MANUALE DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI Società Italiana di Cardiologia
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Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare Capitolo 1 I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI Mario Mariani DEFINIZIONE Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone. Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte. Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi. I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono: 1) La Dispnea. 2) L’Astenia. 3) Il Dolore toracico. 4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo. 5) La Nicturia. LA DISPNEA Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti). Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli alveoli (edema alveolare). La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno scompenso. Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata: Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso. Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o dolore anginoso) per una attività fisica usuale. Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica. Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a quella usuale. Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo. La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei capillari polmonari supera tale valore, è
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inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase interstiziale si a a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad effettuare atti respiratori utili. L’ASTENIA E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque attività fisica. IL DOLORE TORACICO
Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, alla sede dello stesso, alla sua irradiazione. E’ questo il sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi coronariche acute, compreso l’infarto miocardico. Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo od oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili irradiazioni, delle quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i pochi minuti e può durare addirittura diverse ore. Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o flogistico) di nervi intercostali. LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del cuore che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso di extrasistolia isolata o sporadica. L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia, possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali. LA SINCOPE Può essere definita come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una grave ipossia o ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci. Un tempo si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento della vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41). LA NICTURIA E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno di sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.
Capitolo 2 3
I SEGNI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI Mario Mariani CONCETTI GENERALI Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un grande progresso nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo sulla base di una corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia. I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione, Palpazione, Percussione, Ascoltazione. Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare, grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche diagnostiche strumentali. I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante le seguenti manovre: 1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi. 2) L’osservazione del polso venoso giugulare. 3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso. 4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale. 5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi. 6) La ricerca di eventuali edemi declivi. 7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti. CIANOSI Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro. La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria. La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si determina una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi periferica può evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze periferiche. OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45° (rispetto ai 90° normali per la posizione seduta). Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate onde a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore. Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32). Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale. ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO. Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di circolo ipercinetico). Con l’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più utilizzata per l’esplorazione del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare: a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto; b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni; c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è direttamente correlato alla gittata sistolica; d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione, espressione anche del livello pressorio;
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e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc). Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari situazioni morbose. Ecco alcuni esempi. A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica (vedi Capitolo 16). B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o negli stati circolatori ipercinetici;. C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è tipico dello shock (vedi Capitolo 22). D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio. ISPEZIONE E PALPAZIONE DELLA ZONA PRECORDIALE L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al quarto spazio intercostale sinistro circa 1 centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere dislocato anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere spostato in basso e a sinistra fino al sesto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media. Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il corrispettivo palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più di rado) degli sfregamenti pericardici in corso di pericardite. PALPAZIONE DELL’ADDOME PER RICERCARE L’EVENTUALE PRESENZA DI EPATOMEGALIA O DI PULSAZIONI ABNORMI Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o secondariamente a difetti interessanti inizialmente il cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche e/o aortiche). E’ apprezzabile con le comuni manovre palpatorie l’aumento di volume dell’organo che può sporgere per oltre due, tre dita traverse o più dall’arcata costale. In genere l’organo palpato risulta dolente. Alla palpazione dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi dell'Aorta addominale EDEMI DECLIVI Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.). ASCOLTAZIONE DEL CUORE L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi. I Toni I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile. Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1). Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica. Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco quella della polmonare (Figura 1). A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento, però, e variabile con le fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono unite (Figura 2A). Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, tanto da ritardare la chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea.
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Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale, che comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51). In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale. Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B). Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3) o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato. Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare (P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie. Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare, come nello scompenso cardiaco. Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente sottile. Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro ampiezza è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi Capitolo 40), per cui la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo. Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione. I Toni aggiunti A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti. 1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare. 2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto appunto schiocco d’apertura (Figura 6). I Soffi Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non fisiologico, come per esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso, come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata (vedi Capitolo 17). I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano), al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione. Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale.
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Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini come dolce, rude, aspro, aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi. La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al secondo spazio intercostale) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale). L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’ caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del soffio della stenosi aortica. L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la mano sul precordio.
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1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande attenzione
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2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole
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3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito
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4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito
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5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute
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6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici, determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i soffi da rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica. I soffi eiettivi (Figura 7) iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata. Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio, assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono, non simultaneamente ad esso. Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8). Questo inizia senza alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono. I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo, assumendo una morfologia “a diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro” conservando la stessa intensità per tutta la loro durata. I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica (Capitolo 16) o alla stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del flusso con un’area valvolare normale. I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica (Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza aortica (Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18). I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede sottoclaveare sinistra. Gli Sfregamenti Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno
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sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi, genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.
Sezione II. Le indagini strumentali Capitolo 3 L’ELETTROCARDIOGRAMMA Giuseppe Oreto, sco Luzza, Maria Pia Calabrò L’ATTIVITÀ ELETTRICA DEL CUORE Le fibrocellule miocardiche sono polarizzate in condizioni di riposo, cioè possiedono una elettronegatività sulla faccia interna della membrana cellulare, mentre la faccia esterna è carica positivamente. Per contrarsi, ogni cellula deve prima essere depolarizzata, cioè attivata elettricamente: durante la depolarizzazione s’inverte la polarità della membrana, la cui faccia interna diviene carica positivamente. Completatasi la depolarizzazione, la cellula ritorna allo stato iniziale: si realizza quindi la ripolarizzazione, al termine della quale la cellula diviene nuovamente eccitabile, cioè può andare incontro a una nuova depolarizzazione. I processi elettrici delle fibrocellule miocardiche si realizzano mediante il movimento di ioni (particelle cariche elettricamente) i quali attraversano la membrana ando attraverso specifici canali. LE OMDE DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA L’Elettrocardiogramma (ECG) è una registrazione grafica dell’attività elettrica del cuore, ed è formato da diverse onde, le quali si ripetono, normalmente con lo stesso ordine, in ogni ciclo cardiaco, e vengono denominate P, Q, R, S, T ed U (Figura 1). Non necessariamente sono presenti tutte le onde, poiché anche in condizioni fisiologiche una o più di esse possono non essere evidenti o mancare. Nella Figura 1B per esempio, dopo la P compaiono le onde Q ed R ma non la S. L’onda
P
corrisponde
alla depolarizzazione atriale,
mentre
le
onde
Q,
R
ed
S
sono
l’espressione
della depolarizzazioneventricolare; l’onda T rappresenta la ripolarizzazione ventricolare. Il significato dell’onda U è meno chiaro, e la sua genesi è ancora discussa. Fra un ciclo cardiaco e l’altro (cioè fra una serie di onde PQRSTU e la successiva) vi è generalmente una fase più o meno lunga in cui il cuore è elettricamente silente, cioè non vi sono onde. In questo periodo l’elettrocardiogramma registra una linea piatta, detta isoelettrica. Le onde P, T ed U possono essere positive, cioè rivolte in alto (Figura 1A) o negative, cioè rivolte in basso (Figura 1B); per quanto riguarda il complesso ventricolare (QRS), invece, un’onda positiva è sempre denominata R, mentre le onde negative si definiscono Q oppure S a seconda che compaiano prima o dopo un’onda R. La carta su cui viene registrato il tracciato elettrocardiografico presenta un fine reticolato di linee ortogonali che formano dei quadrati. Esistono linee spesse, che distano l’una dall’altra 5 mm, e linee sottili, separate da una distanza di 1 mm; le prime formano quadrati con lati di 5 mm, le seconde quadrati con lati di 1 mm. Ogni quadrato “grande” contiene perciò 25 quadrati “piccoli” (Figura 2). Le linee servono come punti di riferimento per misurare sia l’ampiezza (cioè il voltaggio) delle onde che la loro durata. Sull’asse verticale si misura l’altezza (ampiezza) della deflessione, partendo dall’isoelettrica. Per esempio, nella Figura 3 l’onda P ha un’altezza di 2 mm, l’onda q di 1 mm, l’onda R di 13 mm, l’onda S di 2 mm e la T di 2,5 mm. Poiché in una registrazione elettrocardiografica standard 10 mm corrispondono a 1 mV, potremo affermare che l’onda P ha un’ampiezza di 0,2 mV, la Q di 0,1 mV, la R di 1,3 mV, etc. Mentre la dimensione verticale serve per misurare il voltaggio delle onde, quella orizzontale consente di valutare la durata delle varie deflessioni. Con la velocità tradizionale di scorrimento della carta (25 mm al secondo), un secondo corrisponde a 5 quadrati grandi o, ciò che è lo stesso, a 25 quadrati piccoli. Di conseguenza, ogni quadrato grande equivale a 0,2 secondi (200 millisecondi) e ogni quadrato piccolo a 0,04 secondi (40 millisecondi). Proviamo ora a determinare la durata delle varie onde misurandone la larghezza. Nella Figura 3 l’onda P ha una larghezza di 2 quadrati piccoli, per cui la sua durata sarà 0,08 sec (0,04x2); anche il QRS occupa lo spazio di 2 quadrati piccoli, cioè ha una durata di 0,08 secondi (80 millisecondi). Oltre alla durata delle varie onde, si misurano anche alcuni intervalli, particolarmente il P-Q (o P-R) e il QT. Nella Figura 3 il P-Q (dall’inizio della P all’inizio del QRS) misura circa 0,17 secondi e il QT (dall’inizio del QRS alla fine della T) 0,39 secondi. LE DERIVAZIONI DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA L’elettrocardiogramma tradizionale comprende 12 derivazioni. Ciascuna di esse descrive lo stesso fenomeno (i processi di depolarizzazione e di ripolarizzazione del cuore) visto, però, da diversi punti di osservazione. La presenza di più derivazioni serve a ricostruire rapidamente l’andamento dei fenomeni elettrici del cuore. Allo stesso modo, se noi vogliamo studiare le caratteristiche architettoniche di un edificio, dobbiamo girarci intorno per analizzarlo da diverse angolazioni: l’edificio è sempre lo stesso, ma cambia la parte che di volta in volta vediamo. Perciò ogni derivazione contiene le stesse onde (P,Q,R,S,T,U) nella stessa sequenza, ma la polarità (positiva o negativa), il voltaggio e la durata delle deflessioni saranno più o meno diversi nelle differenti derivazioni. Tuttavia, se noi riusciamo a mettere insieme le informazioni che le 12 derivazioni ci offrono, apparirà alla nostra mente
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l’intera sequenza degli eventi elettrici del cuore, e potremo allora discriminare la normalità dalla patologia, e nell’ambito di quest’ultima distinguere diversi aspetti. Le 12 derivazioni sono: Periferiche (degli arti): Bipolari (Figura 4): I (o D1) - Polo positivo braccio sn, polo negativo braccio dx II (o D2) - Polo negativo braccio dx, polo positivo gamba sn III (o D3) - Polo negativo braccio sn, polo positivo gamba sn Unipolari:aVR - Polo positivo braccio dx aVL - Polo positivo braccio sn aVF - Polo positivo gamba sn Precordiali o toraciche (Figura 5):V1 IV - spazio intercostale dx, sulla marginosternale V2 IV - spazio intercostale sn, sulla marginosternale V3 - A metà strada fra V2 e V4 V4 V - spazio intercostale sn, sull’emiclaveare V5V - spazio intercostale sn, sull’ascellare anteriore V6 V - spazio intercostale sn, sull’ascellare media Le prime 6 derivazioni vengono con elettrodi posti sugli arti e vengono perciò dette periferiche (o derivazioni degli arti), mentre le seconde 6 si ottengono ponendo gli elettrodi sul torace, nella regione precordiale, da cui il nome di derivazioni precordiali. Inoltre, fra le derivazioni periferiche le prime tre sono bipolari e le seconde tre unipolari. IMPIEGO CLINICO DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA Due sono i campi principali di applicazione dell’ECG: da un lato lo studio del ritmo cardiaco e la diagnosi della aritmie, e dall’altro il riconoscimento di alcune condizioni patologiche del cuore (per esempio, l’infarto miocardico) che alterano in modo caratteristico l’attività elettrica cardiaca. Mentre per le aritmie, però, l’ECG è insostituibile e rappresenta la metodica di riferimento, per molte altre condizioni esistono tecniche più adatte a rivelare il processo patologico, per cui l’ECG a in secondo piano. Per esempio, l’ipertrofia miocardica viene definita con maggiore accuratezza dall’Ecocardiografia che dall’ECG poiché la prima è in grado di valutare la massa miocardica, mentre il secondo può solo indicare le eventuali anomalie elettriche che l’ipertrofia induce, e quindi rivela questa condizione solo indirettamente. A parte che per lo studio delle aritmie, l’ECG viene impiegato in clinica per diagnosticare l’ingrandimento degli atri, l’ipertrofia dei ventricoli, i disturbi di conduzione intraventricolare (blocchi di branca e fascicolari), l’ischemia miocardica e le sue diverse manifestazioni, alcune disionie, l’effetto di alcuni farmaci sul cuore. L’ECG è anche molto importante per riconoscere alcune condizioni spesso congenite, a volte su base genetica, che possono condurre ad aritmie anche letali (Preeccitazione, QT lungo o corto, Fenomeno di Brugada), e fornisce anche informazioni utili per il riconoscimento di malattie quali la pericardite, le cardiomiopatie, il cuore polmonare cronico, l’embolia polmonare.
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LA DETERMINAZIONE DELL’ASSE QRS (AQRS) L’ECG rappresenta sotto forma di onde i vettori prodotti dalla depolarizzazione e dalla ripolarizzazione cardiaca. Il cuore genera, istante per istante, numerose forze elettriche che possono essere espresse da vettori; la somma di tutti i vettori che compaiono in un determinato momento rappresenta il vettore medio istantaneo; sommando tutti i vettori medi istantanei che si succedono durante la depolarizzazione ventricolare si ottiene il vettore medio del QRS o asse del QRS (ÂQRS). La direzione di questo vettore può essere calcolata nei tre piani dello spazio: piano frontale, piano orizzontale o trasverso, piano sagittale; in pratica, però, l’ÂQRS viene determinato solo sul piano frontale, e il calcolo della sua direzione è semplice in base all’analisi delle derivazioni periferiche (derivazioni degli arti). Per questo scopo, possiamo immaginare la genesi dell’ECG assumendo che in ogni piano il cuore sia il centro di una circonferenza, e che da esso si originino le forze, espresse come vettori: le varie onde da cui è formato il tracciato elettrocardiografico non sono altro che le proiezioni dei vettori sui diametri della circonferenza. Analizziamo solo il piano frontale: ogni derivazione corrisponde a un diametro, con un estremo positivo e uno negativo. Per descrivere la posizione dei diversi diametri si usa una schematizzazione geometrica, dove la definizione in gradi identifica l’estremità positiva di ogni derivazione. Il piano frontale presenta le direzioni alto, basso, sinistra e destra (Figura 6). Per convenzione, il punto più a sinistra viene definito 0°, quello più basso +90°, quello più in alto –90° e quello più a destra ±180°; i vettori diretti nella metà inferiore della circonferenza (in basso) vengono espressi con segni positivi (per esempio, +70°), mentre i vettori diretti in alto hanno segno negativo (per esempio, -40°). Ciascuna derivazione periferica (del piano frontale) ha una sua linea, corrispondente a un diametro della circonferenza, e viene identificata in base al suo polo positivo (Figura 7). Nel nostro approccio semplificato, tuttavia, utilizzeremo solo una coppia di derivazioni ortogonali: I e aVF. Nell’osservare ogni derivazione, bisogna tenere in considerazione la posizione della linea di derivazione e il diametro perpendicolare ad essa. Esaminando la I derivazione, la cui linea va da 0° (polo positivo) a ±180° (polo negativo), osserviamo che il diametro perpendicolare alla linea di derivazione va da –90° a +90° (Figura 8). La linea della I derivazione può essere divisa in due metà: la parte che va dal centro della circonferenza al polo positivo è l’emilinea positiva e quella che va dal centro al polo negativo l’emilinea negativa. Facciamo ora partire dei vettori dal centro della circonferenza (Figura 9): il vettore A proietterà sulla metà positiva della linea della derivazione, il vettore B proietterà sull’emilinea negativa, mentre il vettore C è perpendicolare alla linea e la sua proiezione su di essa sarà un punto. Tradotti in termini di ECG, questi fenomeni significano che il vettoreA darà luogo ad una deflessione positiva, cioè rivolta verso l’alto, mentre il vettore B originerà un’onda negativa, diretta in basso, e il vettore C non genererà alcuna onda, visto che la sua proiezione sulla linea è puntiforme, cioè nulla. L’ampiezza dell’onda sarà direttamente proporzionale alla lunghezza della proiezione del vettore sulla linea di derivazione. Se noi suddividiamo la linea in unità arbitrarie, ci rendiamo conto che la proiezione del vettore A misura 5,5 unità e quella del vettore B 3,5 unità. Ciò trova immediato riscontro nel tracciato: l’onda generata dal vettore A è alta 5,5 mm, mentre quella dovuta al vettore B misura 3,5 mm. Esprimendoci più correttamente, diremo che l’ampiezza di A è 0.55 mV (millivolt) e quella di B 0.35 mV. Consideriamo ora il vettore A (Figura 10). Sappiamo che in I derivazione esso dà una deflessione positiva, ma non possiamo, con questa sola informazione, calcolarne la direzione. Si può soltanto affermare, visto che esso proietta sull’emilinea positiva della I derivazione, che è diretto a sinistra, compreso nell’angolo piatto segnato in verde nella figura. Analizziamo ora aVF (Figura 11), il cui polo positivo è a +90°: il vettore A proietta sulla metà positiva della linea di questa derivazione, il che vuol dire che esso è diretto nell’angolo piatto segnato in verde nella figura (fra 0° e ±180°). In altri termini, aVF ci dice che il vettore A è diretto in basso. Se adesso mettiamo insieme le informazioni provenienti dalle due derivazioni fin qui studiate (Figura 12), ci accorgiamo che è possibile circoscrivere la direzione del vettore nell’angolo retto che va da 0° a +90° (segnato in verde), poiché l’ECG mostra un’onda positiva sia in I derivazione che in aVF: il vettore, perciò, dev’essere diretto in basso e a sinistra. L’ÂQRS normale è diretto in basso e a sinistra; per questo motivo in un ECG normale il complesso QRS è positivo sia in I derivazione che in aVF (Figura 13A). La deviazione assiale sinistra, invece è caratterizzata da un ÂQRS diretto nel quadrante superiore sinistro, cioè in alto e a sinistra (Figura 13B); in questa situazione il complesso QRS sarà negativo in aVF (il vettore proietterà sulla metà negativa della linea di derivazione) e positivo in I. Nella deviazione assiale destra, invece, il vettore medio di QRS è diretto verso destra nel quadrante inferiore destro (Figura 14A) o in quello superiore destro (Figura 14B). Ciò che contraddistingue la deviazione assiale destra, comunque, è la negatività del complesso QRS in I derivazione; quando l’ÂQRS è diretto a destra e in basso, il QRS è positivo in aVF (Figura 14A), mentre se è diretto a destra e in alto (cosiddetta deviazione assiale destra estrema, Figura 14B) sia la I derivazione che aVF presentano un complesso ventricolare negativo (Tabella I). L’INGRANDIMENTO DEGLI ALTRI Ingrandimento atriale sinistro. L’ingrandimento dell’atrio sinistro si esprime con aumento di durata dell’onda P, che raggiunge o supera 0,12 secondi, con la comparsa di onde P bifide in alcune derivazioni (per esempio, I, II o
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precordiali da V2 a V6) e di un’onda P difasica positivo/negativa in V1, caratterizzata da una componente negativa rallentata (ECG 01, ECG 06, ECG 07, ECG 11). Ingrandimento atriale destro. L’ingrandimento dell’atrio destro viene suggerito da onde P con durata normale, ma alte, con voltaggio
0,25 mV (2,5 mm) e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF, e da onde P positive o
prevalentemente positive e appuntite in V1 (ECG 02, ECG 03, ECG 04, ECG 05). L’IPERTROFIA DEI VENTRICOLI L’ incremento della massa ventricolare si esprime con numerose alterazioni, di cui le più importanti sono l’aumentato voltaggio del QRS, le alterazioni della ripolarizzazione (anomalie del tratto ST e dell’onda T) e, per l’ipertrofia ventricolare destra, la deviazione assiale. Ipertrofia ventricolare sinistra. Per diagnosticare l’ipertrofia ventricolare sinistra attraverso l’aumento del voltaggio sono stati proposti molti indici, il più noto dei quali è l’indice di Sokolov, basato sulla somma dall’onda S in V1 più l’onda R in V5 o V6. Quando questa somma raggiunge o supera 35 mm (3,5 mV) si può diagnosticare l’ipertrofia ventricolare. Molto importanti, nell’ipertrofia ventricolare sinistra, sono le alterazioni secondarie di ST-T (Figura 15), caratterizzate da un tratto ST sottoslivellato e da una T negativa asimmetrica nelle derivazioni in cui il QRS è positivo. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 06, ECG 07, ECG 08. Ipertrofia ventricolare destra. L’ipertrofia ventricolare destra si esprime all’ECG in primo luogo con una deviazione assiale destra (Figura 14); la deviazione dell’ÂQRS a destra è normale nel neonato e nel bambino piccolo mentre è un fenomeno anormale nell’adulto ed esprime quasi sempre l’ipertrofia del ventricolo destro. Un altro segno è rappresentato dalle onde R alte nelle precordiali destre (V1,V2), con rapporto R/S>1. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 03, ECG 04, ECG 05. I DISTURBI DELLA CONDUZIONE INTRAVENTRICOLARE Il sistema di conduzione intraventricolare è costituito dalle branche e dalle loro diramazioni (il nodo A-V e il fascio di His fanno, invece, parte della giunzione atrio-ventricolare). In condizioni fisiologiche l’impulso nasce nel nodo del seno, attraversa gli atri e giunge al nodo A-V e da qui al fascio di His, da dove raggiunge simultaneamente le due branche e, percorrendo le diramazioni di queste raggiunge la rete di Purkinje, la quale permette la rapida distribuzione dell’impulso a un gran numero di cellule. La funzione del sistema di conduzione intraventricolare è consentire l’attivazione (e di conseguenza la contrazione) simultanea dei due ventricoli, fenomeno di grande importanza da un punto di vista fisiologico. Poiché la branca sinistra si suddivide precocemente in due fascicoli (anteriore e posteriore), da un punto di vista elettrocardiografico, il sistema di conduzione è costituito da 3 fascicoli: la branca destra, il fascicolo anteriore e quello posteriore (Figura 16). Numerosi processi patologici possono alterare la conduzione in una o più sezioni del sistema di conduzione intraventricolare; si distinguono, quindi, i blocchi di branca (blocco di branca destra, blocco di branca sinistra), i blocchi fascicolari (blocco fascicolare anteriore, blocco fascicolare posteriore, definiti anche come emiblocco anteriore ed emiblocco posteriore), i blocchi bifascicolari (blocco di branca destra + blocco fascicolare anteriore, blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore) e quelli trifascicolari, nei quali tutti e tre i fascicoli sono compromessi. Blocco di branca destra E’ caratterizzato da complessi con onda r (o R) terminale in V1 (morfologia rSr’, rSR’, rR’) e da complessi con onda S larga in I e V6. La durata del QRS è aumentata e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di branca destra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Un blocco di branca destra si osserva nell’ ECG 10. Blocco di branca sinistra In questo blocco il complesso QRS è molto caratteristico nelle derivazioni I e V6, dove è intieramente positivo, con morfologia “a M” o “R con plateau”, il tratto ST è sottoslivellato e la T negativa. Come nel blocco di branca destra, la durata del QRS è aumentata, e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di branca sinistra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Casi di blocco di branca sinistra si osservano nelle Figure ECG 11 ed ECG 12. Blocco fascicolare anteriore (Emiblocco anteriore) Si riconosce per la presenza di deviazione assiale sinistra (ÂQRS a -30° o più in alto, testimoniato da complessi QRS positivi in I, negativi in aVF e isodifasici o negativi in II derivazione) associata a complessi qR in I e aVL ed a complessi rS in III e aVF (ECG 13). Blocco fascicolare posteriore (Emiblocco posteriore E’ un disturbo di conduzione estremamente raro quando isolato, ed è caratterizzato da deviazione assiale destra associata a complessi qR in II, III, aVF. Per affermare la presenza di un blocco fascicolare posteriore, è necessario escludere un’ipertrofia ventricolare destra. Blocco di branca destra + blocco fascicolare anteriore
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Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale sinistra, come nel blocco fascicolare anteriore. Elettrocardiogrammi tipici di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare anteriore si osservano nelle Figure ECG 14 ed ECG 15. Blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale destra, come nel blocco fascicolare posteriore. Un esempio tipico di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare posteriore si osserva nell’ ECG 16. LA CARDIOPATIA ISCHEMICA L’ischemia miocardica si esprime all’ECG con una serie di anomalie che riguardano principalmente il segmento ST, l’onda T e il complesso QRS. Esiste un considerevole disaccordo riguardo la nomenclatura delle alterazioni ischemiche dell’ECG: i classici trattati di Elettrocardiografia impiegano i termini di “ischemia”, “lesione” e “necrosi” per indicare rispettivamente le modificazioni ischemiche dell’onda T, del tratto ST e del complesso QRS; questi termini, tuttavia, non sono esatti da un punto di vista fisiopatologico: per esempio, l’alterazione di T nota come “ischemia” è in realtà un fenomeno postischemico, cioè si manifesta al cessare dell’ischemia. Conserveremo in questo libro la nomenclatura consacrata dall’uso (ischemia, lesione, necrosi) pur nella coscienza della sua inesattezza. La lesione Nella cardiopatia ischemica, il tratto ST può essere sopraslivellato (lesione subepicardica) o sottoslivellato (lesione subendocardica); in realtà nessuna di queste due alterazioni è specifica dell’ischemia miocardica, poiché si può riscontrare (specialmente il sottoslivellamento di ST) in molte altre condizioni indipendenti dall’ischemia. Le modificazioni ischemiche del tratto ST, tuttavia, specialmente il sopraslivellamento, possiedono ancora oggi un ruolo diagnostico cruciale in molte situazioni cliniche, nonostante siano disponibili metodiche strumentali ben più sofisticate e costose. La lesione subepicardica si riscontra prevalentemente nell’infarto miocardico acuto e nell’angina di Prinzmetal (vediECG 20, ECG 21, ECG 22). Il sopraslivellamento di ST può essere a concavità superiore o a convessità superiore (Figura 17). Solitamente è a concavità superiore nelle fasi inizialissime dell’infarto, quando non si sono ancora verificate alterazioni significative del QRS, e allora il complesso ventricolare somiglia a un potenziale d’azione monofasico (Figura 17a), mentre assume convessità superiore in una fase successiva, se pure acuta, dell’infarto, quando cioè si delineano le onde q e la T inizia a divenire negativa (Figura 17b). Un carattere importante della lesione subepicardica è la sua evolutività: nell’infarto essa si manifesta soprattutto durante la fase iniziale e persiste solo per ore o giorni. Cessata la fase acuta, l’ST ritorna gradualmente verso l’isoelettrica, la T si negativizza e compare in genere un’onda q patologica nelle derivazioni interessate (Figura 18). La lesione subendocardica (il sottoslivellamento “ischemico” del tratto ST) è a volte difficilmente distinguibile dalle alterazioni secondarie osservabili in presenza di ipertrofia o blocco di branca, e ancora più difficilmente separabile dalle anomalie di ST indotte da farmaci o da quelle alterazioni che vanno sotto il nome di “alterazioni non specifiche della ripolarizzazione”. La situazione migliore per studiare la lesione subendocardica è il test ergometrico, poiché in questa situazione si può paragonare l’ST in condizioni di riposo con quello osservato durante lo sforzo. Quando il test è positivo, cioè indicativo di ischemia miocardica, compare un sottoslivellamento di ST (Figura 19) che ha di solito un andamento dapprima ascendente (schema b), poi rettilineo o piatto (c) e quindi discendente (d); quest’ultimo stadio si accompagna a negativizzazione dell’onda T, o meglio a T bifasica negativo/positiva che può permanere anche quando, con la cessazione dell’esercizio, il tratto ST si normalizza (e). In linea di massima, l’aspetto morfologico più tipico della lesione subendocardica è il sottoslivellamento rettilineo del tratto ST (c); tuttavia non vi sono indicatori checonsentano di discriminare con certezza, solo sulla base della morfologia, l’al terazione ischemica da quella nonischemica di ST. Un dato rilevante è offerto dall’evolutività del sottoslivellamento di ST: nel test ergometrico “positivo” l’ECG diviene progressivamente anormale e poi torna alle condizioni basali entro breve tempo. Parimenti, nell'angina pectoris, il sottoslivellamento di ST si riduce al migliorare della sintomatologia, mentre la persistenza dell’alterazione per ore o giorni testimonia un infarto subendocardico. Elettrocardiogrammi caratteristici di lesione subendocardica sono presentati nei casi ECG 18, ECG 19; in particolare l’ ECG 19b mostra la normalizzazione del tratto ST al risolversi dell’angina. La necrosi La necrosi è un’alterazione del QRS generalmente conseguente ad un infarto miocardico. Nella maggior parte dei casi, la necrosi si esprime con la comparsa di onde q patologiche o con la scomparsa di onde r, per cui si osservano in alcune derivazioni complessi QS. Si afferma comunemente che le onde q, per essere indicative di necrosi, debbano avere una durata di almeno 0.04 secondi e un voltaggio non inferiore a ¼ della R successiva. Tuttavia, questo è un criterio non sempre utilizzabile: è a volte difficile distinguere un’onda q “di necrosi” da un’onda q “normale”, anche perché l’estensione della zona necrotica è variabile, e in alcuni casi è così piccola da non provocare un disordine elettrico tale da esprimersi con onde q di ampiezza sufficiente. Elettrocardiogrammi dimostrativi di necrosi vengono presentati negli ECG 21, ECG 23, ECG 24. L’Ischemia In condizioni normali, l’onda T è positiva nelle derivazioni in cui il QRS è positivo, e viceversa. Nell’ischemia subepicardica, invece, le onde T si presentano invertite rispetto a quanto atteso, cioè con una polarità opposta
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rispetto a quella del QRS, e hanno una morfologia simmetrica, con uguale pendenza delle due branche, ed apice appuntito (Figura 20a). Questi ultimi caratteri della T ischemica la rendono differente dalla T normale, dove la branca prossimale è più lenta di quella distale, e l’apice è arrotondato. Un’altra configurazione caratteristica, anche se meno comune, della T ischemica è quella difasica positivo/negativa, con componente terminale negativa appuntita (Figura 20b). Nell’infarto miocardico, le onde T “ischemiche” non si manifestano nella fase iperacuta, ma solo dopo ore o, a volte, giorni. Si può affermare che la T “ischemica” sia in realtà un fenomeno post-ischemico, che compare cioè quando la fase acuta dell’ischemia si è conclusa. Il problema diagnostico, cioè la corrispondenza o meno fra le onde T “ischemiche” e la cardiopatia ischemica, si pone quando il quadro ECG dell’ischemia subepicardica compare in assenza di infarto miocardico o al di fuori di una situazione clinica che deponga chiaramente per cardiopatia ischemica. In un paziente con pregresso infarto è possibile non di rado osservare onde T ischemiche anche molti anni dopo l'episodio acuto (ECG 23, ECG 24) ma, in assenza di dati che attestino l’esistenza di una cardiopatia ischemica, il quadro ECG definibile come ischemia subepicardica non è di per sé dimostrativo di una vera ischemia, neanche quando è morfologicamente tipico, cioè caratterizzato da onde T invertite simmetriche e appuntite. L’ALTERAZIONE DELL’EQUILIBRIO IDROELETTROLITICO Le disionie, in particolare le alterazioni riguardanti il potassio e il calcio, influenzano l’ECG. L’iperkaliema (ECG 25,ECG 26) provoca aumentata durata (allargamento) del QRS e comparsa di onde T alte e appuntite, mentrel’ipokaliema (ECG 27) induce sottoslivellamento di ST, appiattimento dell’onda T, comparsa di onda U e allungamento del QT (vedi più avanti). Anche l’ipocalcemia può essere responsabile di un allungamento del QT (ECG 28), ma in questa situazione la T è pressoché normale mentre si allunga l’intervallo fra l’inizio del QRS e l’inizio della T. L’INTERVALLO QT E I SUOI PROBLEMI L’intervallo QT esprime la durata globale dell’attività elettrica ventricolare, e comprende sia la fase di depolarizzazione che quella di ripolarizzazione; la misurazione del QT, tuttavia, viene impiegata esclusivamente per valutare la ripolarizzazione ventricolare. Ciò dipende dal fatto che mentre è semplice determinare l’inizio e il termine della depolarizzazione, non è altrettanto immediato riconoscere l’inizio della ripolarizzazione. Alcune cellule ventricolari, infatti, iniziano a ripolarizzarsi mentre altre si stanno ancora depolarizzando, per cui è pressoché impossibile valutare la durata esatta del processo di recupero, e si preferisce esprimere la durata totale della “sistole elettrica”, appunto l’intervallo QT, che va misurato dall’inizio del complesso QRS alla fine dell’onda T. Si tratta di un parametro molto importante, poiché numerose condizioni patologiche, e soprattutto l’effetto di svariati farmaci, si manifestano con variazioni dell’intervallo QT, in genere con l’allungamento di esso, ed eccezionalmente con l’accorciamento. Il QT si modifica notevolmente con il variare della frequenza cardiaca, essendo più breve a frequenze alte e più lungo per frequenze basse. Diviene perciò indispensabile correggere il QT per la frequenza cardiaca, ed è quanto solitamente si fa con la formula di Bazett, in base alla quale il QT corretto (QTc) è uguale al rapporto fra il QT e la radice quadrata dell’intervallo R-R (entrambe le misure vengono espresse in secondi). Da questa formula si evince che il QTc è uguale al QT se la frequenza cardiaca è di 60 al minuto, poiché a questa frequenza l’intervallo RR misura 1 secondo, e la radice quadrata di 1 è 1. Per frequenze maggiori di 60 il QTc è sempre maggiore del QT, mentre per frequenze minori di 60 il QTc è minore del QT. Il QT lungo L’allungamento del QT (QTc > 0.45 secondi negli uomini, > 0,46 secondi nei bambini di ambo i sessi, > 0.47 secondi nelle donne) può conseguire ad un’anomalia congenita, cioè ad una malattia dei canali ionici dipendente da un’alterazione cromosomica (vedi Capitolo…), o essere di natura acquisita. Diversi geni sono stati riconosciuti come responsabili della malattia, e differenti forme sono state identificate; le Figure ECG 33 ed ECG 34 riportano tracciati elettrocardiografici di pazienti con Sindrome da QT lungo congenito. Il QT lungo acquisito riconosce una serie di cause; fra queste le disionie (Ipokaliemia, Ipocalcemia), numerosi farmaci, particolarmente gli antiaritmici (Sotalolo, Amiodarone, Ibutilide, Chinidina, Disopiramide) diversi antidepressivi e alcuni farmaci gastrointestinali; anche l’ischemia miocardica e il blocco A-V (ECG 35) rientrano fra le possibili cause del QT lungo. L’allungamento del QT è temibile perché può provocare aritmie gravi, particolarmente la tachicardia ventricolare a torsione di punte (vedi Capitolo…) e la fibrillazione ventricolare. Il QT corto L’accorciamento dell’intervallo QT è molto più raro dell’allungamento. In linea di massima dipende, allo stesso modo del QT lungo, da malfunzionamento su base genetica dei canali ionici, e può associarsi ad aritmie gravi e a morte improvvisa (vedi Capitolo…). L’accorciamento acquisito del QT è di natura disionica (ipercalcemia) o farmaco-indotta. L’ ECG 36 riporta un caso di Sindrome da QT corto. LA PREECCITAZIONE Si definisce con questo termine la condizione in cui una zona miocardica viene attivata prima di quanto sarebbe avvenuto se l’impulso fosse stato condotto solo attraverso le normali vie di conduzione. Responsabile della
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preeccitazione è sempre una via accessoria, cioè un fascio anomalo che connette, a parte rare eccezioni, gli atri ai ventricoli; poiché la velocità di conduzione attraverso il fascio accessorio è maggiore di quella attraverso la via normale (Nodo A-V, Fascio di His, etc.) la zona cui si distribuisce la via anomala viene attivata in anticipo, cioè preeccitata. L’ECG di un paziente portatore di una via accessoria (nella maggior parte dei casi definita come “Fascio di Kent”) può presentare i seguenti caratteri: 1) Onda delta, rappresentata da un rallentamento iniziale del complesso QRS; 2) P-R corto; 3) QRS largo; 4) Alterazioni secondarie della ripolarizzazione. L’importanza della preeccitazione dipende dal fatto che la coesistenza di due vie di conduzione atrio-ventricolare (quella nodo-hissiana e il fascio di Kent) rappresenta il presupposto per l’instaurarsi di un circuito di rientro, che può dar luogo a una tachicardia parossistica da rientro atrio-ventricolare. La condizione in cui la preeccitazione si associa a tachicardia parossistica da rientro viene definita “Sindrome di Wolff-Parkinson-White” (vedi Capitolo…). Le Figure ECG 37 ed ECG 38 presentano casi di preeccitazione ventricolare. IL FENOMENO DI BRUGADA Risale all’ultimo decennio del secolo scorso la descrizione di una nuova Sindrome, caratterizzata da morte improvvisa per fibrillazione ventricolare e da un particolare quadro elettrocardiografico caratterizzato dalla presenza, nelle derivazioni precordiali destre, di un’onda terminale positiva definita come “onda J”, associata a un tratto ST sopraslivellato. L’onda J somiglia in qualche modo all’onda R’ del blocco di branca destra, e per questo motivo era stato in un primo tempo ritenuto che il blocco di branca destra fe parte del quadro ECG associato alla “Sindrome di Brugada”. Dopo la descrizione iniziale, sono stati riconosciuti numerosi soggetti nei quali era evidente il “Fenomeno di Brugada” cioè il quadro elettrocardiografico caratteristico. E’ ancora oggetto di discussione l’iter diagnostico per identificare, nella coorte di coloro che presentano all’ECG il Fenomeno di Brugada, quelli che sono a rischio di morte improvvisa. Le Figure ECG 39 ed ECG 40 presentano esempi tipici del Fenomeno di Brugada. Si ritiene che alla base del Fenomeno sia una malattia dei canali ionici, precisamente un malfunzionamento del canale del sodio; è stata anche riscontrata nel 20% dei soggetti affetti un’alterazione del gene SCN5A, ma le conoscenze sulla genetica della Sindrome di Brugada non sono ancora sufficientemente progredite da permettere un inquadramento clinico affidabile. L’IPOTERMIA In soggetti che siano andati accidentalmente incontro a ipotermia, si riscontra un quadro ECG caratteristico. Con l’abbassarsi della temperatura corporea compaiono diverse alterazioni elettrocardiografiche (bradicardia sinusale, blocco A-V di I o di II grado, anomalie di ST-T, allungamento del QT, aumento della durata del QRS) ma soprattutto l’onda J, detta anche onda di Osborn, che è il segno patognomonico dell’ipotermia. Si tratta di una piccola deflessione positiva e relativamente larga che segue l’onda R ed è in diretta continuità con questa, intervenendo fra il QRS e il tratto ST. L’onda J dell’ipotermia è simile a quella osservabile nel fenomeno di Brugada, ma in quest’ultima condizione l’onda J si osserva solo in V1-V2 o al massimo in V3, mentre nell’ipotermia essa è presente in numerose derivazioni. Un caso tipico di ipotermia è presentato nell’ ECG 41. LA PERICARDITE Per quanto il pericardio non sia sede di attività elettrica, e quindi non contribuisca direttamente alla genesi dell’elettrocardiogramma, la pericardite può provocare alterazioni dell’ECG perché l’infiammazione dell’epicardio si accompagna quasi inevitabilmente ad interessamento flogistico degli strati miocardici subepicardici, ed anche perché la presenza del versamento pericardico o dell’ispessimento fibro-calcifico dei foglietti sierosi altera la trasmissione delle forze elettriche cardiache. Nella pericardite acuta l’ECG mostra spesso un sopraslivellamento di ST a concavità superiore nelle derivazioni con QRS prevalentemente positivo, onde T relativamente alte e appuntite, e non di rado un tratto P-R sottoslivellato. Successivamente il punto J ritorna all’isoelettrica, scompare il sottoslivellamento del P-R, la T si riduce di voltaggio e quindi si negativizza, per normalizzarsi poi tardivamente. Esempi di elettrocardiogrammi suggestivi di pericardite acuta si osservano nelle Figure ECG 42 ed ECG 43. Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico, può comparire la riduzione del voltaggio di tutte le onde dell’ECG (il liquido pericardico è un cattivo conduttore di elettricità) e l’alternanza elettrica, caratterizzata da un alternarsi di onde più ampie e meno ampie (ECG 44). LE CARDIOMIOPATIE Cardiomiopatia Ipertrofica L’ECG è normale solo nel 7-15% dei pazienti affetti, mentre negli altri si può osservare: aumento del voltaggio di QRS (ipertrofia ventricolare sinistra), alterazioni di ST-T, onde q anormali (apparente necrosi), alterazioni della conduzione intraventricolare, ingrandimento atriale. Elettrocardiogrammi con quadri caratteristici di cardiomiopatia ipertrofica vengono presentati nelle Figure ECG 45 ed ECG 46. Cardiomiopatia dilatativa In questa forma è molto comune il blocco di branca sinistra, ed è anche possibile osservare ipertrofia ventricolare sinistra ed ingrandimento atriale sinistro. Cardiomiopatia restrittiva Il quadro più comune è rappresentato da ingrandimento atriale (spesso biatriale). I complessi QRS hanno a volte basso voltaggio, sono presenti alterazioni di ST-T e spesso aspetti di apparente necrosi (pseudonecrosi). Un caso tipico di questa malattia viene presentato nell’ ECG 47.
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Cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro A parte le aritmie, che sono quasi la regola in questa malattia, è possibile osservare all’ECG anomalie dell’onda P, blocco di branca destra, onde T negative nelle derivazioni precordiali destre (o anche in tutte le precordiali), ed a volte onde epsilon, espressione di attivazione ritardata di alcune zone del ventricolo destro (ECG 48). L’ENFISEMA E IL CUORE POLMONARE CRONICO Enfisema L’aumento del contenuto aereo polmonare, caratteristico dell’enfisema, influenza l’ECG soprattutto perché, essendo l’aria un cattivo conduttore di elettricità, si realizza una difficoltà nella trasmissione dei potenziali elettrici cardiaci alla superficie del corpo, con conseguente riduzione dei voltaggi delle onde elettrocardiografiche. L’ECG nel paziente enfisematoso presenta, perciò, complessi ventricolari di basso voltaggio, specialmente nelle derivazioni periferiche. Per convenzione, si considera basso il voltaggio dei ventricologrammi quando la somma di tutte le onde del QRS nelle tre derivazioni periferiche bipolari (I, II, III) non supera 15 mm. Un tracciato elettrocardiografico tipico si osserva nell’ECG 49. Cuore polmonare cronico Nella maggior parte dei casi, il cuore polmonare cronico consegue ad una broncopneumopatia ostruttiva enfisematica. In tale situazione l’ECG riflette sia i segni dell’enfisema che quelli del cuore polmonare, rappresentati dall’ipertrofia ventricolare destra, associata quasi invariabilmente all’ingrandimento atriale destro. L’anomalia dovuta all’enfisema è fondamentalmente la riduzione dei voltaggi di tutte le onde dell’ECG, mentre il sovraccarico pressorio che grava sul cuore destro si esprime con i segni dell’ipertrofia ventricolare (deviazione di ÂQRS a destra, aumento del voltaggio di R in V1 con rapporto R/S >1) e con quelli dell’ingrandimento atriale destro (onde P appuntite nelle derivazioni inferiori, con voltaggio aumentato, onde P prevalentemente positive e aguzze in V1-V2). L’ ECG 03 è stato registrato in un soggetto con cuore polmonare cronico. L’EMBOLIA POLMONARE Le embolie polmonari di entità modesta non si associano ad alterazioni emodinamiche di rilievo né, tanto meno, a modificazioni dell’ECG. Solo un’embolia polmonare massiva può dare segno di sé, provocando un inatteso sovraccarico del ventricolo destro (cuore polmonare acuto), che si riflette anche sull’elettrocardiogramma. In questa condizione, l’ECG può mostrare: 1) blocco di branca destra, completo o, più spesso, incompleto, a volte associato a sopraslivellamento di ST e/o T positiva in V1; 2) onde T negative nelle derivazioni precordiali; 3) S1Q3T3, cioè onda S in I derivazione e onda q associata a T negativa in III. L’ ECG 50A e l’ ECG 50B mostrano un caso di embolia polmonare.
Capitolo 4 L’ECOCARDIOGRAMMA Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò INTRODUZIONE L’ecocardiografia è la metodica che permette di eseguire uno studio anatomico e funzionale del cuore mediante gli ultrasuoni. I primi tentativi di utilizzare gli ultrasuoni in medicina iniziarono appena dopo la seconda Guerra Mondiale e si concretizzarono nel 1953 con la segnalazione, da parte di Hertz ed Hedler, della possibilità di visualizzare strutture cardiache in movimento, in particolare la valvola mitrale. Da allora, i notevoli sviluppi della tecnica, hanno fatto sì che l’ecocardiografia diventasse una metodica diagnostica di grande rilievo per lo studio morfologico e funzionale dell’apparato cardiovascolare. L’ecocardiografia è la metodica diagnostica che, insieme all’elettrocardiografia, è presente nella stragrande maggioranza, se non nella totalità, dei percorsi clinici di un paziente cardiopatico o a rischio di cardiopatie. Poche metodologie hanno subito un’applicazione così vasta ed una diffusione così capillare nella pratica clinica come la diagnostica con ultrasuoni in generale, e come l’ecocardiografia in ambito cardiologico, in particolare. Ciò è dovuto, da una parte, alla semplicità e sicurezza della metodica e dall’altra alla ricchezza ed immediatezza dei risultati ottenibili. I continui progressi tecnologici, con il miglioramento della qualità delle immagini e la disponibilità di apparecchi portatili, amplieranno ulteriormente lo spettro di applicazione, e quindi di richiesta, della metodica. Per una sua applicazione ottimale e per una corretta interpretazione dei dati ottenuti, servono una tecnica adeguata e solide basi culturali, considerando che uno dei principali limiti dell’Ecocardiografia è il fatto di essere
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operatore-dipendente. In ogni caso, il risultato dell’esame ecocardiografico va interpretato alla luce dei dati anamnestici e del contesto clinico. Le principali informazioni che si possono ottenere dall’esame ecocardiografico sono:
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Studio dell’anatomia cardiaca in fisiologia ed in patologia (dimensioni, spessori, cavità, valvole, pericardio,
aorta, arteria polmonare e suoi rami principali).
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Studio della funzione degli apparati valvolari e della funzione sistolica e diastolica dei ventricoli Studio della funzione contrattile globale e segmentaria delle pareti ventricolari
I PRINCIPI DELL’ECOCARDIOGRAFIA Il suono è una forma di energia che attraversa la materia comprimendo e rarefacendo alternativamente le molecole. E’ rappresentato graficamente da una sinusoide la cui dimensione orizzontale è il tempo, quella verticale l’intensità o ampiezza. Si caratterizza per la lunghezza d’onda (che rappresenta la distanza tra due fasi consecutive del ciclo) e per la frequenza (che esprime il numero di compressioni ed espansioni che subiscono le particelle nell’unità di tempo). La frequenza del suono è espressa in cicli al secondo o Hertz (Hz) (Figura 1). L’orecchio umano percepisce suoni tra i 16 e 20.000 Hz; oltre quel limite si parla di ultrasuoni. Le frequenze attualmente utilizzate in cardiologia variano da 1 milione ad oltre 10 milioni di Hertz (MHz), tali da permettere l’attraversamento dei tessuti con una velocità costante di 1540 m/sec. La velocità del suono è il prodotto della frequenza per la lunghezza d’onda. Esiste dunque tra queste due componenti un rapporto inverso: all’aumentare di una diminuisce l’altra. CARATTERISTICHE FISICHE DEGLI ULTRASUONI Gli ultrasuoni possono essere utilizzati nell’imaging diagnostico poiché, come la luce, sono orientabili e, attraversando i tessuti, subiscono alcune modificazioni: attenuazione, riflessione e rifrazione
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Attenuazione: è un fenomeno di riduzione di intensità del raggio ultrasonoro e dipende dall’assorbimento,
dalla riflessione e dalla dispersione da parte del tessuto esaminato. Aumenta all’aumentare della frequenza.
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Riflessione: una parte del raggio ultrasonoro viene riflesso a livello dell’interfaccia tissutale. L’onda sonora
che torna indietro, avvicinandosi alla sorgente, costituisce un’eco e viene utilizzata per visualizzare l’immagine ultrasonora.
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Rifrazione: è la deviazione subita dall’onda quando a da un mezzo ad un altro, cambiando velocità di
propagazione.
L’impedenza acustica (Z) è il prodotto della densità del mezzo che gli ultrasuoni attraversano (P) per la velocità (C) dell’ultrasuono, e definisce le caratteristiche acustiche del mezzo stesso. I tessuti molli sono più densi ed hanno maggiore impedenza acustica, perché la velocità di propagazione resta invariata. La superficie di separazione tra due mezzi ad impedenza acustica diversa viene chiamata interfaccia acustica. Ad ogni interfaccia acustica, una parte degli ultrasuoni viene riflessa e una parte viene rifratta nel mezzo adiacente (Figura 2); l’intensità della componente riflessa dipende dalla differenza di impedenza acustica dei mezzi e dall’angolo di incidenza: essa è, cioè, tanto maggiore quanto più la direzione del fascio ultrasonoro è perpendicolare alla superficie. Se la superficie di contatto non è piana ma irregolare, una parte dell’energia non sarà riflessa ma diffratta, cioè dispersa in tutte le direzioni. Il potere di risoluzione è la capacità di distinguere fra loro due strutture distinte poste una dopo l’altra o una accanto all’altra lungo la direzione del fascio ultrasonoro. E’ direttamente proporzionale alla frequenza dell’ultrasuono. Il potere di penetrazione del raggio ultrasonoro è, invece, inversamente proporzionale alla frequenza. Perciò sonde che lavorano con ultrasuoni ad alte frequenze hanno un elevato potere di risoluzione ma una bassa capacità di penetrazione nei tessuti. La diagnostica ecocardiografica utilizza trasduttori che lavorano con frequenze di almeno 2MHz. La qualità delle immagini ottenute migliora con la modalità “harmonic imaging” (seconda armonica), caratterizzata dal fatto che la sonda invia ultrasuoni ad una certa frequenza e li riceve ad una frequenza doppia. Ciò consente una migliore qualità delle immagini. IL TRASDUTTORE Gli ultrasuoni vengono prodotti da un trasduttore. Esso è costituito da elettrodi e da un cristallo piezoelettrico la cui struttura ionica, sfruttando le capacità di alcuni materiali (come il quarzo o la ceramica), si deforma se esposta al aggio di corrente elettrica generando onde sonore. Lo stesso cristallo piezoelettrico poi, per effetto
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dell’energia meccanica generata da onde sonore riflesse, subisce una deformazione che genera un segnale elettrico rilevato da elettrodi. Ciò significa che il trasduttore riceve e invia contemporaneamente segnali ultrasonori (Figura 3). SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA La ricostruzione dell’immagine ecocardiografica si basa sul calcolo della distanza tra una data struttura anatomica ed il trasduttore. Il trasduttore emette un fascio ultrasonoro che si dirige verso il cuore e procede in linea retta fino a quando non raggiunge un’interfaccia tra strutture con diversa impedenza acustica. A questo punto parte dell’energia viene riflessa, parte viene dispersa, e la parte restante continua il proprio percorso rifratta. Il sangue non genera echi riflessi. L’energia riflessa che torna verso il trasduttore costituisce il fondamento dell’immagine ecocardiografica. Poiché la velocità di propagazione degli ultrasuoni nei tessuti molli è costante nel tempo (circa 1540 m/s), il traduttore è in grado di calcolare la distanza tra esso e la struttura esaminata valutando l’intervallo temporale tra l’invio degli ultrasuoni e la ricezione dell’eco riflesso. Sul monitor, alla distanza corrispondente, viene visualizzato il punto appena
esaminato.
