collo, dove sentiva la vita pulsare… stringere quel desiderio, per saziare la bramosia che i sensi soffocavano nel rifiuto.
<<Ti voglio ora, ma non dirmi di smettere>> sussurrava sicuro ed Ela non poteva farne a meno, quando sentiva le sue mani afferrarla, aprirle le gambe, perché nulla avrebbe potuto distrarlo da quello che pretendeva con o senza assenso. Entrava forte dentro di lei, come se ci fosse nato e sentiva di accoglierlo ancora, tanto da confondere la fine che il seme dell'abuso si preparava a subire, se solo avesse gridato la sua nascita. Nell’irragionevole s’incastravano alla perfezione e, proprio di quella ragione assurda, aveva una voglia infinita, che pretendeva di non esaurirsi mai; come difendere d’istinto la sensazione vitale nel suo ventre, anche se non era abbastanza, ma era l’unico modo per fermarlo.
- 17 -
Nudi, sul verde più intenso della terra, si lasciavano respirare dalla natura come la prima coppia di peccatori sulla faccia del mondo. Una quiete panteistica
avvolgeva e proteggeva i loro corpi, dimenticando la già mutilata coscienza, prima di piangere una pioggia torrenziale sull'istinto, che ora godeva anche della complicità della carne. Sembravano radici che potevano crescere, quando erano già irrimediabilmente compromesse.
Due creature perfette, in mondo perfetto, in quella notte prima del giorno, prima della realtà, prima che il sole si affacciasse all'orizzonte a rivelarne l'imperfezione.
Un bisbiglio… <
> dietro un albero, ancora a debita distanza, una coppia di anziani coniugi osservava gli amanti dormienti, tenendoli sotto tiro con un datato fucile.
<
> il tono dell'uomo era astioso e poi, centrando maldestramente il posticcio corvino sull’ossuta testa, demoliva di ridicolo tutta l’ostentata presunzione moralistica. La povera donna – avvezza - gli era accanto, anche se non osava contraddirlo, lo stesso rideva, giusto il tempo di non essere vista, per poi spostare l'attenzione sui due ragazzi ormai svegli.
Il vecchio si avvicinava curioso con la canna del fucile puntata.
<
> lo tratteneva per il gomito, tentava di dissuaderlo, ma il vecchio burbero, magro e claudicante, avanzava imperterrito, deciso a rompere il silenzio che nella notte era riuscito a pacificare i sensi della pazzia.
Erano giovani, mentre la senilità gli dava la voglia, il bisogno di giudicare e
punire.
<
> ancora gli puntava la canna del fucile, mentre la moglie indietreggiava impaurita.
<
> Samuel gli dava quella possibilità senza guardarlo negli occhi, mentre rivestiva Ela con estrema dolcezza.
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> la donna fissava i due ragazzi ed avvertiva un’inquietudine sinistra, che sembrava perdersi chissà dove, per poi tornare imprevedibile a riscattarsi. Conosceva quella sensazione, perché l’aveva amata in Paride. Il primo amore, la sua follia, il desiderio di salvarlo, ma non al punto di sacrificarsi e così lasciarlo ad un destino che non poteva essere anche il suo.
<
> rispose, ostentando una fragile conclusione.
Quello che ancora teneva in piedi i due fuggitivi proprio non si spiegava. A guardarli facile era dedurne il profondo disagio di vivere, ma leggere in quell’apparenza di dolore e difficoltà ogni singola causa, poteva rivelarsi una pericolosa certezza. La convinzione del vecchio era tutta concentrata nel ferro arrugginito che stringeva tra le mani. Borioso derideva e ridacchiava, tanto che dalla tasca dei larghi pantaloni venne fuori una grossa chiave.
Ela, seminuda, l'afferrò decisa. L'uomo le trattenne dolorosamente il polso piegandola in terra, dove lo stesso continuava a non mollare la presa che sentiva fremere sulla sua cicatrice… e tutto scomparve. Al centro del nulla, un cancello sospeso le parve sempre più vicino. Aveva in sé linee interminabili di un verticalismo architettonico leggero e raffinato, ma più si avvicinava a quell'entrata eccezionale, più ne percepiva la vitalità di radici tese, che serravano abbarbicandosi all'intera struttura come a preservarla dall’invisibile. Oltre il metallo vivo, vide un piccolo uomo dall’abito scuro e modesto. Le sorrideva.
