Per Volere di Dio L. L. Fine
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Traduzione di Ombretta Martignoni
“Per Volere di Dio” Autore L. L. Fine Copyright © 2015 L. L. Fine Tutti i diritti riservati Distribuito da Babelcube, Inc. www.babelcube.com Traduzione di Ombretta Martignoni “Babelcube Books” e “Babelcube” sono marchi registrati Babelcube Inc.
Sommario
Titolo Pagina Copyright Pagina Per volere di Dio | L. L. Fine ai miei nonni | Helena e mendel faintuch che non ci sono più e agli altri sei milioni di fratelli Tempo di guerra Fratelli L’incontro Tish Incubi Nabradosky Fantasmi Bugie Rivelazioni Requiem Epilogo
Per volere di Dio
L. L. Fine
Editore : Julie Phelps
Copyright © 2001 by L. L. Fine All rights reserved ISBN: 1493710362 ISBN-13: 978-1493710362
ai miei nonni
Helena e mendel faintuch che non ci sono più e agli altri sei milioni di fratelli
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INDICE
Tempo di Guerra Fratelli L’incontro Tish Incubi Nabradosky Fantasmi Bugie Rivelazioni Requiem Epilogo
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ringraziamenti Prima di tutto, ringrazio il mio editore, Julie Phelps, per i preziosi consigli, la grande competenza ed esperienza; mia moglie senza la quale nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile; i mie figli per essere stati la mia speranza nei tempi bui. Tutti i fatti, i nomi e i luoghi qui descritti sono puramente immaginari.
Tempo di guerra
“Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli...” (Salmi 8:3)
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Ci sarebbe riuscita. Forse. I rami degli alberi ghiacciati la colpivano come fossero fruste ma non rallentavano la sua corsa. Ci sarebbe riuscita. L’avrebbe fatto. A destra, a sinistra. A destra, a sinistra. Pam pam. Pam pam. I piedi sprofondavano nella neve alta fino a venire a contatto con i rami caduti a terra. Il dolore era lancinante ma, forse, aveva ancora una speranza. La guerra era finita e la zona in cui si trovava era ormai... sicura? Corri lontano, veloce come il vento e forse riuscirai a salvarti! Soprattutto riuscirai a salvare i bambini. A destra, a sinistra. A destra, a sinistra. Pam pam. Pam pam. L’aria bruciava nei suoi polmoni e la piccola cesta di vimini, in cui aveva sistemato i gemelli, era un peso enorme per le sue mani che si ripercuoteva sulle spalle e sulla schiena. Sistemò la presa, avvicinò la cesta a sé e la strinse forte. Vicino al petto, vicino all’anima. Pam pam. Pam pam. Destra, Sinistra. Pam pam. Le braccia erano doloranti e sembrava che le mani volessero ribellarsi al suo volere, a causa dell’enorme sforzo. Ma lei ignorava deliberatamente la richiesta
di sollievo che proveniva dalle mani, dalle gambe e dai polmoni. Non c’era tempo. Non ora. Al momento doveva raggiungere il suo scopo: arrivare dall’altra parte della foresta. Doveva fuggire. Fuggire. Aveva scelto deliberatamente il percorso più lungo, il più intricato. Aveva ignorato la tentazione di seguire la via più semplice, che sarebbe stata più adatta alle sue calzature leggere. Ora si trovava a correre sotto le foglie gocciolanti, sul terreno ghiacciato. La sua corsa diveniva sempre più lenta mentre prestava più attenzione ai rami sferzanti e alle radici insidiose. Non doveva cadere. Non doveva fermarsi. Dietro di lei... Non si voltò.
*
La Morte la inseguiva, armata di un fucile da caccia oliato a puntino. Indossava abiti caldi e scarponi pesanti, da contadino. Portava pantaloni di lana grigi, fatti su misura ed un cappotto invernale in pelle ruvida. La Morte non sapeva farsi strada bene quanto lei attraverso la foresta, ma poteva comunque immaginare dove si stesse dirigendo. La strada. Stava cercando di raggiungere la strada, la salvezza. Proseguiva, imprecando contro se stesso ed il suo comportamento negli ultimi tre anni, durante i quali aveva rinunciato al suo allenamento quotidiano ed aveva ecceduto con il cibo, ingrassando esponenzialmente. Di tanto in tanto scorgeva, come fossero dei lampi fra i rami, piccoli lembi della sua camicia da notte blu e sapeva di esserle molto vicino. Tanto per cominciare, come pensa di riuscire a sfuggirmi? Non voleva ammetterlo ma conosceva la risposta. Non voleva pensarci affatto. Lui era la Morte e il suo fine era uno solo, ora null’altro importava. Era perfettamente conscio di ciò che doveva fare.
A destra, a sinistra. A sinistra, a destra. Pam pam, pam pam. L’inseguimento continuava.
*
L’eco degli spari rimbombava ancora nelle sue orecchie, soprattutto il rumore sordo del proiettile che le aveva colpito il viso quando aveva lasciato la capanna. L’eco dello stesso sparo che le aveva traato la guancia sinistra. Stava ancora sanguinando? Non sapeva con certezza. A destra, a sinistra. A destra, a sinistra. Pam pam, pam pam. Ansimando profondamente, abbassò gli occhi sui bambini che, di rimando, le lanciarono uno sguardo stupito e pieno di fiducia. Perché la loro madre li stava portando fuori, correndo, nella foresta? Non conoscevano la risposta. Si limitavano a stare nel cestino, fianco a fianco, guardando la madre, distrutta dal dolore, mentre intuiva i pensieri che cominciavano a prendere forma nella mente dei piccoli, in un’embrionale lingua Polacca. A destra, a sinistra. A destra, a sinistra. Pam pam, pam pam. Era riuscita a seminarlo? La Morte stava vagando in un’altra direzione, nel bosco gelido? Non sentiva la sua voce da alcuni minuti. All’improvviso prese una decisione, particolarmente attesa dai suoi polmoni ansanti: rallentò e si fermò. Rimase in ascolto. Silenzio.
*
La morte si guardò intorno, a destra e a sinistra, aveva perso la strada. Anch’egli
si mise in ascolto. Solo alberi ricoperti di ghiaccio. Rimase in silenzio. Nessun suono, neppure una traccia della camicia da notte blu. Dove avrebbe potuto essere? Il bosco era immerso nella quiete. Il silenzio era assordante. Imprecò ad alta voce e fece qualche o. Improvvisamente si ritrovava in un luogo totalmente sconosciuto. Dove si trovava la strada? Dove era Helena? E i bambini? Dove avrebbe dovuto andare? Calma. Silenzio. Nessun suono, neppure una traccia della camicia da notte blu. Seguendo un impulso, la Morte armò il fucile e lo imbracciò.
*
Il rumore risuonò alle orecchie dei gemelli come fosse uno schiaffo violento; in realtà, fino al quel momento, avevano trovato divertente quell’insolita eggiata. La loro madre era immobile, pietrificata e cercava di recuperare fiato, o almeno ciò che ne rimaneva. La reazione fu quella tipica di due bambini in fasce. Helena li fissò con un’espressione di orrore crescente negli occhi. Era allo stremo delle forze, poggiò bambini in grembo, cercando di calmarli. Silenzio!!!Vi sentirà!!! Fu tutto inutile. Il suo viso angosciato, l’espressione supplichevole sortirono l’effetto opposto: il loro pianto divenne ancora più acuto. Non facevano altro che
strillare insistentemente, in modo stizzoso. All’improvviso avevano intuito che qualcosa non andava. Non si trattava di una semplice eggiata. Piangevano a causa del freddo, a causa del buio sotto gli alberi. Piangevano perché non potevano fare altro. Gemevano perché la Morte era molto, molto vicina. Un pensiero fulmineo le attraversò la mente... Non ci sono più speranze... forse dovresti salvare te stessa? Dovresti lasciarli... correre per salvarti la vita, per raggiungere la libertà, per... Abbandonò subito l’idea e cominciò di nuovo a scappare con i piccoli tra le braccia; non facevano altro che piangere, gemere e strillare. Pam pam pam.
*
La Morte era ormai a pochi i da lei. Egli riusciva a scorgerla sempre meglio tra gli alberi. La sua camicia da notte blu risaltava fra il verde e il grigio che li circondava. Aumentò il o e la distanza fra loro si ridusse velocemente. Era dietro di lei. Poteva sentire quasi il suo odore; era molto vicino... un vero predatore. La strada non era lontana ma, purtroppo, non sufficientemente vicina. Il ritmo della sua corsa, inizialmente sostenuto, si era trasformato in un’andatura zoppicante. Arrancava disperatamente. Portava un paio di pantofole lacerate e i piedi, ormai congelati, cominciavano a perdere sensibilità. A causa del sudore, la camicia da notte aderiva alla sua pelle portandola al congelamento, quasi alla paralisi completa. Il rumore di i alle sue spalle. Sempre più forte, sempre più vicino. Si fermò sconfitta. A pochi metri dalla cima del bosco, ad un o dalla salvezza, si accasciò sulle
ginocchia, il cestino ancora stretto al petto. Respirava a malapena, sopraffatta dal dolore. La Morte si fermò dietro di lei. Ansimava appena, accennando un freddo sogghigno. Guardando attraverso il reticolo, nel mirino del suo fucile, la vide alzarsi lentamente, scrutando i dintorni. Ella si girò nella sua direzione, lo fissò con uno sguardo che equivaleva ad una supplica e sollevò leggermente la cesta. Avrebbe osato farlo? Avrebbe potuto... Egli scosse la testa in maniera impercettibile. Lei, dolorante, si girò lentamente e si diresse arrancando verso la cima del bosco, verso la strada. Per qualche secondo si crogiolò nell’idea di raggiungere con un balzo la via illuminata – e forse riuscire a scappare – ma il suo cuore sapeva bene che non rimaneva nessuna via d’uscita. La Morte l’avrebbe raggiunta rapidamente e avrebbe preso tutti e tre, non solamente lei.
*
Per un attimo lo scintillio di un raggio di sole fece capolino tra le nuvole, illuminando entrambi i visi dei gemelli con un’aura lucente, come un caldo sorriso che arrestò il loro pianto. I bimbi ricambiarono il sorriso, riversando su Helena tutto il loro amore filiale. Un luccichio proveniente dalla collana della madre catturò la loro attenzione – non avevano mai visto prima la Stella di Davide. Helena baciò dolcemente la fronte dei gemelli, come un’ultima benedizione, un addio, prima di appoggiare la cesta, con delicatezza, sul ciglio della strada. Dopo un’ultima occhiata si rituffò nel buio della foresta con il cuore a pezzi. Sapeva di andare incontro alla Morte che l’attendeva con il fucile pronto a sparare. Si avvicinava a lui impavida, senza paura, senza timore, con fermezza. Ora si trovava a soli quattro metri di distanza – cosa che fino a poco prima l’avrebbe spaventata – e procedeva costringendolo a retrocedere di un o. I suoi occhi scuri erano fissi sul viso del cecchino come due tizzoni ardenti mentre si
avvicinava, o dopo o. Egli retrocesse, quasi spaventato, incapace di sostenere il suo sguardo. Un altro o e un altro...
*
Uno scoppio sordo risuonò di nuovo nella foresta. Uno stormo di uccelli si alzò in volo, oltre i rami più alti. Sul ciglio della strada, soli nella loro cesta, i gemelli ricominciarono a piangere.
Fratelli
“L’Eterno mi disse: ‘Dal nord la calamità si rovescerà su tutti gli abitanti del paese.” (Geremia 1:14)
Morte La maggioranza delle persone la sperimenta solo una volta nella vita. Per il Rabbino Jeremiah Neumann la situazione era differente. Come avrebbe potuto non esserlo? Nella sua comunità era la prima persona a cui fare riferimento in queste evenienze. Era il Rabbino Capo di una comunità composta da alcune centinaia di cittadini di religione ebraica che includeva molti isolati a sud di Brooklyn. Non si trattava propriamente di ebrei ortodossi – questi ultimi avevano un loro preposto. Non erano neppure conservatori o riformisti ma ‘ortodossi tiepidi’. Chiaramente non erano praticanti ma sentivano comunque il bisogno della presenza di un Rabbino nelle loro esistenze. Naturalmente anche in occasione dei funerali. Hanno il vizio di morire! Sembrava che i decessi fossero parecchi. Jeremiah scherzava su questo tra sé e sé. Dietro alla battuta scherzosa, però, si celava una verità poco rassicurante. La sua comunità stava diventando sempre più vecchia anagraficamente e sempre meno numerosa. Ogni persona che ava a miglior vita portava con se, nella tomba, una parte dell’anima di Jeremiah, una parte dei suoi ricordi, della sua vita. I vecchi edifici della zona rimanevano gradualmente disabitati; le costruzioni di mattoni rossi venivano lentamente abbandonate dagli inquilini della comunità. Dove si trasferivano? A Manhattan, Long Island, persino il New Jersey attirava anziani e giovani – in realtà le persone anziane seguivano il loro destino. Così accadde anche l’ultimo giorno d’inverno della fine del secondo millennio. Per l’ennesima volta si trovava in piedi, sotto la pioggia, a piangere e ad accompagnare con la preghiera, un'altra persona defunta. Un altro pezzo di storia se ne era andato, un altro capitolo della sua vita era giunto al termine. "El malei rachamim..." egli declamò la commovente invocazione funebre rivolgendosi al cielo ricoperto di nuvole, cercando di alleviare le sofferenze e i singhiozzi rotti delle persone intervenute per accompagnare il defunto alla sua ultima dimora terrena. "... Shochen bameromim... " Il canto religioso si sollevò con fervore, sfidando il vento e le antiche parole ebraiche si diffo immediatamente nell’aria
circostante, rendendo l’atmosfera piena della sacralità nata dal profondo tormento e, magra consolazione, dall’accettazione del destino avverso. Jeremiah aveva ormai grande esperienza in queste situazioni ma non aveva ancora imparato ad evitare che le lacrime sgorgassero copiosamente dai suoi occhi. Si trattava di lacrime vere. Vere al punto tale, amare al punto tale, da portarlo a chiedersi da dove provenissero. Dove si trovava quell’abisso profondo che dava origine al pianto dell’anima e al dolore del l’uomo? Jeremiah lo ignorava. Continuò la celebrazione della cerimonia funebre, recitando ad alta voce l’ultima omelia con tono squillante, mentre le sue lacrime si confondevano con le gocce di pioggia che cadevano dalla parte superiore del suo cappello fino bagnare la barba grigia. La cerimonia proseguì e raggiunse l’epilogo. Infine, quando l’ultimo dei familiari si fermò, piangendo, davanti alla tomba appena coperta, Jeremiah sentì di potersi spostare nell’edificio principale della casa funeraria: si lavò le mani e il viso, purificandosi e raggiunse il parcheggio. La sua auto, una Honda Civic acquistata due anni prima, era ferma ad attenderlo al centro dell’area. La pioggia cadeva abbondantemente mentre si avvicinava al veicolo e Jeremiah accelerò il o, scivolò all’interno e chiuse lo sportello rapidamente, sfidando le gocce. Lanciò un’occhiata al sedile del eggero. Sì, l’audiocassetta si trovava ancora lì ad attenderlo, in una busta del tipo in uso presso l’esercito. L’aveva ricevuta solo qualche ora prima. Jeremiah sospirò leggermente... Fra tutti i giorni possibili perché quella cassetta avrebbe dovuto comparire nella sua auto proprio oggi? Avrebbe fatto di tutto pur di far svanire il nastro dalla macchina, dalla sua vita, farlo sparire da... non importava. Avviò l’auto e cominciò a spostarsi lentamente sull’asfalto bagnato del vialetto d’accesso. Per un attimo si soffermò sulla cassetta che teneva tra le mani, leggendo, più e più volte, le parole che erano state scritte dal mittente. ‘A mio padre’ Inserì la cassetta nell’autoradio e cominciò ad ascoltare.
*
A parecchie miglia di distanza, in una delle più grandi basi militari dell’esercito degli Stati Uniti, Eva stava mettendo degli abiti in una piccola valigia. Con movimenti energici ed essenziali ripiegava i vestiti e li riponeva nel bagaglio, ben conscia dello sguardo di Miguel. Eva sorrideva fra sé. Adorava l’effetto che il suo corpo nudo aveva su Miguel. Era così... lampante. In maniera rapida e precisa mise altri capi nella valigia, shampoo, dentifricio ed un paio di scarpe in più. Era sufficiente? Decise di sì e cominciò a vestirsi. Nonostante fosse pieno inverno, non si coprì con abiti pesanti. Amava il freddo e il suo corpo reagiva bene alle basse temperature – molto meglio di Miguel, per esempio, che riusciva a mettersi in attività solo in certe condizioni ambientali. Persino ora, notò, egli rimaneva sotto le coperte, guardando nella sua direzione con aria critica. "Sei proprio sicura di voler andare?” Preferì non rispondere alla sua domanda e continuò con la scelta degli abiti. Le mutandine aderivano perfettamente al suo fondoschiena e un reggiseno sportivo le copriva il seno. Ora restava solo la scelta dei pantaloni. Quelli marroni? "Non ti ha risposto, vero?" Verissimo. Si era aspettata di ricevere almeno una sua telefonata, solo per confermare di aver ascoltato il nastro, per dirle che aveva capito oppure di non avere compreso, per farle sapere che l’avrebbe vista volentieri o per dirle semplicemente di andare all’inferno. La chiamata non era mai arrivata. Non gli importava di lei. Era pronta a combattere contro suo padre, ma come poteva ignorala? Era uno scherzo di cattivo gusto. Ripensò a quanto era stato difficile scrivere la lettera. Era stata un’idea stupida. Aveva la sensazione che tutta la sua sofferenza, e tutte le sue emozioni venissero assorbite dal foglio di carta. Era come se la penna non osasse tracciare parole sul quel foglio. Le tornò alla mente il modo in cui aveva accartocciato il pezzo di carta fino a formare una palla e aveva preso la decisione di imprimere la sua
voce su un nastro. Nemmeno questo fu facile. Anche se, tutto considerato, cosa era riuscita a dire? Che aveva conseguito la laurea in medicina? Che ora rivestiva la carica di ufficiale medico nell’esercito e che si stava specializzando in medicina d’urgenza? Si trattava di un annuncio talmente innocente! Così naturale (ma chi sto prendendo in giro?) per una ragazza americana ormai matura, che vuole esercitare una professione affascinante e vuole comunicare la cosa alla sua famiglia. A suo padre. Perciò aveva registrato un paio di altre cose sul nastro. Alcune piccole cose... ma a quale prezzo. Abbi fiducia in tuo padre, onorevole rabbino, sarà capace di leggere fra le righe, sarà perfettamente in grado di ascoltare il tuo racconto su Miguel, sulla Germania... non puoi nasconderglielo. Non voleva nasconderglielo. Perciò continuò a vestirsi. Miguel non smetteva di osservala con i suoi occhi scuri e indagatori. Si sollevò appena, seduto sul letto; non era ancora pronto ad alzarsi. Avrebbe comunque dovuto aspettare che l’acqua si scaldasse nella caldaia. Lei aveva utilizzato tutta l’acqua calda, fino all’ultima goccia. Alla fine lei si girò verso di lui con la camicetta semi aperta. "Miguel, devo tornare a casa. Almeno una volta. Devo vederlo prima della partenza e are uno Sabbath con lui." "Sono ancora in tempo per venire con te, lo sai." L’unico risultato di quella frase fu una mezza risatina triste. Suo padre non era una persona violenta, non era mai stato capace di fare male a una mosca... ma se avesse visto Miguel in casa sua? Emise la seconda metà della risata e Miguel le sorrise. "Alla fine dovrà succedere." "Prima o poi dovremo morire," rispose lei. Finì di abbottonarsi la camicetta e indossò un maglione leggero e poi, sopra, un
cappotto pesate. La valigia era pronta, tutto era in ordine... i documenti, i certificati... ò una mano sull’orologio in maniera involontaria (era lì), toccò il portafoglio da uomo che si trovava nel cappotto (era lì) e il suo ciondolo (una Stella di Davide dorata, era lì). Tutto era pronto. Tutto sistemato. Si avvicinò al letto, si appoggiò e diede a Miguel un bacio particolarmente esplosivo che lo lasciò con il viso arrossato e con quel sorriso ebete stampato in faccia, tipico degli uomini che si trovano in situazioni simili. "Tornerò presto," disse, si girò e lasciò la stanza. La temperatura del corridoio era molto più fredda di quella nella stanza e apprezzò particolarmente il fatto di avere portato con sé il cappotto. New York era sempre molto fredda a Dicembre, persino per lei. Camminò lungo l’ingresso e cominciò a scendere le scale che conducevano al suo alloggio e anche verso l’uscita della base militare. Con la mente si vedeva già a Brooklyn, a cena in famiglia con suo padre, sua madre e le sue sorelle... un sorriso apparve sul suo volto pensando a loro e un sentimento profondo riscaldò il suo cuore. Da quanto tempo non li vedeva? Un anno? Forse più. Tutte loro e naturalmente suo padre. Mi domando come avrà reagito sentendo che sto per volare in Germania con Miguel.
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Purtroppo non lo sapeva, non avrebbe mai potuto venire a conoscenza della cosa. Non aveva ascoltato la sua voce. Aveva estratto la cassetta dalla radio molto prima che cominciasse la parte in cui avrebbe dovuto udire Eva che lo informava della sua decisione di trasferirsi in Germania per il suo internato in medicina d’urgenza, per portare avanti la sua carriera. Non aveva sentito della sua festa di diploma alla quale lui non aveva presenziato, della cerimonia di ingresso nell’esercito svoltasi senza la sua presenza mentre Miguel era stato accanto a lei in entrambe le occasioni.
Estrasse in malo modo il nastro e, anche se la pioggia cadeva scrosciante, aprì lo sportello dell’auto e lo gettò fuori. Alcuni secondi più tardi, un autobus di aggio lo distrusse definitivamente.
*
Jeremiah giunse a casa dopo alcune ore, in uno dei tradizionali e accoglienti edifici rossi di Brooklyn. Riuscì persino a trovare un parcheggio vicino all'ingresso, cosa che faceva ben sperare per il proseguimento della serata: sarebbe stata sicuramente migliore del resto della giornata trascorsa. Jeremiah odiava accompagnare i fedeli alla tomba. Salì cinque rampe di scale ad ampie falcate fino a raggiungere l'appartamento, non di grandi dimensioni, in cui viveva da vent'anni. Amava la sensazione che gli dava il ritorno a casa, il profumo della cucina della moglie, il suono delle risate delle ragazze, la luce, le librerie. L'appartamento era semplice, ammobiliato in maniera non pretenziosa, ma egli era profondamente orgoglioso di ritornare proprio lì ogni singolo giorno. Era la sua casa e non chiedeva altro. Aprì la porta e il profumo di cibo divenne più intenso, misto alle voci del piccolo coro femminile che stava aspettando la cena. Il grande tavolo da pranzo lo accolse ricoperto da una tovaglia bianca, decorata con delle stoviglie di colore blu su cui erano stati posti alcuni piatti già fumanti. Sì, sarebbe stata una serata molto promettente.
*
Dopo aver assaporato il Gefilte-fish (polpette di pesce in brodo tipiche delle
cucina ebraica), il Cholent (tipico stufato della cucina ebraica) e due bicchieri di vino, Jeremiah si rilassò e rivolse uno sguardo amorevole al suo piccolo coro. Le luci brillavano vivide, le voci risuonavano allegre e la conversazione scorrevole stava cancellando le tracce della prima parte della giornata. Hanna si diresse in cucina a prendere la composta di frutta, lasciando Jeremiah solo con le ragazze per alcuni secondi. "Quindi, Rachel, come è andata oggi a scuola?" Rachel, undici anni, gli rivolse un sorriso con la bocca piena. Inghiottì velocemente ciò che aveva in bocca ma non fu abbastanza rapida. Leah, identica alla sorella, rispose in sua vece. "Non vuole più frequentare la scuola 'Figlie di Giacobbe'!” Rachel strabuzzò gli occhi sentendo le parole della sorella. Rebecca, diciannove anni, e Sarah sedici, non potevano fare molto ma smisero di mangiare e spostarono la loro attenzione su Rachel, che era diventata improvvisamente paonazza. "Stai zitta!", il sussurro di Rachel si era trasformato in un grido e lanciò un'occhiataccia alla sorella con un’espressione piena di disprezzo. Leah, però si limitò a farle una linguaccia, felice di averla messa in una brutta situazione. Guardò il padre, aspettando di sentire i rimproveri destinati a Rachel, ma... Leah! Perché mi stai raccontando tutto questo?" Il sorriso svanì dal viso della ragazzina e, per un momento, le gemelle risultarono identiche in tutto e per tutto, dall'espressione del viso alla stessa intensità di rossore sulle guance. "Ma non vuole più andarci! Vuole studiare con i ragazzi..." Jeremiah colpì il tavolo violentemente, facendo vibrare le stoviglie, bloccando Leah a metà della frase. Sembra che sia tu quella che non ci vuole andare, Leah! Non mettere in imbarazzo tua sorella davanti a tutti! Te ne sei dimenticata? Ora era Rachel a sorridere. Toccava a lei. La madre e il padre erano entrambi arrabbiati con Leah, che aveva cercato di metterla nei guai? Un sogno diventato
realtà, anzi molto meglio... "Va bene! Ma Rachel dice...” Leah cercò di dirottare l’attenzione dei genitori sull’argomento a cui desiderava si interessassero! La rabbia Jeremiah cresceva. Si voltò e la fissò attentamente, con uno sguardo torvo, come se stesse salendo in cattedra. Il sorriso scomparve dal suo viso e la voce divenne piatta, monocorde e imperiosa. “Ciò che dice Rachel non è affar tuo. Domani è Venerdì e torneremo sull’argomento. Ora scusati con tua sorella. “Leah, nel disperato tentativo di evitare lo smacco delle scuse, fissò Hanna in viso con sguardo supplichevole. Hanna, però, le rivolse un’occhiata decisa, facendole capire che non si potevano raggiungere compromessi. Lentamente si girò in direzione di Rachel, che era seduta e si stava sforzando al massimo per non scoppiare in una sonora risata. Leah era rossa in viso quando chiese gentilmente scusa alla sorella. Dall’altro lato della tavola Hanna incontrò lo sguardo di Jeremiah e lo tranquillizzò con un sorriso rassicurante. Egli, di rimando, cominciò a ridacchiare leggermente alzando lo sguardo al cielo. “Ma ho allevato ed educato delle ragazze... e per di più gemelle!” Le risatine sommesse intorno al tavolo rasserenarono l’atmosfera. Persino Rachel e Leah tornarono a sorridere come sempre ma, uno sguardo attendo, avrebbe notato che la battaglia stava infuriando sotto il tavolo a suon di calci.
*
Un’ora più tardi Jeremiah terminò di leggere la preghiera di ringraziamento mentre le ragazze erano affaccendate nello sparecchiare la tavola e lavare i piatti. I pensieri della giornata, che erano stati allontanati dalle sua mente per qualche ora, si ripresentarono ed egli tornò ad essere pensieroso, ricordando il funerale. Il nostro mondo sta mutando. Sta scomparendo. Scomparendo. Un leggero tocco lo riportò alla realtà. “È stata dura oggi al lavoro?” Hanna riusciva sempre a leggere nella sua mente come fosse un libro aperto. Le sorrise e sollevò le spalle. Non si poteva fare molto. Il lavoro è lavoro, specialmente il suo. Strano, ci si può allontanare mentalmente da ogni tipo di
lavoro, ma non è possibile se sei un rabbino. “Cosa mi dici di Eva?” Oh, era un argomento che non voleva assolutamente affrontare. Sua moglie gli aveva consegnato la cassetta – era sempre lei ad occuparsi di tutte le stranezze del mondo moderno, inclusi i messaggi di posta elettronica – ed egli non aveva nessun dubbio sul fatto che l’avesse ascoltata prima di lui o qualcosa del genere. Eva era sempre stata la sua bambina, fino a quando... “Eva. Ricordami di chi si tratta?” La mano leggera e amorevole non era più sulla sua spalla ma poi la sentì di nuovo. “Jeremiah...” Per un lungo lasso di tempo rimasero uniti da un profondo silenzio. Hanna gli trasmetteva calore attraverso il tocco della mano ma non poteva annullare quello stato di paralisi che lo avvolgeva ogni volta che discutevano del ‘caso’ della loro figlia maggiore. “Ha bisogno di te.” “Non ha bisogno di nessuno. Ora è nell’esercito... sarà presto un medico! Ha il suo Cattolico ... Dimenticherà presto quello che le abbiamo insegnato, dimenticherà la sua famiglia, il...” “Jeremiah!” Ora il silenzio divenne più profondo, più angosciante. Egli rivolse gli occhi verso il basso, inconsapevole del distacco della sua mente, dei suoi pensieri. Naturalmente Hanna aveva ragione ma non disse nulla. “Hai ricevuto posta.” Ella cambiò saggiamente discorso – nuovamente – e gli porse un plico di buste aperte, già sistemate in ordine di importanza. La busta sopra le altre era chiusa. Stranamente Hanna non aveva letto il contenuto, ma egli conosceva bene il luogo di provenienza. “Non sapevo che ti fossi sottoposto ad accertamenti medici,” disse mentre si
avvicinava a lui puntando il dito indice nella sua direzione. Jeremiah prese la busta e la fissò a lungo prima di rispondere. Era uscito vincitore da molte battaglie in ato ma, questa volta, la situazione era differente. Questa busta... aveva qualcosa di familiare. Non poteva catalogare la sensazione che provava come un déjà vu... ma si trattava di qualcosa di simile. Proprio come un ingranaggio perfettamente inserito nel meccanismo di cui fa parte, che sa esattamente ciò che dovrà succedere. Jeremiah riusciva quasi a sentire il ‘click’ dei cicli vitali, radicato, impercettibile all’orecchio umano, ma chiaramente percepito a livello sensoriale. Aveva già ricevuto la stessa busta in ato? No, ma era come se avesse sempre saputo che un giorno sarebbe accaduto. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di negativo, di decisamente negativo... e non era l’unica sensazione che provava. Le sue mani tremavano leggermente, come pure la sua voce. “No. Di certo non presso il Mount Sinai Hospital. Non ci sono mai stato...” La busta però proveniva dal prestigioso ospedale. Il tremolio delle mani non era cessato, ma non prestò attenzione alla cosa. Iniziò ad aprire la busta con il cuore in gola (perché?), rompendo i sigilli con esagerata accuratezza. Dentro la busta c’era una lettera formale e fredda, come ci si può aspettare da uno scritto emesso da un ente ospedaliero. Lesse alcune righe e si fermò. Rilesse più volte la parte iniziale dello scritto e poi esaminò nuovamente la parte inferiore. Poi tornò alla sezione iniziale. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata mentre brividi di caldo e freddo percorrevano il suo corpo. Cercò di continuare a leggere ma non ci riuscì. Attonito e incredulo, nascose il viso tra le mani e spinse la lettera in direzione di Hannah. Hannah la prese fra le mani con uno sguardo preoccupato. Non aveva compreso la reazione del marito e, in tutta franchezza, non l’aveva mai visto prima in quelle condizioni. Perlomeno fino al giorno in cui Eva aveva annunciato che sarebbe entrata nell’esercito. Tenendo d’occhio Jeremiah, cominciò a leggere la lettera ad alta voce. “Caro Sig. Neumann, ci auguriamo che lei accetti di collaborare con la nostra
struttura nell’ambito di una ricerca sui gemelli separati nell’infanzia...” La sua voce si interruppe. Jeremiah era seduto sulla sedia e le sue spalle vibravano in maniera incontrollata. Respirava a fatica. Hannah posò una mano sulla sua spalla cercando di calmarlo. “Quale gemello? Tu non hai un fratello gemello...” Evidentemente aveva un fratello. Lo sapeva. L’aveva sempre saputo. Nella mente di Jeremiah riaffiorarono frammenti di ricordi lontani, insieme alla sensazione inspiegabile di non essere solo al mondo: c’era qualcuno... I documenti relativi alla sua adozione, che aveva aperto solo dopo l’ordinazione, non citavano l’esistenza di nessun fratello ma lui lo ricordava! Il fratello. Aveva ricordi nitidi. Quindi era vivo e ora, e ora... “I documenti dicono che ho un fratello.” “Ma è ridicolo...” “Per favore Hannah...” Egli prese la sua mano fra le dita; era diventata improvvisamente fredda e rigida. La fissò, incapace di aggiungere altro, guadando la lettera che lei teneva fra le mani. Poi rivolse lo sguardo verso il telefono che si trovava in un angolo della stanza e osservò di nuovo il viso di Hannah. Fece più volte lo stesso movimento con gli occhi. Ella si diresse verso l’apparecchio per effettuare una chiamata. Prima che lei raggiungesse il telefono, egli fuggì dalla stanza per rifugiarsi nel suo studio.
*
Esisteva un luogo in cui Jeremiah si sentiva realmente a casa: l’intimità del suo studio. Non era una stanza ampia. Al contrario era piccola e stretta, con le pareti
ricoperte di libri ma funzionale. La sua Arca di Noè personale, contenente parole e frasi, la parola di Dio e l’interpretazione data dagli uomini. In questo luogo Jeremiah ava i suoi momenti di riflessione più profonda. Una porta di vetro azzurrato lo separava dal mondo esterno, isolandolo dal rumore, dal trambusto e dalle subdole tentazioni. Finalmente, nel suo studio soffocante, riuscì a respirare con facilità. Quando la porta si aprì, era immerso nella lettura del Libro dei Salmi; stava leggendo uno dei capitoli più lunghi. Lo leggeva con il massimo della concentrazione e non era perfettamente conscio della presenza della moglie. Lei attendeva un suo cenno: sarebbe rimasta o se ne sarebbe andata? Attese qualche minuto, fino a quando il capitolo su Re Davide si concluse e il titolo del capito successivo apparve davanti agli occhi dei Jeremiah. Un nuovo episodio lo avrebbe certamente spinto ad immergersi nella lettura, ma non questa volta. Jeremiah sollevò lo sguardo. Hannah era ancora lì con un pezzo di carta fra le mani. “Si chiama Isaiah.”
*
All’età di 27 anni, Jeremiah era stato colpito da un grave attacco di appendicite che si era presentato all’improvviso. Ma fu realmente una cosa di cui stupirsi? Guardando i fatti in prospettiva, dopo che il dolore fu ato e dopo l’intervento chirurgico, emerse che quell’infiammazione era presente da sempre in maniera latente. Durante tutto l’arco della vita, Jeremiah aveva sofferto di vari dolori addominali, a volte molto intensi altre volte meno, ma nessuno era mai riuscito a portare in ospedale un uomo testardo come lui. Ecco come la pensava: bisogna pur sentire dolore in qualche parte del corpo, no? La risposta corretta era ‘No’ Quel giorno l’infiammazione si risvegliò dalla lunga latenza e si scatenò in
maniera violenta e furiosa. Stava leggendo The Edge of the Table; aveva un ricordo molto chiaro dell’accaduto. Era seduto, come sempre, sul letto nella sua stanza, completamente immerso nell’interpretazione delle piccole sfumature dei testi sacri e affascinato dall’intreccio di regole presenti nell’ebraismo, quando si ritrovò improvvisamente steso sul pavimento, con le lacrime che scorrevano, dolorante e gemente. Chiuse una delle mani, colpendo il pavimento con il pugno, facendosi del male in maniera volontaria per cercare di allontanare la sensazione di dolore lancinante; era come se il suo stomaco fosse trafitto da una lama affilata. Dopo l’intervento chirurgico accadde qualcosa di miracoloso. Per la prima volta nella vita, Jeremiah non avvertiva più nessun dolore all’addome. L’appendicite capricciosa, nascosta ma dolente, era stata finalmente rimossa e con essa tutte le sofferenze ad essa correlate che l’avevano perseguitato per tutta la vita – il dolore che lo aveva assillato così tanto e che fingeva di percepire a mala pena – erano state rimosse con l’intervento. Il sollievo era stato immenso, improvviso, doloroso.
*
"Isaiah O'Connor," proseguì Hannah, mentre studiava le reazioni di Jeremiah all’annuncio del nome del fratello che era tanto simile ma, nel contempo, estremamente diverso dal suo. Jeremiah sbattè gli occhi una sola volta. “Non vive lontano. A Long Island. Anche lui è stato adottato ed è originario della Polonia... L’ho chiamato...” La sua voce si affievolì per un momento; esitava a continuare. Jeremiah guardò nel profondo dei suoi occhi e sollevò un sopracciglio. Inclinò la testa come se volesse sentire le parole della moglie in maniera più diretta, più... vicina alla realtà.
Hannah sospirò profondamente e proseguì. “Non ha risposto al telefono. C’era una segreteria e non ho lasciato alcun messaggio.” La stanza era immersa nel silenzio. Dopo un attimo che sembrò eterno, Jeremiah chiese a Hannah se fosse a conoscenza del suo indirizzo.
L’incontro
"Apri gli occhi miei ond’io contempli le meraviglie della tua legge. Io sono un forestiero sulla terra; non mi nascondere i tuoi comandamenti” (Tehilim 119:1819)
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La mattina successiva Jeremiah non si recò al cimitero. Con suo enorme sollievo, nessuno aveva deciso di morire nelle ventiquattro ore precedenti. Fatta eccezione per una visita per porgere le sue condoglianze alla famiglia della persona deceduta il giorno prima, per del tempo dedicato alla preparazione di due ragazzini al loro Bar Mitzvah e per il tempo destinato alle usuali preghiere nella Sinagoga, non aveva altri impegni veri e propri. Così era libero di... Oh, Si. Era libero di andare ad incontrare suo fratello. Aveva cercato di chiamarlo personalmente diverse volte ma, come era già accaduto a Hannah, dall’altro capo del telefono si inseriva una segreteria telefonica su cui era registrato un messaggio informale (Salve, avete cercato di contattare Isaiah. Sarò felice di ascoltare il vostro messaggio.) Jeremiah non lasciò nessun messaggio. Almeno fino alla quinta telefonata. ata la mattinata, giunse il pomeriggio e poi arrivò rapidamente la sera. Quando Jeremiah cominciò a temere che Isaiah non avrebbe mai risposto al telefono, decise che non avrebbe più aspettato. Anche se erano ormai ati cinquant’anni, i ritardi dell’ultimo secondo sembrano essere interminabili. Proprio per questo alle ore 17.30, Jeremiah e Hannah arrivarono a Long Island, ad un isolato di distanza da quello che si pensava fosse l’indirizzo di Isaiah O’Connor.
Hannah guidava come era solita fare quando viaggiavano insieme: nel totale silenzio. Jeremiah era perso nei suoi pensieri, immerso nei ricordi e spaziava da una fantasia all’altra. Nonostante gli abiti pesanti era scosso dai brividi ma, nel contempo, era madido di sudore a causa della tensione e dell’agitazione. Tra pochi minuti avrebbe incontrato suo fratello gemello. E poi? Jeremiah si domandava quale tipo di persona si sarebbe trovato davanti. Di una cosa era sicuro: suo fratello non era povero. La strada in cui si trovava era nel centro di un quartiere residenziale molto prestigioso, formato da piccoli villini. Isaiah O’Connor... che nome bizzarro. Riusciva a comprendere perché si chiamasse “Isaiah”. Probabilmente si era trattato di un gioco di parole deciso dai funzionari incaricati dell’adozione: attribuire ai gemelli nomi di profeti biblici. Ma quale era il motivo del cognome “O’Connor”? Era raro che una persona di religione ebraica avesse un cognome irlandese. “Non pensi che tu stia corredo troppo?” Hannah lo distolse dalle sue riflessioni. “Dopo cinquant’anni? No.” “Effettivamente avresti potuto chiamarlo prima o almeno lasciare un messaggio sulla sua segreteria.” “E cosa avrei potuto dire? Ciao, fratello? Come butta?” Hannah fece una risatina vedendo il marito imitare il linguaggio delle ragazze. Religiose o no, stavano crescendo come delle vere newyorkesi Anche Jeremiah sorrise, scuotendo il capo. Hannah, a volte, risultava davvero... poco sofisticata. Era così diretta ma lui sapeva che questo la rendeva speciale, magica. Come al solito – doveva ammettere a se stesso – lei aveva ragione. Era dotata dell’incredibile capacità di leggere fra le sfaccettature della dell’animo umano, in maniera diretta. Il suo intuito le permetteva di trovare sempre il filo conduttore. Tutto questo era in netto contrasto con il percorso accidentato dei pensieri di Jeremiah e degli insegnamenti dell’Halacha (normativa religiosa dell’ebraismo). Lei aveva costantemente ragione. Tranne questa volta, forse. “Magari potresti invitarlo a are uno Sabbath con noi. Oh, siamo quasi arrivati,” Hannah stava esaminando le case attorno a loro. “Evidentemente, tuo
fratello non ha problemi di soldi.” “Non sono i soldi a rendere un uomo ricco,” rispose Jeremiah citando il suo proverbio preferito. Hannah si guardò intorno e girò a destra. “Vive nella prossima strada.” Così vicino? Improvvisamente Jeremiah si sentì come sotto una doccia fredda. Stava succedendo veramente? Sono davvero qui? Non si tratta di un sogno?” “Le ragazze hanno intuito che stava succedendo qualcosa, sai,” proseguì Hannah con il suo tono di voce abituale. “La cosa non mi meraviglia.. sono figlie tue, Hannah.” Questa non era certo la prima volta, e non sarebbe stata nemmeno l’ultima, in cui le ragazze riuscivano a leggere dentro di lui come fosse un libro aperto. La cosa fece sorridere Jeremiah: possedevano un raro sesto senso. Era quasi telepatia. A volte alle ragazze bastava un solo sguardo per captare esattamente quello che Jeremiah pensava, ciò che desiderava, ciò che provava... specialmente a Eva, pensò Jeremiah, specialmente a Eva. Tranne Eva. “Sono anche figlie tue. Ecco il motivo...” La voce di Hannah divenne sempre più fievole fino a sparire. L’auto avanzò fino ad una fermata a lato di una strada ben tenuta. Per un lungo istante si fermarono ad osservare. Un edificio bianco si ergeva davanti a loro, freddo e imponente. Hannah diede un’altra occhiata al biglietto che aveva in tasca, solo per controllare che l’indirizzo fosse corretto, nel caso avesse letto male la nota iniziale. “È questo l’indirizzo?” chiese Jeremiah non troppo convinto. “Sì...”
“Controlla ancora. Dovrebbe essere...” “È questo Jeremiah...” “Non può essere!” urlò improvvisamente all’interno dell’auto. Era proprio quello: 11th Pendleton Street, Long Island. Bianca, grande, ben tenuta con 150 anni di storia alle spalle, visto lo stile. Un’antica casa coloniale sul cui tetto campeggiava un’ impressionante ed enorme croce.
*
Per molto tempo rimasero fermi nell’auto ad osservare la chiesa che si trovava di fronte a loro. “11th Pendleton Street. Sei sicura che non ci sia stato un errore?” “Non sono sicura di nulla... ma è ciò che mi hanno indicato.” Tutta l’eccitazione, tutte le aspettative riguardo all’incontro, tutto ciò che questo significava per Jeremiah ora non contavano più nulla. Tutte le emozioni svanirono lasciando dietro di loro un senso di spossatezza e di oppressione. Sotto la barba grigia e il cappello nero, Jeremiah sudava; ed egli odiava sudare. “Vuoi tornare indietro?” chiese Hannah. Non desiderava ritornare a casa. Non subito. Non prima di aver chiarito le cose. Forse la lettera che avevano ricevuto era solo un brutto scherzo: in quel caso qualcuno l’avrebbe pagata cara. Forse i ricercatori del Mount Sinai avevano reperito un indirizzo errato. Probabilmente questa era l’opzione più plausibile. Però avrebbe anche potuto essere l’indirizzo esatto. Forse gli era stato inviato l’indirizzo del luogo di lavoro? Forse era solo un indirizzo postale, oppure era il custode di quel luogo. Jeremiah non lo sapeva, ma era molto interessato a scoprilo.