I
moderni
ecocardiografi
(Figura
4)
consentono
di
eseguire
tutte
le
tecniche
ecocardiografiche, da quelle tradizionali a quelle più moderne, e sono dotati di diverse sonde, adatte alle varie metodiche (Figura 5). I sistemi di rappresentazione dell’immagine con l’ecocardiografia transtoracica attualmente in uso sono:
• •
Sistema Mono-dimensionale (M-Mode) Sistema Bidimensionale
ECOCARDIOGRAFIA MONODIMENSIONALE Il sistema monodimensionale permette di visualizzare le modificazioni dell’impulso ultrasonoro nel tempo (asse orizzontale) e la profondità della struttura che riflette gli ultrasuoni (asse verticale). Ad ogni interfaccia strutturale, gli ultrasuoni vengono riflessi e visualizzati alla distanza corretta sotto forma di punti la cui intensità varia al variare della composizione del tessuto esaminato. Poiché queste strutture sono in movimento, il trasduttore ricostruisce il movimento della struttura nel tempo. Il sistema M-Mode è dotato di un elevato potere di risoluzione temporale, e risulta molto utile per studiare il movimento delle valvole e per ottenere misure di cavità e spessori. In corrispondenza della valvola mitrale, la struttura cardiaca più vicina al trasduttore è la parete libera del ventricolo destro; seguono poi la cavità ventricolare destra (VD), il setto interventricolare (SIV), la cavità ventricolare sinistra e la parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 6). In questa proiezione è possibile valutare le dimensioni del ventricolo sinistro ed anche lo spessore del setto (ECO 34) e della parete posteriore Orientando il fascio ultrasonoro verso la valvola mitrale si valuta l’escursione dei lembi valvolari, l’anteriore in corrispondenza del setto interventricolare, e il posteriore in corrispondenza della parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 7) . Il movimento del lembo anteriore mitralico presenta una morfologia a M con un massimo nel punto E (l’apertura protodiastolica della valvola). La distanza dal punto E al setto interventricolare non deve superare, nel soggetto normale, i 3 mm. La mobilità della valvola è rispecchiata dalla rapidità del movimento di chiusura nella protomesodiastole fino al punto F (pendenza EF). In fase telediastolica i lembi si riaprono, in corrispondenza della contrazione atriale (punto A). La valvola, quindi, si chiude e i lembi coaptano (punto C). Il movimento del lembo posteriore mitralico ha una forma a W, speculare rispetto al lembo anteriore. Lo studio della valvola mitrale è stata una delle prime applicazioni diagnostiche dell’ecocardiografia. Tra le principali anomalie ecocardiografiche descritte sono l’aumento dello spessore, della densità e del numero di echi riflessi in conseguenza dell’ispessimento fibroso e/o calcifico dell’apparato valvolare; e inoltre la scomparsa del caratteristico movimento di apertura a M e W dei lembi, sostituito da un plateau più o meno rettilineo e parallelo ai due lembi (ECO 01). Orientando il fascio ultrasonoro in senso supero-mediale si visualizza l’atrio sinistro, la valvola aortica, con la cuspide coronarica destra e la non coronarica, la radice dell’aorta ed il tratto prossimale dell’aorta ascendente (Figura 8). Le dimensioni dell’atrio sinistro si misurano in telesistole, quelle della radice aortica in telediastole. Il movimento sistolico di apertura delle cuspidi aortiche si visualizza come un parallelogramma i cui lati superiore e inferiore corrispondono rispettivamente al movimento della cuspide coronarica destra e di quella non coronarica. In caso di stenosi aortica, si nota un ispessimento dei lembi con aumento dell’intensità e del numero degli echi e una riduzione dell’apertura sistolica delle cuspidi (ECO 15). La Tabella I riporta i valori normali dei parametri ecocardiografici M-mode in soggetti adulti. ECOCARDIOGRAFIA BIDIMENSIONALE
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Il sistema bidimensionale permette di visualizzare l’immagine corrispondente ad una sezione delle cavità cardiache sfruttando la capacità dei trasduttori di ricevere e trasmettere più linee di scansione in modo indipendente. Gran parte delle sonde attualmente in uso è costituita da una serie di cristalli (da 32 a 128), ciascuno dei quali è in grado di ricevere e di trasmettere, allineati in una singola fila, sono attivati secondo una precisa sequenza temporale in modo da provocare la fusione delle onde generate dai singoli elementi e ottenere un unico fascio la cui direzione dipende dalla sequenza di attivazione dei singoli cristalli. L’immagine ottenuta viene convertita in formato digitale: ad ogni punto, in base alla sua intensità, viene assegnato un valore numerico che corrisponde a livelli di grigio per altrettanti elementi di visualizzazione (pixel) allineati lungo assi cartesiani x ed y. L’esame ecocardiografico si realizza con 4 posizioni standard del trasduttore: parasternale, apicale, subxifoidea e soprasternale. Le prime due si realizzano con il paziente in decubito laterale sinistro, le altre con il paziente supino. SEZIONE ASSE LUNGO In genere l’esame inizia dalla proiezione parasternale asse lungo: si posiziona il trasduttore a livello del terzoquarto spazio intercostale sulla linea margino-sternale di sinistra con la scanalatura di repere rivolta verso la spalla destra del paziente in modo tale che il piano di scansione sia parallelo ad una linea di congiunzione tra la spalla destra con il fianco sinistro. L’immagine è orientata in modo tale che l’aorta sia disposta a destra e l’apice cardiaco a sinistra, ed è ottimale quando si visualizza contemporaneamente l’apertura della valvola mitrale e della valvola aortica (Figura 9,Figura 10, Figura 11, Figura 12). Questa proiezione consente uno studio accurato dell’anatomia e del movimento delle valvole del cuore sinistro, di cui è facile rilevare l’ispessimento e la calcificazione in caso di stenosi mitralica o aortica (ECO 13). Mantenendo il trasduttore nello stesso spazio ed imprimendogli una inclinazione inferomediale e una leggera rotazione in senso orario si ottiene una sezione asse lungo del ventricolo e dell’atrio destro (Figura 13, Figura 14) SEZIONE ASSE CORTO Ruotando la testa del trasduttore in senso orario per 90 gradi, in modo tale che il piano di scansione sia ortogonale a quello dell’asse lungo parasternale, si ottiene la proiezione parasternale asse corto a livello dei grossi vasi. In questa posizione la scanalatura di repere è orientata verso la fossa sopraclaveare destra e il piano di scansione è parallelo ad una linea che congiunge la spalla sinistra con il fianco destro del paziente (Figura 15, Figura 16) Da questa posizione si visualizza la valvola aortica al centro con le sue tre cuspidi, l’atrio sinistro e quello destro separati dal setto interatriale, la valvola tricuspide, il tratto di efflusso del ventricolo destro, la valvola polmonare, il tronco dell’arteria polmonare con i suoi due rami, destro e sinistro (Figura 17, Figura 18). Questa proiezione è utile per studiare la valvola aortica, in particolare per determinare se questa ha, come di norma, 3 cuspidi, oppure è bicuspide (ECO 20) o quadricuspide (ECO 21). Alzando la coda del trasduttore, è possibile visualizzare la sezione asse corto a livello della valvola mitrale. Sono ben evidenti i lembi valvolari con il classico aspetto “a bocca di pesce” in diastole e le rispettive commissure. Da questa posizione è possibile calcolare l’area planimetrica della mitrale in caso di stenosi (Figura 19, Figura 20, Figura 21,Figura 22, ECO 05). Un ulteriore movimento verso l’alto della coda della sonda, e si visualizzano i due muscoli papillari del ventricolo sinistro (Figura 20, Figura 22), e quindi l’apice del ventricolo. SEZIONE APICALE Il trasduttore viene posto in corrispondenza dell’itto della punta, con la scanalatura di repere orientata verso il fianco sinistro del paziente. Il fascio ultrasonoro è diretto superiormente e medialmente verso la scapola destra del paziente. Da questa posizione si visualizzano le quattro camere cardiache (proiezione apicale quattro camere). Alla destra dello schermo si visualizzano le sezioni sinistre, e alla sinistra quelle destre. Il ventricolo destro, di forma triangolare, si riconosce per l’impianto più alto della tricuspide, per la presenza della banda moderatrice all’apice e per il muscolo papillare. Gli atri, separati dal setto interatriale, sono visualizzati in basso; i ventricoli, separati dal setto interventricolare, in alto (Figura 23, Figura 24, Figura 25). Da questa posizione riusciamo a visualizzare il SIV posteriore. Inclinando la coda del trasduttore verso il basso visualizziamo la valvola aortica, il tratto di efflusso del ventricolo sinistro e il setto interventricolare anteriore (proiezione apicale cinque camere (Figura 26). Ruotando la testa del trasduttore di 90 gradi circa si ottiene la sezione due camere apicale da cui è possibile studiare la parete inferiore e quella anteriore del ventricolo sinistro e a volte visualizzare l’auricola sinistra (Figura 27, Figura 28, Figura 29). Con un’ulteriore minima rotazione del trasduttore si ottiene la sezione tre camere apicale in cui si visualizza la parete postero-laterale del ventricolo sinistro, il setto interventricolare anteriore, la valvola aortica (Figura30). L’ecocardiografia bidimensionale dalle sezioni apicali permette di valutare la funzione sistolica globale del ventricolo sinistro attraverso la misurazione della Frazione di Eiezione (FE) espressa dalla formula: FE(%) = Volume telediastolico –Volume Telesistolico/Volume telediastolico x 100 Sono diverse le metodiche correntemente utilizzate per la stima della FE; il più utilizzato è il metodo di Simpson in base al quale, dopo che l’operatore ha accuratamente delineato il bordo endocardico del ventricolo sinistro , la macchina suddivide automaticamente il ventricolo stesso in un numero noto di cilindri di uguale altezza. Il volume di ogni cilindro è calcolato automaticamente e poi sommato a quello degli altri per ottenere il volume totale che
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corrisponde al volume totale del ventricolo. Tale stima viene effettuata in sistole ed in diastole in sezione apicale 4 e 2 camere, permettendo di ottenere il valore della FE (Figura31). Dalle sezioni apicali è possibile, inoltre, valutare la cinetica segmentaria del ventricolo sinistro e, in caso di cardiopatia ischemica, ricercare e documentare alterazioni morfofunzionali causate dall’ischemia, definire la sede e l’estensione del danno ischemico, valutare la funzione cardiaca regionale e globale. L’analisi segmentaria della cinetica ha lo scopo di quantificare l’estensione del danno ischemico e di identificare la coronaria interessata in base al territorio in cui si verifica l’anomalo movimento della parete. Esempi di alterazioni della cinetica ventricolare dovuti a un infarto miocardico vengono presentati nelle immagini ECO 26, ECO 27, ECO 28, ECO 29. L’American Society of Echocardiography ha proposto un modello a sedici segmenti, nel quale il ventricolo sinistro è diviso in 3 regioni in senso longitudinale (basale: dall’anello mitralico all’estremità dei papillari; media: dall’estremità alla base dei papillari; apicale: distalmente all’inserzione dei muscoli papillari). Le regioni basali e medie sono ulteriormente suddivise in 6 segmenti: anteriore, laterale, posteriore, inferiore, setto inferiore e setto anteriore. L’apice è diviso in 4 segmenti (anteriore, laterale, inferiore e settale). Per una valutazione semiquantitativa l’analisi della cinetica segmentaria può essere integrata attribuendo un punteggio da 1 a 4: 1 = normale o ipercinesia, 2 = ipocinesia, 3 = acinesia, 4 = discinesia. Sommando i singoli punteggi e dividendo per il numero di segmenti analizzati, si ottiene un indice di cinesi globale definito “Wall Motion Score Index” (WMSI) o un punteggio indicizzato della cinetica parietale che combina la stima della gravità del danno con quella della sua estensione spaziale (Figura32,Figura33). SEZIONE SOTTOCOSTALE O SUBXIFOIDEA E’ particolarmente utile nei pazienti con elevata impedenza acustica del torace, come obesi e broncopneumopatici. Si ottiene con il paziente in decubito supino posizionando il trasduttore immediatamente al di sotto della linea sottocostale con la scanalatura di repere orientata verso il fianco sinistro del paziente e la testa del trasduttore inclinata lievemente in basso (Figura34). A volte, per ottenere un’immagine ottimale del cuore, è necessario invitare il paziente a fare un respiro profondo e a trattenere l’aria. Da questa posizione si ottiene un’immagine simile a quella apicale, con le sezioni destre al di sotto del fegato, gli atri in basso e i ventricoli in alto ma, poiché il fascio ultrasonoro è maggiormente perpendicolare al setto interventricolare ed interatriale, tale approccio è particolarmente utile per lo studio di queste strutture (Figura35). Ruotando il trasduttore in senso orario e inclinandolo verso l’alto si visualizza l’aorta e i rapporti di essa con la mitrale ed il ventricolo sinistro. Un’ulteriore rotazione in senso orario ed inclinazione verso l’alto, e si ottiene una sezione in asse corto simile a quella ottenibile in parasternale asse corto; angolando opportunamente la sonda si visualizzano il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’arteria polmonare, la vena cava inferiore e le vene sovraepatiche. Da questo approccio può essere, inoltre, studiata l’aorta addominale. SEZIONE SOPRASTERNALE Si ottiene ponendo il trasduttore nella fossetta soprasternale con la scanalatura di repere rivolta verso la testa del paziente o verso la regione sovraclaveare destra (Figura36). Si possono studiare : l’aorta ascendente, l’arco, l’origine dei tronchi brachiocefalici, l’aorta toracica discendente (Figura37) ed il ramo destro dell’arteria polmonare visualizzato in asse corto al di sotto dell’ arco; ancora più in basso c’è l’atrio sinistro. Ruotando il trasduttore in senso orario si visualizza l’aorta in asse corto, il ramo destro della polmonare immediatamente sotto, nel suo asse lungo, e ancora più in basso l’atrio sinistro con le vene polmonari (Figura38,Figura39). Con una ulteriore rotazione in senso orario può essere visualizzata la vene cava superiore a destra dell’ aorta. In sintesi, l’Ecocardiografia bidimensionale consente un approccio approfondito all’anatomia e alla funzione del cuore, permettendo non solo di valutare lo spessore delle pareti cardiache e la loro cinetica, le dimensioni delle cavità, la struttura e il movimento delle valvole, ma anche di riconoscere masse intracardiache (trombi, vegetazioni, tumori), che non di rado sarebbero decorse sconosciute senza l’indagine ultrasonica (ECO 39, ECO 41, ECO 42, ECO 43, ECO 45), come pure di rilevare un versamento pericardico (ECO 46, ECO 47). Nel campo delle Cardiopatie congenite, infine, l’Ecocardiografia bidimensionale, insieme all’Ecocardiografia Doppler, ha segnato un tale progresso nella diagnostica da mettere spesso in secondo piano il Cateterismo cardiaco e l’Angiocardiografia, che avevano rappresentato per decenni il “gold standard” nello studio di queste malattie. ECOCARDIOGRAFIA DOPPLER Le misurazioni Doppler della velocità dei flussi ematici nel cuore e nei grossi vasi si basano sull’effetto Doppler, descritto dal fisico austriaco Christian Doppler nel 1942. Il principio Doppler afferma che quando un segnale sonoro (o luminoso) colpisce un oggetto in movimento, la frequenza del segnale si modifica in modo proporzionale alla velocità e alla direzione dell’oggetto in movimento. Quindi, quando un fascio ultrasonoro a frequenza nota viene inviato verso il cuore o i grossi vasi, è riflesso dai globuli rossi. La frequenza degli ultrasuoni riflessi aumenta all’avvicinarsi dei globuli rossi alla sorgente sonora e viceversa si riduce quando le emazie si allontanano. Il cambiamento di frequenza tra suono emesso e suono riflesso dipende dalla frequenza degli ultrasuoni emessi, dalla velocità del bersaglio e dall’angolo tra direzione del fascio e direzione del movimento delle emazie. Se il fascio ultrasonoro è parallelo alla direzione del flusso ematico si ottiene la massima velocità; se il fascio ultrasonoro è perpendicolare alla direzione del flusso, non si misura alcuna velocità. La visualizzazione dello spettro Doppler è ottenuta attraverso un analizzatore di velocità (Fast Fourier Trasform) con rappresentazione
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delle velocità dei flussi ematici sull’asse delle Y e del tempo sull’asse delle X. Tutti i flussi in avvicinamento al trasduttore vengono visualizzati in alto, quelli in allontanamento in basso (Figura40). Lo studio dei flussi può essere effettuato mediante tre sistemi: -Doppler ad onda pulsata -Doppler ad onda continua -Color Doppler DOPPLER AD ONDA PULSATA Lo stesso cristallo piezoelettrico invia e riceve impulsi (Figura41). L’invio di un nuovo impulso è possibile solo dopo l’analisi di quello precedentemente inviato. La frequenza di emissione degli ultrasuoni è definita PRF (pulse repetition frequency). La massima variazione di frequenza (e dunque la massima velocità) determinabile con il Doppler ad onda pulsata è la metà del PRF ed è chiamata limite di Nyquist. L’esaminatore ha la possibilità di definire il punto esatto dell’analisi Doppler. Tale punto viene chiamato volume campione. La PRF varia inversamente al volume campione: più il volume campione è vicino al trasduttore, più elevate saranno la PRF ed il limite di Nyquist; in altri termini sarà possibile registrare velocità più alte. Quando la velocità dell’onda riflessa è maggiore di quella inviata (quando, cioè, si supera il limite di Nyquist) si ottiene un fenomeno noto come aliasing: lo spettro Doppler si interrompe, e una parte di esso compare sul lato opposto della linea di base, cosicché sembra che il flusso sia contemporaneamente in avvicinamento ed in allontanamento (Figura42). L’impossibilità di analizzare alte velocità rappresenta dunque il principale limite del Doppler pulsato. IL DOPPLER PIULSATO NELLO STUDIO DELLA FUNZIONE DIASTOLICA VENTRICOLARE SINISTRA La valutazione dei diversi quadri velocimetrici del flusso transmitralico con il Doppler pulsato ha permesso di comprendere che in diverse forme di cardiopatia si realizza, accanto alla disfunzione sistolica o anche in assenza di questa, una disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Il pattern flussimetrico normale (Figura43) è caratterizzato da un’onda E, espressione del riempimento rapido protodiastolico, e da un’onda A che corrisponde al flusso transmitralico telediastolico legato alla sistole atriale. La velocità del flusso protodiastolico è maggiore di quella telediastolica, per cui il rapporto E/A è maggiore di 1. Negli stadi precoci di disfunzione, l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro causa, in condizioni di riposo, una riduzione del riempimento diastolico precoce a parità di pressioni di riempimento. Questo effetto si traduce in un iniziale riduzione della velocità dell’onda E, in un prolungamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed in un incremento della percentuale di riempimento ventricolare dovuto alla contrazione atriale; il rapporto E/A diviene, perciò, minore di 1 (Figura44). Con il progredire della disfunzione diastolica, la pressione atriale sinistra aumenta, aumentando a sua volta il gradiente pressorio attraverso la valvola mitrale. A questa mutata situazione emodinamica si accompagna un graduale incremento della velocità dell’onda E ed una ridotta durata dell’effettivo rilasciamento ventricolare attivo: ne conseguono un accorciamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed un aumento del rapporto E/A. Negli stadi più avanzati della disfunzione, gli ulteriori incrementi delle pressioni di riempimento, determinano più alti rapporti E/A e ad ancor più ridotti tempi di decelerazione dell’onda E (Figura45). DOPPLER A ONDA CONTINUA Il trasduttore ha due cristalli: uno invia continuamente impulsi e l’altro li riceve sempre (Figura46). Non esiste quindi il limite di Nyquist, e può essere misurata qualsiasi velocità. L’analisi viene effettuata sull’intera linea del fascio ultrasonoro esplorante e non in un punto preciso come nel caso del Doppler pulsato COLOR DOPPLER Si basa sui principi del Doppler ad onda pulsata e misura le velocità in diversi punti per molteplici linee di scansione su tutto il settore dell’immagine, al fine di creare una rappresentazione dinamica e spazialmente corretta del sangue in movimento nel cuore e nei vasi. Usando speciali filtri, viene analizzata solo la velocità del flusso ematico, che poi viene trasformata, mediante il confronto con linee adiacenti, (autocorrelazione) in segnali colorati (Figura47). I flussi in avvicinamento al trasduttore vengono codificati in rosso, quelli in allontanamento in blu (Figura48, Figura49) e l’aliasing ha in genere un aspetto a mosaico di colore, caratterizzato dalla commistione di pixel con colore e tonalità diverse in rapporto alla velocità e alla turbolenza del flusso (ECO 02, ECO 08). L’Ecocardiogramma Color Doppler è estremamente utile nell’identificare i rigurgiti valvolari (ECO 06, ECO 08, ECO 18, ECO 24, ECO 35) o gli shunt intracardiaci (ECO 30, ECO 50), così come per evidenziare il flusso turbolento attraverso valvole stenotiche (ECO 02,ECO 14) IL CALCOLO DEI GRADIENTI Una delle applicazioni più importanti dell’ecografia Doppler è rappresentata dal calcolo dei gradienti pressori attraverso l’equazione di Bernoulli. Quest’ultima afferma che il gradiente di pressione attraverso una stenosi è dovuto alla perdita di energia causata da tre fenomeni: accelerazione del flusso che attraversa l’orifizio (accelerazione convettiva), intervento delle forze inerziali (accelerazione di flusso), e resistenza al flusso all’interfaccia tra sangue ed orifizio (attrito viscoso). Pertanto il gradiente pressorio a livello di qualunque orifizio può essere calcolato come somma di queste tre variabili (Figura50). Nella maggior parte dei casi è possibile trascurare l’accelerazione di flusso e l’attrito viscoso, per cui il gradiente pressorio può essere calcolato conoscendo la velocità del sangue prossimalmente all’orifizio attraverso la formula: gradiente = 4 x (velocità prossimale )2- (velocità di picco)2.
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Se la velocità del sangue prossimalmente alla stenosi è ridotta (<1m/s) anche questa componente può essere ignorata, per cui a formula diventa: gradiente: 4 x velocità di picco2. Tale metodo viene utilizzato per il calcolo dei gradienti in caso di stenosi mitralica, aortica (ECO 16, ECO 17) o polmonare. Può essere applicato, se c’è insufficienza tricuspidale, per il calcolo della pressione sistolica in arteria polmonare. La velocità del flusso di rigurgito tricuspidalico permette di calcolare il gradiente fra ventricolo e atrio destro (Figura51); se a questo si aggiunge la pressione telediastolica in ventricolo destro, che corrisponde alla pressione atriale destra, si ottiene la pressione arteriosa polmonare. La pressione in atrio destro viene stimata indirettamente in base alle dimensioni della vena cava e al suo grado di collassabilità con l’inspirazione. La formula per il calcolo della pressione in arteria polmonare è: PAPS: 4 x (velocità del rigurgito attraverso la tricuspide)2+ pressione in atrio destro Tale calcolo, tuttavia, non è possibile se è presente un ostacolo all’efflusso ventricolare destro, come in presenza di stenosi valvolare polmonare. ECOCARDIOGRAFIA TRANSESOFAGEA L’ecocardiografia transesofagea studia il cuore attraverso l’esofago. Il trasduttore è posto alla punta di una sonda flessibile che, introdotta attraverso l’orofaringe raggiunge la parte medio-distale dell’esofago dove entra in diretto contratto con le strutture cardiache, permettendone uno studio più completo ed accurato (Figura52, ECO 09, ECO 22, ECO 23, ECO 40, ECO 44, ECO 49). Non necessita di anestesia ma solo di una blanda sedazione. Questa tecnica è particolarmente utile in caso di:
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Studio delle valvole native e delle valvole protesiche Sospetta endocardite Cardiopatie congenite Difetti interatriali Ricerca di fonti emboligene di natura cardica
NUOVE TECNOLOGIE Negli ultimi anni l’ecocardiografia si è arricchita di tecniche in grado di effettuare una valutazione quantitativa della funzione miocardia e di studiare fenomeni che si sviluppano anche all’interno del miocardio. Una delle nuove tecniche è il Doppler Tissutale (Figura53), che studia le velocità intramiocardiche. Tuttavia, esso è influenzato dal movimento cardiaco globale, dalla rotazione cardiaca e dal trascinamento di segmenti adiacenti. Da qui lo sviluppo di metodiche (Figura54) in grado di studiare la deformazione miocardica regionale: lo Strain (quantità totale di deformazione,Figura55), lo Strain rate (la velocità con cui la deformazione avviene) e lo Strain 2D (che non è una metodica Doppler dipendente e dunque è angolo-indipendente) Altre metodiche sono il Backscatter Integrato (che analizza le variazioni della reflettività miocardica in decibel ) e l’ Ecocontrastografia Miocardica (Figura56), che studia la cinetica delle microbolle del contrasto ultrasonico a livello intramiocardico. La più recente metodica ecocardiografica introdotta in Clinica è l’ecocardiografia tridimensionale (Eco 3D) (Figura57,ECO 10, ECO 11) L’eco 3D supera gli attuali limiti dell’ecocardiografia bidimensionale, permettendo un’analisi accurata e riproducibile della morfologia e della funzione delle strutture cardiache. I pricipali campi applicativi dell’Eco 3D sono: patologie valvolari, cardiopatie congenite, endocardite infettiva, masse cardiache, cardiomiopatie.
Capitolo 6 METODICHE NUCLEARI Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello DEFINIZIONE Le metodiche nucleari impiegate nella diagnostica cardiologica si basano sulla somministrazione endovenosa di traccianti che emettono particelle radioattive (fotoni e positroni). Il tracciante raggiunge il cuore e penetra nelle cellule miocardiche; intanto una gamma camera misura la radioattività cardiaca e un computer provvede a costruire immagini che rispecchiano la concentrazione dell’isotopo nelle diverse aree miocardiche. E’ così possibile, utilizzando determinate tecniche, esplorare sia la perfusione che la funzione miocardica. Le metodiche
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attualmente in uso sono la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia ad emissione di positroni (PET). TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI FOTONE SINGOLO (SPECT) La miocardioscintigrafia è una tecnica che ha per obiettivo la valutazione semiquantitativa dalla perfusione miocardica attraverso l’analisi di immagini tomografiche che riportano la distribuzione di un tracciante di perfusione miocardica. In aggiunta, grazie all’impiego degli attuali traccianti tecneziati, è possibile anche la valutazione della funzione contrattile regionale e globale, basata sulla acquisizione di immagini sincronizzate (gated) sull’elettrocardiogramma, in maniera da consentire una ricostruzione affidabile del ciclo cardiaco. La SPECT è un esame di valutazione di perfusione e funzione sistolica regionale e globale del ventricolo sinistro, che consente una visualizzazione del ventricolo sinistro in movimento in varie proiezioni, in maniera da esplorare tutte le pareti miocardiche (Figura 1). I traccianti radionucleari di uso corrente Tallio. Il tallio è stato il primo tracciante ad essere impiegato nell’uomo per la valutazione della perfusione miocardica. Si tratta di un tracciante a bassa energia, che viene avidamente estratto dal miocardio in maniera proporzionale al flusso regionale. Iniettando il tallio all’acme di uno sforzo, esso viene captato dalla varie regioni miocardiche, e si accumula più nelle zone irrorate da coronarie normali che nei territori dipendenti da coronarie stenotiche. Successivamente, il tallio ritorna dalle cellule nel torrente ematico e può quindi penetrare nelle regioni in cui il flusso era ridotto all’acme dello sforzo. Questo processo, determinato dalla libera circolazione del tracciante in relazione al flusso, rappresenta il fondamento del fenomeno della redistribuzione che è peculiare di questo tracciante, e consente ai territori miocardici dipendenti da vasi stenotici che abbiano ricevuto una minore quantità di tracciante nella fase di inadeguato aumento del flusso in risposta allo stress di colmare questo deficit una volta terminata la fase di aumentata richiesta di flusso, o anche in condizioni di riposo quando, anche in presenza di lesioni coronariche severe (fino all’80%), il flusso coronarico è normale. Il fenomeno della redistribuzione si appalesa con la reversibilitàa distanza dallo sforzo (generalmente dopo 3-4 ore) di un iniziale difetto di perfusione presente durante l’esercizio, che consente di diagnosticare una stenosi coronarica significativa. La mancata scomparsa di un iniziale difetto di perfusione nelle immagini a distanza, invece, è espressione di tessuto miocardio necrotico, nel quale il flusso è praticamente assente in ogni momento. L’impiego del tallio prevede dunque un’unica somministrazione di tracciante per ogni esame scintigrafico. Traccianti marcati con 99Tecnezio. I due traccianti attualmente impiegati marcati con 99Tc,ovvero il sestamibi e la tetrafosmina hanno in Italia largamente sostituito il tallio. Rispetto a quest’ultimo possiedono una maggiore energia, che consente una migliore visualizzazione delle immagini con minore attenuazione, ed una minore esposizione radioattiva (circa la metà rispetto al tallio). Ma la differenza principale consiste nella cinetica di questi traccianti che, dopo essere stati iniettati in circolo, vengono captati ivamente dalle cellule miocardiche in proporzione lineare al flusso ed intrappolati in maniera pressoché irreversibile dai mitocondri. Rispetto al tallio, dunque, i traccianti tecneziati non circolano liberamente tra esterno ed interno della membrana cellulare e non subiscono il fenomeno della redistribuzione. Al contrario, essi rappresentano nelle immagini lo stato della perfusione miocardica al momento dellainiezione. La comparazione tra immagini a riposo e immagini al momento dello sforzo, quindi, potrà avvenire solo con due distinte somministrazioni di tracciante, preferibilmente effettuate in giorni diversi (Figura 2). Il valore clinico della miocardioscintigrafia Diagnosi di cardiopatia ischemica. Come per tutte le metodiche diagnostiche, l’accuratezza della miocardioscintigrafia è influenzata da una serie di variabili che la rendono differente da soggetto a soggetto e che solo in parte dipendono dalla tecnica. In generale, l’accuratezza predittiva è fortemente influenzata, secondo il teorema di Bayes, dalla prevalenza della malattia nella popolazione studiata, ovvero dalla probabilità pre-test di malattia nel soggetto da studiare. Il secondo rilevante fattore di influenza sulla accuratezza è legato alla possibilità di artefatti tecnici, ovvero di apparenti deficit di perfusione in alcune regioni miocardiche. Tali deficit apparenti possono essere dovuti a difetti da attenuazione dei fotoni lungo il aggio dal cuore alla gamma camera attraverso i tessuti del corpo. Questo giustifica la presenza di falsi positivi in alcuni territori come la parete inferiore nell’uomo, per effetto della interposizione del diaframma, e la parete anterolaterale nella donna per l’interposizione del tessuto mammario, così come la presenza di falsi positivi in soggetti obesi di entrambi i sessi. Stratificazione prognostica. La miocardioscintigrafia rappresenta attualmente la tecnica più largamente convalidata nella stratificazione prognostica di pazienti affetti da cardiopatia ischemica nota o sospetta, per la predittività a breve-medio termine (generalmente 1-2 anni) di eventi cardiaci quali morte e infarto del miocardio. La negatività del test è associata a una percentuale di eventi cardiaci maggiori estremamente bassa, sovrapponibile a quella della popolazione generale (<1% all’anno). TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI POSITRONI (PET) La PET consente una valutazione del flusso e del metabolismo regionale del glucosio e degli acidi grassi, nonché del consumo di ossigeno, e rappresenta una metodica estremamente sofisticata e di grande ausilio per la ricerca in vivo. A differenza della SPECT, è basata sulla emissione di particelle ad elevata energia, i positroni (511 kEv), e le immagini provenienti dai tessuti del corpo (immagini di emissione) vengono sempre corrette attraverso la acquisizione di una seconda scansione (immagini di trasmissione) ottenuta senza somministrazione di tracciante al paziente, per il grado di attenuazione che le particelle radioattive subiscono nell’attraversamento delle strutture
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corporee. Per la complessità di gestione e gli elevati costi la PET ha tuttora un uso clinico limitato pressoché esclusivamente nei pazienti con cardiopatia ischemica e dilatazione ventricolare per la ricerca di aree di tessuto miocardio disfunzionante ma vitale. In tali pazienti, la presenza di attività metabolica residua in un territorio disfunzionante, valutata comparando la captazione di un analogo del glucosio (18F-fluorodesossiglucosio) in proporzione al flusso (valutato con Rubidio82 o NH3), è predittiva di recupero funzionale dopo rivascolarizzazione (Figura 3). Limiti delle metodiche nucleari Il principale, e spesso trascurato, limite di queste tecniche è rappresentato dalla necessità di esposizione a particelle ionizzanti per il paziente. Sebbene l’impiego di traccianti tecneziati abbia fortemente ridotto la dosimetria rispetto al tallio, è bene ricordare che una SPECT con traccianti marcati con tecnezio99 corrisponde, in termini di radiazioni assorbite, ad alcune centinaia (da 300 a 500) di radiografie standard del torace. Questo aspetto, ed il rischio stocastico tra esposizione radioattiva e insorgenza di neoplasie devono dunque sempre essere considerati nella scelta diagnostica di indagini radionucleari.
Capitolo 7 RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani INTRODUZIONE (VANTAGGI, POTENZIALITÀ, CONTROINDICAZIONI) La Risonanza Magnetica Cardiaca (RMC) rappresenta una metodica di imaging avanzato che per le sue peculiari caratteristiche sta trovando sempre più spazio nella pratica clinica quotidiana, a completamento di altre indagini ormai codificate ed applicate. Pur nascendo come indagine di secondo livello le sue più recenti applicazioni, in particolare nello studio della cardiopatia ischemica cronica e nelle cardiomiopatie, ne stanno facendo emergere l’utilità di impiego anche in prima battuta, trattandosi di una metodica di integrazione tra informazioni funzionali e di caratterizzazione tissutale. I vantaggi dell’impiego della RMC risiedono essenzialmente nella sua non invasività. Il basso impatto biologico di questa metodica risiede nel fatto che il principio fisico su cui si basa non coinvolge gli elettroni, notoriamente coinvolti nei processi radianti e responsabili delle alterazioni del DNA. In RMC infatti l’interazione richiesta per la formazione delle immagini risiede a livello del nucleo atomico, in particolare nei nuclei di idrogeno. Un secondo vantaggio della RMC risulta dalla presenza di un elevato contrasto naturale tra il circolo sanguigno e le strutture cardiovascolari, con conseguente ottima definizione dell’endocardio. Da non dimenticare infine la multiplanarità di questa metodica, ovvero la possibilità di rappresentare le strutture anatomiche secondo qualsiasi piano, non solo in quello assiale come per la TAC. Come conseguenza di quanto esposto, la RMC offre un’ottima risoluzione spaziale dei piani esplorati, il che rappresenta il presupposto perché la RMC si proponga come goldstandard per una corretta definizione dei volumi, massa e funzione miocardica senza necessità di assunzioni geometriche. Ancor più affascinanti e di interesse nella pratica clinica risultano le potenzialità della RMC dopo somministrazione di mezzo di contrasto: infatti l’analisi della cinetica di distribuzione del gadolinio nel miocardio consente di ottenere una caratterizzazione tissutale che eleva questa metodica di imaging ad una sorta di anatomia patologica in vivo.Accanto a tali aspetti vanno annoverati quelli che, invece, controindicano l’esame ed essenzialmente risiedono nelle caratteristiche del paziente: severa claustrofobia (in Letteratura viene riportata un’incidenza pari al 2%), portatori di pacemaker, defibrillatori, clip per aneurismi (in particolare cerebrali). Relativa risulta la controindicazione che riguarda le alterazioni del ritmo cardiaco (per esempio, fibrillazione atriale o bradicardia severa) che rendono difficile l’esecuzione tecnica dell’esame e di scarsa qualità le immagini ottenute. Non esistono al momento attuale delle linee guida precise sull’applicazione della RMC: la Tabella I riporta le indicazioni più validate. Un protocollo di studio standard con risonanza magnetica cardiaca con mezzo di contrasto prevede generalmente i seguenti step:
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immagini preliminari per localizzare la posizione del cuore e dei grandi vasi all’interno del torace; immagini in movimento per la valutazione della funzione cardiaca, secondo gli assi ortogonali del cuore
(Figura 1, Figura 2);
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immagini per la caratterizzazione tissutale prima della somministrazione di mezzo di contrasto (edema
miocardico nell’area a rischio di un infarto miocardico (Figura 3); valutazione dell’infiltrazione adiposa nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (Figura 4)
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immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto : in questo caso dopo circa 10 minuti dall’infusione
endovenosa del mezzo di contrasto le zone fibrotiche o necrotiche appaiono iperintense (>500% rispetto al segnale basale), (zona bianca, late enhancement), consentendo una netta distinzione rispetto al miocardio normale (nero) (Figura 5) MEZZO DI CONTRASTO: IL GADOLINO I mezzi di contrasto utilizzati in risonanza magnetica vengono definiti indiretti in quanto agiscono alterando lo stato di magnetizzazione dei protoni circostanti. Generalmente si utilizza il gadolinio che, in quanto altamente tossico viene chelato con una molecola molto tenace, costituendo un prodotto a bassa tossicità. Il gadolinio è un mezzo di contrasto paramagnetico inerte che si localizza preferenzialmente a livello della matrice extracellulare e non nelle cellule intatte con membrana cellulare integra. Infatti i miociti normocontrattili risultano disposti in modo da ridurre al minimo la densità con scarsa sostanza intercellulare fibrotica: pertanto il miocardio normale , così come quello danneggiato da insulti ischemici, ma ancora vitale non mostra depositi di gadolinio ed appare nero. RUOLO DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA Nell’ambito dell’infarto miocardico il gadolinio si deposita nel miocardio secondo due meccanismi: in entrambi i casi il risultato è un’area di hyperenhancement tardivo, cioè visibile come tale dopo 10-15 minuti dall’iniezione del mezzo paramagnetico (Figura 6) In fase acuta la perdita dell’integrità di membrana dovuta alla miocitolisi associata all’edema della reazione infiammatoria acuta permette al gadolinio di diffondere ivamente attraverso le membrane cellulari danneggiate, invadendo quello che prima era spazio intracellulare ed aumentando così la sua concentrazione tissutale. Nella fase post-acuta si assiste alla formazione della cicatrice post-infartuale povera di miociti, ricca di fibre collagene e matrice extracellulare: il gadolinio quindi si accumula a questo livello trovando nell’aumento del terzo spazio il suo naturale tropismo. Per quanto concerne la tossicità dei mezzi di contrasto utilizzati in risonanza, essa è legata per la maggior parte a fenomeni allergici; essendo ad eliminazione prevalentemente renale, cautela va adoperata nei pazienti con clearance < 30 ml/min. Infarto in fase acutaNella fase acuta di un infarto miocardico la RMC permette di identificare l’estensione dell’area a rischio grazie alla valutazione dell’edema miocardico (Figura 3). La maggiore applicazione tuttavia risiede nell’analisi delle immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto: infatti grazie all’impiego del gadolinio è possibile una netta demarcazione spaziale tra area di necrosi e miocardio vitale. La RMC permette di identificare i diversi gradi di transmuralità della necrosi permettendo di distinguere infarti transmurali (late enhancement >75% dello spessore ventricolare) (Figura 5) da quelli subendocardici (late enhancement <75% dello spessore ventricolare) (Figura 7). Il segnale iperintenso del mezzo di contrasto permane evidente a distanza di mesi dall’evento acuto, anche nel caso di piccoli infarti subendocardici. La RMC con mezzo di contrasto (late enhancement) si è dimostrata molto sensibile soprattutto nell’identificare piccoli infarti sub-endocardici, quando la perfusione valutata con la SPECT risulta invece normale (Figura 8). La RMC permette di identificare con ottima risoluzione spaziale non solo la sede e l’estensione dell’infarto, mediante l’analisi dell’ hyperenhancement, ma anche di individuare alterazioni del microcircolo nella zona sede di necrosi. In RMC le alterazioni microcircolatorie nell’area di necrosi sono definite come una zona di hypoenhancement all’interno delle aree di necrosi già definite come late hyperenhancement. Le alterazioni del segnale da disfunzione microcircolatoria sono già visibili al primo aggio del gadolinio nel miocardio alterato (“first- ”, Figura 9). In alcuni casi inoltre, dopo 10-15 minuti, le alterazioni del microcircolo osservate in fase precoce persistono in fase tardiva: queste appaiono come zone scure (hypoenhnacement tardivo, “dark zones”) nel contesto di aree di necrosi transmurale (Figura 9). Quest’ ultimo reperto corrisponderebbe, secondo diversi studi sperimentali, ad un’area di severa ostruzione microcircolatoria ed in alcuni casi anche ad emorragia. In alcuni studi questi reperti di RMC avrebbero un impatto negativo sulla prognosi. Infarto in fase subacuta o cronicaLa valutazione dell’estensione del danno miocardico è strettamente correlata con la diagnosi di vitalità, intesa come presenza di tessuto miocardico con disfunzione contrattile, in grado di recuperare spontaneamente o dopo rivascolarizzazione. Il miocardio disfunzionante ma vitale è distinto in “miocardioibernato ” (stato di persistente deficit funzionale da ridotto flusso coronarico, che può essere in parte o del tutto risolto migliorando il flusso coronarico) e “miocardio stordito ” (prolungata disfunzione post-ischemica di tessuto vitale dopo riperfusione, a risoluzione spontanea). La presenza di tessuto miocardico vitale in un soggetto con disfunzione ventricolare regionale e globale è di grande importanza clinica, in quanto permette di identificare i pazienti che maggiormente beneficeranno di un trattamento di rivascolarizzazione. Studi con RMC hanno dimostrato come l’estensione dell’ hyperenhancement sia in grado di predire, in pazienti con infarto acuto, il
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recupero della funzione contrattile ventricolare regionale dopo rivascolarizzazione percutanea o chirurgica, identificando come limite per un recupero soddisfacente della funzione ventricolare un valore di transmuralità compreso tra il 25% e il 50%. LA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA NELLE CARDIOMIOPATIE Cardiomiopatia dilatativa (distinzione dalla Cardiopatia ischemica)Nell’ambito della cardiomiopatia dilatativa la risonanza magnetica, accanto alle informazioni funzionali, analoghe a quelle dell’ecocardiografia, apporta come valore aggiunto la caratterizzazione tissutale, resa possibile dall’impiego dei mezzi di contrasto. In particolare permette di distinguere le forme primitive, in cui il late enhancement è assente o comunque con distribuzione di tipo non ischemico (intramurale Figura 10) da quelle post-ischemiche (aree di necrosi subendocardiche o transmurali). Inoltre alcuni pazienti con dilatazione ventricolare non di origine ischemica è possibile rilevare late enhancement di tipo diffuso (patchy) o epicardico, indicativo di probabile pregressa miocardite Cardiomiopatia ipertrofica Nella cardiomiopatia ipertrofica la RMC permette una precisa definizione della sede e del grado di ipertrofia, anche in forme con localizzazione difficilmente espolarabile all’ecocardiogramma transtoracico (ad esempio all’apice del ventricolo sinistro). Interessante anche da un punto di vista prognostico risulta l’analisi del late enhancement, localizzato preferenzialmente a livello del setto nelle zone di maggior ipertrofia, la cui entità sembra correlare con il rischio aritmico nel follow-up (Figura 11). Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro Poiché questa patologia si caratterizza per delle alterazioni soprattutto a livello del ventricolo destro, camera difficilmente esplorabile all’ecocardiogramma transtoracico, la RMC si propone come gold standard per la valutazione delle sezioni destre del cuore. In particolare, secondo quanto indicato nei Criteri Diagnostici di McKenna, è possibile un’analisi della dilatazione e della disfunzione del ventricolo destro, valutando le anomalie della cinetica regionale (Figura 12). Si può, inoltre, eseguire uno studio per la presenza di infiltrazione adiposa: il tessuto adiposo mostra un’alta intesità di segnale, che contrasta con il tessuto miocardico ipointenso (Figura 4). Infine negli ultimi anni nel valutare i pazienti con sospetta cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro si è valorizzato il ruolo del gadolinio che si è dimostrato in grado di evidenziare segni di late enhancement spesso presente in questa patologia, sia a livello del ventricolo destro che sinistro (Figura 13). ALTRE APPLICAZIONE DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA MiocarditiLa RMC trova una importante applicazione nelle miocarditi soprattutto nella diagnosi iniziale. La RMC, grazie alla elevata risoluzione spaziale ed all’impiego del gadolinio rende possibile identificare specifici pattern di late enhancement a distribuzione ora epicardica (soprattutto nei casi di miopericardite), ora focale a spot diffusi (Figura 14).Masse miocardicheLe potenzialità della RMC nello studio delle masse miocardiche trova la sua naturale applicazione nella valutazione della loro morfologia, dimensioni, localizzazione, estensione e rapporti topografici con le strutture viciniori (Figura 15). Accanto a ciò va aggiunta la capacità di caratterizzazione tissutale, utile nel caso di formazioni lipomatose. Ulteriori informazioni si possono ottenere dalla somministrazione del mezzo di contrasto che si raccoglierà maggiormente e più velocemente nelle formazioni a più elevata vascolarizzazione.
Capitolo 9 TEST CARDIOPOLMONARE Marco Guazzi DEFINIZIONE Il test da sforzo cardiopolmonare permette di misurare in modo preciso la capacità di un soggetto a compiere esercizio fisico. La metodica trova ampia applicazione in campo fisiologico, medico e sportivo, oltre che nella valutazione di molteplici stati morbosi che interessano apparato cardiocircolatorio e polmonare. Per il cardiologo, l’indicazione principale del test è lo studio e la cura dell’insufficienza cardiaca. Il test cardiopolmonare è volto a determinare la risposta antomo-funzionale di polmone, cuore e muscolo da cui dipendono rispettivamente lo scambio, il trasporto e l’utilizzazione dell’ossigeno (O2). Proprio la misura del consumo di O2, la produzione di anidride carbonica (VCO2), la risposta ventilatoria e i suoi determinanti, costituiscono le variabilicentrali su cui il test si articola e da cui si elabora una serie di variabili derivate. A completamento della prova è utile registrare una serie di variabili aggiuntive ed, in particolare, effettuare il monitoraggio continuativo dell’elettrocardiogramma e dei parametri emodinamici ed emogasanalitici (Tabella I). L’interpretazione del test avviene mediante analisi integrata delle variabili , seguendo l’andamento dei principali parametri, riportati in 9 grafici principali (Figura 1). L’interpretazione sistematica dei dati permette di determinare il grado di limitazione funzionale e, soprattutto, di identificare l’organo o i sistemi coinvolti nella ridotta capacità funzionale.
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METODOLOGIA Indipendentemente dal tipo di esercizio e dal protocollo utilizzato, il soggetto in esame deve essere collegato mediante maschera facciale o boccaglio e stringinaso ad un tubo valvolato, dotato di valvola “non-rebreathing”, tale, cioè, da permettere che l’aria espirata non si disperda nell’ambiente ma venga diretta all’apparecchio analizzatore. L’acquisizione e l’analisi dei dati si basa sul sistema “breath-by-breath” o atto per atto respiratorio. La pressione tele-espiratoria dei gas espirati (PETO2 e PETCO2) e il volume corrente respiratorio vengono registrati in continuo, e agli analizzatori di O2 e CO2 perviene una quota variabile di aria espirata ad una frequenza costante tra i 200 e i 500 ml/min. Ulteriori aspetti metodologici riguardano il tipo di esercizio, l’incremento del carico lavorativo e la familiarizzazione con la metodica. I due tipi di esercizio comunemente impiegati (tappeto rotante e cicloergometro) coinvolgono un numero differente di unità muscolari: la diversa spesa energetica che ne consegue (circa il 10% in più per il tappeto all’apice dello sforzo) giustifica, insieme alla mancanza di una precisa standardizzazione dei protocolli, la discordanza tra test eseguiti in laboratori differenti. L’esercizio più fisiologico si ottiene incrementando gradualmente il carico di lavoro (rampa) così che lo sforzo massimale abbia una durata complessiva tra i 10 e i 12 minuti. Si rende, pertanto, necessario personalizzare preliminarmente il carico lavorativo in base a una valutazione indiretta che tenga conto della condizione fisica e dell’abilità a compiere sforzo. APPLICAZIONE NEL PAZIENTE CON INSUFFICIENZA CARDIACA L’intolleranza all’esercizio costituisce una caratteristica peculiare del malato con insufficienza cardiaca, che spesso presenta sintomi quali dispnea e fatica muscolare. Pur essendo ovvio che il grado di compromissione funzionale e sintomatologico tende a crescere con il progredire dello scompenso, la limitazione funzionale e l’insorgenza di sintomi si manifestano fin dagli stadi iniziali, e costituiscono il camlo di allarme in quei casi in cui, pur in assenza di sintomatolgia rilevante, è già presente disfunzione ventricolare sinistra e attivazione neuroormonale. In questo contesto, il test da sforzo cardiopolmonare offre un ampio bagaglio di informazioni per la stadiazione e il follow-up clinico-prognostico del malato con insufficienza cardiaca. Il malato cardiaco non sempre e non solo riconosce nel ridotto incremento della gittata cardiaca, per difetto cronotropo o contrattile, la causa di limitazione funzionale: è sempre più evidente che alterazioni specifiche del controllo ventilatorio, modificazioni funzionali e strutturali del muscolo scheletrico, oltre che la presenza di anemia, cui consegue alterato trasporto e rilascio di O2 ai muscoli, giochino un ruolo di prim’ordine. Il massimo consumo di O2 ottenibile all’apice di uno sforzo massimale (VO2 max) è il parametro di riferimento più immediato per riconoscere se esista o meno limitazione funzionale e se la risposta dinamica ottenuta raggiunga quella predetta. Per il malato cardiaco, tuttavia, il VO2 max rimane un valore teorico, e al suo posto si considera il VO2 massimale (VO2 di picco), che corrisponde al consumo di O2 più elevato ottenuto all’apice dello sforzo. Il VO2 di picco (Figura 1, grafico 3) si esprime generalmente come consumo di O2 al minuto rapportato al peso corporeo, ed è stato proposto con successo quale elemento di classificazione dello scompenso cardiaco. Il valore di VO2 di 20 ml/min/kg è il limite al di sopra del quale inizia il range di normalità (Classe A), mentre il valore di 10 ml/min/kg (classe D) è quello al di sotto del quale la compromissione è tale che una prova ergodinamica non è proponibile; tra questi due valori si inseriscono le classi B (VO2 di picco tra i 15 e i 20 ml/min/kg) e C (VO2 di picco tra i 10 e i 15 ml/min/kg). Studi pionieristici degli anni ’90 e successive dimostrazioni su ampi numeri hanno permesso di identificare un valore di VO2 di picco di 10 ml/min/kg quale cutoff di riferimento per inserire il paziente in lista attiva per trapianto di cuore. Occorre, tuttavia, che il soggetto abbia raggiunto e superato il punto di soglia anaerobia in cui inizia la produzione di acido lattico e intervengono i meccanismi di compenso, isocapnico prima e ventilatorio successivamente. In questo contesto, oltre al VO2 di picco è stata recentemente dimostrata l’utilità di un altro importante parametro ottenuto con la registrazione dei gas espirati, cioè la pendenza della relazione ventilazione (VE) versus VCO2 (Figura 1, grafico 4). Il comportamento peculiare di questi malati è che, per una data produzione di CO2, l’entità della risposta ventilatoria da sforzo risulta eccessiva: il grado di “inefficienza ventilatoria” è predittivo di morbidità e mortalità. L’incremento della pendenza della relazione VE/VCO2 è documentabile anche nei quadri iniziali di insufficienza cardiaca, e il suo potere predittivo è esteso anche ai pazienti con preservata funzione contrattile ma alterate proprietà di rilasciamento diastolico. Nuove prospettive emerse propongono la necessità di utilizzare questa variabile per meglio stratificare, rispetto al VO2 di picco, la compromissione clinica e i benefici della terapia nel paziente scompensato.