<
> le mostrava il braccio destro privo di mano, mentre nella mano sinistra stringeva qualcosa che poi lasciò scivolare lungo le dita. Era il ciondolo a forma di chiave di sua madre e doveva prenderlo. Spinse le braccia oltre l'inferriata. Sentiva il freddo del metallo schiacciarle il viso. Non raggiunse la piccola mano del nano e quello che diceva era difficile da capire se non poteva toccarlo. Paura, rimorso, pietà, avevano una consistenza come la terra, l'acqua, il sangue? Annusare, assaggiare, respirare… Era tutto confuso e rischiava di protrarsi all'infinito, se quelle parole non erano sostanza. Il ciondolo toccò il fondo. Sulla terra umida tracciava la forma della sua colpa: le linee vigorose di un cavallo si animavano, ma l'audace e vitale costruzione, disorientata dal suo stesso segno, era prematura.
L’impossibile la poneva di fronte ad una scelta ardita, fatta di comprensione ed accettazione difficile. Apriva un varco nel ricordo, per poi lasciarlo precipitare nel pericolo, una paura che purtroppo non era capace di provare. In quella negazione si definiva a fatica una veloce possibilità: accettare quello che in realtà, ancora non poteva ricordare del tutto.
Chiusa quella finestra temporale, tornò al presente a costatare l'ennesimo castigo di Samuel. La coppia di anziani coniugi, riversi l’uno sull’altra. Tutto già compiuto. Lo avevano guardato negli occhi, sfidato e chiedergli pietà non poteva bastare. La sua anima si mostrava assetata di vita, di uno sguardo e come a
nutrirsene giustiziava il giudizio. Un'altra porta si chiudeva “nel nome del padre”. Era figlio e folle assassino, accanto alla sua eccezione.
Le mani di Ela affondavano nella terra; ancora credeva di poter afferrare le parole del nano, ma non c'erano che vermi, portati alla bocca per placare la fame. Samuel fece altrettanto.
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VIII Capitolo
IL SEGNO
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- 18 -
Alla luce del nuovo giorno i due ragazzi apparivano visibilmente invecchiati, come se sulle lisce membra l'avvizzimento temporale fosse arrivato implacabile e prematuro a firmare il suo aggio.
Solo l’amore vero non ha timore di mostrarsi, così non davano valore a quello che accadeva prima del nuovo istante condiviso. Lo stesso la colpa tornava, a pungolare una già labile memoria, pretendendo azioni senza limite nel singolare e farnetico attuarsi; in mezzo ad una natura perturbata, che si rendeva infida e correa, quando accettava il loro peccato. Madre oscura, che sopravvive all'uomo e lo stana fino alla prigione mentale in cui si illude di essere libero dopo aver sfondato i limiti della coscienza… ed anche l'infinito scibile diventa uno spazio prevedibile. Non c'è scampo. Il tempo brucia tutto nell'anonimato e se l'uomo lascia il segno lo lascia nel sangue della storia, come crudele semantica del peccato. Allora strappare dalle viscere il seme senza domani, che sotterrato dall’abuso cresce ramificandosi nel peggiore dei silenzi, quello compromesso e senza luce, che vive aspettando il riscatto della propria infausta crescita.