Con un movimento deciso aprì lo sportello dell’auto e, tenendo in mano la lettera ricevuta dal Mount Sinai, mise una gamba fuori dall’abitacolo. Sì, doveva chiarire subito la faccenda, ma prima... “Hannah... se non ritorno tra due minuti, rientra a casa. Va bene?” “D’accordo... d’accordo.. solo una cosa: stai tranquillo, Jeremiah.” Jeremiah sorrise in maniera nervosa. Uscì dall’auto e chiuse lo sportello dietro di sé. “In che modo tornerai a casa?” chiese Hannah mentre si allontanava. Jeremiah, però, aveva smesso di ascoltarla.
*
La scalinata della chiesa era molto ampia, di marmo bianco. Tutto l’insieme - i muri chiarissimi, la facciata splendente e bianca come il latte - faceva risaltare enormemente gli abiti neri di Jeremiah. Sicuramente non ava inosservato. Non era mai stato in una chiesa. Come tanti altri ebrei non si sentiva a suo agio pensando alle chiese. C’era qualcosa nella loro sacralità, che è molto simile, ma al contempo completamente differente da quella delle sinagoghe, che lo disturbava. Non sapeva esattamente cosa ci fosse all’interno di una chiesa; le descrizioni che gli erano state fatte erano collegate al periodo della Santa Inquisizione spagnola, un momento storico che non lo rasserenava. La cosa più evidente erano le dimensioni: era enorme. Molto più grande della sinagoga maggiore in cui era solito recarsi e, mentre faceva un altro o avanti, si sentì sovrastato come se stesse per essere inghiottito dall’onda bianca di fronte a lui. L’eco della musica di un organo filtrava attraverso i grandi ed altissimi portali. I suoni provenienti dalla strada svanirono non appena entrò nel grande (patibolo?) tempio davanti a lui.
C’erano parecchie scale – diavolo! Moltissime. Jeremiah le salì con una notevole lentezza e una sensazione di disagio crescente. Quasi con timore. Si fermò per due volte a riprendere fiato. La seconda volta si girò a guardare indietro – ma l’auto con cui avrebbe potuto scappare si era allontanata... naturalmente su sua indicazione. Era solo e le porte della chiesa erano chiuse. Appena le guardò, si aprirono come per invitarlo ad entrare. Come se qualche potere diabolico e demoniaco lo invitasse ad affondare negli abissi profondi di un luogo da cui gli ebrei praticanti non sarebbero usciti vivi. Jeremiah si bloccò, come paralizzato, sicuro che un gigante rosso stesse per materializzarsi, con le peggiori intenzioni, con l’intento di afferrarlo con i suoi artigli... Invece, dalla porta uscirono tre persone, individui reali che chiacchieravano e ridevano, proprio come se fossero appena uscita dalle porte della sua sinagoga, amichevoli e affiatati. Appena Jeremiah li guardò, il cuore cominciò a battere ad un ritmo frenetico. Di rimando anche loro lo fissarono increduli. Non potevano credere ai loro occhi: un Rabbino sui gradini di una chiesa? È una cosa che non si vede tutti i giorni perfino a New York! Gli arono accanto e mentre proseguivano lui li sentì sussurrare: “Avete visto...?” Un Rabbino. Probabilmente è ubriaco...” “No, non mi riferivo a questo... hai visto l’espressione del suo viso?” Jeremiah non riuscì a sentire il resto della conversazione e nemmeno a vedere lo scambio di sguardi fra loro mentre lo osservavano, da dietro, e si allontanavano. Era preoccupato per altri aspetti della questione. Finalmente arrivò alla fine delle dozzine di gradini che conducevano alle porte della chiesa. Gli imponenti portali si trovavano proprio davanti a lui, sbarrandogli la strada. Stese un braccio tremando e spinse per aprirle. Il vetro freddo di cui erano fatte gli diede una sensazione di bruciore al tatto. Spinse con potenza e sempre più forte ma non riuscì a smuoverle nemmeno di un millimetro; era davvero così debole da non riuscire ad aprire una porta?
Oh, no. Voleva entrare nella chiesa a tutti i costi. Ora, più arrabbiato che impaurito, Jeremiah fece un o indietro; intendeva spingere le pesanti porte con tutta la sua forza che aveva in corpo quando, improvvisamente, si aprirono con estrema facilità. Un ragazzino di circa dodici anni uscì a corse allegramente giù per le scale senza notare la presenza del Rabbino. Jeremiah bloccò al volo la porta prima che si richiudesse ed entrò.
*
L’interno appariva imponente, più voluminoso della struttura esterna. La chiesa non era dotata di un secondo o un terzo piano, come avrebbe potuto sembrare osservandola dall’esterno. Al contrario l’interno consisteva in una stanza enorme. Imponenti candelieri pendevano dai soffitti preziosi, illuminando la chiesa con una luce leggera di colore bruno rossastro. Nell’angolo vicino all’entrata erano posizionate parecchie centinaia di candele e un gruppo di persone silenziose sostava vicino ad esse, alcuni mormoravano, altri in totale silenzio ed altri ancora ne accendevano una. Candele commemorative? Jeremiah non sapeva se il senso del rito fosse lo stesso di quello ebraico. In ogni caso sembrava molto simile e la cosa lo faceva sentire meglio. La maggior parte dello spazio era occupata da lunghe panche di legno, molto simile a quelle che si trovavano nella sinagoga di Jeremiah. Purtroppo i punti comuni si esaurivano qui. Le sinagoghe sono austere: statue e maschere sono state completamente abolite mentre questo tempio cristiano era decorato con dozzine, se non centinaia di diversi ritratti. Dalle pareti laterali, vari Santi cristiani guardavano Jeremiah; alcuni erano contornati da angeli con ali, altri si limitavano a osservarlo con occhi pieni di curiosità. Nella parte opposta della chiesa, più in alto, troneggiava una statua enorme raffigurante Gesù Cristo. Sotto ad essa era posizionato un imponente organo a canne che riempiva gli ampi spazi con suoni armoniosi ricchi di solennità e forza. Alla musica si aggiunsero le voci angeliche e acute del coro di voci bianche. Mentre si avvicinava lentamente, Jeremiah riuscì a carpire la devozione impressa sui loro volti. Alcuni di loro cantavano ad occhi chiusi, altri semplicemente con
lo sguardo fisso. In piedi di fronte a loro, dando le spalle a Jeremiah, c’era un uomo alto con addosso un abito da prete. Faceva ampi gesti con le mani che si armonizzavano perfettamente con i suoni dell’organo mentre dirigeva i canti dei ragazzi – verso l’alto, verso il basso, a destra e a sinistra. Si respirava un’atmosfera magica. Immensamente magica. Jeremiah si sentiva trasportato, come se stesse andando alla deriva, dalle voci angeliche del coro. Si diresse lentamente verso di loro, trasportato dai suoni celestiali. Si avvicinò lentamente... Due occhi di bimbo, che guardavano vacuamente nel vuoto, incontrarono il suo sguardo. Il ragazzino aprì la bocca a causa dello stupore e smise di cantare. Altri occhi sgranati si posarono su di lui e altre labbra si chio. Il ragazzo colpì con il gomito le costole del vicino, che spalancò gli occhi e tacque. Jeremiah si trovava ora a circa un metro dalla schiena del direttore del coro e la metà dei ragazzi aveva già smesso di cantare. Stavano bisbigliando a bassa voce. L’organo si fermò e tutte le altre voci svanirono. I movimenti del religioso non fluttuavano più nell’aria. Abbassò le mani e fissò i ragazzi. Il suo coro, che fino a qualche secondo prima volava sulle note dei canti, ora si era completamente distratto, concentrandosi su Jeremiah che si trovava ormai a pochi centimetri da lui. Lentamente si voltò per scoprire la causa dell’interruzione e si trovò di fronte alla sua immagine riflessa. La chiesa piombò in un silenzio totale. Due fratelli identici, fatta eccezione per la barba e l’abbigliamento, si stavano guardando negli occhi per poi are al resto del corpo, alle gambe, al collo, all’abito per poi ritornare agli occhi. Dopo un attimo di confusione – quando riuscì a ricordare l’accaduto, Jeremiah estrasse la lettera che l’aveva portato fino a lì. “Ho ricevuto questa lettera...”
*
A differenza dell’impressionante ampiezza della chiesa, lo studio di Padre O’Connor – Isaiah – era semplice, modesto e di piccole dimensioni. Proprio come quello di Jeremiah, lo studio era piccolo e completamente ricoperto di libri, posizionati su mensole distribuite su tutt’altezza delle pareti. Jeremiah si sentiva quasi a casa. Tutto appariva molto familiare: la piccola scrivania, le sedie logore ma comode, il caos e la piacevole sensazione di sovraffollamento. Sì, avrebbe potuto stabilirsi lì senza problemi. Poi notò un grande bassorilievo raffigurante Gesù Cristo, una copia dell’immagine presente all’interno della chiesa. “Ti infastidisce?” chiese Isaiah. “No... no. Solo...” Lasciò che la sua voce rispecchiasse il fiume di emozioni che lo stava sopraffacendo, muovendo le braccia come un naufrago senza speranza. “Sì... è davvero, davvero impressionante” “Davvero.” “Direi... quasi incredibile.” “Dipende da ciò in cui credi.” I due fratelli scoppiarono a ridere, in un modo sorprendentemente simile. “Posso contare su di te quando vorrò farmi quattro risate, eh?” disse Isaiah dopo aver recuperato il respiro. Non si erano ancora sistemati all’interno dello studio. Si trovavano ancora sulla soglia e non potavano mettersi a sedere. Ora, come un vecchio lucchetto liberato dall’antica ruggine, potevano procedere. Isaiah indicò la scrivania all’interno della stanza e si sedettero, sospirando nello stesso modo, con lo stesso ritmo e quasi a tempo. Si guardarono a vicenda. Fatta eccezione per la barba, i capelli e gli abiti, la loro
somiglianza era indiscutibile. La stessa altezza, la stessa pancia prominente. Gli stessi occhi scuri, illuminati dalla fede in Dio. Le medesime rughe sulla fronte, il naso a patata. Jeremiah notò persino tre peli sparuti che crescevano sulla punta del naso di Isaiah come pure sulla sua. “Gemelli identici, eh?” “Sembra proprio che sia così,” disse Isaiah. “E l’hai scoperto solo ieri?” “Sì.” Isaiah sorrise e si diresse verso il comò che si trovava su un lato della stanza. Su di esso erano sparse parecchie buste ancora chiuse. Si mise a frugare fra di esse, trovò la famosa busta e sorrise di nuovo. “Spesso sono troppo occupato persino per visionare la posta. Probabilmente tu...” “Ho sposato una contabile eccezionale,” Jeremiah concluse la frase iniziata dal fratello. “Ah... I vantaggi della religiose ebraica. Potete sposarvi.” Scoppiarono di nuovo a ridere. Dei due Jeremiah era il più pacato, il più malinconico. Lui è cristiano, io sono ebreo, pensò Jeremiah. Come può essere? Come possono accadere cose di questo tipo, come può essere reale tutta questa situazione? Esistevano notevoli differenze tra loro ma anche enormi somiglianze. Erano separati da mezzo secolo e ora tutto sembrava avere un senso. Non si trattava semplicemente dell’abbigliamento differente. Il modo di parlare, la fede. Erano gemelli monozigoti ma così diversi fra loro, molto diversi. Jeremiah disse. “Hai un senso dell’umorismo tipicamente ebreo, sai.” “Sì, c’è un vero burlone lassù...”
Non stavano più ridendo, si limitavano a sorridersi a vicenda. Jeremiah avvertiva nascere nel suo petto un calore intenso paragonabile a miele liquido, marrone e ambrato. Il suo nervosismo iniziale svanì come sabbia fra le dita e fu presto sostituito da un’ondata di vera felicità. “Due fratelli che si incontrano dopo... quanto tempo? Cinquantadue anni?” disse Isaiah. “Bene, meglio tardi che mai.” Ora Jeremiah percepiva lo stesso calore provenire – quasi irradiarsi - dal petto del fratello gemello. Meglio tardi che mai, giusto? “Assolutamente.” “Quindi per quale ragione stiamo parlando di questo come se stesse accadendo ad altre due persone?” Jeremiah rifletté a lungo prima di rispondere. Questo concetto era già ato parecchie volte per la sua mente ed era quasi sicuro che Isaiah conoscesse già quella che sarebbe stata la sua risposta. Avrebbe dovuto parlare, anche solo per scoprirlo oppure non avrebbe dovuto sbilanciarsi. Sì, conosceva il motivo per cui stavano parlando di loro stessi in terza persona. Isaiah riuscì a batterlo per un decimo di secondo. “Tu... tu sei un rabbino, giusto?” Jeremiah lo guardò scuotendo la testa leggermente. “Giusto.” Ma non sono stato educato per diventare un rabbino, pensò. I suoi genitori adottivi erano quasi del tutto atei e nessuno dei due era praticante. Non l’avevano mai incoraggiato quando aveva deciso di studiare la Torah e non l’avevano mai obbligato a frequentare ‘la stanza’, the Cheder[1] – aveva deciso di personalmente di andarci. No, non era stato cresciuto per essere un rabbino. Aveva scelto di essere un
rabbino e sospettava fortemente che anche Isaiah non fosse cresciuto in una famiglia di ferventi cristiani. Sì, tutto ad un tratto ne era certo. Isaiah aveva scelto di votarsi alla religione cristiana, di farla sua per ragioni che solo lui conosceva. Perché? “Io sono un sacerdote, come puoi vedere. Non penso che sia una coincidenza, Jeremiah. No... è praticamente ovvio. Sentivi un vuoto, l’assenza di una vera famiglia. Anche se i tuoi genitori adottivi erano presenti nella tua vita, non sono riusciti a sostituire la sensazione di vuoto presente nel tuo cuore. Le tue radici. Proprio per questo tu sei andato in cerca delle tue radici.” Isaiah sorrise fra sé. “Buffo. Non ho mai pensato a questo ma sono convinto di essere stato spinto dalle tue stesse motivazioni. Capisci? Tu, non io. Solo ora comprendo improvvisamente che...” “... Siamo persino troppo propensi a risolvere i problemi di altre persone.” “Perché no. È molto più semplice che risolvere i propri.” Entrambi ricominciarono a ridere, dividendo l’intimità del momento proprio come due fratelli, non uniti da un legame di sangue ma dalla loro professione. “Allora, Jeremiah dimmi, come è stata la tua infanzia, cosa..... oh... chi sei tu in realtà?” La serata era ormai ata, rimanevano la notte successiva, le settimane, i mesi e gli anni a venire. Era come se i due gemelli fossero rinati. Cinquant’anni prima avevano diviso le stesse lacrime nella culla, ora cominciavano a condividere gli anni in cui si erano persi di vista.
*
L’incontro fu breve. Troppo breve. Il Venerdì si prospettava unico e sarebbe stato seguito dalla cena dello Sabbath, la più particolare mai vissuta fino a quel giorno. La pioggia, che aveva smesso di cadere per un attimo, ritornò a bagnare
la città e i due fratelli ripercorsero le ampie scale continuando a parlare delle loro esperienze davanti all’ingresso della chiesa. Un taxi giallo stava percorrendo la strada e si fermò ai piedi della scalinata. Isaiah lo guardò per poi fissare Jeremiah. “Quindi...” Le loro mani esitarono come se non volessero mettere fine al loro primo incontro. Troppo breve, troppo rapido ma tanto entusiasmante: non era troppo tardi. Jeremiah spostò nuovamente lo sguardo sull’orologio. “Sì... il tempo corre.” Per un attimo tumultuoso, rimasero in piedi guardandosi a vicenda, in un turbine di emozioni; non fecero nessun movimento. Ognuno di loro cercava di leggere la vita dell’altro di guardare se stesso con gli occhi dell’altro – il periodo della crescita, la maturità, i periodi felici e quelli tristi... entrambi chio gli occhi per condividere appieno questo momento speciale... “Allora, andiamo oppure no?” La voce rude dell’autista del taxi, un uomo cicciottello e non sbarbato, non riuscì a rovinare quel momento. Desideravano soprattutto ricongiungere le loro vite. Si scambiarono un sorriso. “Continueremo questa sera. Vieni da noi a conoscere la tua famiglia... almeno inizialmente.” Isaiah scosse la tesa, quasi imbarazzato, assalito dai dubbio...” “Suona così strano: la Mia famiglia...” “Fra un’ora. Ti aspettiamo.” Si strinsero la mano per accomiatarsi e improvvisamente – senza timore – si strinsero in un caloroso abbraccio, emozionati e disperati allo stesso tempo. L’intensità dei loro sentimenti era immensa. Dagli occhi di Jeremiah scese una lacrima.
“Mi dispiace... mi dispiace.” “Anche a me... Anche a me.”
Tish
"Maledetto sia il giorno in cui nacqui. Il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia benedetto." (Geremia 20: 14)
Gli aeroporti sono luoghi profondamente solitari. Centinaia di migliaia di persone ci ano ogni giorno. Centinaia di miglia di visi che vanno di fretta, centinaia di migliaia di estranei fuori dal tempo e dallo spazio. Nessuno li abita. Nessuno ci vive o si reca in un aeroporto per rimanerci. Tutti ci vanno solo per partire nuovamente e nel modo più veloce possibile. Gli aeroporti sono posti freddi. Strani. Nonostante tutto, in verità, a volte sono testimoni di momenti di straordinario calore umano. Poche gocce in una corrente vorticosa, qualche fiamma accesa in un paio di occhi persi in un mare di occhi vacui. Qualche separazione e qualche incontro. Baci qui e là, abbracci. Piccoli drammi tra un decollo e un atterraggio, tra caffè liofilizzati e sorrisi professionali. Di tanto in tanto assistono a sporadici momenti di affetto. Purtroppo non accadde nulla del genere ad Eva Neumann. Al contrario, scese dall’aeroplano durante un fredda giornata newyorkese, in un pomeriggio rigido d’inverno, trasportata e trascinata da un fiume di persone estranee. Come se non bastasse il freddo pungente, la sua valigia aveva deciso di non unirsi al resto dei bagagli ed Eva ò trenta minuti bloccata in un’attesa senza speranza, aspettando che il suo bagaglio si decidesse ad apparire sul nastro trasportatore. Non comparve. Appena si rese conto che non avrebbe avuto modo di ritrovare i suoi indumenti pesanti nell’immediato, Eva si incamminò verso l’ufficio della TWA che si trovava nelle vicinanze. Alcuni eggeri stavano conversando animatamente con alcuni addetti (che sorridevano professionalmente) ed Eva pensò, mentre si strofinava le braccia infreddolite, quanto ti faccia stare meglio vedere che anche altri hanno le tue stesse difficoltà. Finalmente arrivò il suo turno. “Mi scusi, il mio bagaglio non è arrivato...” Si sentiva infreddolita.
*
Jeremiah non sentiva neppure un brivido di freddo poiché indossava parecchi strati di abiti caldi, un cappotto pesante e un’aura di gioia pura lo circondava. Salì le scale che lo conducevano a casa. Attraverso la porta, udì, come sempre, l’allegro rumore di piatti in cucina che si interruppe bruscamente quando le ragazze percepirono il rumore della porta che si richiudeva alle sue spalle. Un rumore di i veloci e le gemelle, Leah e Rachel, gli tesero una trappola balzando su di lui strillando una da ogni lato. Jeremiah le catturò con un movimento ormai abituale, domandandosi per quanto tempo avrebbero continuato a farlo. Stavano diventando sempre più pesanti quelle due monelle. Le altre donne della casa le seguirono a ruota. Rebecca e Sarah abbandonarono i loro libri e Hanna uscì dalla cucina, asciugandosi le mani con uno strofinaccio. “Allora...?” chiese. Jeremiah sorrise raggiante mentre rimetteva a terra le gemelle con delicatezza ma Rachel continuava a stringergli la mano. “Mamma ci ha raccontato tutto!” “Tutto?” chiese mentre entrava nel soggiorno e prendeva posto al centro del divano. “Siiiiiiiiiiiiii,” rispose Leah. “Racconta... nostro zio... è...” “Lavora davvero in una chiesa?” Rachel completò la frase della sorella esitante ed entrambe scoppiarono a ridere. Le due ragazzine stavano studiando il padre con deliberata concentrazione. Jeremiah non era molto soddisfatto. Perché aveva raccontato tutto alle ragazze senza avvisarlo? Senza consultarlo? Si girò verso Hanna e le lanciò un’occhiata interrogativa piena di rimprovero. Come risposta ricevette un’alzata di spalle e uno sguardo rivolto verso l’alto.
Sì, naturalmente sarebbero venute a sapere tutto prima o poi, Hanna, ma perché non mi hai permesso di metterle al corrente della cosa rispettando i miei tempi? “Chiesa? Effettivamente... sì. È il responsabile...” Le due ragazze più gradi coprirono con le mani la loro bocca spalancata. Le più piccole non capirono realmente il significato della frase. “Il responsabile?” chiese Rachel. “Sì. È un pastore.” La reazione delle figlie non sorprese Hannah. Non esattamente. Infatti, non si aspettava che fossero così dirette e che sollevassero un tale polverone per avere maggiori informazioni. Forse si augurava che fossero più discrete. Lo stress improvviso fece tremare, per un attimo, il pavimento sotto i suoi piedi. Hannah perse l’equilibrio, divenne pallida e si sedette su una sedia. Rachel non si accorse di nulla. Stava ancora cercando di comprendere. “Il sacerdote?” Leah aggiunse, “intendi dire un sacerdote cattolico?” “Cristiano, mussulmano, buddista... cosa importa, è mio fratello gemello! È tuo zio!” L’originale interludio che ne seguì, mentre Jeremiah cercava di controllare la sua irritazione, non riuscì a chiarire l’enigma che tormentava le ragazze. Anzi. Ai loro occhi sembrava che il padre fosse tornato a casa annunciando che gli alieni erano atterrati a Brooklyn. O, meglio, che il fondatore uno dei più grandi movimenti religiosi dell’ebraismo chassidico avesse abbandonato la tomba cavalcando un asinello bianco per intraprendere il viaggio del Messia. “Uno zio cristiano?” Questa volta fu il turno di Rebecca. Sembrava che le ragazze stessero cominciando a convincersi lentamente. Le guance di Hanna ripresero colore, Sarah lo stava ancora fissando scioccata ma con aria comprensiva e Rebecca mostrava piccoli segni di accettazione della
nuova situazione. Rachel stava ancora fissando le sue dita, mentre Leah... Come sempre Leah non riusciva a nascondere nulla. “Ew...” fece una smorfia che esprimeva dubbio e disgusto allo stesso tempo; non c’erano dubbi sul fatto che non fosse soddisfatta. Si aspettava un brusco rimprovero per quella reazione e, in realtà, anche se l’esclamazione era uscita dalla sua bocca, comprese subito di aver sbagliato Fortunatamente fu l’unica ad accorgersi della cosa. Jeremiah aveva le sue opinioni ed era immerso nei suoi pensieri. “Bene. Lui non può sapere che, in teoria, non avrebbe dovuto essere cristiano. Quando ci hanno portato qui dalla Polonia, probabilmente hanno commesso un errore ed egli fu adottato da una famigliari religione cristiana. Tutto qui.” Improvvisamente compresero il vero significato. Vedevano le cose sotto la giusta luce. Mi sto veramente scusando? Lo sto facendo? Sta succedendo davvero? Jeremiah vide i visi a lui familiari che gli stavano intorno, diventare lentamente seri. In circostanze diverse, la situazione avrebbe potuto essere addirittura comica. Lui, il rispettabile Rabbino che normalmente prende tutte le decisioni; lui al centro della sua corte, un piccolo circolo di giudici severi, radunati attorno a lui. Un circolo che solitamente lo riempiva di amore e approvazione, che lo temeva e lo ascoltava... ma ora lo giudicava aspramente. “D’accordo! È cristiano. OK? Quindi? È un membro della famiglia. Questa è la cosa più importante.” “Caspita, chissà cosa avrebbe detto Eva se avesse sentito questo...” Ora fu Rachel a prendere la parola a sproposito e Leah si affrettò a coprire la bocca della sorella con le mani. Gli occhi di Rachel si spalancarono, cercò però di controllare la sua reazione istintiva, senza accorgersi del gomito di Leah fra le costole. Sentì che sarebbe stato molto meglio se non avesse parlato affatto. Ma era troppo tardi. Le parole erano state pronunciate ed ora il loro eco risuonava nella stanza.
*
All’aeroporto le voci risuonano distanti, estranee. Un volo sta per decollare, uno altro è in ritardo, un annuncio per qualcuno che doveva presentarsi al desk della Swissair, l’ultima chiamata per... A chi importava realmente? Eva avvicinò le ginocchia al petto, cercando di trovare una posizione comoda, e calda, sui divanetti della sala di attesa, due cose praticamente impossibili. In ogni caso ci provò. Dietro di lei l’orologio indicava l’ora esatta e le suggeriva che ormai era in ritardo, molto in ritardo. Accanto a lei c’era una famiglia ebrea numerosa che andava di fretta. Erano senza dubbio ebrei: si intuiva dal loro abbigliamento. I genitori erano seguiti da una lunga fila di figli sistemati in ordine di altezza e ogni bambino teneva la mano al fratello che lo seguiva. Il padre, un uomo alto e pallido, camminava velocemente in testa al gruppo mentre la madre lo seguiva con la catena di bimbi. “Forza, muovetevi... è quasi Sabato...” Sì. Il Sabato era molto vicino e anche lei doveva fare qualcosa. Eva costrinse sé stessa ad alzarsi dal divanetto e notò che comunque era riuscita a riscaldarsi un po’ stando seduta. Si avviò di nuovo verso il banco della TWA, che aveva già visitato molte volte nelle ore precedenti. “Mi dispiace Signora Neumann. Perché non ci lascia il suo indirizzo ed il suo numero di telefono? Provvederemo ad inviarle il bagaglio quando verrà rintracciato.” Eva fece un cenno di assenso con il capo, conscia di non poter agire diversamente. “D’accordo... grazie. Potrei usare il suo telefono? Non ho...” “Certo.” Porse il telefono a Eva.
*
Jeremiah era seduto nel suo studio e cercava di concentrarsi sul libro dei Salmi, ma invano. Persino il Canto di Re Davide non poteva cancellare le parole pronunciate da Rachel. Ora erano indelebili nel suo cuore: costituivano una verità che non avrebbe mai più potuto ignorare. Eva, Eva. Perché mi stai facendo questo? Perché hai fatto in modo che io mi arrabbiassi con te? Cosa mi ha costretto a respingerti, ad allontanarmi da te, ad ignorarti? Si lasciò andare e i suoi sentimenti presero il sopravvento insistentemente, mentre gli tornava alla mente l’immagine della figlia maggiore: il giorno in cui aveva deciso di arruolarsi nell’esercito, di frequentare la scuola di medicina, di non coprirsi più il capo... Aveva rinnegato tutto ciò in cui lui credeva fermamente, tutto quello che le aveva insegnato, tutto ciò che lui predicava ogni giorno. Il suono del telefono lo riportò allo stato cosciente. Continuava a suonare. Jeremiah solitamente non rispondeva; lasciava che fosse Hannah a filtrare le chiamate oppure qualcuna delle ragazze. Questa volta però il suono del telefono era insistente e Jeremiah non riusciva a concentrarsi. Prese nota dell’ultima frase che aveva letto per ben cinque volte. Probabilmente le ragazze erano indaffarate in cucina. Jeremiah sollevò il ricevitore. “Sì?”
*
La voce di suo padre la fece sobbalzare. Improvvisamente si sentì accaldata. Da quando suo padre rispondeva al telefono? Per quale motivo? Perché proprio ora? Eva si bloccò. Non sapeva cosa dire. In che modo avrebbe potuto cominciare. Aveva ato mesi a esporre le proprie motivazioni davanti a uno specchio, a riare mentalmente le cose che avrebbe voluto dire all’uomo più importante della sua vita (Sì, era ancora il più importante!). In quel momento la sua voce la colse di sorpresa, paralizzandola. “Sì...” ripeté suo padre, riportandola nel presente. “Pronto, papà?” Silenzio. “Papà... sono io, Eva.” Silenzio totale. Poi, un respiro pesante e... “Papà? Oh Papà, non agganciare... Papà?” Eva si alzò in piedi, all’interno del grande e gelido aeroporto; si sentiva piccola e infreddolita con un inutile telefono tra le mani. La collera faceva risuonare le sue orecchie. Fissò il ricevitore incredula, arrabbiata e stupita. Attorno a lei tutto sembrava oscillare e l’aria si muoveva vorticosamente. Una piccola lacrima tiepida stava nascendo nei suoi occhi.
*
Una lacrima simile brillava negli occhi di Jeremiah e si lasciò andare ad un disperato momento di silenzio davanti al ricevitore muto. Bussarono alla porta con tocco leggero e Hannah entrò. Indossava un grembiule e si stava asciugando le mani. Dietro di lei si udivano i rumori della cucina. “Chi era la telefono?”
“Hanno... hanno sbagliato numero.”
*
Ad alcune miglia di distanza, un’altra lacrima stava nascendo negli occhi di Isaiah O’Connor mentre si trovava in ginocchio davanti alla statua di Gesù Cristo. Si sentiva sopraffatto dalla tristezza, da un senso di solitudine. Per un attimo sentì sulla sua pelle lo stesso gelo dell’aeroporto, lo sconforto di Jeremiah e il suo stesso enorme dolore. Per la prima volte nella sua vita avrebbe incontrato la sua famiglia. Non i suoi genitori adottivi, morti parecchi anni prima. Non la comunità irlandese, non i suoi fratelli nello spirito che aveva occasione di incontrare tutte le sere, tutte le settimane. No. Stava per incontrare la sua vera famiglia. Suo fratello. Le sue nipoti. (Sono zio. Io?). Aveva rinunciato a tutto questo quando aveva deciso di prendere i voti. Delle tre lacrime nate nello stesso momento, solo quella di Isaiah compì la sua missione: corse lungo la guancia e completò il suo tragitto cadendo a terra.
*
Non molto più tardi, il camlo suonò a casa di Jeremiah. Tutti gli occhi si girarono vero la porta d’ingresso. Jeremiah osservò il soggiorno: era pulito, lucido, scintillante come non mai. Non che avesse mai dovuto lamentarsi, ma... era compiaciuto degli sforzi compiuti. La tavola era perfettamente apparecchiata con il servizio delle feste e le ragazze apparivano tutte radiose e splendide nei loro bellissimi abiti per festeggiare lo Sabbath. Jeremiah provò una fitta di dolore sentendo il suono del camlo, a causa
della profanazione del Sabbath, ma la felicità che quel suono portava con sé era decisamente maggiore. Stava per accogliere in casa sua, per la prima volta, il fratello gemello. Infatti, oltre la porta si trovava il fratello, la sua immagine riflessa allo specchio. Jeremiah si stupì nuovamente del fatto che si somigliassero tanto. Di quanto il viso che gli stava sorridendo oltre la soglia fosse somigliante a quello che vedeva ogni mattina nello specchio. Di come i loro occhi sorridessero allo stesso modo, di quanto fosse altra la loro fronte e quanto fossero folte (e grigie) le loro sopracciglia. Il loro naso a patata era identico e presentava la stessa curvatura verso sinistra. Sì, fu travolto da un’enorme ondata di calore, era proprio suo fratello. Il gemello scomparso. Il gemello identico come solo due gocce di sangue potrebbero esserlo. Almeno dal naso a salire. Dal mento in giù, le similitudini apparivano meno visibili, celate dietro simboli, rituali e abbigliamento. Mentre Jeremiah era orgoglioso della sua folta barba, Isaiah preferiva mantenere il viso libero e pulito. Jeremiah indossava un completo nero in linea con il tipico stile dell’ebraismo ortodosso, al contrario Isaiah portava il colletto bianco ben in contrasto con il blu del vestito. Sì. Esistevano delle differenze. Non c’erano dubbi. Comunque, prima di tutto e anche dopotutto, era suo fratello. L’unico suo legame di sangue esistente. Lo aveva invitato a casa sua per questo, in qualsiasi tipo di veste. “Benvenuto. Benvenuto a casa.” Allungò la mano per stringergliela in maniera formale e lui rispose agendo allo stesso modo, con la stessa mano e la medesima stretta. Come in occasione del loro primo incontro, la stretta di mano non fu sufficiente. Si strinsero in un caldo e affettuoso abbraccio come fossero avvolti da sentimenti che avevano ignorato per anni. “Grazie... sono felice di essere qui.” Gli occhi delle ragazze brillavano per l’emozione nel vedere il padre insieme al suo gemello, abbracciati ad occhi chiusi, come se non esistesse altro attorno a loro: la porta, la casa, nulla. Alla fine Isaiah aprì gli occhi e le guardò per la
prima volta. Picchiettò leggermente sulla spalla del fratello e l’abbraccio fu inghiottito dall’attimo appena trascorso. I due fratelli entrarono; prima Jeremiah poi Isaiah, subito dietro di lui, si diresse verso le ragazze. “Oh... dovete essere le mie nipoti. Le mie nuove nipoti.” Le fissò sopraffatto dalla meraviglia, i tratti del loro viso, così familiari, così belli. “Ti somigliano molto...” “Somigliano anche a te.” Rispose Jeremiah, incantato. Isaiah studiò con attenzione ognuna di loro e si avvicinò alla maggiore. “Tu sei... Rebecca naturalmente?” La ragazza annuì, come ipnotizzata. Lo sconosciuto davanti a lei, abbigliato in modo non rassicurante, con le stesse sembianze di suo padre, con la stessa voce di suo padre... stava tendendo la mano verso di lei. Ma è uno sconosciuto! Io sono già in età da marito... Lanciò a suo padre uno sguardo indagatore. “Puoi. Ti è permesso. È tuo zio.” La stretta di mano fra loro risultò leggera, timida. Isaiah sorrise tra sé. La ragazzina era terrorizzata... l’atteggiamento era comprensibile. Liberò le due dita e si rivolse a Sarah che era ferma, in piedi, nervosa vicino alla sorella maggiore. Era più diretta. Il tono di voce alquanto professionale, immediato. La sua voce era più bassa e meno stridula del solito e sembrava appartenere ad una persona più anziana della sua età. “Sono Sarah. Piacere di conoscerla.” “Anche per me.” Poi venne il turno delle gemelle. Stavano appiccicate, come erano solite fare spesso nei momenti di imbarazzo e sorridevano timidamente.
“E voi dovente essere le gemelle dispettose. Chi di voi è Leah?” Leah sollevò la mano per poi riabbassarla. I suoi occhi scintillavano. Isaiah si abbassò, appoggiandosi su un ginocchio, per riuscire a guardarle direttamente in viso Prese la piccola mano di Leah con la mano destra e con la sinistra quella di Rachel. “Ciao, Leah. Ciao Rachel. Potete chiamarmi Isaiah. Zio Isaiah.” Le loro manine risultavano calde e tenere fra le sue. Le gemelle lo stavano fissando con occhi indagatori come se cercassero di dare, alla copia esatta del loro padre, una collocazione familiare, posizionandolo in qualche nicchia dove riuscissero a metabolizzare con facilità la sua presenza. Come spesso accade in situazioni come questa, la cosa giusta – forse l’unica cosa da farsi, fu scoppiare in una sonora risata. Una risata capace di risolvere ogni mistero e di eliminare qualsiasi imbarazzo. Isaiah si voltò, senza capire e vide Jeremiah raggiante. “Ho detto qualcosa di buffo?” La domanda non fece altro che aumentare l’intensità della risata delle gemelle. Isaiah di rivolse di nuovo alle due bambine divertite e Leah lo guardò negli occhi e osservò i suoi gesti come se portasse una barba immaginaria. “Sembri proprio uguale a papà!” spiegò Rachel “Solo la barba...” Continuarono a ridacchiare, contagiando Isaiah che cominciò a realizzare quanto poco conoscesse i bambini. Perché avrebbe dovuto? Non aveva figli e, tranne in occasione delle prove del coro giovanile, non aveva mai avuto contatti con i piccoli. Le cose stanno per cambiare, pensò. Moltissime cose stanno per cambiare. “Benvenuto a casa nostra, Sig. O’Connor.” Isaiah si alzò e guardò Hannah che si trovava in piedi all’inizio del corridoio che conduceva alla camere da letto. Hannah era... incredibile, decise fra se.
Indossava un elegante abito verde, con dettagli impeccabili, una parrucca (sempre più cose a cui abituarsi). Aveva il viso sorridente... e lo stava esaminando. “Isaiah per favore,” e corresse il modo formale con cui Hannah si era rivolta a lui. “Solo Isaiah. Sono davvero, molto molto felice di essere qui, Signora Neumann.” Il sorriso di Hanna divenne più marcato. “Hanna per favore. Solo Hannah.”
*
Una cena può essere un evento banalissimo ma anche un’occasione degna di nota, ricca di significati evidenti ed altri reconditi. La cena dello Sabbath apparteneva al secondo tipo, specialmente se veniva organizzata a casa di un Rabbino. Si trasformava sempre in un Tish – un vero e proprio evento sociale, con discepoli che partecipavano alla cena a casa del Rabbino (spesso per lanciare sguardi furtivi alle figlie di quest’ultimo), con una benedizione iniziale e una dopo il pasto e molte parole non dette tra le varie portate. Tutto inizia, naturalmente, con la benedizione del Venerdì. “Zio Isaiah? Non indosserai uno Yarmulke[2] durante la benedizione?” Come era successo spesso in ato, i modi diretti di Rachel rappresentavano spesso una sfida per gli altri. Non era cattiva. Era la sua onestà, il suo essere esplicita, il suo modo delicato ma brusco di analizzare la realtà che le stava intorno... Contrariamente all’opinione popolare, il diavolo preferisce celarsi dietro la verità. Non alle menzogne. Isaiah, preso dallo sconforto e senza uno Yarmulke, guardò Jeremiah che era rimasto senza parole. Non aveva mai avuto un ospite che si presentasse a casa
sua sprovvisto di Yarmulke, fatta eccezione per qualcuno come... suo fratello. Il Sacerdote. Come, come aveva potuto pensare di ospitare un uomo così diverso nella sua casa? Improvvisamente le voci nella stanza si fecero più concitate, come se qualcosa si fosse sbloccato nelle sue orecchie la realtà divenne più .... ‘reale’. Ad un tratto si sentiva imbarazzato. Tutta la situazione appariva troppo surreale per essere vera e, per un attimo, mise in dubbio il fatto che gli ultimi giorni fossero reali. Forse aveva solo sognato? Forse si trattava solo di un’illusione; da lì a poco si sarebbe svegliato, madido di sudore, accanto a Hannah? Guardò verso la moglie. Lei, con grande naturalezza, aprì un cassetto del mobiletto accanto al tavolo da pranzo e, senza dover rovistare all’interno, estrasse uno Yarmulke bianco, il più grande, che aveva nascosto prima dell’arrivo del loro ospite. A differenza di Jeremiah, lei viveva in un mondo dove più della metà degli abitanti era cristiana e non tutti possedevano uno Yarmulke. Isaiah la guardò affascinato. Prese lentamente tra le mani lo Yarmulke e lo posizionò sul suo capo con cautela, sotto gli occhi attenti della ragazze. Naturalmente non era la prima volta che indossava uno Yarmulke – era capitato occasionalmente in chiesa – ma, sicuramente, era la prima volta che lo faceva prima di un pasto. Ora cosa avrebbe dovuto fare? Si sedette mentre pensava a quello che sarebbe successo e, circa tre secondi più tardi, notò che era l’unico ad aver preso posto a tavola. Rachel lo stava guardando con un leggero sorriso. Sì, sono davvero affezionato a questa ragazza. Moltissimo. Tornò sui suoi i e le sussurrò all’orecchio, come fosse un segreto, “Ora cosa succederà?” Lei non ebbe modo di rispondergli poiché Jeremiah aveva già cominciato a pregare. Isaiah ricordava qualcosa dei suoi studi ebraici e riuscì a identificare alcune parole. “Yom Hashishi... Veyachulu hashamaim veha'aretz mekol melachtam... "
Jermiah cominciò col benedire un bicchiere di vino, con tono chiaro e sicuro ma Isaiah non riuscì a stare al o. Quando tutti dissero “Amen” si affrettò ad unirsi agli altri per fare in modo che il rito fosse rispettato. Quando fu pronunciato anche l’ultimo “Amen”, quello che diede inizio alla festa, Jeremiah bevve un sorso dal grande bicchiere di vino e lo porse a Isaiah. Isaiah si trovò ad affrontare un dilemma: bere vino per la prima volto dopo trent’anni? Rifiutare ciò che suo fratello gli stava offrendo per la prima volta in cinquant’anni? Mentre Isaiah si arrovellava davanti al bicchiere che gli veniva offerto, fu ancora Hannah a risolvere elegantemente la questione prendendo personalmente il bicchiere. Jeremiah la guardò sorpreso, annuendo con la testa in segno di aver compreso. Seguì la benedizione del pane e Jeremiah ne staccò un grosso pezzo, aggiunse un po’ di sale e lo porse al fratello, alla moglie e alla figlie. Era giunto il momento di mangiare che è sempre un momento ricco di gioia ma i sorrisi intorno al tavolo svanirono quando Isaiah fissò il pane di fronte a lui con aria dubbiosa. Ora cosa accadrà? “Io... bene, Io... non ho benedetto il cibo... a modo mio...” La famiglia smise di mangiare. Naturalmente tutti gli sguardi furono rivolti verso Jeremiah. “La tua benedizione contiene brutte parole?” Isaiah ridacchiò sommessamente. “Naturalmente no...” “Bene.. cosa aspetti? Il cibo si sta raffreddando...” Isaiah a mani giunte con testa piegata in avanti, chiuse gli occhi. Con voce leggera, profonda, decisa e chiara – proprio come il fratello – cominciò la preghiera. “Ti ringraziamo, Padre, per il cibo sulla nostra tavola. Grazie per le bevande che l’accompagnano, grazie per il tetto che hai messo sopra le nostre teste. Ti ringrazio per l’opportunità che mi stai offrendo di vivere questa serata speciale, in cui sto cenando con la mia famiglia per la prima volta in cinquantadue anni. Grazie.”
Silenzio. Si udivano solo respiri leggeri intorno al tavolo e il battito dei loro cuori. Poi... “Amen.” La voce sottile di Rachel risuonò nel silenzio come una collana di perle di luce e raggiunse tutti gli occupanti della stanza. La tensione, o ciò che ne rimaneva, si dissolse completamente. L’ “Amen” che tutti udirono fu grandioso, reale e il più caloroso che si fosse mai sentito nella casa di Jeremiah Neumann. “Cosa ti avevo detto.” Aggiunse “Non è così male...” Finalmente la cena ebbe inizio.
*
Fu una cena coinvolgente, condita con domande spiritose, risposte sofisticate e dolci sorrisi. Un pasto durante quale ogni piatto conteneva una sorpresa, dove ogni boccone rivelava un nuovo modo di sapori e di meraviglie. “Allora, zio Isaiah, perché non porti da noi anche i tuoi figli?” La domanda di Rachel fece nascere parecchi sorrisi intorno al tavolo. “Non ho figli. Quando ho preso i voti e ho deciso di diventare sacerdote, ho abbandonato l’idea del matrimonio e di avere dei figli.” “Ma perché?” “Vedi, quando decidi di diventare sacerdote, ti adegui all’idea di abbandonare alcuni aspetti di questo mondo, in modo da poter essere più vicino a Dio.” Rachel sollevò le sopracciglia con un movimento che esprimeva comprensione mista a una buona quantità di dubbi. Come era eccentrico lo zio! Molto particolare. Sarah proseguì sulla strada di Rachel. “Non sei dispiaciuto non avere una famiglia?”
*
Guardando dall’esterno, dalla strada fredda e bagnata dalla pioggia, non era possibile sentire la risposta di Isaiah ma si riusciva a vedere la sua sagoma muoversi con movimenti lenti e circolari ad accompagnare le parole. Era seduto proprio di fronte a un’ampia finestra. Come tutte le altre finestre della casa era ricoperta da una tenda gialla, che lasciava filtrare la luce verso le strade buie di una fredda New York. Il freddo era pungente l’umidità alta e pioveva. I buchi più profondi nell’asfalto di Brooklyn si erano trasformati in piscine ed Eva cercò di starne ben lontana per non essere completamente bagnata dalle auto in transito. Una volta scesa dal taxi giallo che l’aveva condotta lì, trovò un angolino relativamente sicuro sul marciapiede di fronte alla casa dei genitori e guardò verso la finestra. Notò la presenza di un ospite. Un solo ospite che avrebbe incontrato nel giro di qualche minuto. Di tanto in tanto riusciva a intravedere delle figure ben distinte. Ci dovevano essere sua madre, una delle gemelle e anche Sarah. I suoni provenienti dalla strada erano svaniti e, nella mente, poteva sentire il tintinnio delle posate e dei piatti, le battute innocenti, i litigi bonari e le canzoni dello Sabbath cantate da suo padre. Le adorava così come il loro suono leggero e caloroso. Per dieci minuti restò ferma a fissare la finestra avvolta in una luce dorata, mentre rabbrividiva negli abiti leggeri. Alla fine il freddo la attanagliò e attraversò la strada, cercando di evitare i fiumi che scorrevano fra i due marciapiedi. Salì i gradini che portavano all’ingresso, spinse le porte e sparì all’interno dell’edificio.