Capitolo 10 TECNICHE DI VALUTAZIONE DEL SISTEMA NERVOSO NEUROVEGETATIVO Federico Lombardi DEFINIZIONE Il sistema neurovegetativo è definito come la parte del sistema nervoso responsabile dell’innervazione viscerale, ed è caratterizzato da una localizzazione periferica dei gangli da cui originano le fibre nervose efferenti dirette ai vari organi. Il sistema comprende neuroni postgangliari, gangli, neuroni pregangliari e fibre nervose afferenti viscerali che possono essere riuniti in tre gruppi principali: craniali, toracolombari e sacrali. Tale sistema viene
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anche definito col termine Sistema Nervoso Autonomo e include due principali sistemi di controllo: il Sistema Simpatico e Parasimpatico. Negli organi con doppia innervazione (ad esempio, il cuore), i sistemi sono generalmente antagonisti; negli organi con sola innervazione simpatica, invece, lo stesso sistema provvede ad entrambe le funzioni: nel caso dei vasi arteriosi, per esempio, il simpatico induce sia la vasodilatazione che la vasocostrizione. La funzione di controllo viene svolta attraverso due principali modalità di scarica delle fibre nervose efferenti: 1) un’attività tonica responsabile del controllo e della stabilità (omeostasi) di parametri come, ad esempio, la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa sistolica, e 2) un’attività fasica in grado di modificare rapidamente tali parametri in seguito a stimoli interni (ad es. ischemia miocardica, dolore) o esterni (ad es. stress, emozioni). E’ presente, inoltre, una continua interazione con altri sistemi di controllo come, ad esempio, il Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone. Il controllo nervoso della frequenza cardiaca è un tipico esempio dell’antagonismo e della complessa e continua interazione tra i trasmettitori nervosi delle fibre postganglionari simpatiche (noradrenalina) e vagali (acetilcolina) e le caratteristiche di risposta delle cellule pacemaker. Tale caratteristica è alla base di due delle più importanti metodiche di studio del sistema nervoso autonomo: l’analisi della variabilità della frequenza cardiaca e lo studio della sensibilità barocettiva. Il sistema nervoso autonomo opera prevalentemente attraverso segnali che possono modificare il flusso di Calcio e di altri ioni. I recettori adrenergici e colinergici, che appartengono al sistema di recettori accoppiati alle proteine G, sono in grado di avviare un processo di trasduzione che inizia con il legame dell’agonista al sito recettoriale e culmina nell’attivazione, attraverso la fosforilazione di proteine intracellulari. A livello cardiaco, i recettori betaadrenergici sono prevalentemente del sottotipo beta1, mentre il sottotipo beta2, che prevale a livello extracardiaco, costituisce solo il 20% dei beta recettori cardiaci. I recettori alfa-adrenergici utilizzano un differente sistema di trasduzione ed hanno un ruolo determinante nel regolare il flusso di calcio nella muscolatura vascolare liscia. LA FREQUENZA CARDIACA Può sembrare sorprendente che la misura della frequenza cardiaca possa fornire valide e importanti informazioni prognostiche sia nella popolazione sana sia in differenti condizioni cliniche. La frequenza cardiaca istantanea è, con ogni probabilità, il più semplice indicatore dell’equilibrio autonomico e quindi può fornire importanti informazioni sull’interazione simpato-vagale e sulla capacità di risposta del nodo del seno alla modulazione autonomica. Una frequenza cardiaca elevata è un importante fattore prognostico negativo sia nella popolazione generale sia in pazienti con differenti patologie cardiovascolari. Anche se è verosimile che i meccanismi che possono determinare un aumento della frequenza cardiaca a riposo non possano essere ricondotti al solo sistema neurovegetativo, quest’ultimo ne rimane il principale determinante. Informazioni sul controllo autonomico possono essere anche ricavate dall’analisi delle variazioni di frequenza cardiaca indotte sia nelle prime fasi di un esercizio fisico sia nel recupero. Un eccessivo aumento della frequenza cardiaca nei primi minuti di esercizio e una scarsa riduzione nelle prime fasi di recupero sono state interpretate come segni di un alterato equilibrio simpatovagale ed associate ad un aumento di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica e insufficienza cardiaca. L’ANALISI DELLA VARIABILITÀ DELLA FREQUENZA CARDIACA Questa metodica si basa sul fatto che anche in condizioni di riposo la frequenza cardiaca istantanea ha una variabilità battito-battito che può essere facilmente messa in evidenza se si analizza una serie temporale di intervalli RR (tacogramma). La misura di queste oscillazioni può essere fatta con semplici metodi statistici, come il calcolo della media o della deviazione standard, o con metodiche spettrali che permettono di identificare e misurare l’ampiezza delle principali componenti oscillatorie. Nell’analisi del breve periodo (5-30 minuti) l’analisi spettrale (Figura 1) mostra due principali componenti oscillatorie a bassa (LF) e ad alta frequenza (HF) che riflettono rispettivamente la modulazione simpatica e parasimpatica del nodo del seno. Il rapporto LF/HF è comunemente utilizzato come indice dell’interazione simpato-vagale, e nel soggetto sano ha un valore inferiore a 2. Un’attivazione simpatica come quella indotta dall’ortostatismo ivo si associa ad un aumento della componente LF e ad una riduzione della componente HF. Un aumento della variabilità dei cicli cardiaci legato all’attività respiratoria si associa ad un aumento della componente HF. L’analisi di lunghi periodi, come quelli rilevabili nelle registrazioni Holter, è caratterizzata da numerose macro-oscillazioni, che possono essere determinate dalla sequenza sonno veglia, dal livello di attività fisica e da altri fattori neuro-umorali. In questo caso l’analisi spettrale indica che meno del 10% della potenza totale è ascrivibile alle componenti LF e HF, mentre predominano le componenti a più basse frequenze che riflettono i fenomeni sopraindicati. Nella pratica clinica la disponibilità di uno strumento in grado di misurare l’interazione simpato-vagale ha trovato numerose applicazioni, soprattutto nella cardiopatia ischemica, nell’ipertensione arteriosa e nell’insufficienza cardiaca. Il riconoscimento di un’alterazione del fisiologico equilibrio simpato-vagale nel post-infarto ha permesso di identificare pazienti con un elevato rischio di morte cardiaca aritmica. Attualmente tutti i sistemi di lettura dell’elettrocardiogramma dinamico, registrato per 24 ore (Holter) sono in grado di fornire parametri come la deviazione standard degli intervalli RR normali (SDNN), che può essere utilizzata nella stratificazione non invasiva del rischio di morte cardiovascolare. L’analisi spettrale delle 24 ore fornisce, invece, informazioni di maggior difficoltà interpretativa, e recentemente è stata affiancata da ulteriori elaborazioni del segnale di variabilità RR basate sull’analisi di dinamiche non lineari, che tuttavia vengono utilizzate prevalentemente nei laboratori di ricerca. L’ANALISI DELLA SENSIBILITÀ BAROCETTIVA
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Questa metodica si basa su un modello stimolo risposta e quantifica l’aumento di durata degli intervalli RR in risposta ad un aumento di pressione arteriosa indotta dalla somministrazione di una sostanza vasoattiva come la fenilefrina (Figura 2). L’inclinazione della curva che descrive tale metodica si esprime in msec/mmHg, e in soggetti sani ha un valore superiore a 12 msec/mmHg. Questa metodica fornisce quindi una misura della capacità di risposta dei meccanismi nervosi di controllo, e riflette la capacità d’incremento dell’attività vagale efferente e la capacità d’inibizione dell’attività simpatica efferente diretta al cuore. Va ricordato che tra i due sistemi di controllo esiste una continua interazione che modula la capacità di risposta di ciascuna componente del sistema nervoso neurovegetativo. Una ridotta sensibilità barocettiva caratterizza pazienti con un’elevata mortalità sia nel postinfarto sia nello scompenso cardiaco. L’ANALISI DELLA TURBOLENZA CARDIACA (HRT) L’HRT è una metodica che si basa sull’analisi delle modificazioni di durata del ciclo cardiaco che seguono la pausa compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare (Figura 3). In un soggetto sano questo fenomeno è caratterizzato da un iniziale accorciamento di durata dell’intervallo RR e quindi da un graduale allungamento che in 5-7 cicli cardiaci riporta la durata dell'intervallo RR ai valori precedenti il battito prematuro ventricolare. L’iniziale accorciamento viene indicato come T0 e ha in un soggetto normale un valore inferiore allo 0% (determinato dal rapporto percentuale tra l’intervallo RR post-pausa compensatoria e il valore medio degli intervalli RR precedenti il battito prematuro ventricolare) La graduale decelerazione viene indicata con il termine TS è ha in un soggetto normale un valore > 2,5 msec/RR. Si ritiene che l’accelerazione iniziale sia dovuta ad un aumento dell’attività simpatica diretta al cuore mediata da una deattivazione barorecettiva legata alla diminuzione di pressione arteriosa post-extrasistolica, mentre la successiva decelerazione riflette un meccanismo di tipo barocettivo: incremento della pressione sistolica ed allungamento della durata degli intervalli RR. Questa metodica è stata utilizzata con successo nel post infarto e in pazienti con differenti tipi di cardiomiopatia, ma necessita che la registrazione sui cui viene effettuata l’analisi presenti un numero adeguato (non inferiore a 20) di battiti prematuri ventricolari. CONCLUSIONI Lo studio del Sistema Neurovegetativo non è limitato al laboratorio di fisiopatologia, ma ha importanti risvolti applicativi anche in Clinica. Alterazioni del sistema neurovegetativo con aumento della modulazione simpatica e riduzione dell’attività vagale caratterizzano condizioni patologiche come la cardiopatia ischemica, l’insufficienza cardiaca, l’ipertensione arteriosa. Tali alterazioni non solo riflettono la severità della patologia sottostante ma sono fattori spesso determinanti per la progressione della malattia e in grado di provocare un’instabilità elettrica del miocardio. L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca, della sensibilità barocettiva e della HRT ha permesso di identificare nel post-infarto pazienti ad alto rischio e può quindi guidare le nostre strategie terapeutiche per ridurre la mortalità aritmica.
Capitolo 11 CATETERISMO CARDIACO E ANGIOCARDIOGRAFIA Germano Di Sciascio, A. D’Ambrosio DEFINIZIONE Il cateterismo cardiaco e l’angiocardiografia forniscono una valutazione dettagliata dell’anatomia e della fisiologia del cuore e del sistema vascolare. La metodica è stata applicata per la prima volta nell’uomo da Werner Forssmann nel 1929, ma è stata ampliata ai fini diagnostici da André Cournard e Dickinson Richards: questi tre ricercatori nel 1956 hanno ricevuto per la loro scoperta il premio Nobel per la medicina. La coronarografia selettiva è stata introdotta da Mason Stones nel 1963 ed ulteriormente modificata da Melvin Judkins. Il cateterismo cardiaco consiste nell'inserimento, attraverso un vaso periferico, di un catetere sottile e flessibile che viene poi sospinto fin dentro le cavità cardiache. Si distingue un cateterismo cardiaco destro (o venoso) e sinistro (o arterioso). Il primo viene effettuato introducendo il catetere in una vena periferica (femorale, brachiale, succlavia o giugulare) ed avanzandolo nelle sezioni destre del cuore e nel circolo polmonare. Il cateterismo cardiaco sinistro viene realizzato raggiungendo le cavità sinistre del cuore per via retrograda, dall’arteria femorale, brachiale o radiale. Durante le varie manovre è possibile misurare le pressioni e le tensioni d’ossigeno presenti nei vari distretti, collegando il catetere ad un trasduttore di pressione. Inoltre, mezzo di contrasto iodato può essere iniettato attraverso i cateteri per visualizzare radiograficamente le cavità cardiache ed i vasi (angiocardiografia); infine, può essere studiato il tempo di circolo del sangue, ricavando altri dati utili sulla funzionalità cardiocircolatoria. Attraverso il catetere è possibile anche effettuare biopsie del muscolo cardiaco (biopsia endomiocardica). L’angiocardiografìa delle coronarie o coronarografia consiste coronarico in corso di cateterismo cardiaco.
nella
visualizzazione
selettiva
dell’albero
TECNICA
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Il cateterismo cardiaco viene eseguito in una sala sterile attrezzata con un sistema radiografico ad alta risoluzione, apparecchi poligrafici per il monitoraggio continuo e la registrazione dei parametri fisiologici (traccia ECG, onda pressoria e pulsossimetria transcutanea), un carrello con farmaci per le emergenze ed un defibrillatore per il trattamento delle aritmie ventricolari. Inoltre, la sala deve essere dotata di un iniettore per il mezzo di contrasto, un sistema per l’acquisizione di film cineangiografico con la possibilità di elaborazione digitale delle immagini ed archiviazione successiva. Il paziente deve essere a digiuno e leggermente sedato, ma sveglio. La procedura viene effettuata con metodica percutanea, nella maggior parte dei casi attraverso l’arteria e la vena femorale; l’approccio brachiale o radiale viene utilizzato in presenza di vasculopatia periferica che precluda l’accesso dagli arti inferiori o l’avanzamento dei cateteri in aorta addominale oppure quando si vuole consentire una deambulazione precoce del paziente dopo la procedura. La Figura 1 illustra la tecnica di puntura vasale percutanea. L’arteria e/o la vena periferica vengono punte con un ago, previa anestesia locale della cute e sottocute: l’ago ha un calibro tale da consentire l’inserimento all’interno dello stesso di una guida metallica flessibile che può essere avanzata nel vaso (Figura 1A e Figura 1B). A questo punto l’ago viene rimosso e con la punta di un bisturi viene effettuata una piccola incisione di cute e sottocute al fine di consentire il aggio dell’introduttore (Figura 1C). La guida lasciata in situ permette l’inserimento nel vaso periferico di una cannula (detta introduttore), inizialmente dotata di svasatore (Figura 1D e Figura 1E): quest’ultimo viene rimosso assieme alla guida quando l’introduttore è posizionato completamente all’interno del vaso (Figura 1F). Il calibro dell’introduttore è variabile, a seconda della procedura che viene eseguita; in genere, è dell’ordine di alcuni millimetri (da 4 a 8 French, considerato che 1 French = 0.3 mm, il calibro varia da 1.2 a 2.5 mm). Terminata la procedura di cateterismo, l’introduttore viene rimosso e si ottiene l’emostasi locale mediante compressione manuale o mediante dispositivi meccanici per 15-20’: la compressione sarà applicata a monte del sito di inserzione nel caso di puntura arteriosa, a valle nel caso di puntura venosa. Nella procedura di cateterismo cardiaco sinistro, un catetere pre-formato - ovvero, che presenta curvatura predefinita all’estremità distale al fine di essere agevolmente introdotto nelle cavità cardiache – viene avanzato per via retrograda sotto controllo dei raggi X (fluoroscopia) nell’arteria periferica fino all’aorta ascendente e poi in ventricolo sinistro, attraverso la valvola aortica, ed eventualmente in atrio sinistro, attraversando per via retrograda la valvola mitrale. A tutti i livelli (distretto vascolare e camere cardiache) è possibile misurare attraverso il catetere i parametri emodinamici, così come effettuare prelievi per determinare le saturazioni d’ossigeno. Le forme d’onda pressoria (tensiogrammi) possono essere visualizzate su monitor e stampate su carta o memorizzate su di un o informatico. Nei casi in cui non sia possibile eseguire un cateterismo retrogrado delle camere sinistre del cuore (ad esempio: stenosi aortica serrata, protesi valvolare aortica), si può procedere per via trans-settale dalle sezioni destre. Un catetere speciale (di Brockenbrough e Braunwald), introdotto per via percutanea dalla vena femorale destra, viene ato dall’atrio destro al sinistro dopo aver punto il setto con un ago ricurvo nelle regione della fossa ovale. Dall’atrio sinistro il catetere viene poi avanzato nel ventricolo sinistro attraverso la valvola mitrale. Per la procedura di cateterismo cardiaco destro viene generalmente utilizzato il catetere a palloncino flottante di Swan Ganz (Figura 2). Il catetere, sotto controllo fluoroscopico e dopo aver gonfiato il palloncino all’estremità distale, viene avanzato (Figura 3) attraverso la vena periferica nella vena cava (inferiore o superiore, a seconda dell’approccio iniziale) e quindi in successione nell’atrio destro, nel ventricolo destro e in uno dei due rami principali dell’arteria polmonare, fino ad “occludere” transitoriamente un ramo periferico di quest’ultima. In questa posizione è possibile registrare la pressione di “incuneamento capillare polmonare”, la quale riflette quasi sempre in maniera accurata la pressione striale sinistra. Il catetere di Swan Ganz consente il cateterismo destro a letto dell’ammalato anche senza necessità di radioscopia: l’uso di tale indagine si è esteso alle Unità di Terapia Intensiva Coronarica, per il monitoraggio emodinamico di pazienti in condizioni critiche. Il termistore posto alla estremità del catetere consente di misurare la gittata cardiaca mediante metodica diluizionale, fornendo quindi un quadro sufficientemente completo della funzione cardiocircolatoria del paziente. La ventricolografia sinistra viene eseguita di routine in corso di cateterismo cardiaco sinistro. Essa prevede l’introduzione in ventricolo per via retrograda di un catetere particolare, denominato “pig-tail”, in quanto presenta all’estremità distale un ricciolo che ricorda il codino del suino, ed è dotato di diversi fori a questo livello. La specifica conformazione del catetere permette l’agevole introduzione nella camera cardiaca - senza risultare traumatico per le pareti cardiache e quindi evitando di stimolare l’insorgenza di aritmie ventricolari – e l’adeguata opacizzazione della stessa mediante iniezione di circa 40-50 ml di mezzo di contrasto radiopaco ad alta velocità ed in pochi secondi (Figura 4). In tal modo è possibile osservare le dimensioni del ventricolo sinistro, la contrazione ed il rilasciamento delle pareti e l’eventuale presenza di insufficienza della valvola mitrale, evidenziabile come rigurgito sistolico di mezzo di contrasto in atrio sinistro attraverso la valvola. In soggetti con dilatazione/disfunzione ventricolare sinistra, la ventricolografia mette in evidenza la ridotta contrattilità generalizzata (Figura 5) o segmentaria. La coronarografia viene eseguita portando a livello del piano valvolare aortico cateteri con curve preformate all’estremità distale che permettono l’incannulazione selettiva dell’ostio coronario destro e sinistro. Successivamente vengono iniettati pochi millilitri di mezzo di contrasto all’interno della coronaria e viene registrato il riempimento e successivo svuotamento della coronaria (Figura 6, Figura 7, Figura 8). In genere, vengono utilizzate diverse proiezioni radiografiche (oblique anteriori destre e sinistre, craniali e caudali), ruotando
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il tubo radiogeno attorno al paziente, al fine di visualizzare le coronarie epicardiche principali e le loro ramificazioni lungo tutto il loro decorso. E’ quindi possibile mettere in evidenza stenosi a carico delle arterie coronarie (Figura 9). INDICAZIONI Il cateterismo cardiaco viene effettuato per determinare la natura e l’estensione di un sospetto problema cardiaco in un paziente nel quale si intenda effettuare un intervento chirurgico o una terapia interventistica percutanea. Tale metodica serve anche per escludere patologie significative in presenza di risposte equivoche ad altri esami non invasivi, quali test da sforzo o ecocardiogramma, oppure quando, in un paziente fortemente sintomatico, l’acquisizione di una diagnosi definitiva sia rilevante ai fini del trattamento. Il cateterismo cardiaco permette di:• misurare direttamente le pressioni intravascolari (circolo arterioso sistemico e polmonare) ed intracavitarie a livello della sezione destra e sinistra del cuore; • visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi che le cavità cardiache, in particolare il ventricolo sinistro, al fine di valutare la funzione contrattile globale, e la cinetica regionale del ventricolo e la continenza valvolare aortica e mitralica. La misurazione diretta dei gradienti transvalvolari è fondamentale nella valutazione dei pazienti con valvulopatia: leFigura 10 e Figura 11 illustrano i tracciati pressori registrati in caso di stenosi aortica e stenosi mitralica. Anche dopo l’introduzione della TC coronarica, la coronarografia continua ad essere l’unica metodica in grado di definire in maniera accurata la gravità e l’estensione della coronaropatia: è pertanto esame essenziale nella valutazione dei pazienti per i quali venga presa in considerazione la rivascolarizzazione, sia essa percutanea (angioplastica coronarica) o chirurgica (mediante intervento di by- aorto-coronarico). Le Figura 6, Figura 7,Figura 8, e Figura 9mostrano quadri coronarografici normali e con stenosi significative. CONTROINDICAZIONI, RISCHI E COMPLICANZE Il cateterismo cardiaco è una procedura relativamente sicura, ma trattandosi di una tecnica invasiva, si associa ad un rischio di morbilità e mortalità ben definito. Esiste una sola controindicazione assoluta all’esecuzione di un cateterismo cardiaco: la presenza di apparecchiature e personali non adeguati alla procedura. Le seguenti rappresentano controindicazioni relative: sanguinamento acuto gastrointestinale con anemizzazione, diatesi emorragica incontrollata, anticoagulazione efficace (INR>2), alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico (in particolare l’ipopotassimeia, che predispone alle aritmie), infezioni e febbre, intossicazione da farmaci (ad esempio: digitale, fenotiazina), gravidanza, recente evento cerebrovascolare (< 1 mese), insufficienza renale, scompenso cardiaco instabile, ipertensione arteriosa non controllata, aritmie, paziente non collaborante. Uno studio prospettico di 5 anni condotto nel 1968 riportava un’incidenza cumulativa di complicanze (incluse: perforazione cardiaca, aritmie maggiori, emorragie, ipotensione severa, trombosi vascolare, ictus embolico, infarto miocardico e morte) nei pazienti di tutte le età pari al 3.6%. Successivamente, il miglioramento progressivo delle tecniche, l’esperienza sempre maggiore degli operatori e l’uso di cateteri più flessibili e di mezzi di contrasto meno nefrotossici, ha determinato una riduzione notevole dell’incidenza di complicanze, permettendo un’applicazione sempre più estesa di questa tecnica diagnostica al fine di ottenere una precisa diagnosi anatomofunzionale cardiovascolare in vista di un’indicazione terapeutica. Le complicanze legate al cateterismo cardiaco si possono distinguere in maggiori e minori. Le prime hanno un’incidenza globale approssimativamente del 0.1-0.2% e sono elencate di seguito, con incidenza media indicata tra parentesi: morte (0.11%), infarto miocardico acuto (0.05%), evento ischemico cerebrale (0.07%), tachicardia o fibrillazione ventricolare o aritmie maligne (0.38%), complicanze vascolari (0.43%), reazioni al mezzo di contrasto (0.37%), complicanze emodinamiche (0.26%), perforazione delle camere cardiache (0.03%). Le complicanze minori si osservano in circa il 4% dei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco; le più comuni sono le lievi reazioni vaso-vagali (ipotensione arteriosa e bradicardia transitorie, secondarie alla puntura vasale ed all’uso di mezzo di contrasto) e gli episodi di angina che durano meno di 10 minuti.
Capitolo 12 DIAGNOSTICA VASCOLARE Alberto Balbarini, R. Di Stefano 30
INTRODUZIONE La diagnostica vascolare può essere classificata in modi diversi, sulla base di molteplici criteri, fra cui i seguenti:
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Diagnostica invasiva o non invasiva. Diagnostica di primo livello per lo screening e diagnostica di secondo livello più sofisticata o complessa,
per approfondimento o ricerca.
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Diagnostica per lo studio del flusso a riposo o per lo studio emodinamico.
A monte di ogni scelta sul tipo di esame, devono essere note le informazioni che si possono ottenere, oltre che il rapporto costo/beneficio, in modo da richiedere indagini di secondo livello solo quando ne esista la reale indicazione. L’approccio diagnostico vascolare verrà presentato separatamente per i seguenti distretti : - Distretto Carotideo - Distretto Periferico - Microcircolo DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO CAROTIDEO Le principali metodiche utilizzate nella diagnostica della malattia carotidea sono:
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L’ ecografia color Doppler l’ angioTC l’ angioRNM
La diagnostica invasiva viene attuata solo su casi selezionati, mediante arteriografia. Per il distretto carotideo la metodica diagnostica ottimale dovrebbe fornire dati affidabili sulla sede della placca, sulla composizione istologica (emorragia, fibrosi, contenuto lipidico) e la morfologia (superficie liscia o ulcerata). Nella realtà clinica nessuna metodica è in grado di fornire allo stesso tempo e con la stessa precisione tutte queste informazioni.
ECOCOLORDOPPLER E’ la metodica di riferimento che consente, eventualmente in associazione a studio angio TC o angio RNM e a Doppler transcranico, di pianificare interventi chirurgici di correzione di stenosi emodinamiche senza la necessità di ricorrere ad una arteriografia preoperatoria. La metodica eco Doppler si basa sull’utilizzo di un trasduttore posizionato con angolo di 90° a livello cutaneo che agisce sia da trasmittente di emissioni di ultrasuoni che da ricevente degli echi trasmessi originati dalle varie interfacce che vengono elaborati e convertiti in punti luminosi in grado di ricostruire l’immagine anatomica del vaso o le caratteristiche della placca da analizzare. Il colore permette di determinare l’orientamento spaziale del flusso e la relazione spaziale tra quest’ultimo e le strutture anatomiche è visualizzata in tempo reale . Tutti i sistemi color Doppler codificano la direzione del flusso in due colori, rosso e blu: la direzione del flusso in avvicinamento al trasduttore è codificata in rosso, quella in allontanamento in blu. La metodica color, utilissima nella localizzazione spaziale dei flussi e nella determinazione diretta di alcune patologie, non fornisce, però, una stima accurata della velocità. Per la determinazione della velocità è preferibile ricorrere alla modalità B-mode (che codifica le strutture secondo una scala di grigi), utilizzando il Doppler pulsato dove, mediante un cursore, viene selezionato un campione di circa 1-2mm³ all’interno del vaso ed eseguita un’analisi spettrale per la determinazione del flusso. La caratterizzazione ecografica della stenosi carotidea prevede l’analisi combinata del segnale Doppler (velocità di picco sistolica e diastolica in corrispondenza della stenosi) e dell’ imaging bidimensionale: dallo studio del segnale Doppler possiamo avere informazioni sull’entità della stenosi e le sue ripercussioni emodinamiche; l’imaging bidimensionale consente di valutare, in maniera analoga all’angiografia, la percentuale di stenosi lineare o planimetrica determinata dalla placca (Figura 1). Se l’ indagine ecografica è la metodica di prima scelta per discriminare l’ entità della stenosi (percentuale), la localizzazione (carotide comune, interna o esterna) e l’estensione, altri parametri importanti che rendono la placca instabile, ovvero ad elevato rischio di eventi clinici, sono di più difficile acquisizione. I principali parametri che sono risultati correlati all’ instabilità della placca sono : - irregolarità di superficie o ulcerazione - abbondante componente lipidica
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- emorragia. Questi dati sono oggi acquisibili con tecniche diagnostiche ecografiche più sofisticate, di secondo livello, basate sull’ analisi densitometrica della placca ottenuta con l’ acquisizione della scala dei grigi ( back-scattering ) . ANGIO TC La metodica angio TC, in particolare la TC spirale che consente di ottenere immagini tridimensionali ad alta risoluzione, ha una sua particolare sensibilità e specificità nell’ identificare le percentuale di stenosi superiori al 70% per il distretto carotideo extracranico e soprattutto per la diagnosi delle occlusioni. Un’altra peculiarità della angio TC è la capacità di identificare eventuali ulcerazioni della placca con una sensibilità e specificità che supera il 90%. ANGIO RNM La risonanza, analogamente alla TC , trova indicazione nella diagnostica della stenosi carotidee nei casi in cui l’ ecografia risulti dubbia. Rispetto all’ angio TC, offre il vantaggio di non richiedere l’uso di mezzo di contrasto iodato e di avere una sensibilità nell’ identificare le stenosi superiori al 70 %. DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO PERIFERICO La diagnostica vascolare non invasiva nel paziente con sospetta arteriopatia periferica si basa sull’utilizzo degli ultrasuoni, che coprono da soli gran parte della diagnostica vascolare anche in questo distretto. L’ arteriografia mantiene un ruolo fondamentale nei pazienti per i quali, sulla base dei dati eco -Doppler, si ritenga indicato un intervento di rivascolarizzazione chirurgica. ECOGRAFIA COLOR DOPPLER La diagnostica ecografica è finalizzata a individuare : -dilatazioni aneurismatiche -compressioni estrinseche -alterazioni di parete (stenosi ,occlusioni) comprese le valutazioni sulle caratteristiche della placca, come già detto per il distretto carotideo e con gli stessi limiti già descritti -trombi endoluminali Anche per il distretto periferico l’ esame ecodoppler ha dei limiti tra cui la difficoltà, determinata da rapporti anatomici, ad esplorare alcuni tratti dell’asse arterioso, come ad esempio il distretto di gamba specialmente nei pazienti diabetici o con stenosi multiple, o la difficoltà legata alla presenza di “coni d’ ombra” che accompagnano placche calcifiche fortemente ecogene rendendo l’ area non esplorabile. Tuttavia per la maggior parte delle placche o stenosi l’ indagine ecocolordoppler costituisce la metodica di prima scelta, fornendo dati analoghi a quelli dell’ arteriografia (Figura 2). ABI (Ankle/brachial index ) o indice di Winsor In condizioni fisiologiche la pressione sistolica agli arti inferiori è maggiore di quella rilevabile agli arti superiori, con valori che oscillano fra 12±8 mm Hg e 24±9 mm Hg. In presenza di una stenosi che restringa il vaso per almeno il 50% , si ha distalmente un calo pressorio determinato dalla riduzione compensatoria delle resistenze periferiche. Per primo Winsor propose di registrare in contemporanea i valori pressori della caviglia e del braccio, ottenendo un rapporto che in condizioni di normalità è uguale o maggiore di 1 (Figura 3). L’ ABI costituisce il più rapido esame diagnostico per lo screening e il follow up di pazienti con arteriopatia obliterante degli arti inferiori. Il limite fondamentale è dato dalla impossibilità di valutare arterie incomprimibili per sclerosi calcifica della media, quale si ha ad esempio nei pazienti diabetici o con insufficienza renale grave, e le lesioni emodinamicamente non significative a riposo che sono diagnosticabili solo con opportuni tests da sforzo. Treill Test Il test viene eseguito per valutare la presenza di stenosi che non sono rilevabili a riposo. L’ esercizio determina, infatti, una dilatazione dei vasi di resistenza ed un aumento di flusso a livello muscolare: in condizioni normali, per la presenza di basse resistenze a livello delle grandi arterie non si verificano fenomeni di furto dalle zone più distali dell’ arto, mentre in presenza di un’occlusione o di una stenosi emodinamicamente significativa il flusso muscolare dopo esercizio è ostacolato dalle alte resistenze presenti nel circolo collaterale e dalla dilatazione arteriolare distale alla lesione. L’ esame prevede la determinazione dell’ABI in condizioni di riposo e immediatamente dopo un periodo di deambulazione a velocità ed inclinazione costante su un treill sino alla comparsa di claudicatio o per un tempo definito; la misurazione dell’ ABI viene eseguita fino al recupero dei valori basali. Al termine dello sforzo la pressione arteriosa nell’ arto superiore aumenta, nell’ arto inferiore in cui è presente una arteriopatia scende per poi tornare ai valori basali. Il test da sforzo ha la sua indicazione quando esiste un sospetto clinico non confermato dai valori di ABI a riposo o per valutare il peso funzionale di una lesione. DIAGNOSTICA DEL MICROCIRCOLO
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La valutazione della microcircolazione cutanea si basa su metodiche che consentono una valutazione diretta, di tipo morfologico, della rete capillare (capillaroscopia), oppure una valutazione indiretta, di natura metabolica (tensiometria transcutanea di O2 e CO2 ) o funzionale (flussimetria laser-doppler). Queste metodiche rivestono un ruolo nella diagnostica dei pazienti affetti dai gradi più severi di arteriopatia, in particolare quelli con ischemia critica cronica che presentano dolore a riposo, necrosi cutanee e gangrena Capillaroscopia La capillaroscopia consente uno studio selettivo del circolo nutrizionale che costituisce circa il 10 % del flusso cutaneo , responsabile delle lesioni trofiche. La capillaroscopia si basa sull’ utilizzo di uno stereomicroscopio collegato ad un sistema di rilevazione dell’ immagine. I distretti normalmente esplorati sono la piega ungueale, la cute e la congiuntiva bulbare. In condizioni normali, il capillare studiato a livello della plica ungueale assume un aspetto a “forcina”, con una parete arteriosa e una venosa ben distinguibili; le anse capillari sono di colorito roseo, parallele e separate da spazi regolari. In condizioni patologiche si possono avere variazioni di numero, caratteristiche e distribuzione (Figura 4). Tensione transcutanea di Ossigeno (TO2) e di Anidride Carbonica (TCO2) Lo studio del plesso cutaneo più profondo sub papillare, destinato alla funzione termoregolatoria, viene eseguito con paziente a riposo, in posizione supina, in ambiente a climatizzazione controllata, sia in condizioni basali che dopo stress provocativi. Nata dall’osservazione che nei neonati è possibile misurare le variazioni dell’ossigenazione in maniera incruenta tramite sensori applicati sulla cute, la metodica è stata applicata in angiologia grazie alla messa a punto di un elettrodo polarografico (elettrodo di Clark) che permette di eseguire misurazioni continue dell’ ossigeno. Nelle arteriopatie, la TO2 valuta in modo non invasivo le conseguenze tissutali delle alterazioni macrocircolatorie. In clinica la misurazione ossimetrica viene eseguita con sensore riscaldato a 44C° posizionato sul I spazio intermetatarsale del piede sintomatico. Nel paziente con ischemia critica cronica i valori ossimetrici , rilevati al piede sintomatico , non superano rispettivamente i 10 e 45 mmHg in posizione supina e declive. Negli ultimi anni si è resa possibile anche la misurazione della concentrazione transcutanea di anidride carbonica , mediante un sensore combinato per O2 e CO2 e questo parametro costituisce un più sensibile indicatore di acidosi metabolica indotta dal danno ischemico . Flussimetria Laser Doppler La flussimetria laser Doppler è una metodica per lo studio funzionale del microcircolo basata sull’utilizzo dell’ effetto doppler. E’ una tecnica in atto più idonea ai fini di ricerca che clinici.
Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache Capitolo 13 MALATTIA REUMATICA Luigi Meloni, Massimo Ruscazio DEFINIZIONE La malattia reumatica è un processo morboso infiammatorio multifocale, a patogenesi autoimmune, che si manifesta in seguito ad un’infezione faringea da streptococco emolitico del gruppo A. La malattia interessa principalmente le articolazioni, il cuore, il sistema nervoso centrale, la cute e il sottocutaneo. Il 50 % circa dei pazienti colpiti dalla malattia reumatica sviluppa negli anni un danno cardiaco permanente, responsabile delle varie forme di valvulopatia reumatica cronica. EPIDEMIOLOGIA L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto alle migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della faringite streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra le popolazioni in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie sono precarie (povertà, malnutrizione, eccessivo affollamento, insufficiente prevenzione ed assistenza sanitaria). Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e gli adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un picco tra i 25 e i 34 anni. PATOGENESI La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è l’evento che precipita la malattia reumatica. Sebbene l’esatto meccanismo che associa l’infezione streptococcica alla flogosi reumatica sia ancora incerto, la malattia reumatica è comunemente considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria alle componenti antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni batterici e i tessuti
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dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva risposta crociata di tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 1). L’interesse nei confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che diversi antigeni della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli organi e dei sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello streptococco possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto articolare dell’uomo. Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-acetilglucosamina, si ritrova in alte concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la proteina-M della membrana cellulare batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine umane, la vimentina (tessuto sinoviale) e la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata con la proteina-M streptococcica. Infine, esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli elementi somatici dello streptococco e alcune componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi). Pertanto, i principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno infiammatorio locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato. ANATOMIA PATOLOGICA Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del tessuto interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase proliferativa compaiono i noduli di Aschoff (Patologia 07), lesioni granulomatose patognomoniche della malattia, riscontrabili anche nelle valvole cardiache e nel pericardio. La flogosi reumatica dei foglietti pericardici (pericardite) è di tipo sierofibrinoso e si risolve, solitamente, senza complicazioni. La componente più significativa del danno cardiaco è l’infiammazione delle valvole cardiache (valvulite), responsabile della manifestazione clinica più importante dell’attacco acuto di malattia reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica colpisce prevalentemente la valvola mitrale e la valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai la valvola polmonare. Il tessuto valvolare è interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono osservare piccole formazioni verrucose sulla superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione dei lembi valvolari (Patologia 40). Il processo cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure e delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano funzionale stenosi o insufficienza valvolare (valvulopatia reumatica). Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica), deve essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto (valvulopatia reumatica). MANIFESTAZIONI CLINICHE Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite, la poliartrite, la corea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono presentarsi singolarmente o in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti, come la febbre, le artralgie, la positività dei test ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo P-R all’ECG, sono considerati invece manifestazioni minori della malattia (Tabella I). Secondo lo schema proposto da Jones, la presenza di 2 manifestazioni maggiori oppure di una manifestazione maggiore e 2 minori in un paziente con evidenza di infezione streptococcica recente (positività del tampone faringeo, titolo antistreptolisinico elevato) indica un’alta probabilità di malattia reumatica acuta. Il periodo di latenza tra la faringite streptococcica e l’inizio dei sintomi varia da 1 a 5 settimane. Nel 75 % dei casi, la febbre e la poliartrite rappresentano i segni clinici iniziali dell’attacco di malattia reumatica. L’artrite interessa prevalentemente le grandi articolazioni degli arti (ginocchia, gomiti, polsi e anche) in modo asimmetrico e migrante, risponde prontamente all’aspirina e si risolve senza reliquati. A differenza dell’artrite reumatoide, sono risparmiate le piccole articolazioni delle mani e dei piedi. Al quadro clinico della poliartrite si sovrappone spesso quello della cardite, e in generale la gravità dei sintomi articolari è inversamente proporzionale all’interessamento cardiaco: nei pazienti con forme gravi di artrite, le manifestazioni cliniche della cardite tendono ad essere attenuate e viceversa. La cardite, presente nel 50% circa dei pazienti con malattia reumatica acuta, è associata quasi sempre ad un soffio cardiaco secondario alla valvulite. Il reperto ascoltatorio più frequente è un soffio olosistolico apicale, ad alta frequenza, irradiato all’ascella, indicativo di un’insufficienza della valvola mitralica. Il soffio dell’insufficienza valvolare aortica, se presente, si associa quasi sempre a quello dell’insufficienza mitralica. Quest’ultima rappresenta pertanto l’elemento clinico più caratteristico della cardite reumatica. Le ripercussioni emodinamiche della valvulite sono di entità variabile. Nelle forme più gravi di insufficienza mitralica, compaiono i segni e i sintomi dello scompenso cardiaco. Più spesso, gli effetti acuti della valvulite sono poco rilevanti sul piano clinico, e talora può essere difficile, all’ascoltazione cardiaca, cogliere i segni delle lesioni valvolari. In questi casi, l’indagine ecocardiografica, coadiuvata dall’esame color Doppler, può essere utile per confermare il sospetto di malattia reumatica. Gli sfregamenti pericardici e il rilievo ecocardiografico di versamento pericardico documentano la presenza della pericardite. L’interessamento flogistico del tessuto miocardico (miocardite) e del pericardio (pericardite) non
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compare mai isolatamente, ma è sempre associato alle manifestazioni della valvulite. Pertanto, un quadro clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro difficilmente potrà avere una patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma escludono la presenza di un’insufficienza della valvola mitrale o aortica. La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione clinica della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito, esordisce più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di risoluzione, e si caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che scompaiono con il sonno e con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si risolvono spontaneamente. Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi). I noduli sottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in corrispondenza delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono spontaneamente. L’eritema marginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che circoscrivono aree centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni prossimali degli arti, migra da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria. ESAMI DI LABORATORIO La diagnosi di malattia reumatica è spesso non facile, non solo per la variabilità del quadro clinico, ma anche per la mancanza di un test diagnostico sicuro e definitivo. Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della risposta autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite. In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo (tampone faringeo). La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali possono ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività dell’esame colturale non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione streptococcica. L’aumento del titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un reperto provvisto di maggiore affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal proposito, giova ricordare che il titolo antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1 mese dall’inizio dell’infezione streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce progressivamente. Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un blocco atrioventricolare di primo grado, secondario all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il blocco atrioventricolare, riconoscibile in base all’allungamento dell’intervallo P-R, non è, da solo, diagnostico di cardite reumatica (Tabella I), non influisce sulla prognosi né predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica). DECORSO E PROGNOSI La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi isolati di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia reumatica e/o alle recidive. La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio di una recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti, riattiva la risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno anatomico valvolare (Figura 1). CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia reumatica né impedisce lo svilupparsi della cardite. L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai casi con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca. PREVENZIONE La prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel trattamento antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e mirato (penicillina) elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica. La prevenzione secondaria è rivolta agli individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia reumatica acuta o che soffrono di recidive dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato dalla profilassi antibiotica continua delle recidive di
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infezione streptococcica, potenzialmente capaci di innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il trattamento antibiotico di una nuova infezione streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente con precedenti anamnestici di malattia reumatica dal rischio di una recidiva reumatica. Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo paziente a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare dell’età e con l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite durante il loro primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si verificano hanno minori probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite nel corso dell’attacco acuto sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore danno valvolare in occasione di ogni ricorrenza (Figura 1).
Capitolo 14 STENOSI MITRALICA Giuseppe Oreto, sco Saporito DEFINIZIONE La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e retrazione delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) con esito in riduzione dell'area valvolare. La valvola stenotica rappresenta un ostacolo al aggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul ventricolo destro. EZIOLOGIA La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per quanto, infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono talmente rari da risultare trascurabili ai fini pratici. La malattia reumatica consegue ad infezione da streptococco ß-emolitico del gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille; qualche settimana dopo l’inizio del processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni infiammatorie a carico di numerosi organi, comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali alterazioni non dipendono da localizzazione dello streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad un processo autoimmunitario del quale il germe è solo l’avviatore. Il cuore viene solitamente interessato in toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a miocardite e pericardite. ANATOMIA PATOLOGICA Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste formazioni infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni prima che si determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale consegue un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura e calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia un processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso turbolento rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive. La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente aderenti fra loro; nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde (Figura 1, Patologia 08, Patologia 09). L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o meno significativamente ridotta sia per l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici secondari» (gli spazi compresi fra le corde tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso, la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e spesso sede di trombi, particolarmente a livello dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono coesistere alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e dell'intima. In diversi casi si rileva dilatazione del ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa sistemica cronica, particolarmente a carico del fegato. Queste modificazioni conseguono all'ipertensione polmonare, che induce sovraccarico e dilatazione del ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine scompenso congestizio. FISIOPATOLOGIA Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa allora necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a are dall'atrio al ventricolo nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna differenza significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro (Figura 2A ). Il flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di pressione fra le due camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione del sangue. Nella stenosi mitralica,
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invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione fra atrio e ventricolo sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura 2B ). L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso attraverso la valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso, tanto più elevato sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa fino a 2,5 cm2 non comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione dell'area valvolare, si definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2. La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza. Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare nell'unità di tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Anche la tachicardia incrementa la velocità di flusso, poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo disponibile per il aggio del sangue dall'atrio al ventricolo.* Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una determinata quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico. L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le sezioni del circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa catena è il capillare; quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le proteine plasmatiche hanno di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la trasudazione: il liquido invade dapprima l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando disturbi respiratori che vanno dalla dispnea da sforzo fino all’edema polmonare acuto. In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito molto elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione capillare: poiché il capillare non sopporta pressioni >25 mm Hg (valori più alti si accompagnano a sintomi evidenti), in arteria polmonare si riscontrerà una pressione non maggiore di 35-40 mm Hg (Figura 3A ). In alcuni pazienti, invece, la pressione in arteria polmonare è nettamente più alta di quanto ci si aspetterebbe in base alla pressione atriale sinistra. Il motivo di ciò è che si realizza un incremento delle resistenze precapillari (arteriolari) polmonari, per cui l'ipertensione arteriosa che ne deriva è molto maggiore di quella richiesta per generare il gradiente transvalvolare mitralico (Figura 3C ): in casi del genere non è impossibile riscontrare in arteria polmonare pressioni elevate fino a 100 mm Hg o più. In una fase precoce della malattia, questa ipertensione polmonare dipende da vasocostrizione delle arteriole polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma successivamente consegue ad alterazioni anatomiche obliterative del letto vascolare polmonare (vasculopatia polmonare). Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per sopperire al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue insufficienza tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa situazione, la presenza di un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle resistenze precapillari) riduce la portata cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione capillare troppo elevata. Di conseguenza il paziente andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo ed edema polmonare acuto (fenomeni dipendenti dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni della ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della stasi venosa sistemica (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi, ascite). (* La durata della fase sistolica è pressoché fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza cardiaca. Perciò per una frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3 secondi di sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi. Se la frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3 secondi di sistole e 0,2 di diastole), per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)
SINTOMI I più precoci e più evidenti sintomi legati alla stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte queste manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido nell’interstizio e negli alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa insufficiente, si determina la congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro respiratorio aumenta, cosicché il soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in posizione supina. La trasudazione massiva di liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento della pressione capillare è responsabile dell'edema polmonare; questa manifestazione viene spesso scatenata da incremento della portata e/o della frequenza cardiaca (fibrillazione atriale parossistica, malattie febbrili acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.). Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione nelle vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì che l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono determinarsi piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente dalle vie respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa bronchiale è anche responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite dei pazienti con stenosi mitralica.
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Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione atriale. L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete atriale, consistenti in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura atriale che ne deriva si traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase vulnerabile può, perciò, scatenare la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento parossistico, e in questo caso è responsabile di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la malattia data da maggior tempo. Alla fibrillazione atriale è legata un'altra fra le manifestazioni cliniche caratteristiche della stenosi mitralica: l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi parietali in atrio sinistro, specialmente nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel circolo sistemico. L'embolia non è correlata con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle forme lievi, e rappresenta a volte la prima manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la localizzazione dell'embolo è nelle arterie cerebrali. SEGNI CLINICI I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli. L'esame obiettivo del cuore è assai caratteristico nei casi tipici, ed il quadro ascoltatorio comprende 1° tono forte, schiocco d'apertura mitralico, soffio (rullio) diastolico (Figura 4A); in presenza di ipertensione polmonare non lieve, la componente polmonare del secondo tono può essere aumentata d’intensità. Il soffio diastolico consegue alla turbolenza del flusso transvalvolare, determinata dall’ostacolo che la valvola stenotica rappresenta; si tratta di un soffio a bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché ricorda lontanamente il rullare di un tamburo. Nei soggetti a ritmo sinusale il rullio presenta un rinforzo presistolico che manca nei pazienti in fibrillazione atriale (Figura 4B).Il rinforzo del soffio è dovuto all’aumento del flusso transvalvolare causato in telediastole dalla contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica dell’atrio è praticamente assente, con l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio della stenosi mitralica. Tuttavia, alcuni o anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica possono non essere apprezzabili: il segno ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi mitralica è lo schiocco d'apertura, che si caratterizza per la cronologia protodiastolica, il timbro a tonalità elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al mesocardio. Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della congestione venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc. DIAGNOSTICA STRUMENTALE Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale sinistro, fra i quali spicca l’onda P bifida, con durata aumentata (( 0.11 sec) (Figura 5);nei soggetti con ipertensione polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia ventricolare destra. L'esame radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti sono i segni di ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni del circolo polmonare. L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica: l'ecocardiogramma bidimensionale permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura 8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed anche informazioni indirette sulla pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente introduzione, consente una visione quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito collocando il transduttore nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto polmonare, che rende difficile il aggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei dettagli e di analizzare anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con stenosi mitralica, l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente nell’auricola, elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il gradiente transvalvolare (Figura 2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il cateterismo cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per determinare il tipo di intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto importante nei pazienti con stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica tranacatetere. CENNI DI TERAPIA Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, interventistico* chirurgico. La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4) mantenimento di una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5) terapia dei disturbi legati alla congestione venosa polmonare. La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio sinistro dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali dicumarolici.
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Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando farmaci antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può eventualmente proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare finché possibile le recidive dell'aritmia. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la cardioversione deve essere preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola, mediante ecocardiografia transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque manovra volta a convertire la fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia. Se la fibrillazione data da diversi giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1 mese) prima di procedere alla cardioversione. Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una frequenza cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-bloccanti o i calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo la risposta ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della frequenza ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker ventricolare. L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a radiofrequenza in corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una lesione irreversibile cui consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da quella degli atri, governata solo dal pacemaker artificiale o da un segnai di scappamento posto a valle del blocco. Un particolare intervento di ablazione transcatetere può anche essere eseguito con lo scopo di abolire il substrato che sottende lo scatenamento e il mantenimento della fibrillazione atriale. I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia, sono quasi sempre in III classe funzionale NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o alla valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena femorale un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il catetere viene spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che il palloncino si trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si esercita sui lembi della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in corrispondenza delle commissure, così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico. La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo (commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita in circolazione extracorporea e sotto visione diretta, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue senza arrestare il cuore, è una procedura ormai non più impiegata. (*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia o la struttura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale, ma agendo sull’organo attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore sotto controllo radioscopico o ecografico.)
Capitolo 15 INSUFFICIENZA MITRALICA Paolo Marino DEFINIZIONE L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinata azione di una o più delle componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in sistole, dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla quantità di sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della pressione atriale non viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione si riflette a monte sul circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro. EZIOLOGIA La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico, vedi più avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza poiché i lembi valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro durante la sistole ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La malattia coronarica rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare disfunzione temporanea o permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare. L’endocardite infettiva può causare insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione valvolare o rottura delle corde infette. Anche la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo accorciamento e retrazione delle corde. Infine la cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare (vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura valvolare e significativa insufficienza mitralica.