- 19 -
Le voci si affacciavano fuori e dentro la mente di Ela. Cercavano pace nel suo potere d'ascolto, quando anche lei lo cercava. Guardava Samuel, l'unico capace di distrarla da quella strana percezione, che le permetteva di attraversare tempi e luoghi, sentendosi sporca e purificata, da quanto nascosto o chiaro senza ombra di dubbio. Nel faticoso ascolto rimpiangeva il lungo isolamento nelle camere imbottite, dove le giornate avano senza inizio e fine, ed il destino non
pretendeva un nesso, se il ato rimaneva l’unico presente possibile; però, non c'erano le mani di Samuel, non c'erano le sue carezze, che rendevano il ricordo più nitido, quando la toccava fino a godere. Ripensava al nano - custode dell'infinito nel nulla - oltre la raffinata bellezza architettonica, apparenza, inganno come la sua coscienza bugiarda. Afferrato il ciondolo dalla piccola mano avrebbe aperto il percorso, camminato nell'abbaglio con una volontà implacabile, ora che la vita le cresceva dentro, figlia, figlio dell'abuso o del folle non aveva importanza. Liberarsi, liberarsi proprio del folle, della materia scomoda del ricordo, di quelle mani piene di desiderio spietato, che bruciava dolce nelle azioni condivise nel male, come unico tramite all'istante in cui sua madre moriva, ma non gridava il dolore. Smettere di ricordare, senza concludere che il peggio fosse giusto o scontato, come quello che provava e non era amore, solo una voglia viva e mendace, che ancora confondeva il volto dell’omicida lungo scale, fino alla parete di vetro, dove aveva assistito alla morte del suo cavallo. Mani affusolate erano state capaci di accarezzare il lucido crine dopo avergli riservato la condanna di un salto fatale. Una visione inaccettabile, riscattata attuando il peggio possibile. L’istinto greve e liberatore del gesto esiziale, compiuto dall’innocenza… smarrita nel sangue. Nel silenzio materno vegliare la menzogna. Sentire l’odore dell’omicidio sulla pelle di Samuel, come se fosse la sua e delle voci, che pretendevano di essere ascoltate nello strano vivere di quei giorni. Se la mamma avesse urlato l'orrore, riconoscendolo, forse avrebbe temuto; invece sceglieva di subire il danno, senza lasciarle la paura, spezzando il tempo, quando provava a definirlo nel presente, con l'esigenza trascurata di accettare quello che era nato con lei, rendendola capace di tutto. Ammetterlo e rammentare distorto era un vizio della memoria riconducibile alla cura di Odexa, che lasciava la mente nella confusione di tempi sovrapposti, in cui la colpa diveniva la ricostruzione di un evento esecrabile, reale quanto simulato. Nelle dinamiche emotive, il ricordo labile, vero o presunto che fosse, era pur sempre un barlume di coscienza, giusto o sbagliato poteva ancora essere comprensione, se solo le interessava capire il senso di un’appartenenza sporca, che legava naturalmente le sue visioni alle azioni di Samuel. Implicito assecondarlo, per la vita che sentiva crescere nel suo ventre e che il ragazzo avrebbe sacrificato pur riconoscendola sangue del proprio sangue. Fermarlo, prima dell’innocente respiro, anche se rinunciare alla sua crudeltà significava menomare i propri pensieri, quelli che appunto vedeva degenerare concreti tra le sue dita, a compimento dell’univoca ragione assassina. Il rischio che l’immorale complicità potesse spezzarsi, non la scalfiva e godeva dei sensi, che crescevano senza paura di sacrificarsi, sacrificare quanto ci assomigli, ci appartenga nella medesima perdizione. Non avrebbe rinunciato a nulla, se non a tutto e senza
ritorno. Il peccato generava il castigo che si preparavano a subire.
Samuel, migliore o peggiore che fosse, aveva ucciso per nutrire le sue tragiche assenze, un’infanzia figlia del peggio possibile e non c'era intento senza nonsenso, se stesso senza Ela.
<<Parlami, ne ho bisogno>> lei non rispose.
Entravano in un albero cavo, stretto quanto la loro prigione mentale. Come una bocca sguaiata succhiava la lingua, una forza energica e silenziosa vibrava sotto i loro piedi, crescendo radici rampicanti, che penetravano ogni orifizio corporeo. Il vigore attraversava la carne mischiandosi al sangue, senza essere voce o sofferenza. Sottile e forte il germoglio fioriva sul ventre di Ela, svelandole il senso dell’attesa, afferrata… e la vita radicava tra le dita, come una sensazione invadente, che nasce e cresce nel castigo di una vitalità sublime quanto amara. Non riuscire a frenare l’abiezione del male, se il male è desiderio che suona intonato come un nome, scandito all’improvviso, o l’odore (anche sgradevole) di un ricordo respirato dai sensi, che non hanno scrittura, ma rammentano il seme di un giorno, che ora tornava prepotente a spiegare una natura terribile. Era il delirio, sopravvissuto alla fuga per quella terra misterica, che affondava le proprie radici nella follia. Dov'era la salvezza, se doveva difendere la vita che le cresceva dentro anche dal suo vizio? Si accorse di camminare soltanto accanto a Samuel e la notte era stellata.
- 20 -
<
> lui ripeteva ed era esausto.