*
Dopo alcuni secondi, uscì di nuovo, ritrovandosi sulla strada. Si fermò. Tornò di
nuovo nell’atrio e fece un o in avanti per poi bloccarsi nuovamente. Si girò nella direzione opposta. Era di nuovo sulla strada. Alzò un braccio per chiamare un taxi.
*
All’interno del tepore della casa, Sarah non smetteva di assillare il nuovo ospite. “Ma sei davvero solo... Non hai fratelli, sorelle...” Hanna decise che era tempo di mettere fine all’interrogatorio. Comunque Isaiah sembrava essere paziente e sorrideva, ma c’era un limite oltre il quale non si poteva continuare a mettere in croce il povero ospite. “Sarah non importunare Isaiah con tutte queste domande...” “Ma no, no Hannah. Va tutto bene. Chiedi pure. Sarò felice di rispondere. Isaiah guardò nuovamente la nipote. “Sì. Ero solo. Non è facile. Comunque, vedi ora non lo sono più. È un miracolo: dopo cinquantadue anni, ho un fratello, una cognata. Delle nipoti ... mi sembra di vivere in un sogno.”
*
L’incubo di Eva si attenuò nel taxi in cui, per fortuna, funzionava il riscaldamento. L’autista, che di tanto in tanto dava un’occhiata alla ragazza completamente fradicia, alzò il livello di calore nella parte posteriore del mezzo, senza chiederle nulla e senza parlare. Se la ragazza non avesse indossato subito degli abiti asciutti, pensò, si sarebbe buscata una polmonite. Però, a giudicare dalle lacrime che le rigavano il viso, continuò a rimuginare fra
sé, doveva avere dei problemi più seri. Il taxi, nel frattempo, giunse ad un piccolo hotel.
*
“Zio Isaiah, se sei il fratello di mio padre, come è possibile che tu sia Cristiano?” Rachel continuava a fare domande; non riusciva a capire, non poteva comprendere. “Bene, quando hanno portato me e tuo padre qui dopo la guerra, lui fu affidato ad una famiglia ebrea, ma io fui adottato da una famiglia cristiana. Tuo padre è stato cresciuto secondo la religione ebraica, io secondo quella cristiana e sono ciò che vedete.” "E ora che hai saputo di essere ebreo, smetterai di essere cristiano?" Jeremiah era scioccato e Isaiah si fermò con la forchetta a metà strada tra il piatto e la bocca. "Rachel!" Hannah si rivolse con decisione a quella figlia fin troppo esuberante. Isaiah sorrise, ma questa volta si sentiva a disagio. Le domande lo toccavano nel profondo in maniera inaspettata. Arrivavano persino troppo nel profondo, con eccessiva immediatezza. Esistevano sicuramente delle risposte, ma nessuna sarebbe stata abbastanza adatta a quattro ragazze ebree osservanti e, per dipiù, adatta ad essere esposta sotto gli occhi dei loro genitori. "Ah... ditemi della scuola. Che corsi state frequentando quest'anno?" La cena continuò, portata dopo portata, domanda dopo domanda e Isaiah continuò ad essere amorevole, disponibile, spiritoso, vivace, eloquente e paziente. Dopo il pasto cantarono le canzoni tipiche dello Sabbath, gustarono il dessert e si dissetarono con del tè caldo e, alla fine - come sempre accade giunse l'ora del commiato.
*
La pioggia ritornò a bagnare le strade, ma rappresentava solo un minimo impedimento per Jeremiah e Isaiah che stavano camminando attorno all’isolato per raggiungere il luogo dove Isaiah aveva parcheggiato l’auto. “Hai una famiglia deliziosa.” “Ti piace?” “Si... Ci vorrà un po’ di tempo per abituarmi. Che ragazze brillati! In particolare la più giovane.” “Rachel... sì, mi dà del filo da torcere. È solita fare delle domande inopportune.” “Dalla bocca dei piccoli...” recitò Isaiah. Il fratello non poté fare a meno di sorridere. Le domande di Rachel. Sì. È senza dubbio una ragazza sveglia, forse la più brillante delle mie figlie. Ha il dono irritante di esporre la verità senza celarla dietro nessun tipo di maschera, di arrivare sempre al punto in maniera diretta. Probabilmente ha ereditato questa attitudine dalla madre, pensò Jeremiah. Dalla bocca dei più piccoli... “Nessuno può sapere quale sarebbe stato il nostro credo religioso .....” “Per me è chiarissimo: tu sei ebreo,” rispose Jeremiah senza pensarci troppo. “Come puoi esserne certo? Ci hanno trovato in Polonia. Un paese fortemente cristiano.” “Va bene... ma stai dimenticando che la Polonia è stata una delle aree più colpite dall’olocausto.” “Ma quanti ebrei vivevano in Polonia? Duecentomila? Trecentomila?” Jeremiah, si fermò e il sorriso scomparve dal suo volto. Per la prima volta da
quanto aveva rivisto il fratello, era sul punto di perdere la pazienza. Trecentomila? Come poteva affermare un cosa del genere? “Dovresti imparare molte più cose sulla tua gente,” disse seccamente. “In Polonia furono uccisi non mento di tre milioni di ebrei.” Questa volta fu il sorriso di Isaiah a scomparire dalle labbra. I numeri di cui aveva sentito parlare erano inferiori, ma ora gli tornò alla mente una conversazione che aveva avuto con qualcuno dopo aver visto ‘Schindler List’... Tre milioni... ne sei sicuro?” Jeremiah si limitò a guardarlo negli occhi senza nessun accenno di sorriso. Isaiah considerò la cosa emettendo un lento e meravigliato sospiro. “Tre milioni di ebrei. Scusami.” “Sì. Ogni anno accendo una candela in loro memoria. In memoria dei nostri genitori.” Continuarono a camminare. “Non ho mai ato molto tempo a pensare ai miei genitori... ai nostri genitori. Ho sempre considerato i miei genitori adottivi come i miei veri genitori. Sono morti qualche anno fa. Mi sono sempre rammaricato del fatto di non aver dato loro dei nipotini.” “Hai deciso di seguire la tua strada e immagino che loro abbiano rispettato la tua decisione.” “Oh certamente. Erano molto orgogliosi di me.” “Oltretutto non erano nemmeno i tuoi veri genitori. Tre milioni di ebrei polacchi erano stati sterminati e i nostri genitori erano due di loro.” Hai delle prove?” “In realtà non ne ho bisogno.” Per un attimo, fra loro si materializzò un muro di silenzio, i loro pensieri vennero interrotti solo dai rumori provenienti dalla strada.
Alla fine Jeremiah disse. “È davvero importante?” Isaiah non rispose, si limitò a sorridere. Estrasse le chiavi dell’auto dalla tasca del cappotto e premette il bottone per disattivare l’allarme. Una delle machine parcheggiate rispose all’impulso. Jeremiah lo guardò e sorrise a sua volta. Una Honda Civic di due anni. Non poteva essere nulla di diverso.
Incubi
“Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti” (Salmi 1:1)
Era ato meno di un giorno da quando Jeremiah aveva invitato suo fratello per il pasto dello Sabbath. Meno di ventiquattro ore, ma sembrava che fossero ati mesi. La vita aveva preso un verso differente e si era trasformata in un sogno in continua evoluzione. Ogni ora lasciava il posto a quella che la seguiva, i pasti erano resi più lunghi dalle preghiere, un Bar Mitzvah seguiva un circoncisione, Jeremiah insegnava, leggeva, rifletteva e tutto quello che faceva era accompagnato da una sensazione di vivere un sogno dai contorni nebulosi. La realtà appariva come la messa in onda di un sogno irreale, di una montatura. Jeremiah se ne rendeva conto, ma non riusciva a trovare una spiegazione plausibile e nemmeno un rimedio adatto. Persino i Salmi, che recitava ogni sera meticolosamente, cominciarono a svanire davanti ai suoi occhi per trasformarsi in un’accozzaglia di parole senza significato e sequenza logica. Sembrava che si prendessero gioco di lui, che danzassero e cantassero davanti al suo sguardo. Il sogno stava prendendo il posto della realtà. I suoi sogni erano ricchi di ombre molto realistiche; erano spaventosi. Uno in particolare poteva definirsi un incubo vero e proprio, gli gelava il sangue. Si agitava nel letto nei momenti più bui, quelli che precedono l’arrivo del mattino: come sottofondo udiva le note sottili di un canto femminile accompagnati, di tanto in tanto, da rumori confusi che potevano sembrare urla e colpi di arma da fuoco. Una donna dall’aspetto esausto, stava correndo in un bosco. Probabilmente stava fuggendo. Da cosa? Jeremiah non lo sapeva ma riusciva a percepire il panico che lei provava; si sentiva paralizzato e terrorizzato. Lei continuava a correre; a volte si voltava indietro, altre volte lo fissava direttamente trasmettendogli tutta la sua disperazione senza via d’uscita. C’era qualcosa dietro le sue spalle.. qualcosa di terribile, qualcosa che la sua mente non riusciva a visualizzare. Sotto le coperte Jeremiah si muoveva con fatica, borbottando nel sonno, aprendo e chiudendo le mani. Il suo corpo si ricopriva di un sudore freddo e i suoi occhi ruotavano all’impazzata, in maniera meccanica. Nel momento in cui sperava di svegliarsi, le sue visioni lo attanagliavano come artigli più potenti della sua volontà e la donna che gli appariva immensa e familiare (molto familiare) si avvicinava a lui dandogli un leggero bacio sulla fonte per poi lasciarlo solo... il
terrore lo avvolgeva e un senso di ansia e abbandono si impadroniva di lui fino ad arrivare al culmine quando...
*
L’urlo rimbombava ancora nella sua testa, anche se era ancora imprigionato nella gola, asciutta a causa dell’ansia. Isaiah, madido di sudore, si mise seduto sul letto, esausto e terrorizzato. Il respiro si stava regolarizzando. Gli occhi misero a fuoco, con fatica, la realtà, riuscendo a cancellare ciò che era nascosto dietro le palpebre; si trovava nella sua camera da letto. Guardò l’orologio e, come se questo attendesse un suo segnale, cominciò a trillare. Le sei e mezza: era l’ora di alzarsi.
*
Isaiah non aveva dormito bene quella notte e si notava perfettamente. Le spalle erano ricurve in avanti, i suoi occhi cerchiati da occhiaie e parlava in modo più lento del normale, quasi sbiasciando. Il programma della giornata ecclesiastica procedeva con lentezza, impegno dopo impegno, minuto dopo minuto. Irrequieto, guardò verso la statua di Gesù crocifisso, che lo fissava dall’alto. Gli occhi di marmo inespressivi, però rimasero tali e Isaiah si spostò verso il grade candeliere, cecando una risposta fra il luccichio tremolante delle candele. Il Cardinale Ernest Mckinly e il suo assistente Padre Mike Sortini, lo trovarono proprio lì, inginocchiato davanti alle candele con le mani giunte, gli occhi chiusi e le labbra che mormoravano preghiere. Sortini in modo pragmatico e sbrigativo, allungò una mano verso di lui, ma il cardinale la afferrò, a mezz’aria, per evitare che disturbasse la preghiera silenziosa di Isaiah. Anche in chiesa alcune cose
conservano la loro sacralità. Aspettarono pazientemente e, dopo alcuni minuti, Isaiah fece il segno della croce mormorando le parole finali della preghiera e aprì gli occhi. Non fu sorpreso nel vedere i due visitatori. “Padre O’Connor,” disse McKinly, “ci sono giunte interessanti novità riguardo... a, ah... hmm... alla sua famiglia”
*
Jeremiah era seduto nel suo studio e cercava di allontanarsi dal mondo fra montagne di libri sacri, in mezzo a centinaia di migliaia di parole importanti. Aveva preso in mano la sacra Bibbia per la terza volta nella giornata e stava cercando di trovare in essa delle parole sagge. Genesi... Cantico dei Cantici... Libro di Ruth... Libro dei Re ... Geremia. In quel momento bussarono alla porta, sul vetro colorato. Ignorò la cosa, sperando non si ripetesse. Bussarono nuovamente, questa volta in maniera più impaziente. Sua moglie, probabilmente, aveva qualcosa di importante da comunicargli. Avrebbe dovuto alzare gli occhi dal libro? Forse poteva leggere solo un altro verso, un'altra frase... Bussarono in maniera vigorosa e dovette distogliere gli occhi dalla Torah. “Sì?” chiese con tono seccato. La porta scorrevole si mosse lentamente sul binario e dietro c’era Hanna – con Eva.
*
“Quindi, ci dica qualcosa della sua nuova famiglia.” Non si trattava esattamente di una domanda e nemmeno di un ordine. Era solo un’affermazione, senza nessun tipo di intonazione, che il Cardinale aveva pronunciato e lasciato aleggiare a mezz’aria nello studio di Isaiah. Una frase innocente. Una frase che non avrebbe potuto essere mal giudicata. “Sua Eminenza cosa vorrebbe... sapere?” Isaiah si stava comportando in maniera altrettanto cauta e la cosa non era sfuggita al Cardinale McKinly. Non era un argomento facile da approcciare, lo sapeva bene, e la posizione della chiesa sul tema era ben lontana dall’ essere chiara. Anche se al momento soffiavano venti di tolleranza e di amore universale, nessuno poteva sapere quale direzione avrebbero preso nel futuro. Il Cardinale non ne era a conoscenza e non si sentiva a suo agio. “Non è necessario che tu sia così formale, Isaiah. Siamo qui per una visita amichevole.” Queste parole risultarono irritanti alle orecchie di Isaiah. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era un’ “amicizia” con il Cardinale. Non era quello che desiderava, ma era pure sempre il Cardinale e doveva essere trattato con il dovuto rispetto. “Ma certo! Quindi cosa vorrebbe sapere?” “Prima di tutto come sono? Persone gentili?” Isaiah odiava i giochetti, anche se egli stesso era molto abile nel gioco. “Sono molto carini. Persone affascinanti.” Mckinly e Sortini rimasero pazientemente in attesa, ma la risposta era conclusa e il silenzio si stava ormai prolungando. Dopo circa mezzo minuto e uno scambio di sguardi fra McKinley e Sortini, questi ultimi decisero di adottare un approccio più diretto. “Quello che il Cardinale vorrebbe sapere è il modo in cui hanno reagito al fatto
che Lei è un sacerdote.” “Non sembra che la cosa rappresenti un problema per loro.” “Sì ma...” Isaiah lasciò che la frase aleggiasse sospesa per poi completarla. “Ma volete sapere se sono ebrei.” Nonostante fosse proprio quella la domanda, quando fu pronunciata risuonò in maniera brusca nella stanza e sembrò una richiesta maleducata. Naturalmente non alle orecchie di Sortini e tantomeno a quelle del Cardinale. “Sì,” proseguì Isaiah. “Sono ebrei. Non semplicemente ebrei ma anche praticanti, molto religiosi. Mio fratello, mio fratello gemello, è un Rabbino. Probabilmente ne siete già a conoscenza.” Il Cardinale scosse impercettibilmente la testa. In maniera non evidente, senza un movimento visibile, ma Isaiah notò l’angolazione del suo mento e il movimento fu rapidissimo. Veramente molto rapido. “Naturalmente lo sapete. Da... da quanto tempo?” Il Cardinale non rispose. Sortini continuò a fissare il pavimento. Il cervello di Isaiah ebbe un guizzo per la prima volta dopo aver lasciato la casa di Jeremiah. Non è ato nemmeno un giorno e sono già arrivati qui. Sono stati molto rapidi. Troppo. Come hanno.... “Da quanto tempo?” No era accettabile alzare la voce con un cardinale. Purtroppo troppe cose avevano ormai oltreato il confine dell’ ‘accettabile’ in questa conversazione e sembrava che McKinly l’avesse ormai capito. “Dal momento in cui sei stato ordinato sacerdote. Controlliamo sempre questo genere di cose.” Isaiah lo guardò scioccato. La voce del Cardinale era flebile, troppo tranquilla,
sempre professionale, come se stesse parlando di distribuzione di fondi o di piccolezze amministrative. “Mi dica che non è vero.” Il cardinale scosse di nuovo la testa, questa volta da destra a sinistra. Piccoli e grandi movimenti insieme. “Sempre... avete sempre saputo che avevo un fratello!” “Sì” “Allora perché ... perché...?” la sua voce si spense e riprese nuovamente. “ed ora vi state chiedendo, cosa ne sarà di me? Dovrei...” disse agitando una mano nell’aria, con un movimento imprevedibile. “Isaiah, non dovresti.” “Avete ragione!” Il suo urlo echeggiò nell’aria e Isaiah chiuse gli occhi ponendo la mano sollevata fra sé e i suoi ospiti. “Non avreste affatto dovuto!”
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Qualcuno avrebbe potuto fare in modo che tutto ciò non accadesse. Purtroppo nessuno intervenne, così Jeremiah si trovò messo all’angolo nel salotto accanto all’ufficio. Eva si sistemò seduta nel lato opposto del stanza, teneva la borsa vicino a sé e la via verso la porta d’ingresso era completamente sgombra. Le ragazze più giovani erano nascoste nelle loro stanze e Hannah si era piazzata fra il marito e la figlia, in qualità di mediatore, pacificatore. Si trovava fra due fuochi. Sarebbero state parole dure, pesanti, emotivamente forti. “Dovevo tornare qui almeno una volta prima di partire.”
“Te ne sei andata così tanti anni fa.” “Ma questa volta la meta sarà la Germania. L’esercito mi ha dato la Germania come sede. Ho dovuto imparare appositamente la lingua tedesca.” Ci volle più di mezzo minuto prima che le novità venissero metabolizzate. Jeremiah si girò verso la finestra, guardando verso l’esterno in uno stato di ira controllata. Hanna cercava, inutilmente le parole giuste. “Germania?” chiese. Jeremiah rispose. “E ora andrà a vivere con il figlio del diavolo. Che figlia ho cresciuto...” L’attacco di Jeremiah rase al suolo tutte le difese di Eva, che non si aspettava una risposta tanto cattiva. Per la seconda volta nell’arco di un’unica conversazione era sul punto di cominciare a piangere. Anche Hannah sembrava essere stata ferita dalla risposta e disse in maniera seccata “Jeremiah!” Jeremiah però era completamente assente. Continuava a guardare dalla finestra, rifiutandosi di girarsi verso l’interno della stanza, evitando di immergersi nella conversazione e di aver contatti con chi gli stava attorno. Eva e Hannah avevano gli occhi fissi su di lui, sul suo profilo barbuto, così tormentato. Così duro. Jeremiah non rispose. “Penso sia meglio che io vada...” balbettò Eva mentre si alzava. Hannah si avvicinò a lei e le prese la mano. “Eva no. Non ti vedo da tanto tempo – da quanto?” “Sei anni e non è cambiato nulla. Nulla. Pensavo che se fossi venuta qui...” Lasciò la mano della madre con delicatezza, raccolse la valigia e si avviò verso la porta senza dire una parola. Non ho risolto nulla. Non si risolverà mai nulla, pensò tra sé. Hannah scattò in piedi dopo di lei. Improvvisamente dimostrava tutti i suoi anni, gli occhi pieni di angoscia e la bocca semi aperta che non emetteva nessun suono. E Jeremiah? Jeremiah fissava il mondo fuori dalla finestra.
“Esatto! Vai!!! Avvicinati ad un mondo diverso dal nostro se devi proprio sposare un ragazzo non ebreo!” Ogni parola colpiva Eva come un fendente con forza bruta, spingendola in direzione della porta. Hannah tentò di proteggerla provando a calmare l’atmosfera e mettere fine alla discussione. “Per favore Jeremiah non...” “Zitta!” disse con voce roboante come se una voce di pari intensità provenisse dalla parte opposta della città. “Vai! Vattene via e non tornare! Non ti considero più mia figlia. Per me sarà come se fossi morta. Morta!” Con una espressione severa e completamente rosso in viso, tirò fuori la camicia dai pantaloni, la strappò come in occasione del Kri’ah, il rituale ebraico di lutto per la morte di un parente. La strappò e fu come se stesse lacerando il cuore della moglie e della figlia, infliggendo profonde ferite che sanguinavano copiosamente. “No!” Hannah gridò e, contemporaneamente, collassò al suolo. Non si aspettava tutto questo, non era preparata. Non avrebbe mai nemmeno immaginato lontanamente che si potesse arrivare a tanto. Come poteva farlo, come poteva, come poteva... pensava tra sé, ignorando qualsiasi altra emozione. Piangere una persona viva come se fosse morta è una cosa molto seria? È.. Eva rimase per un momento ferma sulla porta, incredula poi lasciò la casa senza chiudersi la porta alle spalle. Hannah scoppiò a piangere. Jeremiah aprì un volume ed iniziò a recitare un Kaddish al alta voce. “Dio infinitamente misericordioso...” Le guance erano rosse e bagnate.
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Quella sera la cena fu silenziosa e più controllata del solito. Il fatto di essere riuscita a convincere il marito a non digiunare e a non trasformare l’atmosfera in quella di un funerale, fu una magra consolazione per Hannah. Le normali conversazioni apionate e sincere, tipiche di casa Neumann, quella sera non fecero la loro comparsa e, durante il pasto, si udivano soltanto rumori di piatti,
postate e solo le parole essenziali. Persino le gemelle erano silenziose anche se, come sempre, avrebbero avuto molte cose da dire. Quando il camlo della porta suonò, tutte le ragazze desideravano alzarsi per aprire a chiunque fosse giunto ad interrompere quell’atmosfera piena di tristezza. Sarah, la maggiore, fu la prima ad alzarsi. Isaiah era sulla soglia.
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“Mi stanno dando dei problemi,” disse, mentre entrambi entravano nell’ufficio. Jeremiah aveva un’aria accigliata. Lui, come le ragazze, (e probabilmente anche Hannah) fu sollevato nel vedere il fratello. Non esiste nulla efficace tanto quanto le buone notizie per combattere la morsa della dura realtà. Ahimè, la notizia non era però così positiva. “Chi?” chiese Jeremiah e rispose da solo alla sua domanda. “La... Direzione” “Più o meno.” La cosa non sorprese Jeremiah. Un rabbino ed un sacerdote, membri della medesima famiglia, fratelli gemelli; una situazione che non sarebbe ata inosservata nell’ambito di nessuna organizzazione religiosa. Egli, dal canto suo, si aspettava di essere richiamato. Non si aspettava che la cosa accadesse subito, la settimana successiva ma, apparentemente, le procedure della Chiesa Cattolica si svolgevano con maggiore rapidità. “Non perdono tempo, i tuoi...” “Esattamente il contrario. Sapevano della tua esistenza. Lo sapevano da trent’anni.” Negli occhi di Jeremiah apparvero dei giganteschi punti di domanda. Isaiah gli raccontò della visita che aveva ricevuto; dello scambio di opinioni; della
scoperta del fatto che lo avevano preso in giro e che gli avevano mentito per anni; i sentimenti aspri che gli chiudevano la gola. “Sono al punto di partenza. Ho messo a rischio tutto il mio percorso all’interno della Chiesa, tutto ciò per cui ho lavorato nelle ultime decine d’anni. Jeremiah annuì con il capo. Perché le alte gerarchie della Chiesa hanno tenuto la cosa riservata? Per evitare il sorgere di dubbi? Per evitare fraintendimenti? Per fare in modo che tutte queste domande non fossero mai poste? Nessuno può saperlo, pensò tra sé – e non era la prima volta – forse hanno ragione.
“Vuoi smettere...?” La domanda uscì dalle sue labbra, un attimo prima che riuscisse a fermarsi. Smettere cosa? Smettere di essere fratelli? Perdere di nuovo la sua famiglia dopo cinquant’anni? Ma forse era quello che Isaiah desiderava. Lo guardò e Isaiah scosse la testa con un sorriso triste. “Tu sei mio fratello. È impossibile cambiare le cose e non lo potrebbero fare nemmeno se volessero.” “Quindi, come potrei aiutarti, Isaiah?” L’atmosfera intorno a loro assunse ancora delle sfumature intangibili, e un profumo irreale. Ricominciarono a parlare e le loro voci era come se giungessero, filtrate, da un sonno profondo e delirante. Sì Jeremiah poteva aiutarlo. C’era un modo. “Mi vergogno a chiedertelo,” disse Isaiah “Parla pure. Sei mio fratello.” Isaiah inspiro profondamente. “Dimmi... hai dei documenti riguardanti l’adozione? Documenti di cinquant’anni fa?” Sì. Li aveva conservati e, involontariamente, guardò verso la libreria. Isaiah
seguì il suo sguardo. “Sono sulla libreria... ma come potrebbero esserti d’aiuto?” “I nostri veri genitori. Voglio sapere chi sono.” Jeremiah sorrise con tristezza, in maniera identica a quella del fratello. “Non riportano nulla dei nostri genitori.” “Nulla della...?” “No. Non parlano della loro fede religiosa.” Isaiah liberò l’aria dai suoi polmoni con un singhiozzo. Non se l’aspettava ma, considerando meglio la situazione, appariva chiaro che non poteva essere tutto semplice e lineare. Come sei credulone, pensò. Aveva fatto così tanto affidamento sui quei documenti, ed ora, ora che la speranza era morta, si sentiva dentro di sé un vuoto difficile da affrontare. Si sentiva anche sconfitto. Realmente non avevano nemmeno una piccola informazione? Un solo frammento che potesse fare riferimento al loro luogo di nascita? “Io non sono stato circonciso,” disse improvvisamente. “La cosa non mi sorprende. Mi hanno circonciso all’età di circa tre anni.” “Non pensi che sia un dettaglio significativo?” “Significa solo che non era rimasto nessuno in Polonia in grado di farlo. Hanno sterminato tutti gli ebrei, Isaiah. Chi penserebbe alla circoncisione vivendo in una tale situazione di pericolo?” Isaiah non condivideva completamente l’opinione di Jeremiah, ma preferì rimanere in silenzio. Ora non c’era tempo per dibattiti di tipo filosofico. Desiderava disperatamente dei fatti concreti. Basi solide. Qualcuno che si trovasse in qui luoghi, qualcuno che avesse assistito agli eventi. Qualcuno che potesse fornire delle prove alla Chiesa e anche a lui stesso. Guardò verso la libreria di Jeremiah dove aveva già posato gli occhi in precedenza, poi guardò il Rabbino, con un’espressione di muta preghiera.
Jeremiah crollò e si diresse verso la libreria. Estrasse un fascicolo e aprì l’ultima pagina. La prima ad essere stata redatta.
Nabradosky
“Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticami? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? (Salmi:13:2) “Sei fortunato che sia ancora vivo.” Isaiah scosse la tesa e si girò a destra, verso la luce. Non era stato semplice trovare Robert White, il soldato che era stato incaricato di portali in America dalla Polonia. Negli anni il Sig. White aveva cambiato indirizzo almeno dodici volte, aveva svolto un numero imprecisato di lavori in più di uno stato. Finalmente, la fortuna decise di arridere: si trovava proprio sotto il loro naso. Non aveva avuto una vita facile, secondo quando era stato loro riferito dall’investigatore privato, ingaggiato per scovarlo. Dopo la guerra, Robert White aveva svolto diversi mestieri: muratore, idraulico, elettricista part time, ecc. sempre a tempo determinato. Non aveva mai preso moglie, non aveva figli e quando lascerà questo mondo, pensò Jeremiah, non interverranno molte persone al suo funerale. Molti degli eventuali partecipanti alle sue esequie, molto probabilmente, sarebbero stati gli altri ospiti del ricovero per anziani dove viveva, nei sobborghi del New Jersey. “Mi auguro solamente che ricordi qualcosa. È ato molto tempo,” disse Isaiah improvvisamente. Jeremiah era d’accordo con lui. Le possibilità che Robert White, ormai settantottenne, ricordasse qualcosa di così marginale, accaduto durante una guerra finita da molto tempo, erano praticamente nulle. L’idea lo fece sorridere... ma c’erano altri particolari anche più destabilizzanti. E se invece avesse avuto dei ricordi chiari? Qualcosa, dentro di lui faticava a realizzare il tutto. Aveva accettato di unirsi al nuovo fratello in questa sfida; oltre al senso di lealtà lo spingeva anche il fatto che non avrebbe creduto a nulla di quanto potesse emergere.
In un momento di onestà con se stesso, comprese che si trattava di una ricerca disperata del Mostro di Loch Ness. Sì, si trattava di una situazione piacevole ed era la cosa giusta da fare che, sicuramente, lo avrebbe distratto dal suo reale problema: la sua famiglia. Eva. D’altro canto, come è piacevole e divertente andare a caccia di mostri sapendo che non se ne troveranno. Ma cosa accadrebbe se il drago feroce apparisse all’improvviso? Fu assalito dallo sconforto. Per un attimo ebbe quasi paura. Un sentimento a lui sconosciuto – Jeremiah non lo provava da anni. Non poteva saperlo in quel momento, ma quel sentimento mai provato l’avrebbe accompagnato per tutto il resto della vita. “Isaiah... forse... forse dovremmo girare l’auto e tornare a casa? Dovremmo... dimenticare tutto?” Isaiah rimase in silenzio, tenendo gli occhi sulla strada. Il paesaggio urbano li lasciò e i noiosi quartieri residenziali ai lati della strada si fo insieme. La strada era irregolare, piena di buche nell’asfalto. Questo sottolineava il fatto che nella parte meno ricca del New Jersey l’inverno si faceva sentire maggiormente. Anche se non pioveva da giorni, nessuno si era affrettato a riparare le buche. Jeremiah proseguì. “Sono serio, pensaci... potremmo gestire diversamente tutte queste pressioni. Perché dovremmo tediare un uomo anziano con tutte le nostre domande...” Lasciò che la frase si dissolvesse nell’aria, non credendo alle sue stesse orecchie. Fu quando l’auto si fermò ad un semaforo e Jeremiah fu così gentile da guardarlo negli occhi che scorse uno strano sguardo sul suo viso. “Perché non vuoi saperlo?” Allora Jeremiah comprese. Anche lui era spaventato.
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Quando Jeremiah era molto piccolo, quando era solo un teppistello che studiava al Cheder e malmenava tutti gli altri ragazzini; prima di addormentarsi, gli piaceva stare sdraiato sul letto guardando le falene che entravano dall’esterno. Il particolare che lo affascinava maggiormente era la strana attrazione, l’attrazione pericolosa che esercitava su di loro la luce nella stanza. Non aveva una lampada speciale. No, no! Si trattava solo di una banale lampadina gialla ad incandescenza che pendeva tristemente dal soffitto appesa d un filo. Ma – oh oh come sapeva attirare le falene quella mediocre lampadina... Jeremiah avrebbe potuto are ore a guardare la luce e quelle falene di diverso tipo e dimensioni. Quanto erano attratte verso quella luce, le volteggiavano intorno, la corteggiavano – sì doveva esserci qualcosa di molto romantico, o giù di lì, pensò. Alla fine si posavano su di essa e venivano incenerite. La cosa si ripeteva ogni volta, quella danza mortale delle falene prima che toccassero il vetro e finissero la loro vita con uno sfrigolio. Questo accadeva di continuo e il tutto affascinava il piccolo Jeremiah. Cosa le portava a volare verso la loro fine? Non riusciva a togliersi dalla testa questa domanda ricorrente. Poteva Trattarsi del fatto che non riuscissero a percepire il calore della lampadina? Era una cosa ridicola. La lampadina era incandescente e Jeremiah poteva confermarlo personalmente essendosi scottato una mano tentando di scoprire esattamente cosa provocava la morte degli insetti. A quel punto sapeva benissimo cosa inceneriva le falene ma non riusciva a spiegarsi la ragione per cui continuavano a morire, ad avvicinarsi alla luce, ad essere tentate e finire abbrustolite. Cosa cercavano nella luce?
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“Solo chi assiste in prima persona ai fatti conosce veramente la verità.” Isaiah gli diede immediatamente ragione poiché nella sua testa aveva ronzato lo stesso pensiero. La Bibbia contiene una saggezza infinita e un sapere
sconfinato... spesso pensava che non ci fosse nessun livello di conoscenza che andasse oltre. Era insuperabile, non solo a livello della conoscenza; egli si domandava anche se fosse veramente esistita una vera ‘vita’ prima dei giorni narrati della Bibbia. Durante le loro esistenze gli uomini non sperimentano altro che percorsi già scritti dalla vita e aggiungono, forse, solo delle nuance alla propria versione dell’esistenza, come il ‘dove’ e il ‘quando’. “L’albero della Conoscenza o L’albero della Vita,” annuì pacatamente. “Quale dei due scegli?” Silenzio. Poi, “Bene, siamo arrivati.” Anche Jeremiah fu sollevato dal cambio di argomento. Ci sono domande a cui non si può dare la giusta risposta o, per lo meno, una risposta valida. Guardò l’imponente casa di ricovero statale mentre parcheggiavano l’auto. Un grande edificio che in ato era stato un ospedale, una scuola (o una casa di accoglienza...) ed ora era adibita al ricovero di persone avanti negli anni, in attesa che la morte li avvolga nel suo abbraccio. Jeremiah poteva percepirne l’odore, odore di decadimento, anche se l’edificio era in condizioni ottime, pulito. Si percepiva il tipico odore delle corsie degli ospedali, o meglio di quelle dei padiglioni dei reparti di geriatria o oncologia. Detergenti scadenti, disinfettanti e vario materiale umano. Un uomo anziano, che stava eggiano nei pressi dell’ingresso, li fissò con occhi apatici.
*
L’odore fievole di morte si fece più pungente appena si addentrarono nell’edificio. L’ingresso era l’archetipo di quelli delle antiche costruzioni statali: eccessivamente vuoto, esageratamente pulito, troppo spoglio e troppo triste. La stanza era arredata con un numero imprecisato di vecchi e alcune persone anziane li occupavano. Leggevano qualcosa, suonavano o non facevano nulla
tranne contare i minuti che restavano loro da vivere. C’era anche un’impiegata al banco della reception, con una uniforme da infermiera (Jeremiah era pronto a scommette che non si trattasse di una vera infermiera) che era impegnata a risolvere dei cruciverba. Jeremiah e Isaiah attraversarono la stanza, attirando gli sguardi degli ospiti. La cosa risultava divertente. Jeremiah non era ancora abituato all’attenzione che suscitava quando si trovava in compagnia di Isaiah. Un rabbino? Non era particolarmente degno di attenzione, ma un rabbino in compagnia di un sacerdote? Era un vero spettacolo! In questo caso però, percepiva che l’attenzione era di una tipologia differente da quella suscitata abitualmente. Gli anziani non si stavano chiedendo chi fossero. No, no si chiedevano: “Per chi sono qui?” La pseudo infermiera alzò gli occhi dal giornale di parole incrociate, osservando i due fratelli con i suoi occhi cerchiati da occhiaie pesanti, sul viso paffuto. Nessuno l’aveva informate del fatto che oggi fosse avvenuto un decesso e tantomeno due. Per quale altro motivo avrebbero dovuto trovarsi in quel luogo due religiosi? “Siamo qui per incontrare il Sig. Robert White,” disse Isaiah. Sorrisero e l’infermiera fasulla alzò lo spesso sopracciglio in segno di evidente espressione interrogativa. Poteva scommettere di averlo visto camminare lì intorno circa mezz’ora prima... oppure era accaduto ieri. “Bobby? Va tutto bene?” chiese prudentemente. “Spero vivamente di sì.” La pseudo infermiera si rilassò. Non sopportava che si verificassero dei decessi durante il suo turno di lavoro; troppa confusione. Desiderava are le sue otto ore in un clima di tranquillità, per non parlare del fatto che la composizione del cruciverba stava procedendo a gonfie vele e non voleva perdere il momento propizio. Ed ecco arrivare Bobby in carne ed ossa! Lo vide mentre usciva dal bagno comune, lo indicò e si tuffò nuovamente nel
mondo delle parole incrociate.
*
Il giardino sul retro del caseggiato era sorprendentemente ampio e ben tenuto, ricco di alberi rigogliosi, cespugli fioriti e ricoperto di erba verdeggiante. Nel caso in cui gli ospiti desiderassero svolgere qualche tipo di attività, quello era il luogo adatto. “Così siete i due piccolini che ho portato qui dalla Polonia?” disse Robert White mentre li fissava. Era basso di statura, circa un metro e cinquanta centimetri con il viso rugoso ma ancora in grado di camminare con le sue gambe. Si avvaleva soltanto dell’aiuto di un bastone che teneva nella mano destra. Il vecchio soldato li guidò nella parte più remota del giardino, dove l’odore oppressivo di edificio in decadimento spariva quasi del tutto. Si trattava di un luogo in cui egli riusciva a respirare – lo definì in questo modo – e Jeremiah capiva perfettamente ciò che intendeva dire. Durante gli interminabili momenti in cui vagarono tra i viali del giardino, lui rimase in silenzio e i due fratelli non lo disturbarono. Gli raccontarono dettagliatamente chi fossero, cosa fero, perché fossero giunti in quel luogo e quanto fosse interessante per loro incontrarlo in quel giardino, dopo aver seguito le sue trace per l’intero continente. Robert si limitò a scuotere la testa, esprimendo comprensione con gli occhi e guidandoli verso il luogo in cui riusciva a respirare. “Siete cresciuti,” disse sorridendo, osservandoli da capo a piedi e i gemelli sorrisero a loro volta. “Un sacerdote e un rabbino... sarebbe un inizio perfetto per una barzelletta.” “Sì. Però questa volta non si tratta di una barzelletta,” disse Isaiah. “Vero. Uh... se avessi saputo che sareste diventati così religiosi vi avrei lasciato dove vi ho trovati” rise sommessamente fra sé.
“Perché?” Robert scrollò le spalle anche se la risposta era ovvia. “La religione. La fonte di tutti i problemi del mondo: morte, odio.” “Non è così.” Isaiah si apprestava a rispondere ma l’uomo lo zittì con un gesto evidente e sprezzante.” “Sei giovane ma imparerai. La religione... porta distruzione. Odio. Tutto quello che ho visto durante la guerra.” Giunsero alla panchina sul fondo del cortile e Robert si lasciò andare pesantemente. Dopo aver riflettuto un momento si sedettero accanto a lui, uno sulla destra e uno sulla sinistra. “Sapete, quando sono arrivato qui, tutto questo non esisteva.” disse indicando il giardino. “È lei l’artefice?” Chiese Jeremiah con aria sorpresa. Sarebbe stato troppo per una persona anziana pur talentuosa o attiva che fosse. “No, no...” Robert sorrise. “Ha costruito tutto lo stato, io ne beneficio soltanto.” “Un giardino assolutamente fantastico,” disse Isaiah, cercando di non far trasparire la sua impazienza. Le persone anziane riescono ad essere così... fuori dal tempo. “Quando un uomo arriva alla mia età, impara ad apprezzare le cose belle della vita.” “Ma... lei ha visto anche cose molto meno belle.” Robert guardò Isaiah e questa volta gli occhi erano limpidi, più interessati, più vicini alla realtà. A dispetto di ciò che Isaiah desiderava, in qualche modo sembrava egli non volesse compiacerlo. “Signor White...” “Chiamami pure Bobby.”
“... Bobby. Noi vorremmo veramente conoscere cosa accadde quando ci trovò e dove.” “Bobby sogghignò nuovamente. “Bene, guarda due cuccioli ... che cercano le loro radici...” Improvvisamente guardò vero Isaiah, muovendo il dito indice in modo quasi minaccioso. “Ho una notizia per voi. Non avete radici. Non sembra nemmeno che ne abbiate avute.” Il tono basso e intimidatorio rese le sue parole di ghiaccio. Oppure, forse, fu la sfumatura della voce di Bobby, che divenne improvvisamente cupa. Forse fu il vento pungente che aveva, improvvisamente, cominciato a soffiare tra le mura del giardino oppure la combinazione di tutti i fattori che colpì profondamente Jeremiah al cuore, facendo rinascere in lui un sentimento che lo portò a desiderare ardentemente di essere lontano da quel luogo, chiuso nel suo rassicurante studio-rifugio in compagnia dei suoi amati libri. Ma Isaiah non si arrese. “Ci farebbe piacere se lei potesse anche solo dirci il nome del luogo in cui ci ha trovato in Polonia.” Bobby cominciò a muoversi nervosamente sulla panchina. “È ato troppo tempo... cosa vi fa pensare che io ricordi ancora tutto?” “Non ricordi più nulla?” Per la prima volta Isaiah si rese conto, chiaramente, che stava per scoprire una parte delle verità celate nella mente di quell’uomo. Non può mentire, pensò. Devo solo porre le domande giuste. Gli lanciò uno sguardo prolungato ma rilassato. Alla fine, Bobby guardò verso il basso. “No. Non mentirò. Mi ricordo esattamente dove vi trovai. Due neonati che piangevano sotto un albero.” Jeremiah, seduto dall’altro lato, sentì il cuore sobbalzare. Non si sentiva completamente parte del disegno del fratello, determinato a scoprire la verità, quindi riusciva a cogliere tutte le sfumature della voce di Bobby. Ricordava. Eccome se ricordava - senza capire esattamente come fosse possibile – ma ricordava i momenti ati sotto l’albero. Il momento in cui vide entrare nel suo
campo visivo un giovane viso dall’espressione amichevole. Improvvisamente desiderò essere vicino alla madre. “Per noi è importante sapere da dove veniamo,” continuò Isaiah perseguendo il suo obiettivo, che non era lo stesso di Jeremiah. “Credetemi, non desiderate saperlo veramente. Scordatevi di tutto. Non scoprirete nulla o se accadrà andrà a vostro discapito.” “Di cosa stai parlando?” La voce di Isaiah si era trasformata quasi in pianto. Era così vicino, quasi assaporava la vittoria e Robert White continuava a prendersi gioco di lui! “Signor White, questa informazione è molto importante per noi. Speravamo...” “Cosa speravate?” Il tono della voce di Bobby si era fatto più acuto e pieno, un severo rimprovero. Non il rimprovero di un uomo anziano, ma di un uomo saggio. Isaiah fece una pausa e Bobby si alzò in piedi. “Cosa pensate possa attendervi in Polonia? Soltanto grosse sofferenze, dispiaceri e morte. Non dovreste andarci. È un paese maledetto!” Il suo viso si era arrossato e le mani stavano tremando. Una vena del collo si gonfiò e, per un attimo, la cosa destò la preoccupazione di Jeremiah. Nonostante tutto Isaiah continuava parlare come se nulla fosse. “Forza, il Papa è polacco. Perché definisci quella terra ‘maledetta’? Bobby lentamente si calmò. Poi silenzio. Un silenzio interminabile. “Volete davvero andarci?” “Sì” Bobby si girò verso Jeremiah, si protese verso di lui, guardandolo direttamente negli occhi. “E tu – vuoi davvero sapere cosa ti aspetta una volta arrivato in quella terra?” Jeremiah esitò per un attimo. Infine disse, senza riflettere, “Siamo insieme.”
“In questo caso vi dirò tutto. Vi indicherò come raggiungere il luogo che desiderate. Ve lo dirò. Prima di tutto,” respirò profondamente, “dovete raggiungere Varsavia...”