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Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari, interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica. ANATOMIA PATOLOGICA Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Patologia 10). Vista dal lato atriale, la valvola con degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior parte dei casi sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i foglietti. L’esame istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di mucopolisaccaridi acidi e mastociti. La rottura delle corde (Patologia 11), nei pazienti affetti da insufficienza mitralica, può essere il risultato dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte (come nel caso della degenerazione mixomatosa dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come nell’endocardite (Vedi Capitolo 34, Patologia 12). In questo caso, si possono anche notare lembi perforati e frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare rappresenta un’altra condizione causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il crescere dell’età del soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La dilatazione anulare è un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o secondario a condizioni di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare sinistro, il rigurgito mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da alterazioni dell’anulus. In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei muscoli papillari rispetto alle cuspidi (Figura 1); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della conformazione fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito. FISIOPATOLOGIA Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità atriale, la quale è una camera a bassa pressione (Figura 2). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta minore della gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella, patologica, retrograda. All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume atriale sinistro, una riduzione della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare poiché in diastole il volume rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dai polmoni. Per far fronte alla normale domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica ventricolare aumenta grazie al meccanismo di Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare, causato dall’aumentato volume ventricolare in diastole, determina un aumento del volume eiettato. Ovviamente, la conseguenza emodinamica dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del rigurgito e dalla sua durata nel tempo. La gravità del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio rigurgitante in sistole e dal gradiente di pressione sistolico tra atrio e ventricolo sinistro. La frazione di rigurgito nell’insufficienza mitralica è definita dal rapporto tra il volume rigurgitante e la gittata ventricolare totale, rapporto che dipende, a sua volta, dall’entità delle resistenze periferiche che si oppongono flusso anterogrado e dalla compliance dell’atrio sinistro. Ad esempio, l’ipertensione o la presenza di una coatazione aortica aumenterà la frazione di rigurgito. L’entità dell’incremento della pressione atriale sinistra in risposta al volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (la compliance è una misura della relazione tra volume e pressione endocavitaria, definibile come variazione di volume per una data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio, all’improvvisa rottura di una corda) la compliance atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione. Questo è dovuto al fatto che l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e quando si determina improvvisamente il rigurgito l’aumento del volume atriale si realizza solo attraverso un importante incremento della sua pressione endocavitaria (Figura 3). Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento del rigurgito. Va detto però che l’elevata pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare, provocando rapida congestione fino all’edema.Nell’insufficienza mitralica acuta la curva pressoria atriale sinistra o dei capillari polmonari (stima indiretta della pressione atriale sinistra), mostra un’onda v prominente, la quale riflette l’aumentato riempimento atriale sinistro che si realizza, in modo del tutto anomalo, durante la sistole ventricolare (Figura 3). Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo accomoda il sovraccarico volumetrico grazie al meccanismo di Starling, come sopra accennato. L’aumento di volume ventricolare genera un aumento compensatorio della gittata sistolica, in modo da far sì che alla fine della sistole il volume ventricolare sinistro si mantenga entro valori normali, almeno fino a che il cuore mantiene il compenso, oltre ad un incremento delle pressioni di riempimento. Lo svuotamento sistolico del cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore stesso può “sfiatare” in una cavità a bassa impedenza, e cioè l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta dall’aorta.Diversamente che nella forma acuta, lo sviluppo graduale dell’insufficienza mitralica cronica consente all’atrio sinistro di andare incontro a modificazioni compensatorie che attenuano l’effetto del rigurgito sul circolo polmonare. La compliance atriale, infatti, aumenta grazie alla proliferazione parietale, e consente all’atrio di accogliere un volume aumentato di sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo l’effetto sulla pressione polmonare viene ad essere in parte neutralizzato, benché l’atrio rischi di diventare una sorta di serbatoio a bassa pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di cronicizzazione, con l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente ano da quelli dettati dalla congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione dell’atrio predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale.Nell’insufficienza mitralica cronica anche il ventricolo, così come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al sovraccarico di volume. Rispetto all’insufficienza
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mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare accomoda il sovraccarico volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso degli anni, però il sovraccarico cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la comparsa, in fase terminale, di un quadro di insufficienza ventricolare sinistra.
SINTOMI I pazienti con insufficienza mitralica acuta si presentano generalmente con sintomi di congestione polmonare. I sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente quelli della bassa portata, particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere lamentano dispnea fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna. Nell’insufficienza mitralica cronica grave possono comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra. SEGNI CLINICI Nell’insufficienza mitralica, l’ascoltazione del cuore rivela un soffio olosistolico apicale (soffio da rigurgito, Figura 4) che si irradia generalmente all’ascella sinistra, anche se questa regola riconosce molte eccezioni. Oltre al soffio sistolico, la presenza di un III tono è frequente nell’insufficienza mitralica rilevante, così come il poter palpare un itto lateralizzato a causa dell’ingrandimento cardiaco. DIAGNOSTICA STRUMENTALE L’ECG tipicamente dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro ed ipertrofia ventricolare sinistra (vedi Capitolo 3); anche la radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e a volte rivela calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza mitralica e graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (ECO 06), ed anche mettere in luce sia la dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari. Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per graduarne la severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella curva di pressione atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance dell’atrio (Figura 3). PROLASSO VALVOLARE MITRALICO Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria nell’ambito di un disordine autosomico dominante o può verificarsi come manifestazione cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta una condizione frequentemente asintomatica, ma che talora può accompagnarsi a precordialgie e cardiopalmo. Viene identificato anche con il termine della sindrome del click e del soffio mesotelesistolico. L’apparato valvolare ridondante, messo in tensione dalla sistole ventricolare, è responsabile del click (Figura 5), mentre l’incontinenza della valvola è causa del soffio che caratteristicamente occupa la mesotelesistole. Tra le indagini strumentali è l’ecocardiografia la diagnostica più importante, e può evidenziare la ridondanza di uno od entrambi i lembi valvolari, che prolassano in atrio sinistro durante la mesotelesistole. A poco serve invece l’elettrocardiogramma, che risulta, così come la radiografia del torace, sostanzialmente normale, a parte l’eventuale presenza di battiti ectopici e/o, se l’insufficienza mitralica è importante, dei segni di ingrandimento atriale e ventricolare sinistro. Il decorso clinico è sostanzialmente benigno, giacché la condizione non richiede trattamento specifico, a parte la necessità della profilassi dell’endocardite batterica in caso di prolasso con rigurgito significativo od in presenza di strutture valvolari e cordali particolarmente ridondanti ed ispessite. Tra le complicanze, oltre alla già citata infezione della valvola, va segnalata la possibile rottura di una o più corde, con il generarsi di una insufficienza mitralica acuta, ed il rischio tromboembolico, legato alla deposizione di piastrine sulla superficie valvolare. Da ultimo va ricordata la possibile presenza di manifestazioni aritmiche, che raramente mostrano carattere di malignità. CENNI DI TERAPIA La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento come nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di una forma cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee. Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda, attenuando i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i vasodilatatori trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori, come gli inibitori del sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi caratterizzati da un concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta. L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al cronico, inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico di volume. La chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni dai primi impianti valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza mitralica rimane una tra le
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decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante è l’atteggiamento chirurgico conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando molti dei problemi propri delle protesi valvolari (vedi Capitolo 62). Nei pazienti così trattati la sopravvivenza postoperatoria appare nettamente migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento riparativo appare particolarmente indicato per i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola, mentre l’intervento sostitutivo trova indicazione principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa e non suscettibile di riparazione.
Capitolo 16 STENOSI AORTICA sco Pizzuto, sco Romeo DEFINIZIONE La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici che colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del ventricolo sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si instauri fra il ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso anterogrado. Come conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad ipertrofia. EZIOLOGIA La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o acquisita; anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a volte da un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 1). La bicuspidia aortica è presente nel 2% della popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro. I lembi valvolari anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può provocare una fibrosi valvolare, con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola a tre cuspidi può andare incontro a processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a processi degenerativi: la stenosi aortica degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le commissure (Figura 2). L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e delle cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi di noduli calcifici che riducono l’orificio (Figura 3). FISIOPATOLOGIA Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo sinistro. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica nel ventricolo sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo sinistro ed aorta, definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 4). L’area valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce a meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un aumento più o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità ventricolare non si dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione, come nella stenosi aortica, è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo” all’interno della fibra, per cui questa aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il sovraccarico di volume quale si realizza, per esempio, nell’insufficienza aortica, induce un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in serie” e la fibrocellula si allunga anziché ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al ventricolo sinistro di compiere un maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di parete. Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la formula: omega=Pr/2h. Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento della pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il meccanismo di compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:
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l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;
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l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata compressione sui vasi coronarici;
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la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal contributo della sistole atriale.
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Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:
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un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;
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un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione polmonare fino all’edema polmonare. QUADRO CLINICO Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso cardiaco), angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il peggioramento è progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti con sincope e 5 anni in quelli con angina. Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia, venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente durante sforzo (per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la conseguenza di aritmie. Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un flusso aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed aorta. L’ascoltazione rivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla linea marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso del flusso. DIAGNOSTICA STRUMENTALE Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine sinistro dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del primo arco di destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta il test diagnostico non invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno elettrocardiografico principale è l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con stenosi aortica severa (Figura 5). L'ecocardiogramma integrato (M-mode, bidimensionale e Doppler) rappresenta il test diagnostico non invasivo più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi aortica (Figura 6). Permette, infatti, di quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità del gradiente transvalvolare aortico e l'area valvolare (ecocardiografia Doppler). Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e quantizzare la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia, l'introduzione dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio invasivo per la valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure quando è possibile effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o impianto percutaneo di una protesi valvolare). CENNI DI TERAPIA I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la terapia è chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o biologica (vedi Capitolo 62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite cateterismo cardiaco) è ancora in fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al momento attuale viene riservata soltanto a quei pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non possono essere sottoposti all’intervento chirurgico.
Capitolo 17 INSUFFICIENZA AORTICA Corrado Vassanelli DEFINIZIONE
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L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei lembi valvolari, delle strutture di o (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole. EZIOLOGIA ED ANATOMIA PATOLOGICA L'insufficienza aortica può essere provocata da anomalie congenite dei lembi (valvola aortica bicuspide, stenosi subaortica con difetto del setto interventricolare e prolasso di una cuspide), oppure da alterazioni di origine infiammatoria o degenerativa, fra cui quelle determinate dalla malattia reumatica (Figura 1), dall'endocardite infettiva (Figura 2) o dalle malattie del connettivo. I lembi valvolari, inoltre, possono essere danneggiati da traumi chiusi della parete del torace o da lesioni da getto conseguenti a stenosi subaortica dinamica o fissa. Le patologie dell'annulus o della radice aortica comprendono la dilatazione idiopatica della radice aortica, l'ectasia annuloaortica, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos, l'osteogenesi imperfetta, la dissezione aortica, l'aortite luetica, e varie malattie del connettivo, fra cui la spondilite anchilosante. Una valvola aortica bicuspide si accompagna spesso a dilatazione della radice aortica e a conseguente insufficienza (Tabella I). Una causa non infrequente della malattia è la degenerazione strutturale di una bioprotesi valvolare. L'insufficienza aortica cronica grave, di qualsiasi eziologia, può provocare dilatazione della radice aortica, che esita in progressivo peggioramento del rigurgito valvolare. Le cause più frequenti di insufficienza aortica acuta (più rara, ma a prognosi peggiore) sono l'endocardite infettiva, la dissezione aortica o un trauma chiuso del torace. FISIOPATOLOGIA Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca lentamente nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito diastolico va a sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha avuto il tempo per adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la pressione telediastolica ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare non è in grado di dilatarsi in modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica anterograda. La tachicardia riflessa, che si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti possono andare incontro a edema polmonare o shock cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il rigurgito consegue a dissezione aortica in pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi aortica preesistente. Questi pazienti possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché si riduce la pressione di perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione telediastolica ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica. Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione. Il ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è conseguenza della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi precoci, il ventricolo sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i sarcomeri si allineano in serie ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di contrazione, in accordo alla legge di Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione sistolica. L'ipertensione sistolica può contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo sinistro può produrre una grave disfunzione ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e dalla fibrosi. SINTOMI I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per cui l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto. I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona tolleranza allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo, astenia e talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a causa della percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di malattia coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare angina pectoris, soprattutto nelle ore notturne. SEGNI CLINICI L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia. La pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra, mentre la pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso retrogrado verso il ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in assenza di scompenso cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica non è <70 mm Hg.
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Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione che sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra rispetto al normale. Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica cade, il soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha timbro dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua intensità è massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa olodiastolico. Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica ventricolare sinistra e il rapido calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il soffio torna ad accorciarsi. Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente a causa del rapido equilibrio tra le pressioni aortica e ventricolare sinistra. Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso anterogrado, che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B). Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide DIAGNOSTICA STRUMENTALE L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni precordiali sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi Capitolo 3). La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta ascendente e dell'arco aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”. L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e stimare la gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la funzione del ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono raramente necessari, soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non può essere fatta altrimenti o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia coronarica. CENNI DI TERAPIA In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il sovraccarico improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente poiché la terapia medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado peggiorano l'ipotensione, l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la pressione aumentano le resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito. La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza aortica cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una ulteriore riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia medica è quindi quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare la funzione del ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori o calcio-antagonisti diidropiridinici (vedi Capitolo 57). Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare ) è indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono essere escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I migliori risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55 mm e che la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%. In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere associata la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.
Capitolo 19 MALATTIE DELLA TRICUSPIDE E DELLA POLMONARE Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio STENOSI TRICUSPIDALE Definizione. La stenosi tricuspidale consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un ostacolo al aggio del sangue dall’atrio al ventricolo destro. Si viene, perciò, a creare un gradiente di pressione tra atrio e ventricolo, e l’aumento della pressione atriale determina una dilatazione dell’atrio destro. Eziologia ed anatomia patologica. La stenosi tricuspidale riconosce varie cause ma la più frequente è la malattiareumatica (vedi Capitolo 13), una sindrome infiammatoria acuta sistemica che coinvolge l’endocardio
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valvolare. In genere la malattia tricuspidale non è isolata ma si associa ad una valvulopatia mitralica ed aortica. Gli esiti sono la fibrosi e la retrazione delle strutture coinvolte. Il quadro anatomo-patologico ricorda quello della stenosi mitralica con fibrosi e retrazione delle cuspidi valvolari, fusione delle commissure e delle corde tendinee. I tumori dell’atrio destro, se di cospicue dimensioni, possono provocare un’ostruzione al flusso trans-valvolare e simulare una stenosi tricuspidale. In questi casi la stenosi è “funzionale”, cioè non sono presenti alterazioni dell’anatomia valvolare. La sindrome da carcinoide (vedi oltre) può determinare una stenosi tricuspidale anche se, in genere, è causa di insufficienza valvolare. Fisiopatologia. La riduzione dell’area valvolare tricuspidale ostacola il riempimento ventricolare destro, che tende ad essere mantenuto normale da un aumento della pressione atriale destra. Data l’assenza di valvole tra vene cave e atrio, l’incremento della pressione atriale si ripercuote immediatamente sul circolo cavale, determinando un’ipertensione venosa sistemica. Sintomi e segni clinici.La stenosi tricuspidale è in genere ben tollerata: frequentemente i pazienti adulti sono asintomatici e la patologia viene identificata esclusivamente in base ai reperti ascoltatori. L’esame obiettivo evidenzia i segni dell’ipertensione venosa sistemica: edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite. L’ascoltazione cardiaca è simile a quella della stenosi mitralica, caratterizzata da schiocco d’apertura e da rullio diastolico tricuspidale (vedi Capitolo 2). A differenza di quanto si verifica nella stenosi mitralica, i reperti acustici si ascoltano in corrispondenza del focolaio tricuspidale (IV spazio intercostale lungo la margino-sternale destra) e si accentuano durante l’inspirazione profonda (segno di Rivero-Carvallo). Quest’ultima caratteristica consegue all’aumento del ritorno venoso indotto dall’inspirazione: durante tale fase, l’incrementato aggio di sangue attraverso la valvola induce un aumento del gradiente trensvalvolare e quindi del rullio. Altro reperto obiettivo importante è la pulsazione della vena giugulare, soprattutto a destra, per la presenza di un’ampia onda “a” che corrisponde alla sistole atriale (vedi Capitolo 2). Diagnostica strumentale ECG: All’esame elettrocardiografico l’ingrandimento atriale destro si evidenzia per la presenza di onde P ampie e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF e V1 (vedi Capitolo 3); quando l’atriomegalia diventa severa, insorge la fibrillazione atriale. Rx torace: L’esame radiologico del torace evidenzia una marcata atriomegalia con prominenza del profilo cardiaco destro (secondo arco). Diversamente da quanto si osserva nella stenosi mitralica, il tronco polmonare è di normali dimensioni e non vi sono segni di congestione polmonare. Ecocardiografia: L’esame bidimensionale transtoracico consente un accurato studio anatomo-funzionale dell’apparato valvolare tricuspidale. Valuta lo spessore dei lembi, la ridotta motilità valvolare, l’ispessimento e la retrazione delle corde tendinee e la dilatazione dell’atrio destro. L’esame color-Doppler consente di definire la presenza e l’entità della stenosi valvolare attraverso la valutazione del gradiente pressorio tra atrio e ventricolo destro e le variazioni del gradiente durante l’inspirazione profonda. Un gradiente medio superiore a 5 mmHg identifica una stenosi valvolare di severa entità. Cateterismo cardiaco: Poiché lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevata sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a pochi casi. Cenni di Terapia. Il trattamento del vizio valvolare è influenzato sia dall’eziologia che dalla gravità della valvulopatia: se questa è secondaria (per esempio ad endocardite infettiva o sindrome da carcinoide) deve essere trattata la patologia di base. Se la stenosi tricuspidale ha eziologia reumatica generalmente si associa ad una valvulopatia mitralica, per cui l’intervento chirurgico è volto principalmente alla sostituzione valvolare mitralica ed alla riparazione tricuspidale (vedi Capitolo 63). Nei casi in cui la valvola tricuspide sia particolarmente compromessa e le corde tendinee retratte è possibile dover ricorrere alla sostituzione tricuspidale. INSUFFICIENZA TRICUSPIDALE Definizione. L’insufficienza tricuspidale è caratterizzata dalla incapacità dei lembi valvolari a collabire fra loro, per occludere completamente l’ostio valvolare quando il ventricolo si contrae. Si verifica, di conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dal ventricolo all’atrio destro durante la sistole. Eziologia e anatomia patologica. L’insufficienza tricuspidale è, al contrario della stenosi, una patologia frequente, determinata da numerose cause: la più frequente è la dilatazione del ventricolo destro e dell’anello tricuspidale. Questo tipo di valvulopatia è “funzionale”, poiché i lembi valvolari sono morfologicamente integri, e si instaura anche per lievi dilatazioni, dal momento che l’area di coaptazione dei lembi tricuspidali è molto più limitata di quella che si osserva per la valvola mitrale. Queste forme sono più spesso la conseguenza di ipertensione polmonare primitiva o valvulopatie mitro-aortiche, cuore polmonare ed infarto ventricolare destro. La causa più frequente di insufficienza tricuspidale organica è l’endocardite, che può essere infettiva o non infettiva.L’endocardite infettiva del cuore destro si riscontra principalmente nei tossico-dipendenti, nei portatori di shunt sinistro-destro (es. fistole, dialisi) e, molto più raramente, nei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco (vedi Capitolo34). Gli agenti microbici principali sono gli stafilococchi, i gonococchi, i funghi. È patognomonica la presenza di vegetazioni di consistenza friabile, composte da microorganismi e detriti trombotici. Le lesioni possono complicarsi con perforazioni ed erosioni dei lembi valvolari o ascessi anulari.
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L’endocardite non infettiva si può riscontrare in corso di Lupus Eritematoso Sistemico (endocardite di LibmanSachs) ed è di tipo trombotico-abatterico. Essa è caratterizzata dalla deposizione di piccole masserelle sterili, costituite da fibrina e da altri elementi del sangue, su lembi valvolari in genere indenni. Altra causa di insufficienza tricuspidale è rappresentata dalla sindrome da carcinoide: questa condizione è secondaria alla produzione di sostanze serotoninergiche da parte di tumori carcinoidi che favoriscono la comparsa di ispessimenti localizzati di endocardio murale e valvolare (placche carcinoidi), con conseguente alterazione della morfologia valvolare. Quadri anatomo-patologici simili alla sindrome da carcinoide associati ad insufficienza tricuspidale possono essere indotti da assunzione di una grande varietà di farmaci e tossici che fungono da agonisti serotoninergici, condividendo quindi con la sindrome da carcinoide non solo il quadro anatomo-patologico ma anche il meccanismo eziopatogenetico. Tra queste sostanze annoveriamo derivati dall’amfetamina quali farmaci anoressizzanti (fenfluoramina e fentermina), ormai ritenuti pericolosi e quindi non più in uso, agenti tossici (ecstasy e metilendiossimetamfetamina o MDMA), ma anche farmaci dopaminergici comunemente utilizzati per il trattamento del morbo di Parkinson (pergolide e cabergolina) e dell’emicrania (metisergide ed ergotamina). Fungendo da agonisti della serotonina e stimolando in particolare i recettori 5HT 2b, queste sostanze, attraverso l’attivazione di protein-chinasi, indurrebbero un’inappropriata stimolazione mitogenica a livello valvolare (“overgrowth valvulopathy”) che esiterebbe nella formazione di placche morfologicamente indistinguibili da quelle che caratterizzano la sindrome da carcinoide. Cause più rare di insufficienza tricuspidale con alterazioni anatomiche valvolari sono i traumi toracici e i tumoricardiaci; vi sono anche forme iatrogene secondarie ad impianto di pacemaker o defibrillatore cardiaco. Infine, il prolasso valvolare tricuspidale e la disfunzione dei muscoli papillari del ventricolo destro possono indurre insufficienza tricuspidale con le stesse modificazioni anatomiche e meccanismi eziopatogenetici riconosciuti per la valvola mitrale ed il ventricolo sinistro. Fisiopatologia. Il rigurgito di sangue in atrio destro durante la sistole ventricolare provoca aumento della pressione atriale e dilatazione dell’atrio. Come nella stenosi tricuspidale, l’ipertensione atriale destra si ripercuote immediatamente a monte, nel circolo cavale, instaurando una congestione venosa sistemica fino a determinare, nelle forme severe, un’inversione del flusso venoso. Sintomi e segni clinici. Le insufficienze valvolari del cuore destro sono in genere ben tollerate fino ad una fase avanzata, e diventano clinicamente manifeste solo in presenza di ridotta portata cardiaca o di ipertensione polmonare. Il quadro clinico è caratterizzato dai segni di congestione sistemica quali astenia, facile affaticabilità, calo ponderale; si associano inoltre i sintomi e i segni di stasi venosa del sistema portale quali senso di peso addominale, nausea, vomito, ascite ed epatomegalia dolente e, in caso di scompenso ventricolare destro, da tutti i segni e sintomi ad esso correlati. Nell’insufficienza tricuspidale si apprezza alla palpazione il margine debordante del fegato, con pulsazione epatica. Il polso venoso giugulare presenta un’ampia onda “a” sistolica. La pulsazione (analogo dell’onda v al flebogramma) dipende dal rigurgito sistolico in atrio destro che inverte il flusso nella vene cave. All’ascoltazione, sulla margino-sternale destra lungo il IV spazio intercostale, si rileva un soffio olosistolico dolce, ad alta frequenza, che si accentua con l’inspirazione per aumento del ritorno venoso (segno di RiveroCarvallo). Spesso sono udibili un terzo tono destro e, se è presente ipertensione polmonare, un’accentuazione della componente polmonare del secondo tono. Diagnosi strumentale ECG: Non sono presenti peculiarità del tracciato elettrocardiografico, ma è possibile a volte rilevare segni di ingrandimento atriale destro, ipertrofia ventricolare destra o blocco di branca destra. Spesso è presente fibrillazione atriale. Rx torace: L’esame radiologico del torace mostra una cardiomegalia con accentuazione del secondo arco destro del cuore (da dilatazione atriale destra). Ecocardiografia: L’indagine bidimensionale consente uno studio accurato della morfologia della tricuspide, evidenzia la dilatazione dell’atrio e del ventricolo di destra, valuta la contrattilità del ventricolo destro e l’eventuale movimento paradosso del setto interventricolare, espressione del sovraccarico di volume del ventricolo destro. Segni di ridotta funzione ventricolare sono rappresentati da una riduzione dell’escursione dell’anello tricuspidale (TAPSE), della frazione di eiezione ventricolare destra, e dalla riduzione dell’ampiezza dell’onda sistolica (S’) dell’anello tricuspidale al Tissue Doppler Imaging (Vedi Capitolo 4). Il color-Doppler permette di effettuare la stima dell’entità del rigurgito tricuspidale (ECO 24) e di valutare la pressione in arteria polmonare, (Figura 1). Cateterismo cardiaco: Attualmente lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevate sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, per cui il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a quei pochi casi in cui l’indagine ultrasonografica non risulta di qualità tecnica sufficiente. Cenni di Terapia. Per l’insufficienza tricuspidale non è frequente il ricorso al trattamento chirurgico. Tuttavia, se il vizio valvolare è importante è possibile ricorrere alla valvuloplastica tricuspidale nei casi di insufficienza tricuspidale funzionale, mentre gravi alterazioni dell’anatomia tricuspidale necessitano di sostituzione della valvola. STENOSI POLMONARE
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Definizione. La stenosi polmonare consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un ostacolo al aggio del sangue dal ventricolo destro all’arteria polmonare. Eziologia e anatomia patologica. La stenosi polmonare è quasi esclusivamente una malattia congenita (Patologia57) e solo eccezionalmente può riconoscere come causa la malattia reumatica o la sindrome da carcinoide. A volte può essere un reperto isolato ma, più spesso, fa parte di cardiopatie congenite complesse quali la tetralogia di Fallot (vedi Capitolo 52). I lembi valvolari sono fibrotici, ispessiti ed a superficie liscia e regolare. Fisiopatologia. Il restringimento dell’orifizio valvolare polmonare determina un gradiente ventricolo-arterioso; l’incremento dei valori pressori in ventricolo destro induce ipertrofia ventricolare. Con l’andar del tempo, l’aumento della pressione ventricolare si ripercuote per via retrograda a livello atriale ed al circolo cavale, determinando infine un ostacolo al ritorno venoso sistemico. Sintomi e segni clinici. La stenosi isolata della polmonare è una valvulopatia ben tollerata e asintomatica o paucisintomatica. La diagnosi viene sospettata dalla presenza di un soffio sistolico da eiezione in area polmonare. Diagnosi strumentale.ECG: Il tracciato elettrocardiografico presenta di solito un quadro di ipertrofia del ventricolo destro, e spesso anche di ingrandimento dell’atrio destro (ECG 04). Ecocardiografia: L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica più utilizzata per la diagnosi di stenosi polmonare. All’esame bidimensionale è possibile rilevare la presenza di un anello polmonare di dimensioni minori di quello aortico, i lembi valvolari sono ispessiti ed ipomobili con movimento di apertura a “cupola” (doming). Se la stenosi è severa si riscontra dilatazione post-stenotica dell’arteria polmonare ed ipertrofia del tratto di efflusso ventricolare destro. Al color-Doppler è possibile determinare il gradiente ventricolo-arterioso e graduare la severità della valvulopatia. Cenni di Terapia. La valvuloplastica polmonare con palloncino (vedi Capitolo 52) è la tecnica più utilizzata per la correzione di questa valvulopatia (Figura 13/52). Il ricorso all’intervento chirurgico è giustificato solo se la stenosi polmonare è severa o quando fa parte di una cardiopatia congenita complessa (es. tetralogia di Fallot). INSUFFICIENZA POLMONARE Definizione L’insufficienza polmonare è caratterizzata dalla incapacità delle cuspidi valvolari a collabire sufficientemente durante la diastole, per cui si verifica un rigurgito di sangue dall’arteria polmonare al ventricolo destro. Eziologia e anatomia patologica L’insufficienza polmonare è, di solito, secondaria a dilatazione dell’anello polmonare provocata dall’ipertensione polmonare; solo eccezionalmente viene indotta da endocardite infettiva o malattia da carcinoide. Nella forma secondaria a dilatazione dell’anello la morfologia della valvola è normale. Fisiopatologia Nell’insufficienza polmonare il rigurgito di sangue provoca sovraccarico di volume e dilatazione del ventricolo destro, che va incontro ad ipertrofia eccentrica. Il vizio valvolare può essere ben tollerato anche per molti anni. Segni clinici Il rigurgito provoca un soffio diastolico che inizia subito dopo la componente polmonare del II tono e termina, abitualmente, in mesodiastole. Il soffio è ad alta tonalità, di timbro alitante e in decrescendo, si percepisce meglio nella regione parasternale, tra il II ed il IV spazio intercostale, e aumenta di intensità durante l’inspirazione. In caso di coesistenza di ipertensione polmonare, associata ad insufficienza tricuspidale e/o polmonare, è possibile apprezzare altri segni quali un rinforzo della componente polmonare del II tono, un tono di eiezione polmonare e un soffio sistolico di accompagnamento. Quando il ventricolo destro si dilata è possibile palpare un itto iperdinamico. Diagnosi strumentale ECG: In genere l’ECG risulta normale ma, se l’insufficienza è significativa, sono presenti i segni del sovraccarico di volume del ventricolo destro fino al blocco di branca destro. Ecocardiogramma: La tecnica bidimensionale consente di visualizzare la dilatazione del ventricolo destro e la vivacità della cinesi ventricolare destra. Il color-Doppler consente di visualizzare il rigurgito polmonare e graduare l’entità dell’insufficienza. Terapia In genere l’insufficienza polmonare è una valvulopatia ben tollerata e non è necessario ricorrere a correzione chirurgica.
Sezione IV. Scompenso Cardiaco Capitolo 19 FISIOPATOLOGIA DELLO SCOMPENSO CARDIACO Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali
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DEFINIZIONE Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco come una sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di riempimento ventricolari. La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco come una sindrome caratterizzata dai seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o astenia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di una disfunzione cardiaca sistolica e/o diastolica. L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunque determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione miocardica, nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatoria. EPIDEMIOLOGIA A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia. CAUSE Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco. Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica. Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco. MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità. Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della forza di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico così che le variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata cardiaca. Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress sistolico, ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è direttamente proporzionale al raggio ed alla pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore parietale (legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico. La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non comporta alterazioni della potata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate richieste dei tessuti periferici con
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insufficiente incremento della contrattilità e della portata cardiaca ed aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari. Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità. Ipertrofia Miocardica L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per esempio, rigurgito mitralico oppure aortico). Il ruolo svolto dall'ipertrofia miocardica nella patogenesi dello scompenso cardiaco è tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio intermedio tra un qualsiasi danno miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica. Tuttavia, nonostante numerose dimostrazioni sperimentali, pochi studi clinici sono stati finora in grado di confermare questa ipotesi. L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del numero dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un sovraccarico pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore rispetto al numero dei capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura maggiore rispetto ai mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di ossigeno e di energia. L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e substrati alle cellule miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi. Accelerata morte cellulare Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti possibile rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza sindrome coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico e della pressione telediastolica ventricolare. Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità. Alterato rapporto fra le isoforme della miosina Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida, ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a bassa attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-MHC. Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante. Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione ossidativa e nel trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (). Il rapporto /ATP è un indice della disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti. Alterato metabolismo del calcio Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i principali fattori responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente. Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue una compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con conseguente riduzione della contrattilità. Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole.
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Fibrosi interstiziale A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I, più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile. La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore insufficiente. ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili. Attivazione simpato-adrenergica I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un'aumentata eliminazione urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L'incremento dell'attività simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e cardiaco; qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale. L'attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell'evoluzione dello scompenso, ed è già presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché all'aumento dell'attività simpatica è associata la riduzione di quella parasimpatica. L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto estremamente favorevole sulla prognosi della terapia beta-bloccante. Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40. Ciò causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti.. La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA). Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno. Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione del sistema reninaangiotensina. Sistema renina angiotensina aldosterone L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave compromissione emodinamica e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II sulla prognosi. I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica, aumento del postcarico e calo della gittata sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi). L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi. Vasopressina Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che quella di renina, aldosterone o norepinefrina. La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2 provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.
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Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti della vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza. Fattori natriuretici La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai vasi periferici. La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento N-terminale (NTproBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio. L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con socmpenso cardiaco. I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale equilibrio idrosalino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-angiotensina-aldosterone.
Prostaglandine Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei pazienti con scompenso cardiaco.
Ossido nitrico L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della vasodilatazione NOdipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco.
Endotelina Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce. Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la prognosi dei pazienti con scompenso acuto.
Stress ossidativo Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi.
Citochine I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei pazienti. RITENZIONE IDRO-SALINA ED AUMENTO DEL PRECARICO
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La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi fondamentali: le modificazioni dell'emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale. Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca con riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una relativa conservazione della filtrazione glomerulare, con aumento della frazione di filtrazione. Infatti, l'angiotensina II determina una vasocostrizione maggiore nell'arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all'interno dei capillari glomerulari aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura minore rispetto al flusso plasmatico renale, e la frazione di filtrazione aumenta. Ritenzione idrico-salina La riduzione del flusso plasmatico renale e l'aumento della frazione di filtrazione determinano ipoperfusione dei capillari peritubulari, con conseguente calo della pressione idrostatica ed aumento della concentrazione di proteine e della pressione oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio tra pressione idrostatica ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior riassorbimento di sodio cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico. L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina anche con altri meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del flusso ematico intrarenale dai nefroni corticali e quelli iuxtamidollari, dotati di più lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior riassorbimento salino. L’angiotensina II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di sodio, in scambio con il potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la vasopressina rende permeabile all’acqua il tubulo collettore e favorisce il riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua può verificarsi in misura maggiore del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione. La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso. Modificazione del precarico La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso il meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di precarico (vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento dello stress parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo miocardico di ossigeno. VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA ED AUMENTO DEL POSTCARICO Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, etc). Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance delle grosse e medie arterie. Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in presenza di incremento del postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime variazioni dello stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco. RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco. Fattori emodinamici La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della compromissione emodinamica del paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato con la capacità funzionale. La risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente correlata con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata soprattutto con gli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca, indice di lavoro del ventricolo sinistro). Flusso ematico muscolare scheletrico Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità dilatatrice dei vasi della muscolatura scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si venga a trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo. A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia l'attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine). Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica
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Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso ematico durante sforzo. In questi pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale responsabile della ridotta capacità funzionale. In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche (ipotrofia, fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione degli enzimi responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi anaerobia). Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della muscolatura scheletrica possono essere considerate come il risultato di un processo di decondizionamento muscolare. L’importanza di questo meccanismo è dimostrata dalla possibilità di ottenere un significativo miglioramento della capacità funzionale con l'allenamento fisico. Diffusione alveolo-capillare Anche la diffusione alveolo-capillare dell'ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare può determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità vitale (Vd/Vt). Risposta ventilatoria allo sforzo I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali.
Capitolo 20 QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO ACUTO sco Fedele DEFINIZIONE L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di riempimento (vedi Capitolo 19). L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza. L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici. EPIDEMIOLOGIA L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%). I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità funzionale (Figura 1), per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione. QUADRI CLINICI I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale; 2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici, correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità (Figura 2). LA DISPNEA Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca aumento del contenuto idrico
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extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna. L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione polmonare. La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali, durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco). L’EDEMA POLMONARE L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il aggio di liquido dal capillare all’interstizio e viceversa è, in condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare, che tende a far fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche, (pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista meccanico che degli scambi gassosi. La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22). Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato, madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale. L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni. La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°). La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi. I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore) unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare fino all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore). L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina. L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da insufficienza mitralica acuta. All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento. Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata la classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di congestione polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa polmonare. La
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classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa (rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi. Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue quattro gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3). Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22). DIAGNOSTICA STRUMENTALE Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio. Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del paziente. La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto sulla distribuzione del flusso polmonare. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla cardiopatia di base. L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma, che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato del flusso transmitralico (Figura 4). PRINCIPI DI TERAPIA Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il postcarico, migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5). I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida, (furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio. Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante, riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso. Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono essere di grande aiuto nella fase acuta. Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina, è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo, abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca. I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche, con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di fibrillazione atriale. Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una vasodilatazione periferica.
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Capitolo 21 QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari QUADRI CLINICI Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto didattico. La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20). Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico. Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un aumento della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare. La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda. Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed epatica. La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine di scompenso cardiaco con normale frazione d’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa. SINTOMI Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco. Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema polmonare acuto (vedi Capitolo 1). La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I). La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la compromissione della funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo. Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del precarico e congestione polmonare. Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale. Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20) Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e
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l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della portata cardiaca, varia da paziente a paziente. Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati da numerose malattie non cardiovascolari. Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale. Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea. Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale. SEGNI CLINICI La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico. Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica. Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono. Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca. Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare. Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi. Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2). Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso. Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione dell’ipocondrio destro. Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali. Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca). Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine. ESAMI STRUMENTALI
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Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico, ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità di una disfunzione ventricolare . Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione polmonare ed eventuali patologie polmonari associate. Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia, glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai reperti clinici. Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc. L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone. L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale. Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone). Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco. Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli plasmatici di peptici natriuretici. Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra, misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare sistolica. La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo flusso trans mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave (vedi capitolo 4). Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni (es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco. Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale, dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi Capitolo 7).. E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore automatico. Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante. Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia miocardica. Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione prognostica. (vedi Capitolo 9)
PRINCIPI DI TERAPIA Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi (riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc) e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione cardiaca. Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del sistema reninaangiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale. ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi controllati
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con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle aritmie. Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata dimostrata in pazienti con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla IV), dovuta a cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra, già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno dimostrato una riduzione della mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco ed un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo. Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al betabloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza, morbilità e classe funzionale. Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico e dei pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di intolleranza a questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per scompenso. Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce l'attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il paziente con scompenso cardiaco. I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da quello diuretico (vedi sopra). Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in particolare quelle per scompenso cardiaco. Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati, per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici, nei casi con cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie. L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.
Sezione V. Lo shock cardiogeno Capitolo 23 LO SHOCK CARDIOGENO Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno DEFINIZIONE Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con ipossia causata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura ischemica, in presenza di una deguato volume intravascolare. Questa situazione di ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui consegue il rapido ripristino di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e una forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero e proprio. I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:
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•
pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla somministrazione
di liquidi endovena;
• • • •
segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria; diuresi oraria inferiore a 20 ml; indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2; pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg).
EPIDEMIOLOGIA Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo l’infarto miocardico. L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI). Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie, bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%. EZIOLOGIA Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni (Tabella I):
•
deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può derivare dalla
compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause principali di questa situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in pazienti con preesistente compromissione del ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro, sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta;
• • •
difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a: cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva; cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata.
FISIOPATOLOGIA La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori (i principali sono quelli del seno carotideo e del seno aortico), determinando:
•
vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema nervoso
simpatico;
•
aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.
La caduta della pressione sistemica induce:
•
aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla biforcazione
delle carotidi), determinando:
• • •
iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue; tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto dall’iperventilazione); aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e venosa;
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•
attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione sistemica,
con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi. Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata pressione telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli scambi gassosi polmonari. La conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare (Figura 1). Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce, attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della funzione cardiaca, fino alla morte (Figura 2). In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari. Si possono verificare tre condizioni:
• •
compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte e
conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra
•
shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia
miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una limitata possibilità di sopravvivenza. SINTOMI E SEGNI CLINICI A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito, astenia). Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla ridotta gittata cardiaca sono la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la marezzatura delle estremità. Queste alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2. L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento cardiaco (vedi Capitoli 2 e 32). L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare alveolare. L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare. DIAGNOSTICA STRUMENTALE
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Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di disfunzione cardiaca o di eventuali ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per esempio tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva, trombi o mixomi striali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì importante escludere altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi. L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede considerando i seguenti esami diagnostici:
•
Elettrocardiogramma:
Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.
•
Radiografia del torace
E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta.
•
Esami ematochimici
La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso (emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente dannosi sul miocardio. 4. Ecocardiogramma Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici. 5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro. L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello di una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz, vedi Capitolo 11) a livello dei capillari polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata cardiaca e le pressioni di riempimento ventricolare. GESTIONE INIZIALE DEL PAZIENTE Il trattamento dello shock cardiogeno ha innanzitutto lo scopo di migliorare la funzione cardiaca. L’approccio iniziale al paziente con shock cardiogeno dovrebbe includere: Gestione delle vie aeree Il paziente in stato di shock ha spesso un diminuito livello di coscienza che lo rende incapace di proteggere adeguatamente le proprie vie aeree e di provvedere spontaneamente alla respirazione. In questi casi l’intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica sono provvedimenti obbligati. Se il paziente è ancora in grado di ventilare in maniera adeguata è comunque indispensabile
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fornirgli ossigeno ad alti flussi, utilizzando maschere, per avvicinarsi quanto più possibile al 100% di ossigeno inspirato. Reperimento di un accesso venoso Può essere un accesso venoso periferico o, meglio, un accesso venoso centrale (vena femorale, giugulare o succlavia). Attraverso questa via possono essere somministrati liquidi e farmaci. L’introduzione dei fluidi deve essere effettuata con attenzione, in modo da assicurare un adeguato precarico e ottimizzare la funzione ventricolare (specialmente in presenza di infarto ventricolare destro), evitando l’eccessiva somministrazione di liquidi, che potrebbe condurre all’edema polmonare. 3) Monitoraggio elettrocardiografico Tachicardie e blocchi atrioventricolari possono ridurre in maniera significativa la gittata cardiaca. Il loro tempestivo riconoscimento e trattamento è un elemento di estrema importanza. 4) Monitoraggio emodinamico Consente il controllo continuo della pressione di riempimento (pressione diastolica ventricolare sinistra) attraverso la misurazione della pressione atriale sinistra “indiretta”, ottenibile mediante misurazione della pressione polmonare con catetere di Swan Ganz (vedi Capitolo 11). 5)Posizionamento di un catetere vescicale E’ di estrema importanza il monitoraggio della diuresi oraria, essendo la contrazione della diuresi uno dei primi segni di bassa portata cardiaca.
CENNI DI TERAPIA Terapia farmacologica
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Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l'intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati
livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e può ridurre la pressione arteriosa.
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Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un
agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto. Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere in considerazione il aggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore arteriolare e venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la stimolazione ß-adrenergica è relativamente modesta. Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca.
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•
Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere
associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il nitroprussiato di sodio, il quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro.
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Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici più
utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per esempio, spironolattone).
o meccanico La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un o circolatorio meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare l'ECG e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l'insufflazione e la desufflazione del palloncino con il ciclo cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l'arteria femorale, e la sua punta è posizionata in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l'emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra l'origine delle arterie renali (Figura 3). Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e delle resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in shock cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in considerazione il trapianto cardiaco (Tabella II). Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto associato a una grave complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare). In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by- aorto-coronarico. Nei casi in cui, invece, lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile.
Sezione VI. Cardiopatia Ischemica Capitolo 23 FISIOPATOLOGIA DELL'ISCHEMIA MIOCARDICA Filippo Crea, Gaetano A. Lanza Parte I – Fisiologia del circolo coronarico METABOLISMO DELLE CELLULE MIOCARDICHE Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il 70% dell'ossigeno dal sangue durante il suo aggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso coronarico (Figura 1). Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno. Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del consumo miocardico di ossigeno. Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione arteriosa (PA, postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo cardiaco.
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Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico) contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento del flusso coronarico (Figura 2). Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA sistolica (doppio prodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo. LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali compartimenti, collegati in serie (Figura 3). Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente costante lungo il loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado dai vasi intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L'energia elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a garantire un adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei vasi, e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni. I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro dimensioni, questi vasi non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la vasta area del microcircolo coronarico. Dal punto di vista funzionale, le piccole arterie cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale, rappresentato dalle prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole. Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla resistenza coronarica totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di perfusione all'origine delle arteriole a livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione in caso di riduzione, della pressione arteriosa sistemica. Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa alla resistenza coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico. Per la loro posizione, infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in modo da adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno, consentendo un adeguato aumento di flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale della resistenza coronarica consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto di ossigeno, come nel caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico rispetto al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica (che è espressa matematicamente come rapporto tra flusso durante vasodilatazione massimale e flusso basale). Oltre che dallo stato metabolico delle cellule miocardiche, comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni. CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso coronarico. Forze meccaniche extravascolari Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di perfusione del suo sistema arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi intramiocardici vengono, quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole, soprattutto negli strati subendocardici, che ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole (Figura 4). Regolazione del tono vascolare coronarico I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono numerosi e possono variare nei diversi compartimenti arteriosi. a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il flusso in proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi soprattutto nelle prearteriole. b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della domanda di ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano dilatazione arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate nella regolazione del flusso coronarico, un ruolo rilevante sembra essere svolto dall'adenosina, che, con l'aumento del metabolismo energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore scissione delle molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle cellule muscolari lisce vascolari, attivando l'adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP ciclico. Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale di ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del potassio, bradichinina). L'aumento del flusso
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conseguente alla vasodilatazione arteriolare può continuare ad essere garantito grazie anche alla vasodilatazione flusso-mediata, in larga parte endotelio-dipendente, che si determina nei vasi prossimali, in particolare nelle prearteriole, come conseguenza dell’aumento della velocità di flusso. c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico. La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della resistenza coronarica tramite stimolazione dei recettori 1 2 da parte della noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni di riposo, in quanto la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso coronarico basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß1 e ß2 determina una vasodilatazione, con riduzione del 2030% della resistenza coronarica. L’effetto complessivo della stimolazione adrenergica in vivo (ad esempio, durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso coronarico. Ciò è soprattutto secondario all'aumento del consumo miocardico di ossigeno che essa determina, con conseguente vasodilatazione metabolica. Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è completamente chiaro: in vivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di ossigeno. d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l'endotelio può essere considerato come un vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47). Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e comprendono l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-derived hyperpolarizing factor (EDHF) (Figura 5, Figura 6). L'EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l'ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico (cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione dell’inibitore NGmonometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore determinando il rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali (vasodilatazione endotelio-mediata). L'EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che si ottiene in risposta all'aumento del flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata). La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina, serotonina). Sembra contribuire anch'essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata. L'EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra venire anch'esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP). Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1 (ET-1), l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali liberi dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio, ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai loro effetti negativi. L’ET-1, in particolare, è il più principali, ETA ed ETB. L’azione muscolari lisce. La stimolazione inibisce quello di ET-1, tendendo
potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO ed a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.
Integrità della parete vasale Lo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della parete vasale. Ancora una volta, è soprattutto l'endotelio a garantire questa integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze aterogene nella parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice extracellulare dell'intima (che possono riparare danni vasali), ed inibisce la crescita e la migrazione cellulare mediante la sintesi di eparan-solfato ed NO (Figura 6). L'endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in quanto il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che previene l'adesione delle piastrine e delle altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l'adesione e l'aggregazione piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività anticoagulante, come l'eparan-solfato, che catalizza l'inattivazione della trombina da parte dell'antitrombina III, e la trombomodulina, che si lega a trombina e proteina C, e sostanze in grado di attivare il plasminogeno, e quindi la fibrinolisi, come lo urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed il tissue type plasminogen activator (t-PA).
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Parte II – Meccanismi dell’ischemia miocardica DEFINIZIONE L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni. Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici, più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici. L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso coronarico per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della presenza di una stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione, spasmo o trombosi coronarica. STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a valle. Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una stenosi, tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta dalla riduzione della pressione (Figura 7). Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa ischemia, è definito soglia ischemica. L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20% superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno (Figura 8). Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare l'ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole (durante una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra). Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si verifica quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si ridistribuisce dal subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione post-stenotica, con conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente per le richieste metaboliche del subendocardio (Figura 9). Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze emodinamiche della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale a livello della stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e dalla resistenza extravascolare. In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del lume in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern anginoso caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici e vasocostrittrici. Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di una
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circolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e l'entità di una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali. TROMBOSI CORONARICA I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle sindromi coronariche acute (Figura 10). Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia, essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico. I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi, tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura, fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e, quindi, trombotica (vedi Capitolo 45). In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un trombo è probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali dell'endotelio, secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in grado di compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di adesione leucocitaria e piastrinica (attivazione dell’endotelio). Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate), infettivi (virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In anni recenti, inoltre, è stata accumulata evidenza che un'importante componente patogenetica della formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia meccanismi trombotici che vasocostrittori. Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale). Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale occlusione del vaso. Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in poco tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida crescita che causa l'occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del trombo è il frutto di una complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge anche fattori emodinamici, vasomotori e fibrinolitici. Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con angina vasospastica. SPASMO CORONARICO Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina variante di Prinzmetal (Figura 11). Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che esso risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione dei segnali che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in genere, da vari stimoli vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina, istamina) che agiscono su recettori differenti (Figura 12). DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano essere responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l'infusione intracoronarica di neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di una diffusa
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vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di un’intensa vasocostrizione microvascolare. Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in alcune condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la somministrazione di ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei vasi epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del tono dei vasi di resistenza. In pazienti con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del successo della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori (Figura 13). Alterazioni della resistenze coronariche sono state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in pazienti con cardiopatia ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie epicardiche angiograficamente normali. Infine, una disfunzione microvascolare è ritenuta essere responsabile della sindrome X cardiaca, una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali. I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in genere attribuita all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare, ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione, diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche, sono state riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica. Uno schema dei meccanismi potenzialmente coinvolti nella sindrome X è riportato nella Figura 14.