Nel caldo soffocante, appena rinfrescato da una leggera brezza, la pozza si offriva limpida e specchiata. Assurdo ragazzo, con l'estate della vita cancellata dall'insensato. Magro, bianco, stanco e senza vergogna. La faccia di un giovane peccatore dimenticato dal Padreterno. Le mani infrangevano quella visione, cercando ancora e senza ritegno di placare l’arsura. Nulla di quello che vedeva gli dava sgomento. Era solo Samuel, dal male al male e aveva sete, nient'altro che… sete.
Ela, con la coda dell'occhio scrutava il suo compagno assetato. Il giorno sorgeva su quella tentazione, mentre si accarezzava dove la vita pretendeva una risposta dopo che si era lasciata spiare.
La luce già bruciava la pelle di Samuel, che veloce infilava e chiudeva la giacca a vento, coprendosi il capo col cappuccio e lasciando le lunghe maniche appese oltre i polsi.
Non molto lontano dalla pozza d'acqua, c'era una casupola abbandonata o “quasi”. Solo Ela li vedeva: due bambini s’inseguivano, ridendo di un giorno perfetto portato tra le ombre. Le sembrava di rivedere Musmé, correre nell'immenso prato, per poi piegarsi in terra con le gambe spezzate. La fine di tutto. Il ricordo era finalmente vicino come la punizione. I piccoli correvano superando bassi ostacoli di legno; da lì saltavano su alcuni materassi, agitando pezzi di plastica scolorita. Non avevano la vita negli occhi. La vivacità incontenibile era un miraggio che fissava. Il cuore le batteva forte per quella stessa frenesia. I suoi piedi erano nudi, sporchi. Dov’erano finite le scarpe della povera vecchia agonizzante nella cascina? A lungo l’avevano condotta tra pioggia e sole. Si sentiva ombra tra le ombre e non vedeva che un solo colore, il bianco, fino ad accecare.
Il respiro di Samuel sulla nuca. Le mani sicure, calde lungo le braccia a cercare le sue. Apriva la camicia insozzata e trattenuta da un solo bottone, saltato, mentre le afferrava i seni con forza, come a cercare conferma di quello che gli
aveva concesso e rivoleva. Leccava la fine dello sfregio dietro l'orecchio; ancora la lingua avida scivolava lungo la schiena, fino al cinto della sottile gonna. Non c’era niente da dire, solo da fare o lasciarsi fare da quelle mani, che non avevano pudore, che dopo averle sfilato la gonna, si erano fermate di colpo sulle sue natiche dove, farfugliando qualcosa tra i denti, sfregava con forza le labbra umide.
Ela non voleva che si fermasse. Quello che provava non era diverso da quanto conosciuto e subìto, lo stesso lo pretendeva addosso, perché vivere avesse il senso del suo odore fino alla fine.
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> non doveva nominarlo, eppure lo aveva fatto.
<<È un gioco, solo un gioco>> Ela mostrava le mani aperte, offriva la sua cicatrice alle due piccole ombre. Quella ferita, però, non rimarginava la loro, nel silenzio in cui finisci sempre con l'essere scovato, se qualcuno ascolta il tuo respiro portandoselo via.
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> lui ripeteva afferrandole i polsi <<mi scoppia la testa… smettila!>> e continuava a stringere, a farle male.
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> ripeteva senza curarsi di Samuel, del suo malessere e della stretta dolorosa che le dava.
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> esausto, allentò la presa e corse verso la
fatiscente baracca. Il caldo era soffocante e malediceva il padre, tutta la solitudine di un tempo abietto ato impazientemente - non più come incoscienza o cavia – e nella fragile scappatoia tornare al dramma che lo aveva forgiato e divorato irrimediabilmente. <<Padre, l'ho presa la tua colpa. Padre, l'ho presa e messa in pratica. Ora, devo proprio tornare? No, le anime in fila che non supplicano ti devono bastare!>>, tra le tavole si apriva un lungo corridoio, quello nero dell’infanzia; in fondo, l’ultima stanza del perdono spalancata e silenziosa attendeva il suo turno. Non era ato poi tanto da quel giorno maledetto. Un'attesa già finita, se le forze cedevano alla disperazione, e sentiva le mani del padre sfiorargli il capo. Le mani che aveva tranciato ed accarezzato a lungo, prima di bruciarle dove, nelle notti di fuga, il tempo ava sopportabile sull’infausta pelle, anche dopo la tragica desolazione dell’ultima fredda ora. L’orecchio teso in ascolto della voce di sua madre, dei suoi fratelli, mentre snodavano i grani del Rosario. Le mani del piccolo Samuel, capaci di spezzare l’inammissibile, non avevano cicatrici visibili come quelle di Ela, lo stesso segnavano l’attimo in cui si erano perse. Frammenti del reato tornavano chiassosi nella testa delirante. Tutto gridava quello che era e non era più una sensazione insopportabile da placare con l'omicidio. Sperare che il giorno del perdono, non fosse sopraggiunto troppo tardi per quello che sentiva fremere nelle mani. Mani calde che Ela tratteneva, subendone la mutazione e nitido il sangue di sua madre scorreva sulle sue.