*
Per più di due ore l’uomo continuò a descrivere la strada. Due ore di spiegazioni dettagliate, due ore di parole che giungevano fino al cuore di Jeremiah in maniera toccante, parole che l’avrebbero accompagnato per tutto il resto della vita. La descrizione fu fatta in maniera accurata, come fosse una vera e propria immagine di quei luoghi. Non tralasciò nessuna curva del percorso, nessun particolare, nessuna città, come avrebbe fatto un predicatore. Come un... L’uomo ricordava tutto come se stesse descrivendo la sua eggiata giornaliera nel giardino e non una campagna di guerra condotta cinquant’anni prima. Potrà sembrare starano ma, una settimana dopo, quando entrambi atterrarono a Varsavia, fecero maggiormente affidamento alle sue parole che a quelle di Nicolas, la giovane guida che avevano contattato – come, naturalmente, aveva loro raccomandato Robert White. “Una volta giunti a Varsavia organizzatevi con una guida. Un interprete. Non è importante che sia giovane, della nuova generazione. La Polonia è una terra maledetta per gli stranieri, più sinistra della Russia, più infernale dell’inferno stesso. In particolar modo per gli ebrei. Il comportamento dei polacchi è stato peggiore di quello dei nazisti e sono certo che la cosa non sia del tutto cambiata. Comunque, prendete un treno per una città che sicuramente avete già sentito nominare: Auschwitz. Riconoscete il nome? Per voi sarà solo l’inizio. Solo l’inizio.” “Noleggiate un’auto. Non una costosa macchina occidentale; in Polonia comportatevi come i polacchi. Noleggiate una Lada Jeep – è l’unico veicolo che riesce a digerire il combustibile che vendono in loco e che riesce a raggiungere i luoghi dove dovrete dirigervi.” Boldistooik non era più una piccola cittadina, come in ato, ma bastò un’occhiata alla vecchia stazione di servizio e alle auto tipiche del luogo per fare
apprezzare a Jeremiah la Lada di costruzione sovietica. Le altre auto apparivano troppo delicate per poter funzionare con il carburante di bassa qualità in vendita in quei luoghi. Durante il tragitto non staccò mai lo sguardo dal fratello, che appariva veramente sconvolto dopo la visita ad Auschwitz. Entrambi visitarono il campo per la prima volta, ma Jeremiah sapeva dell’esistenza di quel luogo, aveva visto delle fotografie e visto dei film sull’argomento. Per Isaiah, al contrario fu come un sferzata in pieno viso. L’esposizione di scarpe e capelli, il modo sistematico in cui i loro persecutori avevo cercato di cancellare il mondo in cui vivevano... fu un shock che Isaiah viveva profondamente, sulla sua pelle come fosse un fatto personale. Sì, sì... è ebreo, pensò tra sé, e lo sono anch’io. Al momento era particolarmente interessato ad un gruppo di ragazzini vivaci che stava visitando il campo. Non aveva mai visto nulla di paragonabile. Ragazzini abbronzati, in salute con visi abituati a sorridere. Quel giorno, in quel luogo però, erano divenuti molto seri. Sono ragazzini polacchi, si vedeva al primo sguardo. Solo dopo averli sentiti parlare, capì chi realmente fossero. I suoi occhi brillarono e, sorprendentemente, un sorriso gli apparve sul viso. Israeliani! Magnifico. Non hanno dimenticato il loro ato... non hanno tradito il loro retaggio. Per un momento pensò di tenere la notizia solo per sé ma poi diede una gomitata leggera nel girovita del fratello (un movimento tanto naturale e, nel contempo così strano) e gli sussurrò alcune parole all’orecchio. arono metà della giornata fra le baracche di quel complesso di sterminio, seguendo il gruppo di ragazzini israeliani che li trovavano talmente interessanti da arrivare a fissarli con sguardi curiosi. Uno di loro, un ragazzo alto dai capelli rossi, cercò di cominciare una conversazione con lui, in un inglese stentato. “Siete fratelli?” chiese in maniera diretta e quando venne a conoscenza della risposta, si limitò ad un cenno di assenso, senza porre ulteriori domande. “Da Boldistooik procedete in direzione di Birkenau. Un altro luogo tristemente famoso. Potrete fare una sosta nei pressi di Auschwitz, non a Birkenau. Non sarebbe possibile. Dirigetevi verso destra quando arriverete ad un cartello su cui compare l’indicazione ‘Docniah’. “Dovrebbe essere una strada di campagna, di tanto in tanto coperta di fango. Dopo esattamente trentasette chilometri – non miglia, chilometri! – girate a
sinistra con la jeep seguendo un piccolo sentiero che generalmente viene percorso solo da pecore..” Solo a questo punto la descrizione di Robert White si rivelò errata. Il piccolo sentiero si rivelò una strada asfaltata di tutto punto e il cartello di legno un rettangolo di alluminio su cui appariva una scritta rossa “Nabradosky – 40 miglia.” La strada si snodava fra due montagne, saliva, scendeva per poi scomparire dietro ad esse. Un grosso camion li sorò, lampeggiando con i fari per fare in modo che si mantenessero sul lato destro della strada. I camion non rallentano mai per controllare se le auto rimangono sul lato destro a tutti gli effetti. “Ora, si possono trovare tutte le informazioni sulle mappe ma comincerete a capire cosa vi aspetta solo una volta giunti in Polonia. Io lo so bene. Ho percorso quelle strade durante la guerra. “Giungerete ad un’area rurale, in una regione remota. Non ci sono linee telefoniche e neppure elettricità. Se porterete con voi un telefono cellulare, faticherete ad agganciare le linee. Provateci...” Avevano dei telefoni cellulari e la ricezione si rivelò eccellente per non parlare dell’elettricità e delle linee telefoniche che furono a loro disposizione per tutta la durata del viaggio e oltre. Senza dubbio Nabradosky si era evoluta molto negli ultimi cinquant’anni. “Ad un certo punto il sentiero si allarga e dopo due ore di precorso giungerete ad una collinetta che sovrasta un piccolo villaggio. Non più di venti, piccole case, antiche, costruite con pietre. Riconoscerete il posto. Vedrete tre pini imponenti, se esistono ancora.”
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Erano arrivati. Tre grandi alberi, o meglio, due alberi rigogliosi e, accanto ad essi, un tronco
tagliato, dal diametro ampio, che il tempo e gli anni avevano eroso, rendendolo simile a una lapide. Nei pressi degli alberi sorgevano ancora alcune piccole casupole, sparse, dall’aria antiquata, costruite in maniera grossolana con sassi, senza malta. Alcune erano completamente fatiscenti ma altre mostravano ancora qualche segno di vita: biancheria appesa al sole sul punto di tramontare, qualche pollo che beccava tra il fango bagnato dalla neve e qualche catasta di legna da ardere. Jeremiah si guardava intorno in maniera dubbiosa. Si trattava sicuramente di un ambiente rurale, rimasto indietro nel tempo, in netto contrasto con la strada moderna che ava lì accanto e si addentrava nella città di cemento che si trovava nelle vicinanze. Nicolas – lo stesso ragazzo che stava facendo loro da guida da parecchi centinaia di miglia – rallentò nei pressi del villaggio e riusciva a percepire gli sguardi pacati dei due fratelli. All’interno del veicolo regnava il silenzio ma nelle orecchie del rabbino e del sacerdote risuonavano ancora le parole di Robert, pronunciate prima che si accomiatassero. Parole di monito. Un cartello chiaro e insignificante diede loro il benvenuto a Nabradosky. Nicolas stava per cominciare a dire qualcosa, ma poi notò lo sguardo dei fratelli. Non avevano necessità di sapere qualcosa di più. Schiacciò l’acceleratore e la grigia città li inghiottì. “Così questa è Nabradosky,” disse Jeremiah fra sé. “Sì. Una nuova strada,” disse Nicolas con un pesante accento polacco. “Scusa?” “Nuova strada. È il significato del suo nome.” “Oh.” La notte calò rapidamente e si accesero le luci della città. La Lada stava percorrendo le strade deserte della zona industriale, che cominciavano ad essere bagnate dalla pioggia. Per più di venti minuti vagarono per le strade scure. Non incontrano nulla che fosse degno di nota tranne un gruppetto di giovani ubriachi. “Dove si trova l’hotel che ti abbiamo indicato?” Chiese Jeremiah con voce leggermente stanca.
“Lo raggiungeremo tra circa un minuto.” Nel giro di tre minuti erano parcheggiati di fronte ad un hotel a due piani, ben illuminato. Al pian terreno si trovava un pub molto rumoroso dotato di una potente illuminazione a luci gialle. Nonostante la pioggia stesse diventando più intensa, le persone continuavano ad entrare nel pub, ingoiati dalla luminosa porta. “Dobbiamo entrare?” “Non abbiamo molta scelta, non è vero?” borbottò Isaiah e tutti e tre cominciarono ad estrarre i bagagli dal baule dell’auto.
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I suoni che provenivano dal pub aumentarono di intensità drammaticamente una volta che furono entrati. Alcuni altoparlanti mal funzionanti trasmettevano musica rock in una gutturale lingua polacca, obbligando gli avventori a comunicare ad alta voce. Luci gialle, provenienti da svariate lampadine, illuminavano i tavoli di legno ruvido che erano sparecchiati – coperti da uno spesso strato di unto. Poteva sembrare una via di mezzo tra una mensa aziendale e una taverna medievale. Stipate nel locale affollato c’erano circa un centinaio di facce con barba lunga e baffi folti, persone umili dalle mani e visi sporchi che emanavano un cattivo odore di cipolle e alcool. Molti di loro giocavano, fra un bicchiere e l’altro a giochi di vario tipo: backgammon, carte e scacchi. Jeremiah e Isaiah, leggermente sorpresi dal rumore e dalla puzza, si fermarono sulla porta, senza essere notati. Nicolas, comunque, entrò e iniziò a parlare, gesticolando, con un uomo corpulento che indossava un grembiule bianco, molto sporco. Nell’ambito della discussione l’uomo annuiva con un gesto del capo mentre indicava la scala a chiocciola sul retro del pub. Nicolas tornò verso di loro attraversando la sala affollata. “Venite pure, abbiamo una stanza libera,” disse a voce alta per farsi sentire.
Presero i loro bagagli e cominciarono a camminare faticosamente verso le scale. Jeremiah, non ne era sicuro ma ebbe l’impressione che il rumore si fosse affievolito. Gli schiamazzi calarono. Soltanto gli altoparlanti continuarono ad emettere i loro suoni. Egli si guardò intorno. Gli avventori del pub interruppero tutte le attività e lo fissarono freddamente. Le carte vennero appoggiate sui tavoli. Le partite di scacchi vennero dimenticate per un momento. I bicchieri di Vodka, gelarono nell’aria. Tutti gli sguardi si posarono su Jeremiah e non tutti erano amichevoli. “Zyd”. Una voce roca giunse dal fondo del locale. Ebreo. Alcune persone, sedute ad un grande tavolo, girarono lo sguardo. Il tavolo era più pulito degli altri ed era occupato da persone anziane, di circa settanta o ottant’anni, stimò Jeremiah. Gli otto anziani lo stavano fissando, scuotendo lievemente il capo. “Zyd.” Questa volta la voce giunse da un altro angolo del pub e si udirono sussurri di assenso. L’uomo che era entrato nel pub era ebreo senza ombra di dubbio e poteva essere comodamente identificato da chiunque. Cosa ci faceva lì? Non si sapeva. Si trattava di una cosa positiva? Naturalmente no. Uno degli uomini anziani prese in mano la caraffa di legno, bevve un abbondante sorso e la sbatté con forza sul tavolo. Immediatamente il rumore nella stanza tornò al livello iniziale. Le carte tornarono a girare, i soldati continuarono i loro giochi e litri di alcolici ricominciarono a riversarsi nelle gole assetate. L’atmosfera tornò ad essere la solita e i tre continuarono il tragitto verso le scale, ma solo dopo che il rumore fu attutito dal pavimento sotto ai suoi piedi, Jeremiah si ricordò di respirare.
*
Tre rampe di scale e un lungo tragitto fino all’ingresso portarono Eva e Miguel all’appartamento che avrebbero occupato negli anni a venire. La porta, come tutte le altre nell’edificio, era in legno, molto lineare su cui appariva il numero 307. Eva appoggiò i loro bagagli a terra e slacciò la giacca. A causa del clima molto freddo di Amburgo, lei e Miguel dovettero avvolgersi negli abiti più pesanti che riuscirono a trovare. Nonostante la temperatura esterna fosse molto bassa, l’interno dell’edificio era ben riscaldato e il fatto di essere saliti e scesi per ben tre volte dalle rampe di scale contribuì a farli sudare. “Eccoci qui,” disse Miguel pacatamente. Eva non era di buon umore. Aveva combattuto duramente per ottenere questo lavoro, in questo luogo, in questo appartamento a fianco del suo uomo. Aveva lavorato strenuamente, stretto i denti e combattuto per il suo diritto di trovarsi qui e, improvvisamente, la porta di legno sembrava avere poco senso. Ne era davvero valsa la pena? Miguel aprì la porta chiusa con la chiave che aveva ricevuto dal sovraintendente. Entrarono nel tipico appartamento-studio, molto simile a tutti quelli dove ognuno di loro aveva già vissuto durante i precedenti spostamenti. Una camera, non molto ampia, ammobiliata in stile militare con due letti singoli uniti, un cassettone, una scrivania ed un piccolo tavolo da pranzo. Un minuscola cucina era ubicata nell’angolo opposto alla porta di ingresso. La presenza di una piccola porta sul lato suggeriva l’esistenza di una stanza da bagno. Mentre Eva esaminava l’appartamento, Miguel trovò il tempo di liberarsi del cappotto e di testare la qualità del materasso. Non era dei migliori, ma non gli importava. Chiuse gli occhi e sorrise. Era stato un viaggio maledettamente lungo! Eva si sedette accanto a lui con aria pensierosa. Fissava il vuoto mentre tentava di organizzare i pensieri. Immagini lontane le apparivano come dei flash, udiva sussurri di voci lontane. Aveva la sensazione di dover ricordare qualcosa... ma cosa? “Va bene. Parliamone.” La voce leggera di Miguel che sussurrava molto vicino al suo orecchio, la fece sorridere in maniera imbarazzata. “Dai, smettila. Sei stata silenziosa per tutto il volo, dal momento in cui sei tornata da casa dei tuoi
genitori. Cosa è successo? Non ha accettato di parlare con te nemmeno questa volta?” Non era esattamente quello che accadde, pensò. Aveva così tante cose da dire e così poche persone a cui confidarle. Improvvisamente si rese conto che, a dispetto di quello che poteva sembrare, Miguel non faceva veramente parte della sua vita. Non ancora. “Ho un nuovo zio.” Disse lentamente. Miguel non era sicuro di aver capito. “Sembra che mio padre abbia un fratello gemello. Non sapevamo della sua esistenza fino ad oggi. Io non l’ho visto... me ne ha parlato ma madre.” Non era sicuro che lei stesse parlando seriamente. A volte il suo senso dell’umorismo era bizzarro. Non tipicamente ebraico – come quello di Woody Allen o Steinfeld. No, era differente. Al limite del macabro. Recitava diversi ruoli con lui. Alcune volte pensava che esistesse più di una Eva. Credeva che una persona diversa lo stesse guardando con i suoi bellissimi occhi mentre si prendeva gioco di lui. “È una bella notizia... vero?” “Penso di sì, ma è anche una notizia particolare. Mio zio è ... di religione cristiana. Un sacerdote.” “Mio Dio! Proprio come me...” “Sì. Pensi che questa cosa lo renderà più comprensivo? Ti sbagli.”
*
Al secondo piano dell’edificio si trovavano quattro stanze disposte lungo un corridoio. Nella prima viveva Shuga, il gestore della locanda, che li stava accompagnando. Mentre camminavano bussò pesantemente alla seconda porta. Uscì una donna anziana e sdentata che appariva confusa. Fece un cenno di assenso col capo e tornò nella stanza.
La più piccola della stanze che rimanevano era di Nicolas. Egli entrò con due valigie e Kristzha (Jeremiah aveva sentito Shuga rivolgersi alla donna anziana usando questo nome) dopo aver visto Nicolas entrare nella piccola stanza, estrasse un’altra chiave e aprì la porta della camera attigua. La stanza era più ampia ed evidentemente anni prima era stata importante. I muri erano coperti con un’antica tappezzeria di raso, impreziosita da paesaggi boschivi ricamati. Vicino ad una parete era stato posizionato un cassettone in legno intarsiato. Il comò era coperto da una tovaglietta in pizzo bianco, su cui erano sparse delle tipiche statuette di porcellana che ritraevano contadini al lavoro, mucche e polli. Su ogni lato del cassettone c’erano due letti molto semplici, in ferro, dotati di materassi sottili, privi di lenzuola. Kristzha pronunciò alcune parole incomprensibili, sorrise con la sua dentatura rada e lasciò i fratelli soli nella stanza. Isaiah parlò per primo, indicando il pavimento. “Non sono felici che tu sai qui.” “L’ho notato.” Cominciarono a disfare i bagagli in silenzio, ognuno si occupava dei propri. Jeremiah notò con la coda dell’occhio, qualcosa che Isaiah stava estraendo dalla sua borsa: la Torah. Avremmo potuto risparmiarci qualche chilo, pensò mentre appoggiava la sua copia sul letto e preparava il suo pigiama. Bussarono delicatamente alla porta e Isaiah, che era il più vicino, si avvicinò per aprirla. Quando Jeremiah riconobbe l’uomo alla porta, ebbe di nuovo un tuffo al cuore. Si trattava dell’uomo anziano che era al pian terreno. Il padre di “Zyd”. Visto da vicino risultava ancora più impressionante. Alto circa un metro e ottanta, molto magro, fronte ampia, occhi di un blu brillante, naso aquilino. Era abbigliato in modo leggermente più formale rispetto ai tutti gli ubriaconi presenti al piano inferiore. Secondo Jeremiah poteva avere circa settant’anni, ben portati. Rimase fero sulla porta, sorridendo. “Scusi. Non parlo polacco...” Jeremiah utilizzò le uniche parole che conosceva nella lingua locale.
“Possiamo parlare in Inglese,” rispose in un inglese praticamente perfetto, senza nessun tipo di accento. Jeremiah sorrise imbarazzato. Non si aspettava nulla del genere e si sentiva a disagio. L’uomo rimase fermo per circa trenta secondi, sempre con un sorriso amichevole sulle labbra, in attesa di essere inviato ad entrare. Dove è finita la mia buona educazione? “Naturalmente! Entri pure,” disse facendo un cenno con la mano. Il vecchio entrò zoppicando, aiutandosi con un lungo bastone. “Grazie. Grazie molte,” disse. “... e benvenuti a Nabradosky. Mi chiamo Jerric e... piacere di conoscervi.” Era molto gentile e sorridete, ma Jeremiah non riusciva ad ignorare i suoi occhi. Apparivano freddi e il suo sguardo spaziava nella stanza come se stesse cercando qualcosa di nascosto. Poi gli occhi si soffermarono su Isaiah. “Benvenuti a Nabradosky,” ripeté. “Grazie,” rispose Isaiah e allungò la mano per stringere la sua. “Isaiah O’Connor.” “Jeremiah Neumann.” Jerric strinse la mano ad entrambi. La sua mano era calda, secca e molto ferma. Una mano di una persona forte. “Mi dispiace di essere sembrato rude qualche minuto fa. Semplicemente non siamo abituati a vedere dei turisti da queste parti. Vi fermerete molto?” “Uh... non sappiamo. Dipende?” “Dipende da cosa, se posso permettermi?” Jeremiah e Isaiah si scambiarono uno sguardo. Pensavano la stessa cosa e riuscivano a leggersi nello sguardo a vicenda. Apparentemente, anche Jerric si rese conto dell’intesa e sorrise in maniera
evidente. “Può darsi... può darsi che io possa esservi di aiuto. Ho molte conoscenze da queste parti.” Ne sono certo - un voce interiore risuonò nella testa di Jeremiah. Sentiva di non poter fidarsi di lui, anche se non lo conosceva affatto. Quell’uomo gli faceva venire i brividi, fin dal primo incontro al piano inferiore, fin dal primo sguardo sulla porta. Non gli piaceva il modo in cui sorrideva. Non lo convinceva la sua stretta di mano, ma come disse l’uomo, era ben introdotto. Era un punto di partenza. “Probabilmente sì. Lei vive qui da molto tempo?” “Fin dalla nascita.” Bussarono di nuovo alla porta e Kristzah entrò con le braccia cariche di lenzuola bianche piegate, alcune salviette e due coperte pesanti. La pila della biancheria copriva gran parte del suo campo visivo e non riusciva a vedere Jerric. Finì addosso a lui e per poco non lo face cadere sul pavimento. Jeremiah sorresse Jerric per evitargli la caduta, ma le coperte caddero a terra sul pavimento di legno e su uno dei due letti. Jerric sprizzava rabbia da tutti i pori e pronunciò una serie di frasi che risuonavano come ordini misti ad imprecazioni. Kristzah li interpretò quasi come una punizione fisica: abbassava la testa ogni volta che Jerric alzava il tono di voce. Si abbassava sempre di più come un cane bastonato per poi sollevare lo sguardo impaurito verso l’alto. Poi, per la prima volta, si accorse della presenza di Jeremiah. Spalancò gli occhi, incredula e poi ...sembrò quasi spaventata o qualcosa di simile. All’improvviso fece il segno della croce, in maniera ansiosa e cominciò a borbottare qualcosa in lingua polacca, ripetendo spesso il nome di Santa Teresa. Jerric era furioso. Sospirò profondamente e impartì perentoriamente altri ordini in polacco a Kristzah, in maniera aggressiva. L’effetto fu immediato. Kristzah si bloccò, cominciò a raccogliere le lenzuola sparse nella stanza e le posò sul letto. Per tutto il tempo Jerric non staccò gli occhi da lei, monitorando ogni suo movimento, mentre i due fratelli rimasero fermi, troppo confusi per parlare. Notarono nuovamente quanto fosse fredda e
dura l’espressione del volto di Jerric. Kirstzah finì di sistemare le lenzuola e fuggì dalla stanza. Come per magia, il sorriso tornò sul viso di Jerric mentre si rivolgeva ai fratelli in segno di scusa. “Perdonate Kristzah... gli abitanti del villaggio hanno ancora molto da imparare.” “Penso di ricordare che anche lei sia originario di questi luoghi?” disse Isaiah seccamente. “Giusto. Io, però ho frequentato l’Università, ho studiato diverse lingue... conosco qualcosa del mondo.” “Allora sarà certamente in grado di aiutarci. Siamo interessati alla storia della vostra città. Specialmente ai fatti accaduti durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale.” Il sorriso di Jerric gelò impercettibilmente, ma in maniera visibile. “Durante la Seconda Guerra Mondiale. Perché?” Jeremiah sospirò in maniera evidente. Dovrei Dirglielo? Dovrei assumermi il rischio? D’altra parte siamo venuti fino a qui per reperire delle informazioni... non dovrebbe essere un’impresa così difficile...solo una semplice richiesta di informazioni... da un altro punto vista... c’è qualcosa di poco chiaro in questo Jerric. Dovrei dirgli tutto? La questione è così importante?” Lo sguardo che si scambiarono i due fratelli confermò che lo era effettivamente e la decisione fu presa. “Perché? Apparentemente noi siamo nati qui come lei. Durante la Guerra.” Le parole fluttuarono nell’aria per alcuni interminabili secondi. La frase, pronunciata in questo contesto, assunse una nuova dimensione. I significati reconditi di quelle parole, che i fratelli non avevano ancora compreso del tutto, presero forma nella stanza. Le parole rimasero sospese nell'aria per alcuni, lunghi secondi. La frase, detta in quel modo preciso, assunse una nuova dimensione. I significati nascosti che i
due fratelli non avevano ancora compreso, presero forma nella stanza. Non una forma definita, senza colore of linee definite, ma finalmente ne aveva assunta una, anche se non sembrava piacevole. Le narici Jerric si dilatarono. Respirò profondamente e guardò Jeremiah, poi Isaiah e, di nuovo Jeremiah. Respirò lentamente e anche le parole furono pronunciate con lentezza. “Siete nati qui... interessante. Voi due siete fratelli?” “Gemelli” “Sì. Vi assomigliate molto.” Jerric rivolse lo sguardo verso Isaiah. Il tono della sua voce era ricco di sorpresa. “Ma tu sei... sei un sacerdote?” “Giusto. Un militare dell'esercito degli Stati Uniti ci ha trovato quando eravamo dei neonati, non lontano da questo villaggio. Siamo cresciuti in due famiglie differenti. La mia famiglia era cristiana... quella di mio fratello...” Alzò le spalle, tralasciando ciò che risultava ovvio. Jerric continuò ad investigare. “Negli Stati Uniti?” “Sì” Jerric stava analizzando i fatti. Li esaminò parecchie volte per poi tornare ai suoi modi abituali. Le rughe sparirono dal suo volto e sulle sue labbra ricomparve il sorriso e unì le mani. “Ascoltate. Tutto questo è molto interessante ma come posso aiutarvi?” Il tono professionale di Jerric fece sentire meglio Jeremiah per la prima volta. Tutte le possibili preoccupazioni furono, almeno apparentemente, dimenticate. “Bene, stiamo cercando i nostri veri genitori. Pensiamo che vivessero qui durante la guerra.” Per un istante Jerric sembrò pensieroso, assunse un'espressione accigliata come se tentasse di ricordare qualcosa che poi accantonò con un cenno di scuse. “Scusate. Non ricordo nulla di simile a ciò che raccontate.” Isaiah, che fino a quel momento era rimasto silenzioso, proseguì,
“Ne sei sicuro?” chiese impaziente, “Forse hai sentito di due gemelli lasciati soli nei boschi? Forse una gravidanza indesiderata. Abbandonati?” Purtroppo Jerric scosse la testa. “Questo villaggio era piccolissimo. Sono sicuro che ricorderei un fatto del genere. Non c'erano gemelli. Almeno qui.” Rifletté per una manciata di secondi, poi aggiunse, “Siete sicuri di essere venuti nel luogo giusto?” All'improvviso Jeremiah si rese conto che non avevano nessun tipo di certezza. Abbiamo attraversato mezzo mondo per giungere in questo posto e qui bastano solo alcune parole di un vecchio per rispedirci da dove siamo partiti. “Sì. Crediamo di sì.” Jerric fissò entrambi con aria interrogativa, minando di nuovo la pace mentale di Jeremiah. Anche Isaiah, che fino a qualche minuto prima appariva molto vivace, era tornato ad essere apatico. Jerric notò la cosa. “Se fosse così, potrebbero avervi fuorviato. Sarebbe un peccato se vi foste sobbarcati tutto questo...” Si girò verso la porta per andarsene ma poi si voltò nuovamente verso i fratelli. “Comunque, nel caso aveste bisogno di qualcosa, chiamatemi.” Inspirò profondamente, sospirò e proseguì, “Solo un piccolo consiglio da amico. Non è raccomandabile per un ebreo rimanere qui solo, capite. Alcuni di noi hanno dei brutti ricordi.”
*
Solo dopo che il suono degli scarponi di Jerric sul pavimento di legno si fu trasformato in un rumore attutito, Jeremiah e Isaiah si sentirono in grado di ricominciare a parlare. “Di quali ricordi sta parlando, se qui non viveva nessun ebreo?”
"Non lo so,” disse Isaiah. “Le indicazioni di Robert erano molto precise.” “Sì, ma aveva affermato che qui non vivevano ebrei. Quindi non ci troviamo nel posto giusto.” Jeremiah era silenzioso. Gli ultimi giorni erano stati ricchi di rivelazioni e con un sorriso sarcastico aveva accettato le novità: Sono l'unico in questo luogo che sta cercando degli ebrei. Era sicuro che Isaiah, sarebbe stato felice di non trovare nessuno che praticava la lettura dei Tefillin[3] da queste parti. Sarebbe stato ideale per lui non trovare nessun ebreo. Cosa avrebbe preferito Jerric? La cosa rimaneva un mistero. “Sì. Proprio per questo,” rispose Isaiah, “penso che ci troviamo nel luogo giusto. Mi sembra perfettamente logico che non ci siano ebrei qui e che non ci siano mai stati.” Lanciò uno sguardo al fratello, in attesa di una risposta che non sarebbe arrivata. Le differenze nel loro modo di pensare apparivano evidenti e chiare sotto l'aspetto esterno e Isaiah temeva il momento in cui si sarebbero guardati negli occhi. In ogni caso, Jeremiah mantenne un’espressione rilassata. “A parte tutto,” continuò, “non mi fido della memoria di quell'uomo. Domani andremo all'ufficio anagrafe per vedere cosa riusciamo a trovare.” Jeremiah concordava con il fratello completamente. Domani avrebbero esaminato i registri. Domani sarebbe cominciato il lavoro vero e proprio e domani, secondo quanto le suggeriva una sensazione preoccupante, sarebbero cambiante molte cose nel mondo. Dalla finestra chiusa giunsero delle voci concitate. Erano molto alte, visto che i vetri della finestra del secondo piano, fino a quel momento, aveva attutito tutti i rumori provenienti dalla strada, tranne qualche risata occasionale degli ubriaconi al piano di sotto. Jeremiah guardò fuori dalla finestra e rimase impietrito. Chiamò Isaiah e lo fece avvicinare... cautamente. Due piani più in basso, sotto la luce gialla di un lampione solitario, Jerric si trovava al centro di un gruppo di anziani, gli stessi che, in precedenza, erano seduti al suo tavolo. Era impegnato in una discussione e gesticolava. Anche se i gemelli non riuscivano a decifrare nessuna parola e nessuno dei suoni che riuscivano ad oltreare la finestra, era chiaro che i toni del dibattito non erano
rilassati. All'improvviso, senza nessuna avvisaglia, uno degli uomini indicò con un dito la finestra dietro la quale si trovavano Jeremiah e Isaiah. Anche se non guardava nella loro direzione, i due fratelli si allontanarono velocemente dalla finestra, cercando di nascondersi alla loro vista. Si avvicinarono nuovamente dopo alcuni secondi, appena in tempo per vedere che il gruppo si stava sciogliendo. Jerric si mise alla guida di vecchio pick-up verde e si allontanò.
Fantasmi
“ Già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali." (Salmi 18:6)
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Quella notte, la sua prima notte a Nabradosky, Jeremiah non riuscì a dormire. Si rigirò nel letto, ando da sogni frammentari alla realtà, vagando tra visioni e incubi. Solo con l'avvicinarsi del mattino, fu sopraffatto dalla stanchezza e fu inghiottito da un vecchio sogno ricorrente che questa volta risultò essere più coinvolgente che mai. Più nitido, più intenso. Flash continui dai colori vividi e dai suoni penetranti. Il sogno era familiare. Ne era stato vittima molte volte prima di quella notte, ma ora risultò leggermente diverso – ricco di particolari, profondamente radicato nella sua mente. La differenza era la stessa che si può riscontrare tra il suono di qualcuno che bussa su un muro vuoto all'interno e qualcuno che bussa su un muro solido. Era più realistico del solito, più vicino, più importante. Jeremiah si trovava di nuovo nella cesta, all'interno della piccola casetta, sdraiato accanto al fratello, ai piedi di un muro alto, rifinito in maniera sommaria. La pesante porta di legno lasciva filtrare la luce, velata da una nebbiolina, quando la madre se la richiuse alle spalle. Sì, la donna dal viso contrito, così familiare, di cui conosceva ogni dettaglio e che non conosceva quasi per nulla. Lei li guardò, con l'aria triste di sempre. Più tardi udì un suono assordante – non si trattava di un tuono – seguito da una luce. Ne seguì un secondo e poi un terzo. Lo sguardo triste si trasformò in un'occhiata piena di terrore e quando gli occhi della madre si rivolsero di nuovo verso di lui, avevano un'espressione differente, erano spalancati, allarmati, pieni di paura.
Lei cercò di dirgli qualcosa, ma i rumori attorno erano troppo forti e Jeremiah non riusciva a sentire chiaramente. Avrebbe voluto che lei alzasse il tono della voce, e lei, da lontano, cercò di parlare più forte sopra il rumore del pianto e degli spari, cercando di farsi sentire. La guardò negli occhi, sforzandosi al massimo per udire le sue parole. Dai suoi occhi cominciarono a sgorgare le lacrime e lei crollò e lo abbracciò. Il rumore ora era troppo forte e non riusciva a sentirla, ma il battito del cuore della madre era diventato il pulsare del suo stesso cuore e, improvvisamente, era lui che la stava abbracciando, o vice versa, mentre i rumori diventavano assordanti, la porta si aprì e si precipitarono all'esterno. Solo quando si trovarono fuori, fuggendo dai rumori che echeggiavano alla loro spalle, lui capì che mancava qualcosa. Una cosa importante. Poi si ritrovò di nuovo fra le braccia di sua madre, anche se ricordava bene che avrebbe dovuto trovarsi nella cesta. Dietro di loro. Dietro di loro. Cosa c'era dietro di loro? Cosa avevano dimenticato? Ad un tratto tutto gli tornò alla mente. Il suo cuore batteva velocemente e intensamente, guardò alle spalle della madre, verso la casetta abbandonata. La cesta era ancora là ed un bimbo identico a lui si trovava all'interno, in attesa.
*
Isaiah emerse dal sonno molto presto la mattina successiva. Qualcosa lo preoccupava, lo disturbava. Quando le suo orecchie cominciarono a percepire i rumori del mondo reale, udì Jeremiah borbottare fra sé in maniera pacata. Si appoggiò sui gomiti, ancora in parte addormentato. Jeremiah era alla finestra con il Tefillin in mano e la testa piegata, intento a pregare. Ad Isaiah, che conosceva vagamente le tradizioni ebraiche, la situazione appariva strana. Una stringa di pelle lunga e sottile era arrotolata attorno al braccio di Jeremiah e un scatola di colore nero era legata ad essa. Una scatola simile era legata alla fronte per mezzo di un'identica stringa. Mormorava versi in
ebraico, leggendo un breviario. Con la coda dell'occhio, Jeremiah notò un movimento e lo vide. Sorrise al fratello e continuò a pregare mentre i suoi occhi brillavano. “Cosa..?” Jeremiah però non rispose. Gli fece cenno con un dito di rimanere in silenzio e proseguì con le sue preghiere. Isaiah fece cenno con il capo di aver compreso. In silenzio, estrasse il suo breviario dalla valigia e iniziò a pregare a sua volta. In latino. Le loro voci sommesse si fo insieme: due voci identiche che sussurravano parole differenti in lingue antiche, una delle quali era considerata ormai del tutto morta e la seconda, più diffusa, non lo era ancora. Jeremiah ed Isaiah percepivano la strana armonia, l'aura sovrannaturale che nasceva da entrambe le lingue, che sfociava dalle diverse parole. Si trattava del suggerimento di qualcuno che metteva in pratica due modi diversi di pregare. Lui si sentiva a suo agio, come un meccanismo che si integra in maniera spontanea in un sistema. Così i due fratelli salutarono il nuovo giorno, ognuno a proprio modo.
*
Le preghiere mattutine terminarono e svanirono, lasciando il posto a una mattina grigia e cupa. La vista dalla finestra rivelava una città industriale, avvolta nella nebbia, mentre una pioggerellina mattutina cadeva sulla routine quotidiana. Sulla strada giravano solo alcune auto e, grazie alla luce del mattino, si potavano notare i materiali di fortuna con cui erano state costruite le abitazioni – baracche poco solide fatte con pezzi di legno e blocchi di cemento sgretolati. Il fondo stradale, che durante la notte appariva lastricato, alla luce del mattino si rivelò essere una combinazione di terriccio pressato e blocchi di cemento. Il
marciapiedi appariva molto danneggiato e i pesanti camion che avano lungo la strada ne erano la causa; erano più ingombranti rispetto alla carreggiata e dovevano are con due ruote proprio sopra il marciapiedi. I pedoni, molti dei quali sembravano persino più grigi e scialbi della stessa nebbia, erano costretti ad evitare il mostro rumoroso scansandosi in maniera esperta. Oggi inizierà la ricerca. Ma, in realtà, oggi... oggi cominceranno a crollare dei muri. Dove sarebbero caduti, cosa altro si sarebbe frantumato con loro? Jeremiah lo ignorava. Lui ed Isaiah incontrarono Nicolas proprio fuori dalla stanza e partirono. All'esterno faceva freddo – molto freddo; avrebbe potuto nevicare. Un gelo che penetrava nelle narici e le congelava dall'interno. Nicolas si sfregò le mani e rivolse lo sguardo all'orizzonte. “È in arrivo una brutta tempesta.” “Sbrighiamoci,” disse Isaiah. “Auguriamoci che ci siano di aiuto gli archivi comunali.” Entrarono nell'auto e Nicolas accese il motore.
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Il municipio non era molto lontano e la loro Lada Jeep sembrava fatta apposta per tener testa alle condizioni delle strade dell'Europa dell'Est. Jeremiah notò che il loro miserabile veicolo attirava l'attenzione; la maggior parte degli abitanti di Nabradosky considerava la 'Nivah' un auto di lusso, quasi un'ostentazione. Dopo alcuni minuti la Lada raggiunse una piazza dove si trovava un edificio a due piani, tetro, fatto di cemento. Una piccola targa di metallo indicava che si trattava del Municipio di Nabradosky mentre un cartello di piccole dimensioni ricordava ai anti di non rovinare i fiori, o almeno così disse loro Nicolas sorridendo. Jeremiah guardò alcuni spazi lungo i muri dell'edificio dove non c'era traccia di fiori o aiuole.
Entrarono. Lo stile spoglio dell’architettura sovietica caratterizzava anche gli interni dell’edificio. Sembrava che tutto fosse fatto di cemento: i pavimenti, i muri, le mensole appese ai muri, il banco della reception, anche le panche della sala d’attesa. L’edificio sembrava uscito da una vecchia fabbrica di cemento e fosse stato fabbricato in un unico blocco. Si scoprì poi che la rigidità del cemento sembrava essere una qualità comune anche ai regolamenti. Isaiah e Jeremiah lo verificarono osservando Nicolas combattere per avere accesso ai documenti. La situazione era stagnante e non riusciva a fare progressi, impegnato in una monotona discussione in lingua polacca, con un funzionario furioso e corpulento di nome Hans, nascosto dietro ad un paio di folti baffi. Dopo che lo stesso concetto fu ripetuto una decina di volte, Jeremiah decise di non poter sopportare nulla di più. “Forza, ora vi mostrerò un trucco magico.” Si alzò, estrasse il portafoglio dalla tasca della giacca da cui tirò fuori una banconota da dieci dollari. Fece un o in avanti ma Isaiah lo fermò con una mano. “È meglio... penso sia meglio che lo faccia io.” Jeremiah annuì e porse il denaro a Isaiah. Si scoprì che i dollari aumentavano di valore fuori dagli Stati Uniti. Apparentemente, avevano un valore incalcolabile a Nabradosky. Nicolas e il baffuto funzionario guardarono la banconota come fosse uscita dalle tavole della legge. Hans sogghignò eccitato e afferrò il denaro, mentre Nicolas dimostrò la sua frustrazione tornando a prendere posto sulla sedia. “Bene. Gli avete elargito una somma cinquanta volte più alta di quanto potesse mai sognare.” L’ufficiale scomparve dalla sua postazione e Isaiah sorrise. Cinquanta o cinquecento volte più alta, dieci dollari erano sempre e solo dieci dollari. Valeva decisamente la pena sacrificarli per evitare un’ora di attesa in quel postaccio polacco.
“Si tratta indubbiamente di magia...” strizzò l’occhiolino a Jeremiah che lo stava seguendo.
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Hans giunse ai vecchi archivi canticchiando una canzonetta allegra. Quella mattina rappresentava decisamente un cambio di direzione nella sua vita, alleviando le sue recenti preoccupazioni: la separazione dalla moglie, i problemi con i figli, il nuovo sindaco molto esigente. Tutto dimenticato grazie al piccolo tesoro nelle sue tasche. Già pregustava il sapore della vodka che avrebbe assaporato mentre scendeva bruciandogli piacevolmente la gola. Ora avrebbe potuto acquistarne parecchie bottiglie! Avrebbe potuto cedere al piacevole stato di amnesia indotto dall’alcool... oppure perché non spendere il denaro per la giovane donna che era stata la causa del suo divorzio e il motivo per cui sua moglie aveva deciso di andarsene? Si presentavano diverse possibilità... Tornò a concentrarsi sulle mensole polverose.
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Dopo un’attesa di dieci minuti, Hans ritornò nella sala di attesa trascinando un carrello su cui erano appoggiate cinque scatole di cartone molto pesanti, piene di vecchi incartamenti. Le consegnò a Nicolas mentre si scambiavano alcune frasi. “Bene,” Nicolas tornò dai due fratelli. “È tutto il materiale che hanno. Andiamo.” Prese una scatola dal carrello e cominciò ad avviarsi ma Jeremiah lo bloccò ponendogli un quesito. “Aspetta un attimo Nicolas. Potresti fargli qualche domanda?” Nicolas posò la scatola a terra. “Certamente.” “Chiedigli da quanto tempo lavora presso il municipio.”
“Ventisette anni.” Jeremiah era impressionato. “Si tratta di un tempo molto lungo. È nato qui? Nicolas tradusse e questa volta Hans rispose con un'unica parola, rapidamente con fare poco gioioso. Jeremiah non ebbe bisogno della traduzione. “Chiedigli... chiedi se da queste parti avevano vissuto degli ebrei in ato” Nicolas tradusse e il sorriso scomparve del tutto dal viso di Hans. Questa domanda insidiosa giunse inaspettata. Improvvisamente si ricordò di suo padre e di ciò che era solito raccontare degli ... ebrei. Studiò l’uomo barbuto che si trovava di fronte a lui e, tutto d’un tratto la banconota nelle sue tasche divenne pesante, molto pesante. Aveva commesso un errore consegnando quei documenti? Ora il presente non appariva più tanto roseo. “No. Ha detto che da queste parti non hanno mai vissuto ebrei.” “Anche prima della guerra? Anche allora?” Le parole di Nicolas scombussolarono Hans. I documenti che avevano richiesto... facevano riferimento ad un periodo buio della storia locale. Guardò le scatole che erano appoggiate vicino all’uscita. Avrebbe dovuto farle restituire? I soldi dell’ebreo bruciavano nelle sue tasche. Sapeva che avrebbe potuto restituirli. Non era ancora troppo tardi. Poteva ancora riportare le scatole nel luogo in cui erano state per anni. Le bottiglie di vodka però (sì, aveva deciso che fosse meglio dimenticare che assaporare) esercitavano una forte attrattiva e il giorno di paga era ancora lontano, troppo lontano. Non accadeva tutti i giorni di ricevere una tale somma e poi non si sa mai: forse avrebbero potuto avere bisogno nuovamente dei suoi servigi in futuro. Decise che sarebbe stato pronto ad aiutarli nuovamente e a dare loro una mano. Nicolas pose nuovamente la domanda e Hans rispose con riservatezza quasi clericale e arricchì la sua risposta con una frase che fece arrossire Nicolas, vista la presenza di un ecclesiastico al suo fianco. Non era necessario tradurre ogni parola, pensò Nicolas mentre Hans ridacchiava e disse in inglese che nessun ebreo aveva mai vissuto in quei luoghi.
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Meno di un’ora dopo Nicolas era sommerso da un’altissima montagna di documenti provenienti dalla prima scatola che ricoprivano i due letti. Jeremiah ed Isaiah erano in piedi di lato e non potevano essere di grande aiuto. Potevano solo guardare Nicolas che continuava ad estrarre fogli di carta dalla scatola di cartone. “Quindi...” disse Jeremiah, “È tutto quello che abbiamo in merito a questa città prima del regime sovietico?” “Ciò che è sopravvissuto alla guerra naturalmente.” “C’è parecchio materiale e tu sei l’unico in grado di leggerlo.” “Sì... e non è neppure in ordine. Devo esaminare ogni singolo documento.” Jeremiah guardò oltre la pila di carte sul letto e le quattro scatole più grandi che si trovavano lì accanto. Sì, ci vorrà parecchio tempo. “Okay,” disse Isaiah. “Pensaci un momento. Stiamo cercando informazioni su una coppia di gemelli nati qui durante il periodo della guerra.” “Oppure due certificati di nascita, di morte, di adozione... ogni cosa potrebbe essere importante. Principalmente era un periodo di guerra e di grandissima confusione. I nazisti si ritirarono in Germania, i russi e gli americani erano di stanza qui intorno...” “Sì. Certificati di nascita di due gemelli,” confermò Nicolas. “O qualsiasi altro documento che attesti la presenza di cittadini di religione ebraica in quest’area.” “... Oppure di religione cristiana,” disse Isaiah. Gli sguardi si posarono di nuovo sugli scatoloni. Sarebbe stato un lavoro
interminabile. Giorni interi. Forse una settimana. E nel frattempo? “Vuoi fare una eggiata?” chiese Isaiah. Si alzarono per uscire.