Capitolo 24 SINDROMI CORONARICHE CRONICHE Mario Marzilli DEFINIZIONE Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, termine che definisce una sindrome caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili, relativamente prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico. Meno della metà degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli attacchi ischemici è quindi silente. L’esordio dell’angina pectoris rappresenta sempre, per definizione, un momento di instabilità: successivamente la forma, se non evolve verso eventi coronarici maggiori, può entrare nella forma cosiddetta “stabile”. L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:
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come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico
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come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina. Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa, infarto miocardico) a breve e medio termine. Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La soglia del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della comparsa dei sintomi e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina, oppure può essere definita da parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di lavoro) al momento della comparsa di ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore. Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di stabilità sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza di eventi maggiori nel follow up a breve e medio termine. PATOGENESI Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di ossigeno, per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso coronarico. Pertanto l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo. L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche del miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica severa che riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente ad una placca aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etc
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In qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa. DIAGNOSI CLINICA In pazienti che si presentano con dolore toracico, una anamnesi accurata, un esame obiettivo mirato ed una valutazione dei fattori di rischio coronarico consentono, nella maggior parte dei casi, una attendibile definizione diagnostica. Il dolore anginoso Un dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura, esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete toracica. L’anamnesi rappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina pectoris. Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è frequentemente associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione lungo il lato ulnare dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le braccia ed ai polsi o al dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione all’avambraccio omolaterale. Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità entro un minuto e recede spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con la somministrazione sublinguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina sono il rapporto sessuale, gli stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una associazione di questi fattori (Figura 1). Pertanto in alcune condizioni l’attacco anginoso può manifestarsi anche indipendentemente da uno sforzo fisico. Anche se un dolore anginoso tipico si associa generalmente ad una o più stenosi coronariche, è importante tener presente che si può avere angina da sforzo anche in pazienti con valvulopatia, miocardiopatia ipertrofica, ipertensione, miocardiopatia dilatativa ed in soggetti senza evidenti anomalie miocardiche o coronariche (sindrome X). In ciascun paziente, in caso di recidiva anginosa, la sintomatologia tende a riprodursi sempre con le stesse caratteristiche di sede, irradiazione, etc, anche a distanza di molto tempo. Pur essendo la sintomatologia anginosa il cardine della diagnosi di angina, bisogna sempre tener presente che gli episodi ischemici possono manifestarsi con sintomi diversi dal dolore come dispnea e facile stancabilità, e che oltre la metà degli episodi ischemici possono essere privi di sintomi (ischemia silente). Le più comuni forme morbose da considerare in diagnosi differenziale con l’angina stabile sono: l’aneurisma dell’aorta toracica, l’ernia hiatale con esofagite da reflusso, lo spasmo o reflusso esofageo da sforzo, la distensione diaframmatica, l’ipertensione polmonare, il pneumotorace, le patologie osteo-articolari o neuromuscolari della parete toracica. Esame obiettivo L’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Si possono, tuttavia, identificare elementi che aumentano la probabilità di coronaropatia, come la presenza di vasculopatia aterosclerotica sistemica, l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo eseguito durante un episodio ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4° tono, di soffio da rigurgito mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) o di rantoli basilari che scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso. DIAGNOSI STRUMENTALE In un paziente con dolore toracico, il momento diagnostico più importante rimane l’anamnesi, che condizionerà la successiva strategia. In un uomo con fattori di rischio e storia di dolore tipico, nessuna ulteriore indagine negativa potrà ridurre significativamente la probabilità di malattia; la richiesta di indagini aggiuntive può essere giustificata dall’esigenza di completare la diagnosi di malattia con informazioni relative alla gravità, sede ed estensione della ischemia miocardica. In un paziente con bassa probabilità (donna giovane, dolore toracico atipico, assenza di fattori di rischio) un test diagnostico positivo modifica di poco la probabilità di malattia, ma può innescare una interminabile e spesso inutile serie di esami aggiuntivi. Le modificazioni transitorie dell’attività elettrica e contrattile cardiaca e della perfusione miocardica che si accompagnano ad episodi ischemici provocati in laboratorio possono essere documentate con adeguate metodologie. Questa documentazione costituisce la base della diagnosi strumentale di angina da sforzo. Metodiche strumentali per la diagnosi di angina stabile ECG basale L’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se nell’inquadramento clinico e prognostico del paziente è importante il rilievo di pregresso infarto miocardico, ipertrofia ventricolare sinistra o anomalie della ripolarizzazione ventricolare. ECG da sforzo
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L’elettrocardiografia da sforzo è la metodica diagnostica di prima scelta in quanto indagine semplice, ovunque disponibile, a basso costo, relativamente sicura. Il criterio elettrocardiografico più significativo di ischemia miocardica è rappresentato dalle modificazioni del tratto ST (vedi Capitolo 26). Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento discendente o orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm 0.08 secondi dopo il punto J. L’innalzamento del tratto ST di almeno 0.5 mm, peraltro piuttosto raro durante test ergometrico nei pazienti senza pregressa necrosi, è di solito espressione di ischemia transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il sopraslivellamento di ST da sforzo nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico per ischemia. È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non durante o al picco dello sforzo, ma in fase di recupero. ECG dinamico. La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere riservato alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione della frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non. Metodiche di imaging Stimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test al dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Questi stressor hanno dimostrato di possedere, quando associati ad un test di immagine, un’accuratezza diagnostica per malattia coronarica comparabile a quella ottenuta con test da sforzo. Un test di immagine è indicato: 1) quando il test ergometrico non è fattibile o non interpretabile o controindicato, 2) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di positività ECG ad alto carico in assenza di angor, 3) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di angor durante test ergometrico in assenza di modificazioni ECG. Coronarografia. Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di angina stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per confermare o escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace. La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia. STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA Premessa Nella stratificazione prognostica dei pazienti con angina stabile è importante tener presente che il rischio di andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi pazienti l’incidenza di morte cardiaca è stata calcolata fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno all’1% per anno. La clinica Nei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina e con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi e segni di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali, eventualmente associati allo sforzo o all’angina. La prognosi peggiora inoltre con l’età avanzata, se il paziente ha nella storia un infarto miocardico, se soffre di ipertensione arteriosa, se continua a fumare. ECG ed Ecocardiogramma di base La presenza di un ECG di base alterato è considerata segno prognostico sfavorevole. Un esame ecocardiografico in condizioni di base è utile per definire l’eventuale presenza e grado di disfunzione ventricolare sinistra, segno prognostico rilevante. ECG da sforzo Il test da sforzo rimane la modalità di valutazione più frequentemente utilizzata nella gestione del paziente ischemico. Il test, analizzato in termini quantitativi relativamente al momento di comparsa e alla entità delle alterazioni ECG, all’andamento dei parametri emodinamici e clinici rilevabili durante esercizio, consente di ottenere informazioni prognostiche sufficienti per un corretto inquadramento clinico del paziente.
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L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche il sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla presenza o assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con sottoslivellamento asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante sforzo. Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi e/o segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato. Coronarografia La prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei pazienti con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria discendente anteriore, nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra. CENNI DI TERAPIA Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non fatale). Il primo obiettivo è solitamente raggiungibile con i farmaci convenzionali. Non vi sono invece evidenze cliniche certe che essi possano influenzare favorevolmente la prognosi di questi pazienti. Per contro, il trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, tabagismo, dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e di prevenire gli eventi coronarici maggiori nel follow-up. Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego di nitrati, betabloccanti e calcioantagonisti (vedi Capitolo 57). I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e migliorano la perfusione miocardica. Ai dosaggi comunemente impiegati, la diminuzione del consumo d’ossigeno è legata prevalentemente ad una riduzione del volume ventricolare sinistro e della pressione arteriosa secondari soprattutto ad una riduzione del precarico. I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione sublinguale) e sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra. I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul cuore e sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della contrattilità miocardica, ovvero dei maggiori determinanti il consumo di ossigeno miocardico. I calcioantagonisti sono farmaci che inibiscono la contrazione delle cellule muscolari lisce attraverso il blocco dei canali lenti del Ca . Il risultato è una vasodilatazione arteriosa (sia coronarica che periferica). Gli effetti antianginosi sono principalmente legati alla vasodilatazione dei vasi coronarici epicardici e del microcircolo coronarico con riduzione delle resistenze ed aumento del flusso coronarico. L'azione vasodilatante arteriosa periferica concorre all'effetto favorevole mediante una riduzione del post-carico. Inoltre il modesto effetto cronotropo negativo di alcuni di essi (verapamil e diltiazem) è in grado di contenere il consumo di ossigeno a riposo e durante sforzo. Un’alternativa ai farmaci tradizionali è offerta da farmaci come la trimetazidina e la ranolazina, che non hanno effetti apprezzabili sul flusso coronarico nè sul consumo d’ossogeno miocardico ma modulano il metabolismo energetico della cellula miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.
Capitolo 25 SINDROMI CORONARICHE ACUTE Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone DEFINIZIONE Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica “vulnerabile” con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del flusso. In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri clinici.
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Angina instabile : ischemia miocardica acuta senza significativa necrosi miocardica.
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Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (non ST-segment elevation myocardial infarction, NSTEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica subendocardica.
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Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-segment elevation myocardial infarction, STEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica transmurale.
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SEGNI E SINTOMI Il sintomo principale è il dolore anginoso oppressivo o costrittivo. Il malato descrive in genere il dolore come una sensazione di pesantezza, di compressione, di soffocamento o di costrizione toracica. Il dolore ha tipicamente sede retrosternale, più raramente è avvertito all’epigastrio o solo nelle sedi di irradiazione (il lato ulnare dell’avambraccio sinistro, il braccio e la spalla sinistra, l’epigastrio, il collo, la mandibola, il braccio destro, il dorso). Il dolore insorge spesso a riposo, e se compare durante uno stress psico-fisico non regredisce con il cessare dell’attività. Nell’angina instabile il dolore ha di solito durata inferiore a 20 minuti; se persiste per oltre 20 minuti è verosimile che si associ anche necrosi del miocardio, cioè che si determini un infarto. Nello STEMI, in assenza della riapertura del vaso occluso, il dolore si protrae per diverse ore, con intensità variabile. La sintomatologia dolorosa si associa frequentemente a sudorazione fredda, sensazione di angoscia, nausea e vomito. Tali sintomi (detti neurovegetativi) possono essere talvolta gli unici presenti; il dolore, infatti, è assente in oltre il 30% dei casi, soprattutto nei soggetti in età avanzata e nei diabetici. Alcuni pazienti hanno una SCA in assenza di qualsiasi sintomo; in questi la malattia viene diagnosticata a posteriori mediante ECG, scintigrafia o ecografia, oppure in seguito ad una complicanza acuta, la più temibile delle quali è la morte improvvisa per fibrillazione ventricolare. ELETTROCARDIOGRAMMA L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente in base a quattro fattori principali: 1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico); 2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico); 3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo destro); 4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio: blocco di branca sinistra, preeccitazione). Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST. Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di SCA, poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale. Elettrocardiogramma nello STEMI L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG può essere sintetizzata nelle seguenti fasi (Figura 1):
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Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c). Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e). Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f). Le Figure ECG 20, ECG 21, ECG 22 riportano elettrocardiogrammi caratteristici di STEMI. Elettrocardiogramma nel NSTEMI e nell’angina instabile L’alterazione dell’ECG caratteristica in caso di angina instabile o NSTEMI è il sottoslivellamento del tratto ST >1 mm, di tipo orizzontale o discendente (ECG 18, ECG 19). Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in particolare, per essere considerata espressione di ischemia miocardica deve essere transitoria e/o associata a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel blocco di branca. Elettrocardiogramma e prognosi Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti con infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il ventricolo destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del segmento ST, maggiore è il rischio di morte per il paziente. I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui non si manifestano aritmie. MARKER DI NECROSI MIOCARDICA
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Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale, dei marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di ischemia miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche. I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero è indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la creatinchinasi. Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto muscolare, ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo scheletrico, mentre TnT e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici per il riconoscimento del danno miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi, ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore. La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB (Figura 2).
Creatinchinasi (CK). La CK è un enzima costituito da due monomeri, M e B. L’isoenzima MB è contenuto in maggior quantità nel cuore, l’isoenzima BB nel rene e nel cervello, l’isoenzima MM nel muscolo scheletrico. Il dosaggio del CK-MB è considerato patologico, quando è maggiore del 6-10% del CK totale, che a sua volta deve essere almeno il doppio del normale. La Figura 2 rappresenta le concentrazioni dei marker di miocardio-necrosi in relazione al tempo. La latticodeidrogenasi (LDH) è utile nella diagnosi di infarto miocardico, quando il paziente giunge all’osservazione tardivamente, in quanto è dosabile fino a 14 giorni dall’evento acuto. COMPLICANZE DELL’INFARTO MIOCARDICO ACUTO Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre gruppi:
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Complicanze aritmiche. Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto, o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare). Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale). COMPLICANZE ARITMICHE Le complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime ore dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei pazienti, ma nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie (tachicardia ventricolare sostenuta, fibrillazione ventricolare, blocco atrioventricolare di III grado) mettono a serio rischio la vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato. La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2. La tachicardia ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede necessariamente un trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta (vedi Capitolo 40) può degenerare in fibrillazione ventricolare. In questi casi la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta se non vi è compromissione emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in alternativa alla lidocaina si può usare l’amiodarone. La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44). Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con atropina. Il blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed il blocco atrioventricolare di III grado rappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per eseguire la stimolazione ventricolare con un pace-maker esterno.
COMPLICANZE EMODINAMICHE Insufficienza ventricolare sinistra In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può essere strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un marcato deficit di contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare mitralica provocata dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono in dispnea, tachicardia sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle basi. L’esame obiettivo consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi di Killip: la classe 1 si caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di rantoli in meno del 50% dei campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi polmonari, e i pazienti in classe 4 presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22), caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria (diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria, tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.
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Rottura del cuore Questa complicanza dell’infarto acuto può interessare la parete libera del ventricolo sinistro, il setto interventricolare o i muscoli papillari. In genere si verifica nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto, ma può avvenire anche a distanza di giorni, ed è più frequente nelle donne anziane con infarto anteriore. La rottura della parete libera provoca un emopericardio con tamponamento cardiaco (vedi Capitolo 32). Clinicamente esordisce con dolore toracico, shock cardiogeno e dissociazione elettromeccanica (persistenza per qualche minuto di un’attività elettrica ordinata e regolare in assenza di attività meccanica del cuore). Non risponde alle misure di rianimazione cardiopolmonare, e la mortalità è quasi del 100%. Raramente la rottura può determinare uno pseudoaneurisma, quando si manifesta non un emopericardio massivo ma uno stillicidio ematico nel cavo pericardico, con tendenza all’autolimitazione. La rottura del setto interventricolare è generalmente apicale ed avviene in corso di infarto antero-settale o inferoposteriore; il difetto acquisito del setto interventricolare provoca, così come accade nelle forme congenite, uno shunt sinistro-destro, poiché la pressione è maggiore nel cuore sinistro. Questa condizione provoca la comparsa di un soffio mesocardico rude accompagnato da fremito, dispnea e rapida evoluzione verso l’edema polmonare e lo shock. L’ecocardiogramma color Doppler consente di riconoscere rapidamente la perforazione settale (ECO 30). La rottura totale o parziale di un muscolo papillare determina una grave insufficienza mitralica acuta, rivelata da un soffio olosistolico puntale irradiato all'ascella (vedi Capitolo 15). Si manifesta tipicamente come un peggioramento improvviso del quadro, spesso con edema polmonare e shock. A parte la rottura, anche una disfunzione ischemica del muscolo papillare può provocare un’insufficienza mitralica. COMPLICANZE ISCHEMICHE Il paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche ad estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per esempio, aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta). Probabilmente in questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è tornata ad occludersi, provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo coronarico precedentemente non interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a coronarografia ed angioplastica. ALTRE COMPLICANZE DELL’INFARTO ACUTO Pericardite. Nell’infarto miocardico acuto si possono riscontrare due forme di interessamento pericardico: una è la conseguenza diretta della necrosi transmurale, dovuta a deposizione di fibrina all’interno del pericardio che ricopre la zona infartuale, mentre l’altra dipende da una reazione autoimmune post-infartuale (pericardite di Dressler). Nel primo caso i segni e i sintomi compaiono in 2 -6 giornata. Il paziente lamenta una ripresa del dolore toracico, che però varia con i movimenti del torace e/o gli atti respiratori, e l’ascoltazione del cuore mette in evidenza sfregamenti pericardici. L’ECG può mostrare un persistente sopraslivellamento del tratto ST in più derivazioni, l’ecocardiogramma evidenzia talvolta un versamento pericardico, in genere di lieve entità. La pericardite di Dressler si manifesta dopo 2-4 settimane dall’episodio acuto. Ai segni e sintomi sopra descritti possono associarsi febbre e versamento pleurico. Tromboembolia. In pazienti con infarto esteso, specialmente anteriore, l’acinesia della zona infartuata può favorire il formarsi di un trombo intracavitario, il quale può, a sua volta, provocare un’embolia sistemica. L’incidenza di questo evento si è drasticamente ridotta da quando si impiega la terapia anticoagulante ed antiaggregante nei pazienti con SCA. CENNI DI TERAPIA Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata. OssigenoLa somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI. Aspirina Numerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della formazione di trombossano A2. Altri anti-aggreganti Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni di terapia.
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Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel) riduce maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina. La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non tollerano l’aspirina. Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa piastrinica. Durante l’attivazione piastrinica, il recettore glicoproteico IIb/IIIa delle piastrine subisce un cambiamento di conformazione ed aumenta la propria affinità per il fibrinogeno, favorendo l'aggregazione piastrinica. Gli antagonisti dei recettori GP IIb/IIIa inibiscono l'aggregazione piastrinica per diverse ore (da 4 a 8 ore). Eparina La terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non frazionata o l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica mediante il potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e parzialmente mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto anticoagulante mediante la determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT). L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa. Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante. La combinazione di eparina e terapia anti-aggregante è un cardine della terapia delle SCA in quanto riduce significativamente gli eventi ischemici e il numero di interventi di rivascolarizzazione coronarica. Nitrati La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso al cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro ventricolare riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è direttamente correlato. La nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione arteriosa sistemica, ed anche con questo meccanismo riduce il consumo di O2. Beta-bloccanti I beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari. L'inibizione dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di scarica dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello stimolo (effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del miocardio. ACE-Inibitori Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità nei pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita concentrazione dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco cade il tono arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione del consumo di ossigeno. A livello cellulare, gli ACE-I antagonizzano gli effetti mitogeni esercitati dall'angiotensina II, responsabili, dopo un infarto miocardico, di alterazioni sfavorevoli (rimodellamento ventricolare). Calcio-antagonisti I calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di insufficienza ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed in cui è controindicato l’uso dei beta-bloccanti. Morfina Nei pazienti con STEMI i cui sintomi non sono alleviati dalla nitroglicerina, a scopo antidolorifico ed in assenza di controindicazioni quali ipotensione, è consigliata la morfina. Terapia fibrinolitica I farmaci fibrinolitici (streptochinasi, reteplase, alteplase, tenecteplase, etc.) trasformano il plasminogeno in plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con conseguente ricanalizzazione dell’arteria coronarica occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla precocità del trattamento (inizio ideale entro 2 ore), alla risposta del paziente e al farmaco utilizzato. Angioplastica primaria Sebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con o senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59). Numerose ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi in termini di
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eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il beneficio osservato. Gli svantaggi che l’angioplastica primaria offre rispetto alla trombolisi sono legati a limitazioni tecnicologistiche (non tutte le unità coronariche dispongono di una sala di emodinamica) ed economiche (la procedura è molto più costosa del trattamento medico).
Capitolo 26 DIAGNOSTICA STRUMENTALE Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi DEFINIZIONE La diagnostica strumentale della cardiopatia ischemica è basata su tutte quelle indagini che permettono di dimostrare la presenza di un’ischemia miocardica. In questo senso l’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Nel presente Capitolo vengono esaminati soltanto alcuni aspetti relativi a: 1) il riconoscimento della cardiopatia ischemica nei casi in cui questa non sia accertata, ma soltanto possibile in base ai dati clinici; 2) la valutazione del rischio di eventi maggiori (infarto miocardico, morte improvvisa) in soggetti con cardiopatia ischemica già nota. Per gli scopi suddetti vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica, in particolare il test ergometrico e l’ecostress; la scintigrafia miocardica viene trattata nel Capitolo 6. IL TEST DA SFORZO E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo; l’eventuale ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a sintomi, che si verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia miocardica assente a riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo. Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treill (tappeto rotante); nel primo caso il torace e le braccia del paziente sono relativamente stabili, permettendo di registrare una traccia elettrocardiografica senza troppi artefatti. Il test al treill, tuttavia, sarebbe preferibile perchè consente di effettuare uno sforzo più fisiologico, potendosi adattare la velocità e l’inclinazione del tappeto rotante all’agilità del paziente. Il protocollo più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un aumento di velocità e di inclinazione del tappeto ogni tre minuti. Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la frequenza massimale (220 meno l’età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza massima teorica). Il test è divenuto ormai pratica corrente perché utile nel predire il successivo andamento della malattia; un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta un’indicazione ad eseguire un esame coronarografico. I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano), il numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore anginoso e le aritmie che si manifestano durante l’esercizio. L’esercizio fisico provoca una complessa serie di eventi:
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Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata cardiaca).
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Aumenta la frequenza cardiaca.
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Aumenta la gittata sistolica.
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Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti. L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi, grazie al meccanismo di autoregolazione coronarica (vedi Capitolo 23). In condizioni di riposo, il flusso coronarico si riduce drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una stenosi del 75% non riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del consumo miocardico di O2, e fa sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale metabolismo già in presenza di una stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per diagnosticare una stenosi coronarica. INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI AL TEST DA SFORZO Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.
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Indicazioni Diagnostiche:
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- cardiopatia ischemica sospetta in base ai dati clinico-anamnestici; - pazienti con angina instabile a basso rischio (12-24 ore dall’ultimo sintomo); - pazienti con angina instabile a rischio intermedio (2-3 giorni dall’ultimo sintomo); - diagnosi differenziale in soggetti con sintomi da sforzo quali sincope, palpitazioni o vertigini; - aritmie ricorrenti durante lo sforzo; - diagnosi di ipertensione precoce borderline.
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Indicazioni prognostico-valutative: dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del rischio);
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angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by- aortocoronarico);
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nell’insufficienza cardiaca cronica;
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nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.
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Indicazioni per screening:
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follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;
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maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più fattori di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;
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ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;
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per scopi assicurativi. Sono controindicazioni all’esecuzione di un test ergometrico:
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L’infarto miocardico acuto.
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La miocardite o pericardite acuta.
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L’angina instabile.
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Le tachicardie ventricolari o atriali osservate subito prima dell’esecuzione del test.
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Il blocco AV di secondo o terzo grado.
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La stenosi severa, già nota, del tronco comune della coronaria sinistra.
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I tumori cardiaci.
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Lo scompenso cardiaco acuto.
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La sospetta embolia polmonare.
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L’ anemia severa, le infezioni gravi, l’ipertiroidismo.
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I disturbi importanti della deambulazione. Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se l’ipertensione è controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del tratto ST già in condizioni basali; gli squilibri elettrolitici. CRITERI DI INTERRUZIONE DEL TEST DA SFORZO. Il test da sforzo deve essere interrotto quando si verifica :
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Angina ingravescente.
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Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.
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Aritmie ventricolare).
minacciose
(extrasistoli
ventricolari
con
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Fibrillazione o flutter atriale.
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Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.
carattere
di
ripetitività
(coppie)
o
tachicardia
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Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).
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Dolore muscolo-scheletrico importante.
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Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).
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Estremo aumento della pressione arteriosa .
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Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età). INTERPRETAZIONE DEL TEST DA SFORZO Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di compiere lavoro muscolare, la risposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca correlato allo sforzo, la risposta pressoria, e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della frequenza cardiaca per la pressione arteriosa sistolica. L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le seguenti alterazioni:
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Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento orizzontale del tratto ST > 1mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1B). Il sottoslivellamento discendente (Figura 1C) è un indicatore più netto di positività, mentre il sottoslivellamento ascendente (Figura 1D, Figura 2) viene considerato diagnostico di ischemia in caso di depressione persistente a 80 msec.
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Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1E). L’ECO-STRESS L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il principio alla base è che l’ischemia miocardica altera l’attività meccanica del cuore: il paragone fra la cinetica ventricolare in condizioni basali (Figura 3) e quella osservata durante stress può suggerire la presenza di una stenosi coronarica, se lo stress si accompagna a un peggioramento contrattile (Figura 4). Lo stress può essere fisico (in genere effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in questo caso è possibile impiegare farmaci inotropi come la dobutamina, che aumenta il consumo miocardico di ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della contrattilità, o farmaci vasodilatatori come il dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti irrorati da coronarie sane e riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un fenomeno definito “furto coronarico”. L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-Parkinson-White) e in quelli con ECG da sforzo non dirimente. LA TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA MULTISTRATO È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia che va rapidamente estendendosi come indicazioni cliniche. Un’applicazione emergente della TC è la valutazione del paziente con dolore toracico, in particolare nella diagnosi differenziale tra sindrome coronarica acuta, dissezione aortica e trombo-embolia polmonare, nonché nella distinzione di queste dalle malattie pleuriche o polmonari. La TC è in grado di identificare le placche coronariche, specialmente quelle calcifiche, e di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni coronariche croniche, può dare informazioni sulla lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni. CARATTERISTICHE TECNICHE La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4 mm), dal loro decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento. Requisiti fondamentali ed imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del circolo coronarico sono l’elevata risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione, tale da consentire l’acquisizione dei dati durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da movimenti respiratori, e la corretta sincronizzazione delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco. Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per minuto, è possibile impiegare algoritmi multi-segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione delle immagini da cicli cardiaci contigui e non da un singolo ciclo. E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di frequenze superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os 45-60 minuti prima dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC. LIMITI ATTUALI
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Le aritmie, la capacità di apnea del paziente ed il tempo necessario per il post-processing e l’adeguata valutazione delle immagini costituiscono, sino ad ora, le principali limitazioni della TC coronarica. A tali limitazioni vanno aggiunte quelle che riguardano la valutazione del lume coronarico in caso di marcata ateromasia calcifica, e la valutazione della pervietà/stenosi dei by e delle loro anastomosi distali in caso di elevato numero di clip chirurgiche lungo il decorso dei graft arteriosi; la valutazione del lume degli stent è invece legata in parte alle loro dimensioni: è difficile analizzare stent con diametro inferiore ai 3 mm, come accade per la maggior parte di quelli impiantati in segmenti coronarici non prossimali . INDICAZIONI CLINICHE In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto come: - alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco; - alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia ischemica; - follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico di rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-; - definizione delle anomalie coronariche. Lo studio dei by- aortocoronarici (Figura 5) rappresenta attualmente la più indiscussa applicazione della tomografia assiale computerizzata cardiaca.
Sezione VII. Cardiomiopatie Capitolo 27 DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini INTRODUZIONE Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP) rappresenta uno dei punti maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia. L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del Muscolo Cardiaco”) risale a circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne pubblicato – da parte di un gruppo di esperti nominato dalla World Health Organization e dalla International Society and Federation of Cardiology (WHO/ISFC) – il primo documento ufficiale in tema di definizione e classificazione delle CMP. In quel documento, le CMP venivano definite come malattie del muscolo cardiaco “da causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne rappresentava, pertanto, uno dei caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi nota quali le cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc. Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e la sempre più ampia diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in particolare l’ecocardiografia, hanno condotto negli anni successivi ad un significativo incremento delle conoscenze sulle CMP, rendendo inadeguato il documento del 1980. Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto congiuntamente un nuovo report che tuttora costituisce il documento di riferimento in materia di definizione e classificazione delle CMP (Tabella I). Gli aspetti salienti di tale documento sono: 1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione cardiaca” sia sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa sconosciuta” veniva soppressa, essendo divenuta nel frattempo impropria alla luce delle nuove acquisizioni eziopatogenetiche; 2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa (CMPD), la CMP ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo destro (CMP/DAVD). L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi “idiopatici” di CMP, ne esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa della malattia (ad esempio, nella quasi totalità dei casi di CMPI ed in circa un terzo dei casi di CMPD è oggi documentabile un’eziologia genetica). L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione delle CMP viene operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’indagine ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD), l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo “restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente coinvolgimento del ventricolo destro associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio classificativo si rivela di grande utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti essenziali e caratteristici di ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta diagnosi e l’impiego appropriato delle strategie terapeutiche attualmente disponibili. Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini aritmogeni “isolati” dovuti ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con interessamento miocardico ma difficilmente iscrivibili nei 4 gruppi principali come il “miocardio non compatto”, la “cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”.
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A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non andrebbero invece utilizzati termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”, “cardiomiopatia valvolare” e “cardiomiopatia ipertensiva”. (Tabella I)
Capitolo 29 CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello DEFINIZIONE La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non spiegata da cause comuni d'ipertrofia (Patologia 28, Patologia 29), come l'ipertensione arteriosa o alcune valvulopatie (ad esempio, stenosi aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo ecocardiografico di aumentato spessore parietale del ventricolo sinistro: ciò non significa necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento della massa muscolare da prevalente aumento delle dimensioni dei miocardiociti), perché situazioni in cui c'è, ad esempio, accumulo intra- o extracellulare di sostanze (come nell'amiloidosi, nella malattia di Fabry, in alcune glicogenosi etc.) ricadono, impropriamente, in questa definizione. Con questa definizione, la cardiomiopatia ipertrofica è malattia relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che la rende la più comune cardiopatia su base genetica. EZIOLOGIA E PATOGENESI La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia autosomica dominante a penetranza incompleta. Le forme tipiche (a cui andrebbe riservato il nome di cardiomiopatia ipertrofica) sono dovute a mutazioni di geni codificanti per proteine sarcomeriche. I geni più frequentemente interessati sono quelli delle catene pesanti della beta-Miosina, della proteina C legante la Miosina, e della Troponina T, ma tutti i geni codificanti per proteine sarcomeriche (contrattili, modulatrici o strutturali) possono determinare la malattia. La penetranza è incompleta, cioè possono esserci individui genotipo+ e fenotipo-, e dipende dall'età in modo variabile a seconda del gene causale: mentre la penetranza è quasi completa entro la terza decade per le mutazioni delle catene pesanti della beta-Miosina e della Troponina T, per quelle della proteina C legante la Miosina la penetranza cresce costantemente fino alla vecchiaia. Individui appartenenti alla stessa famiglia (e dunque portatori della stessa mutazione causale) possono avere fenotipi molto diversi per morfologia del ventricolo sinistro e per quadri clinici. Ciò è spiegabile solo se si pensa che la mutazione causale interagisce con altri geni e con fattori ambientali per determinare il fenotipo. È ancora soltanto un'ipotesi (ma basata su alcune evidenze solide) che l'incorporazione di una proteina mutata nel sarcomero ne determini una ridotta efficienza contrattile; questa aumenta lo stress sarcomerico con conseguente attivazione del signaling responsivo allo stress e sintesi di fattori trofici. I fattori trofici agiscono sui miocardiociti, determinandone ipertrofia, sui fibroblasti inducendo fibrosi interstiziale, e sulle cellule muscolari lisce della media delle arteriole coronariche, provocandone l'iperplasia. Questa ipotesi spiega le tre fondamentali caratteristiche morfologiche della cardiomiopatia ipertrofica: ipertrofia e malallineamento (disarray) dei cardiomiociti (Patologia 28), fibrosi interstiziale ed ispessimento della media delle arteriole. Questa ipotesi patogenetica è ulteriormente ata dall'osservazione, finora confinata all'animale transgenico, che il fenotipo è reversibile o prevenibile con l'uso di farmaci di cui è nota l'interazione con lo sviluppo ed il mantenimento dell'ipertrofia. FISIOPATOLOGIA Le tre principali caratteristiche fisiopatologiche della cardiomiopatia ipertrofica sono la disfunzione diastolica, l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro e l'ischemia. La disfunzione diastolica dipende da alterata affinità per il Ca++ delle proteine mutate, e da rallentato reuptake del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico. Ne deriva un incompleto rilasciamento ed un'aumentata rigidità del muscolo. Un'altra causa di disfunzione diastolica, forse più rilevante clinicamente, è secondaria all'ipertrofia ed alla fibrosi interstiziale, che determinano una ridotta distensibilità del ventricolo sinistro (cioè è richiesta una maggiore pressione atriale per riempirlo). Altra rilevante caratteristica fisiopatologica è l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro. Il setto ipertrofico sporge nel tratto d'efflusso del ventricolo sinistro, e lo restringe progressivamente durante la sistole. Il sangue è costretto ad accelerare fino al punto in cui si genera l'effetto Venturi, cioè lo sviluppo di forze centripete che attirano il lembo della mitrale nel tratto d'efflusso (Systolic Anterior Movement, o S.A.M.). Ciò provoca un'ulteriore riduzione della sezione del tratto di efflusso e lo sviluppo di ostruzione (Figura 1). Ovviamente, il S.A.M. determina anche insufficienza mitralica. In conseguenza del meccanismo di generazione, l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro è meso-sistolica e dinamica (cioè l'entità dell'ostruzione varia a seconda del volume ventricolare e dello stato inotropo). I pazienti con cardiomiopatia ipertrofica hanno spesso segni d'ischemia, anche in assenza di stenosi coronariche epicardiche. L'ischemia è la conseguenza dell'ispessimento della media arteriolare, dell'ipertrofia (a causa dell'aumentato spessore non seguito da analogo aumento della densità capillare), e dell'aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro (che determina un aumento delle resistenze coronariche estrinseche in diastole).
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QUADRO CLINICO La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei pazienti. I pazienti sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione diastolica e/o ad ostruzione al tratto d'efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in circa 1/3 dei pazienti). La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si definisce come tale la morte entro 24 ore dall'esordio di sintomi, ed è tipicamente dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono maggiormente interessati, con un'incidenza più che doppia di quella degli adulti. In questi ultimi, l'incidenza è circa 1%/anno, e declina con l'età. Non molto è noto circa i meccanismi della morte improvvisa, ma si è osservata un'associazione epidemiologica tra alcuni eventi (definiti fattori di rischio) e la morte improvvisa. Questi sono:
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familiarità per morte improvvisa storia di sincope recente inspiegata presenza di ipertrofia ventricolare sinistra massiva (massimo spessore di parete >= 30 mm) risposta pressoria anomala all'esercizio (normalmente, la pressione arteriosa cresce costantemente
durante l'esercizio; in circa 1/3 dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica la pressione invece aumenta e poi diminuisce durante l'esercizio, oppure diminuisce fin dall'inizio)
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tachicardia ventricolare non sostenuta all'ECG Holter
La tachicardia ventricolare sostenuta è considerata equivalente di morte improvvisa abortita e non un fattore di rischio. Il paziente adulto con cardiomiopatia ipertrofica ha un rischio 6 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare fibrillazione atriale parossistica o permanente, ed infatti circa 1/3 dei pazienti soffre di questa aritmia, ed è pertanto frequente riscontrarla o durante Holter o durante visita clinica. DIAGNOSI La cardiomiopatia ipertrofica è generalmente sospettata per la presenza di un soffio cardiaco o di anomalie elettrocardiografiche. L’ostacolo all’eiezione ventricolare sinistra dipendente dall’ipertrofia settale genera un soffio sistolico eiettivo, che si ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. La relazione fra l’intensità del soffio e il volume ventricolare (il soffio è tanto più intenso quanto più il contenuto di sangue nel ventricolo si riduce) può permettere di diagnosticare all’ascoltazione del cuore la cardiomiopatia ipertrofica, e soprattutto distinguerla dalla stenosi valvolare aortica (vedi Capitoli 2 e 16). Se, mentre si ascolta il cuore, si fa eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, ci si accorge che il soffio della stenosi valvolare aortica si riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica aumenta. La manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa), infatti, riduce la pressione negativa endotoracica, cioè la forza “aspirativa” (vis a fronte) che favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il riempimento diastolico dei ventricoli e con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì che nella cardiomiopatia ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva, mentre diminuisce nella stenosi aortica, dove l’intensità del soffio è proporzionale alla gittata sistolica, cioè alla quantità di sangue che attraversa la valvola. L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono patognomoniche e possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia ventricolare sinistra, onde Q anomale e segni di ischemia ventricolare. L'ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente asimmetrica, coinvolgente il setto interventricolare (Figura 2). La distribuzione dell’ipertrofia è eterogenea e in una piccola percentuale di pazienti è localizzata al solo apice ventricolare (forma apicale, identificata dapprima nelle popolazioni orientali, ma ubiquitaria; è caratterizzata da buona prognosi). Una stima dell'ipertrofia è data dallo spessore parietale massimo, particolarmente rilevante poiché quando è particolarmente aumentato (>= 30 mm) rappresenta un fattore di rischio per morte improvvisa. In circa 1/3 dei pazienti è presente ostruzione al tratto di efflusso del ventricolo sinistro a riposo. Nei pazienti con sintomi e senza ostruzione a riposo è indicata l’esecuzione di esercizio fisico con valutazione del gradiente al picco dell’esercizio; con questo approccio il 70% dei pazienti ha ostruzione. Con la risonanza magnetica nucleare (RMN) cardiaca è possibile evidenziare tutte le pareti miocardiche e pertanto quando la caratterizzazione anatomica risulta difficile con l’eco, vi è indicazione ad eseguirla. Inoltre, con la RMN viene misurata la massa ventricolare sinistra, non possibile con l’ecocardiogramma per l’eterogenea distribuzione dell’ipertrofia. La somministrazione di un mezzo di contrasto, il gadolinio, che si accumula tardivamente nell'interstizio (late-enhancement) consente di avere un'immagine della distribuzione di fibrosi in questi pazienti. Vista l'eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente identificato in una famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG, ecocardiogramma e, se disponibile, analisi genetica.
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TRATTAMENTO Dopo aver determinato il profilo di rischio per morte improvvisa, si può individuare una strategia terapeutica. Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte improvvisa va consigliato l'impianto di un defibrillatore (ICD). I pazienti con un solo fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l'impianto di un ICD va valutato caso per caso. I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non richiedono trattamento. I pazienti sintomatici vengono posti in terapia con beta-bloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici (verapamil o diltiazem o gallopamil). La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla prognosi. Se è presente ostruzione al tratto d'efflusso, ai beta-bloccanti si può aggiungere la disopiramide (un antiaritmico qui usato solo per il suo marcato effetto inotropo negativo, che contribuisce alla riduzione dell'ostruzione). Se la terapia medica non è efficace nella riduzione dell'ostruzione, questa può avvalersi di intervento chirurgico di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare in tratto d'efflusso), o dell'ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami perforanti settali in modo da indurre infarto chimico della porzione alta del setto, sempre allo scopo di allargare in tratto d'efflusso). I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere riportati in ritmo sinusale: ciò non è sempre possibile, ma è importante tentare il ripristino del ritmo sinusale finché è ragionevole. Il ripristino del ritmo sinusale si ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica. La prevenzione delle recidive di fibrillazione atriale è usualmente ottenuta con l'uso di amiodarone. In caso di fibrillazione atriale parossistica o persistente o cronica, per l'anticoagulazione si applicano le linee guida usuali.
Capitolo 29 CARDIOMIOPATIA DILATATIVA Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda DEFINIZIONE La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro sottotipi principali di Cardiomiopatia. EPIDEMIOLOGIA La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate” della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione. ANATOMIA PATOLOGICA Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate della malattia, sono dilatati (Patologia 30). La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non infrequente in sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra(Patologia 31). La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale. Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico dei grossi vasi epicardici. Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio. EZIOPATOGENESI Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in ato, le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o meno del miocardio, ecc) della CMPD
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familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica e fenotipica. L'analisi del tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi e differente rischio di malattia per i familiari. Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus possono indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad essi simili. QUADRO CLINICO La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i 20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di circa 3:1. Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni di scompenso destro. Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l'esordio della malattia. Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore riserva coronarica. Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o polmonare(Patologia 32). Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi. DIAGNOSI Di fronte ad una presentazione clinica suggestiva per CMPD, è necessario integrare i dati anamnestici e clinici con le opportune indagini strumentali e di laboratorio. Elettrocardiogramma. La tachicardia sinusale è un dato di frequente riscontro all’ECG standard. Possono essere presenti anche turbe della conduzione atrio-ventricolare ed intra-ventricolare, in particolare il blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3), e anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in associazione con estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di frequente riscontro, come pure l’intero spettro delle aritmie sopraventricolari e ventricolari. Radiogramma toracico. La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) è di comune riscontro, come pure i segni di redistribuzione a carico del circolo polmonare. Congestione interstiziale ed alveolare sono spesso documentabili nelle forme più avanzate. Ecocardiogramma. L’anamnesi, l’esame obiettivo, l’ECG e la radiografia del torace non sono in grado di fornire elementi specifici che consentano con sicurezza una diagnosi di CMPD, la quale richiede la presenza di alcuni criteri evidenziabili solamente con l’esecuzione di un ecocardiogramma. La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla presenza di una dilatazione globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica parietale con ridotta funzione di pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo sinistro, oltre che essere di volume notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una morfologia più globosa e quindi meno ellissoidale che di norma. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare eventuali asincronie nella contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in particolare il blocco di branca sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa cardiaca. Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto frequente nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la presenza e quantificarne la rilevanza emodinamica. Metodiche invasive. La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei pazienti di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-strumentali suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare all’ecocardiogramma, ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress). Il cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD. DIAGNOSI DI CMPD FAMILIARE
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Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinicostrumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per escludere un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza. La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza di un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa, documentata ed inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni. PROGNOSI La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i betabloccanti possono significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei pazienti con CMPD (sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi). CENNI DI TERAPIA Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico aerobico. Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone. Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo (NYHA IIIV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego dei sartani. I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione idrosalina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo. La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e diuretici. Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa, particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio con proprietà anche di vasodilatazione. Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%. Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della sincronia della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti. Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica mediante valvuloanuloplastica. Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa alla sostituzione cardiaca. Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.
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Capitolo 30 CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea Perkan DEFINIZIONE Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione “pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc. Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern restrittivo costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico. EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica (talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da accumulo (emocromatosi, ecc). Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i ventricoli appaiono grossolanamente normali(Patologia 33). QUADRO CLINICO Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile. L'esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza all'ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile rilevare un soffio olosistolico da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese. DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici. Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica. La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico. Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale (ECG 47), di ipertrofia ventricolare sinistra ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili blocchi atrioventricolari ed intra-ventricolari. L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con funzione di pompa normale o quasi. L'ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro ed in particolare del setto interventricolare ("a vetro smerigliato") è caratteristico delle forme amiloidosiche. Il ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’ pressoché costantemente documentabile una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-ventricolari appaiono frequentemente ispessite, e spesso si associa un rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45). L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale presenza di trombi endocavitari.
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Sebbene l'integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR. In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata” (“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata. La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed ultrastrutturale delle diverse CMPR. Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari. La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al tessuto una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina, lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici). La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il miocardio. Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme DIAGNOSI DIFFERENZIALE La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva. La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia endomiocardica può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva, particolarmente nei casi in cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica. CENNI DI TERAPIA In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.
terapia sintomatica della deve essere stabilito con del precarico. Nei pazienti in quanto questi farmaci
In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante l’impiego di agenti antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker. Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica. Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione terapeutica.
Capitolo 31 CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO Luciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava DEFINIZIONE
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La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista morfologico, da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro (Figura 1), con un non raro interessamento del ventricolo sinistro. Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari, riconoscibili mediante le tecniche di imaging (Figura 2), e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie da rientro (Figura 3). La malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione autosomica dominante; sono stati finora identificati diversi geni-malattia. L’espressione clinica può essere diversa da soggetto a soggetto, sia per quanto riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per il grado di instabilità elettrica, anche in pazienti portatori di un’identica mutazione. QUADRO CLINICO La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra, associate ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che definiscono il cosiddetto “triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione dell’infundibolo) caratterizzano il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le forme di malattia con estensione lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso da provocare importante cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga interessato soprattutto il ventricolo destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte dei casi, di ottime prestazioni funzionali; molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi aritmici maggiori si avverano proprio durante una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte improvvisa sia la prima manifestazione clinica nei giovani pazienti. DIAGNOSI Una Task Force della Società Europea di Cardiologia ha definito i criteri diagnostici per la Cardiomiopatia aritmogena, basati oltre che sui dati clinico-anamnestici anche sulle modificazioni morfo-funzionali individuate con le varie tecniche di imaging (Tabella I). Nello studio clinico di un soggetto con aritmie ventricolari è fondamentale eseguire un’attenta e completa anamnesi familiare riguardo la presenza, nel gentilizio, di morti precoci ed inattese o episodi sincopali. Le metodiche di imaging (ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono indubbiamente le più valide per la definizione diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti ventricolari; l’elettrocardiogramma, l’esame Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta amplificazione, assieme allo studio elettrofisiologico e alla ricostruzione della mappa elettroanatomica ventricolare destra, sono utili soprattutto per la stratificazione del rischio aritmico. Elettrocardiogramma L’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece, presentano onde T negative nelle precordiali destre (Figura 4), ed in alcuni sono anche evidenti in queste derivazioni onde epsilon, piccole deflessioni presenti nel tratto ST o nell’onda T che esprimono la depolarizzazione estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro (Figura 5). Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono molto comuni nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro; esistono anche forme con aritmie ventricolari ripetitive polimorfe, associate ad un maggior rischio di morte improvvisa. La morfologia dei complessi ectopici somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché le aritmie nascono nel ventricolo destro. L’impulso ectopico genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il ventricolo destro, sede in cui l’impulso nasce, e poi il processo di attivazione si comunica al ventricolo sinistro; questa sequenza di diffusione dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel blocco di branca sinistra. In quest’ultimo caso, però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della branca sinistra a condurre l’impulso, per cui il processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo destro, la cui branca è integra, e solo tardivamente il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro. All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi (Figura 6) nella quasi totalità dei pazienti che presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e in poco più del 50% dei pazienti con forme lievi. Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo. Metodiche di imaging L’ecocardiografia (Figura 7), la risonanza magnetica nucleare (Figura 8) e la cineventricolografia (Figura 9) sono metodiche idonee alla diagnosi anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza di un bulging (rigonfiamento) diastolico o di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo destro, giusto sotto la inserzione del lembo posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della architettura trabecolare, la dilatazione dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete libera, soprattutto dell’apice, sono segni caratteristici della malattia. Riguardo la risonanza magnetica (Figura 8), si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della cinetica dei ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando dall’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano fibrosi (vedi Capitolo 7).
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Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la cineventricolografia (Figura 9). La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale, associata a trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la più elevata sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di quanto non si ritenesse in ato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti. Biopsia endomiocardica La biopsia endomiocardica rappresenta un valido o sia per la diagnosi, quando è presente nel prelievo sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, poiché la presenza di una significativa componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici possono essere messi in relazione con una fase attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata. GENETICA Sono stati finora riconosciuti 11 loci di mutazione genetica associati alla cardiomiopatia aritmogena (Tabella II). Una forma autosomica recessiva associata a keratoderma palmo-plantare e capelli ricci è stata descritta in pazienti che vivono nell’isola greca di Naxos. Questa forma è causata da una mutazione del gene della Plakoglobina, localizzato nel cromosoma 17q21, che codifica per un componente chiave dei desmosomi. In pazienti che presentavano criteri clinico-diagnostici per la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro sono state identificate mutazioni del gene della Desmoplakina e della Desmogleina-2, proteine presenti nei desmosomi, dove svolgono un ruolo fondamentale nell’assicurare la giunzione tra una cellula e l’altra (Figura 10). In una famiglia con alta ricorrenza di morte improvvisa giovanile, aritmie ventricolari polimorfe, e lievi alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro è stata identificata una mutazione del gene RyR2 che regola l’attività del recettore rianodinico cardiaco. Questo gene è fra i più grandi del genoma umano, essendo costituito da 106 esoni, e codifica per il recettore rianodinico, che regola l’omeostasi intracellulare del calcio (Figura 11). La mutazione di questo gene provoca un aumento della concentrazione di ioni calcio all’interno del miocita e favorisce l’insorgenza delle aritmie ventricolari durante sforzo. Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia risieda nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza di una debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali (Figura 12). Dato che i desmosomi sono presenti in tutto il miocardio, le alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono espresse sia a livello del miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano prevalenti le alterazioni morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso spessore della parete ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro. Gli studi più recenti, eseguiti con risonanza magnetica ed iniezione di gadolinio, un mezzo di contrasto che individua la fibrosi miocardica, ano questa spiegazione, mostrando a livello dell’epicardio ventricolare sinistro la presenza di fibrosi, che in genere non comporta alterazioni della cinetica ventricolare sinistra. CENNI DI TERAPIA Nella maggior parte dei casi l’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa attraverso il controllo delle aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste sono polimorfe o si aggravano sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed iniziare un trattamento antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia ventricolare sostenuta o di importanti sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico. Esiste inoltre l’opzione dell’ablazione con radiofrequenza (vedi Capitolo 60) in presenza di una lesione localizzata, se durante lo studio elettrofisiologico endocavitario si dimostra essere questa la fonte primaria dell’aritmia ventricolare.
Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi Capitolo 32 PERICARDITI Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa DEFINIZIONE Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio possono essere enucleate le forme seguenti :
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Pericarditi acute e subacute
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Pericardite cronica essudativa
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Tamponamento cardiaco
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Pericardite cronica costrittiva PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE
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Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose, caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate da formazione di versamento. Eziologia Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex, varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I) Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni morbose come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il pericardio. Sono state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline), su base verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo interventi cardiochirurgici. Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni siano dirette sul mediastino.
Fisiopatologia Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso, siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II). Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità, basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache, aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione intrapericardica subisce solo un modesto incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della norma. Solo se la pressione intrapericardica aumenta ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica diminuiscono. In questa situazione la portata cardiaca è mantenuta entro limiti normali dall’aumento della frequenza cardiaca.
Quadro clinico Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale, compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici: presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare, esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento. Esame obiettivo Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente . Indagini di laboratorio Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia) o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi, sindrome di Dressler.
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Esami strumentali Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3). Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2). Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo 4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro. L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3). Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio, permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso misconosciuti. Diagnosi differenziale Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio.
Complicanze Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti). PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.
Quadro clinico I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva . Diagnosi L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra cardiaca. TAMPONAMENTO CARDIACO E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del cuore in diastole. Eziologia: Le cause più frequenti sono:
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pericardite acuta o recidiva sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco, impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;
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rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;
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versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica Fisiopatologia Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza. Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono: 1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole. 2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa pressione a monte degli atri. Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico: tachicardia vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione della portata, l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a ridursi, si verifica un vero proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).
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Quadro clinico E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2 ). Esami strumentali L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.
PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con il normale riempimento diastolico del cuore.
Eziologia Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le principali cause di pericardite cronica costrittiva sono : le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.
Fisiopatologia Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) (Figura 4). Il riempimento ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza cardiaca. Quadro clinico
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La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro. I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica). Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica: epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso paradosso (vedi Capitolo 2).
Diagnosi Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei casi si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare. Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la diagnosi.
Diagnosi differenziale La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è dirimente giacché nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’ infarto del ventricolo destro è semplice, e si basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali. CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio, nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi con versamento modesto si consiglia l’ utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica.
Capitolo 33 MIOCARDITI Antonello Ganau, Pier Sergio Saba DEFINIZIONE Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi l’esame istologico del miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti infiammatori. In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi. EZIOLOGIA I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi (Tabella I). La causa più frequente è una infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come agenti patogeni. Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina, gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite.
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PATOGENESI Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda fase di attivazione immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può continuare autonomamente dopo l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- . Il TNF, in particolare, attiva le cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto. MANIFESTAZIONI CLINICHE Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi e segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di scompenso. Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico. Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici (vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio della malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti. VALUTAZIONE DIAGNOSTICA La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia. Elettrocardiogramma I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con interessamento pericardico ( Figura 1). Marcatori di infiammazione e di necrosi. La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile. Ecocardiogramma In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La disfunzione del ventricolo destro è meno frequente. Risonanza magnetica nucleare La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi ( Figura 2). Biopsia endomiocardica La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti ( Figura 3) Tuttavia, le classificazioni istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una cardiomiopatia di origine sconosciuta associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o aritmie ventricolari minacciose per la vita. STORIA NATURALE
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La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente 25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare. Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope, disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto. TERAPIA La terapia della miocardite è principalmente di o. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe funzionale NYHA), un diuretico. Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti, sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti.