Un tempo ignobile - quello che viola e deturpa l'innocenza - poteva essere fermato. Dell'ingenuità, della sua leggerezza pulita, non avevano che un vago ricordo, come di lunghe pedalate nelle notti fresche e il vento tra i capelli scompigliati al galoppo; davvero poco per istanti separati, che ad incrociarsi non ci mettevano niente. Tutto diveniva comune: la vita, i segni e l’omicidio.
Quello che era accaduto, che avevano fatto, non era sovvertibile se non lo era la loro natura. Come non è recuperabile una sensazione condivisa e precaria, ché brucia in un istante e non ha niente a che fare con la realtà se non ci sei. Sì, non c'erano, nonostante il danno subìto e attuato, ma c'erano ancora le loro mani, e la ione confondeva le ore spietate dell’ultimo giorno. Mani che sfregavano le ferite della vergogna e salivano sicure lungo le gambe di Samuel, mentre gli aprivano i pantaloni, offrendogli la totale nudità, un corpo caldo dove appoggiare
la testa dolorante.
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> Samuel voleva godere di istanti sporchi, capaci di attutire il fastidio mentale che gli dava il tormento e che neanche la violenza riusciva più ad alleviare. La guardava oltre i piccoli seni, afferrati con forza. <<Sono qui, a mendicare la tua voce. Vuoi punirmi? Fallo pure! Ora posso toccarti, farti godere, senza smettere di seguirti anche dove ci perderemo. Quello che vedi sono solo io, non mi nascondo! Semmai stordito, perché sei l’unico rimedio che non ha niente a che fare con tutto questo… è solo mio! Non occorre respirare per scegliere di vivere o morire, noi ci siamo a prescindere. Guardami! Dimmi il tuo nome. Ho bisogno della tua voce, più di sfiorati o sentirti gemere. Non riesci ad amarmi come resa per sempre. Amore, dalla mia bocca nella tua… ah, quanto dolore in questa parola! Fa meno male se sai dove cercare, ma se poi non trovi niente, quel vuoto diventa pericoloso per le tue dita. Sei la sola che non muterà vita mia! Per questo devi seguirmi dietro quella porta, a smettere il rumore di quello che ho evitato da troppo tempo. La tua pelle è la mia, e confonde le labbra che dischiudi alla lingua, ai morsi di un nutrimento che non è mai abbastanza. Fammi essere il tuo silenzio, che non ha pietà se la mia pelle brucia… ma sei qui e deve far male, accecare, come la luce nei tuoi occhi controlla la mia illusione>> disperato, allucinato, diverso nel tentativo di nutrire l'inganno dei sensi, che feriva e bruciava come il giudizio del padre, sentiva il merito di un’ereditarietà degenere connotare la sua identità negata. Piangeva, sì piangeva e le lacrime bagnavano la
pelle nuda di Ela, che le sentiva scorrere lungo il ventre, il pube, mischiarsi al sangue, generando una morbosa sensazione che non poteva smettere di provare. Solo per Samuel era amore, il danno che ora conosceva e poteva chiamare, mentre per lei rimaneva naturalmente oscuro e distratto dalla lussuria.
Come difendersi da una fragilità perniciosa e traditrice, che non conosceva allegria né Dio? Trovarvi d'istinto una spiegazione blaterante nel segno del peccato originale, quando si sfonda il limite della coscienza contesa, e la ione degenera lasciando all’omicidio un unico e largo compimento, che sfugge tra attitudine, azione ed omissione.