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Le strade di Nabradosky apparivano più luminose nel pomeriggio, anche se era impossibile considerarle più familiari. Era anche più piacevole stare alla guida e le foreste intorno alla cittadina risultavano più amichevoli – o almeno così decisero i due fratelli. Avevano anche un altro motivo per visitarle. “Andiamo dove il Sig. White dice di averci trovato.” “Durante la guerra?”
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Era da tempo che il rumore di elicotteri in fase di atterraggio non disturbava la routine quotidiana di Eva. Questo accade quando vivi in una base militare. Ti abitui al rumore dei rotori, cominci ad alzare la voce in maniera naturale quando un elicottero si avvicina, smetti di strillare quando arriva proprio sopra la tua testa e continui, sempre in maniera molto naturale, nel momento in cui si allontana. Vite da militari. Esistenze ricche di suoni interrotti, odori acri, colori accesi. Questo era il tipo di vita che Eva aveva scelto ed era ormai abituata ad ogni sua sfumatura e ad ogni suo suono. Tranne uno. Premette il grilletto e lo fece una seconda volta.
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Si scoprì che le mancavano alcune di ore di allenamento al poligono. Non utilizzava un’arma in maniera appropriata da parecchie settimane, da quando aveva lasciato gli Stati Uniti e si era trasferita in Germania. Ora che le erano state assegnate alcune ore al poligono di tiro assaporava ogni singola pallottola. Una leggera pressione sul grilletto... ed un brivido familiare le percorreva le ossa, le spalle e correva lungo la sua spina dorsale. Colpì la sagoma umana che si trovava a circa 9 metri di distanza, appena sotto la spalla, sulla parte destra... Si trattava di puro piacere. Accanto a lei erano allineati altri militari, ognuno con il proprio bersaglio in fondo alla linea di tiro. Sì, amava un altro aspetto degli esercizi al poligono di tiro: la completa estraneazione in una sorta di mondo personale, in una battaglia privata, lei contro sé stessa. Percepiva vagamente la presenza di Miguel nella linea di tiro accanto alla sua. Come lei, stava combattendo la sua battaglia personale. Un altro sparo. Un altro scatto del grilletto. Un altro buco nella carta del bersaglio, questa volta nella zona dell’orecchio della sagoma. E al suo. Udì il sibilo del proiettile vicino all’orecchio; un fischio intenso. Qualcosa fece sobbalzare il suo cuore. Premette nuovamente il grilletto ed avvertì un dolore lancinante nella parte superiore della coscia. Qualcosa esplose vicino al suo viso... e le narici inalarono un’aria diversa da quella della linea di tiro. Quell’aria bruciava nei suoi polmoni. Era come se gli alberi girassero intorno a lei mentre la schiena era spezzata dal dolore. C’era un altro fucile che sparava contro di lei. L’odore acre della polvere da sparo annullò completamente il suo senso dell’orientamento o forse la causa era un’altra? Eva non lo sapeva ma la pallottola successiva non colpì affatto la sagoma posta davanti a lei e la stessa cosa accadde con il terzo proiettile. La sua vista si offuscò e la sagoma di carta prese vita, si scansò per schivare il colpo.
Girato l’angolo, con la morte pericolosamente vicina, si sentì quasi sollevata. Il rumori del fucile ora sembravano più lontani e le pallottole non fischiavano più attorno alla sua testa. Forse l’aveva seminato? Guardò verso il basso nella cesta dove si trovavano i gemelli e sorrise loro. Il bersaglio ora appariva di nuovo nitido davanti a lei e Eva si asciugò il sudore, cercando di concentrarsi. Premette il grilletto e sulla carta apparve un nuovo foro ma non sulla sagoma che eluse di nuovo il colpo, scansandosi verso destra. Sparò altri due colpi in rapida successione, che mancarono la testa della sagoma, che continuava a muoversi davanti ai suoi occhi, schivando i colpi e flettendosi sui lati. Era solo la sua immaginazione che giocava brutti scherzi? Aveva la sensazione di affondare, di annegare in una nebbia gelida e verdastra. Era come se gli alberi intorno a lei fossero stati inghiottiti in un vortice infernale di foglie, di rami secchi e muschio sulle rocce bagnate. Respirava a fatica e il dolore, causato dalla ferita nella gamba divenne tangibile. Continuava ad andare avanti ma scivolò e fu costretta ad arrendersi. La morte si trovava appena dietro le sue spalle, la stava seguendo, correndo senza troppa fatica. Percepì il puntatore di un fucile sula parte posteriore del collo. La stavano tenendo sotto tiro. Era determinata mentre le sue dita premevano il grilletto. Invece di uno sparo si udì solo un click. L’arma era senza munizioni. Non era in grado di rendersi conto della cosa.
*
Nello stesso momento, a centinaia di chilometri di distanza, i due fratelli stavano inalando aria pura a pieni polmoni. Un dolce profumo di pino rendeva il loro stato di coscienza più vivido e, senza caprine il motivo, erano in grado di respirare in maniera più profonda e tranquilla. Erano usciti dalle viscere della città ed si sentivano rilassati e di buon umore. La tensione dei muscoli del collo e delle spalle si era allentata dopo giorni di stress. Erano ritornati alla natura. Forse proprio la natura stessa aveva schiarito le loro
menti, sostituendo il grigiore del cemento con il verde dei boschi o forse la causa era un’altra. La strada lastricata si divise in un certo numero di sentieri sterrati. “Gira qui.” Isaiah svoltò. Si trovavano a circa tre chilometri ad est del paese, in un’area ricca di foreste costituite da conifere rigogliose. L’angusto vialetto andava a scomparire in mezzo a verde inteso, serpeggiando fra i numerosi alberi molto alti. Improvvisamente Isaiah schiacciò il pedale del freno. La jeep slittò per qualche metro e Jeremiah si rese subito conto del motivo della fermata brusca. Il camion verde di Jerric era parcheggiato appena prima della curva successiva, a cinquanta metri di distanza. I due fratelli lo fissarono in silenzio poi, come fossero una persona sola, scesero dall’auto. Avanzarono verso il veicolo verde e poi girarono a destra e scomparirono tra gli alberi. Davanti a loro, a poca distanza, udirono un mormorio e poi un colpo di tosse secca. Poco a poco i colpi tosse svelarono la posizione di Jerric, nascosto fra un groviglio di alberi e fogliame. Finalmente i gemelli giunsero vicino ad un albero di grandi dimensioni. Nascosti dietro ad esso potevano godere di un vista perfetta sullo spazio aperto davanti a loro. Non si trattava di una radura molto ampia, circa un metro da un ciglio all’altro, che conteneva a stento un piccolo cumulo di muschio verde. Nessuna persona di aggio nel bosco l’avrebbe notato e non si fosse soffermata ad osservarlo. Al contrario Jerric, con indosso un cappotto nero, lo stava osservando con attenzione, borbottando qualcosa in una lingua sconosciuta. “Capisci qualcosa?” sussurrò Isaiah. Jeremiah scosse la testa. “Non sembra stia parlando in polacco.” I borbottio di Jerric fu interrotto da una serie di intensi copi di tosse, che non accennavano ad attenuarsi, a differenza dei precedenti. Al contrario, più a lungo
continuavano gli episodi di tosse, peggiore diventava il suono secco e gutturale emesso dalla sua gola. Cominciò ad annaspare alla ricerca di aria. Jerric spaventato si sedette a terra cingendo il torace con le braccia. “Devo andare a controllare.” Prima che Jeremiah potesse reagire, Isaiah non era più accanto a lui. Si alzò, riluttante, cercando di eliminare un po’ di fango dai pantaloni e cerò, velocemente, di fermare il fratello. Jerric, ancora in preda all’attacco di tosse, vide i due fratelli che si stavano avvicinando. Tirò un lungo respiro che gli permise di calmare un minimo gli spasmi. “Ero sicuro che foste già partiti,” disse ansimando. La tosse tornò a tormentarlo e durò parecchi minuti. Isaiah gli diede dei piccoli colpi sulla schiena per alleviare la pena. “Desideravamo guardarci ancora intorno,” disse. “Qui si respira aria buona... come sta?” Jerric mosse la mano in maniera arrendevole. “Non siete al sicuro qui. Vi avevo già avvisato.” I fratelli si guardarono a vicenda Ogni avvisaglia di miglioramento del loro stato d’animo era ormai svanita. Jerric, seduto sul terreno umido di fronte a loro, appariva ora vecchio e malato, scuro in volto e minaccioso molto più di quanto la sua forza fisica potesse permettergli. “Abbiamo bisogno di scoprire altri dettagli, di vedere alcuni documenti.” Jerric fece un cenno con il capo quasi impercettibile. Cercò di alzarsi ma si arrese dopo il primo tentativo. Jeremiah, che fino al quel momento era rimasto tranquillo, allungò una mano e lo sollevò dal terreno. Guardò il cumolo di pietre con attenzione. “Cosa ti ha portato qui?” Anche Jerric fissò il mucchietto di sassi ma i suoi occhi non riuscirono a mettere
a fuoco. Jeremiah pensò che stesse per collassare nuovamente ma Jerric riprese il controllo e rispose con tranquillità. “I ricordi.” “Posso chiedere quali ricordi?” “Non sono cose possono interessare a voi giovani. Sono ricordi antichi...” “Noi siamo alla riceva di antiche memorie” “Ma non come queste...” Il vento, che fino a quel momento era quasi impercettibile, aumentò di intensità, bruscamente, turbinando attorno a loro fra il verde del fogliame. Un silenzio assordante e cupo li avvolse. Jerric li osservò con uno sguardo delicato, triste, risvegliando qualcosa di familiare nel profondo del cuore del sacerdote. Conosceva quello sguardo. Forse troppo bene. “Ho notato che non ci sono chiese da queste parti. Se vuole, io potrei...” Jerric sorrise mestamente. A Nabradosky non ci sono chiese anche se, negli anni più recenti, aveva appreso che sempre più persone avevano iniziato ad avvicinarsi al grembo della Chiesa. Jerric, però, non aveva mai pensato di frequentare la chiesa e di certo non aveva intenzione di cominciare oggi. Scrollò il capo, tossì un paio di volte e sputò contro un albero lì vicino. “Nessuna confessione. Non per me.” Jeremiah e Isaiah si scambiarono uno sguardo ed uno di loro stava per cominciare a parlare ma Jerric lo precedette con un commento conclusivo che mise fine al discorso. “Ora scusatemi. Vogliate lasciare un uomo anziano solo con i suoi ricordi... per favore.”
*
Il tragitto di ritorno verso l’hotel fu silenzioso e ricco di riflessioni. Isaiah era impegnato nella guida, Jeremiah guardava gli alberi che scorrevano davanti ai suoi occhi mentre entrambi ripensavano con insistenza all’incontro con Jerric. In quell’uomo c’era qualcosa di soprannaturale, qualcosa di irreale. Sentivano e sapevano con certezza di averlo già incontrato nel loro ato, in un luogo indefinito. Lo sapevano e lo sentivano, ma entrambi rifiutavano di accettare i loro sentimenti. “Non credo ad una sola parola di quello che ha detto,” disse Jeremiah alla fine. “Tu giudichi le persone troppo frettolosamente. Mi è sembrato molto vecchio e molto stanco...” “Un grande bugiardo.” “... molto triste,” disse Isaiah concludendo la frase. Jeremiah lo guardò ma non assentì. Jerric appariva realmente triste e stanco. Isaiah fece una riflessione. Jeremiah aveva ragione, pensò. L’uomo aveva mentito in maniera palese. Il sentiero tornò ad essere una strada lastricata e la conversazione riprese. Parlarono di Jerric, della foresta e del triste ammasso di ciottoli e degli alti alberi. Quando giunsero di nuovo nella grigia cittadina, stavano ancora discutendo animatamente sulla possibilità che degli ebrei avessero vissuto proprio in quella città. Strada dopo strada, curva dopo curva e anche quando l’edificio, la taverna a due piani, apparve davanti a loro, si scoprirono solidali nel deplorare furiosamente il fatto che non ci fosse nemmeno una chiesa a Nabradosky. “Qualche anno di comunismo e le persone hanno perso completamente ogni legame con Dio.” Isaiah stava salendo le scale e si ritrovò nel corridoio del secondo piano. Le quattro porte che si affacciavano su di esso erano aperte e Kristzah, la cameriera, stava spolverando i mobili della stanza a destra. Isaiah le rivolse uno sguardo fugace. Era concentrato su cose più importanti. “Non c’è da stupirsi che quel tipo di regime sia caduto... era senz’anima.”
Improvvisamente si rese conto di parlare da solo. Si guardò alle spalle e vide Jeremiah fermo, assorto, qualche o dietro di lui. Il suo viso non aveva espressione e il suo sguardo era di ghiaccio, come fosse ipnotizzato da qualcosa che si trovava di fronte a lui. “Jeremiah?” Suo fratello cominciò a camminare, lentamente, dentro la stanza. Non avendo idea di cosa l’avesse stregato, Isaiah fece dietro front e tornò indietro mentre osservava la schiena di Jeremiah. Vide subito i due oggetti che avevano attirato l’attenzione del fratello. Li osservò e sussultò. I due fratelli furono sopraffatti da antichi ricordi. Immagini ate di un periodo della vita ormai sepolto sotto una valanga di accadimenti più recenti. Un’antica ferita era tornata a tormentare i fratelli con un livello di dolore che non provavano da anni - un dolore dal sapore dolce, dovuto ad una ferita dell’anima rubata ad un ricordo antico, impresso in maniera indelebile nei labirinti della mente, che riemergeva dopo cinquantacinque anni durante i quali era scomparso. Ritornò alla loro mente l’immagine di una giovane donna, che alzava le mani verso l’alto, davanti a due candelieri d’argento, davanti alla fiamma sottile di due candele scintillanti. Gli occhi della donna erano chiusi, portava un foulard sulla testa e borbottava qualcosa fra se, e diceva qualcosa ai suoi bambini....
*
"Shabbase." La voce stridula di Kristzah riportò i fratelli alla realtà. Si girarono sopraffatti da una sensazione di panico, profondamente provati dalla tristezza del loro ricordo. Kristzah rivolse loro un sorriso a cui mancavano alcuni denti, mentre reggeva in una mano uno straccio per la polvere e con l’altra indicava il candelabro. “Shabbase,” disse nuovamente come se volesse chiarire il concetto ai due fratelli.
Jeremiah era sconvolto.
*
Due minuti più tardi Nicolas si trovava nella stanza con loro, la porta era stata chiusa alle spalle e Kristzah era seduta sul letto. L’anziana donna non capiva con precisione la ragione di quella riunione ma ne era felice visto che erano parecchi anni che nessuno la degnava di tanta attenzione. In verità non le era mai accaduto nella vita. Jeremiah era interessato a lei come non gli accadeva da molti anni. Era esagitato e nervoso, parlava con Nicolas con il ritmo di una mitragliatrice. Parlava in maniera frammentata tra un respiro e l’altro. “Vorrei sapere da dove provengono questi due candelieri, come li ha avuti, perché è a conoscenza del fatto che sono dei candelabri dello Shabbat...?” “Non è detto che siano specifici per celebrare lo Shabbat...” Isaiah riuscì a piazzare una parola. “... per quale ragione conosce lo Shabbat e lo pronuncia in Yiddish! Shabbase!” Il flusso di domande metteva Nicolas in confusione. Mentre iniziava a porre una domanda a Kristzah, traducendo le prime parole di Jeremiah, immediatamente tentava di porre la domanda successiva, mischiandole tra loro e non sapeva più da dove cominciare. Isaiah, il più tranquillo dei tre, cercò di mettere ordine in quella confusione. “Cominciamo dall’inizio. Dove è nata, cosa ricorda della guerra...” Nicolas lo ascoltò, fece un secondo di pausa e poi chiese, in polacco, “Nana, poi dirci quanti anni avevi in tempo di guerra?” Kriszah, che fino ad ora aveva sorriso, divenne seria. Aprì la bocca sdentata e iniziò a parlare dai meandri della sua memoria, dicendo loro...
*
Parlò dei suoi primi ricordi, i colori, le forme più antiche che le tornavano alla mente, quando era ancora un bimba in un piccolo villaggio. Tentò di parlare delle cose accadute prima di queste memorie ed era certa che ci fosse qualcosa da rammentare... ma non ne era capace. Troppi anni, troppi accadimenti. Raccontò di una piccola bambina, una bimba fantasma di circa sei o sette anni che giocava in un campo nei pressi del suo villaggio, inseguendo delle farfalle. Una delle farfalle, bianca con occhi scuri sulle ali, sfuggì alla sua presa più volte e volò fra gli alberi, lasciando dietro di sé un mondo di un color veder inteso. Una nuvola di polvere si sollevò dalla strada sterrata al aggio di un’auto. La bimba corse fra gli alberi con l’intento di trovare la farfalla. Non la trovò ma, guardando verso il basso, scovò un tenero scoiattolo e lo inseguì saltellando fra gli alberi per catturarlo. Lo seguiva, canticchiando felice, e non si curava del tempo che ava e del fatto di essersi allontanata dalla sua comunità. Aveva tutta la vita davanti a sé, lo sapeva e il bucato che si portava appresso attendeva di essere steso, lo sapeva, ma ora pensava esclusivamente a sé stessa e allo scoiattolo, solo a lei e alla dolce felicità. Boom boom, Ta-Ta-Ta-Ta-Ta-Ta-Ta - Boom Boom Ta-Ta-Ta-Ta-Ta - Boom TaTa-Ta – Suoni forti, acuti attraversarono la foresta. Spari. Si risvegliò e tornò alla realtà. Smise di cantare. Gli spari continuarono a spezzare la quiete della foresta senza pietà, indiscriminatamente. La ragazzina fantasma con l’abito bianco cominciò a desiderare di tornare a casa al più presto. Si voltò... ma aveva già lasciato il sentiero da parecchio tempo e intorno a lei c’era solo la foresta, immensa, intricata e minacciosa. Le era già successo di allontanarsi per qualche ora tra gli alberi intorno alla sua casa, ma sapeva esattamente come ritrovare la strada. Ma questa volta? Questa volta non sapeva come fare: non conosceva la direzione da seguire e non
sapeva a che distanza si trovasse. Una piccola lacrima apparve nei suoi occhi e qualcosa nella sua mente le suggerì che non avrebbe mai ritrovato la strada di casa. Non avrebbe più rivisto sua madre e suo padre, non avrebbe più giocato coi figli dei vicini. Questo pensiero diveniva sempre meno sopportabile, l’ansia le attanagliava il petto e la piccola bimba fantasma cominciò a piangere sommessamente, poi sempre più forte. Sapeva bene che la colpa era sua. Buttò a terra il bucato e corse in mezzo agli alberi. Ora Dio l’avrebbe punita, punita duramente. Desiderava ardentemente tornare a casa. Nel suo cuore continuava a promettere e a giurare che non si sarebbe più allontanata, che non avrebbe più abbandonato i suoi genitori, che non avrebbe più riso inutilmente, mai più. Sapeva però che ormai era troppo tardi. Aveva perso per sempre la sua casa, il suo mondo e non l’avrebbe più rivisto. Vagava fra gli alberi. Una piccola figura vestita di bianco fra alberi giganti, urtando i rami più bassi, quasi annegando nei cumoli di foglie cadute. Non era mai stata in questa parte della foresta, quindi non conosceva la via d’uscita. Sentì il rumore di un veicolo che procedeva lentamente provenire dalla sua destra, un rumore forte. Corse verso quella direzione e, dopo due minuti si ritrovò fuori dal bosco, immersa nella luce diretta. Stava ando sulla strada una lunga colonna di veicoli militari, carri armati e jeep che trasportavano delle persone adulte, stanche ma felici di vivere. Una delle auto si fermò accanto a lei e qualcuno, dall’interno, le rivolse la parola. Si rese conto nuovamente che qualcosa non andava... parlavano una lingua che non aveva mai sentito prima. Continuarono a parlarle e, alla fine, lei fece l’unica cosa a cui i bambini possono ricorrere quando non comprendono cosa accade: scoppiò in lacrime. Funzionò. Due mani forti la sollevarono e la fecero salire a bordo, fu avvolta in una coperta di lana e fu rifocillata con dell’acqua da una borraccia riscaldata. L’auto ripartì e, anche se non si sentiva del tutto comoda, si ritrovò addormentata grazie al calore della coperta, circondata dal rumore monotono del motore.
*
Si svegliò non appena il motore fu spento. Il suo villaggio! A casa! Purtroppo non esattamente. Poteva sembrare il suo villaggio, era simile, ma non era proprio il suo. Le case potevano apparire le stesse, ma erano abitate da persone sconosciute. Vero, alcuni visi sembravano familiari ma non del tutto. Altre cose nei volti erano completamente differenti e gli sguardi, oh gli sguardi! – erano molto diversi. Non emanavano serenità e neppure allegria. Erano completamente vuoti e freddi. Non era il suo paese nativo. Gli assomigliava soltanto; era come se i suoi genitori se ne fossero andati, o se fossero stati sostituiti. Suo padre era stato rimpiazzato da un altro e sua madre si rifiutava di guardala o di parlare con lei, come se non la riconoscesse. Cercò di abbracciarla ma fu respinta. Corse da qualcuno che potava assomigliare ai suoi vicini – ma fu allontanata freddamente. Non la conoscevano, non sapevano chi fosse. Non venne accettata in quel luogo e quindi lei non desiderava rimanerci. Non voleva stare in quel mondo nuovo e strano. Non era affatto simile; era estremamente differente dal mondo da cui proveniva. Kristzah singhiozzò: era la punizione per essersi sottratta ai propri doveri e aver rincorso le farfalle nella foresta. Suo malgrado continuò a rimanere nel nuovo villaggio e crebbe accanto a quelli che assomigliavano ai suoi vicini. Non ricordava molto di ciò che accadde negli anni successivi della sua infanzia. I ricordi si confondevano fra loro in un turbine vorticoso di una vita in un mondo dolorosamente familiare e strano al punto tale da incuterle terrore, senza parenti ne genitori accanto. Non aveva mai smesso di sperare che, un giorno, avrebbe potuto ritornare da loro.
*
Dopo che ebbe smesso di parlare Kristzah restò sulla sedia, in preda ai singhiozzi, esprimendo tutto il dolore proveniente dalla profondità del suo animo. I fratelli erano silenziosi e il sacerdote non riuscì a fare altro che posare una mano sulla sua spalla in segno di conforto. Jeremiah aveva il sospetto, peraltro fondato, che lei avesse raccontato la storia a qualcuno per la prima volta; non solo ad altri, ma anche a sé stessa. Infine smise di piangere. Lasciò dietro di sé il ricordo della bambina che era stata e tornò alla realtà, al qui e al presente. I suoi occhi erano asciutti e si intravedeva nel suo sguardo un senso di vergogna, come se fosse nuda. Avvolse le braccia intorno al tronco, stringendo il suo corpo che era invecchiato con gli anni. Con gentilezza si scusò con Nicolas, borbotto qualche parola e lasciò la stanza. I fratelli la guardarono mentre si allontanava, poi si rivolsero a Nicolas. “Povera donna.” I fratelli era d’accordo e Jeremiah chiese del candelabro. "Questi candelabri non sono di sua proprietà," rispose Nicolas come se avesse completamente dimenticato la ragione per cui Kristzah aveva raccontato la sua storia, "Non sa da dove provengono. Non sa cosa sia lo Shabbase - vengono chiamati in questo modo. È molto semplice."
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La notte scese sull'Europa. Eva Neumann, vestita in modo formale, indossando la sua uniforme da medico, stava cercando di fare chiarezza su quello che le era accaduto durante la giornata. Fortunatamente il lavoro di routine alla clinica la aiutava a schiarirsi le idee. Un flusso regolare e continuo di soldati con piccoli problemi continuava a riempire la sala di attesa. Facevano richiesta di pillole contro il mal di testa, pomate per infortuni sportivi e, come nel caso del ragazzo seduto davanti a lei, di un bendaggio elastico. "Per questa settimana non ti manderanno in guerra," esordì picchiettando amichevolmente sul ginocchio ferito del soldato. "E non giocherai nemmeno a basket." L'esito della 'terribile' notizia era evidente guardando il viso del giovane: shock, tristezza, stupore... Eva quasi scoppiò a ridere. "Okay," disse d'istinto e Eva lo mandò da qualcuno che gli avrebbe medicato la gamba in maniera appropriata. "... Irene, se non c'è più nessuno lì fuori, puoi andare. Sistemo le cose qui." Irene annuì con il capo, ma Eva non la vide. Si rituffò nei suoi pensieri mentre si spostava in una parte più ampia della clinica che solitamente non era aperta ai soldati con patologie lievi. Questa era un'area dedicata al pronto soccorso completamente nuova e sofisticata che includeva anche una sala operatoria che poteva essere pronta per interventi urgenti nel giro di cinque minuti. Eva ricordava benissimo quanto fosse sorpresa quando la vide per la prima volta, non molto tempo fa, e anche come avesse individuato subito gli elementi importanti per soldati di una grande base americana. Era silenziosa, dotata di letti morbidi e lontana da ogni rumore. Con un sospiro, si sdraiò su uno dei letti, si stiracchiò, chiuse gli occhi e cominciò a massaggiarsi le tempie lentamente. Ricominciò lentamente a ripensare agli accadimenti degli ultimi giorni compresa (soprattutto!) alla spaventosa esperienza al poligono di tiro, dove si era dovuta scontrare per la prima volta - alla luce del giorno - con il più terribile incubo della sua infanzia. Sì, realizzò improvvisamente che non si trattava della prima volta. Si era già
vista correre fra quegli alberi alti inseguita da colpi di arma da fuoco. Si ricoprì di pelle d'oca e i suoi capezzoli si inturgidirono. Un brivido freddo le corse lungo la schiena, facendosi si strada fino alla sua consapevolezza più profonda. No, si rese contro che non era la prima volta che quel sogno appariva così realistico, non era la prima volta che si vedeva costretta a scappare per salvarsi la vita... la vita di chi altri? Di chi si trattava, chi tentava di salvare? “È ora che tu ti prenda una pausa," udì una voce familiare.
Aprì subito chi occhi sul mondo reale.
Era così bello. Miguel si trovava in piedi accanto a lei con un sorriso accattivante sul viso e con un pizzico di preoccupazione negli occhi. L'ho spaventato. Lo sapeva bene, ma lui era in grado di fare sempre la cosa giusta. Sapeva come confortarla e stare con lei nel modo più adatto. Le accarezzò la guancia. "Cosa farei senza di te?" "Ora? Ti prenderesti cura di quattro bimbe ebree, molto probabilmente..." Lei rise sonoramente, in modo liberatorio. "Probabilmente..." disse senza riflettere tra un sospiro e l'altro. Miguel aveva un senso dell'umorismo molto piacevole e spesso la prendeva in giro riguardo alle sue scelte, visto che era la figlia maggiore di un Rabbino Capo di New York. In quel momento il senso dell'umorismo era appropriato, decisamente molto appropriato. Lui continuava ad accarezzarle la guancia. "Ci hai fatto preoccupare molto al poligono di tiro. Sembrava che avessi visto un fantasma o qualcosa del genere." La risata scomparve dal viso di Eva, facendo posto ad un vago sorriso.
"Sì... Lo so. Mi dispiace. È stata una cosa improvvisa... Ho sentito molto freddo e una sensazione di terrore...". Poi trasecolò. Una novità ed un freddo senza interruzione: "Stavo sognando e ho visto mio padre, Miguel." Miguel ridacchiò. "Fortunatamente tuo padre è a New York, Evie." Eva era serissima. "No, al momento si trova in Polonia." "Polonia?" "Sì, mi ha informato mia madre... Lui e suo fratello sono partiti per un viaggio alla ricerca delle loro radici." "Il fratello sacerdote?" Se esisteva un particolare che Miguel apprezzava particolarmente nella storia di Jeremiah e del fratello era la componente ironica. Miguel era cattolico e desiderava fortemente incontrare lo zio cristiano della sua futura moglie, che era improvvisamente piovuto in una famiglia di ebrei ortodossi. Forse si stavano concretizzando le possibilità che ciò accadesse... "Sì. Il sacerdote." Miguel guardò negli occhi preoccupati di Eva e si trovò a riflettere sui suoi stessi sentimenti. La vicinanza di Jeremiah lo preoccupava in un modo che non comprendeva del tutto. Non senza sorpresa, si rese conto della serenità che gli dava la distanza fra loro e gli Stati Uniti. Apprezzava molto il fatto che ci fosse un intero oceano fra la sua amata e la sua opprimente famiglia. Ora che il padre/rabbino di Eva vagava per la Polonia, a meno di due ore di volo, non si sentiva più così tranquillo. Ricerca delle radici, pensò. Mi chiedo cosa si aspettino di scoprire.
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Trovarono il primo indizio significativo relativo al mistero di Nabradosky la
mattina seguente, meno di cinque minuti dopo essere usciti dalla loro stanza. Il Venerdì mattina il tempo era piovoso e cupo a causa della pioggia, caduta in maniera costante durante la notte. A differenza della parte sovietica della città, le cui strade lastricate con cemento danneggiato e acciaio, la parte antica di Nabradosky sorgeva direttamente sul terreno senza un filo di asfalto o pavimentazione. I sentieri fra le case erano ricoperti da uno strato di fanghiglia scura pressata, piene di pozzanghere di acqua fredda e fango. Jeremiah dovette ammettere a sé stesso che, non sarebbe stato qualificabile come il più bel posto del mondo nemmeno in una giornata di sole, figuriamoci in una giornata come quella. I tre grandi alberi, grazie ai quali i due fratelli avevano identificato la città, si trovavano sempre al centro del quartiere. Sparse attorno ad essi, sorgevano alcune piccole casupole bianche in diversi stati di costruzione; alcune non erano altro che delle rovine in stato pessimo, prive di tetto. Le 'strade' erano delimitate da strisce di fango misto a ghiaia. La vegetazione, selvatica e incolta, le invadeva, debordando dai giardini delle case. In questa parte della città gli unici esseri viventi in movimento erano delle mucche smunte e alcuni polli, che si spostarono svogliatamente al aggio della Lada. Oltre ad essi non si vedeva nemmeno un'anima sulle strade, nemmeno un'anima tra le case. Parcheggiarono vicino ai tre alberi e scivolarono fuori dall'auto immersi in un totale silenzio. Si strinsero nei loro cappotti ed esaminarono i dintorni. Visto che il tempo era leggermente migliorato e la pioggia si era ridotta a un leggero gocciolare, i fratelli decisero di ripararsi vicino al tronco, sotto le protezione del fogliame. Con la schiena appoggiata ai tronchi, guardavano la città tetra, cercando di pensare da dove cominciare, senza scambiarsi una parola, nemmeno una parola e neppure uno sguardo. Il freddo e lo stato d'animo turbato permeavano i loro corpi, rendendo secca la loro lingua mentre aggrottavano la fronte crucciata. La pioggia gelida lanciava schizzi tutt'intorno e, soltanto grazie agli aghi degli alberi non si inzupparono completamente. Inconsapevolmente, Isaiah colpì lo scuro tronco, malconcio, di uno dei tre alberi. Era freddo, ruvido e secco. Nessun segno di vita, nessuna linfa vitale. Era diventato solo un guscio rinsecchito, segnato pesantemente dalle intemperie e
dal tempo. La cosa strana era il fatto che Isaiah riusciva a percepire tutto questo con un semplice e leggero tocco della mano. Mentre si domandava quale fosse il motivo si girò verso il fratello. "Guarda, Jeremiah." Il tronco morto era costellato da fori di proiettile. Non uno, ma molti. Non erano nascosti come nel caso gli altri due alberi (come scoprirono dopo quale secondo) ma ben visibili. Al loro interno si scorgeva il luccichio di alcuni proiettili, smussati e arrugginiti. Jeremiah fu sopraffatto dal suo antico sogno ricorrente.
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Il sogno era ambientato nello stesso luogo, ormai terribilmente familiare. Questa volta, però, non si trovava nel solito sogno che lo tormentava oramai da moltissimo tempo. Si trattava di un ambientazione sfocata, più frammentata, ma i tre alberi erano presenti, così come il rumore degli spari... il luccichio delle pallottole... e alcune persone che correvano per poi cadere a terra. Un uomo arrivò, correndo, davanti agli alberi e cadde... cadde sul terreno.
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Lo sguardo di Jeremiah si spostò su una casupola, lì vicina. "Andiamo." L'intensità della pioggia non mutò e le gocce fredde penetravano nello spazio fra il colletto del soprabito leggero di Isaiah ed il suo collo. Jeremiah era protetto dal grande cappello scuro e, per la prima volta da quando era giunto in Polonia, si sentì a casa. Dopo tutto, egli sapeva benissimo che il suo abbigliamento era
tipico dell'Est Europa. Era stato creato appositamente per quel clima, molto spesso lugubre.
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Continuarono a esplorate le case abbandonate, guardando a destra e a sinistra. Non tutte le abitazioni erano abbandonate: alcune erano imbiancate di fresco e ben tenute, dotate di porte di legno relativamente nuove. Nuove e chiuse. Alcune mucche erano legate and un albero che sbucava dal suolo con accanto un mucchietto di cibo bagnato. Il paesaggio era così simile a quello del sogno ricorrente di Jeremiah ma, di certo, era uguale al panorama di centinaia di piccoli villaggi della Polonia e, probabilmente della Russia. Paesini minuscoli, abbandonati da Dio, sperduti in altri tempi, in altre ere. Per alcuni minuti vagarono tra le case, accompagnati dal ticchettio della pioggia sottile. Le pozzanghere si riversavano in altre pozzanghere, un campo incolto si confondeva con una strada indefinita. In America, pensò tra sé Jeremiah, avremmo trovato capanne e scatole di cartone in un posto simile. Qui la situazione era decisamente differente. Rivolse l'attenzione di nuovo ad Isaiah, che stava vagando senza meta. Come lui, era silenzioso, le sopracciglia aggrottate, lo sguardo distante. Jeremiah conosceva il motivo. “Isaiah, sogni spesso?" "Sogni - ti riferisci a sogni ad occhi aperti?" "No. parlo di sogni veri e propri." Isaiah sospirò. Sognare era la sua specialità fin dai giorni della scuola. Durante il giorno sognava ad occhi aperti i giorni lontani e di notte sognava di alzarsi da un letto soffice. Questa volta sapeva esattamente cosa intendeva dire il suo gemello e il suo cuore quasi si fermò.
"Faccio spesso uno di quei... sogni ricorrenti. È ambientato in una cittadina come questa. Ma questo sogno... non sembra essere tale. Assomiglia di più ad un antico ricordo. "Di cosa si tratta?" "Bene, riguarda due bambini in una cesta. Forse sarebbe meglio dire che penso siano due bambini. Io ero sicuramente un bambino e accanto a me..." "... un secondo bimbo. In una cesta di vimini." Si fissarono l'un l'altro con una luce misteriosa negli occhi. All'improvviso entrambi erano consci di aver condiviso per anni lo stesso sogno, il medesimo sogno ed era una sensazione fantastica - che solo due gemelli identici possono provare. La loro gioia era grandissima, eccitante... purtroppo dovevano considerare anche l'altra parte del sogno, la parte oscura.
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"C'era anche nostra madre. Ci ha preso fra le braccia ed è scappata con noi." "Nostra mamma... sì. Qualcosa la spaventava." "Sì, è spaventata. Terrorizzata a morte." Isaiah si fermò. Nuovi sentimenti facevano tremolare la sua voce, mentre gli tornavano alla mente particolari che reputava morti e sepolti da molto tempo. Tornò con la mente alla sua prima infanzia, alle notti fredde sotto una coperta pesante. "Ricordo... che quando ero piccolo, gattonavo sul letto di mamma e papà durante la notte. Mi abbracciavano e mi coccolavano. Ogni volta che accadeva, nostro padre apriva il libro dei salmi e lo leggeva. All'età di cinque anni sapevo tutto il libro a memoria." La pioggia smise di scendere e gli spruzzi leggeri scomparvero dalle strade
vuote. Continuarono a camminare tra le pozzanghere piene di fanghiglia senza sapere esattamente cosa stavano cercando e se davvero volessero scoprire qualcosa. Viale dopo viale, casa dopo casa, le porte rimasero chiuse. Il suono della ghiaia sotto le loro scarpe era l'unico rumore che sentivano. "Dove sono tutti?" di chiedeva Jeremiah. "Sono le due del pomeriggio, siamo in pieno giorno..." Jeremiah non riusciva a comprendere. Dopo averci pensato un attimo, avvicinò le mani alla bocca, come farebbe uno speaker, gridando con voce forte e potente, "Salve! Non c'è nessuno qui?" Come risposta si udì solo un'eco fievole. Dietro alle loro spalle si udì un altro tipo di suono. Una porta si aprì, cigolando leggermente ed essi si voltarono sorridendo. Purtroppo il sorriso scomparve velocemente dal loro volto, non appena videro un ragazzino sulla soglia mentre la mano della madre lo costringeva a rientrare. La porta fu chiusa a chiave e la piccola finestra che si trovava accanto ad essa fu serrata. Si guardarono a vicenda. La reazione era stata decisamente esagerata. Si avvicinarono e bussarono. "Buongiorno" disse Isaiah. Rimasero in silenzio per qualche secondo, in ascolto al fine di percepire eventuali sussurri dall'interno. Isaiah era sul punto di bussare di nuovo, ma in quel momento la porta si aprì. Non fu spalancata ma, da un piccolo spiraglio riuscirono a vedere il viso di una donna di circa cinquant'anni. Li stava fissando con un'espressione fredda in viso mentre le sue dita pallide stringevano la maniglia. Nicolas non era con loro e così Isaiah cercò di mettere insieme quelle poche parole di polacco che aveva appreso lungo la strada ed esordì, "Salve, io..." Purtroppo la donna reputò di avere sentito abbastanza e disse ad alta voce, "No, no, non, no," e richiuse la porta con violenza davanti alle loro facce. Si udì la chiave girare nella serratura.
Isaiah si allontanò dalla porta. "Cosa hanno tutte queste persone?" disse con tono stizzito mentre si girava per ritornare verso la strada. Poi si accorse che il fratello non era con lui. Jeremiah, invece rimase vicino alla porta chiusa per esaminarne uno stipite. Si avvicinò ulteriormente. "Isaiah, guarda questo." Isaiah non vedeva nulla di insolito tranne una sorta di nicchia angolare concava, scavata nella pietra dello stipite della porta. “Questa casa è stata abitata da ebrei." La voce di Jeremiah risultava fredda, secca e senza emozione ma c'era in essa qualcosa di vibrante. "Una casa abitata da ebrei... come puoi saperlo?" Allungò il suo dito indice, picchiettando la nicchia concava. "Mezuzah" Le pupille di Isaiah si dilatarono. Sapeva bene cosa fosse un Mezuzah. Come recitava il verso...? Sì: "Li dovrete scrivere sugli stipiti delle porte delle vostre case e dei vostri cancelli..." "È un Mezuzah," continuò il fratello. "Una nicchia speciale dove inserire le sacre scritture. Ne esiste uno all'ingresso di ogni casa abitata da ebrei..." La sua voce diminuì di intensità e sì spostò all'indietro con un'espressione corrucciata. Si spostò dalla soglia e si diresse velocemente verso la casa accanto mentre Isaiah lo seguiva a ruota. Anche lì era presente la nicchia spoglia a testimonianza di un ato antico. Un tremore involontario scosse le sue spalle. "Anche qui," disse e bussò alla porta. Nessuna risposta. Bussò nuovamente, questa volta in maniera più decisa. La porta rimase chiusa e, anche se non era in buone condizioni, era chiaro che non fosse disabitata. Il suo modo di bussare si trasformò in una scarica di pungi che rimbombarono sonoramente sulla porta. Jeremiah diede un calcio alla porta, poi arretrò, sconvolto. Una goccia di sudore comparve sulla sua fronte.
"Perché nessuno apre la porta?" chiese ad alta voce gridando verso la strada vuota. Qualcosa cominciò a scuoterlo fino al midollo, persino le gambe vibravano. Avvertiva un inteso ronzio nelle orecchie e cominciò a vedere rosso a causa della collera e a correre da un lato all'altro fino alla fine della strada, fermandosi davanti ad un'altra abitazione che aveva attirato la sua attenzione. A differenze delle altre due case, quest'ultima era una vera catapecchia, senza porta, senza tetto, priva di mobili. Nella luce tetra che illuminava la strada, riconobbe un ennesimo Mezuzah sullo stipite della porta e il suo cuore iniziò a battere all'impazzata. Jeremiah sospirò profondamente ed entrò. Il pavimento di sasso era completamente ricoperto di erbacce selvatiche e di vegetazione varia che si era ormai impossessata dalla casa. Fra le mattonelle e sui muri si poteva ancora scorgere del colore. Non era naturale e Jeremiah ò le dita sopra il muro e osservò con più attenzione. Carbone. Jeremiah si spostò all'interno dei locali guardandosi attorno. Il cottage era composto da tre stanze con i muri ricoperti di fuliggine. Guardò gli stipiti delle porte interne, scuotendo tristemente il capo. "Questo è... un Mezuzah... Mezuzah...Mezuzah e questa... questa era certamente una casa abitata da ebrei. Una lacrima prese forma nei suoi occhi, una lieve espressione esterna dell'uragano che stava devastando il suo cuore. Una tempesta incontrollabile, ululante e distruttiva. Corse all'esterno con le lacrime agli occhi. "Case abitate da ebrei..." mormorò fra sé come se non credesse alle sue stesse parole. Poi: "Assassini!" La dura sentenza si librò nell'aria, lungo le strade vuote, oltreando le porte chiuse. I bimbi, a cui non era permesso uscire, cominciarono a saltellare. Le madri, temendo il peggio, controllarono che i chiavistelli fossero ben chiusi.
Persino la pioggia, oh la pioggia scendeva con maggior intensità. "Assassini!" disse ancora, in direzione delle porte serrate. Camminava tra le pozzanghere, cercando un'anima viva, cercando qualcosa da colpire, qualcosa su cui indirizzare la sua vendetta. Una mano lo strattonò da dietro ed egli reagì quasi con violenza. Era Isaiah che lo scosse energicamente e lo costrinse a spostarsi mentre piangeva e urlava. Isaiah lo agguantò nuovamente, cercando di immobilizzarlo, ma Jeremiah lo scansò brutalmente. I suoi occhi erano rossi e gonfi. Una vena della fronte pulsava in maniera violenta. "Jeremiah, smettila..." Ma Jeremiah non si fermò. Attraversò la strada ed esaminò un'altra porta, dove scorse un ennesimo Mezuzah. Guardò il fratello con sguardo accusatorio. "Guarda. Guarda! Si sono appropriate delle nostre case in maniera spudorata!" Chiuse strettamente i pugni e cominciò a percuotere la porta, facendola dondolare. "Uscite. Voglio parlare con voi!" Anche se nessun uscio si aprì, se non fu sollevata nessuna serranda, anche se nessuno emise un suono, il rumore bianco della pioggia regnava incontrastato, inondando i dintorni e Jeremiah si spostò verso il centro della strada in stato di shock. "Una di queste case è stata nostra. Nostra!! Di nostra madre! Di nostro padre!" A questo punto si bloccò e scoppiò in lacrime. Isaiah si avvicinò di nuovo a lui, lo sostenne e lo avvolse in un abbraccio. In questa occasione Jeremiah non lo respinse ma rimase fermo, singhiozzando, scosso da ondate di spasmi, ardentemente coinvolto, mentre la pioggia cadeva intorno a loro. "Guarda cosa ci hanno fatto! Quei... i tuoi cristiani! Li hanno uccisi tutti... li hanno sotterrati tutti, assassinati..." La sua voce divenne flebile fino a scomparire. Stretto nell'abbraccio del fratello, gli spasmi del suo corpo si placarono e il suo respiro tornò ad essere regolare.
Tutto ad un tratto si udì un forte fragore di vetri frantumati. Saltarono come due molle; nei loro occhi un'espressione allarmata. "L'auto..." disse Isaiah e cominciò a camminare verso i tre alberi secolari. Dopo aver udito un secondo fragore, iniziarono a correre, urlando, "Hey! Hey!" Impiegarono meno di un minuto a girare l'angolo ma non furono abbastanza rapidi. La Jeep era ancora al suo posto ma tutti i finestrini erano statati ridotti in pezzi. Sulla vernice del cofano era stata incisa una svastica.