Capitolo 34 ENDOCARDITE INFETTIVA Sergio Dalla Volta DEFINIZIONE Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido ed il secondo l’eziologia batterica della maggior parte dei casi. Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie. Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti. Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi favoriscono la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone. EZIOLOGIA Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia, non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi. Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la candida. I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non sterili con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi sono la localizzazione mitralica od aortica. I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni. ANATOMIA PATOLOGICA
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I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le “colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è lenta. Poiché le vegetazioni (Figura 1) sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello. PATOGENESI Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni, colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi. QUADRO CLINICO I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi, mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza, perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi, sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio. Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o di anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio. Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici. Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni, l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi (ECO 39,ECO 40,ECO 41,ECO 42,ECO 43). L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel sospetto fondato di endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le vegetazioni sono voluminose. Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla guarigione, una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell'anello valvolare, aneurismi micotici dei seni di Valsalva, fistole, e così via, l'ecocardiografia è di grande valore. Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla diagnosi dell’endocardite infettiva. Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto ricorsi alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati disponibili in maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva. La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso tardivo il riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di distinguere la malattia da altre patologie
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infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i tumori. Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può guarire se la terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente può portare alla compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni valvolari preesistenti. CENNI DI TERAPIA La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le 24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il microrganismo responsabile. La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni:
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infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine;
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mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;
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lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;
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ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;
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vegetazioni molto grandi in sede valvolare. Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra), queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più largamente impiegato.
Sezione IX. Aritmie Capitolo 35 I TUMORI DEL CUORE Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente Anche il cuore, seppur raramente, può essere colpito da tumori, ma la loro malignità è legata più a fattori emodinamici che biologici. Va detto innanzitutto che le neoplasie secondarie (metastasi al cuore) sono molto più frequenti che le neoplasie primitive, con un rapporto di circa 10:1. I tumori maligni che più frequentemente metastatizzano al cuore sono il cancro del polmone, seguito da quello renale, del laringe, della mammella, del fegato e dai linfomi-leucemie. L’interessamento del cuore nel carcinoma polmonare avviene per lo più sotto forma di diffusione pericardica (“carcinosi pericardica”) e la diagnosi può essere fatta con un esame citologico del liquido pericardico. Per quanto concerne i tumori primitivi del cuore, le forme benigne sono di gran lunga più frequenti (90%) rispetto a quelle maligne (10%). Fra i tumori benigni, primeggia il mixoma: tre su quattro neoplasie benigne del cuore e del pericardio sono costituite da mixomi. Il mixoma è una neoformazione endocardica a crescita endocavitaria, di origine da una cellula indifferenziata che tende a produrre una matrice mixoide e strutture vascolari (“endotelioma mixomatoso”). Sede prediletta è l’atrio sinistro (75%), seguito dall’atrio destro (20%), dal ventricolo destro (3%) ed eccezionalmente dal ventricolo sinistro (1%). È per questa ragione che è conosciuto anche con il nome di mixoma atriale.Colpisce le donne nei due terzi dei casi, per lo più in una fascia d’età fra i 40 e i 70 anni. Rari sono i mixomi in età pediatrica. La presentazione clinica è varia. Prevalgono i sintomi di ostruzione al transito ematico, con dispnea e sincope nei mixomi atriali sinistri (Figura 1) e perfino morte improvvisa in quelle masse che si impegnano e si intrappolano nell’orifizio mitralico. La superficie friabile, specie nelle forme villose, può dar luogo ad embolie, che possono essere il sintomo di esordio (Figura 2) anche in neoplasie di piccole dimensioni. Il peso può variare da una decina a oltre 100 grammi, e le dimensioni essere tali da occupare quasi tutta la cavità atriale.
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La produzione da parte del tumore di interleuchina rende ragione dei cosidetti sintomi costituzionali: febbricola, astenia, dolori osteo-articolari, malessere. Infine, esistono i mixomi cosiddetti “silenziosi” che non danno segni di sé e rappresentano un reperto occasionale autoptico o, oggi molto più frequentemente, ecocardiografico incidentale. L’evoluzione naturale di questi mixomi silenziosi può essere con gli anni la trasformazione calcifica (“litomixoma”). La diagnosi di mixoma è facilmente e rapidamente eseguibile con l’ecocardiografia transtoracica. Possono simulare un mixoma atriale sinistro i trombi complicanti le valvulopatie reumatiche della mitrale (compreso il cosiddetto “trombo a palla”) e neoplasie maligne, primitive o secondarie, a prevalente crescita endocavitaria. La terapia è costituita dalla resezione chirurgica in circolazione extracorporea. L’asportazione della base di impianto del setto interatriale previene la possibilità di recidive. Il papilloma endocardico, detto anche fibroelastoma papillare, rappresenta la seconda più frequente neoplasia cardiaca benigna (Figura 3). Tumore prevalentemente di piccole dimensioni (1-2 cm), è costituito da papille con asse fibroelastico, per cui a differenza del mixoma non è friabile. Cresce più spesso dall’endocardio delle valvole cardiache, ma anche da quello murale, ed ha una crescita endocavitaria. La sintomatologia è dovuta alla potenzialità emboligena, soprattutto per le stratificazioni trombotiche che si sovrappongono. Se localizzato nelle cuspidi sigmoidi aortiche, può incunearsi negli osti coronarici e dare morte improvvisa. La diagnosi è ecocardiografica, ma può non essere visibile se di piccole dimensioni. Se situato nel settore sinistro del cuore, l’asportazione chirurgica è d’obbligo per la potenzialità emboligena. Un tumore cardiaco benigno tipico dell’infanzia è il rabdomioma. Presenta una crescita più frequentemente intramurale ma anche endocavitaria con sintomatologia ostruttiva neonatale ed è da considerarsi un amartoma, in quanto costituito da cardiomiociti carichi di glicogeno. Diagnostica è la cosiddetta “spider cell”, ovvero l’aspetto a ragno del cardiomiocita con accumulo di glicogeno e dispersione a ragnatela dei miofilamenti. Frequente è l’associazione del rabdomioma con la sclerosi tuberosa. Il fibroma è un’altra tipica forma di tumore cardiaco benigno. È classicamente a crescita intramurale e può assumere anche dimensioni gigantesche, che possono impedire la sua enucleazione chirurgica e imporre un trapianto (Figura 4). Trattasi di una fibromatosi del cuore in quanto la proliferazione connettivale ingloba i miociti residui. Caratteristiche all’istologia sono le calcificazioni. La sintomatologia può anche essere ostruttiva quando le grosse dimensioni obliterano la cavità. Frequenti le aritmie da circuito di rientro, con rischio di morte improvvisa elettrica. Da segnalare, fra gli altri tumori benigni del cuore, il lipoma del setto interatriale e il tawarioma, ovvero il tumore cistico del nodo atrioventricolare (nodo di Tawara), di derivazione celomatica pericardica, che si può manifestare con blocco atrioventricolare. Le neoplasie maligne primitive del cuore (sarcomi) sono rare e si originano sia dalla componente parenchimale che mesenchimale. Sono per lo più a crescita intramurale infiltrante (angiosarcoma, rabdomiosarcoma), ma possono anche avere una prevalente crescita endocavitaria e simulare un mixoma (leiomiosarcoma, fibroistiocitoma). Si impone in questi casi l’esame istologico di tutte le masse resecate chirurgicamente, anche quelle che mimano un mixoma, perché possono riservare sorprese con aspetti di malignità ed avere pertanto una prognosi infausta. Nelle neoplasie a crescita endocavitaria, la diagnosi può essere conseguita senza toracotomia chirurgica, attraverso la biopsia endomiocardica. Il controllo istologico delle masse resecate chirurgicamente o prelevate con la biopsia può rivelare una natura diversa da quella neoplastica: trombi (compresa la endocardite fibroplastica parietale di Loeffler della sindrome eosinofila) o infezioni (batteriche, fungine, protozoarie quali le cisti da echinococco).
Sezione X. Aritmie Capitolo 36 DEFINIZIONE E MECCANISMI DELLE ARITMIE Giuseppe Oreto, Marco Cerrito DEFINIZIONE Le Aritmie sono state classicamente definite come alterazioni della formazione e/o della conduzione dell’impulso. Secondo una definizione più recente Aritmia è ogni situazione non classificabile come ritmo cardiaco normale, inteso come ritmo ad origine dal nodo del seno, regolare e con normale frequenza e conduzione. CLASSIFICAZIONE Una task force Italiana, incaricata nel 1999 di rivedere la classificazione delle Aritmie, ha affermato l’opportunità di abbandonare definitivamente la vecchia nomenclatura, che divideva la aritmie in ipercinetiche e ipocinetiche. Questi termini non andrebbero più impiegati per due ordini di motivi: da un lato essi utilizzano la parola “cinetica”, che di solito esprime il movimento delle pareti del cuore più che il ritmo stesso, per cui possono essere fonte di confusione, e dall’altro divergono nettamente da quelli utilizzati oltre i confini d’Italia, rendendo meno semplice la comunicazione fra gli Italiani ed il resto del mondo.
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La classificazione attuale delle Aritmie prevede 3 categorie: Tachicardie, Bradicardie, Battiti ectopici. Le tachicardie vengono suddivise in sopraventricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse forme (Tabella I). Le bradicardie comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrioventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali) o ventricolari. MECCANISMI ELETTROGENETICI Vi sono meccanismi differenti per le tachicardie e i battiti ectopici da un lato, e le bradicardie dall’altro. Nelle tachicardie e anche nei battiti ectopici prematuri (extrasistoli) gli impulsi nascono quasi sempre al di fuori dal nodo del seno e sono anticipati rispetto al normale ritmo sinusale, per cui il problema fondamentale è l’alterata formazione dell’impulso. Nelle bradicardie, invece, il disordine principale riguarda (tranne che nella bradicardia sinusale) la conduzione più che la formazione dell’impulso. Le tachicardie e le extrasistoli condividono i tre seguenti meccanismi aritmogeni: 1) L’aumentato automatismo, 2) Il rientro, 3) I postpotenziali. L’AUTOMATISMO Esistono nel cuore due popolazioni fondamentali di cellule: quelle segnai e quelle di lavoro. Soltanto le prime possiedono la capacità dell’automatismo, cioè sono in grado di iniziare il processo di depolarizzazione, che poi si trasmette alle altre cellule. In altri termini, durante la fase 4 il potenziale di riposo di queste cellule non è costante, a circa -90 mV, ma diviene gradualmente meno negativo fino a raggiungere il potenziale soglia, in corrispondenza del quale scatta la depolarizzazione rapida (fase 0 del potenziale d’azione). In altri termini, mentre le cellule di lavoro si attivano solo quando vengono raggiunte da un impulso esterno, quelle segnai (denominate anche cellule pacemaker) vanno incontro a depolarizzazione diastolica spontanea durante la fase 4. La frequenza con cui le cellule segnai generano gli impulsi dipende dalla pendenza della fase 4 di depolarizzazione diastolica spontanea. Un segnai può incrementare la propria frequenza di scarica con tre diversi meccanismi: l’aumentata pendenza della fase 4, lo spostamento del livello massimo di polarizzazione diastolica verso valori meno negativi, lo spostamento del potenziale soglia verso valori più negativi (Figura 1). In alto (pannello 1) è rappresentata l’aumentata pendenza della fase 4: il potenziale b (tratteggiato) ha una maggiore pendenza rispetto ad a, e di conseguenza la frequenza di formazione degli impulsi aumenta. Nel pannello di mezzo (2) viene presentata la differenza fra una cellula polarizzata a -90 mV (potenziale a, linea continua) e una in cui la polarizzazione è minore, per esempio, -75 mV (potenziale b, linea tratteggiata). La seconda raggiungerà il potenziale soglia più in fretta, poiché è minore il percorso che separa il potenziale iniziale dalla soglia, e avrà una frequenza di scarica maggiore rispetto a quella dell’altra. In basso (3) si può osservare l’effetto dello spostamento della soglia verso valori meno negativi. Se la soglia si sposta da -60 mV (a) a circa -70 mV (b, linea tratteggiata) la cellula raggiungerà più in fretta il potenziale soglia e la sua frequenza di scarica aumenterà. Nel cuore vi sono numerosi pacemaker, ciascuno con il proprio automatismo, espresso dalla frequenza di scarica potenziale; i segnai sono soprattutto contenuti nel sistema di conduzione, particolarmente in alcune zone degli atri, nel fascio di His, nelle branche e nelle loro diramazioni, nelle cellule di Purkinje; il nodo del seno è normalmente il segnai dominante perché è il più rapido, e il suo impulso, diffondendosi per tutto il cuore, scarica tutte le altre cellule pacemaker prima che il loro impulso “maturi”, cioè raggiunga la soglia. Il ritmo fisiologico è, perciò, sinusale. In condizioni patologiche, altri pacemaker possono prendere il comando perché il loro automatismo, per uno dei meccanismi sopra descritti, diventa maggiore di quello del nodo del seno: ecco generarsi un battito ectopico, se il segnai diverso dal nodo del seno riesce a guadagnare il comando del cuore una sola volta, o un ritmo ectopico, nel caso in cui tale segnai riesca a depolarizzare il cuore per diversi battiti consecutivi. Vi sono molte condizioni patologiche in cui l’automatismo di un segnai ectopico può essere esaltato; fra queste la stimolazione simpatica, l’ischemia, l’acidosi, gli squilibri elettrolitici. Inoltre, anche una cellula che normalmente non ha attività pacemaker, può assumerla in determinate circostanze, per esempio in corso d’infarto miocardico. IL RIENTRO Inteso in senso “classico”, il rientro è il fenomeno in cui un impulso generatosi in una camera torna indietro a riattivare la camera da cui proveniva. In realtà lo stesso termine si applica quando un impulso torna a riattivare il tessuto da cui proveniva, indipendentemente dal concetto di “camera”. Perché il rientro abbia luogo, è necessario che siano contemporaneamente presenti 3 elementi fondamentali: il circuito, il blocco unidirezionale, la conduzione rallentata. Il circuito rappresentato nella Figura 2 corrisponde approssimativamente a quello che si realizza nel nodo A-V. Nello schema vi è una zona ineccitabile al centro (il disco) e due vie (a e ß) che si riuniscono in alto in una via superiore comune (x) e in basso in una via inferiore comune (y). Un impulso proveniente dalla via superiore comune penetra in entrambe le vie; poiché la via ß ha una elevata velocità di conduzione, l’impulso l’attraversa in un tempo breve e raggiunge la via inferiore comune quando ancora la via a, che ha una bassa velocità di conduzione, è stata percorsa solo in parte. L’impulso che proviene dalla via ß può, quindi, invadere la via a in
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senso retrogrado e collidere con il fronte d'onda anterogrado che sta percorrendo questa via. In questo caso vi è il circuito, ma il rientro non si realizza per la mancanza degli altri due elementi. Il blocco unidirezionale viene schematizzato nella Figura 3. Esso si può realizzare perchè le due vie (a e ß), oltre a possedere una diversa velocità di conduzione, hanno anche un differente periodo refrattario, che è più lungo per la via rapida ß. Può sembrare strano che in un tessuto l’elevata velocità di conduzione si associ con un lungo periodo refrattario, mentre un altro tessuto possiede bassa velocità conduttiva e breve periodo refrattario. In realtà la velocità di conduzione dipende dalla pendenza (Vmax) della fase 0 del potenziale d’azione, mentre la refrattarietà dipende dalla durata del potenziale d’azione, soprattutto dalle fasi 2 e 3. E’ quindi comprensibile che una via abbia lungo periodo refrattario ed elevata velocità di conduzione, mentre l’altra ha periodo refrattario breve e bassa velocità di conduzione. Nella Figura 3, un impulso prematuro (fulmine) raggiunge simultaneamente le due vie: la via ß è ancora refrattaria, per cui l’impulso vi si blocca, mentre la via a è già uscita dalla refrattarietà, e riesce a condurre. L’impulso raggiunge attraverso la via a la via inferiore comune (y), e da qui retroinvade la via ß. Giunto all’estremità superiore della via ß, però, incontra ancora tessuto in periodo refrattario a causa della precedente attivazione anterograda, e si blocca. Il rientro, perciò, non avviene, visto che solo due elementi (il circuito e il blocco unidirezionale) sono presenti. La conduzione rallentata, rappresentata nella Figura 4, consente infine il realizzarsi del rientro. Qui, a somiglianza della Figura 3, l’impulso prematuro proveniente dalla via superiore comune si blocca nella via ß e viene condotto dalla via a; raggiunta la via inferiore comune, poi, retroinvade la via ß. Diversamente da quanto accadeva nella Figura 3, però, qui l’impulso viene condotto così lentamente che, al momento in cui esso giunge alla parte prossimale della via ß, questa è già uscita dalla refrattarietà. Questo impulso, perciò, può “rientrare” nella via x, cioè nel tessuto dal quale proveniva, e contemporaneamente ripercorrere in senso anterogrado la via a. Il rientro può essere unico, oppure l’impulso può percorrere ininterrottamente il circuito, dando luogo a una tachicardia da rientro (Figura 4). Il rientro si può verificare in qualsiasi sede del cuore, tanto negli atri che nella giunzione A-V e nei ventricoli. Il nodo A-V è la struttura ideale per il realizzarsi del rientro, poiché possiede già in condizioni fisiologiche 2 vie con diversa refrattarietà e velocità di conduzione. Altra situazione in cui si verifica il rientro è la Sindrome di WolffParkinson-White, nella quale il circuito di rientro comprende una via accessoria di conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 38). Anche il flutter atriale è un’aritmia da rientro, dovuta a un macrocircuito che, nella maggior parte dei casi, è contenuto nell’atrio destro. Nei ventricoli, il rientro si realizza in presenza di fibrosi miocardica, soprattutto in seguito a un infarto: l’esistenza di aree inattivabili (fibrotiche) all’interno di zone miocardiche eccitabili consente il formarsi di un circuito, da cui può originare una tachicardia ventricolare. I POSTPOTENZIALI (ATTIVITÀ TRIGGERATA) Una forma particolare di automatismo caratterizza l'attività triggerata. Diversamente dall'automatismo propriamente detto, nel quale la cellula segnai inizia la depolarizzazione autonomamente e senza l'intervento di un evento esterno scatenante, nell’attività triggerata è necessario un potenziale estraneo (trigger) che provochi la formazione dell'impulso prematuro. Il battito scatenante viene seguito da post-potenziali che, in determinate circostanze, generano un nuovo potenziale d'azione. I post-potenziali sono oscillazioni del potenziale di membrana che seguono un potenziale d'azione o si sovrappongono ad esso. Sono stati descritti due tipi di post-potenziali: precoci e tardivi (Figura 5). I post-potenziali precoci si manifestano nel corso della ripolarizzazione (fasi 2 e 3 del potenziale d'azione), prima che questa si completi. Essi si osservano solitamente durante bradicardia o ripolarizzazione prolungata, ma possono anche essere indotti dalle catecolamine e da tutta una serie di condizioni quali ipokaliemia, ipocalcemia, acidosi, ipossia, somministrazione di alcuni farmaci. I post-potenziali tardivi, che si osservano quando la ripolarizzazione si è completata (fase 4), sono oscillazioni verso la positività del potenziale di membrana, che fanno seguito ad una temporanea iperpolarizzazione (Figura 5). Quando il post-potenziale tardivo è sufficientemente ampio da raggiungere la soglia, si genera un nuovo potenziale d'azione. La durata della ripolarizzazione influenza l'ampiezza dei post-potenziali tardivi: quanto più prolungata è la ripolarizzazione tanto maggiore è il voltaggio dei post-potenziali tardivi, e di conseguenza tanto più è probabile che si inneschi l'attività triggerata. I farmaci che prolungano il potenziale d'azione, come la chinidina, possono aumentare l'ampiezza dei post-potenziali tardivi e rendere più facile lo sviluppo dell'attività triggerata. Fra le aritmie da post-potenziali vi sono la “Torsione di punte”, una tachicardia ventricolare che si associa in genere a QT lungo, le aritmie da digitale, quelle da disionia e quelle indotte da catecolamine. ELETTROGENESI DELLE BRADICARDIE Le bradicardie possono conseguire a due meccanismi (vedi Capitolo 41): ridotta frequenza di formazione degli impulsi o alterata conduzione di impulsi che si formano con frequenza normale. L’avviatore primario del cuore è il nodo del seno (il segnai dotato di maggiore automatismo), e il sistema di conduzione trasmette il suo impulso a tutte le cellule miocardiche secondo una sequenza prestabilita e costante. Diffondendosi per il miocardio,
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l’impulso sinusale scarica tutti gli altri potenziali segnai più lenti, posti un pò dovunque, prima che essi riescano ad emettere il loro impulso. Se, tuttavia, il nodo del seno diviene deficitario, tanto da emettere impulsi a frequenza troppo bassa, i segnai secondari possono intervenire, dando inizio alla depolarizzazione del cuore. Questo meccanismo prende il nome di scappamento, e i complessi atriali e ventricolari così generati vengono detti appunto battiti di scappamento (vedi Capitolo 37). Altro possibile meccanismo delle bradicardie è la mancata conduzione degli impulsi sinusali. Il problema può riguardare la conduzione fra il nodo del seno e l’atrio circostante (blocco seno-atriale) o la trasmissione dell’impulso dagli atri ai ventricoli (blocco atrio-ventricolare). Anche in queste circostanze possono intervenire, a depolarizzare il miocardio che l’impulso sinusale non riesce a raggiungere, i segnai di scappamento.
Capitolo 37 BATTITI ECTOPICI sco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore DEFINIZIONE In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio (Figura 1). In particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un impulso che origina in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il battito che ne deriva è un battito ectopico. L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede di origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari.
Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnai primario, dà origine a un impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono essere atriali, giunzionali o ventricolari. CRITERI GENERALI Le extrasistoli sono un fenomeno molto frequente nella popolazione generale, e possono manifestarsi sia in pazienti cardiopatici sia in soggetti clinicamente sani. Spesso non provocano sintomatologia alcuna e il loro riscontro è assolutamente casuale; a volte, tuttavia, sono avvertite dal paziente e rappresentano la più frequente causa di cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi, il paziente percepisce non il battito anticipato bensì il lungo intervallo che di solito segue il complesso prematuro (pausa postextrasistolica) e lo descrive come una sensazione di “vuoto”, di “battito mancante” o di “cuore che si ferma”. In altre occasioni, invece, è il battito del ritmo di base successivo all’extrasistole ad essere avvertito: la pausa postextrasistolica, infatti, determina un prolungamento della diastole, cioè del tempo di riempimento ventricolare, che provoca un incremento della gittata sistolica, per cui il battito cardiaco viene sentito dal paziente come un “colpo”, un “tonfo” o un “senso di calore al volto”. Alla palpazione del polso, l’extrasistole viene avvertita come un battito anticipato seguito da una pausa o, non di rado, come un “battito mancante”; infatti, se l’extrasistole è molto precoce e la diastole è breve, il ventricolo sinistro si contrae mentre contiene pochissimo sangue e la gittata sistolica è così ridotta da non generare un’onda sfigmica apprezzabile al polso. In presenza di battiti prematuri è necessario analizzare all’ECG alcuni elementi necessari per una diagnosi corretta e una completa valutazione del fenomeno. Morfologia del complesso prematuro Le extrasistoli presentano generalmente una morfologia differente da quella dei battiti del ritmo di base. L’attivazione della camera cardiaca in cui ha origine l’extrasistole, infatti, inizia in un punto diverso e procede con una sequenza differente rispetto a quanto si verifica in condizioni normali; ciò determina nei complessi prematuri un aspetto dell’onda P e/o del QRS differente rispetto a quello dei battiti sinusali. In molti casi, specie in soggetti esenti da cardiopatia, i complessi prematuri sono uguali tra loro (extrasistoli monomorfe); non di rado, però, la loro morfologia è variabile (extrasistoli polimorfe). Intervallo di accoppiamento tra l’extrasistole e il precedente battito del ritmo di base Questo intervallo, detto copula, è generalmente costante o presenta minime oscillazioni per battiti prematuri che hanno la stessa origine; ciò suggerisce che l’emissione dell’impulso prematuro sia in qualche modo legata alla precedente depolarizzazione dovuta al ritmo di base. Quando la copula è molto breve l’extrasistole è detta precoce, in caso contrario è detta tardiva; se la durata della copula è solo di poco inferiore a quella del ciclo di
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base, cosicché il complesso prematuro si manifesta appena prima del battito del ritmo di base, l’extrasistole si definisce telediastolica. A volte, battiti prematuri con identica morfologia mostrano una copula notevolmente variabile; in questi casi è molto probabile che l’impulso ectopico origini da un focus la cui attività sia indipendente da quella del ritmo di base e proceda secondo un ritmo proprio. Il fenomeno è definito parasistolia. Intervallo tra l’extrasistole e il battito seguente del ritmo di base Il ciclo cardiaco successivo a un complesso prematuro è generalmente più lungo di quello del ritmo di base ed è definito pausa postextrasistolica. A seconda della durata, questa può essere compensatoria o non compensatoria. Nel primo caso, frequente soprattutto nelle extrasistoli ventricolari, la somma tra la durata della copula e quella della pausa equivale al doppio del ciclo di base, cosicché l’accorciamento del ciclo cardiaco provocato dall’extrasistole è perfettamente “compensato” dalla pausa successiva. Quando la pausa è non compensatoria la somma della sua durata con quella della copula è inferiore al doppio di un ciclo di base. Il fenomeno è frequente nelle extrasistoli sopraventricolari, ma a volte si può osservare anche dopo un battito prematuro ventricolare. Modalità di comparsa dei complessi prematuri I battiti ectopici possono manifestarsi sporadicamente o, al contrario, essere relativamente frequenti. Spesso possono presentare un ritmo circadiano (ad esempio, incidenza elevata durante le ore diurne e scomparsa pressoché totale durante il riposo notturno) o comparire in occasione di eventi specifici. A volte, inoltre, possono manifestarsi con una cadenza regolare e dar luogo a sequenze più o meno prolungate di bigeminismo (alternanza regolare di un complesso del ritmo dominante e di un’extrasistole), trigeminismo (ogni extrasistole si manifesta dopo due complessi del ritmo di base), quadrigeminismo (un’extrasistole ogni tre complessi del ritmo di base) e così via. Nella maggior parte dei casi, le extrasistoli sono isolate (un solo complesso ectopico si manifesta tra due battiti del ritmo dominante) ma, a volte, possono essere ripetitive e presentarsi sotto forma di coppia (due battiti ectopici consecutivi non separati da complessi del ritmo di base) o di tripletta (tre extrasistoli consecutive). La tripletta configura già una tachicardia non sostenuta (sopraventricolare o ventricolare).
EXTRASISTOLI ATRIALI (Figura 2, Figura 3, Figura 4, Figura 5) Sono riconoscibili per la presenza di:
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onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali;
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pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria;
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QRS solitamente identico a quelli sinusali. Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del sistema di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della conduzione. Il più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto a quello dei complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione atrioventricolare e, in tal caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta). In altre occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza). (Figura 6) I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente tollerati dal paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori, quali il flutter e/o la fibrillazione atriale. EXTRASISTOLI GIUNZIONALI Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede in modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. (Figura 7) Sono caratterizzate da:
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QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base; assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-V, oppure può
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coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P dovuta alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può precedere, seguire o anche coincidere con il QRS prematuro. EXTRASISTOLI VENTRICOLARI (Figura 8, Figura 9, Figura 10) La diagnosi si basa sui seguenti elementi:
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QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base; mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde P retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici; pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio. La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di base, potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di un’origine ventricolare dei QRS. A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro prognosi dipende dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei quali può non essere necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza di una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti. I BATTITI DI SCAPPAMENTO Si manifestano quando un pacemaker secondario, dotato di bassa frequenza di scarica e solitamente depolarizzato dal segnai dominante, riesce a emettere il proprio impulso. Il fenomeno si osserva in caso di un improvviso rallentamento del pacemaker dominante (conseguente a patologia intrinseca come nella malattia del nodo del seno, ipertono vagale, effetto di farmaci, etc.) o anche per un disturbo di conduzione dell’impulso del ritmo dominante (blocco senoatriale o A-V, vedi Capitolo 41). In alcuni casi anche una pausa postextrasistolica particolarmente prolungata può causare l’insorgenza di un complesso di scappamento. I battiti di scappamento non necessitano di terapia, ma spesso bisogna trattare la condizione che ne ha determinato la comparsa. Scappamento atriale La diagnosi si basa sulla presenza di un’onda P differente da quella sinusale, che si inscrive al termine di un intervallo più lungo del ciclo di base. Scappamento giunzionale (Figura 11, Figura 12) Può essere riconosciuto per la presenza di QRS identici a quelli del ritmo di base, che si manifestano al termine di intervalli più lunghi di quello sinusale e non sono preceduti da un’onda P. A volte la P sinusale compare prima dello scappamento giunzionale, ma con un intervallo molto breve, incompatibile con la conduzione A-V. Scappamento ventricolare (Figura 13) E’ facilmente riconoscibile per la comparsa di un QRS largo, differente da quelli del ritmo di base, al termine di un intervallo relativamente lungo, più del ciclo sinusale. Analogamente a quanto accade per lo scappamento giunzionale, la P sinusale può essere riconoscibile ma appare dissociata dal QRS di scappamento, oppure manca, ed è sostituita da una P retrocondotta.
Capitolo 38 TACHICARDIE PAROSSISTICHE SOPRAVENTRICOLARI Rossella Troccoli, Matteo Di Biase DEFINIZIONE Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare (tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia da rientro atrio-ventricolare). TACHICARDIA DA RIENTRO NODALE La tachicardia da rientro nodale rappresenta i 2/3 circa di tutte le TPS e si riscontra nel 2-3% della popolazione generale. La sua più comune manifestazione avviene nel quarto decennio di vita. Colpisce prevalentemente il sesso femminile (rapporto 2:1).
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Fisiopatologia Alla base di questa tachicardia vi è un rientro intranodale dovuto alla dissociazione longitudinale del nodo in una via rapida e una via lenta (Figura 1). Il rientro si può realizzare perché le due vie sono caratterizzate da una diversa velocità di conduzione (nella via rapida la conduzione è più veloce) e un differente periodo refrattario, che è più breve nella via lenta. Durante ritmo sinusale, l’impulso percorre entrambe le vie (Figura 2A). La via rapida verrà attraversata in un tempo più breve e raggiungerà la via inferiore comune quando la via lenta è stata attivata solo in parte. L’impulso che proviene dalla via rapida può, quindi, percorrere la via lenta in senso retrogrado e collidere con il fronte d’onda anterogrado che sta percorrendo questa via (vedi Capitolo 36). L’impulso sinusale, pertanto attiva i ventricoli soltanto attraverso la via rapida, e l’intervallo P-R, espressione del tempo di conduzione atrio-ventricolare, sarà breve. Un impulso prematuro (extrasistole) atriale può incontrare la via rapida nel periodo refrattario e bloccarsi, mentre la via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile (Figura 2B). L’impulso che percorre la via lenta raggiunge la via inferiore comune e può invadere in senso retrogrado la via rapida: a causa del lungo tempo che l’impulso ha impiegato a percorrere la via lenta, la via rapida sarà uscita completamente dalla refrattarietà e potrà, essere percorribile in senso retrogrado (Figura 2C). L’impulso può, quindi, raggiungere gli atri e contemporaneamente invadere il fascio di His progredendo verso i ventricoli. Se questo meccanismo si mantiene, si instaura una tachicardia da rientro nodale. L’impulso atriale prematuro che scatena il rientro si associa ad un marcato allungamento dell’intervallo PR (“salto” della conduzione dalla via rapida alla via lenta). La tachicardia da rientro con conduzione anterograda lungo la via lenta e retrograda lungo la rapida viene definita di tipo “comune”. Caratteristiche cliniche I pazienti con una TPS da rientro nodale possono lamentare cardiopalmo ritmico ad insorgenza improvvisa, non correlata con eventi particolari, ed interruzione altrettanto brusca. Talora presentano lipotimie o, in presenza di elevata risposta ventricolare dispnea, angina, sincope. Un sintomo non infrequente è la poliuria pallida, dovuta ad aumentata increzione di peptide natriuretico atriale durante la tachicardia.
Elettrocardiogramma La tachicardia da rientro nodale è caratterizzata da QRS stretti con intervalli R-R costanti, a frequenza in genere compresa tra 120 e 200/m’. Nella forma tipica l’onda P è nascosta nel QRS, poiché atri e ventricoli si attivano simultaneamente, o può essere inscritta appena prima o appena dopo il complesso QRS simulando un’onda r’ in V1 o una pseudo-s nelle derivazioni II, III e aVF (Figura 3). La stimolazione atriale, eseguita durante studio elettrofisiologico transesofageo o intracavitario, permette di indurre la tachicardia, caratterizzata dalla contemporanea attivazione degli atri e dei ventricoli. Terapia L’interruzione della tachicardia da rientro nodale si ottiene stimolando il vago in modo da indurre il blocco dell’impulso in una parte del circuito. Poiché la persistenza della tachicardia dipende dall’ininterrotto circolare dell’impulso, l’impossibilità del fronte d’onda a proseguire il suo percorso corrisponde al cessare della tachicardia. Le manovre che incrementano il tono vagale come la manovra di Valsalva, il massaggio del seno carotideo, il conato di vomito, l’immersione del viso in acqua fredda, sono utili e di solito rappresentano il primo tentativo per l’interruzione dell’aritmia. Se le manovre vagali sono inefficaci si possono utilizzare farmaci somministrati per via venosa, fra i quali l’adenosina, il Verapamil e gli antiaritmici della Classe 1C (vedi Capitolo 58). Nel trattamento a lungo termine della tachicardia da rientro nodale l’approccio di scelta è l’ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61), ottenuta erogando energia a radiofrequenza sulla via nodale lenta attraverso un catetere ablatore posto in corrispondenza del triangolo di Koch (area compresa tra seno coronarico, tendine di Todaro e lembo settale della tricuspide). TACHICARDIA DA RIENTRO ATRIO-VENTRICOLARE Le vie anomale di conduzione atrio-ventricolare forniscono il substrato per queste tachicardie reciprocanti, che vengono distinte in ortodromiche e antidromiche. Fisiopatologia Le vie accessorie sono connessioni atrio-ventricolari anomale congenite, derivanti da una incompleta separazione dell’atrio dal ventricolo primitivo da parte dell’anello fibroso durante lo sviluppo embrionale del cuore. Normalmente la comunicazione elettrica fra atri e ventricoli è affidata solo al sistema di conduzione (nodo A-V, fascio di His, branche), mentre in alcuni soggetti esiste un’altra (a volte più di una) via di conduzione che connette direttamente l’atrio al ventricolo: il fascio di Kent (Patologia 44). La presenza di due vie crea un circuito che comprende l’atrio, il nodo A-V, il fascio di His, una branca, un ventricolo e il fascio di Kent (Figura 4): è quindi possibile lo scatenarsi di una tachicardia da rientro, definita atrio-ventricolare poiché sia l’atrio che il ventricolo fanno parte del circuito. Il fascio di Kent è formato da miocardio comune, cioè da fibre rapide Na dipendenti, per cui possiede una velocità di conduzione maggiore rispetto alla via nodo-hissiana, ed è in grado di trasmettere l’impulso sia in senso
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anterogrado che retrogrado; in diversi casi, tuttavia, la conduzione è solo retrograda. Durante ritmo sinusale, la via accessoria riesce a depolarizzare una parte più o meno grande dei ventricoli prima che questi vengano raggiunti dall’impulso condotto attraverso il normale sistema di conduzione. Si realizza così il quadro della preeccitazione, caratterizzata da intervallo P-R breve, onda delta e QRS largo (vedi Capitolo 3) (ECG 37). Quando a questi caratteri ECG si associa la tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro A-V, si delinea la sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW). Le tachicardie da rientro A-V si distinguono in ortodromiche e antidromiche. Nelle prime la conduzione anterograda avviene lungo il normale sistema di conduzione e quella retrograda lungo la via accessoria, mentre nelle forme antidromiche la conduzione anterograda avviene lungo la via accessoria e quella retrograda attraverso il normale sistema di conduzione. L’impulso proveniente dall’atrio si diffonde nei ventricoli mediante il normale sistema di conduzione (branche e rete di Purkinje) nelle tachicardie ortodromiche, mentre nelle antidromiche l’impulso raggiunge i ventricoli tramite la via accessoria, e quindi si diffonde attraverso il miocardio comune. In quest’ultimo caso la tachicardia sarà a QRS larghi, mentre nelle forme ortodromiche i complessi saranno stretti (tranne che non vi sia un blocco di branca), in accordo con la normale conduzione intraventricolare dell’impulso. Caratteristiche cliniche La maggior parte dei pazienti con tachicardia sopraventricolare da rientro atrio-ventricolare non presenta cardiopatie organiche sottostanti. Tuttavia, in circa il 20% dei bambini con preeccitazione è possibile riscontrare una cardiopatia congenita (anomalia di Ebstein, vedi Capitolo 53). I pazienti in genere lamentano cardiopalmo ritmico o aritmico, talora associato a dispnea o sincope. La tachicardia, spesso correlata allo sforzo, insorge e si risolve improvvisamente. Elettrocardiogramma A ritmo sinusale l’ECG può presentare i segni della preeccitazione o essere normale. Durante tachicardia ortodromica il QRS è generalmente stretto, gli intervalli RR sono regolari, e l’onda P si localizza nel tratto ST o nell’onda T, con intervallo RP > 70 msec. Durante tachicardia antidromica, invece, il QRS è largo come nelle tachicardie ventricolari, e la morfologia del QRS è simile a quella che si ha durante preeccitazione massima. In circa il 10% dei pazienti con Sindrome di WPW compare una fibrillazione atriale (Figura 5). In questi è possibile che per la rapida conduzione degli impulsi di fibrillazione lungo la via accessoria si raggiunga un’alta frequenza ventricolare, che può degenerare in fibrillazione ventricolare. Terapia Farmaci in grado di bloccare la conduzione atrio-ventricolare, come l’adenosina e i calcio-antagonisti, bloccano o rallentano la conduzione nel nodo A-V, parte del circuito, ed interrompono il rientro, arrestando la tachicardia Nel trattamento a lungo termine sono efficaci i farmaci di classe I e III (vedi Capitolo 58). Nei pazienti sintomatici, con TPS mal tollerata, oppure sincope o fibrillazione atriale pre-eccitata l’ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61) rappresenta la terapia di scelta. Questo trattamento viene attualmente indicato anche in tutti i Pazienti paucisintomatici ed in tutti quelli che svolgono particolari attività lavorative (atleti, piloti, ecc.).
Capitolo 39 FIBRILLAZIONE E FLUTTER ATRIALE Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita Fibrillazione atriale DEFINIZIONE La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a un blocco nel nodo atrio-ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale. EZIOLOGIA Le cause della FA possono essere molteplici (Figura 1). In ato la patologia sottostante più frequente era rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo ventennio le malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro, con conseguente aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA viene definita come idiopatica o “lone fibrillation”. ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati, specialmente nelle vene polmonari,
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segnai capaci di emettere impulsi a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli circuiti di rientro, che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico fronte di attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera ordinata tutta la massa atriale in un tempo relativamente breve, ma si realizzano multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera continuamente variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree atriali che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti) per tutto il ciclo cardiaco. Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si contraggono, ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la progressione del sangue perchè non vi è sincronismo nell’attività delle diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare, soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare: anche quando il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue a dall’atrio al ventricolo durante la proto e mesodiastole, cioè ivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il riempimento ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo della contrazione atriale diviene preminente nel favorire il riempimento ventricolare, per cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può provocare una importante riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso cardiaco. EPIDEMIOLOGIA La fibrillazione atriale è molto frequente nella pratica clinica, e la sua incidenza aumenta con l’età; circa il 5% della popolazione con età maggiore di 65 anni ne è affetto. Pur non rappresentando sempre una condizione clinica di emergenza, la FA è una importante causa di incremento di mortalità per malattie cardiovascolari ed è associata ad un aumento di episodi di stroke ed a peggioramento della qualità di vita. QUADRO CLINICO La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche manifestarsi con dispnea, affaticabilità, dolore toracico (Figura 2). In circa il 20% dei casi la FA è completamente asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche (ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrioventricolare. Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve, invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta. La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono parasimpatico, come accade durante esercizio fisico. Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una riduzione della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti può esitare in scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA. ELETTROCARDIOGRAMMA L'ECG mostra l’assenza delle onde P (che sono l’espressione dell’attività elettrica atriale normale) e la presenza delle caratteristiche onde fibrillatorie rapide (onde f), le quali appaiono come irregolari ondulazioni della linea isoelettrica (Figura 3), e sono continue, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro frequenza varia tra 380 e 600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità da momento a momento. Le onde fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi scarsamente visibili (FA ad onde fini, Figura 3A), oppure di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane Figura 3B).
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Gli intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a livello del nodo atrio-ventricolare che funge da “filtro” nel aggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli. CLASSIFICAZIONE Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico (Figura 4) è utile distinguere un primo episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o più episodi, la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La categoria della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata tentata. TRATTAMENTO Profilassi degli eventi cardioembolici Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal rischio tromboembolico (Figura 5) calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età > 75 anni, diabete mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari all’1% per anno. Cardioversione Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica. La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le cellule cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia. Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica; tra questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore, mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente. Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il periodo in cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione atriale favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di anticoagulazione efficace di almeno 4 settimane. Controllo del ritmo e controllo della frequenza Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale (controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media accettabile (controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o molto sintomatici o con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici. Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I (chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75 % per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la strategia del controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o chirurgiche che consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari (Figura 6). Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta con l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-bloccanti generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-antagonisti.
Flutter atriale DEFINIZIONE Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare avviene con un
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rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può presentare rapporti di conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2). L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale. ELETTROGENESI Il meccanismo elettrogenetico del flutter atriale è il rientro (vedi Capitolo 36). Si tratta, nelle forme tipiche, di un circuito posto nell’atrio destro, delimitato dall’anello tricuspidalico, dalla crista terminalis e dalla valvola di Eustachio. Il fronte d’onda può percorrere il circuito in direzione antioraria (flutter comune) o oraria (flutter non comune) dando luogo a due quadri diversi da un punto di vista dell’Elettrocardiogramma. La zona critica per l’innesco ed il mantenimento dell’aritmia è rappresentata dall’istmo cavo-tricuspidale, compreso fra l’anulus della tricuspide e l’orificio della vena cava inferiore. Sono possibili altri macrocircuiti di rientro sia nell’atrio destro che in quello sinistro; quando la sede del circuito è diversa da quella classica, il flutter atriale viene definito atipico. QUADRO CLINICO I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini, dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope. CLASSIFICAZIONE Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300 al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali vengono condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico. Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non essendo separate da linea isoelettrica (Figura 7); nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia a denti di sega e sono separate da linea isoelettrica (Figura 8). Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde F sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune (oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1. TRATTAMENTO Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58) sono farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà del nodo A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide somministrata per via endovenosa . Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo “Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter atriale che dura da più di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione elettrica atriale può efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza, erogati da un apposito stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del circuito di rientro, impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia. E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene eseguita inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso percorra il circuito, una parte del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.
Capitolo 40 TACHICARDIE VENTRICOLARI Stefano Favale, Pierangelo Basso, so Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella DEFINIZIONE Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur avendo durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave compromissione emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici e polimorfa quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme seguenti: TV
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Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza <150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l'80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra 100 e 150 b/m). ELETTROGENESI La genesi delle TV è dovuta alla presenza di un anomalo generatore di impulsi nei ventricoli, da ricondurre a uno dei seguenti meccanismi: rientro, esaltato automatismo, attività triggerata (vedi Capitolo 36). Un esempio paradigmatico di rientro è dato dalla tachicardia ventricolare post-infartuale. Il miocardio ventricolare andato incontro ad infarto è costituito da aree cicatriziali frammiste ad aree di miocardio ancora vitale che nell’insieme costituiscono un circuito fibrocellulare chiuso, con disomogeneità dei periodi refrattari in vari punti di esso. Un extrastimolo precoce può subire un blocco unidirezionale nella zona con periodo refrattario più lungo (quindi ancora ineccitabile) e percorrere con rallentamento della conduzione la zona con periodo refrattario più corto, e che quindi è già eccitabile. Una volta percorsa l’area di miocardio eccitabile, l’impulso può rientrare in senso opposto nella zona precedentemente ineccitabile (che nel frattempo ha recuperato dalla refrattarietà) e percorrere l’intero circuito. In questo modo il fronte d’onda trova sempre davanti a sé tessuto eccitabile e ciò consente l’automantenimento dell’aritmia che si è generata. EZIOLOGIA Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti del cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione anatomica di dimensioni troppo piccole per essere messa in evidenza dai comuni presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto funzionale dei canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo congenito, Sindrome di Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di tutte le TV. Le TV che si associano ad una alterazione anatomica del cuore possono complicare, talora con significato di evento terminale, tutte le cardiopatie, alcune in particolare.
TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro. Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa, in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie. La frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa. Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non raramente questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica in pazienti prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia ventricolare sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi del rischio di morte improvvisa in questi pazienti. La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 31). Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi Capitolo 16). Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può are luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15).
TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia. La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi Capitolo 43). In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di una “torsione di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione ventricolare. La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune alterazioni
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dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43). Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV. CONSEGUENZE EMODINAMICHE I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio. Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo atriale al riempimento ventricolare. Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di origine dell’ aritmia (circuito o focus ) l'impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una desincronizzazione tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione La funzione ventricolare sinistra e l'eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è compromesso solamente per le caratteristiche intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed eccentricità). Una TV in un paziente con severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione), invece, può determinare importanti riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto elevate. QUADRO CLINICO La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto pazienti asintomatici quanto pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel determinare la sintomatologia sono la frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base. La sensazione più comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento della frequenza delle contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può riferire angor legato in questo caso alla discrepanza (squilibrio tra richiesta e apporto di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una cardiopatia ischemica. Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante scompenso cardiaco. All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà frequente, piccolo e ritmico. Un dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in presenza di dissociazione atrio-ventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è dissociata da quella atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del ciclo cardiaco; se essa cade a valvole AV chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio al riempimento ventricolare, mentre quando gli atri si contraggono poco prima della sistole ventricolare, nella fase in cui le valvole A-V sono aperte, aumenterà il riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel battito. In questa circostanza anche l’ampiezza del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta sincronizzazione A-V (onda P poco prima del QRS) è casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione cardiaca evidenzierà toni ritmici e tachicardici, con a volte variabile intensità del I tono (la genesi di questo fenomeno è identica a quella che governa la variabile ampiezza del polso), mentre quella polmonare potrà essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie bolle) nel caso in cui la tachicardia ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare. Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i sintomi legati alla bassa portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le vertigini o la sincope (per ipoperfusione della sostanza reticolare). ELETTROCARDIOGRAMMA La diagnosi di Tachicardia Ventricolare si avvale fondamentalmente dell’elettrocardiogramma, che mette in evidenza: - una sequenza di 3 o più battiti ventricolari consecutivi; - complessi QRS di durata uguale o superiore a 0.12 sec; - la possibile dissociazione atrio-ventricolare (Figura 1). Il QRS, in corso di TV, ha una durata sempre (0.12 sec, mentre la sua morfologia assumerà un aspetto tipo blocco di branca destra o sinistra a seconda del ventricolo in cui insorge l’aritmia. Nella TV, infatti, il ventricolo da cui nasce l’aritmia si attiva prima del controlaterale, che viene raggiunto dal processo di depolarizzazione tardivamente; lo stesso sfasamento si realizza nel blocco di branca, dove il ventricolo la cui branca è incapace di condurre si attiva in ritardo. Perciò quando la TV nasce nel ventricolo destro la morfologia del QRS somiglierà a
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quella di un blocco di branca sinistra (prima si attiva il ventricolo destro, poi il sinistro), e una TV originatasi nel ventricolo sinistro avrà un aspetto simile a un blocco di branca destra. Bisogna fare attenzione alla non semplice diagnosi differenziale fra le TV e le tachicardie sopraventricolari a QRS largo per conduzione aberrante frequenzadipendente o per blocco di branca preesistente; inoltre anche le tachicardie sopraventricolari condotte ai ventricoli attraverso una via anomala hanno QRS larghi (vedi Capitolo 38). Particolare è il quadro elettrocardiografico in caso di Torsione di Punta dove, su un ritmo di base solitamente bradicardico e con QT allungato (soprattutto nei casi di ipokalemia), si osserva una sequenza di ventricologrammi con continua e graduale variazione della polarità, che diviene da positiva a negativa e viceversa. Altri mezzi diagnostici sono una registrazione più dettagliata dell’attività atriale tramite l’ECG transesofageo (registrato ponendo un sondino munito di un elettrodo a livello esofageo) che permette di valutare meglio il rapporto atrio-ventricolare, e l’ECG endocavitario, registrato tramite cateteri in atrio e in ventricolo. CENNI DI TERAPIA Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali il DC Shock sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a frequenze superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del paziente. Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se necessarie, indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà condotta esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da i elettrici (defibrillatore impiantabile) nei pazienti con rischio più elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.