Non era riuscito a strapparle una sola parola, farla sua, quando proprio in quell'istante regrediva all'infanzia, alla purificazione mancata, ai suoi dieci anni. Terzo figlio di un nano e di una donna bellissima; solo lui dalle proporzioni normali, ma con la pelle troppo bianca per gli occhi dell’ignoranza. Salvarsi, fino ad un certo punto, grazie all’agognata simmetria, ma che per il padre non poteva ancora essere una progenie perfetta, proprio per quella pelle bianchissima. Non riuscire a spiegare, accettare le privazioni come solo la ragione sa fare, evitare, ma che per questo ha bisogno di spazio, tempo; in realtà di una natura capace di accettare il male, senza per questo essere il male, sopravvivergli, senza degenerare e non era il suo seme. Quello che aveva fatto tornava indifeso nella sofferenza e per questo si attuava il pianto liberatorio. Nel rammentare lo sguardo rassegnato di sua sorella, che stringeva tra le braccia il suo bambino, per l’ultimo calore, che gli aveva dato il coraggio di fermare tutto, ma non per questo quel "tutto" arretrava. Uccidere il padre, prima di essere ucciso, chiamava a sé la medesima condizione, se ne ereditava l’istinto criminale; se Samuel, pericoloso, freddo, duttile, degenerava da se stesso evolvendo il danno, il vuoto, la resa che aveva visto negli occhi della sua famiglia sterminata, e che Ela, gravida, subiva sulla pelle nuda.
<<Padre, le tue mani le ho bruciate dove non riuscivi a trovarmi. Non eri diverso dai miei fratelli, lo stesso li hai chiusi. Sono morti per mano tua. Sei morto per mano mia. Hai ragione, non sono normale né mai lo sarò! Sono come vuoi che
sia… sono peggio di te. Mi hai insegnato a credere giusto il dolore, la paura. Uccido tutte le volte che voglio e sento che ne hai bisogno. Vedo i loro occhi giudicarci, e i tuoi che mi incitano a castigare, ma ora posso piangere e meritare quello che volevi darmi. Hai ragione! Chiudi la mia porta!>> stringeva Ela, ne evitava lo sguardo assente, mentre in realtà le toglieva la vita, la toglieva a se stesso, ancora al padre. Col sangue agli occhi resisteva nel cuore quel battito che in lei serrava la stessa condivisione trasposta. Era con lui, e nella stretta percepiva l'odore del sangue ammorbare i loro corpi di verità.
La materia del ricordo per tanto tempo aveva seguito una digressione indotta, riconducibile agli anni della Clinica di Odexa, ma ora la confusione artificiosa si sbrogliava libera, e mentre Samuel si riviveva regresso in ogni angolo fatiscente di quella topaia, lei, appunto, sentiva pregnante l'odore della morte stagnare vivo e copioso sulla loro pelle. Sembrava farsi strada un atto dovuto, che identificava il riscatto; ad uccidere sua madre non era stato Samuel, poiché l'ombra si faceva sempre più piccola e chiara sulla donna, che subiva senza reagire, per quello che amava più di qualsiasi altra cosa: sua figlia. La teneva in braccio, mentre la piccola la colpiva cinque volte con un tagliacarte. Cinque, come le lettere a comporre il nome del suo cavallo: Musmè.
Perché? Oltre la parete di vetro, l'aveva vista puntare la pistola e sparargli in testa senza esitare. Staccarsi da quella creatura era lo strappo nell'anima di una meravigliosa intesa, stretta al galoppo, nella beatitudine totale in cui la loro forma si fondeva in un unico corpo all’emozione. Energia pura in grado di sollevarla dal mondo, dandole la dimensione di quello che era e che sentiva fremere in Musmè. Vederlo morire, significava vedersi morire, per questo aveva sacrificato, punito la madre. Ogni gesto frammentato tornava al suo posto nella memoria e nitido puzzava di sangue. Non erano state le mani di Samuel a compiere il misfatto, solo le sue, perse, tra i respiri affannosi di una lurida stretta, dove i sensi decidevano l'ultimo giorno da vivere per entrambi.
- 21 -
Tutto rallentava nella carne: il crimine, i cattivi pensieri, la fuga. Meritare il castigo, poterlo ricevere in un accordo, che li portava a vedere quello che moralmente non si rende accettabile, secondo quanto fatto e ora, chiaro, li distruggeva.
Samuel aspettava sconosciute parole di conforto, come qualcosa che meritava e chissà… ricominciare da qualche altra parte, ma se vivi in una pelle che non è solo la tua, perché hai conosciuto qualcuno capace di vederti per quello che non saresti mai arrivato a capire, forse, si può decidere di arrendersi.