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Udirono lo scalpiccio di qualcuno che si stava allontanando correndo ma riuscirono solo a scorgerne la schiena mentre fuggiva e la testa calva.
Bugie
“Chi pratica la frode non abiterà nella mia casa; chi proferisce menzogna non sussisterà davanti agli occhi miei.” (Salmi 101:7)
I finestrini rotti resero il viaggio di ritorno molto umido, particolarmente freddo e la situazione peggiorava con il are dei minuti. Il dubbio privilegio di stare seduti sui vetri rotti, non aggiungeva nulla di buono a quella situazione anche se, prima di mettersi in moto, avevano ripulito la maggior parte dei frammenti dai sedili. La pioggia torrenziale rendeva difficoltoso procedere, per giunta Jeremiah si era ferito ad una mano a causa di un frammento particolarmente tagliente. Infine sistemarono le cose, ancora scioccati. Mentre Isaiah guidava in silenzio, Jeremiah colse l’occasione per parlare con Hanna al cellulare. La qualità della connessione era perfetta e rapida, nonostante il rumore del vento che soffiava con maggiore prepotenza. Hannah rispose dopo ripetuti squilli e Jeremiah cercò di tenere un atteggiamento del tutto normale. “Tutto bene Hannah. A parte la noia...” I pensieri di Isaiah cominciarono a vagare mentre ascoltava la conversazione. Percepiva l’intima tenerezza che Jeremiah comunicava durante la telefonata, il calore dell’unità familiare che lui, non conosceva da vicino. Ricordava molto bene Hannah nonostante le occasioni di incontro fossero state solo un paio. Ricordava la sua forza quasi illuminante che le stava intorno, il modo in cui riusciva a placare le tempeste che li circondavano. Sì, avrebbe potuto innamorarsi di lei. Fortunatamente suo fratello l’aveva incontrata per primo. “No, non ti preoccupare. Assicurati che le ragazze studino. Prenditi cura di Rachel, mi raccomando. Non possiamo permettere che le accada ciò che è successo a... a sua sorella. Dovrà continuare a frequentare la scuola Beit Yaacov. È la mia ultima parola!” Isaiah pensava tra sé. Conosceva pochi dettagli della diatriba tra Jeremiah e la figlia maggiore. Il suo sesto sento gli suggeriva che Hannah gli stava chiedendo aiuto per ammorbidire la rigida posizione del fratello. Infatti, per quale motivo egli riusciva ad accettare che suo fratello fosse cristiano, ma non riusciva ad accettare che il marito di sua figlia fosse cristiano? Non era una posizione equa... anche se riusciva in qualche modo a capire il suo punto di vista. Permetterei a mia figlia di convolare a nozze con un ebreo invece che con un cattolico? Non gli piacque la risposta che diede a se tesso. “Ebrei? Abbiamo scoperto qualcosa ma non posso parlarne al telefono... no, non
abbiamo bisogno d’aiuto, abbiamo trovato quello che stavamo cercando... saremo di ritorno dopo lo Sabbath...” Forse fu lo sguardo indagatore di Isaiah, forse l’essersi ricordato troppo tardi del fatto di essere seduto proprio accanto a lui, ma qualcosa indusse Jeremiah ad esitare leggermente e a correggersi. “... Intendo dire una volta ata la domenica, intendo dire... va bene? Ti chiamo più tardi.” Jeremiah chiuse la comunicazione e Isaiah non lasciò are neppure un secondo.” “Cosa intendi dire quando affermi che abbiamo trovato ciò che stavamo cercando? Non sono d’accordo!” “No. E le case abitate da ebrei? Le case distrutte? Cosa vuoi di più? Una confessione scritta?” “Dici questo soltanto perché sei convito di avere ragione a priori. Forse anche i cristiani vivevano lì? Forse non si tratta neppure dello stesso luogo come ha detto Jerric.” Jeremiah fece una risata sprezzante. “Jerric? Quel vecchio ci ha mentito guardandoci negli occhi! Ci sta nascondendo qualcosa.” “Forse. O forse no.” Per tutto il resto del tragitto regnò il silenzio. Isaiah era certo di avere, in qualche modo, urtato la sensibilità del fratello, ma non sarebbe stato di nessun aiuto ignorare l’altro aspetto della questione. Dal punto di vista di Jeremiah, esisteva solo un modo per vedere la realtà, solo un’unica interpretazione di quello che avevano scoperto. Era vero: Jerric stava nascondendo qualcosa, ma sembrava lo fe per il loro bene. Era vero anche che gli stipiti delle porte, probabilmente indicavano che un tempo, quelle case erano state di ebrei. Quindi? Non significava che fossero state abitate dai loro genitori! Isaiah non poteva essere d’aiuto ma si sentiva ugualmente leggermente frustrato.
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La sua frustrazione crebbe ulteriormente non appena entrarono nella loro stanza, ancora in totale silenzio. Nicolas era seduto sul letto, in mezzo ai documenti sparsi, come se fosse appena ato un tornado. Quando alzò gli occhi, il suo sguardo esprimeva disperazione e noia. “Allora, hai trovato qualcosa?” Nicolas alzò le spalle. I documenti sul letto, pur essendo moltissimi, rappresentavano solo una piccola parte di quelli che si trovavano ancora nelle scatole. Nicolas sembrava sperduto fra l’enorme massa di informazioni di poco valore, per nulla chiare e senza senso. “Non ancora,” disse. “Ma sono solo all’inizio.” Bussarono alla porta e, prima che qualcuno di loro potesse reagire, Kristzah entrò volando, con un vassoio in mano. Chiuse la porta alle sue spalle e girò il chiavistello. Jeremiah e Isaiah, fermi in piedi, si scambiarono un’occhiata. “Va tutto bene Kristzah?” chiese Nicolas in polacco. “Sì, sì. Vi ho portato del cibo. Sarete affamati.” Nicolas sorrise. “Grazie, ma perché? Possiamo mangiare al pian terreno – con tutti gli altri.” La risposta ansiosa dell’anziana donna li lasciò esterrefatti. Kristzah cominciò a scuotere il capo visibilmente, si esprimeva come se avesse un nodo alla gola emettendo parole poco chiare. Nicolas riuscì a calmarla e a farla smettere di blaterare. “No, no! Non scendete.” Le parole le uscirono di bocca senza preavviso, mentre ansimava e sussurrava, “Stanno parlando di voi... male di voi.” Jeremiah non comprese la scena drammatica che si stava svolgendo davanti ai
suoi occhi in polacco . Toccò la spalla di Nicolas. “Cosa vuole, Nicolas?” “Ci ha portato del cibo per fare in modo che non scendessimo. Sembra che... le persone stiano parlando di noi al pian terreno.” Isaiah, irritato, aprì la porta e sbirciò nel corridoio. Non c’era nessuno. Jeremiah osservò i suoi movimenti e poi continuò a porle delle domande, “Stanno parlando? Chiedile chi sta parlando di noi.” “Chi sta parlando di noi Kristzah?” La sua risposta non fu molto più comprensibile dei documenti che si trovavano sul letto. “Loro! Loro!” “Loro? Di chi si tratta?” Chiese Nicolas a voce alta, quasi strillando, ma Kristzah mise, subito una mano sopra le su labbra. “Shhhh... non nominarli. Non sono uguali a noi. Non parlare di loro. Non si deve fare. Non si devono citare. Mai.” Poi, come se si fosse resa conto del suo comportamento bizzarro, liberò la bocca di Nicolas ed emise una risatina nevosa che risultò quasi isterica, o certamente molto vicina ad esserlo. Questa volta portò le mani alla sua bocca e, senza aggiungere nulla, uscì dalla stanza. Chi sta parlando di noi, pensò Jeremiah. E dove?
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Cinque persone di una certa età erano sedute in un’ampia ed elegante stanza a soli cinque minuti di distanza da loro. L’ampio locale era nascosto nelle fondamenta della casa più lussuosa di
Nabradosky. Il muro di cinta di mattoni, il giardino molto esteso e ben curato, il cancello di sicurezza elettrico, separavano la proprietà da quelle delle persone comuni. I simboli caratteristici della case di prestigio erano presenti anche all’interno della casa e la stanza del piano interrato non faceva eccezione. Era interamente rivestita di pannelli di legno, ricca di costosi tappeti Uzbeki e ammobiliata con divani di pelle nera. Nel centro della stanza campeggiava un pesante tavolo di legno massiccio, ornato con preziose litografie si. Suo tavolo si trovavano cinque tazze, un torta calda e due bottiglie di cognac di importazione. Sui divani si erano accomodati cinque uomini dall’aria rispettabile: Jerric, ben vestito come sempre e accanto a lui Erich, Franz, Thomas e Andzej. Jeremiah e Isaiah li avevano incontrati la sera in cui giunsero a Nabradosky ma qualcosa era cambiato dal quella sera alla taverna. Ora erano molto più solenni, quasi preoccupati. “Era da molto tempo che non ci radunavamo nel modo i cui sta accadendo oggi,” esordì Jerric. Gli altri annuirono. Erano ati parecchi anni da quando si erano ritrovati in quella stessa stanza e nessuno di loro avrebbe immaginato che sarebbe successo nuovamente. “Quei... turisti,” disse Erich. “Ci stanno dando dei problemi.” Si rivolse a Franz che era seduto di fronte a lui, il quale continuò con voce roca, “Oggi hanno visitato il vecchio villaggio e sono entrati nelle abitazioni.” “Si?” disse Jerric. “Cosa hanno detto?” Franz scosse la tesa. Non parlava inglese e Jerric ne era conscio, ma questa non era la ragione per cui non sapeva di cosa avevano parlato i due turisti. “Sono stati visti dal nipote di Erich.” Jerric rivolse i suoi occhi di un blu inteso, verso Erich ed egli rabbrividì leggermente. Non gli piaceva per nulla l’espressione di quegli occhi e non gli
piaceva il fatto che suo nipote fosse coinvolto in quella conversazione. Esistono cose che vanno portate avanti da soli, senza famiglia, senza nipoti. Non erano argomenti di cui suo nipote si doveva occupare e Franz non avrebbe dovuto coinvolgerlo. Jerric rimaneva in attesa. “Sì... hmm... li ha visti girovagare al villaggio. Non mi piace, Jerric.” Gli occhi di Jerric continuavano a fissarlo freddamente. Erich odiava il suo sguardo e il modo in cui cercava di leggere dentro di lui. Odiava Jerric – si era reso contro di questo già da molto tempo, ma non riusciva a fare nulla tranne, forse, essere deliberatamente offensivo di tanto in tanto. “Cosa ti hanno chiesto realmente, Jerric. Parlo di quando sei andato ad incontrarli nella loro stanza?” Jerric sorrise, mostrando i pochi denti. Avevano portato avanti il medesimo giochetto più di una volta, in ato ed egli sapeva esattamente cosa provava Erich nei suoi confronti. Lo divertiva, era sempre piacevole avere a che fare con lui. Povero Erich... era sempre stato uno sciocco e da sciocco morirà. Aveva preso questa decisione già molto tempo fa. “Niente... solo due americani in vista in Polonia. Sai come vanno questo tipo di cose, l’ebreo sta cercando di dimostrare qualcosa alla Chiesa. Cosa è cambiato? Cosa avrebbe potuto cambiare?” “Non lo so!” rispose Erich seccato. “Non voglio neppure saperlo! Si stanno immischiando in ...” “Erich cosa ti preoccupa in realtà?” lo interruppe Erich in maniera brusca. Erich fissava le sue stese scarpe. Come può saperlo? Come può sapere tutto ogni volta? Guardò Jerric diritto in quegli occhi da predatore. Guardò quel sorriso che mostrava non appena si percepiva odore di sangue. “Erich? Forza, raccontaci cosa è accaduto?” Erich inspirò tutto l’aria che poteva. La cosa sarebbe emersa prima o poi e forse ora era il momento più giusto.
“Sono stati al municipio.” Jerric fu assalito da un attacco di tosse, sorpreso e seccato. Non si aspettava nulla del genere; questa notizia rendeva le cose più difficili ma non voleva darlo a vedere. Quell’idiota di Erich... e la sua famiglia... “L’hai saputo da tuo figlio? Cosa cercavano?” “Hanno prelevato dei vecchi documenti, risalenti al tempo della guerra.” Era troppo. Non esisteva nessuna ragione per mantenere un comportamento civile. Jerric si alzò in piedi furioso e per poco non ribaltò il tavolo. Tutti gli altri lo fissarono con curiosità. La curiosità si trasformò in rabbia contro Erich quando compresero, come Jerric, il significato di quello che era accaduto. Jerric, riprese il controllo di sé stesso ma non riuscì a mascherare del tutto gli ultimi residui di rabbia. “Avrei dovuto dare a quell’idiota di tuo figlio un lavoro nella raccolta rifiuti non all’archivio comunale.” Nel profondo de suo cuore Erich era d’accordo con lui. Suo figlio non brillava per perspicacia e aveva commesso parecchi errori nella vita. Senza l’aiuto di Jerric, non avrebbe potuto essere altro che un barbone ubriaco nel vecchio villaggio. Però era pur sempre suo figlio ed era nei guai. “Non essere in collera con Hans per favore... aveva bisogno di soldi.” Purtroppo Jerric era furioso. Estremamente furioso. “È un idiota e anche tu sei un idiota!” “No, no!” “E cosa fa suo figlio da te tutto il giorno?” Proseguì Jerric. “L’ho visto con tutta la sua gang!” Erich chiuse gli occhi. Si stava verificando il peggiore degli scenari per lui: suo nipote, il suo amato nipote, era riuscito ad attirare l’attenzione di Jerric e la cosa non era positiva. Era totalmente negativa. Negativa. “Pavel, nulla... è un bravo ragazzo che si occupa di suo nonno...”
“Si occupa di te, huh? È un neonazista!” La parola risuonò nella stanza e tutti smisero di parlare. Silenzio. Jerric si sedette e si versò del brandy e ne bevve un sorso. Erich si unì a lui ma con un fine completamente diverso: nascondere il sorrisino che aveva sule labbra. Neonazista... perché no? “Dimenticati di lui, Jerric,” intervenne Franz. “Ora abbiamo un grosso problema. Quell’ebreo finirà per scoprire qualcosa.” “Quell’ebreo non rivelerà nulla. Qualcuno morirà prima che ciò accada.”
*
L’unico a perdere la vita quella notte fu un gatto randagio. A prima vista, sembrava fosse morto per un trauma alla testa. Il cranio era completamente a pezzi ma, da un esame più approfondito sarebbero emerse delle profonde ferite da arma da taglio in diverse parti del pelo e un esame ancora più accurato, avrebbe rivelato che il sangue conteneva un’alta percentuale di adrenalina. C’era una buona ragione. Per più di venti minuti aveva cercato di sfuggire ad una banda di giovani skinhead che gli lanciavano addosso tutto ciò che capitava loro tra le mani: sassi, pezzi di ferro, lattine. Il gatto si era rifugiato sulla cima di un piccolo albero, cercando di evitarli meglio che poteva ma, finì per soccombere, colpito da un lancio ben assestato. Cadde in piedi al centro del circolo di quei personaggi. Cercò di scappare a destra e a sinistra, ma fu tutto inutile. Dovunque si dirigesse veniva colpito con un calcio, o da uno stivale chiodato o da un piede di porco. Il terrore traspariva dai suoi occhi giallo-verdi; era terrorizzato con il pelo ritto. Stava vivendo i peggiori minuti della sua vita.
Un colpo sferrato con una barra ferro fu fatale; mise fine alla sua vita e al divertimento di quei bulli. Rimasero a guardare in corpo dell’animale senza vita per alcuni secondi a metà fra lo stupito e il perplesso. Pavel spostò con un calcio il gatto a lato della strada facendolo rimbalzare sul muro della casa che si trovava dall’altro lato della strada fangosa. Il calcio ben assestato scatenò l’applauso degli altri. “Whoa... Maradona.” Continuarono a girovagare senza senso sulle strade bagnate nei loro cappotti neri e calzando stivaloni pesanti. Pavel procedeva con in mano la barra di metallo facendola strisciare su di una recinzione metallica; un cane cominciò ad abbaiare a distanza. Guardò la lattina di birra ormai vuota e l’accartocciò. La notte era ancora giovane e il suo corpo non aveva ancora ricevuto la quantità di alcool a cui era abituato. Bene. Sorrise. “Andiamo a fare un giro in auto.”
*
I lavori stavano proseguendo nella camera dei gemelli. Nicolas mostrò a Jeremiah e Isaiah come aiutarlo a portare avanti una classificazione iniziale dei documenti, basandosi su semplici indicazioni che avrebbero estremamente velocizzato il processo. Un secondo scatolone di documenti fu appoggiato sul letto e i due fratelli si lanciarono a capofitto su di esso come se avessero trovato un tesoro. Purtroppo ottennero scarsi risultati. Nonostante il ritmo fosse veloce, Nicolas non riuscì a trovare nemmeno un dettaglio significativo che contribuisse al raggiungimento del loro scopo. Non una parola in merito alla nascita di gemelli, nessuna menzione ad ebrei, nulla.
arono le ore e scese la notte. Al pian terreno il pub era aperto ma si fecero vive solo pochi avventori. Jeremiah alzò gli occhi dalla pila di documenti e si stiracchiò. “Scendo per un drink. Qualcuno desidera qualcosa?” Isaiah stava considerando di seguirlo, ma, fine rinunciò. Nicolas chiese una birra. Jeremiah scese, immerso nei suoi pensieri. L’aria fresca del corridoio gli stava dando sollievo e improvvisamente si sentì leggero. Notò che Kristzah non era nella stanza e la sua assenza gli riportò alla mente il suo strano comportamento di qualche ora prima, Chi è? si chiese. Era del tutto pazza? Shuga aveva dichiarato che non era mai stata del tutto sana di mente. Egli ci credeva, ma credeva anche a lei. Arrivò a metà della rampa di scala, evitando di esporsi alla vista delle persone presenti nel locale. Non amava gli sguardi e, anche se il bar era quasi vuoto, preferiva attirare l’attenzione di Shuga senza esporsi troppo. Shuga non si trovava dietro il banco del bar, ma in cucina. Jeremiah capì che stava sciacquando dei bicchieri e riusciva a vedere il grembiule bianco da uno spiraglio della porta. Attese alcuni secondi. Poi molti altri ancora. Alla fine si arrese. Shuga non sarebbe ritornato in breve tempo e sembra sciocco nascondersi nella tromba delle scale (anche se ogni singola cella del suo corpo gli suggeriva di rimanerci). Aveva molta sete e desiderava dell’acqua e doveva fare qualcosa. Scese lentamente un altro gradino mentre udiva il cigolio del legno sotto ai piedi. La sala del pub diveniva visibile man mano che egli scendeva, prima i tavoli più vicini poi quelli più distanti, alcuni completamente vuoti. Infine fece l’ultimo o e si espose alla vista di tutti. Con sua immensa gioia, nessuno lo notò, fatta eccezione per qualche sguardo sporadico. Si avvicinò alla porta della cucina e la aprì.
“Shuga?” Il barista, che dava le spalle al lavandino si girò per guardarlo, con le mani coperte di schiuma, senza accennare il minimo sorriso. Jeremiah non provò nemmeno ad accennare qualche parola in polacco ma si limitò a mimare il gesto di bere direttamente da una bottiglia indicando poi, con il dito verso l’alto, la loro stanza. Shuga annuì e fece cenno con le dita che avrebbe provveduto entro cinque minuti. Anche Jeremiah fece un cenno di assenso con il capo e sorrise. Indipendentemente dalla lingua che si parla un drink è riconosciuto universalmente. Si girò di nuovo verso la tromba delle scale e, prima di scomparire dalla vista, lanciò un’ultima occhiata attorno alla stanza che si stava riempiendo gradualmente. Altre persone entrarono nel locale e vennero accolte da alcuni amici, seduti ad un tavolo laterale. Jeremiah era quasi sul primo gradino ma qualcosa, improvvisamente, lo turbò – qualcosa che aveva visto accadere all’esterno, attraverso la porta aperta. Assunse un’espressione preoccupate e si girò verso la porta.
*
Una sferzata di aria fredda colpì il suo viso non appena la porta si aprì. I suoi occhi faticarono ad abituarsi all’oscurità esterna ma, anche se la luce non era abbastanza potente, riuscì a vedere chiaramente ciò che aveva intravisto dall’interno: nella loro auto era seduto un ragazzo di circa 20 anni, con la testa rasata che stava armeggiando con i cavi sotto il volante. Jeremiah pensò, per una manciata di secondi, di tornare indietro a chiamare suo fratello e Nicolas ma decise di non farlo. Nel tempo che avrebbe impiegato a salire e a ridiscendere la macchina sarebbe scomparsa, ne era certo. Si avvicinò alla jeep con un grido soffocato nel petto che non riuscì ad emettere. Due i prima che potesse raggiungere il veicolo, gli occhi di Jeremiah si girarono verso l’alto e stramazzò a terra. Pavel sogghignò alle sue spalle e guardò la spranga di acciaio con rinnovata considerazione. Hey, pensò tra sé, non ho nemmeno dovuto colpirlo troppo forte. Lo reputava un attrezzo molto utile e
aveva definitivamente steso quell’ebreo – come il gatto – in modo molto efficiente. Purtroppo era ancora vivo – doveva intervenire. Pavel sollevò di nuovo la barra.
*
L’urlo acuto risvegliò Miguel dal suo profondo torpore. Si alzò velocemente, con il cuore che batteva all’impazzata. Eva era seduta nel letto al suo fianco, completamente sudata e con il viso pallidissimo. Si alzò di scatto, trascinando con sé la coperta e facendola cadere a terra. Corse verso il piccolo soggiorno e si sedette vicino al telefono. Compose un lungo numero telefonico con le mani tremanti ma, prima che potesse finire di digitarlo, riagganciò la cornetta. Quando Miguel arrivò, addormentato e confuso, lo compose di nuovo. “Eva, cosa...?” “Mio padre. Gli è successo qualcosa.” Prese la linea. Cominciò a squillare - Eva fece un rapido calcolo a mente. Doveva essere pomeriggio quindi sarebbe stata sua madre a rispondere alla chiamata... almeno sperava. Miguel la guardò scettico. Non aveva un bell’aspetto. Assolutamente no. Cominciava a non apprezzare più l’idea di essersi trasferiti in Europa. Forse il fatto di non trovarsi più in America non era d’aiuto per lei oppure, realizzò all’improvviso, era stata la situazione del rapporto con suo padre a portarla sulla soglia del collasso emotivo. “Tuo padre? Forza, Eva... si tratta solo della tua immaginazione...” Eva lo raggelò con uno sguardo duro e riportò la sua attenzione sulla telefonata. Sapeva molto bene che quella conversazione era particolarmente delicata.
“Mamma? Ciao... sono io. In quale parte della Polonia si trova papà? No, non è successo nulla...”
*
In realtà qualcosa era accaduto Jeremiah non ricordava molto. Dopo avere perso quasi conoscenza, cadde sul terreno bagnato con la guancia. Finì nella pozzanghera. In maniera confusa riuscì a capire che qualcuno lo stava picchiando. Sentì che uno stivale stava comprimendo il suo viso, ma non percepì dolore. Sentì la barra di acciaio colpirgli le costole ma la punta aguzza non lacerò la sua pelle. Lo stavano colpendo con calci ad un braccio ma non realizzò che fosse rotto. La vista si offuscò. Il mondo mulinava attorno a lui. In maniera vaga udì delle urla che lo schernivano chiamandolo “ebreo”. Cominciò a piangere dentro l’anima. Aveva vissuto questo momento in sogno molti anni prima. Aveva sognato quelle stesse parole, quelle urla. Stava per morire. Il colpo di grazia sarebbe stato sferrato a moment poi tutto sarebbe diventato bianco. Con la coda dell’occhio vide il suo telefono cellulare che squillava sull’asfalto, vicino alla pozzanghera. Si allungò per raggiungerlo, cercando di avvicinare la mano al piccolo telefono nero. Poi vide una altra mano, più giovane, che lo afferrava. Un altro pugno colpì il suo viso.
*
Le voci che provenivano dalla strada sottostante non attirarono l’attenzione di Isaiah e finché la parola “ebreo” non attirò Nicolas vicino alla finestra.
Spalancò subito gli occhi e gridò a pieni polmoni “Hey! Lasciatelo stare! Ora scendo!” Solo in quel momento Isaiah alzò gli occhi dai documenti e si avvicinò alla finestra con aria preoccupata. Gli bastò un’occhiata. Balzò fuori dalla camera accanto a Nicolas. Per fortuna di Jeremiah non furono gli unici. Il gruppo degli spietati assalitori aveva attirato l’attenzione di altri clienti del bar. Isaiah e Nicolas non furono gli unici a precipitarsi all’esterno e anche Shuga uscì dal pub, brandendo un lungo coltello. Shuga era un brav’uomo Non era felice di avere nel suo hotel quel genere di visitatori, certamente non lo era dopo aver ricevuto quella chiamata inquietante da Jerric. Però lo scontento era una cosa e il linciaggio di un ebreo da parte di un gruppo di hooligans fuori dalla sua porta era un’altra. Lui aveva un dignità. Inoltre li odiava. “Andate via di qui, vandali!” Shuga era un omone con un enorme coltello da cucina che luccicava tra la sua grossa pancia e la barba nera e stopposa. Avrebbe dovuto mandare nel panico quella banda di delinquenti capitanata da Pavel ma quei personaggi non si lasciarono sconvolgere più di tanto. Avevano portato a termine ciò che si erano prefissati ed ora avevano un nuovo cellulare con cui giocare. Shuga cercò di inseguirli ma si arrese dopo alcuni metri, agitando un pugno e lanciando succose imprecazioni in polacco. Infine si girò e tornò indietro. Jeremiah giaceva sulla strada e non si muoveva. Alcune persone si erano radunate attorno a lui ma nessuno osava avvicinarsi. Shuga udì qualcuno sussurrare la parola decesso e qualcun altro non era troppo dispiaciuto della cosa. Il gruppo fu fatto allontanare e Nicolas prese posizione accanto a Jeremiah. Si sdraiò accanto a lui sbalordito. Dopo un secondo sopraggiunse anche Isaiah affannato. Toccò la fronte del fratello e la mano si sporcò di rosso vivo.
“Jeremiah! Stai bene?” Nessuna risposta. Nessun movimento. Shuga si avvicinò a loro con il coltello ancora tra le mani. Nicolas, scioccato, girò gli occhi verso l’altro per guardarlo. “Chi erano. Tu lo sai?” “Vandali. Ragazzini che dovrebbero lavorare invece di girare per le strade. Come sta il tuo amico ebreo?” Jeremiah respirava a malapena. Non era cosciente e il suo avambraccio sinistro era piegato con una strana angolazione. Nicolas e Isaiah si scambiarono uno sguardo. Dovevano portare Jeremiah nella stanza sul retro. Nicolas corse a chiamare un medico.
*
Il freddo è un fenomeno strano. Proprio come un muro molto alto può essere una sfida per qualunque essere umano. Se non lo si affronta con la dovuta cautela può sopraffarti, annullarti, ma se lo aggredisci e lo divori con tutta l’adrenalina e tutta la rabbia possibili, ti può far sentir bene come non mai e ti può portare a spingerti oltre. Alla fine di Dicembre fa molto freddo a Nabradosky ma il per gruppo di ragazzi, che scorrazzavano per le strade durante le ore notturne, la temperatura era calda, molto calda. Alcuni di loro indossavano cappotti pesanti che tenevano aperti e Pavel addirittura non lo portava. Era come se galleggiasse sulle onde della sua stessa adrenalina, gridava a pieni polmoni, sentendosi più forte che mai. Ad un certo punto si calmò, guardandosi intorno. Si trovava nella zona della città vecchia, vicino al punto in cui avevano distrutto l’auto dell’ebreo. Guardò il piccolo e prezioso oggetto che teneva ancora tra le mani: un telefono cellulare, come quelli che, fino ad ora, aveva visto solo in televisione. Bottino interessante,
di valore. Non come un jeep ma poteva andare. La sua gang cominciò a radunarsi attorno a lui; gli occhi sfavillanti e il respiro accelerato. “Grade Pavel. L’abbiamo ucciso?” “Forse... anzi sicuramente ma è un ebreo – la loro anima è pari a quella dei gatti.” Era praticamente certo che l’ebreo fosse morto. Aveva sentito le ossa frantumarsi sotto i suoi stivali e aveva visto i suo occhi rovesciarsi all’indietro. L’ebreo era morto, pensò tra sé. Doveva essere morto. Un senso di potere si impadronì di lui, facendogli salire l’adrenalina e riempiendolo di orgoglio. L’ebreo era morto! Era un buon motivo per festeggiare. Non aveva mai ucciso un uomo prima ma gli ebrei non sono esseri umani. Giusto? “L’abbiamo ucciso, l’abbiamo ucciso!” gridò qualcuno accanto a lui a cui si aggiunsero presto altre voci. Le urla riscaldavano il cuore di Pavel. Si sentiva parte integrante del gruppo. Anzi, si sentiva un leader. Considerando le cose da tutti i punti di vista, questo era forse il momento più felice della sua vita, il momento che avrebbe sempre ricordato con orgoglio ed un pizzico di nostalgia. Era la prima volta i cui si era concesso di fare realmente ciò aveva sognato per anni. Sollevò il pugno. Non lo riabbassò. Le grida attorno a lui scemarono lentamente. Le bocche si chio e gli occhi si rivolsero al suo braccio sollevato. Sapevano molto bene cosa stava per accadere. Lo sapevano e non avrebbero mai creduto che osasse tanto. Gli occhi di Pavel si illuminarono, sulla sua bocca nacque un sorriso ampio che sembrava coprire del tutto il suo viso. Le narici si dilatarono. Stava per farlo. Voleva farlo! Distese il palmo della mano. L’anello che portava al dito scintillò.
““Sieg," disse, mantenendo un tono calmo. "Heil," risposero i ragazzi. "Sieg," disse alzando la voce "Heil," risposero, sempre più sicuri "Sieg!" "Heil!" "Sieg!!!” "Heil!!!!!" Il cellulare squillò.
*
Eva impallidì. “Pronto, papà?” Miguel era in piedi dietro di lei, sempre più preoccupato. Non sapeva cosa fare. Lo svenimento al poligono di tiro, sogni farneticanti ed ora questa notte sopra le righe. Eva avrebbe dovuto essere vista da una psicologo? Si stava convincendo sempre di più che avrebbe dovuto farlo. “Papà? Papà!” Non si limitava a parlare nel telefono, stava urlando. Singhiozzava disperatamente in maniera isterica nel telefono finché non scoppiò a piangere. Miguel aveva visto abbastanza. Si avvicinò alle spalle di Eva, l’abbracciò all’altezza del torace e con l’altra mano strappò il telefono dalle sue mani. Questa faccenda doveva essere chiusa; voleva mettere la parola fine a tutto ciò
immediatamente. “Mi scusi, Sig. Neu...” cominciò a parlare. Si bloccò. Dall’altro capo udì un coro di voci maschili che scandivano a gran voce “Sieg Heil!” e ridevano in modo sguaiato. “Pronto, chi parla?” chiese senza ottenere risposta. Dopo alcuni secondi fu chiusa la comunicazione. Miguel fissò la cornetta muta e la posò lentamente sull’apparecchio. Eva, tremante, era seduta su una sedia. Lui l’abbracciò ma avrebbe voluto essere rassicurato a sua volta.
*
Nel frattempo suonò un altro telefono, destando Jerric dal suo pisolino. Rispose leggermente irritato. Era molto presto, troppo presto: sicuramente non avrebbe avuto buone notizie. Si mise ad ascoltare pazientemente la voce tesa dall’altro capo del filo e riagganciò dopo un rapido saluto. Sembrava che avesse qualcosa di nuovo di cui occuparsi. Si avvicinò al comò ed aprì il primo cassetto. Sì, il fucile si trovava ancora al suo posto.
*
Dopo circa mezz’ora il fucile era carico e puntato alla tempia di Hans. Negli occhi blue di Jerric ardeva la fiamma dell’ira e Hans, completamente madido di
sudore con gli occhi quasi chiusi, borbottava una sfilza di scuse. Alla fine riuscì a fare la sola cosa che avrebbe potuto salvargli la vita e che, a posteriori fu la sua salvezza: bagnò i pantaloni.
*
A Jerric era rimasta nelle narici la puzza e l’odore sgradevole della paura e riusciva a percepirla anche mentre saliva le scale per raggiungere la stanza di Jeremiah e Isaiah. Quel piccolo stupido non si sarebbe mai accollato la responsabilità delle sue azioni, proprio come suo padre – quindi Jerric ora lo disprezzava come se avesse dovuto imparare a disprezzare il suo stesso padre. Certe persone sono fatte di una pessima pasta. I gemelli, come sapeva bene, erano molto testardi. Sfortunatamente.
*
A differenza della prima volta in cui era stato nella loro camera, questa volta non bussò alla porta. Si limitò ad entrare come se fosse il padrone di casa (per la verità il concetto non era troppo lontano dalla realtà). Come gli aveva riferito il medico, i tre moschettieri erano ancora nella stanza. Jeremiah era disteso sul letto, coperto di medicazioni e con una flebo in vena. Isaiah era accanto a lui, intento a leggere il messale. Incredibilmente Nicolas era sdraiato sull’altro letto e continuava a esaminare i documenti. Tutti e tre posarono lo sguardo su di lui. “Ho avuto notizie dell’incidente dell’altra notte.” Disse, fissando Jeremiah.
“Sta...?” “Sopravvivrò Jerric,” rispose debolmente Jeremiah. Jerric lo sapeva, naturalmente, ma sapeva anche che era stato molto vicino alla fine. Gli avevano riferito che, se il pestaggio fosse durato ancora un minuto o due, Jeremiah ci avrebbe lasciato le penne. ò la lingua sulle labbra. “Non va bene, non va affatto bene... dovete partire.” Poi indicò i documenti e ordinò, “e quei documenti devono essere restituiti immediatamente.” Le sue parole tagliarono l’aria della stanza come una lama gelida e affilata. Il tono deciso e perentorio di Jerric era una novità per loro. Fino a quel momento si era comportato come un vecchio eccentrico, quasi remissivo. Però, da quel preciso istante si trasformò in una persona completamente differente. Non se lo sarebbero mai aspettati. Si scambiarono uno sguardo. Forse si erano persi qualcosa? Apparentemente sì? Isaiah sollevò un sopracciglio e Jeremiah scosse la testa. Isaiah si avvicinò al cassettone ed estrasse il portafoglio da uno dei cassetti. Cominciò a contare le banconote: dieci dollari, venti, quaranta, tenendo sotto controllo Jerric con la coda dell’occhio. Una mano gelida lo fermò e chiuse il portafoglio. “Non provarci nemmeno,” Jerric si era alterato, “Non fare altre domande. Ora iniziamo a rimettere i documenti negli scatoloni. Il vostro soggiorno a Nabradosky finisce adesso!” Non erano pronti per questa affermazione. “Come? Li abbiamo avuti da un dipendente del municipio! Lui...” “Quell’addetto,” disse Jerric troncando il discorso, “non lavora più in quegli uffici. Imballate i documenti. Ce ne andiamo subito.” Isaiah rimase in piedi, impietrito di fronte a quell’uomo strano, rigido che stava esercitando una forte autorità. Nicolas cercava di rendersi invisibile, cercava di nascondersi. Jeremiah, dolorante, riuscì ad mettersi seduto e intervenne.
“Aspetta un minuto. Chi sei tu? Chi sei in realtà?” Jerric inspirò profondamente. Non avrebbe voluto arrivare a questo punto, non voleva dare loro altre informazioni, nemmeno una in più. Ma erano americani. Un fucile puntato alla testa non avrebbe funzionato con loro. Il buon senso insieme ad una carica ufficiale potevano fare la differenza in questa circostanza. Gli americani sono molto rispettosi della legge. Normalmente. “Mi chiamo,” esitò per una manciata di secondi prima di proseguire mentre li esaminava con gli occhi, “Jerric Kosoto, sono stato sindaco di Nabradosky. Per la precisione, sono stato sindaco durante il periodo della dominazione sovietica.” Jerric aveva ragione. Sicuramente i gemelli lo guardavano con occhi nuovi, con maggiore rispetto. Erano più disponibili nei suoi confronti, probabilmente anche più disposti ad accettare delle istruzioni da lui. Era questo che apprezzava degli americani. Anche se tenevano molto alla loro libertà (e a tutte ciò che era collegato al concetto di democrazia) ciò che incuteva più rispetto in loro era l’autorità. “Questi documenti... sono stati ottenuti illegalmente. Non che me ne importi – non mi importa affatto! Però sono proprietà del governo e i turisti non dovrebbero averli tra le mani.” Isaiah considerò la questione in maniera solenne. Naturalmente, sapeva che quell’uomo aveva ragione. In ultima analisi avevano ‘comparto’ quelle carte in modo decisamente illegale (ma accettabile da quelle parti). Indubbiamente, dal punto di vista legale, non avevano il diritto di trattenerli. Sicuramente non dopo che qualcuno ne aveva richiesto la restituzione in maniera ufficiale. Ma... “Stai ricoprendo una carica ufficiale in questo caso?” Jerric aveva previsto questa domanda in anticipo. “No. Ma se io sono stato informato che avete in mano questi documenti – ne sono a conoscenza anche persone con incarichi ufficiali. Questo non gioca a vostro favore. Soprattutto non a tuo favore,” disse indicando Jeremiah. La minaccia implicita non era sfuggita ad Isaiah. L’uomo si stava dimostrando estremamente serio. Troppo serio per qualche pezzo di carta di poco valore.
“Cosa hanno di speciale questi carteggi?” “Nulla. Si tratta di fatture comunali, tasse, registri dell’Anagrafe... niente di importante.” “Allora per quale motivo dovrebbero essere trattati come documenti riservati?” Jerric sospirò di nuovo. Non era abituato ad essere sfidato e la sua giornata era iniziata molto prima di quanto avrebbe voluto. Queste persone davvero non riuscivano a capire cosa succedeva intorno a loro? “Avete mai visitato uno stato sovietico?” “No,” ammise Isaiah. “Ma questo non è più uno stato sovietico.” “Ufficialmente no.” Le parole rimasero nell’aria per un instante. Isaiah stava pensando come continuare la conversazione. Jeremiah rimase in silenzio. Per ora. “E in pratica?” “In pratica esistono ancora delle procedure e alcune persone che le mantengono vive.” Non è piacevole essere minacciati o sottoposti ad intimidazione, considerò Jeremiah. Poi pensò alla sua mano dolorante, alle sue costole e concluse che esistevano cose anche meno piacevoli. Scambiò un lungo sguardo di intesa con Isaiah. Percepiva qualcosa di negativo dalla vibrazione impercettibile del suo mento. Anche Jerric l’aveva notata e, apparentemente, cambiò tattica. “Vi siete resi conto che sono qui per proteggervi. Per aiutarvi?” Jeremiah non poteva sopportare nulla di più. “Allora aiutaci!” sbottò. “Non mentire! Come si chiamava questo villaggio ai tempi della guerra, se mai ha avuto un nome? Tu eri il sindaco, lo devi sapere!” Avrebbe potuto dire molto di più, se l’intenso dolore alle costole non l’avesse sopraffatto. Aveva il fiato corto e non riusciva ad alzare la voce.
“Jerric?” chiese debolmente. Ma la mente di Jerric era altrove. Indirizzò lo sguardo verso il basso, e poi sulle sue scarpe. Notò una macchia di fango sulla pelle scura e lucida. Dovrò ripulirle più tardi, pensò. Il fango avrebbe avuto il tempo solidificarsi. Sarebbe stato più facile rimuoverlo. “Jerric? Non ricordi più il nome?” Le parole si insinuarono nella sua coscienza e ritornò al presente, nella stanza, ma non nella stessa condizione di qualche minuto prima. Jeremiah e Isaiah riuscirono a percepire il cambiamento. La tensione alle spalle si era allentata e la postura appariva più rilassata. Non era più Jerric l’onnipotente sindaco. Ritornò ad essere il vecchio, malato che avevano incontrato nel bosco, fermo davanti ad un desolato cumolo di pietre. “Bielisk. Si chiamava Bielisk.” Si accomodò su una sedia lì accanto. Improvvisamente quella mattinata gli sembrò fredda come non mai, e sentiva tutto il peso delle sue vecchie ossa. Un nuovo tipo dolore colpì la sua schiena, un dolore che non aveva ancora provato quel giorno. Colpa dell’età. Non sopportava dover ricordare questo aspetto. Jeremiah cercò di fargli ricordare altri particolari. “Bielisk? Un nome ebraico, non è vero?” Dentro di sé, Jerric piangeva. Esteriormente si limitava a sorridere stancamente. “Ebraico? No, no, no, no, no – non ebraico. È un puro nome polacco.” Per la prima volta, da quando era entrato Jerric nella stanza, Nicolas fece notare la sua presenza. Girò una pagina. Il leggero movimento fu sufficiente ad attirare l’attenzione di Jeremiah. Nicolas lo guardò e con sguardo comunicò una semplice parola: menzogne. “Qui non ha mai abitato nessun ebreo?”
Jerric era troppo stanco per notare i loro segnali. “No, no. L’ho già detto.” Jeremiah sorrise. Erano giunti ad un punto cruciale e intendeva andare a fondo. Aprì la bocca per continuare ad indagare ma Isaiah alzò la mano e parlò con un tono di voce deciso. “Okay, se ci confermi questo, ti crediamo. Nicolas abbiamo finito di esaminare i documenti? Nicolas aprì le mani con aria di chi poteva essere di poco aiuto. “Dedicherò ancora un paio d’ore ma da quello che ho potuto vedere i primi documenti che testimoniamo un censimento della popolazione risalgono al 1940. Ho letto il nome del Sig. Kosoto parecchie volte. Anche in occasione di questo rilevamento (indicando i gruppo di fogli che teneva in mano) non risulta traccia di due gemelli nati o morti nel 1944.” Jerric fu felice della risposta. Naturalmente era ciò che si aspettava e, anche se cercava di mantenere un’espressione neutra, lasciò comunque trapelare un certo sollievo. Jeremiah avrebbe voluto ritornare sull’argomento e si irrigidì a causa della collera. Ci teneva molto a intervenire ma il fratello gli aveva ordinato di non pronunciare nemmeno una parola. Frustrato, lasciò che fosse Isaiah a portare avanti lo spettacolo. “Quindi nessun ebreo?” disse, mettendo pressione a Nicolas. “Nessuna registrazione di ebrei.” Isaiah annuì e i girò verso Jeremiah sorridendo. “Bene, quindi, siamo capitati nel villaggio sbagliato. Abbiamo fatto domande e abbiamo ricevuto risposte. Allora non abbiamo nessun motivo per trattenere questi documenti, giusto?” Gli occhi di Jeremiah emettevano lampi di ira e stupore ma rimase in silenzio. Isaiah lo ringraziò con un cenno del capo e gli sorrise mentre si girava in
direzione di Jerric. “Se la situazione è questa, restituiremo la documentazione all'inizio della prossima settimana.” L'espressione soddisfatta che stava prendendo forma sul viso di Jerric negli ultimi minuti, fu cancellata in un secondo. Se esisteva qualcosa che Jerric non amava affatto (a parte gli idioti) era il fatto che gli si mentisse spudoratamente e in un istante tornò a vestire i panni del sindaco aggressivo. “Oggi. Dovete restituirli oggi stesso.” Il tono minaccioso costrinse Isaiah a fare un o indietro, ma non fu sufficiente a cancellare il sorriso soave dal suo viso. Segretamente Isaiah ringraziò Dio di avergli dato modo di fare un numero infinito sermoni davanti a folle ostili e di aver imparato a mantenere sempre un aspetto imibile. “Va bene... oggi stesso. Naturalmente.” Jerric lo fissò attentamente per alcuni, eterni secondi finché non fu convinto che il sacerdote che si trovava di fronte a lui, stesse dicendo la verità. Era stato troppo semplice, o no? Però si sentiva stanco, veramente stanco. La persona che era entrata nella stanza venti minuti prima non ci sarebbe mai cascata, ma le persone sono meno propense a discutere quando sono sfinite dalla stanchezza. “Bene,” sospirò. “Informerò gli impiegati che vi presenterete prima della fine della giornata.” “Grazie.” rispose Isaiah. “È molto gentile da parte tua.” Quest’ultima frase fu un errore. Stanco o no, Jerric non poteva ignorare il suo tono sarcastico. In una manciata di secondi era, di nuovo, forte e potente. Poi si ammorbidì. “Per te non sarà facile da credere, figlio mio, ma lo sto facendo per il vostro bene.” Nella sua voce si percepiva un tono mesto. Proseguì. “Riportate i documenti al Municipio, poi lasciate questo posto al più presto.” Come era arrivato, Jerric se ne andò.