Capitolo 41 BRADICARDIE sco Arrigo, Giuseppe Andò DEFINIZIONE Ogni ritmo cardiaco diverso dalla fisiologica cadenza degli impulsi regolata del NSA, con frequenza e conduzione normali, si definisce aritmia. Secondo la nomenclatura oggi condivisa, le alterazioni del ritmo che si manifestano con riduzione della frequenza cardiaca vengono definite bradicardie. Nel capitolo delle bradicardie sono tuttavia incluse alcune manifestazioni aritmiche che non si accompagnano necessariamente a riduzione della FC, come l’aritmia sinusale, il segnai migrante, il blocco A-V (BAV) di I grado (Tabella I). Le aritmie con riduzione della frequenza cardiaca sono causate da deficit dell’automatismo o da compromissione della conduzione e sono riconducibili a due grandi gruppi, le disfunzioni sinusali e i BAV. Legenda degli acronimi impiegati nel testo AV - atrio-ventricolare BAV - blocco atrio-ventricolare BSA - blocco seno-atriale bpm - battiti per minuto ECG – elettrocardiogramma FC - frequenza cardiaca MAS - Sindrome di Morgagni-Adams-Stokes NAV - nodo atrio-ventricolare (nodo di Tawara) NSA - nodo seno-atriale (nodo di Keith e Flack). SSS - sick sinus syndrome, sindrome del seno malato. MECCANISMI ELETTROFISIOLOGICI I meccanismi che possono indurre bradicardia sono fondamentalmente la depressione dell’automatismo e le alterazioni della conduzione seno-atriale ed atrio-ventricolare (AV). La stimolazione regolare e continua del cuore è assicurata da fibrocellule specializzate, poste principalmente nel NSA, ma anche - in misura sempre minore - nel tessuto di conduzione e nel miocardio di lavoro. Queste cellule sono dotate di automatismo, cioè della proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a riposo (depolarizzazione in fase 4): il potenziale di riposo decresce gradualmente fino a raggiungere il potenziale soglia che innesca il
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potenziale d’azione (vedi Capitolo 40). Le fibrocellule specializzate poste nel NSA (cellule P) sono immerse in una matrice fibrosa e circondate da un alone di cellule di transizione (cellule T o tessuto perinodale) nelle quali la trasmissione dell’impulso è rallentata. La depolarizzazione cardiaca, iniziata dalle cellule del NSA, si estende poi attraverso vie di conduzione specifiche prima al miocardio atriale e, attraverso il NAV, al sistema di conduzione intraventricolare (fascio di His e branche) ed al miocardio di lavoro (Figura 1). La frequenza di depolarizzazione del NSA è posta sotto il controllo dell’equilibrio autonomico tra il sistema nervoso simpatico ed il parasimpatico e presenta nelle diverse specie animali una grossolana correlazione inversa con le dimensioni corporee. Nell’uomo adulto, la FC viene convenzionalmente definita normale quando è compresa tra 60 e 100 bpm; pertanto una FC inferiore a 60 bpm è definita bradicardia, una FC superiore a 100 bpm è definita tachicardia. Una FC inferiore a 60 bpm è un reperto comune nella pratica clinica e, pur essendo spesso un riscontro occasionale e del tutto benigno, può talora determinare una sensibile riduzione della portata cardiaca con conseguenze cliniche di rilievo. Occorre tenere ben presente che la FC varia fisiologicamente da individuo a individuo in base all’età, al grado di allenamento fisico ed al momento dell’osservazione. Ad esempio, negli atleti allenati è facile osservare una FC a riposo inferiore a 40 bpm, senza che ciò abbia un significato patologico. Anche durante il sonno, specie durante la fase REM, una FC inferiore a 40 bpm è del tutto normale. Un importante aspetto per la valutazione di una FC bassa è la risposta cronotropa allo sforzo fisico, ovvero la capacità del cuore di aumentare la frequenza in base al grado di esercizio. Una risposta cronotropa inadeguata (incompetenza cronotropa), insieme all’incapacità di raggiungere la FC massima teorica prevista per l’età del soggetto al picco dello sforzo (definita in bpm dalla formula 220 - età in anni) suggeriscono fortemente l’esistenza di un’alterata funzione sinusale che richiede attenzione clinica. In conclusione, anche se scolasticamente è definita come una FC inferiore a 60 bpm, la bradicardia può essere meglio caratterizzata come una frequenza inappropriatamente bassa in relazione all’età, al livello di attività fisica ed al grado di allenamento. Pertanto, la bradicardia deve essere oggetto di ulteriori approfondimenti diagnostici o di una terapia specifica solo quando è associata a sintomi acuti o cronici di bassa portata cardiaca, a riposo o durante esercizio fisico. Le fasi necessarie per la definizione della natura fisiologica o “patologica” della bradicardia e per una corretta gestione clinica del paziente bradicardico sono dunque:
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la comprensione del meccanismo fisiopatologico (alterazione della formazione e/o della conduzione dello stimolo) responsabile della bassa o inappropriata frequenza cardiaca; l’identificazione delle cause, reversibili o irreversibili, della bradicardia; la valutazione del rischio di potenziali conseguenze infauste come la sincope, l’insufficienza cardiaca, le tachicardie , i fenomeni trombo-embolici e la morte improvvisa per asistolia prolungata; la scelta di una terapia individualizzata. ASPETTI CLINICI Le bradicardie possono essere congenite o acquisite. Le disfunzioni sinusali congenite sono estremamente rare, mentre il BAV congenito è spesso associato ad altre cardiopatie. Fra le forme acquisite, le più frequenti sono quelle legate a fenomeni degenerativi senili ed alla cardiopatia ischemica. Altre cause frequenti sono le cardiomiopatie infiltrative, come la sarcoidosi, l’amiloidosi e l’emocromatosi. Più rari sono oggi i BAV dovuti a malattia reumatica. Particolare attenzione va posta alle forme iatrogene causate sia da farmaci che deprimono la conduzione, in particolare i glucosidi della digitale, sia dalle procedure interventistiche cardiache che possono provocare lesioni del sistema di conduzione. La presenza di manifestazioni cliniche dipende dal grado e dalla rapidità di riduzione della portata cardiaca. Finché l’aumento compensatorio della gittata sistolica controbilancia la diminuzione della frequenza, anche i pazienti con bradicardia spiccata possono rimanere asintomatici e la loro bradicardia essere scoperta occasionalmente. All’altro estremo dello spettro clinico, il paziente può presentarsi con un’ampia varietà di segni e sintomi. Le bradicardie sono associate a due quadri fisiopatologici principali, la sindrome da ipoperfusione cerebrale e la sindrome da bassa portata. Tra questi la sincope (vedi Capitolo 42), cioè la perdita di coscienza che segue un arresto cardiaco prolungato, è il più drammatico. Brevi periodi di arresto della durata di pochi secondi possono, infatti, are inosservati, ma se l'arresto cardiaco si prolunga, per 5-6 secondi in posizione eretta e per 8-10 secondi in posizione supina, in assenza di un ritmo di scappamento che possa mantenere l'attività cardiaca, si verifica l’improvvisa perdita della coscienza con caduta a terra per mancanza del tono posturale. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, quando si verifica un arresto per disfunzione sinusale o per mancata conduzione dell'impulso dagli atri ai ventricoli, centri automatici inferiori si depolarizzano spontaneamente e danno luogo a ritmi di scappamento che mantengono un'attività cardiaca emodinamicamente sufficiente anche se a bassa frequenza. Pertanto la condizione essenziale perché si verifichi un arresto cardiaco sintomatico in corso di bradicardia è la mancata attivazione di un centro ectopico vicariante. Gli episodi sincopali maggiori dovuti a bradicardie parossistiche sono stati definiti come Sindrome di MorgagniAdams-Stokes (MAS), dal nome degli autori che per primi hanno descritto questo quadro: perdita improvvisa della
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coscienza, con caduta ed eventuali fasi convulsive con scosse tonico-cloniche, non preceduta da alcun sintomo ed indipendente dalla posizione o da altre situazioni note per indurre sincope. Si ha anche la perdita del controllo degli sfinteri e compaiono cianosi, gasping respiratorio e morte, in caso di prolungamento della asistolia. Altre volte, i sintomi della bradicardia possono essere non specifici ed avere un andamento cronico: le vertigini transitorie, lo stato confusionale, la sensazione di “testa vuota” sono fenomeni che riflettono uno stato di ipoperfusione cerebrale relativa dovuta alla ridotta portata cardiaca; gli episodi di facile stancabilità e la debolezza muscolare con intolleranza all’esercizio fisico sono espressione del mancato o insufficiente aumento dell’apporto ematico ai muscoli scheletrici. La bradicardia può inoltre essere percepita soggettivamente sotto forma di palpitazioni, particolarmente se intervengono battiti prematuri, a causa della maggiore gittata sistolica del battito che segue quello prematuro e del più energico itto della punta. Chiare manifestazioni di insufficienza cardiaca, a riposo o durante sforzo, possono anch’esse essere determinate da bradicardia spiccata, specialmente nei pazienti con ridotta funzione ventricolare sinistra. LA DISFUNZIONE SINUSALE Eziologia La degenerazione fibrosa è considerata la più comune se non l’unica causa di disfunzione del NSA. Infatti, le modificazioni strutturali si associano alla progressiva riduzione della frequenza intrinseca di scarica del NSA che si verifica con l’invecchiamento. La malattia coronarica è molto frequente nei pazienti con disfunzione sinusale e l’ischemia della regione del NSA probabilmente contribuisce alla genesi delle bradiaritmie (ed anche delle tachicardie nella sindrome bradicardia-tachicardia). Aspetti diagnostici bradicardia sinusale. E’ definita dalla presenza di depolarizzazioni sinusali ad una frequenza inferiore a 60 bpm. La bradicardia sinusale è un reperto fisiologico negli atleti allenati, che spesso hanno una frequenza a riposo da svegli tra 40 e 50 bpm e possono avere una frequenza durante il sonno anche di 30 battiti al minuto; l’elevato tono vagale di questi soggetti può determinare anche pause sinusali o fasi di BAV di II grado tipo Wenckebach che producono pause asistoliche finanche di 3 secondi. In altri casi va posta molta cura nell’escludere cause farmacologiche attraverso un’accurata anamnesi. aritmia sinusale. In presenza di ritmo sinusale, gli intervalli P-P sono relativamente costanti, con variazioni da un intervallo dell'altro che non eccedono 0,16 secondi . Quando la differenza tra il ciclo più lungo e quello più corto è superiore a 0,16 secondi si parla di aritmia sinusale. Generalmente le onde P sono normali per asse e morfologia e l'intervallo PR resta costante, nonostante l’irregolarità dei cicli. La forma più frequente di aritmia sinusale è correlata all'attività respiratoria, con un accorciamento dell’intervallo P-P durante l'ispirazione per inibizione del tono vagale (aritmia sinusale respiratoria). Si tratta di una variante di normalità tipica dei giovani, senza alcun significato patologico. L’aritmia sinusale non respiratoria (Figura 2A) è invece caratterizzata da variazioni irregolari dell'intervallo P-P non correlate all'attività respiratoria e può essere espressione di una disfunzione sinusale. Arresto sinusale, blocco seno-atriale e sindrome bradicardia-tachicardia. La pausa sinusale (definita come un’assenza di attività elettrica più lunga del 150% di un ciclo cardiaco sinusale basale) può essere dovuta alla mancata formazione dell’impulso nel NSA (arresto sinusale) o ad un difetto nella conduzione dell’impulso dal NSA al tessuto atriale circostante (BSA). La manifestazione elettrocardiografica è in entrambi i casi l’assenza di un’onda P sinusale; nel BSA l’intervallo P-P durante la pausa è generalmente, ma non sempre, un multiplo dell’intervallo P-P normale (Figura 2C), mentre nell’arresto sinusale (Figura 2B) non è possibile dimostrare alcun rapporto numerico tra la durata del ciclo P-P basale e la durata della pausa. Le pause sinusali di durata inferiore a 3 secondi non hanno un significato clinico, ma l’emergenza di un ritmo di scappamento da un segnai atriale o giunzionale può favorire l’insorgenza di tachiaritmie atriali, come la fibrillazione atriale o il flutter atriale. Pause più lunghe possono invece causare episodi sincopali. La sindrome bradicardia-tachicardia è una manifestazione della disfunzione sinusale che determina sintomi importanti ed è caratterizzata dalla coesistenza di fasi di bradicardia o asistolia e di tachiaritmie atriali. La coesistenza dei due tipi di aritmia non è casuale, in quanto da un lato la spiccata bradicardia o le pause prolungate dovute ad arresto sinusale o a BSA possono facilitare l'innesco di una tachiaritmia atriale; dall’altro un’aritmia rapida atriale deprime l'automatismo del NSA di modo che alla sua cessazione la ripresa dell'attività spontanea sinusale è lenta e possono manifestarsi bradicardia molto spiccata o pause prolungate, dette pause pre-automatiche (Figura 2D). Aspetti fisiopatologici e clinici Le manifestazioni cliniche delle disfunzioni sinusali risultano spesso dalla combinazione di più tipi di aritmia e sono riportabili a due quadri specifici, la sindrome del seno malato e la sindrome del seno carotideo. La bradicardia sinusale isolata è un reperto generalmente benigno, di osservazione clinica frequente, e solo in casi selezionati necessita di trattamento.
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La sindrome del seno malato (sick sinus syndrome, SSS, o malattia aritmica atriale) è una delle cause più frequenti di bradicardia nel soggetto anziano e comprende non solo una depressione dell’automatismo del NSA, ma anche un’alterazione della conduzione seno-atriale ed intra-atriale ed aritmie atriali rapide tra cui soprattutto la fibrillazione atriale. La SSS si esprime clinicamente con vari gradi di gravità che vanno dalle forme più semplici di bradicardia sinusale o di FC inappropriata, generalmente benigna ed asintomatica (1° stadio), alle forme persistenti con bradicardia spiccata, arresto sinusale o BSA e sintomi di bassa portata o di ipoperfusione cerebrale e sincope (2° stadio), alle forme con alternanza di bradicardia e tachicardia (sindrome bradicardia-tachicardia o bradi-tachi) per lo più fortemente sintomatiche, anche con episodi sincopali maggiori. Per il corretto inquadramento diagnostico e per operare scelte terapeutiche mirate è di fondamentale importanza mettere in relazione eventuali sintomi con le suddette aritmie, finalità per la quale spesso l’ECG convenzionale non è sufficiente, poiché gli episodi aritmici sono intermittenti: nello stesso paziente ed in diversi momenti di osservazione possono essere presenti manifestazioni aritmiche differenti. In questi casi, la diagnostica strumentale deve essere integrata con l’ECG dinamico (Holter), i sistemi di registrazione elettrocardiografica impiantabili e lo studio elettrofisiologico. In particolare, per rivelare la presenza di una depressione dell'automatismo sinusale si ricorre alla stimolazione atriale rapida, mediante la quale viene calcolato il cosiddetto tempo di recupero del NSA; con la stessa metodica può esser misurato il tempo di conduzione seno-atriale. Poiché la disfunzione sinusale può essere espressa da un’incompetenza cronotropa, l’esercizio fisico o uno stress farmacologico possono rivelare l’incapacità del NSA di incrementare la frequenza; un incremento della FC inferiore al 50% in risposta all'esercizio fisico ed inferiore al 30% dopo somministrazione di atropina sono indici di disfunzione sinusale. La sindrome del seno carotideo, nella sua variante cardio-inibitoria, consiste nella comparsa di episodi di asistolia per arresto sinusale o BSA. Meno frequentemente il fenomeno è causato da un BAV parossistico. La sindrome viene innescata dalla stimolazione del seno carotideo, anche meccanica, che induce una marcata risposta vagale. Nella variante vaso-depressiva si osserva una diminuzione della pressione sistolica uguale o superiore a 50 mmHg. I pazienti con sindrome del seno carotideo (vedi Capitolo 42) sono sintomatici per sincopi o lipotimia, ma non sempre l'evento clinico è riferibile all'aritmia. Occorre anche in questo caso dimostrare la coincidenza tra l’alterazione elettrocardiografica ed il fenomeno clinico, dimostrazione che può essere ottenuta con relativa semplicità mediante l’esecuzione di un massaggio del seno carotideo o durante il tilt test che si esegue per lo studio della sincope vaso-vagale. Nella forma puramente cardio-inibitoria la stimolazione cardiaca permanente può risolvere i sintomi. IL BLOCCO ATRIO-VENTRICOLARE Lo stimolo generato dal NSA si diffonde agli atri, attraversa il nodo AV e viene condotto ai ventricoli per mezzo del fascio di His e del sistema di conduzione intraventricolare. Tutto ciò avviene fisiologicamente in un tempo compreso tra 0,12 e 0,20 secondi. Alterazioni organiche o funzionali del sistema di conduzione possono determinare un rallentamento della conduzione dell’impulso atriale, con prolungamento dell’intervallo PR oltre 0,20 secondi (BAV di I grado), o un blocco parziale della conduzione, con la conseguenza che alcune onde P non sono seguite da complessi QRS (BAV di II grado), o una completa interruzione della conduzione, per cui nessun impulso sinusale viene condotto ai ventricoli (BAV di III grado o completo). Il rallentamento o il blocco della conduzione possono verificarsi, in maniera transitoria o stabile, a livello di tutte le componenti del sistema di conduzione, ovvero a livello del NAV (blocco intra-nodale o sopra-hisiano), a livello del fascio di His (blocco intra-hisiano), o nelle branche (blocco sotto-hisiano). Di norma, i blocchi sotto-hisiani si associano a complessi QRS larghi (superiori a 0,12 secondi), particolarmente se il ritmo di scappamento è ventricolare. La distorsione della depolarizzazione ventricolare, espressa all’ECG dal QRS largo, determina un’alterazione del sincronismo di contrazione ventricolare la quale produce effetti emodinamici negativi indipendenti da quelli dovuti alla bradicardia ed alla dissociazione AV ed additivi rispetto ad essi; pertanto, i blocchi sotto-Hisiani sono emodinamicamente tollerati peggio dei blocchi più prossimali. Aspetti diagnostici BAV di I grado. É riconoscibile all'elettrocardiogramma per il prolungamento dell’intervallo PR al di sopra di 0,20 secondi, con onde P sempre seguite da un complesso ventricolare. Dal punto di vista elettrofisiologico la sede del ritardo può essere a tutti i livelli del sistema di conduzione (NAV, fascio di His o branche). BAV di II grado. Del BAV di II grado si distinguono 4 diversi tipi. 1) BAV di II grado tipo 1 (o tipo Wenckebach). Questa forma è caratterizzata dal progressivo allungamento dell’intervallo PR, fin quando un impulso si blocca e non viene condotto ai ventricoli, cioè un’onda P non è seguita da un QRS, per cui si verifica una pausa. Subito dopo questa, l’intervallo PR è normale o comunque più breve di quello del ciclo precedente il blocco, mentre nei battiti successivi il PR si allunga di nuovo in maniera progressiva fino al blocco di un altro impulso, realizzando così dei periodismi, detti di Luciani-Wenckebach (Figura 3A). Il BAV di II grado tipo Wenckebach è in genere dovuto ad una lesione, per lo più reversibile, in sede nodale ed è particolarmente sensibile alle influenze vegetative (tono vagale) e farmacologiche. 2) BAV di II grado tipo 2 (o tipo Mobitz). Questa forma è caratterizzata dall’improvviso blocco della conduzione di un impulso, con una pausa asistolica uguale al doppio di un ciclo sinusale. Gli intervalli PR sono costanti prima e dopo il ciclo bloccato, senza allungamento dell’intervallo PR nel ciclo che precede la P bloccata;
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anche nel ciclo successivo all’impulso bloccato l’intervallo PR è identico a quello del ciclo precedente (Figura 3B). Il BAV di II grado tipo Mobitz è in genere dovuto ad una lesione intra-Hisiana, o sotto-Hisiana. 3) BAV di II grado 2: 1. Il BAV 2:1 è caratterizzato dall’alternanza di un impulso condotto e di un impulso bloccato (Figura 3C). 4) BAV di II grado avanzato. È definito dal blocco di due o più onde P consecutive (Figura 3D). BAV di III grado. Il BAV di III grado (o BAV completo) è caratterizzato dall’assenza della conduzione degli impulsi atriali ai ventricoli e dalla completa dissociazione dell’attività atriale, più rapida e caratterizzata dalle onde P sinusali, da quella ventricolare, che è governata da un ritmo di scappamento la cui analisi può fornire un’indicazione sulla sede del blocco (Figura 4). La presenza di un ritmo stabile, con frequenza tra 40 e 50 e complessi QRS stretti, suggerisce un ritmo di scappamento giunzionale; un ritmo di scappamento a complessi QRS larghi e a frequenza inferiore a 40, invece, suggerisce un blocco a livello più distale (blocco sotto-hisiano) e pertanto la necessità più urgente di un intervento terapeutico di elettrostimolazione cardiaca. Dissociazione AV. Con il termine dissociazione AV si indica la condizione in cui gli atri ed i ventricoli si attivano indipendentemente gli uni dagli altri; un segnai, in genere il NSA, attiva gli atri, un altro segnai, posto a livello giunzionale, fascicolare o ventricolare attiva i ventricoli. La dissociazione AV rappresenta una conseguenza implicita del BAV completo, ma non si identifica con esso in quanto è un fenomeno elettrofisiologico che può essere riconosciuto in diverse manifestazioni aritmiche, come ad esempio nel BAV di II grado o nella tachicardia ventricolare. Aspetti eziologici, fisiopatologici e clinici Il BAV di I grado è presente nel 5% circa della popolazione apparentemente sana ed è un reperto relativamente frequente anche fra i cardiopatici, poiché i fattori capaci di alterare la conduzione A-V, soprattutto a livello del NAV, sono numerosi. In forma isolata, è spesso un reperto elettrocardiografico occasionale, poiché nella maggior parte dei casi non determina sintomi e non necessita quindi di approfondimenti diagnostici specifici, se non per il riconoscimento della eziologia, potendo essere la prima manifestazione di una malattia reumatica ata inosservata, di una malattia infiltrativa cardiaca, di una disfunzione tiroidea, ecc. (Tabella II). Quando si può stabilire con sicurezza l'insorgenza recente del blocco, se si tratta di un paziente giovane occorre pensare a una malattia reumatica. In pazienti anziani con anamnesi di sincope ed in assenza di farmaci che deprimono la conduzione AV, un BAV di I grado di recente insorgenza è fortemente suggestivo di BAV parossistico di grado avanzato e richiede l'impianto di un pacemaker. Generalmente, il BAV di I grado non ha alcuna conseguenza emodinamica di rilievo. E’ possibile tuttavia che intervalli PR particolarmente lunghi, superiori a 0,30 secondi, possano determinare sintomi anche in assenza di gradi maggiori di BAV. Infatti, a causa del ritardo elevato, la sistole atriale si può verificare durante la protodiastole del ciclo cardiaco precedente o addirittura durante la sistole precedente, producendo una contrazione atriale contro le valvole atrio-ventricolari chiuse. In questi casi, il riempimento ventricolare viene compromesso, si perde il sincronismo atrio-ventricolare e possono conseguirne un aumento della pressione di incuneamento nei capillari polmonari ed una riduzione della portata cardiaca. Il BAV di II grado tipo 1 (Wenckebach) raramente si manifesta con sincope e più di frequente è un riscontro ECG incidentale o associato a sintomi aspecifici. Nella quasi totalità dei casi è l’espressione di un disturbo funzionale e reversibile della conduzione a livello del NAV, spesso causato dalla somministrazione di farmaci attivi sul NAV come la digitale, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti non diidropiridinici. È frequente l’associazione con l’infarto miocardico acuto inferiore, nel quale è in genere transitorio, non modifica la prognosi e raramente richiede una terapia specifica (corticosteroidi endovena o elettrostimolazione temporanea). I BAV di II grado tipo 2 (Mobitz), ed avanzato sono espressione di un danno organico del sistema di conduzione sotto-hisiano e quasi sempre progrediscono improvvisamente verso il BAV completo. Per tali motivi, queste forme di BAV di II grado richiedono in tutti i casi l’elettrostimolazione cardiaca permanente. Il BAV di III grado provoca in genere evidenti segni e sintomi, dovuti alla riduzione della portata cardiaca. I sintomi possono insorgere in maniera improvvisa con una sincope, o in maniera più lenta ed insidiosa, causando ad esempio astenia marcata o dispnea da sforzo, soprattutto se il BAV ha sede nodale ed è presente un ritmo di scappamento giunzionale che assicuri una portata cardiaca sufficiente a non determinare una importante riduzione della perfusione cerebrale, ma incapace di garantire un buon adattamento allo sforzo o ad altre situazioni in cui è richiesto un aumento della portata. PRINCIPI DI TRATTAMENTO DELLE BRADICARDIE La decisione di trattare una bradicardia è basata soprattutto sulla presenza di sintomi attribuibili direttamente ad essa. Il primo approccio sta nel riconoscimento delle bradicardie reversibili, spesso indotte da farmaci o legate a situazioni identificabili e clinicamente reversibili come gli squilibri elettrolitici o l’infarto miocardico acuto, nell’eliminazione del meccanismo fisiopatologico e nella cura della causa scatenante. Ad esempio, nella malattia di Lyme, il BAV è reversibile, come pure in presenza di iperpotassiemia. Al contrario, nelle malattie neuromuscolari ed in alcune patologie infiltrative del miocardio, come la sarcoidosi e l’amiloidosi, l’impianto di un pacemaker è da raccomandare anche quando il BAV sia stato transitorio, a causa della imprevedibile possibilità di progressione del disturbo di conduzione.
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Terapia farmacologica Un intervento terapeutico non è quasi mai necessario nei pazienti con bradicardia sinusale, aritmia sinusale, pause sinusali o arresti sinusali inferiori a 3 secondi. Per bradicardie più rilevanti l’atropina endovenosa rappresenta un presidio terapeutico di emergenza che può essere impiegato per accelerare la frequenza cardiaca sinusale e migliorare la conduzione AV, quando la sede del BAV sia chiaramente a livello nodale. Per la cura del BAV completo è stato impiegato, in condizioni di emergenza, l’isoproterenolo endovena per aumentare la frequenza di un eventuale segnai di scappamento ventricolare; tale farmaco è ormai poco usato per i rischi connessi al suo potenziale aritmogeno e per la maggiore efficacia e sicurezza della elettrostimolazione cardiaca temporanea. Pertanto, tutti i pazienti che si presentano con sintomi legati ad una disfunzione del nodo del seno o a disturbi della conduzione AV dovrebbero essere presi in considerazione per l’impianto di un pacemaker cardiaco temporaneo o definitivo. I pacemaker cardiaci I pacemaker cardiaci sono generatori di impulsi che erogano stimoli elettrici, trasmessi attraverso uno o più elettrocateteri a determinate zone del cuore. L’impulso elettrico erogato dal generatore si propaga a tutto il miocardio e ne determina la depolarizzazione. L’attivazione elettrica delle camere cardiache indotta dal pacemaker non si propaga attraverso le normali vie di conduzione ma è trasmessa attraverso il miocardio di lavoro, il che può avere delle importanti conseguenze elettriche e meccaniche, provocando dissincronia inter- ed intra-ventricolare, e dissociazione AV in caso di sola stimolazione ventricolare. La necessita di ottenere una stimolazione cardiaca “fisiologica” ha portato allo sviluppo di pacemaker che mirano a preservare e/o ripristinare il normale sincronismo AV o interventricolare stimolando sequenzialmente prima l’atrio destro e poi l’apice del ventricolo destro (pacemaker bicamerali) ed eventualmente anche la parete laterale del ventricolo sinistro (pacemaker tricamerali). Inoltre sono stati messi a punto sensori che modulano la frequenza di stimolazione cardiaca (pacemaker rate-responsive) in base all’attività del paziente in maniera da simulare le variazioni fisiologiche del cronotropismo. Date le ampie possibilità di scelta, la terapia di elettrostimolazione definitiva con pacemaker deve essere adattata individualmente ad ogni singolo paziente tenendo conto del tipo di difetto di conduzione, della condizione emodinamica del paziente e del suo livello di attività. Principi di terapia della disfunzione sinusale La disfunzione sinusale è una delle cause più frequenti di indicazione all’impianto di un pacemaker cardiaco; tuttavia, pur permettendo un evidente miglioramento o la scomparsa dei sintomi dovuti alla bradicardia, l’elettrostimolazione cardiaca permanente non è chiaramente associata ad un aumento della sopravvivenza. Tutte le forme di disfunzione sinusale, inclusa la sindrome bradi-tachi, quando determinano sintomi rappresentano un’indicazione assoluta alla elettrostimolazione cardiaca. Anche la bradicardia iatrogena che consegue a trattamenti farmacologici a lungo termine, per i quali non esistano alternative (per esempio i beta-bloccanti), rappresenta un’indicazione all’impianto di un pacemaker. L’indicazione all’impianto è meno perentoria, ma tendenzialmente accettata, in pazienti sintomatici quando non vi sia stata una chiara dimostrazione che i sintomi siano effettivamente dovuti alla bradicardia, ma la disfunzione sinusale, spontanea o iatrogena, determina una FC inferiore a 40 bpm. Lo stesso criterio si applica quando, a seguito di una sincope da causa inspiegata, venga dimostrata allo studio elettrofisiologico una marcata anomalia della funzione sinusale, pur senza la coincidenza documentata con eventi clinici. Principi di terapia del BAV L’elettrostimolazione cardiaca permanente migliora non solo la qualità di vita dei pazienti con BAV ma soprattutto la prognosi a lungo termine; le indicazioni all’impianto di un pacemaker in presenza di un BAV dipendono dai sintomi e da semplici indicatori quali in primo luogo la durata del QRS e la durata delle pause. Il BAV di III grado e il BAV di II grado avanzato hanno una indicazione assoluta all’impianto di pacemaker, indipendentemente dalla sede elettrofisiologica del blocco, quando sono presenti sintomi dovuti alla bradicardia oppure, in pazienti svegli ed asintomatici, pause superiori a 3 secondi o un ritmo di scappamento a frequenza inferiore a 40 bpm. Anche nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz sintomatici l’indicazione all’impianto di pacemaker è assoluta. L’indicazione è meno perentoria ma tendenzialmente accettata nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz asintomatici, specialmente se con QRS largo, per l’elevata probabilità di progressione verso gradi più avanzati di blocco. In questi casi, l’indicazione alla cardiostimolazione potrebbe essere posta in dubbio solo se il BAV fosse asintomatico e associato a QRS stretti, ma la sussistenza di entrambe le condizioni è di rarissima osservazione clinica. Il BAV 2: 1 può avere, come detto, una localizzazione sopra-Hisiana (nodale), intra-Hisiana o sotto-Hisiana, ma in genere determina sintomi a causa dell’importante riduzione della frequenza cardiaca; pertanto richiede quasi sempre l’impianto di pacemaker. Il BAV di I grado isolato ed il BAV di II grado tipo Wenckebach con complessi QRS stretti sono in genere manifestazione di una lieve alterazione della conduzione nodale e non hanno alcun significato prognostico negativo. Inoltre queste forme di BAV, quando insorte in seguito ad infarto miocardico inferiore, ad interventi
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cardiochirurgici o come effetto di farmaci, sono quasi sempre reversibili. Tuttavia, nei pazienti con BAV di II grado tipo Wenckebach non dovuto a cause reversibili e sintomatici, l’indicazione all’impianto di pacemaker è assoluta.
Sezione XI. Sincope e Arresto Cardiocircolatorio Capitolo 42 SINCOPE Luigi Padeletti, Alfonso Lagi DEFINIZIONE La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco. La sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza deriva da due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed a risoluzione spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake up”. Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la pressione arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze periferiche. Le alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope. La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione simpaticolitica, eventi riflessi, malattie neurologiche). E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia generalizzata). EPIDEMIOLOGIA La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva. La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il are del tempo. La ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto. CLASSIFICAZIONE La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può essere classificata come segue.
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Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo, nevralgia glossofaringea e trigeminale
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Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume
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Aritmica
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Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione all’efflusso
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Cerebrovascolare: furto della succlavia Syncope like
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Epilessia generalizzata
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Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata
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Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di ossigeno La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere si accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette un alto grado di sospetto.
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La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo – MSC) diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica nella comparsa degli episodi spontanei. La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione). Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con differente prevalenza dei due aspetti patogenetici La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario). Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia. Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari (vedi Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il recupero del ritmo normale. La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono considerati più frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV possono esser causa di sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz II o di blocco AV di III grado. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope. La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia ventricolare a torsione di punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di ipokaliemia. La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di tachicardia sopraventricolare . La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo 53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra fra gli attacchi ischemici transitori. Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà di condizioni morbose, che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive associate a ipotonia muscolare (attacchi di piccolo male), a episodi critici in corso di ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del sonno, a episodi di amnesia globale transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se accadono in presenza di testimoni che possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono di difficile inquadramento quando il paziente ne soffre senza che alcuno sia presente all’episodio critico. DIAGNOSI L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la patologia aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica. E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie. L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi, specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più facilmente riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni elementi sono fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson, epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche. Successivamente si deve ricercare la presenza dei sintomi e segni elencati nella Tabella I come post critici, critici e pre critici in relazione al periodo di comparsa. Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in soggetto con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per una forma cardiogena,
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mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia anamnestica esclude la sincope cardiogena nel 97% dei pazienti. STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO La sincope cardiogena è la prima diagnosi da confermare o escludere poiché può essere annunciatrice di morte o di gravi complicanze. E’ quindi necessario per ogni paziente definire il profilo di rischio, cioè la probabilità di essere affetto da una malattia potenzialmente letale. I due più forti indicatori di sincope cardiogena sono l’anamnesi di cardiopatia strutturale e l’ECG patologico. La registrazione dell’elettrocardiogramma tradizionale a 12 derivazioni è troppo breve per potere cogliere aritmie significative, ma fornisce informazioni sul ritmo e sulla conduzione AV. La bradicardia sinusale, l’intervallo PR prolungato (blocco A-V di I grado) o la presenza di un blocco di branca aumentano la possibilità di una disfunzione sinusale o di un blocco atrio-ventricolare intermittente (vedi Capitolo 40) da cui la sincope può dipendere. L’esame del complesso QRS può permettere di identificare un’onda delta, indice di una via accessoria (vedi Capitoli 3 e 38) e di una sindrome di Wolff-Parkinson-White, potenzialmente responsabile della sincope. Le malattie genetiche classificate oggi come canalopatie o malattie dei canali ionici (Sindrome del QT lungo e Sindrome di Brugada, vedi Capitolo 42), possono essere identificate con l’ECG, come anche, in alcuni casi, la cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro o altre cardiomiopatie; anche i segni di necrosi miocardica, indicativi di un pregresso infarto, vengono rivelati dall’ECG. In tutte queste condizioni, la sincope può essere provocata da una tachicardia ventricolare. ITER DIAGNOSTICO SUCCESSIVO ALLA SINCOPE In assenza di cardiopatia strutturale e di pregresse aritmie si deve considerare fortemente sospetta la forma neuromediata (nei giovani) o da ipotensione ortostatica (negli anziani). In questi casi l’indagine diagnostica di scelta è il tilt test (test all’ortostatismo ivo), eseguito ponendo il soggetto su un letto che viene poi inclinato, in modo che la persona assuma una posizione ortostatica, con i piedi che poggiano su un’apposita pedana. Quando un essere umano sta in piedi, muove necessariamente le gambe, e la contrazione dei muscoli (pompa muscolare) favorisce il ritorno venoso al cuore. Quando, invece, l’ortostatismo viene mantenuto ivamente per un certo tempo (in genere da 40 minuti a un’ora), si verifica un sequestro di sangue negli arti inferiori, e il ritorno venoso si riduce. I ventricoli, perciò, si contraggono mentre sono relativamente vuoti di sangue, e la portata cardiaca tende a diminuire: ciò provoca un incremento reattivo del tono simpatico, che aumenta la contrattilità ventricolare; la vigorosa contrazione dei ventricoli che contengono poco sangue stimola i meccanocettori delle pareti ventricolari, generando un riflesso vagale che esita infine in bradicardia e ipotensione indotta dalla vasodilatazione arteriolare. Questi meccanismi (cardioinibizione e vasodepressione) possono indurre la sincope, che può essere cardioinibitoria, vasodepressiva o mista, a seconda della prevalenza di una componente sull’altra. Il tilt test è positivo per sincope neuromediata quando si verifica una perdita di coscienza o comunque una condizione di pre-sincope associata a bradicardia e ipotensione; di contro l’ipotensione ortostatica viene diagnosticata per la presenza di ipotensione senza bradicardia. La perdita di coscienza durante tilt test in assenza di modificazioni significative della pressione arteriosa e/o della frequenza cardiaca invece, indica una sincope psicogena. Anche il massaggio del seno carotideo, manovra che induce una stimolazione vagale riflessa, trova indicazione nei casi di sincope senza dimostrata cardiopatia strutturale, quando i dati anamnestici orientino verso la diagnosi di sincope senocarotidea (sincope che fa seguito a bruschi movimenti del collo). Teoricamente la manovra dovrebbe essere condotta in posizione semi-ortostatica per valutare sia la risposta cardioinibitoria, che quella vasodepressiva, ma in pratica il test viene eseguito in posizione distesa, valorizzando solo la risposta cardioinibitoria, che viene considerata patologica quando l’intervallo fra due battiti cardiaci supera 3,5 secondi . L’Ecg da sforzo raramente trova indicazione nell’iter diagnostico della sincope, a meno che la sintomatologia non abbia una stretta correlazione con l’attività fisica. In questi casi esiste la possibilità di una patologia dell’efflusso dal ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, vedi Capitolo 28) che in genere è evidenziata con l’ecocardiogramma, ma esiste anche la possibilità di una cardiopatia ischemica o di una malattia disautonomica. La registrazione ambulatoriale dell’ECG (Holter-24 ore) viene spesso utilizzata in pazienti con sincope per cogliere aritmie potenzialmente pericolose (tachicardia ventricolare sostenuta o non sostenuta, asintomatica o sintomatica, bradicardia paucisintomatica). Se gli episodi sincopali sono rari, è possibile utilizzare registratori che il paziente porta per periodi più lunghi di 24-48 ore. Esistono i “loop-recorder” esterni che permettono la registrazione dell’elettrocardiogramma per diversi giorni e quelli impiantabili sottocute, che possono arrivare a registrare fino a 18 mesi di attività cardiaca. Nelle sincopi la cui causa rimane indeterminata alla fine del percorso diagnostico standard, il loop recorder impiantabile permette di giungere alla diagnosi fino al 43% dei casi. L’ecocardiogramma (vedi Capitolo 4) e l’esame Doppler dei tronchi sopraortici (vedi Capitolo 12) permettono di individuare cardiopatie strutturali (per esempio, stenosi aortica, mixoma atriale) o anomalie vascolari che giustifichino la sincope. Lo studio elettrofisiologico (SEF, vedi Capitolo 60) valuta la funzione del nodo sinusale, la conduzione AV e la suscettibilità a sviluppare tachicardie sopraventricolari o ventricolari. Le malattie neurologiche, syncope like (vedi classificazione), richiedono accertamenti orientati e specifici. Esse sono sospettate sulla base di sintomi focali che precedono o accompagnano la perdita di coscienza (aura,
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parestesie, diplopia, disartria). I test da utilizzare in questi casi sono indagini neurologiche di tipo funzionale (Elettroencefalogramma) e di imaging (TC ed RM dell’encefalo). CENNI DI TERAPIA A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i meccanismi patogenetici che sottendono la sincope. La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il paziente deve essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso patogeneticamente efficiente, come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni fisiche e farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori. Il soggetto deve essere rassicurato sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e depressione, che possono accompagnare uno o più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono stati proposti in ato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori. L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di cui è ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è stata oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker. Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la non superiorità del trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è dimostrata in tutte le forme da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40). Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone gli effetti collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia. Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti inotropi negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile (ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla (vedi Capitolo 43).
Capitolo 43 MORTE CARDIACA IMPROVVISA Lia Crotti, Peter J. Schwartz DEFINIZIONE Con il termine “morte cardiaca improvvisa” si intende il decesso per cause naturali di origine cardiaca che consegua ad una improvvisa perdita di coscienza entro un’ora dall’esordio dei sintomi. I soggetti possono anche essere cardiopatici noti, ma la modalità e il momento dell’insorgenza della perdita di coscienza devono essere inattesi. EPIDEMIOLOGIA Negli Stati Uniti la morte cardiaca improvvisa è all’origine di 300000-400000 vittime all’anno e nei paesi industrializzati è la causa di morte più frequente per i soggetti in età produttiva (20-65 anni), in particolare di sesso maschile. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte cardiaca improvvisa è dovuta ad una tachiaritmia fatale (fibrillazione ventricolare primaria o tachicardia ventricolare degenerante in fibrillazione ventricolare). Nel 10-15% dei casi la causa è un’asistolia (assenza del battito cardiaco); più raramente una dissociazione elettromeccanica (presenza di attività elettrica in assenza di contrazione efficace del cuore). La patologia coronarica è senz’altro la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa e per tale motivo sia la distribuzione sia i principali fattori di rischio sono comuni alle due condizioni. L’incidenza della morte cardiaca improvvisa mostra un ritmo circadiano con una prevalenza tra le ore 6 del mattino e mezzogiorno. Questo ritmo circadiano è molto simile a quello osservato per l’insorgenza di altri eventi cardiaci acuti quali l’infarto del miocardio e l’ischemia miocardica transitoria. Anche se il meccanismo di questo picco mattutino non è noto con certezza, è verosimile che dipenda almeno in parte dall’aumento di attività simpatica che compare al risveglio. Infatti, nelle prime ore del mattino si osserva un aumento del tono vasocostrittore coronarico, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, delle catecolamine plasmatiche e dell’adesività piastrinica. Esistono due picchi di incidenza della morte improvvisa; il primo nei primi sei mesi di vita
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(Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e il secondo tra i 45 e 75 anni di età. Poiché la morte cardiaca improvvisa nel primo anno di vita riconosce meccanismi fisiopatologici diversi rispetto alla morte improvvisa dell’adulto, alla sua trattazione è riservato un paragrafo a parte. FISIOPATOLOGIA La genesi della morte cardiaca improvvisa coinvolge una serie di fattori con ruoli diversi. Un modello efficace di morte cardiaca improvvisa prevede l’esistenza di un substrato miocardico, di fattori scatenanti e di fattori modulanti o favorenti che interagiscono a causare la tachicardia o fibrillazione ventricolare (la causa più frequente di arresto cardiaco). Con il termine substrato si intende la presenza di alterazioni strutturali o elettriche cardiache che favoriscono il rischio aritmico: 1) alterazioni strutturali possono ad esempio essere rappresentate da una cardiopatia congenita, da alterazioni conseguenti alla ipertrofia o alla fibrosi miocardica, che possono ad esempio seguire ad un infarto del miocardio; 2) alterazioni elettriche sono tipicamente quelle presenti in cardiopatie aritmogene ereditarie, legate a difetti di canali ionici cardiaci, quali la Sindrome del QT Lungo o la Sindrome di Brugada (vedi Capitolo…). Un fattore scatenante importante è costituito, ad esempio, da un episodio ischemico acuto. La frequente assenza, nei vasi coronarici esaminati all’autopsia, di lesioni occlusive sottolinea la possibilità che a scatenare l’episodio di arresto cardiaco sia una ischemia miocardica solo transitoria. In accordo con questa ipotesi è il fatto che solo una minoranza dei soggetti risuscitati dopo arresto cardiaco sviluppa un infarto del miocardio. Con il termine “fattore modulante” si intende un fattore variabile nel tempo, che possa in talune circostanze presentarsi con caratteristiche tali da favorire l’insorgenza, la perpetuazione o la degenerazione di un’aritmia ventricolare minacciosa. Esempi tipici sono rappresentati dalla presenza di alterazioni elettrolitiche quali l’ipopotassiemia. Altre possibilità sono costituite da situazioni transitorie di ipossia o di acidosi o dall’utilizzo di farmaci con potenziale effetto proaritmico. Un posto di primaria importanza nell’ambito dei fattori modulanti spetta al sistema nervoso autonomo. Numerosi studi sperimentali hanno indicato l’effetto sfavorevole rappresentato da una eccessiva attivazione simpatica nella genesi delle aritmie ventricolari maligne, in particolare in occasione di ischemia miocardica acuta. Una eccessiva attivazione adrenergica esercita una serie di effetti sfavorevoli sia nel senso di un aumento della gravità dell’ischemia (per aumento del consumo di ossigeno e delle resistenze coronariche) sia di un aumento della probabilità di aritmie. Ciò si verifica per una facilitazione sia delle aritmie da rientro (favorite dalla riduzione della refrattarietà ventricolare) sia di aritmie scatenate da un alterato automatismo (vedi Capitolo…). L’attivazione parasimpatica si è dimostrata in grado di antagonizzare efficacemente gli effetti sfavorevoli di una aumentata attività adrenergica. Questi concetti hanno trovato applicazione nella pratica clinica, grazie all’utilizzo di indici autonomici, quali la sensibilità barocettiva e la variabilità della frequenza cardiaca, che si sono dimostrati di estrema utilità per la stratificazione del rischio nel post-infarto e per l’individuazione dei pazienti a maggior rischio di morte cardiaca improvvisa (vedi Capitolo…). PRINCIPALI CONDIZIONI PATOLOGICHE ASSOCIATE A MORTE CARDIACA IMPROVVISA La cardiopatia ischemica è responsabile di circa l’80% delle morti improvvise nei paesi occidentali e le cardiomiopatie si rendono responsabili di un altro 10-15%. Tuttavia, la completa comprensione della morte cardiaca improvvisa richiede il riconoscimento di altre cause, che sebbene più rare, sono importanti, da una parte, per una miglior comprensione delle basi fisiopatologiche della morte improvvisa e dall’altra, per la possibilità di agire a livello preventivo attraverso l’attuazione di adeguate misure terapeutiche. Tra l’altro molte di queste “entità minori” sono tra le principali cause di morte improvvisa in adolescenti e giovani adulti in cui è molto più bassa la prevalenza della aterosclerosi coronarica. Ci sono inoltre dei casi in cui la causa della morte cardiaca improvvisa o della fibrillazione ventricolare resuscitata non riesce ad essere identificata e si parla quindi di “Fibrillazione Ventricolare Idiopatica”. A cinque anni di followup questi pazienti hanno un rischio del 30% di avere un nuovo arresto; per tale motivo esiste un’indicazione assoluta all’impianto del defibrillatore automatico, un apparecchio simile ad un pace-maker, ma in grado di riconoscere e trattare attraverso shock elettrico le aritmie ventricolari maligne. Cardiopatia ischemica Circa il 5% dei pazienti che giungono vivi in ospedale con un infarto miocardio acuto, ha un episodio di fibrillazione ventricolare (FV) nelle prime 24 ore successive all’infarto. In generale l’occorrenza dell’episodio di fibrillazione ventricolare non è giustificata né dall’estensione particolarmente importante dell’infarto né dalle condizioni di particolare compromissione della funzione ventricolare sinistra. Da cosa dipenda questa predisposizione a rispondere all’ischemia miocardica acuta con aritmie fatali è uno dei problemi maggiori ancora irrisolti della cardiologia contemporanea. Il “Paris Prospective Study”, uno studio condotto su oltre 7500 dipendenti pubblici ha dimostrato che la morte cardiaca improvvisa di uno dei due genitori aumenta il rischio relativo di tale evenienza nel soggetto di circa due volte e addirittura di nove volte se entrambi i genitori sono morti improvvisamente. Due recenti studi clinici hanno confermato che la storia familiare di morte cardiaca improvvisa è il principale predittore di FV durante la fase acuta di un infarto del miocardio, ando l’ipotesi che esista una predisposizione, almeno in parte geneticamente trasmessa, ad una aumentata instabilità elettrica che possa favorire l’insorgenza di FV in presenza di un appropriato substrato clinico. I pazienti sopravvissuti ad un infarto del miocardio sono quelli studiati più a fondo in senso prognostico, in quanto è stato facile rendersi conto che molti di essi muoiono improvvisamente e che l’incidenza massima di questo
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evento è nel primo anno successivo all’infarto. Diversi sono i fattori di rischio che sono stati identificati, quali la riduzione della frazione di eiezione, la presenza di frequenti battiti ectopici ventricolari, un intervallo QT costantemente prolungato ed un episodio di FV nella fase acuta di un infarto a sede anteriore. Negli ultimi anni sono aumentati i dati che indicano uno stretto rapporto tra morte improvvisa e sistema nervoso autonomo. In particolare nei pazienti con infarto del miocardio uno squilibrio autonomico caratterizzato da una ridotta attività vagale e da una aumentata attività simpatica si associa in modo significativo ad un aumento della mortalità cardiaca e di quella improvvisa. I parametri clinici più utilizzati per valutare il profilo autonomico sono la variabilità della frequenza cardiaca e la sensibilità barocettiva, che si è rivelata predittiva anche nei soggetti con frazione di eiezione conservata e anche oltre i 65 anni (vedi Capitolo…). Dall’insieme di queste considerazioni dovrebbe essere chiaro che un notevole progresso è stato fatto nella identificazione di quei soggetti che, dopo un infarto del miocardio, sono ad alto rischio di morte improvvisa. E’ anche chiaro però che stiamo parlando di morti improvvise non totalmente inattese. Da un punto di vista pratico il problema dell’identificazione dei soggetti a rischio di morte improvvisa rimane molto complesso. Infatti, non si può prescindere dal numero totale di eventi e dalla popolazione di pazienti nei quali tali eventi si verificano. Se è vero che vi sono dei gruppi di pazienti, ad esempio quelli che hanno avuto un episodio di tachicardia o FV dopo un infarto miocardico, con un rischio molto alto di morte cardiaca improvvisa, è anche vero che il contributo in termini assoluti al numero totale delle vittime di morte improvvisa è relativamente modesto. E’ infatti nella popolazione non selezionata, nella quale l’incidenza di morte cardiaca improvvisa è estremamente ridotta (1-2 per mille per anno), che si verifica il numero maggiore di eventi. In questi soggetti la morte improvvisa rappresenta generalmente la prima manifestazione della malattia (per lo più coronarica) e si tratta quindi di morte cardiaca improvvisa totalmente inattesa. Cardiomiopatie Tre sono le principali cardiomiopatie che si associano al rischio di morte improvvisa:
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Cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…). E’ una malattia del miocardio caratterizzata da dilatazione e da compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli. La cardiomiopatia dilatativa è rappresentata in prevalenza da forme primitive, ad etiologia non nota, le cosiddette forme idiopatiche. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. La morte improvvisa è responsabile di circa la metà delle morti dei pazienti con questa patologia; tuttavia, tende a manifestarsi più tardivamente, quando sono spesso già presenti sintomi da compromissione emodinamica.
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Cardiomiopatia ipertrofica (vedi Capitolo…). E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da un’ipertrofia ventricolare sinistra e/o destra di eziologia ignota, associata ad un aspetto istologico di disorganizzazione (disarray) delle fibrocellule miocardiche. Tipicamente l’ipertrofia è asimmetrica ed il setto interventricolare è il distretto più frequentemente interessato. Nel 70% circa dei casi la cardiomiopatia ipertrofica riconosce un andamento familiare e sono stati identificati una serie di geni, codificanti per proteine del reticolo sarcoplasmatico, alla base della malattia. In questa patologia il rischio di aritmie ventricolari maligne è elevato e la morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia. La cardiomiopatia ipertrofica è la prima causa di morte improvvisa negli atleti al di sotto dei 35 anni di età.