Le baciava il lungo sfregio ed Ela tornava al momento in cui qualcuno strappava con forza dal collo della mamma la chiave appesa alla sottile catena, di come veloce, in aria, trovava un’energica quanto improbabile traiettoria, tornando sicura nelle mani di chi le avrebbe lasciato il segno indelebile di quello che provava. Nella stanza maledetta c’era anche Samuel e non scopriva il rimorso, avvertiva solo una strana rinuncia, un senso di inaccettabile pace. Non una parola dalla sua bocca, che invece cercava e trovava quella del suo carnefice… e tutto tornava a confondersi alla perfezione. La saliva, l’odore - anche sgradevole – divenivano condimento di una torbida sazietà, decantata dal peccato tra gemiti e silenzio.
Nella voglia che in lei non allentava, premeva con forza il tatto sulla pelle bianca e nuda, come a non smettere il bisogno egoistico che aveva di sentire il desiderio prendere forma tra le sue dita. Farlo vibrare fin dove poteva crescere, cedere, soffocare nella violenza, quella che dava un volto alla piccola figura sulla povera e sconcerta madre. Ora sapeva che non fosse Samuel, anche se credeva d'esserne l'artefice, perché rammentare l'omicidio ostentava un dualismo, complice fino all’attimo in cui l’attore confondeva il reato nell’avidità. Vivere il suo respiro, accarezzare la pelle bianca e ferita, tutto nutriva la crudele e piacevole verità senza parole, senza comprendere il sacrificio di una madre, che sceglieva di non lasciarle la paura del proprio castigo.
Condividere la stessa perdizione, bagnata di lussuria e lacrime. Legati nel male, e nell’oltre sentirlo entrare deciso, perfetto, come il giorno che sarebbe arrivato in una vita diversa, una pelle diversa, un tempo diverso. Possedere l’insana sensazione con un oscuro rimorso che Samuel cercava nel pianto e lei poteva fermare. Morire tra le sue braccia, dopo che le avevano restituito la libertà di ricordare e confondere ancora tutto.
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> le stringeva il collo lentamente, respirava l’ultimo alito e non c’era più vita nei suoi occhi <<era una puttana, solo una puttana, la puttana di Odexa. Lui mi ha detto di ucciderla e di sfregiarti. L’ho fatto, ora lo sai, ma forse lo hai sempre saputo. Non posso nasconderti nulla. Solo io devo spiarti per capire dove vanno i tuoi pensieri, quelli che si perdono nel buio di un silenzio che assorda, quando mi guardi. Cerco, cerco, cerco, ma non ti lascio vita mia. Rimango qui, senza smettere mai, desiderio… di toccare, baciare le ferite, anche se per averti non arriverò a domani. L’ho sempre saputo che fossi la mia unica ragione, livida e vitale, come il giorno che ora cerco e voglio fino a bruciare!>> le respirava in faccia tutta la sua dannazione <
> si sfilò il giubbotto di Titta, la coprì dolcemente e attese la notte, la fresca notte dentro di lei.
- 22 -
Nella prima luce del giorno, lontano dalla casupola, vagava rammentando lo sguardo disumano di Ela, senza vita tra le sue braccia. Era tutto quello che aveva e che ancora sentiva respirare. Una ragione c’è sempre ed ora la conosceva, la affrontava a pelle nuda. Non erano le parole a spingerlo a camminare, ma l’istinto, che tornava dove l’acqua aveva spiato l'universo silenzioso e insano
della loro complicità.
Le ferite trascinavano la follia, accarezzata dall’erba alta, nel sole deciso, che bruciava la vita come una nascita sbagliata.
L’attesa del mare era finita. Sentiva l’acqua salire dolcemente ad ogni o, fino all’ultimo sguardo negato, l’abbraccio mancato, che cedeva, quando la voce frusciante e tranquilla del vento, arrivava a cullare il giorno nel silenzio dell’abisso.
Lasciarla andare con le visioni, i ricordi inaccettabili, condivisi là dove si sommavano confusi in tempi diversi, uguali, per il male che avevano dentro e l’acqua pacificava dividendoli per sempre.
Estrema libertà senza salvezza, in cui un amore disperato, malato e fragile si era lasciato afferrare e vivere lontano dall’innocenza.
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