*
Ascoltarono i i pesanti di Jerric che si allontanavano e sparivano lentamente in fondo alle scale. arono alcuni minuti in totale silenzio, poi... “Quale è il tuo problema? Non abbiamo ancora finito di esaminare le carte...” Isaiah si aspettava dal fratello questa uscita e rispose con la stessa tranquilla ione usata in precedenza. “Su quale pianeta vivi, Jeremiah? Non siamo al sicuro in questo posto. Andiamocene finché siamo in tempo.” Nicolas decise di intervenire. Sussurrò in maniera tranquilla. “Come sapete, i documenti non citano veramente la presenza di ebrei...” “Naturalmente no!” lo interruppe Isaiah ad alta voce. “Perché sono fasulli. Sono una contraffazione. Una imbroglio!” Jeremiah e Nicolas lo fissarono, pietrificati. “Tutto questo,” proseguì indicando i documenti sparsi, “è un enorme imbroglio! Non troveremo nulla anche se cercassimo per anni.” Concluse le sue considerazioni e guardò I suoi compagni di ricerche. “Ma” rispose Nicolas alla fine, “queste carte sono antiche. Se fossero false...” “Rappresenterebbero un antico raggiro, un vecchio imbroglio e quel Jerric... mi spaventa.” Non spaventava solo lui, anche Nicolas era ancora scioccato dall' invasione aggressiva della loro privacy e della loro stanza; dava ordini, emanava un'aura di potere. Jerric, pensava con la testa di polacco, era uno dei vecchi dinosauri dell'era sovietica Uno di quelli che non esitavano a far sparire le persone che non amavano. C'era qualcosa di militaresco in lui. Qualcosa di fastidioso. Jeremiah, dal canto suo, era concentrato su altri particolari. Girò lo sguardo
verso la pila dei documenti. Nonostante avessero fatto molti progressi quel giorno, rimanevano ancora due scatole chiuse. Cosa c'era al loro interno che innervosiva così tanto quell’uomo? “Jerric è spaventato. Ha paura di noi.” Ora era Jeremiah ad avere un'espressione accigliata. “Cosa intendi dire?” “Considera questo: perché insiste tanto per farci restituire i documenti e addirittura questa sera stessa? Cosa sta cercando di nascondere?” Isaiah e Nicolas non avevano una risposta pronta. Jeremiah li guardò e prese una decisione anche per loro. “Continueremo ad esaminare i documenti. Tutti i documenti.
Rivelazioni
"Come quando si ara e si rompe la terra, le nostre ossa sono sparse all’ingresso del soggiorno dei morti. " (Salmi 141:7)
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Si tuffarono a capofitto in altri documenti, Nicolas era la guida, i due fratelli gli stavano accanto. Documento dopo documento, anno dopo anno. I numeri facevano riferimento ad esseri umani, le parole si trasformavano in persone che erano vissute, si erano sposate, che erano morte e sepolte. Quelli relativi agli anni della Seconda Guerra Mondiale si trovavano sul fondo della quarta scatola ed erano molto diversi dai precedenti: di colore più scuro e riposti in maniera meno ordinata. I cannoni sparavano. I confini erano stati cancellati, spargendo sangue e dolore. Le persone venivano uccise. Le ricchezze accumulate, rubate e distrutte. Gli edifici crollavano. Nascevano bambini e, allo stesso tempo, si scavavano tombe. Purtroppo nessuno aveva dato alla luce una coppia di gemelli.
*
Lei non informò nessuno. Non lasciò messaggi, neppure al sui superiori diretti, nemmeno alla sua famiglia. Solo Miguel era al corrente del segreto; aveva promesso di fare del suo meglio per coprire la sua partenza. L'aveva aiutata ad allontanarsi, anche se, essendo molto preoccupato per Eva, dopo mezz'ora dalla sua partenza aveva tentato di comporre il numero del quartier generale, per poi riagganciare.
Sapeva benissimo che lei non si aspettava che le permettessero di are attraverso il posto di guardia all'uscita della base, con un semplice cenno del capo. Non si aspettava di trovare un taxi e nemmeno che il suo telefono cellulare rimanesse silenzioso per quattro ore consecutive. A tutti gli effetti, solo dopo che l'aereo era decollato alla volta di Varsavia senza nessun minuto di ritardo, fu certa che Miguel aveva mantenuto la parola. Lui la amava davvero. L'assistente di volo completò la procedura di sicurezza e, solo a quel punto, Eva Neumann si abbandonò ad un sonno profondo.
*
I sogni le si presentarono quasi immediatamente. Le immagini erano ricche di colori vividi, come mai prima. Lei stava fuggendo nella foresta scura e nei campi coperti di ghiaccio mentre udiva cannoni rombanti in sottofondo e il suono metallico della armi copriva ogni altro rumore. Vedeva persone che si accasciavano dopo essere state colpite alla parte posteriore del collo. Udiva grida di donne e fischi di proiettili. Si spostava freneticamente nascondendosi tra gli alberi, fissando gli occhi spaventati di altri esseri umani, le sue emozioni correvano senza freni. Le sue lacrime calde scioglievano il giaccio e un dolore insopportabile faceva tremare il suo corpo. Si trovava in molti luoghi diversi contemporaneamente, testimone di orrori indicibili. I sogni prendevano vita, erano molto reali. Grasse risate si deformavano fino a diventare collera profonda e lacrime pungenti. Aeroplani dai motori rombanti lasciavano cadere i loro ordigni mortali sulla terra bruciata. L'odore di carburante si fondeva con quello della polvere da sparo, mentre il sangue usciva copiosamente dai corpi dei feriti. Un'esplosione assordante la investì. Si levò il pianto di un bimbo che teneva fra le braccia, mentre il rumore
diventava sempre più assordante e le penetrava nelle orecchie provocandole dolore, arrivando quasi a romperle i timpani.
*
“Cosa?” Eva si svegliò con una sensazione di sapore di polvere metallica in bocca e con il panico che le chiudeva lo stomaco. La pressione! Un forte dolore le otturò le orecchie e lei si affrettò a chiudere le narici con le dita e a soffiare con forza per riaprirle tenendo la bocca chiusa. Sollievo. Il dolore intenso lasciò il posto al rumore, sempre più intenso, proveniente dai motori del velivolo. In lontananza si scorgevano delle luci, sotto la sagoma scura delle ali e la solita agitazione serpeggiava fra i eggeri in cabina. Erano prossimi all'atterraggio a Varsavia ed una voce nasale maschile annunciò che la temperatura esterna raggiungeva 5 gradi Celsius, circa. Eva si asciugò il sudore dalla fronte.
*
“Buongiorno.” “No, non in inglese... Polacco? Russo? Tedesco?” “Vada per il Tedesco. Io desidererei raggiungere Nabradosky.” Farfugliando fra i denti e scuotendo la testa rispose: “Nabradosky... è molto lontano da qui.”
Eva estrasse una banconota verde e l’autista del taxi annuì mentre accendeva il motore. Appena sopra l’orizzonte fece capolino lo scintillio di un fulmine, troppo lontano per riuscire ad udire il rumore del tuono.
*
Le finestre della loro stanza vibrarono violentemente e Nicolas, per un attimo, pensò che sarebbero andate in mille pezzi. Fortunatamente i vetri resistettero ed egli tornò a concentrarsi su un altro documento senza senso. Era una delle centinaia di scartoffie che aveva letto durante la giornata, o, addirittura, uno dei diecimila? Non lo ricordava. Si era completamente immerso nella meccanica routine che prevedeva la riceva di parole chiave sui documenti ingialliti, come aveva imparato a fare alla scuola superiore di Gdansk e all’Università di Varsavia. Nicolas leggeva molto. Aveva studiato legge all’università risparmiando tutti gli Zloty che poteva per riuscire a sopravvivere alla costosa vita nel campus. Sapeva che la sua famiglia non aveva i mezzi per aiutarlo, anzi sarebbe toccato a lui provvedere a loro, cercando di avere successo nella vita. Perciò ava le sue giornate nella biblioteca dell’università, molto aggiornata e ben rifornita mentre la sera lavorava come cameriere e lavapiatti in un ristorante molto carino nella città vecchia. Non guadagnava molto, ma la somma fu sufficiente per permettergli di diplomarsi dopo il quarto anno, mentre sperava di cominciare, al più presto, un tirocinio presso un ufficio legale. Pensando al futuro, scelse di concentrarsi sullo studio della lingua inglese; sarebbe stato un vantaggio per lui. La Polonia era ancora una terra inesplorata dagli investitori stranieri ma sarebbero sicuramente a arrivati, era chiaro come il sole. Se erano riusciti ad aprire un McDonald nei pressi della Piazza Rossa, sarebbero sicuramente giunti anche in Polonia. Nicolas, al momento giusto, sarebbe stato pronto a metterli in contatto con la burocrazia Polacca. Sarebbe stato lì, nel luogo giusto, a fare loro da guida attraverso il groviglio intricato delle rigide regole e ad aiutarli ad oliare i canali giusti per fare ruotare le viti principali della macchina burocratica.
Ora, i primi clienti si trovavano fra le sue mani. Due gemelli con una strana storia alle spalle, con il fervore religioso negli occhi, con le loro paure... Si trovava lì per caso, il giorno in cui erano atterrati a Varsavia e li aveva uditi, origliando, parlare della loro ricerca. Come erano sopresi nel sentire che quel cameriere si rivolgeva a loro in un inglese fluente, mentre si offriva di aiutarli. Come furono felici nell’apprendere che si era diplomato in legge e come erano ben disposti mentre estraevano dalle tasche i loro portafogli, regalandogli la ‘libertà’ di non dover lavare piatti per i sei mesi seguenti. (Halleluiah!) Doveva solo accompagnarli in un viaggio all’interno del paese, a bordo di una Jeep, spese pagate. Accettò immediatamente; non prima di essersi affrettato a richiedere che la prima metà del nutrito compenso richiesto, venisse pagata in anticipo. Dicendo le cose come stavano, si era aspettato, naturalmente, qualche tipo di problema, specialmente da parte dell’ebreo che sembrava avere occhi sospettosi e sembrava essere... poco trasparente. Però, non si era aspettato sicuramente che arrivasse al punto di essere quasi ucciso. Non si aspettava di incontrare un uomo della polizia segreta in quei luoghi. (Anche se si era presentato come sindaco, Nicolas avrebbe scommesso che Jerric aveva ricoperto una carica più vicina alle schiere militari). Non avrebbe potuto immaginare che la loro auto sarebbe stata praticamente distrutta e che nessuno sarebbe stato in grado di ripararla. Aveva acquistato dei sacchi di platica per riparare il parabrezza rotto ma la jeep era ormai inguidabile sotto la pioggia e, certamente, non era una situazione piacevole. Ora si trovava seduto su un letto in un pomeriggio scuro, esaminando dei documenti, sobbalzando ogni volta che i lampi, illuminavano il cielo fuori dalla finestra. Non gli piaceva la situazione. Inoltre aveva paura. Il rumore ricordava quello di una frustata e, ogni volta che si verificava, l’aria della stanza si riempiva di un odore acre e i capelli della parte bassa del collo gli si rizzavano. Nonostante fe caldo, rabbrividiva. Gli rimanevano due fogli da leggere nella scatola. Ne rimaneva solo un’altra. “Ecco fatto. Abbiamo finito.” annunciò Isaiah. Nicolas alzò gli occhi, sorpreso. Anche Jeremiah era sorpreso e anche
leggermente adirato. “Prego?” “Il municipio sta per chiudere,” disse Isaiah. “Dobbiamo restituire i documenti.” “Ma... non abbiamo ancora finito di esaminarli tutti.” “Probabilmente non lo faremo.” “Non puoi...” continuò Jeremiah. “Certo che posso e voglio!” La voce di Isaiah risuonò come un tuono, rimbombando contro i muri della stanza. Gli occhi bagnati. “Non capisci?” La voce si fece implorante all’improvviso. “È troppo pericoloso. C’è un limite a tutto. Ho aspettato cinquantadue anni per riuscire a conoscerti – e ora stavo per perderti...” Si girò verso Nicolas. “Comincia a imballarli. Stiamo per partire.” Jeremiah, però non era d’accordo con lui. “No. Non ci penso nemmeno,” disse in modo pacato, fiducioso. “Voglio sapere chi ha incendiato la mia casa. Voglio sapere chi ha ucciso i miei genitori. Voglio assolutamente sapere chi è stato e anche il perché.” La sua determinazione, l’espressione tranquilla, la voce ferma, fecero in modo che Isaiah lo guardasse con aria impotente. Suo fratello gemello era sul letto con la gamba rotta ma con un desiderio immutato di riuscire a portare a temine il compito che si erano prefissati. Mentre egli, Isaiah era in grado di muoversi senza problemi, ma sembrava voler scappare via per salvare la propria vita. A cosa era dovuto questo tipo di atteggiamento? “Forse è meglio andare, Jeremiah.” “No. Non fuggirò da qui. Non senza prima conoscere la verità” “Non ne vale la pena! Robert White aveva ragione. Semplicemente non ne vale
la pena.” Si guardarono negli occhi, con espressione truce. “Mio Dio... guarda questo,” Nicolas sussurrò nel silenzio generale. Il rumore della pioggia si fermò. Per un momento, nessun lampo squarciò l’oscurità, illuminando la stanza. Su Nabradosky scese un silenzio raggelante. Anche il vento che ululava fra gli alti alberi della foresta si placò e rimase in attesa. C’era elettricità nell’aria. Anche lo spiffero dietro al suo collo si fermò non appena Jeremiah strappò il documento ingiallito dalle mani di Nicolas. Si trattava di una piantina relativamente ingrandita di Nabradosky, piegata in quattro parti uguali. Era una piantina molto antica. 1946, indicava l’intestazione. Nel 1946... Jeremiah guardò il foglio. Non notava nulla di speciale. Nicolas indicò con il dito un punto remoto nella parte più alta della mappa. Il dito scivolò lentamente sopra una grossa piega nel foglio, fino ad evidenziare uno schizzo del vecchio cimitero. Era stata disegnata una grande croce con due spesse linee nere. Jeremiah fissò la croce ma non riusciva a comprendere. Finalmente, dopo che Nicolas ebbe spostato il dito, quasi per scusarsi, apparvero due piccole parole, scritte a mano con inchiostro blu. Due parole che tentavano di rimanere nascoste ma che, allo stesso tempo, stavano cercando di attirare la loro attenzione. Jeremiah non comprendeva le brevi parole ma la piccola icona disegnata accanto ad essere era decisamente chiara. Nella luce di un lampo particolarmente intenso che illuminò la stanza con una luce bianchissima, Jeremiah riconobbe la forma di una piccola Stella di Davide. Iniziò a piangere. Il tuono giunse un secondo dopo che la prima lacrima era nata nei suoi occhi. Isaiah cercò di dire qualcosa ma egli stesso non udì le proprie parole. Il rombo del tuono nella stanza lasciò il posto a uno scroscio immenso si pioggia che sembrava volesse irrompere all’interno. Isaiah decise di non ripetere ciò che aveva detto, visto che le sue parole erano state inghiottite dal rumore. “Cosa...” chiese Jeremiah in modo rilassato. “Cosa c’è scritto qui?” Nicolas non era in grado di sentirlo; vedeva solo le sue labbra muoversi
leggermente. Comunque sapeva benissimo quale era la domanda, sapeva benissimo quanto fosse importante. “Aiutami. In questo punto.” Jeremiah allontanò da sé la mappa e Isaiah la raccolse. Il rumore della pioggia battente si placò leggermente, permettendo loro di parlare, seppure ad alta voce. “Le lettere sono molto piccole,” disse Nicolas. “Non riesco quasi a vederle.” Isaiah guardò più volte i piccoli tratti blu. Esistono delle verità che non vogliamo scoprire, pensò tra sé, mentre nasceva dentro di lui una forte sensazione di déja vu. Esistono delle verità in cui è meglio non imbattersi. Mostri che è meglio non risvegliare. Esistono scorpioni che è meglio non escano alla luce. Ci sono dolori che non dovrebbero essere curati. Ci sono segreti che è meglio rimangano inconfessati, che è meglio non conoscere. Esistono delle ferite che non dovrebbero essere riaperte. Ci sono delle verità che dovrebbero rimanere nascoste. “Questo è ciò che stiamo cercando,” disse Jeremiah trionfante. “Questa ne è la prova.”
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L’ultimo tuono fu il più fragoroso di tutti quelli uditi fino a quel momento, tanto potente da risvegliare Jerric dal sonnellino pomeridiano, a cui si era abbandonato senza volerlo. Sapeva di essere solo in casa. La moglie era andata da alcuni amici, o così gli aveva raccontato. Non gli importava più molto. Forse cinquant’anni fa la cosa sarebbe stata differente. Il tuono fece tremare le parteti della casa e lo destò. C’era una cosa che doveva fare. Ora ne era certo.
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Le sua ossa erano doloranti. Accadeva sempre durante l’inverno in quel paese maledetto. Voleva andare a casa. Accanto a lui c’era una bottiglia di cognac. Ne bevve un sorso. Poi si alzò per andare a preparare un tè. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per liberarsi da quei dannati dolori alle ossa. La casa era ben riscaldata ma questo non alleviava il dolore. Fece bollire una teiera di acqua, facendo in modo che le vecchie mani rimanessero vicine al fuoco. Come sempre non percepiva nessuna sensazione. La sua pelle era ormai troppo spessa gli apici dei suoi nervi erano ormai addormentati, come tutto il suo corpo. Come la sua memoria. Un attimo... c’era qualcosa che doveva fare. Imprecò leggermente: i documenti. Il telefono si trovava nella stanza accanto e Jerric corse in quella direzione. Compose un numero commettendo un errore, imprecò e lo compose nuovamente. Una voce maschile dal tono addormentato rispose. Jerric gli fece una domanda ed ottenne una risposta. Riagganciò il telefono con violenza. Un lampo illuminò la casa. Gli animali all’esterno cominciarono a rumoreggiare ma Jerric non li udì. Al contrario continuava da camminare avanti e indietro, meditando sul da farsi. Stava valutando tutte le possibili opzioni. Le analizzò più volte, cercando ogni possibile errore, ogni possibile falla. Ne trovò molte ma rimase indifferente. In ogni caso tutta la faccenda si sarebbe chiusa entro quella sera. Si sentì sollevato. Torno verso il telefono e cominciò a comporre un numero.
*
Come era accaduto durante il volo, Eva cadde in un sonno tormentato, durante il lungo viaggio in auto verso Nabradosky. L’autista, per rispetto della eggera abbassò il volume della radio per poi rialzarlo quando si accorse che la ragazza stava russando. Era bella. Molto bella. Guardò la ragazza americana con interesse. Era immersa in sogni profondi. Occasionalmente I suoi occhi si muovevano da destra vero sinistra ed emetteva qualche piccolo lamento. Era bella. Molto carina. Quando il cielo si fece scuro e le strade si svotarono dovette combattere contro il desiderio di accarezzarle le guance – o forse qualcosa di più. Però c’era qualcosa in lei che lo spaventava. Illuminato dai lampi in lontananza il taxi proseguì la sua corsa.
*
Giunsero al cimitero con le luci dell’auto spente. Nessuno capiva perché Isaiah aveva spento i fari proprio nel mezzo della strada, neppure Isaiah stesso. Ma nessuno ebbe da ridire. I fari si erano spenti, la strada era buia e il vecchio cimitero li inghiottì senza la presenza di testimoni. Solo quando si lasciarono alle spalle il cancello aperto e le poche luci della strada scomparvero dietro il muro, osarono accendere di nuovo le luci. Davanti a loro apparve una lunga linea di tombe, una linea silenziosa. Le lapidi fuoriuscivano dal terreno, con croci scolpite nella pietra. Alcune delle lapidi avevano la forma di una croce. Alcune bianche, altre nere. Su alcune compariva la foto del defunto. Nicolas rabbrividì. Isaiah spense il motore ma lasciò i fari accesi. Un silenzio sacro li avvolse, fondendosi con il rumore irregolare della pioggia che ripuliva l’auto con un
suono ininterrotto. Lo spesso rivestimento di plastica aveva tenuto bene: nessuna goccia era entrata nell’abitacolo, anche se non si poteva dire la stessa cosa del freddo. Un lampo rischiarò l’oscurità, seguito dal rombo del tuono. Senza dire una parola, i tre uomini si apprestarono ad uscire dal veicolo. Sopra i pesanti cappotti avevano indossato degli impermeabili. Le portiere si chio con il classico rumore mentre il baule veniva aperto per estrarre due badili e tre torce elettriche. Jeremiah sosteneva con la mano opposta il braccio rotto. Gli faceva molto male. “Siamo sufficientemente lontani dalla città. Molto bene.” I compagni rimasero in silenzio come segno di assenso. Nicolas studiava il badile che aveva in mano e lo soppesava. Al negozio di ferramenta dove l’avevano acquistato, non poteva azzardarsi a fare domande. Il negoziante sovrappeso che gli aveva consegnato i due attrezzi li aveva guardati con freddezza, quasi spaventato. Aveva controllato che le torce funzionassero prima allontanarsi. “Sapete,” scherzò senza nessun tipo di umorismo, “quando mi avete assunto, non mi avevate accennato al fatto che avrei dovuto scavare delle tombe di notte sotto la pioggia.” “Hai ragione. Tu non sei costretto a venire con noi.” Jeremiah, appariva molto più serio di Nicolas ma non lo si poteva biasimare. Non poteva capire quanto questa nuova scoperta avesse toccato il cuore del giovane polacco. La piccola Stella di David indicata sulla mappa aveva scioccato Nicolas più di quanto si sarebbe potuto immaginare. Per la prima volta da quando aveva incontrato i gemelli, sentiva che avevano una buona ragione per fare tutto questo. Se non altro, ci teneva ad essere colui che avrebbe rivelato loro la verità. Quindi si limitò a sorridere, batté gentilmente la mano sulla spalla del rebbino e puntò la lue della sua torcia sulla vecchia mappa. “Lì,” indicò e condusse i fratelli all’area recintata sull’altro lato del cimitero.
*
Dopo due ore e dopo aver scavato sei buche, Nicolas si appoggiò alla recinzione e si ò una mano sul sopracciglio per eliminare la patina umida. Era pioggia o sudore? Probabilmente un miscuglio delle due cose... Era fradicio sotto gli abiti e sopra gli abiti: sudava sotto l’abbigliamento pesante ed era bagnato per colpa del brutto tempo che non accennava a migliorare. Si sentiva stanco ma sapeva che se si fosso fermato anche solo per un minuto o due, avrebbe avuto molto freddo. Così sollevò nuovamente il badile per cominciare a scavare la settima buca a soli pochi centimetri dalla sesta. Grazie alla luce di un lampo vide Isaiah fare la stessa cosa, con movimenti più difficoltosi ma più determinati. Infilò il badile nel terreno. Mise il piede su di esso. Spinse verso il basso. Lo estrasse, carico di terriccio. Continuava a lavorare avvolto dalla terra. Appoggiava il piede, spingeva verso il basso, lo estraeva dal terreno ripetendo la sequenza. Jeremiah li guardava quasi con invidia. Avrebbe voluto aiutarli con gli scavi, ma non era in grado di farlo. Riusciva, a malapena a camminare. Se il suo medico avesse saputo che si trovava in piedi, all’esterno, esposto ad un freddo terribile, l’avrebbe certamente fatto ricoverare... in un reparto di psichiatria. Il freddo pungente, però rappresentava un vantaggio: riduceva al minimo la sensazione di dolore, portandolo a limite più basso del livello cosciente. In realtà Jeremiah sapeva che avrebbe pagato caro quanto stava accadendo quella notte. Non era più giovane e le ferite riportate, lo avevano indebolito. La morsa del gelo intenso non avrebbe abbandonato le sue ossa con rapidità. Sarebbe stato molto male. Ma non ora, non ancora. Guardò di nuovo la mappa e la piccola scritta che li aveva portati lì ad un’ora tanto tarda. La osservava, la esaminava e scuoteva la testa. La debole voce della ragione gli stava suggerendo che avrebbero già dovuto trovare ciò che si trovava in quel luogo. Sempre che fosse veramente lì.
Cerò di scacciare la vocina. La ragione non poteva trovar posto in un cimitero, in quella notte tempestosa. Solo la fede avrebbe potuto. Guardò le buche che avevano scavato, mentre si riempivano rapidamente di acqua. “Non capisco; deve essere qui!” gridò contro il vento. “Forse si trova ad una maggiore profondità,” urlò Nicolas di rimando. “Cercherò di scavare ancora.” “Provaci! Dobbiamo trovarla questa notte!” Per dimostrarsi solidale con loro, illuminò tutta la recinzione con la luce della torcia, alla ricerca di qualcosa, di qualche segnale, di qualche indizio che potesse guidarli a... Alla loro madre. All’improvviso si rese conto che stavano cercando proprio lei. Che lei era... era quella che aveva scritto le parole sulla mappa. Il suo cuore batteva all’impazzata mentre il sudore gli copriva schiena. La pioggia sussurrava segreti incerti e la luce delle torce si muoveva illuminando croci antiche e lastre di marmo ormai erose. I piedi si mossero da soli, portandolo lungo la recinzione, quasi nuotando tra buche scavate e ceppi di alberi morti. Improvvisamente la luce della torcia impallidì allo scoppio di un lampo che illuminò il cielo. Per un attimo il mondo apparve più luminoso del giorno e i suoi occhi videro un ammasso di lastre bianche, impilate in un angolo della recinzione. La luce svanì e il mondo tornò ad immergersi nell’oscurità e nella tempesta.
*
Quando riuscì di nuovo a udire qualcosa, si trovava in piedi vicino al gruppo di lastre consumate. Nel cerchio di luce diffusa emessa dalla torcia, le antiche pietre non erano altro che antichi sassi, senza nessun particolare che le
differenziasse e nulla che balzasse agli occhi. Le esaminò più da vicino, da diverse angolazioni. Nulla. Solo pietre. Soltanto marmi, inutilizzati da tempo. Si era già voltato per andarsene, quando i suoi occhi furono attratti da una lastra spezzata che presentava un’incisione dalla forma inusuale delle incisioni. Una linea... che si congiungeva ad un’altra linea, formando un angolo di sessanta gradi in un modo che non avrebbe mai potuto dare origine a una croce. Davanti ai suoi occhi bagnati di lacrime apparve una forma familiare, un triangolo. Una forma nota e sotto delle parole in una lingua a lui familiare... "... Elijah Leib Ybe pinha..." L’urlo di Jeremiah coprì l’urlo della tempesta.
*
Eva si svegliò dal suo sonno poco corroborante, bagnata di sudore. Il taxista la guardò ansioso. Era la seconda volta che si comportava in quel modo dall’inizio del viaggio. I suoi occhi erano spalancati, due pupille dilatate che fissavano il vuoto di fronte a lei. “Va tutto bene?” le chiese. “Sì. Continui a guidare.” Ed egli proseguì. Improvvisamente si accorse di averle parlato in polacco, non in tedesco. Era esterrefatto. Non solo comprendeva la sua lingua ma gli aveva risposto parlando polacco in modo fluente. Si voltò per sorriderle e chiederle chiarimenti ma gli occhi della ragazza si trovavano altrove.
*
Si trovavano nel cimitero durante una nottata di tempesta, invasa da tuoni e fulmini. Lei era completamente bagnata. Era come se anche i suoi sentimenti più profondi fossero bagnati, infreddolita fino al midollo. Indossava solo un soprabito leggero, del tutto fuori stagione e scarpe leggere che affondavano facilmente nel fango. Si guardava intorno nervosamente. Aveva percepito dei movimenti? No, erano solo i riflessi della torcia sulle lapidi di marmo. Lei odiava quelle lapidi, quelle più recenti – a forma di croce, con croci incise. Simboli cristiani posti sopra a tombe di defunti che non appartenevano alla loro religione. Per un momento desiderò distruggerle ma poi si concentrò di nuovo sulla ragione per cui si trova lì e strinse la piccola scatola di latta che teneva tra le mani. Un tempo era stata il suo portagioie. Un tempo... quando aveva ancora una vita. Oggi tutto ciò che le rimaneva della sua vecchia vita era rinchiuso in quella scatola, quello scrigno di Mosè che stava per lanciare nel fiume della storia. La pioggia quasi pungeva la sua pelle, ma non le importava. Presto, lo sapeva bene, sarebbe morta e quelle circostanze avverse rappresentavano un vantaggio, trasformando in fango il duro terreno, sarebbe stato più facile scavare e mani nume. Ma dove scavare? Guardò a destra e a sinistra e i suoi occhi si posarono su un punto preciso, un angolo nascosto vicino alla recinzione, coperto da un cumulo di pezzi di antiche lastre di marmo. Cominciò a scavare.
*
Isaiah fu costretto a trascinare Jeremiah quasi a forza, essendosi impantanato nella fanghiglia mentre cecava di scavare a mani nude. Stranamente, Isaiah
sentiva una necessità impellente di unirsi a lui. Percepiva il richiamo di qualcosa che si trovava nel terreno, veniva attratto in maniera incontrollabile. Voleva scavare a tutti i costi! Invece stava cecando di sollevare il fratello. “Cosa stai facendo?” “Qui c’è una lapide ebraica! Questo era un cimitero ebraico.” Isaiah si guardò attorno. Tutte le tombe avevano una forma a croce. Quindi... “Una tomba ebraica?” “Sì, vedi...” Indicò il frammento di marmo spezzato con incisa la Stella di Davide. Isaiah indirizzò la luce della torcia in quell’angolo ma la pioggia rendeva confusa la sagoma esatta dell’incisione sul monumento. Si avvicinò alla lastra di marmo e infilzò la sua pala nel terreno per riuscire ad usare entrambe le mani. Non fu sufficiente. Invece del tipico rumore della pala che penetrava nel terreno melmoso e pesante, si udì un click metallico, molto attutito. La pala, non potendo penetrare nella terra, cadde in una pozzanghera, poco profonda, che si trova lì accanto. Nicolas si avvicinò al terreno ed estrasse una piccola scatola metallica, completamente coperta di fango melmoso. Jeremiah, puntò la torcia su di essa, ma avrebbe potuto evitare il disturbo. Un lampo creò un intenso flash di luce che illuminò a giorno il terreno, mentre uno scroscio intenso di pioggia investì la scatola, ripulendola completamente.
*
Nicolas si affrettò a riparare la piccola scatola con il suo ombrello. Jeremiah
mantenne fissa la sua torcia mentre Isaiah cercava di aprire le serrature – cosa che gli riuscì senza troppa fatica. Il contenitore era molto antico e parecchio arrugginito. Era ricoperto da una sostanza di colore nero che si sfaldò fra le sue mani – grasso, immaginò Isaiah, ed aveva ragione. All’interno si trovava un foglio marrone di carta oleata. Era chiaro che chiunque l’aveva seppellita nel terreno, sapeva bene che avrebbe dovuto resistere per almeno un inverno. Oppure cinquanta inverni, pensò. Sembrava addirittura che questo sarebbe stato l’ultimo inverno che il piccolo oggetto sarebbe stato in grado di sopportare. Era giunto il momento di violare il metallo e di aprire la carta oleata. L’interno era umido ma non completamente pieno d’acqua. Con le dita intorpidite e quasi pietrificate, Isaiah estrasse, con cautela, gli oggetti seppelliti nel contenitore: vari gingilli di metallo, una medaglietta d’oro e un foglio di carta piegato. I movimenti di Isaiah si cristallizzarono per un attimo. Tutti e tre erano in grado di identificare gli oggetti di metallo - lo erano ancora - e nel momento in cui li videro scintillare, un antico orrore si fece strada nelle loro anime, toccandoli nel profondo. Finalmente Isaiah li posò nella scatola e aprì il foglio di scarta, con delicatezza. Dopo un breve istante, porse la lettera a Nicolas. “Non lo so,” rispose dopo un minuto interminabile. “Tutto su questo foglio è indistinto, la grafia è molto piccola... riesco a riconoscere solo poche parole: veloce... uccisa – o uccidere, non saprei... ci sono dei nomi: Abram Goldblum... Ijo Krinitzy... tutto qui. C’è una firma in calce Helena Goldblum.” L’ultimo nome pronunciato stordì Jeremiah, come se fosse stato colpito da un martello. Lo conosceva. L’aveva sempre saputo. Isaiah fu traato da una sorta di scarica elettrica. Non aveva mai sentito prima quel nome ma sapeva che gli apparteneva. Non lo aveva mai pensato – ma ora, aveva mosso delle corde nel suo intimo.
Helena Goldblum. Era il nome della donna. Scuotendo il capo, rivolse, nuovamente, l’attenzione alla scatola, a quei piccoli oggetti di metallo scintillante; ne aveva visti alcuni simili, solo nei libri di storia. Prese fra le mani il primo, il più grande. Nella luce dei lampi che spezzavano l’oscurità, rigirò ripetutamente la svastica che teneva in mano, lucida e brillante.
*
Un secondo, due secondi, tre secondi. Il fulmine svanì ma la luce rimase. Anche il tuono che aveva urlato sopra il cimitero per un minuto buono si era esaurito, anche se il rumore continuava ad avvolgere il cimitero. Jeremiah sollevò la testa. Stava fissando tre veicoli che illuminavano la zona con i loro fari molto alti, accecando tutti i presenti. Dai veicoli uscirono delle ombre scure e si avvicinarono a loro, armati di fucili mentre il rumore dei motori si confondeva con il rumore metallico dei fucili. Egli stava fissando la scena, paralizzato e incapace di parlare o muoversi. Improvvisamente tutto sembrava totalmente surreale – non solo i minuti appena trascorsi ma tutto quello che gli era accaduto dal momento in cui aveva ricevuto la lettera dall’ospedale, la lettera che lo informava dell’esistenza del suo gemello. Sembrava tutto irreale, distante come il crepuscolo allucinogeno dei sogni che si presentano prima del risveglio mattutino. Le luci accecanti, il rumore dei motori, l’odore del terreno pesante, i tuoni
assordanti sopra le pietre tombali... cosa ci faceva in quel luogo, si chiese Jeremiah. Cosa ci faceva lì, in quel luogo dimenticato da Dio, invece di stare con la sua famiglia, con tutte le cose che amava? Il freddo gli penetrava nelle ossa. Le ombre scure si stavano avvicinando e un braccio lo strattonò, strappandogli la scatola metallica. “Grazie,” disse una voce familiare. “La stavamo cercando da moltissimo tempo, sapete.” Un altro lampo illuminò il cimitero, attenuando l’intensità della luce dei fari. Per un istante infinito, tutte le persone che si trovavano in quel luogo furono illuminate con la stessa intensità, con lo stesso livello di precisione e di chiarezza. Jeremiah non era affatto sorpreso. “Jerric.” Purtroppo Jerric non era solo. Quattro uomini li circondarono alle spalle. Erano tutti sulla settantina ed erano armati di fucili vetusti quanto loro. Jeremiah era in grado di riconoscere alcune delle facce: erano le stesse presone che stavano sedute accanto a Jerric nel pub, il giorno del loro arrivo a Nabradosky. Anche Isaiah li riconobbe, ma la sua attenzione era completamente focalizzata su Jerric. Egli era il leader del gruppo, ne era certo. Nella luce dei lampi, la sua dentatura brillava come il suo sorriso da squalo. Appariva molto determinato. I suoi movimenti erano flessuosi e giovanili, quasi come quelli di un gatto e Isaiah non poteva fare altro che sentirsi decisamente spaventato da quel ‘giovane’ uomo anziano, che puntava verso di loro con noncuranza, un fucile scuro, ben oliato. Nicolas, da parte sua, era sul punto di scoppiare in una risata davanti a quel gruppo di vecchi polacchi che stavano puntando un fucile, un cimelio della Seconda Guerra Mondiale contro di loro. D’altro canto, sembrava che sapessero bene come comportarsi con quelle armi. Erano legati, lo sapeva – in un modo o nell’altro -agli oggetti dell’epoca nazista che avevano appena ritrovato. Jerric si bloccò per un istante alla vista delle leggere decorazioni di metallo
illuminate dai lampi. Il suo viso assunse un’espressione quasi avida quando le sue dita strinsero la svastica e l’espressione divenne più intensa quando cominciò ad esaminare il secondo medaglione dalla forma di aquila di acciaio. Se i sentimenti di Jerric erano mascherati dal suo sorriso da squalo, Erich appariva come la sua esatta antitesi: divenne quasi pazzo alla vista dei simboli nazisti. “Guardate, guardate,” esplose parlando, eccitato, in tedesco. “Come ai vecchi tempi!” Assunse una posizione eretta, fece il saluto nazista e, davanti agli occhi esterrefatti di Jeremiah, si appuntò il simbolo sul cappotto. Jerric rispose con sorriso ampio all’infervoramento di Erich ma non era il momento e, di certo, nemmeno il luogo. “Toglilo subito idiota!” sbotto con decisione, “e finiscila di parlare in tedesco!” “Ma Jerric, chi lo verrà mai a sapere? Non c’è nessuno qui!” Jerric stava per rispondere in malo modo, ma Franz, con il suo Ma, si posizionò fra di loro con un sorriso. “Lascia che si diverta... sono ati tanti anni da...” Jerric si fece pensieroso per un attimo, poi lasciò cadere la questione. Prima di lui doveva sistemare problemi più grandi, doveva prendere decisioni più complesse – decisioni che sapeva essere molto gravi, molto dure da prendere. Era anche arrabbiato. Molto adirato. Infastidito dalla pioggia, da freddo, dal gruppo di parassiti che lo circondavano. Era furibondo, soprattutto con quei tre folli che si trovavano davanti a lui, con i loro badili in mano. “Idioti!” si rivolse a loro in inglese e sferrò un pugno in faccia a Isaiah. “Ditemi, cosa ci fate ancora qui, dopo che vi ho messo in guardia?” Isaiah barcollò ma non cadde. Qualcosa di caldo stava colando dal suo naso. “Dovevamo scoprire cosa era accaduto ai nostri genitori.”
“Dovevate proprio? Lo scoprirete presto. Lo scoprirete di certo.” Erich aggrottò la fronte e fece un o in avanti. Non gli piaceva dover assistere a conversazioni in una lingua che non conosceva, anche se erano stati sferrati dei pugni ben assestati, nella giusta direzione. Aveva freddo e le sue dita cominciavano a irrigidirsi sul grilletto. “Cosa ne facciamo di loro, Jerric?” Jerric creò nella sua mente diversi scenari, cercando di immaginarsi azioni e reazioni. Valutò nuovamente varie possibilità, cerando di far diventare possibile ciò che non lo era. Come tutte le decisioni delle ultime ore, i risultati erano sempre i medesimi. Sarebbe stato un problema nascondere la cosa. Sarebbe stato un problema dare delle spiegazioni. Avrebbe anche pagato con la vita – forse ma avrebbe dovuto mettere in atto l’inevitabile. Puntò la luce della torcia sui badili e poi sulle fosse appena scavate. “Ci troviamo in un cimitero, o no?”
*
Boom! Il suono di un singolo scoppio perforò i timpani di Eva, riportandola ad una realtà in movimento. Boom Boom Boom Boom... Fu come se il rumore si stesse spostando verso il retro dell’auto, rotolando sotto il suo sedile, accompagnato dallo stridere dei pneumatici. Il taxi si muoveva zigzagando fra le due corsie; era quasi in procinto di ribaltarsi. Eva si aggrappò al sedile con entrambe le mani, ringraziando il fatto ei essersi legata con le cintura di sicurezza all’inizio del viaggio, cosa che abitualmente non faceva. L’autista che, l’aveva guardata con disprezzo e incredulità, stava ora cercando di uscire da quella situazione sterzando tutto a destra, mentre dava fondo a tutto il suo ricco vocabolario di imprecazioni in polacco. In quel momento il taxi occupava completamente la corsia opposta, rotolando sul posto con le ruote di sinistra rivolte verso l’alto. Infine si fermò sulla carreggiata con un tonfo, schiantandosi. Silenzio. “Cosa è successo?” “È scoppiato un pneumatico.” L’autista uscì dal taxi per immergersi nella tempesta ed Eva lo seguì, dopo aver slacciato la cintura di sicurezza. Si guardò attorno. La nottata era piovosa ma non completamente buia. La tempesta illuminava, ogni secondo, l’oscurità del cielo con striature elettriche luminose e era come se la foresta si accendesse su entrami i lati della strada. In lontananza verso la parte alta della strada si scorgevano le luci della città.
Si girò verso l’autista che era impegnato a riparare il danno riportato dall’auto, alzando la voce per vincere il rumore del temporale. “Mi dica, dove ci troviamo?” “Appena fuori Nabradosky. Saremmo giunti a destinazione in pochi minuti.” La gomma era completamente distrutta. L’autista non pensava che sarebbe stato un problema riprendere il viaggio, anche se odiava sostituire i pneumatici. Certamente la pioggia rendeva tutto molto viscido e pericoloso per le sue dita, decisamente intorpidite. Comunque non avevano molta scelta. Egli aprì il bagagliaio per estrarre il cric e la ruota di scorta. Fece molta attenzione nel sollevare l’auto con il cric e fu una decisione saggia. Durante il primo tentativo rischiò quasi di rompersi una mano poiché la strada, bagnata dalla pioggia, causò lo slittamento del crick che fece cadere l’auto sul terreno. Imprecò in maniera controllata, si deterse il sudore e ci riprovò. Questa volta l’auto sembrava più stabile e il campo di battaglia si spostò sui bulloni della ruota che rifiutavano di svitarsi anche utilizzando la chiave inglese. Dopo venti minuti di sforzi ininterrotti, aveva trovato un ottimo punto di appoggio per allentare il quarto bullone e appoggiò il penumatico sul lato della carreggiata. Pioggia o no, Nabradosky era ormai vicina e il denaro che avrebbe ricevuto per quel dannato viaggio, gli avrebbe regalato un notte di riposo o forse più. La turista americana avrebbe pagato il doppio della tariffa regolare. Era una situazione perfetta! Sfortunatamente non era stato semplice riparare la gomma. Si alzò in piedi, sorridendo. “Bene, possiamo proseguire per...” Sfortunatamente Eva non era più nei paraggi.
*
Gli alberi. Gli alberi!
Le erano così familiari e così sconosciuti nello stesso tempo. I suoi occhi erano socchiusi ma continuava ad andare avanti, correndo fra le foglie fradice e i tronchi degli alberi. I suoi piedi scivolarono per due volte sul terreno impregnato d’acqua ma si rialzò velocemente e continuò a correre. Non sapeva con esattezza dove si stesse dirigendo e nemmeno il perché. Il pianto di un bambino echeggiava nella sua mente, forzandola a correre e ad andare avanti. Sentiva nel suo petto come una sensazione di ineluttabilità e grosse lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi. Forza! Forza! Non sapeva più chi fosse. Non aveva nemmeno paura di scoprirlo.
*
“Quindi, come hai deciso di ucciderci? Nello stesso modo in cui hai ucciso i nostri genitori?” Jeremiah gemette a causa del dolore represso. Riusciva a stare in piedi, quindi fu costretto a scavare, provando dolori insopportabili ma estremamente determinato. Respinse l’offerta di aiuto di Isaiah. Nessuno scaverà la mia tomba. Sicuramente non lo farà mio fratello. Isaiah, da parte sua, non riusciva a pensare a nulla. Ripensava alla prima volta in cui aveva visto suo fratello, il rabbino dalla lunga barba in piedi, al centro della navata della sua chiesa. Quando era accaduto? Un’eternità fa? In un’altra vita, in un altro mondo. Nicolas era troppo arrabbiato per pensare. Cinquant’anni dopo i fatti accaduti, si trovava in piedi, un polacco in Polonia, a scavare la propria tomba sotto la minaccia di armi naziste. Succedeva ancora, dopo cinquant’anni! “Ci avete costretti a farlo,” affermò Jerric alla fine. “Vi avevo messo in guardia...”
“Siete degli assassini e dei pazzi! Pensate di poterlo fare senza che nessuno vi noti?” L’abbiamo fatto per cinquant’anni, pensò tra sé Jerric. Però i tempi sono cambiati. Non si possono eliminare delle persone senza essere puniti... o forse sì? Si soffermò su alcune possibili soluzioni ma decise che non ne esistevano. Sapevano troppo. Troppo. Jeremiah lanciò debolmente il badile nella buca. “Forza. Fallo.” Jerric, però, non aveva nessuna fretta. Fece luce con la torcia nella fossa aperta nel terreno. Non è abbastanza profonda, decise. Bastò un’occhiata alle fosse scavate da Isaiah e da Nicolas per capire che erano pronte... ma non era tutto. “Scava anche in questo punto,” ordinò a Nicolas e il giovane polacco si spostò di malavoglia. “Schnell!” ordinò, sorprendendo anche sé stesso, in lingua tedesca. Nicolas infilò il badile nel terreno e continuò a scavare nel punto in cui aveva smesso Jeremiah. “Chi sei?” chiese Isaiah. Jerric non rispose. Si limitava a osservare la tomba che prendeva forma nel suolo impregnato d’acqua, notando come la luce faceva sembrare bianchi e come scompariva nelle buche scure. “Hai parlato in tedesco, vero?” insistette il sacerdote. Jerric, a malvoglia, rivolse la sua attenzione a Isaiah, che era lì, in piedi e lo stava fissando. Il suo sguardo era pieno di dolore. Dolore e... comprensione. Per un momento, lo sguardo comionevole ricco di amore di Isaiah portò Jerric indietro nel tempo, a giorni felici ma molto lontani... lontani. Dannazione, lui riusciva a capirlo. La sua empatia spaventava Jerric. Non fu più in grado di sostenere nuovamente lo sguardo del sacerdote. “Sei ancora in tempo per confessarti, figlio mio.”
Jerric ridacchiò tristemente e tornò alla dura realtà, alla tetra realtà. Confessarmi... ho ormai perso la mia occasione. In ogni caso tutta la situazione assunse, improvvisamente, dei buffi connotati. Partendo dai vecchi fucili, risalenti ad un’età ata da molto tempo, fuoriusciti da nascondigli antichi (chi l’avrebbe mai pensato?) fino ad arrivare al serio sacerdote che stava cercando di salvare la sua anima, mentre scavava la sua stessa tomba. “Sono pronte,” sentenziò Erich, “Dovremmo procedere?” “Fra un minuto” Doveva fare altre cose. Aveva cose da dire e cose da ascoltare. C’era ancora tempo? Guardò le tre fosse. Erano state ben scavate ed erano profonde a sufficienza. Risultavano perfette per nascondere la verità, per seppellirla una volta per tutto. Sì, era giunto il momento. “State in piedi, fermi accanto... alle fosse.” Jerric caricò il fucile. “Mi dispiace.” Jeremiah deglutì. Il suo cuore batteva all’impazzata. Le sue pupille riflettevano i fasci di luce ed alcune parole sfuggirono dalle su labbra: “Dio nostro Padre, Dio unico...” Un singolo sparo trafisse l’aria. Poi un secondo, un terzo. Urla di dolore... fuoco di fucili... un forte odore di polvere da sparo.
*
Gli spari erano molto vicini a lei e uno dei proiettili segnò una traiettoria accanto
al suo orecchio destro. Il fischio acuto la risvegliò dal suo vagabondare in stato di panico e si fermò in maniera repentina. Dove si trovava? Per quale motivo? Gli alberi che si trovavano intorno a lei erano altissimi e scuri mentre il terreno era pieno di fanghiglia. Udì altri spari e delle grida. Grazie alle sue sensazione straordinarie riuscì ad identificare la voce grave di suo padre che esplodeva insieme al rumore di uno sparo. Si trovava molto vicino a lei. Alcune luci giallastre filtravano attraverso la foresta. Proseguì il suo cammino. Pochi metri più avanti la foresta era attraversata da una bassa recinzione. La scavalcò ma scivolò cadendo nella fanghiglia gelata. Si rialzò, iniziò a correte per poi fermarsi.
*
Jerric sparò l’ultimo colpo. Mirò con attenzione, sparò per poi prendere di nuovo la mira. Due dei suoi amici giacevano sul terreno con occhi vitrei e senza vita. Jerric guardò Erich con la coda dell’occhio visto che continuava a sparare raffiche di proiettili, senza ragione, dalla sua mitraglietta. Pensò di sparare anche verso di lui ma sapeva che il vero pericolo poteva provenire da un'altra parte. Franz puntò il fucile verso Jerric e fece fuoco. Jerric fu sorpreso nel constatare che l’aveva mancato da una minima distanza come quella. Anche lui era ormai così vecchio? Fu assalito da una immensa tristezza. Purtroppo non fu abbastanza profonda da impedirgli di puntare di nuovo il fucile verso il centro del torace di Franz e di premere il grilletto. Un muscolo rosso schizzò fuori dalla cassa toracica del suo migliore amico, il migliore che aveva avuto negli ultimi cinquant’anni. Egli cadde all’indietro scioccato, con un tonfo sordo. Rimaneva solo Erich. Jerric si girò nella sua direzione e si rese conto che il suo stomaco si stava rivoltando.
Dopo un secondo che sembrò durare un’eternità, cominciò a provare un dolore fortissimo. Jerric crollò a terra, perse il fucile e un cumulo di fango molto alto attutì la sua caduta. Erich smise di sparare. Cosa era quella sequenza di eventi folli? Erich non se ne capacitava. Un minuto prima si trovava dalla parte dei vincitori. Jerric stava puntando l’arma alla testa dell’ebreo e poi era come se un demone si fosse impossessato di lui! Non aveva senso. Non era possibile! Purtroppo era accaduto e lui aveva reagito, lentamente ma in maniera efficace. A dire la verità, pensò dopo essere sopravvissuto al decrepito Jerric, non era affatto dispiaciuto. Aveva atteso questo momento per anni. Per anni aveva fantasticato sul modo in cui avrebbe ucciso quel crudele tiranno, che l’aveva umiliato in ogni possibile circostanza. Per anni aveva desiderato unicamente questo e ora il sogno era diventato realtà. Mentre Jerric si contorceva dal dolore, Erich sogghignava. Rivolse la sua attenzione ai tre uomini che si trovavano ancora in piedi, accanto alle tombe. Grandioso. Nessuno di quegli sciocchi aveva pensato di fare qualcosa per salvarsi. Erano in stato di shock, tutti quanti. Sarebbero morti nello stesso modo, ma chi sarebbe stato il primo? Puntò il fucile verso Nicolas. Poi verso Isaiah poi, molto lentamente, in direzione di Jeremiah. Sì, l’ebreo sarebbe stato il primo a morire. Sorrise di nuovo e premette il grilletto con il dito completamente congelato. Un unico sparo risuonò nella notte.
Requiem
“Rendi loro secondo le loro opere, secondo la malvagità dei loro atti; rendi loro secondo l’opera delle loro mani; da’ loro ciò che si meritano.” (Salmo 28:4)
Per un attimo il mondo si oscurò e piombò nel silenzio. Erich cercava di guardare Jeremiah ma, nel punto in cui si trovava il rabbino, ora restava solo oscurità. Guardò leggermente a destra, poi leggermente verso sinistra finché il buio non oscurò tutto il suo campo visivo. In seguito il dolore prese il sopravvento.
*
Davanti agli occhi sofferenti di Jeremiah, il corpo di Erich crollò al suolo ma egli riuscì a scorgere solo frammenti dei suoi movimenti. Lentamente, illuminato da un flash di luce dopo l’altro, il vecchio uomo si ripiegò su se stesso, finendo sul terreno del cimitero. Esattamente dietro a lui, in una perfetta posizione da tiro, si trovava Eva. Come un’antica divinità era ferma, in piedi, mentre i lampi si riflettevano sulle sue guance. La pioggia gocciolava lungo il suo corpo, lungo le sue mani affusolate, lungo il suoi gomiti piegati, lungo le sue dita che tenevano stretto un fucile appena ritrovato vicino ad uno dei cadaveri. Non si mosse. Non cedette a nessun tremore. Rimase immobile, le ginocchia appena piegate, la testa alta, gli occhi scuri e spalancati e la Stella di Davide attorno al collo. Inserì la sicura e corse fra le braccia di suo padre. Isaiah li guardò per attimo che sembrò eterno, con un sentimento di felicità mista a meraviglia. Quella ragazza avrebbe potuto essere sua figlia ed egli riusciva quasi a sentirsi avvolto nel suo abbraccio. C’era qualcosa di affascinante, di ipnotico in Jeremiah ed Eva, di nuovo riuniti a dispetto di montagne di rancore e risentimento. “Lei è... tua figlia?” chiese. Si sciolsero dall’abbraccio. Isaiah la osservò. Aveva un’aria familiare. Molto...
familiare. “Tu sei... Isaiah.” Ella lo guardò come se si trattasse di un sogno. La pioggia intorno a loro si fece più fitta e un ennesimo lampo si abbatté al suolo. Isaiah le strinse la mano, incredulo. “Ho la sensazione di conoscerti. Di averti vista da qualche parte...” Ma dove. Quando? Entrambi vivevano a New York. Forse si erano incontrati in qualche occasione. Oppure si trattava di una somiglianza di famiglia, pensò. Forse, ma come era giunta in quel luogo? Una possibile spiegazione fece capolino nella sua mente ma egli la scacciò. Doveva esistere una spiegazione più razionale. Alle loro spalle si udì un debole colpo di tosse. “Helena...” Eva si mise in guardia, pronta ad intervenire una seconda volta ma si rilassò immediatamente alla vista di Jerric, a terra supino in mezzo al fango. Il suo viso era pallido e terrorizzato nell’oscurità. Annaspava, stringendosi lo stomaco con le braccia. Isaiah si inginocchiò accanto a lui per riuscire ad ascoltare meglio ciò che il vecchio aveva da dire. “Cosa hai detto?” Jerric sollevò a fatica un dito e indicò Eva. “Non vedete? Quella è... Helena... Helena Goldblum” Tentò di sorriderle, un sorriso terribilmente distorto. Purtroppo fu in grado solo tossire debolmente. Per la prima volta da decenni, Jerric era spaventato. Tentò di allontanarsi spingendosi, con le gambe, lontano da quella visione ma annaspò nel fango. Jeremiah camminò verso di lui e si fermò, sovrastandolo. “Questa è mia figlia, Eva Neumann.”
Ciò che non si era ottenuto con la gentilezza, si ottenne con la forza. Jerric sorrise e il sangue fuoriuscì dalla sua bocca. Sapeva con certezza chi stava guardando e conosceva anche la ragione. “No... è Helena Goldblum.” Nicolas toccò il gomito di Jeremiah. Sapeva chi era Helena Goldblum. “Helena,” sussurrò, “la donna che ha messo la lettera nella scatola...” Jerric tossì ancora, sputando sangue, mentre annuiva con il capo sopraffatto dall’orrore. “Sì! Sì. Helena.” Questa volta la cruda verità, si fece strada nel cuore di Isaiah, per rimanere, in modo indelebile. “Chi sei tu? Chi sei in realtà?” Jerric inspirò profondamente e guardò nel fango.
*
Anche il fango gli risultava familiare. Moltissimi anni prima, nel 1943, quando il fronte russo cominciava a cedere, egli aveva iniziato a sospettare che il Terzo Reich non sarebbe mai più risollevato. Odiava quella situazione e si accingeva ad attraversare i venti metri che lo separavano dalla tenda del Comando. Non si preoccupò nemmeno di rispondere al saluto dei soldati che si trovavano davanti all’entrata. “Maggiore Schroeder,” disse un giovane soldato che stava ascoltando la radio, “si stanno avvicinando!” Sì, era solo l’inizio. Sapeva, da moltissimi giorni, che i russi erano sulle loro tracce. Convogli in pessime condizioni, si stavano ritirando dal fronte, lasciando
poco spazio ai dubbi. L’ondata dell’invasione tedesca era stata fermata a Stalingrado e ora si stavano ritirando, in tutta fretta, verso i confini originari del paese, lasciandosi dietro pozzanghere nel terreno, senza possibilità di tornare sui loro i. Gli erano state impartite precise istruzioni: tenere la posizione, combattere fino all'ultima risorsa e protegge la ritirata delle altre truppe. Lui con i suoi nove uomini. “Stanno arrivando!” urlò una giovane recluta mentre il primo sibilo di una palla di cannone rese inudibile la sua voce andando ad esplodere proprio accanto a lui. Fango, e ancora fango schizzò in tutte le direzioni. Schroeder posizionò il binocolo davanti agli occhi. Un movimento proveniva dall'alto di una collina ad est: un carro armato sovietico. Ne contò uno, due, tre... Un altro sibilo. Le esplosioni si facevano più vicine, scagliando Schroeder nel fango. Imprecò. Erano come conigli sotto il fuoco nemico, ecco cos'erano. Combattere fino all'ultima risorsa... che stupidaggine. “Hans!” gridò ad altissima voce. “Cinque minuti, non di più! Prendi due jeep, le tue armi personali e qualche proiettile! Nient'altro! Dirigiti verso le paludi! Vai!”
*
Quando i sovietici raggiunsero le posizioni tedesche, trovarono frammenti di mattoni e di metalli contorti. Nessun cadavere di soldati. L'unità tedesca si trovava già a parecchi chilometri di distanza, nascosta nella fitta vegetazione. Non voleva che fossero catturati dai sovietici e desiderava ancora meno ritornare in contatto con le altre truppe tedesche, 'amiche'. Quindi decise di seguire il percorso più intricato; sentieri che non esistevano sulle mappe, considerati impraticabili e, per quanto egli potesse saperne, non previsti dall'avanzata delle truppe sovietiche e neppure dalla ritirata delle unità
naziste. Era un ufficiale dei servizi segreti. Era certo di conoscere molto bene quelle zone. Dopo circa un'ora si erano persi. Nel punto in cui si aspettava di trovare una collina, si imbatterono in una vallata. Dove avrebbe dovuto trovarsi un fiume, un'estesa foresta. Non si aspettava di trovare nessun insediamento in quell'area ma, davanti ai loro occhi, comparvero dieci piccole abitazioni intorno a tre alberi molto alti. Schroeder utilizzò di nuovo il binocolo. Una ragazza molto giovane stava stendendo degli abiti all'esterno di una delle case. Alzò, improvvisamente, la testa e vide le due jeep sulla cima del crinale. Guardò direttamente nel binocolo poi si girò verso l'abitazione e aprì la bocca, come se stesse per chiamare qualcuno. Dopo pochi secondi una persona uscì dalla casa. Schroeder alzò un sopracciglio.
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Noi non pensavamo ci fossero ancora ebrei in Polonia,” grugnì Jerric, soffocato dal dolore, mentre guardava il viso bianco di Jeremiah. “Ma, apparentemente, qualche comunità esisteva, in un luogo remoto, sperduto...” Il suo sguardo si posò su Eva. “Era la nostra unica possibilità di salvezza”
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Quando la jeep raggiunse il villaggio, molti degli abitanti erano ancora fuori dalle loro abitazioni. Molti di loro erano anziani, alcuni indossavano abiti scuri e i tipici copricapi neri. Uno di loro, un uomo di bassa statura, di mezza età, fece un o avanti con un timido sorriso sul volto. Schroeder gli sorrise. Estrasse il fucile dalla sua custodia e lo freddò con un colpo. Era il segnale; i soldati dietro di lui, cominciarono a fare fuoco. Il gruppo di persone davanti a loro fu colto di sorpresa: caddero a terra, quasi senza reagire e, alcuni di loro non fecero nemmeno in tempo a voltarsi. “Solo gli uomini! “Ordinò Schroeder. “Non toccate donne e bambini!” Il tutto si concluse in meno di un minuto. Due degli uomini si erano spostati di circa due metri, per essere poi colpiti alla schiena. Due bambini furono uccisi e feriti. Un altro fu colpito alla testa, subito dopo. Una donna fu uccisa.
*
“Dopo un paio d'ore, quando, sul posto, giunsero i sovietici, eravamo già pronti.” “Cosa intendi dire?” Jerric sospirò. Sapeva che non sarebbe stato facile – ma non immaginava quanto. Ritornò, con la mente, a quel tragico giorno. Ricordava ogni minuto, ogni secondo. Ricordava i minuti pieni d'ansia che seguirono il massacro. Ricordava come aveva fatto chiudere tutti i bambini in una stanza di una piccola casa con Erich ed un fucile carico. Ricordava le urla, gli sguardi pieni di terrore delle donne, il panico che attanagliava i bambini e le madri che cercavano, disperatamente, di calmarli. Gli tornò alla mente come aveva evitato di mietere altre vittime; non aveva, però, potuto fare a meno di puntare un fucile, minacciosamente, alla tempia di una delle donne. Ricordava il modo in cui le aveva costrette a raggiungere un punto fuori dal villaggio, lo stesso dove ora egli stava morendo, per scavare le tombe dei loro mariti. Ricordava di aver mandato il resto dei soldati a distruggere tutte le lapidi delle tombe ebraiche e a sostituirle con croci di fortuna, fatte in legno. Alcune delle lapidi sono ancora qui, pensò all'improvviso e si rimproverò di essere stato tanto superficiale: Come aveva potuto, durante tutti quegli anni, non trovare il tempo per ridurre tutto in frantumi? Ricordava il prima volta in cui entrò dentro la casupola che sarebbe stata la sua casa per i dieci anni successivi. Ripensò alla tetra semplicità – che all'inizio l'aveva disgustato ma che aveva imparato a rivalutare con il are del tempo. Rivedeva il vecchio baule di legno grezzo, in cui aveva trovato i primi abiti destinati alla sua nuova vita. Era nato due volte, ecco come scherzava, a volte, tra sé. La prima volta era arrivato nudo nel mondo. La seconda volta nei panni di un contadino ebreo. Ricordava anche il modo in cui i carri armati sovietici scesero dal crinale per la prima volta.
*
Le grida raggiunsero Schroeder mentre cercava di indossare gli abiti dell’uomo ebreo che aveva ucciso solo qualche ora prima. Gettò via il suo cappotto grigio, infilò frettolosamente gli abiti consumati e le scarpe (troppo piccole) ed uscì zoppicando. Il primo carro sovietico cominciò a scendere lentamente della collina ma, subito dietro ad esso, si materializzò una jeep che procedeva velocemente. Schroeder corse verso la casupola dove si trovavano le donne e i bambini. Caricò l'arma che portava con sé e la puntò alla testa di uno dei bambini. Una delle donne lanciò un gridò ma tutte le altre si limitarono a guardarlo con orrore. Consegnò la sua arma a Franz che si trovava accanto a lui con indosso ancora l'uniforme tedesca. “Rouse!” ordinò alle donne ed esse obbedirono. Quando gli ufficiali sovietici raggiunsero il villaggio, trovarono delle donne sorridenti che lanciavano dei fiori nell'aria. Anche gli uomini sorridevano, ma non si avvicinarono. Poi giunse il momento tanto cruciale che coinvolgeva una piccola bambina. La bimba era seduta sul sedile posteriore della jeep, scese, felice e sorridente per correre fra le braccia di una delle donne. Con un terrore mal celato negli occhi, fissò la donna, che al primo momento, abbracciò la bambina. Poi, però, cercò di respingerla verso l'ufficiale sovietico. Jerric notò l'espressione di sgomento sul viso dell'ufficiale mentre su viso della bimba appariva una lacrima amara. Osservò, in una sensazione di totale paralisi, l'ufficiale mentre tentava di calmarla e notò il modo in cui la donna cercava di mantenere una sorta di distacco. Sapeva bene che Franz stava osservando la scena dietro la finestra e si aspettava di sentire una raffica di fucile da un momento all'altro. Strinse forte con la mano l'arma di servizio che teneva nascosta in tasca, sapendo benissimo di non poter
vincere la guerra impugnandola – ma, se non altro, avrebbe portato con sé qualche soldato russo. Tolse la sicura ... In quel momento un'altra delle donne, più giovane e bella della prima, si fece avanti. Prese la bimba tra le braccia, la sollevò e l’abbracciò per rassicurarla. L'ufficiale sovietico si tranquillizzò parzialmente, ma non del tutto. “Kristzah,” disse la donna all'ufficiale, sorridendo e annuendo con il capo. “Kristzah,” ripeté, incredulo per poi pronunciarlo una seconda volta, con un tono più convinto.
*
“Era Helena Goldblum.” Il suo respiro era, ora, molto flebile e la sua voce debolissima. Il viso bianco di Jerric assumeva un'espressione sempre più sofferente ad ogni lampo che illuminava la notte ed un rivolo di sangue colava dalla sua bocca. Fissò Eva. Portava lo stesso pendente d'oro che era là, ad attenderla, da cinquant'anni.
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“Era molto bella. Proprio come te...” “È stata uccisa,” disse Jeremiah quasi sibilando. Jerric lo guardò con uno sguardo vuoto e gli occhi freddi. “Quelli erano tempi differenti. Le regole erano differenti. Uccidevamo per sopravvivere.”
Si girò lentamente verso Isaiah. “Avevi ragione... sarà più semplice dopo che mi sarò confessato.” Isaiah non rispondeva. Era troppo impegnato nel tentare di comprendere ciò che stava ascoltando, nel metabolizzare quello che era accaduto in quel luogo. Dal momento in cui aveva incontrato il fratello, la sua visione della vita si era progressivamente sgretolata. L'incontro con i polacchi, le ricerche negli antichi documenti, l'auto... l'aggressione a Jeremiah. Tutti questi aspetti avevano intaccato, in maniera marcata, tutto il suo mondo che, fino alle ultime settimane, era stato relativamente protetto. E ora...questo. Gli spari risuonavano ancora nelle sue orecchie e il suo corpo era molto affaticato. Era parecchio tempo che aveva terminato di scavare la fossa; sentiva freddo e la pioggia gelida continuava a cadere, facendolo tremare. Confessarlo? Era il momento meno appropriato per pensare alla confessione. Tuttavia, l'uomo che si trovava steso a terra, davanti lui, nei suoi ultimi momenti di vita, desiderava confessare i propri peccati mortali. Poteva negarglielo? Decise di no. “C'è altro?” gli chiese con voce stanca e debole. “Altro? Ho addirittura troppo da raccontare. Come puoi notare questo villaggio è sperduto a tal punto che nessuno si interessò ad esso per lungo tempo, dopo la fine della guerra. Il tempo fu sufficiente per imparare la lingua polacca, per imparare a mungere le mucche, ad arare i campi... diventammo polacchi. Quando i sovietici giunsero in questo villaggio era tutto pronto aveva una nuova storia, dei nuovi abitanti. “E le donne e i bambini?” “Morti. Sono morti tutti.” Jerric non aggiunse nulla di più e nessuno osò chiedere altro. Il respiro dell'uomo continuava ad essere irregolare, i suoi occhi erano fissi su Eva e il sangue usciva dalla sua bocca. Infine fu Jeremiah a rompere il silenzio. “E noi?” Jerric rimase in silenzio. Sospirò impercettibilmente e abbassò lo sguardo verso
il suolo. Continuò a rimanere in silenzio. “Cosa accadde ai gemelli?” chiese nuovamente Jeremiah, spazientito. “Non ci hai menzionato. Perché?” “In quel momento non eravate ancora nati.” “Chi era nostra madre?” Jerric riuscì a sorridere in modo forzato. Guardò Eva. “Vostra madre era la ragazza più bella del villaggio. Somigliava molto a tua figlia, moltissimo. Era anche una donna affascinante” “Come si chiamava?” Jerric stava cercando di infilare le dita in una tasca del cappotto, ma la mano era troppo debole per compiere il movimento completo. Jerric fu preso dal panico. “La tasca...” indicò. Isaiah si piegò, dolorante e riuscì, leggermente disgustato, a raggiungere la tasca interna del cappotto di Jerric, per estrarre la piccola scatola di metallo che era stata seppellita nel terreno fino a poco prima. La aprì. Qualcosa di strano, di magnetico fece brillare una luce che raggiunse agli occhi di Eva. Istintivamente allungò la mano e afferrò il ciondolo dorato. Lo fissò, quasi incantata, scuotendolo con la mano. Tre intesi riverberi di luce illuminarono il cielo dietro di lei, uno dopo l'altro. Ella sollevò il ciondolo per portarlo alla bocca, posò le labbra su di esso per poi poggiarlo vicino al cuore. Le sue dita lo avvolsero. Le sue dita scovarono il meccanismo di apertura nascosto con una abilità inimmaginabile. Dopo cinquant'anni di oscurità, ciondolo si aprì nella luce della luna. Conteneva una foto. Una foto molto antica, in bianco e nero, stampata su carta molto spessa con i bordi irregolari. Un semplice fotografia che ritraeva una
giovane coppia. Una coppia ebrea. Il marito era un giovane uomo, con il naso adunco e la barba. La donna era Helena. Helena Goldblum. Le pupille di Eva si dilatarono al massimo. Lei e la donna erano come due gocce d'acqua, partendo dalla curvatura della bocca mentre sorridevano, ando alle sopracciglia, fino al modo in cui portavano i capelli. Un senso di debolezza si diffuse lungo tutto il suo corpo ma, nel contempo, si sentì invasa da una strana e potente energia. Provava un senso di completezza. Per un momento, il fuoco divampò nel corpo di Eva ed ella si sentì completamente realizzata... persino piena di gioia. Per un attimo si sentì circondata da un aura splendente che irradiava un ondata di calore .... un misterioso abbraccio, una carezza rassicurante. Per un momento Eva percepì il modo in cui gli occhi della nonna stavano guardando i figli e il suo amore materno, rimasto in attesa per una generazione, si scatenava senza limiti per poi svanire lentamente. Eva guardò la fotografia di Helena e la fissò, con un sorriso, cancellando le generazioni che le separavano. Dopo qualche breve attimo, porse il medaglione a suo padre e allo zio. Per la prima volta in cinquant'anni, videro il volto della madre. “Tu hai ucciso suo marito quanto sei arrivato qui.” disse Isaiah. “Sì” “Intendo dire, lei... era incinta?” Jerric scosse la testa. Qualcosa spezzo il cuore di Isaiah. Le diverse tessere del puzzle cominciavano a ricomporsi all'improvviso e l'immagine che andava formandosi era peggio dell'inferno stesso. Non avrebbe voluto trovarsi in quel luogo. Non voleva sapere nulla. Non voleva. Era semplice: non voleva sapere nulla. “Chi era nostro padre?” chiese con voce tremante. Jerric non rispose. “Chi è – era – nostro padre?”
“Non era certo lo Spirito Santo, glielo posso assicurare, Padre.” “Chi era?” Il suo urlo divenne quasi un lamento, un profondo lamento. Jerric, però, non vedeva e non udiva nulla. I suoi occhi non vedevano altro che oscurità, un buio totale, pulsante come il sangue che fuoriusciva dalle sue ferite. Non gli rimanevano più di dieci minuti di vita, lo sapeva. Li avrebbe ati in silenzio? Una parte di lui desiderava che fosse così. Dormire... morire... forse sognare? No, non desiderava sognare. Aveva persino paura di sognare. Quindi aprì gli occhi, inspirò più aria che poteva, sputò il sangue che gli si era accumulato in bocca e cominciò a pronunciare le sue ultime parole, quasi gracchiando. “Lei era la più bella ragazza del villaggio e io sono... io ero il comandante.” La sua voce si affievolì di nuovo ed era piena di rimorso. Eva chiuse il medaglione e lo infilò in tasca. Jeremiah, che era rimasto in silenzio per alcuni minuti, cercò di farlo parlare ancora. “E l'hai uccisa.” Jerric lo guardò. “Dopo un anno lei diede alla luce i gemelli, era giunto il momento di iniziare a eliminare donne e bambini. La guerra stava per finire e non esisteva più nessun motivo per lasciarli in vita.” Inspirò in maniera irregolare e continuò. “Helena... lei sapeva che era giunto il momento. Era una donna saggia. Mi implorò di lasciare vivere i bambini. La mattina della carneficina, io non chiusi la porta a chiave, deliberatamente.”
*
La piccola capanna era debolmente illuminata dai raggi di un pallido sole primaverile che si faceva strada attraverso i vetri, sporchi, di una finestra quadrata. Andavano a posarsi su un tavolo di legno grezzo e su una poltrona. Vicino ad una parete si trovava un letto matrimoniale, leggermente più pulito del tavolo e delle sedie. Accanto ad esso c'era una piccola cassettiera e sopra una grande cesta di vimini. Nella cesta: due gemelli, due bambini che avevano meno di un anno. Helena Goldblum rifece il letto senza un sorriso. Non aveva avuto modo di sorridere spesso negli ultimi anni e la sua bellezza naturale era divenuta quasi eterea, poetica. I capelli neri che portava sciolti fino all'anno prima erano, ora, sempre raccolti, legati con un laccio di lino e le scendevano dietro il collo. Guardò i suoi due figli con la coda dell'occhio; l'unica ragione che le aveva impedito di suicidarsi. Sorrise ai bambini, mentre la seguivano con lo sguardo. Li adorava incondizionatamente. Viveva per loro. Era stato questo il motivo per cui Schroeder le aveva permesso di portare a termine la gravidanza? Non lo sapeva ma lo sospettava. L'ultimo anno era stato un incubo continuo per lei. Ricordava ancora gli ultimi momenti di vita ati con il marito... fino a momento in cui Schroeder l'aveva ucciso. Sapeva che la guerra era finita. Sapeva che i tedeschi avevano perso. Un funzionario del governo era arrivato al villaggio, la settimana prima, per registrare il numero degli abitanti di Bielisk... ora Nabradosky. Doveva chiamarlo Nabradosky. Avrebbe voluto fare qualcosa, raccontare qualcosa, ma era spaventata. Schroeder (ora conosciuto come Jerric) le aveva spiegato esattamente cosa avrebbe fatto ai suoi figli, se avesse parlato. Non sopportava di trovarsi nell'unico posto ancora occupato dai nazisti, odiava sentirsi schiavizzata – profanata e sporca. Se non fosse stato per i bambini, sarebbe scappata via molto tempo prima... se non fosse stato per i bambini. Li guardò ancora, tuffandosi nel loro occhi grandi e innocenti. Poi, all'esterno della capanna, udì delle imprecazioni in tedesco e delle urla acute (riconobbe la voce. Si trattava di Sarah Feldman, la madre di Leah... povera piccola Kristzah) e uno sparo.
La voce di Sarah si interruppe. Altri spari seguiti da un gran fracasso e da una sfilza di ordini. Helena corse alla finestra, terrorizzata. Stava cominciando? Erich attraversò la radura davanti a lei, fino a raggiungere la capanna che aveva scelto come abitazione (con Rachel di cui lui approfittava regolarmente) con un fucile automatico in mano. Aprì la porta e cominciò a sparare all'interno con grande tranquillità. Lei riusciva a vedere il modo in cui sorrideva. Si udirono delle urla all'interno; alcune erano di bambini. Dopo alcuni secondi erano tutti morti. Erich si girò e Helena si allontanò dalla finestra, in preda al panico. Il suo cuore batteva all'impazzata. Tutto era cominciato. Per un motivo o per un altro, Schroeder aveva deciso che, quel giorno, avrebbe completato il lavoro di pulizia etnica, uccidendo tutti gli ebrei del villaggio. Guardò i gemelli, disperata. Aveva sopportato tanto per questo? Era per questo che aveva bruciato i documenti incriminati, che aveva rubato dal cassetto di Schroeder all'inizio dell'inverno? Perché proprio ora? Lei sapeva che i funzionari polacchi avrebbero visitato il villaggio in tempi brevi. Mancavano solo poche settimane e poi avrebbe potuto raccontare la verità; avrebbe potuto fuggire da quell'inferno. Solo poche settimana – ma Schroeder lo sapeva bene quanto lei. Proprio per questo non le avrebbe concesso un ulteriore lasso di tempo. La sua fine era vicina e anche quella dei gemelli. Sarebbe accaduto davvero? Senza nutrire grandi speranze, si avvicinò alla porta e abbassò la maniglia. Con sua grade sorpresa era aperta! Strano. Non era tipico di Schroeder. La aprì leggermente, afferrò una coperta di lana pesante con cui coprì i gemelli, raccolse la cesta e si apprestò a fuggire. Si fermò sulla porta e inspirò profondamente. Appoggiò la cesta sul pavimento e si avvicinò al letto. Con grade sforzo lo spostò, si inginocchiò dietro ad esso e cominciò a tastare i mattoni grezzi che
sorreggevano la parete. Dopo pochi secondi uno dei mattoni si spostò, cadendo sul pavimento, svelando un profondo incavo nel muro. Helena frugò nella nicchia ed estrasse un sottile catena d'oro con un piccolo pendente: una stella dorata. La fissò per un attimo, poi, rapidamente, se la mise al collo e uscì dalla casa con la cesta fra le mani.
*
“Non potevo ucciderla. Non saprei perché,” mentì Schroeder mentre guardava Eva negli occhi. Le somigliava così tanto, pensò. Dopo aver guardato una seconda volta Eva negli occhi neri come braci, percepì che – almeno in quel momento – non solo somigliava a Helena ma ... era lei. Era tornata per dargli la caccia, per vederlo morire come lui aveva assistito alla sua morte. Improvvisamente si accorse di avere paura. Rivolse lo sguardo verso Isaiah. La morte era vicina; nelle sue narici bruciava l'odore del suo stesso sangue. Presto, lo sapeva, i demoni sarebbero arrivati a prenderlo per trasportarlo laggiù. Helena continuava a osservarlo attraverso gli occhi della nipote.
*
Proprio come aveva previsto, nel momento in cui era schizzata fuori dalla capanna, le sue palpebre si aprirono e si chio, a causa della luce intensa. Schroeder la guardava attraverso il mirino del fucile, parzialmente nascosto dietro ad un albero. Se non fosse stato per l’arma, sarebbe stato impossibile distinguerlo dagli altri polacchi della zona, a partire dalle scarpe logore, fino all'addome prominente e alla barba incolta. Il fucile era carico. Helena era al centro del reticolo del mirino, ma l'arma rimase muta. Lui la guardava mentre le sue gambe la portavano nella direzione opposta. Prima a destra, poi a sinistra, direttamente nella sua direzione e poi, dopo averci
pensato meglio, lontano, nella fitta foresta. La seguiva con il fucile, il dito sul grilletto. Improvvisamente un'altra donna entrò nel suo campo visivo, correndo nella stessa direzione, Il fucile tuonò e la donna cadde a terra, perdendo sangue da una spalla. Helena gridò e comincio a correre all'impazzata. La morte cominciò a correre dietro di lei.
*
“Sapeva che mi trovavo dietro di lei. Mi venne incontro e si fermò davanti a me. Ha continuato a guardarmi negli occhi fino alla fine.” Schroeder tentò di aggiungere qualcosa ma una boccata di sangue che gli riempì la bocca, glielo impedì. Jeremiah afferrò delicatamente il braccio del fratello, esercitando una leggera pressione. Isaiah era il più debole dei due, ora lo sapeva. E lui? Qualcosa, nell'ebraismo, l'aveva preparato ad affrontare tutto questo. In qualche punto remoto della sua anima sapeva, in maniera innata, che quella storia viveva dentro di lui, da sempre. “La tomba che abbiamo visto era la sua. Giusto?” La pioggia continuava a bagnare il terreno e un lampo svanì in lontananza per lasciare posto ad un tuono e alla voce di Jerric. Jeremiah chiese di nuovo, “Quando ti abbiamo incontrato vicino a quelle pietre – era la sua tomba?” Jerric, però, non rispose. Non respirava più.
*
Sotto un cielo perennemente nuvolo e alla pioggia battente, seppellirono i cadaveri nelle tombe appena scavate, in totale silenzio. Nicolas ed Eva si occuparono di gran parte del lavoro, mentre Jeremiah cercava di restare fermo nell'auto e Isaiah faceva del suo meglio per tenerlo al caldo. Quando il lavoro fu ultimato ed erano rientrati a Nabradosky, l'orizzonte aveva già iniziato ad illuminarsi. Era nato un nuovo giorno, in un certo senso più oscuro. Nessuno di loro sorrideva. Dopo quattro docce calde e una colazione leggera, erano pronti per lasciare quella città di morte. Mentre gli altri tre preparavano i bagagli, Isaiah uscì per riportare gli scatoloni pieni di documenti al municipio, che avrebbe aperto di lì a mezz'ora. Forse fu a causa della fatica, Forse, semplicemente non lo notò. Mentre si accingeva a scaricare la quarta scatola, qualcosa gli colpì una tempia e cadde a terra. Per un attimo pensò fosse a causa di una portiera rimasta aperta per distrazione ma, quando fu colpito una seconda volta, realizzò che stava succedendo qualcosa. Il calcio che lo colpì alla bocca lo convinse definitivamente Sentì, con la lingua, che i denti si erano spezzati. In piedi accanto a lui, un poco spaventati ma determinati, si trovavano tre adolescenti con la testa rasata, con gli occhi rossi dopo una notte ata a bere. Pavel teneva in mano la barra di ferro. “Forse avremmo dovuto seppellirlo, non è morto!” Pavel continuò a colpire Isaiah con calci, fuori di sé oltre ogni limite. Non poteva credere ai suoi occhi. Era lo stesso ebreo che pensava di aver ucciso qualche giorno prima -ma era incolume e non aveva neppure un graffio! Ed era vestito...
“Non può essere lui,” disse uno dei ragazzi alle sue spalle. “Aveva la barba.” “E ora porta un vestito da sacerdote,” aggiunse un altro. “Guardate! Gridò Pavel, isterico. “È lui, vi dico! Si è tagliato la barba e si è travestito da sacerdote! Diavolo ebreo!” Pavel smise di colpirlo e osservò Isaiah, sanguinante, da vicino. Cercò di ricordare l'aspetto del viso dell'ebreo barbuto che era sicuro di aver eliminato pochi (pochi?) giorni prima. Stesso naso... stessi occhi... stessi lineamenti. Non c'erano dubbi: si trattava della stessa persona. Dello stesso demonio. Isaiah tentò di alzarsi e Pavel arretrò di scatto, terrorizzato. “Guardate - mi ha riconosciuto!” Pavel era all'apice dell'isteria. “Dove sono i segni delle percosse?” continuò a chiedere uno degli idioti che si trovavano con lui. “Non lo so! Ebrei... stregoni! Forse a bevuto del sangue. Non lo so!” In qualche modo, Isaiah si sollevò, appoggiandosi alle mani e si alzò. Li guardò con aria disorientata. Era sofferente ma ancora cosciente e ancora tutto intero. “Chi... chi sei tu...?” Pavel rabbrividì e fece il segno della croce. Il nonno gli aveva raccontato di questi episodi... ebrei bevitori di sangue che cambiano sembianze e ti vengono a prendere durante il sonno. Non aveva mai creduto a queste storie... ma forse si sbagliava? “Non vedete? Stessa voce. Stesso viso... e ora si è abbigliato come un sacerdote!” In un impeto di coraggio, strappò il colletto bianco dal collo di Isaiah e lo lanciò sul terreno. Schiacciandolo e sputando su di esso. “Ebreo!” urlò e lo colpì con un calcio potentissimo in viso. Qualcosa nella sua pazzia riuscì a contagiare tutti gli altri, non perché pensavano
parlasse seriamente, non perché credevano in ciò che lui credeva. Era semplicemente, facile. Erano stanchi ma non troppo; ubriachi, ancora troppo ubriachi. Si radunarono attorno a Isaiah come fossero un anello oscuro attorno al sacerdote ebreo. Spezzarono il filo della sua esistenza con una feroce scarica di percosse.
*
Il cimitero ebraico di Brooklyn non aveva mai accolto un numero tanto grande di ecclesiastici della Chiesa Cattolica. Camminavano in silenzio, tiare rosse e porpora sulle loro teste, alcuni portavano l’abito talare, altri erano in abiti meno formali. Si muovevano in silenzio, davanti alla bara aperta, per rendere omaggio al loro defunto fratello. Jeremiah non ò davanti alla bara. Al contrario, si teneva da parte, solo, nella santità della stanza, ripetendo le sue preghiere, ripetendole una quantità infinita di volte. Infine bussarono alla porta ed egli uscì. Eva lo attendeva fuori dall'edificio con il medaglione d'oro ben visibile al collo. Lo prese per mano e lo sostenne mentre percorrevano il lungo sentiero che portava alla tomba. Aveva precorso quel viale centinaia di volte. Non gli era mai sembrato così impervio e così lungo. I leggeri sussurri attorno alla salma Isaiah si placarono mentre Jeremiah attraversava il mare di persone accorse. Si dividevano al suo aggio, alcuni a destra, altri a sinistra. Osservavano, impressionati, i lividi evidenti sul suo viso. Il braccio destro avvolto in una fasciatura e il piede sinistro ingessato. Procedeva comunque stabile, ma con fatica.
Centinaia di persone lo stavano osservando. Cominciò a piangere pacatamente. “Isaiah, fratello mio, non sei più con me. Non siamo stati insieme per cinquantadue anni, ma il breve periodo di tempo che abbiamo condiviso, è paragonabile all'eternità. Isaiah, fratello mio. Non ti ho conosciuto tanto quanto altre persone qui presenti. Non ne ho avuto l'opportunità. Comunque, ti conoscevo meglio di chiunque altro perché eri mio fratello gemello. Il mio unico fratello, come io ero il tuo unico fratello. Isaiah, fratello mio, la terra trema sotto i miei piedi. Avrei voluto are più tempo con te; avrei voluto avere altro tempo per dimostrati il mio affetto. Ti accompagno oggi alla tomba e una parte di me è morta insieme a te. Isaiah, fratello mio! Hai vissuto abbracciando la fede cristiana. Sei cresciuto da cristiano. Hai studiato da cristiano. Vissuto da cristiano ma sei stato ucciso come fossi un ebreo.” Un lungo silenzio avvolse il cimitero. Sembrava stesse controllando anche il rumore del vento e il tubare dei piccioni. Dal silenzio salì una preghiera che crebbe rapidamente, e squarciò il cielo. “El malei rachamim...”
*
Un’ora più tardi, i suoi occhi rossi stavano fissando la sua stessa immagine riflessa nello specchio del bagno. Era stata una lunga giornata e ora si era conclusa. Jeremiah aprì il rubinetto dell'acqua calda e lasciò che scorresse liberamente. Mise la mano sana sotto il flusso dell'acqua, mentre le sue dita si scottavano fino
a farle male. Cominciò a mischiarla con una piccola quantità di quella fredda. Ansimò lievemente, si tolse lo Yarmulke e lo appoggiò dolcemente accanto a lui. Dal fondo del cassetto estrasse, lentamente, un paio di forbici appuntite che, in genere, utilizzavano le ragazze. Avvicinò le forbici al collo. Cominciò a tagliarsi la barba.
Epilogo
Prima di tutto mi voglio scusare. Le storie tristi non sono le mie preferite. Prediligo le trame brillanti, le storie Hollywoodiane a lieto fine e dalla facile catarsi. In realtà questo libro è più forte di quanto lo sia io. Nonostante le mie buone intenzioni, non sono stato in grado di scriverlo in modo diverso, ricco di umorismo e di consapevolezza personale. Vedremo come andrà il prossimo. Quindi mi scuso nel caso vi abbia fatto pensare, piangere oppure adirare. Non era mia intenzione davvero. Da un certo punto di vista, questo libro ha scritto se stesso. A preso vita da sé, seguendo una direzione che ha sorpreso anche me stesso. Ci sarebbe veramente molto da dire su di esso... Vi invito personalmente a farmi conoscere i vostri commenti, le vostre impressioni e a comunicare con me. Mi avete fatto l'onore di leggere il libro e io ho apprezzato questo fatto molto più di quanto possiate immaginare. Mi piacerebbe confrontarmi con voi e inviarvi altri miei racconti, libri, ecc. Potrete lasciare dei commenti anche sulla mia pagina di Amazon. Cari saluti. L.L. Fine.
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[1] Luogo in cui i bambini tra i 3 e 7 anni imparano a leggere e scrivere in lingua Hebrew e le basi dell’ebraismo [2] Copricapo usato correntemente dagli ebrei osservanti maschi [3] Piccoli astucci quadrati che gli ebrei usualmente portano durante la preghiera del mattino