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Cardiomiopatia-Displasia aritmogena del ventricolo destro. E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, caratterizzata da sostituzione fibroadiposa dei miocardiociti, che tipicamente interessa il ventricolo destro e può successivamente andare ad interessare anche il ventricolo sinistro. Nel 30-50% dei casi tale patologia sembra avere una distribuzione familiare, con modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante. Tale patologia si associa ad un elevato rischio di aritmie ventricolari sostenute, tipicamente a partenza dal ventricolo destro, che possono anche portare alla morte improvvisa, frequentemente indotta dall’esercizio fisico. Per tale motivo, specialmente nel Veneto dove questa patologia ha un’elevata prevalenza, essa rappresenta una delle principali cause di morte improvvisa nei giovani atleti. Patologie valvolari Se non trattata chirurgicamente, la stenosi valvolare aortica severa (vedi Capitolo…) si associa ad un elevato rischio di morte cardiaca improvvisa. Dopo sostituzione valvolare, l’incidenza di morte improvvisa si riduce moltissimo, tuttavia permane, data la possibilità di disfunzioni protesiche, aritmie o coesistenza di coronaropatia. E’ tuttora controverso se il prolasso della valvola mitrale (vedi Capitolo…) si correli con un incremento del rischio di morte improvvisa. Considerata l’alta prevalenza di prolasso mitralico, è verosimile che il rilievo anatomopatologico di prolasso nei soggetti deceduti improvvisamente rappresenti una coincidenza casuale più che una condizione causale. Tuttavia, se il prolasso è complicato da insufficienza mitralica significativa, disfunzione ventricolare sinistra o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di eventi tromboembolici, endocardite infettiva e morte improvvisa aumenta notevolmente. Cardiopatie aritmogene ereditarie Le cardiopatie aritmogene ereditarie, sono un gruppo di patologie geneticamente trasmesse che si associano ad un rischio di morte cardiaca improvvisa per lo più in giovane età. In queste patologie il cuore risulta
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strutturalmente normale, ma sono presenti difetti a carico di canali ionici cardiaci che favoriscono la genesi di aritmie ventricolari maligne. Si riconoscono quattro principali cardiopatie aritmogene ereditarie:
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Sindrome del QT Lungo (LQTS). E’una cardiopatia a trasmissione per lo più autosomica dominante, caratterizzata da un prolungamento dell’intervallo QT all’ECG di superficie (QTc>440 msec) e da un elevato rischio di aritmie ventricolari maligne che tendono a manifestarsi più frequentemente in giovane età e che sono tipicamente indotte da stress fisici od emotivi. Date le caratteristiche della LQTS, il caso tipico non presenta particolari difficoltà dal punto di vista della diagnosi per il medico che ha familiarità con questa malattia. Tuttavia, i casi borderline sono più complessi e richiedono l’attenta valutazione di più variabili, oltre ovviamente all’anamnesi e all’intervallo QT, quali la storia familiare, le anomalie morfologiche dell’onda T e la variabilità dell’intervallo QT durante le 24 ore e a seguito di test quali il test ergometrico e quello all’iperventilazione. Lo screening molecolare è ormai un componente importante del processo diagnostico, specialmente per i casi borderline. Tuttavia è bene ricordare che circa il 25-30% di casi indubbi di LQTS sfuggono alla diagnosi molecolare. Un’area in cui lo screening molecolare dà un apporto importante ed unico è nella diagnosi dei familiari con QT normale. Esistono tre varianti genetiche principali di Sindrome del QT Lungo, pur essendo ad oggi noti ben 10 geni alla base della malattia. Nella variante LQT1, dovuta a difetti sul gene KCNQ1, la maggior parte degli eventi si manifestano in condizioni di stress fisico ed il nuoto è un’attività particolarmente rischiosa. In questi pazienti la terapia beta-bloccante è estremamente efficace. I pazienti LQT2 hanno la maggior parte dei loro eventi in condizioni di stress emotivo e tipicamente a seguito di rumori improvvisi specie se al risveglio; in questo sottogruppo genetico l’efficacia dei beta-bloccanti è buona. I pazienti LQT3 sono quelli di più difficile gestione. Essi hanno mutazioni sul gene SCN5A e la maggior parte dei loro eventi avviene a riposo o durante il sonno. La terapia beta-bloccante è solo parzialmente efficace e spesso si devono considerare misure terapeutiche aggiuntive quali il bloccante del sodio mexiletina, la denervazione simpatica cardiaca di sinistra o l’impianto del defibrillatore. La morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia in un 10-12% dei casi di Sindrome del QT Lungo ed in uno studio recente mutazioni responsabili della LQTS sono state identificate in ben il 20% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa (9). Poiché in questa malattia esiste una terapia (farmaci betabloccanti) in grado di ridurre significativamente il rischio di aritmie fatali, non vi sono giustificazioni per l’esistenza di pazienti sintomatici senza diagnosi.
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Sindrome del QT Corto. E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante di recente descrizione. E’ caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT corto all’ECG di superficie (QTc<340 msec) e da un elevato rischio di aritmie ventricolari maligne. Purtroppo nessuna terapia farmacologia si è dimostrata fino ad ora in grado di ridurre in maniera significativa il rischio aritmico, pertanto l’impianto di un defibrillatore rimane per il momento l’opzione di scelta per la prevenzione della morte improvvisa.
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Sindrome di Brugada. E’ una cardiopatia caratterizzata all’ECG da un’onda terminale positiva larga (onda J), che simula un blocco di branca destra completo o incompleto, e da un sopraslivellamento del tratto ST da V1 a V3. Questa patologia si associa ad un significativo rischio di morte improvvisa, che avviene tipicamente nel sonno o in condizioni di riposo. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. Anche in questo caso l’unico strumento di prevenzione della morte improvvisa è l’impianto del defibrillatore, che viene riservato a quei pazienti con un elevato profilo di rischio (pregresso arresto cardiaco o sincope di verosimile origine aritmica, pattern diagnostico spontaneo con inducibilità di aritmie ventricolari maligne allo studio elettrofisiologico, familiarità per morte improvvisa)
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Tachicardia Ventricolare Catecolaminergica (VT). E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante caratterizzata dallo sviluppo di tachicardie ventricolari polimorfe, tipicamente bidirezionali, che possono degenerare in fibrillazione ventricolare e quindi morte improvvisa. Le aritmie sono tipicamente indotte dall’esercizio fisico, pertanto per fare una diagnosi corretta è necessario effettuare un test ergometrico od un ECG Holter delle 24 ore, mentre l’ECG di base è solitamente normale. Da uno studio è emerso che mutazioni responsabili della VT sono state identificate nel 15% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa. Anche per questa malattia esiste una terapia (beta-bloccante) in grado di ridurre il rischio di aritmie fatali. Se la terapia beta-bloccante non è sufficiente sono disponibili misure terapeutiche aggiuntive come la denervazione simpatica cardiaca di sinistra ed eventualmente l’impianto del defibrillatore. Cardiopatie Congenite Un aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa è stato descritto fondamentalmente in quattro condizioni, e cioè nella tetralogia di Fallot, nella trasposizione delle grandi arterie, nella stenosi aortica e nell’ostruzione vascolare polmonare (vedi Capitolo…). Il rischio persiste dopo l’intervento cardiochirurgico ed è presente anche nell’ipertensione polmonare primitiva e secondaria. Nella tetralogia di Fallot la durata del QRS si correla con le dimensioni del ventricolo destro e con il rischio di morte improvvisa. Altre patologie cardiovascolari Altre patologie cardiovascolari che possono associarsi al rischio di morte improvvisa sono l’embolia polmonare (vedi Capitolo…), la dissezione aortica (vedi Capitolo…), e tutti quei processi infiammatori, infiltrativi, neoplastici e degenerativi che possono interessare il miocardio. Alcuni esempi sono rappresentati dall’amiloidosi, dalla sarcoidosi dall’emocromatosi e da tutte le possibili diverse forme di miocardite. SIDS
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Il termine “Sudden Infant Death Syndrome” (SIDS) identifica una morte improvvisa nel primo anno di vita che risulta inaspettata in base alla storia clinica del soggetto ed in cui l’esame autoptico non riesce a dimostrare un’adeguata causa di morte. La SIDS è la principale causa di morte infantile nei paesi occidentali e colpisce circa 1 bambino ogni 2000 nati vivi. Esistono diverse ipotesi riguardo la genesi della SIDS, le due più accreditate sono la teoria respiratoria e quella cardiaca. Già negli anni settanta era stato ipotizzato che alcuni casi SIDS fossero legati a fibrillazione ventricolare ed era stato proposto che la Sindrome del QT Lungo potesse essere responsabile di alcuni di questi casi. Questa ipotesi venne ata dai risultati di uno studio prospettico su 34442 neonati dimostranti che i neonati con un QTc > 440 ms avevano un rischio di SIDS 41 volte superiore a quelli con intervallo QT normale. La dimostrazione finale della validità dell’ipotesi per cui un certo numero di casi di SIDS può dipendere dalla LQTS è giunta da uno studio molecolare in oltre 200 casi SIDS ed un simile numero di controlli. E’ emerso che il 10% delle vittime SIDS ha mutazioni sui geni responsabili per la Sindrome del QT Lungo. Questo dato indica che almeno una parte di queste tragedie con devastanti effetti familiari può essere evitata, e pone l’attenzione sulla necessità di effettuare screening elettrocardiografici nel primo mese di vita, per individuare il più precocemente possibile pazienti affetti da Sindrome del QT Lungo e potenzialmente a rischio di morte cardiaca improvvisa, sia nel primo anno di vita che più avanti, se non correttamente diagnosticati e trattati.
Sezione XII. Ipertensione arteriosa Capitolo 45 L'IPERTENSIONE ARTERIOSA Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata), condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica. In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica (grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia. L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”. L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente correlata all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente affetti da ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori. In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a qualunque altra condizione in termini di “carico di malattia”. EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo più non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici identificati e più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore attività del sistema reninaangiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…). Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica. Pertanto
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è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca, mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone, dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della volemia. Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata. Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione arteriosa sodiosensibile. Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato gli effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno fornito finora risultati controversi. L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche, e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca, successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a mancare. Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre, attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi, determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema. Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori tirosinkinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-infiammatoria. Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una riduzione della funzionalità endoteliale. Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche (vedi Capitolo 48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi fattori di rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si instaura una disfunzione endoteliale vengono meno le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione
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aterosclerotica e alla formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici (vedi Capitolo 46). IMPATTO CLINICO Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale. Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo scompenso cardiaco. La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia assicurativa nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una popolazione di uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. Una conferma di questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg, corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei valori pressori normali. La Prospective Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa 4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il rischio relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte. L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari. Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’ stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro riduzione è in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di natura cerebrovascolare. La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio cardiovascolari che sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete mellito, l’obesità ed il fumo. La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel corso dello studio di Framingham che ha dimostrato come la presenza isolata d'ipertensione arteriosa si osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre nel 50% dei casi elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori di rischio concomitanti. Questa frequente associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del profilo metabolico quali il diabete mellito e la dislipidemia suggerisce come queste associazioni non siano casuali ma siano probabilmente legate alla presenza di fattori eziopatogenetici comuni alla base dello sviluppo di tali anomalie. Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un'ampia percentuale della popolazione ipertesa e contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. L'alterazione del profilo lipidico più frequentemente associata alla presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia, presente in oltre il 40% dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza progressivamente crescente al crescere della gravità del quadro ipertensivo, ando un’eventuale correlazione tra tali due fattori di rischio anche in ambito patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata alla presenza di ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio associati, mentre da un punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente aterogena, da una condizione di insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico. Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché alcuni importanti tratti fisiopatologici. Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime sono caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste si manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che si palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso cardiaco e l’ictus cerebri. In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale.
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Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai processi di rimodellamento ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e sebbene siano asintomatiche, configurano comunque una condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il termine di “cardiopatia ipertensiva” (Patologia 46). Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di tipo concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il secondo tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli spessori parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”. La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa ventricolare è aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento. L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare sono correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come dimostrato in numerosi studi. Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca, durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio sinistro e nelle vene polmonari. Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della geometria ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico. La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi. Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel paziente iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica. La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della geometria ventricolare sinistra. L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni strutturali a carico dei reni che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti, successivamente determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di insufficienza renale. Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per definizione tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori, particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di normalità. Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento importante delle resistenze vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad aumentare ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.
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Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo meccanico costituito dagli elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace. Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva. VALUTAZIONE CLINICO-STRUMENTALE E STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE L'ipertensione arteriosa rappresenta una condizione clinica che comporta un incremento del rischio cardiovascolare, sia di per sé, attraverso i valori pressori elevati, sia perché tipicamente associata alla presenza di una serie complessa di altri fattori di rischio ed alterazioni morfo-funzionali i quali, presentandosi nello stesso soggetto secondo diverse possibili combinazioni, contribuiscono a definirne il profilo di rischio globale. Pertanto la classificazione dell'ipertensione arteriosa basata sulla sola valutazione dei valori pressori non permette un'adeguata rappresentazione del rischio individuale della patologia, che è invece la risultante dell'interazione tra incremento pressorio e profilo di rischio concomitante. Negli ultimi anni è di conseguenza radicalmente mutato l’orientamento clinico nei confronti del paziente iperteso, con un approccio non più mirato solo alla riduzione dei valori pressori, ma basato innanzitutto sulla valutazione del rischio cardiovascolare globale il quale deve successivamente guidare la condotta terapeutica. Nell'approccio razionale al rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, uno degli elementi essenziali è certamente rappresentato dalla possibilità di quantificare il rischio del paziente attraverso una valutazione integrata del contributo relativo di ciascuno dei fattori di rischio prima elencati (Tabella I). Secondo questa logica, in un paziente con un aumento lieve dei valori di pressione arteriosa, la presenza di altri fattori di rischio associati determina una probabilità di sviluppo di complicanze cardiovascolari comparabile o addirittura maggiore rispetto a quella che caratterizza i pazienti con un aumento pressorio più marcato, ma isolato (Figura 1). Sulla base di tali considerazioni, l’obiettivo principale della valutazione clinico-strumentale del paziente iperteso è dunque quello di definirne il profilo di rischio globale, sia attraverso una buona raccolta anamnestica, che permetta di capire quali altri fattori di rischio sono associati alla presenza di ipertensione, sia attraverso il loro riscontro diretto mediante esami ematochimici o strumentali. Attraverso gli esami strumentali possiamo valutare soprattutto se sono già presenti segni di danno d’organo causato dallo stato ipertensivo, la cui presenza, come già precedentemente discusso, identifica una condizione a rischio aumentato.
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Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare tutti quegli elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare. Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e di caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi che possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di vita e la familiarità per malattie cardiovascolari. Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali l’angina o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato (Tabella II).
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Esame obiettivo. Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione del paziente iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione secondaria e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III). Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in particolare sui seguenti aspetti:
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il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;
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il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;
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la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;
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si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2 minuti;
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devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è opportuno utilizzare bracciali specifici. Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della circonferenza addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio cardiovascolare. Inoltre tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è indipendente dall'età e dal sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le tecniche più raffinate per lo studio del grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di questo fattore, è stato dimostrato che diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni pressorie sistolica e diastolica rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.
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Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare una serie di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo nel paziente, ma anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini devono essere orientate da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo. - Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc… - Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di scoprire alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza. Se la creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della clearance invece, fornisce informazioni più precise. - Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio cardiovascolare. - Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome di Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici. - Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di cilindri, leucociti, emazie, etc. - Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo sinistro mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8 negli uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno sensibile anche se specifico. - Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e sulla geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una disfunzione diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente. - Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori. Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello spessore del complesso intima-media carotideo. - Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h dei valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni quando vi sono marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze tra i livelli riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo circadiano della pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva. - Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori per diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il paziente nella gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione normale con le differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa. - Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo. Secondo le ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di determinare la comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della retinopatia secondo Keith e Wegener). IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico. La ricerca di un'ipertensione secondaria dev'essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi l’ipertensione può
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essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il sospetto di un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del paziente con l’ausilio di esami specifici.
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Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.
Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.
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Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso renale secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la successiva formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare. Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta.
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Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria, polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di aldosterone.
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Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse. La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.
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Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea, mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.
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Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i corticosteroidi, la
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ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida. TRATTAMENTO La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di rischio associati. Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico, basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 2).
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Interventi di tipo non farmacologico Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica. Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego. Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare. Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in grado di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso corporeo perso. Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi, che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero <2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il sistema reninaangiotensina ed il sistema nervoso adrenergico. Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si sia dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica. Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8 mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici (vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un training fisico costante.
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Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio cardiovascolare del paziente sono molto elevati. L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali, e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente (età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze terapeutiche e di aspetti socioeconomici (Tabella V). Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:
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Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro. Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi bilaterale delle arterie renali.
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Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici (diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
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Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1 dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.
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Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.
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Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza. I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è ben tollerata. Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi, includono gli alfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o resistente. URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio (solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato e rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono invece quelle situazioni nelle quali, per la presenza di segni di danno d'organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è indispensabile una riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora. Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un altro tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva, caratterizzata da disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza, nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un conseguente iperafflusso sanguigno. Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente possibile con l'obiettivo non di ottenere l'immediato ripristino di livelli pressori normali, ma di arrivare a limiti di "sicurezza" senza indurre, nello stesso tempo, complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione troppo rapida. I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia endovenosa una terapia per via orale.
Sezione XIII. Arteriosclerosi Capitolo 46 L'ATEROSCLEROSI Paolo Golino 133
DEFINIZIONE L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo che si sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale, fibro-adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto prevalentemente da lipidi e matrice extracellulare, ma anche da una componente cellulare (cellule muscolari lisce, macrofagi, linfociti); un cappuccio fibroso riveste il core lipidico e lo separa dal sangue circolante (Figura 1). ANATOMIA PATOLOGICA Considerazioni introduttive L’aterosclerosi è la causa principale di numerose importanti malattie del sistema cardiovascolare, quali l’infarto miocardico, l’angina pectoris, e l’ictus cerebrale, che insieme rappresentano di gran lunga la causa di morte più frequente nei paesi occidentali. Fino a venti anni or sono, il nostro concetto dell’aterosclerosi era quello di una lenta malattia da accumulo di lipidi: i depositi lipidici che si venivano a formare sulla superficie delle arterie crescevano sporgendo all’interno del lume fino a compromettere ed eventualmente bloccare completamente il flusso ematico ai tessuti interessati, causandone la necrosi ischemica. Questo concetto “tradizionale” dell’aterosclerosi guardava alle arterie come condotti ivi sui quali si andavano a depositare i lipidi circolanti che rappresentavano quindi il centro fisiopatologico della malattia. Questa teoria è stata oggi soppiantata, in quanto sappiamo che la parete arteriosa non possiede un ruolo ivo ma, al contrario, è una struttura complessa formata da numerosi tipi cellulari che partecipano attivamente al processo aterosclerotico. Sappiamo inoltre che l’infiammazione gioca un ruolo chiave in tutti gli stadi di sviluppo dell’aterosclerosi, dalla formazione della lesione iniziale, allo sviluppo della placca, fino alla sua complicanza (erosione, ulcerazione, etc) con conseguente formazione di un trombo intravascolare. E’ proprio il trombo che, causando una improvvisa ostruzione al flusso ematico, si rende responsabile delle conseguenze più gravi e temibili dell’aterosclerosi, come l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale. Negli ultimi anni, data la difficoltà a tenere separati il processo aterosclerotico da quello trombotico, si preferisce parlare di aterotrombosi, a sottolineare la presenza di un continuum fisiopatologico che unisce i due fenomeni (Figura 2).
Le fasi dell’aterosclerosi Fase di inizio. Le prime fasi dell’aterogenesi nell’uomo rimangono largamente speculative. Tuttavia, l’integrazione di osservazioni ottenute in giovani adulti deceduti per cause traumatiche con quelle degli studi condotti negli animali da esperimento possono dare utili spunti. In condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che riveste tutto l’albero vascolare si oppone all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi induttori, quali una dieta ad alto contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia possono favorire l’espressione da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine cosiddette di adesione, in grado cioè di legare alcuni recettori presenti sulla membrana dei leucociti. Tra queste, la “vascular cell adhesion molecule-1” (VCAM-1) sembra particolarmente importante perché si lega ad un recettore presente sulla membrana dei monociti e dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente nelle lesioni aterosclerotiche iniziali (Figura 3). Una volta che i leucociti abbiano aderito all’endotelio, devono ricevere un segnale specifico per penetrare nello spazio sottoendoteliale. Diversi mediatori chimici di natura proteica, denominati chemochine, con proprietà chemiotattiche nei confronti dei leucociti, sono deputati a svolgere questo compito (Figura 3). Due gruppi di chemochine sono particolarmente importanti nel reclutare i monociti all’interno delle lesioni iniziali: una è la cosiddetta “monocyte chemoattractant protein-1 (M-1), che viene prodotta dalle cellule endoteliali e muscolari lisce in risposta ad alcuni stimoli nocivi come le lipoproteine ossidate. M-1 promuove la migrazione unidirezionale (chemiotassi) dei monociti all’interno della parete vasale. L’importanza di M-1 nel contribuire all’iniziale reclutamento dei monociti all’interno della parete vasale durante le fasi precoci dell’aterogenesi è dimostrata da alcuni studi condotti nell’animale da esperimento in cui la produzione di M-1 veniva inibita attraverso tecniche di ingegneria genetica. Negli animali geneticamente modificati e sottoposti a dieta aterogena, le lesioni aterosclerotiche risultavano più piccole e meno numerose rispetto agli animali di controllo. Altre chemochine importanti nel reclutare i monociti in questa fase dell’aterogenesi sono l’interleuchina-8 e l’interferone , ambedue presenti in alte concentrazioni all’interno delle lesioni iniziali. Focalità delle lesioni aterosclerotiche E’ interessante notare che le lesioni aterosclerotiche non si sviluppano a caso all’interno dell’albero coronarico ma al contrario tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche, come ad esempio le biforcazioni, probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in queste aree si forma. Un ruolo importante nella regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo “shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il sangue esercita sulla parete vasale. Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione di una serie di geni, quali la superossido-dismutasi, la ciclo-ossigenasi e la NO-sintetasi, enzimi che possiedono attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei riguardi delle piastrine e dei leucociti e quindi, in definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear stress turbolento o comunque non laminare non induce i suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio per flussi lenti e turbolenti, quali quelli che si formano in corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto dagli agenti aterogeni.
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Formazione delle strie lipidiche Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate quantità di recettori “spazzini” sulla loro membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine modificate dallo stress ossidativo, e cominciano a fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte del citoplasma, diventando cellule schiumose, cellule di grosse dimensioni il cui citoplasma è letteralmente stipato di lipidi, esteri del colesterolo e lipoproteine ossidate. Allo stesso tempo, i macrofagi proliferano, aumentando di numero, e producono numerosi fattori di crescita e citochine che agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-infiammatori. A questo stadio, la lesione aterosclerotica è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che macroscopicamente appare come una stria giallastra (dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca intima (Figura 4). Non tutte le strie lipidiche però evolvono verso la formazione di una placca avanzata e, d’altra parte, esse vengono evidenziate all’esame autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e sani. La stria lipidica, quindi, non possiede necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società moderna dove prevale uno stile di vita caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di disponibilità di cibo, la progressione della lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca conclamata è purtroppo un evento frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita. Studi autoptici hanno dimostrato che negli Stati Uniti 1 teenager su 6 mostra un ispessimento patologico delle arterie coronarie, indicando che nelle società contemporanee l’aterosclerosi è un processo che comincia precocemente nella vita di un individuo, anche se le sue complicanze sono caratteristiche della mezza età. Formazione della placca conclamata Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente caratterizzata dalla presenza di macrofagi che hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule schiumose). Caratteristiche più complesse, come la fibrosi, la necrosi del core lipidico, la trombosi e l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti nelle strie lipidiche, che rappresentano lesioni iniziali e largamente reversibili, almeno in determinate condizioni. Che cosa allora si rende responsabile, in alcuni individui, della progressione della stria lipidica verso la placca conclamata? Nell’ultima decade la ricerca medica è stata particolarmente attiva in questo ambito e numerosi studi, sia clinici che sperimentali, hanno dimostrato un ruolo fondamentale dell’infiammazione e del sistema immunitario nel processo dell’aterogenesi. Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa reclutato all’interno della parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come promotore di fenomeni infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di citochine e chemochine pro-infiammatorie, nonché alcuni mediatori chimici di derivazione dall’acido arachidonico, come i leucotrieni e le prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate quantità di specie molecolari altamente ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare ulteriormente le lipoproteine presenti all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di infiammazione locale e contribuendo alla formazione di un circolo vizioso che culmina con la progressione della lesione aterosclerotica. In questo contesto, il sistema immunitario gioca un ruolo di primaria importanza nel sostenere e favorire la progressione della placca. Il termine immunità innata si riferisce quella serie di eventi che amplificano la risposta infiammatoria in assenza di stimolazione antigenica (Figura 5). Fanno parte dell’immunità innata i fenomeni di fagocitosi, la produzione di molecole pro-infiammatorie come le proteine di fase acuta, tipicamente rappresentate dalla proteina C-reattiva, ecc. Oltre all’immunità innata, numerose evidenze hanno ampiamente dimostrato l’importanza dell’immunità acquisita nel modulare i fenomeni aterosclerotici. L’immunità acquisita, o antigene-specifica, costituisce la risposta dell’organismo nei confronti di sostanze estranee (antigeni) ed è un fenomeno di grande complessità non ancora compreso completamente (Figura 5). Viene oggi largamente riconosciuto che la lesione aterosclerotica possiede tutte le caratteristiche di una malattia infiammatoria cronica a progressione lenta con coinvolgimento di molti tipi cellulari a funzione immuno-infiammatoria come i monociti/macrofagi, le mast cellule, le cellule dendritiche, i linfociti T e le cellule “natural killer”. Inoltre, nelle lesioni avanzate si ritrovano anche componenti del sistema del complemento in stretta vicinanza alla proteina C reattiva e ad immunoglobuline spesso legate ad antigeni specifici a formare immuno-complessi. E’ stato poi osservato che componenti cellulari costitutivi della parete vasale, come le cellule muscolari lisce, possono, in determinate condizioni, aumentare l’espressione delle molecole HLA di classe II che sono coinvolte nel processo di riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T. Infine, il ruolo del sistema immunitario nel modulare lo sviluppo e la crescita delle lesioni aterosclerotiche viene anche indirettamente dimostrato dalle numerosi osservazioni ottenute nell’animale da esperimento che dimostrano come l’andamento dell’aterogenesi possa essere significativamente modificato da interventi che interferiscono con i vari aspetti della risposta immune. Se da un lato esistono pochi dubbi circa l’importanza dell’immunità acquisita nella formazione e nell’evoluzione della lesione aterosclerotica, dall’altro le ipotesi riguardo l’identità dell’antigene(i) coinvolto(i) in tale fenomeno rimangono largamente speculative. Possibili candidati sono le lipoproteine ossidate che, esposte ad un microambiente altamente ossidante quale lo spazio sottoendoteliale, vengono modificate nella loro struttura terziaria in modo da renderle estranee (“non-self”) al sistema immunitario. Un’altra possibilità è rappresentata dalla presenza di antigeni batterici o virali che risultano simili ad alcune sostanze dell’organismo. In tal caso, si verrebbe a creare l’attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni propri dell’organismo perché simili antigenicamente a sostanze estranee (fenomeno della somiglianza antigenica). Un esempio a tale riguardo
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potrebbe essere la proteina legata allo shock termico (Heat Shock Protein, HSP). Le HSP sono una famiglia di proteine che hanno lo scopo di riparare altre molecole proteiche che hanno subito un danno da agenti nocivi, come ad esempio il riscaldamento eccessivo, da cui il nome. Esse sono molto importanti filogeneticamente per l’economia cellulare, tant’è che sono presenti praticamente in tutti gli esseri viventi, dai batteri agli organismi complessi come i mammiferi. E’ stato osservato che alcune HSP batteriche, in particolare quelle della Clamidia Pneumoniae, hanno una forte somiglianza antigenica con la HSP 45 umana, ed è quindi possibile che una infezione da Clamidia con successiva localizzazione dell’agente patogeno all’interno della placca aterosclerotica possa portare alla attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni “self”. In ogni caso, una volta che l’antigene viene riconosciuto come estraneo, si verifica l’attivazione delle cellule T che, a loro volta, secernono una grande quantità di citochine che vanno a modulare i vari processi dell’aterosclerosi. Mentre gli eventi iniziali della formazione dell’ateroma coinvolgono primariamente la disfunzione endoteliale e il reclutamento dei leucociti, la successiva evoluzione verso la formazione di una placca complessa coinvolge anche le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Le cellule muscolari lisce presenti nella lesione aterosclerotica provengono per migrazione da quelle normalmente presenti nella tonaca media; lo stimolo chemiotattico è in questo caso rappresentato principalmente dal “platelet-derived growth factor” (PDGF), secreto dalle piastrine e dai macrofagi, che possiede anche potenti effetti mitogeni. Infatti, all’interno della lesione, le cellule muscolari lisce vanno incontro sia a fenomeni proliferativi, aumentando di numero, che di aumento della produzione e secrezione della matrice extracellulare. I due fenomeni, proliferazione cellulare e secrezione della matrice, sommati insieme contribuiscono in questa fase dell’aterogenesi alla crescita della placca, anche se la matrice piuttosto che la componente cellulare contribuisce maggiormente al volume della placca. Le macromolecole più importanti che costituiscono la matrice cellulare sono il collagene (tipo I e III), alcuni proteoglicani e le fibre di elastina. Le cellule muscolari lisce sono i principali tipi cellulari responsabili della produzione della matrice extracellulare la cui sintesi viene favorita da alcune sostanze, quali il PDGF e il “transforming growth factor-beta” (TGF-ß) che vengono prodotti da numerosi tipi cellulari all’interno della placca. E’ importante sottolineare che la crescita della placca non è un fenomeno lineare e costante come si è ritenuto fino a pochi anni or sono, ma è piuttosto caratterizzato da una crescita non costante, dove accelerazioni improvvise si alternano a periodi di relativa quiescenza. Queste crisi proliferative possono essere messe in relazione ad episodi di danno meccanico della placca stessa, con attivazione delle piastrine circolanti e della cascata coagulativa e successiva esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa trombina. La lesione avanzata: necrosi e calcificazione Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno, ed infatti già gli studi dell’inizio del secolo scorso avevano descritto la presenza all’interno delle placche di caratteristiche morfologiche tipiche del processo di ossificazione. In anni più recenti si è scoperto che alcuni sottotipi di cellule muscolari lisce, sotto l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il TGF-ß, sono in grado di produrre zone di intensa calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate vi sono proteine contenenti numerosi residui di acido glutammico carbossilato in posizione gamma specializzate nel sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i fenomeni di calcificazione. Un’altra caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte delle cellule muscolari lisce ad opera di fenomeni di apoptosi che quindi possono contribuire all’indebolimento della placca favorendone la rottura. FISIOPATOLOGIA I fattori di rischio In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono una delle principali cause di mortalità, di morbosità e di invalidità. Nel 2004 sono stati registrati quasi 600.000 decessi, di cui 80.000 per le malattie ischemiche del cuore e 65.000 per le malattie cerebrovascolari: quindi, in Italia, un decesso su 4 è dovuto a queste malattie che riconoscono una genesi comune. Secondo i dati dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare, nella popolazione italiana, su 1000 adulti tra 25 ed 84 anni, 15 uomini e 4 donne hanno una storia di infarto del miocardio, mentre ogni anno, nelle stesse età, 2 uomini su 1000 e 1 donna su 1000 va incontro ad un evento coronarico maggiore. Non esiste una causa unica dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati fattori di rischio, che aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad ammalare (vedi Capitolo 46). I più importanti sono: l’abitudine al fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità, i valori elevati della colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, oltre alla familiarità, all’età e al sesso. Dai fattori ambientali ai fattori genetici La malattia aterosclerotica è una malattia multifattoriale la cui espressione fenotipica è il risultato di un'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali: da un lato può essere presente una predisposizione genetica alla malattia aterosclerotica, dall'altro vi sono i fattori ambientali che possono modificare l'espressione di alcuni geni favorendo lo sviluppo della malattia stessa. Nella valutazione del rischio cardiovascolare individuale e nella conseguente elaborazione di strategie preventive e terapeutiche personalizzate, in futuro si dovrà tener conto sia dei classici fattori di rischio legati allo stile di vita e all'età, sia dei fattori genetici.
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PRESENTAZIONE CLINICA L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente al di sotto dell’orizzonte clinico, rimanendo asintomatica per molti anni, spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione aterosclerotica evolve dalla semplice stria lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un individuo all’altro, e non è raro trovare soggetti sintomatici anche molto precocemente. E’ questo il caso di pazienti che sviluppano un evento cardiovascolare maggiore nella terza/quarta decade di vita, mentre altri soggetti, magari con numerosi fattori di rischio, non sviluppano mai eventi cardiovascolari. Questa apparente discrepanza dipende sostanzialmente dall’interazione geni/ambiente, cioè dall’interazione del background genetico di un determinato individuo con gli eventuali fattori di rischio; questa interazione è tale da rendere particolarmente suscettibili di ammalare quei soggetti che hanno un profilo genetico particolarmente sfavorevole, e particolarmente resistenti coloro i quali possiedono un profilo genetico “protettivo”. Al pari del diabete, non esiste un solo gene coinvolto nell’aterogenesi, ma piuttosto essi sono numerosi (l’aterosclerosi è una malattia poligenica) e non ancora identificati completamente. Le stenosi arteriose Anche quando l’aterogenesi è nella sua fase “florida”, la crescita della placca può essere compensata da fenomeni di rimodellamento positivo, cioè di crescita della placca verso l’esterno. Tuttavia, da un certo punto in poi la crescita della placca eccede la capacità di rimodellamento positivo del vaso e la placca stessa comincia a sporgere all’interno del lume arterioso riducendolo in maniera più o meno significativa. Anche questa fase può rimanere per un certo periodo di tempo largamente asintomatica, fino a quando la placca diventa emodinamicamente significativa. Con questo termine intendiamo definire quelle placche che restringono il lume del vaso colpito, causando un ostacolo al flusso ematico. Il principale meccanismo di compenso mediante il quale viene mantenuto un adeguato flusso ematico a riposo è rappresentato dalla vasodilatazione delle arteriole di resistenza sottostanti al vaso malato (vedi capitolo 23). E’ a questo punto che la placca vira dalla fase asintomatica a quella in cui diventa apparente sul piano clinico. Le manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi cronica sono quindi conseguenti al restringimento dell'arteria colpita, che rende il flusso ematico relativamente fisso, cioè incapace di aumentare quando le condizioni funzionali lo richiedono, come ad esempio durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore ischemico, tende ad essere assente a riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa. Tipiche sindromi croniche sono: l’angina pectoris stabile, l’angina abdominis, la claudicatio intermittens, nella quale il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti di riposo. La rottura della placca e la trombosi L’aterosclerosi, esclusivamente intesa come formazione e sviluppo delle placche aterosclerotiche, è una malattia relativamente benigna. Infatti, anche in quei casi in cui l’ateroma progredisce fino ad occludere completamente il lume del vaso interessato, generalmente ciò accade in un arco di tempo piuttosto lungo. In queste circostanze, il letto vascolare interessato ha il tempo di adattarsi alla nuova condizione sfavorevole attraverso un processo denominato neoangiogenesi, mediante il quale si formano circoli collaterali vicarianti che sostituiscono funzionalmente il vaso occluso. Il risultato finale è quello di evitare la necrosi ischemica del tessuto interessato che invece accadrebbe se l’occlusione arteriosa fosse improvvisa. Al contrario, l’occlusione acuta di natura trombotica rappresenta la complicanza più temibile dell’aterosclerosi: poiché l’organo interessato non ha il tempo sufficiente per stimolare lo sviluppo di un adeguato circolo collaterale, l’inevitabile conseguenza della trombosi arteriosa è di solito la necrosi (morte cellulare) del tessuto ischemico. Tale processo si può localizzare a livello del circolo coronarico, causando l’insorgenza di una cosiddetta sindrome coronarica acuta (infarto miocardico o angina instabile), o a livello del circolo cerebrale, causando un ictus, o in un qualsiasi tessuto periferico, causando la necrosi dello stesso. La complicanza (rottura, ulcerazione, erosione) di una placca aterosclerotica è stata identificata come la causa più frequente di trombosi arteriosa. La rottura della placca espone sostanze pro-trombotiche contenute nella placca stessa (tissue factor, collageno, fattore di von Willebrand, etc) che attivano la cascata della coagulazione e le piastrine circolanti e che culminano quindi con la formazione di un trombo intrarterioso (Figura 6). Le placche che sono destinate a rompersi sono difficili da identificare, anche perché la severità della stenosi causata dalla placca aterosclerotica misurata con l’angiografia mal si correla con l’insorgenza clinica di un evento acuto. Infatti, molti studi hanno dimostrato in maniera inequivocabile che le placche cosiddette vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla rottura, causano in genere stenosi non significative, in molti casi addirittura meno del 50% del diametro luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché non sono significative dal punto di vista emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando vanno incontro a rottura e, attraverso l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano l’insorgenza di un evento acuto. La sequenza di eventi che porta alla complicanza della placca non è nota con esattezza, ma fattori meccanici, come lo stress tangenziale di parete e l’assottigliamento del cappuccio fibroso che riveste il core lipidico giochino sicuramente un ruolo importante nell’influenzare il destino della placca. Accanto a questa teoria puramente “meccanica”, nel corso degli ultimi 15 anni una grande massa di dati ha contribuito a far avanzare le nostre conoscenze sulla fisiopatologia della complicanza della placca, suggerendo che l’infiammazione e il coinvolgimento del sistema immunitario giocano un ruolo importante non solo nella formazione della lesione aterosclerotica, ma anche della sua complicanza. Questa affascinante ipotesi venne inizialmente formulata sulla scorta di alcune osservazioni morfologiche che dimostrarono la presenza di linfociti T e macrofagi in numero molto più elevato
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nelle placche complicate rispetto alle loro controparti stabili. Qual è allora il ruolo preciso e come può il sistema immunitario alterare la stabilità di una placca aterosclerotica? E’ affascinante pensare ad un ruolo dei macrofagi come cellule effettrici del fenomeno. Queste cellule infatti, una volta attivate, sono in grado di rilasciare radicali dell’ossigeno e vari enzimi proteolitici, come le metalloproteasi, enzimi ad azione litica nei confronti della matrice cellulare, che possono ridurre la resistenza del cappuccio fibroso e quindi favorirne la rottura (Figura 7). Questa teoria trova riscontro nell’osservazione che le metalloproteasi sono presenti in elevate concentrazioni nelle placche complicate insieme ad altri prodotti di derivazione macrofagica. Poiché è noto che i macrofagi possono essere attivati dai linfociti T, l’attivazione di tali cellule all’interno della placca può rappresentare un meccanismo fisiopatologico importante nella complicanza della placca stessa. In questo senso vi sono diverse evidenze, anche se indirette, dell’esistenza di tale fenomeno. Per esempio, studi autoptici hanno rivelato l’esistenza di cellule T attivate all’interno della placca instabile, mentre altri studi hanno dimostrato la presenza di linfociti T attivati in campioni di placca instabile prelevati da pazienti in corso di procedure di rivascolarizzazione percutanea. CENNI DI TERAPIA Modificazione dei fattori di rischio. Evidenze scientifiche dimostrano che la riduzione dei livelli medi dei fattori di rischio riduce l’incidenza delle complicanze dell’aterosclerosi, sia diminuendo l’incidenza delle malattie cardiovascolari che la mortalità a loro correlata. La prevenzione dell’aterosclerosi coincide in gran parte con gli sforzi della collettività per l’adozione di stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico, non dipendenza dal fumo di tabacco. Terapia farmacologica Attualmente il medico ha a disposizione alcuni farmaci molto efficaci nel diminuire i livelli ematici di colesterolo, uno dei più importanti fattori di rischio per l’aterosclerosi. In particolare, le statine si sono dimostrate molto efficaci in questo ambito. Tali farmaci riconoscono come meccanismo d’azione il blocco della prima tappa biochimica della sintesi del colesterolo in quanto inibiscono l’enzima idrossi-metil-glutaril Coenzima A redattasi, enzima chiave sulla via biosintetica del colesterolo. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule dell’organismo e quelle epatiche in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il colesterolo costituisce un elemento fondamentale per la vita della cellula (è un componente molto importante, tra l’altro, delle membrane cellulari), la cellula reagisce aumentando l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, le lipoproteine responsabili del trasporto ematico del colesterolo. L’aumento dei recettori di membrana per le LDL, a sua volta, causa l’abbassamento dei livelli ematici di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso delle statine nei soggetti a rischio particolarmente elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro regressione. CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI FUTURI L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione trombotica del lume vasale. La Figura 8 riassume in maniera visiva quanto detto in questo capitolo. Sebbene molto sia stato fatto in termini di chiarimento dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base dell’aterosclerosi, ancora poco si può fare per identificare le placche vulnerabili, quelle cioè particolarmente a rischio di complicanza. La sfida per la moderna cardiologia nei prossimi 5-10 anni è proprio rappresentata dalla identificazione di metodiche non invasive che possano distinguere le placche stabili da quelle a rischio, indirizzando quindi verso quest’ultime i maggiori sforzi terapeutici.
Capitolo 47 LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CORONARICO Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo DEFINIZIONE La probabilità di coronaropatia aumenta in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare i quali, se in numero > 1, potenziano il rischio in maniera non additiva ma esponenziale. Un fattore di rischio è tale se trial prospettici su popolazioni numerose hanno dimostrato un’associazione di tipo statistico tra presenza del fattore di rischio e incidenza di nuovi casi di malattia, e se esiste la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio si riduce prospetticamente l’incidenza di nuovi casi di malattia. I fattori di rischio possono essere distinti in tradizionali ed emergenti. Per questi ultimi non vi è ancora la possibilità di correzione farmacologica e/o la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio diminuiscono i nuovi casi di malattia. FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI Distinguiamo fattori di rischio non modificabile e modificabile, cioè correggibile con modifiche comportamentali o con trattamenti farmacologici. I non modificabili sono l’età, il genere e la familiarità. Tra i modificabili i più importanti sono sicuramente la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e il fumo di sigaretta.
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Vanno menzionati, come fattori di rischio minori, anche: l’inattività fisica, l’alcool, l’obesità, lo stress, la frequenza cardiaca elevata.
FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI NON MODIFICABILI Età Il rischio di coronaropatia aumenta con l’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia aterosclerotica una patologia cronico-degenerativa. In particolare, con l’età aumenta l’attivazione del sistema renina-angiotensinaaldosterone e la produzione di radicali tossici dell’ossigeno che favoriscono la disfunzione endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici. Genere L’incidenza di coronaropatia è più elevata negli uomini rispetto alle donne in età fertile, in quanto sembra che gli estrogeni svolgano un ruolo protettivo. Dopo la menopausa tale differenza si annulla, poiché la carenza di estrogeni comporta variazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico, con aumento delle LDL e riduzione delle HDL, modificazioni dell’emostasi in senso procoagulante e disfunzione endoteliale. Familiarità Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato una predisposizione familiare alla malattia coronarica che sarebbe determinata dall’interazione tra ereditarietà a carattere poligenico e fattori ambientali. Si considera a rischio un individuo in cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento coronarico ad un’età < 55 anni se uomo e < 60 anni se donna.
FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI MODIFICABILI
Dislipidemia Elevati livelli di colesterolo totale si associano ad un’aumentata incidenza di malattia aterosclerotica, mentre una loro riduzione mediante dieta e/o terapia farmacologica, rallenta la progressione della stessa e favorisce la stabilizzazione delle placche. Particolarmente importante è il riscontro di elevati livelli di colesterolo-LDL, essendo queste lipoproteine ricche in colesterolo e capaci di infiltrare la parete vasale, quando ossidate (vedi Capitolo 46). Il colesterolo LDL si può calcolare semplicemente applicando la formula di Friedewald: LDL-C = CT – HDL-C – TG/5. Elevati livelli di trigliceridi sono anche un fattore di rischio; infatti, spesso si associano al diabete o alla sindrome da resistenza insulinica, e sono in grado di ridurre la fibrinolisi attraverso un’inibizione dell’attivatore del plasminogeno. Le lipoproteine HDL, invece, riescono a mobilizzare il colesterolo dagli ateromi trasportandolo al fegato per la metabolizzazione; inoltre, esplicherebbero azioni protettive quali l’inibizione dell’adesione dei monociti all’endotelio, la riduzione della proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’induzione della vasodilatazione endotelio-mediata e l’inibizione dell’ossidazione delle LDL. Pertanto, elevati livelli di HDL-C esplicano un’azione protettiva, mentre bassi livelli di HDL-C sono un fattore di rischio. Per qualunque livello di colesterolo totale o LDL il rischio aumenta se contemporaneamente vi sono bassi livelli di HDL-C. Soltanto l’esercizio fisico e il consumo moderato di vino rosso aumentano il livello di HDL-C, mentre l’obesità e il fumo lo riducono. Diabete Il diabete costituisce un importante fattore di rischio, tanto che è stato considerato dalle Linee Guida una condizione di “cardiopatia ischemica equivalente”. Nel paziente diabetico coesistono in genere multipli fattori di rischio, essendo comuni l’obesità viscerale, alterazioni del metabolismo lipidico, con elevazione dei trigliceridi, riduzione di HDL-C e presenza di LDL piccole e dense, aumento dei radicali liberi dannosi per l’endotelio, iperaggregabilità piastrinica e iperfibrinogenemia. Nel paziente con diabete la riserva coronarica è spesso diminuita, e la malattia coronarica è severa e plurivasale, con lesioni prevalentemente distali, tali da rendere difficoltoso sia l’approccio interventistico che quello chirurgico. I pazienti diabetici hanno anche un maggiore rischio di sviluppare insufficienza cardiaca a causa della cardiomiopatia diabetica. Ipertensione arteriosa Molti studi epidemiologici hanno dimostrato l’inequivocabile correlazione lineare tra ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari, in particolare ictus cerebrale e infarto del miocardio. Da un lato l’ipertensione favorisce la disfunzione endoteliale attraverso l’aumento dello shear-stress, dall’altro si associa spesso ad elevati livelli di angiotensina II, che esercita un’azione vasocostrittrice e proinfiammatoria e stimola la proliferazione delle cellule muscolari lisce. Fumo di sigaretta
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Il fumo aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, proporzionalmente con il numero di sigarette fumate e gli anni di fumo; sembra che anche il fumo ivo sia un fattore di rischio. La nicotina attiva il sistema simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del lavoro cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il monossido di carbonio agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio che diventa più permeabile alle lipoproteine, e provoca ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina. Il fumo, inoltre, aumenta l’aggregabilità piastrinica e la viscosità ematica. I benefici della cessazione del fumo sono già evidenti dal primo anno, e dopo circa tre-cinque anni, il rischio relativo dell’ex-fumatore diviene simile a quello del non fumatore. Obesità L’obesità, e soprattutto l’accumulo di grasso viscerale, si associano a dislipidemia e resistenza insulinica, con livelli elevati di trigliceridi, bassi di HDL-C e ridotta tolleranza al glucosio; tale cluster di fattori di rischio è comunemente indicato come sindrome metabolica. Inattività fisica I più importanti studi epidemiologici hanno dimostrato che la vita sedentaria e la mancanza di attività fisica regolare costituiscono un fattore di rischio. Viceversa, l’attività fisica svolta con regolarità riduce significativamente il rischio cardiovascolare, sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria. Essa determina una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo, e quindi del consumo di ossigeno del miocardio; favorisce, inoltre, l’aumento del colesterolo HDL, la riduzione dei trigliceridi, della glicemia (nel diabete) e dell'obesità, e diminuisce l'aggregabilità piastrinica. Alcool Recenti studi hanno messo in evidenza un possibile ruolo dell’abuso di alcool come fattore di rischio cardiovascolare. Al contrario, un uso controllato e limitato di vino rosso, sembra favorire l’aumento del colesterolo HDL e svolgere azione antiossidante grazie alla presenza di polifenoli e rosveratrolo. Frequenza Cardiaca Negli ultimi anni è stato dimostrato un ruolo dell’incremento della frequenza cardiaca e della riduzione della sua variabilità, anche in soggetti sani, nel predire eventi patologici cardiovascolari. Pattern comportamentale Numerose osservazioni hanno evidenziato che una particolare condizione comportamentale, definita come personalità di “tipo A” e caratterizzata da atteggiamenti caratteriali quali fretta, impazienza, eccessiva competitività ed ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare, possa aumentare il rischio coronarico. Il meccanismo imputabile è verosimilmente un’aumentata reattività cardiovascolare secondaria ad una maggiore liberazione di catecolamine e all’ipercortisolemia. Tuttavia, in tali soggetti il rischio aumenterebbe solamente quando non si realizzino gli obiettivi prefissati. FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI Sindrome Metabolica La sindrome metabolica è costituita da una combinazione di fattori di rischio che, coesistendo, conferiscono un rischio elevato di sviluppare cardiopatia ischemica. Esistono diverse classificazioni della malattia: secondo quella del NE-ATP III la sindrome è definita dalla coesistenza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio: 1) circonferenza vita > 102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna, 2) trigliceridemia =150 mg/dL, HDL-C < 40 mg/dL nell’uomo e < 50 mg/L nella donna, 3) pressione arteriosa = 130/85mmHg, 4) glicemia a digiuno = 100 mg%. La prevalenza della sindrome metabolica aumenta con l’età con maggiore frequenza nel sesso maschile fino a 45 anni di età e successivamente nel sesso femminile. Infiammazione Recenti studi, hanno dimostrato che le lesioni aterosclerotiche sono il frutto di un processo infiammatorio cronico, e che la stessa flogosi contribuisce alla rottura e/o all’erosione della placca predisponendo allo sviluppo di una sindrome coronarica acuta (vedi Capitolo 46). Alcune noxae (LDL ossidate, ipertensione, fumo, diabete, agenti infettivi, etc.) sono in grado di alterare la funzione dell’endotelio inducendo la produzione di citochine proinfiammatorie (IL1, TNFalfa, IL6, sCD40L, etc.) e rendendolo suscettibile all’infiltrazione di lipidi e cellule infiammatorie. Queste amplificano il processo infiammatorio producendo altre citochine, fattori di crescita e fattori chemiotattici. Più una placca è ricca di lipidi e cellule infiammatorie (in particolare macrofagi in grado di produrre proteasi capaci di lisare il cappuccio fibroso, come le metalloproteinasi) più è incline alla rottura e quindi all’insorgenza di una sindrome coronarica acuta (SCA). In tal senso l’infiammazione costituisce un fattore di rischio. La PCR, una proteina di fase acuta prodotta a livello epatico, è il marker di flogosi più ampiamente studiato anche perchè essa é dosabile nel sangue periferico in maniera semplice e poco dispendiosa. I livelli plasmatici di PCR (ultrasensibile = hsPCR) costituiscono un marker di rischio in pazienti asintomatici con fattori di rischio e un predittore prognostico in pazienti con angina
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instabile e SCA. La PCR è in grado di attivare il complemento e di indurre l’espressione di tissue factor, quindi di attivare la cascata coagulativa. Esiste anche un’associazione forte fra livelli di fibrinogeno ed eventi cardiovascolari. Il fibrinogeno aumenta la viscosità ematica, incrementa la trombogenicità del sangue ed esalta l’aggregazione piastrinica favorendo la trombosi e, infine, incrementa la formazione di fibrina portando conseguentemente ad un aumento delle dimensioni dei trombi e ad una riduzione della loro suscettibilità alla lisi. Iperomocisteinemia L’omocisteina è un composto intermedio del metabolismo della metionina. L’assenza genetica dell’enzima metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) che trasforma l’omocisteina in metionina rappresenta una delle cause di iperomocisteinemia e si associa ad aterosclerosi accelerata ed a trombosi arteriosa e venosa. L’omocisteina sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione di ossido nitrico da parte dell’endotelio, e con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla trombosi. Tuttavia, gli studi di intervento finora condotti non sono stati in grado di dimostrare che riducendo le concentrazioni di omocisteina si riducano gli eventi cardiovascolari. Microalbuminuria Il termine microalbuminuria indica l’aumento subclinico dell’escrezione urinaria di albumina, con valori di compresi tra 30 e 300 mg/24 h, in assenza di macroproteinuria e di nefropatia conclamata. L’aumento della permeabilità dei capillari glomerulari favorirebbe il aggio transmembrana di albumina ma anche di lipoproteine aterogene nella parete vascolare, e sarebbe un indice di disfunzione endoteliale. La microalbuminuria rappresenta un marker di danno vascolare globale utile principalmente nella stratificazione del rischio di pazienti diabetici e ipertesi. Infezioni Vi sono evidenze che alcuni microrganismi come cytomegalovirus, herpes virus, chlamydia pneumoniae, helicobacter pylori (in particolare, il ceppo citotossici), possano contribuire all’insorgenza della malattia aterosclerotica, nonché rendere instabili le placche aterosclerotiche, agendo come noxae sull’endotelio. L’incremento del titolo anticorpale verso tali patogeni è stato utilizzato come predittore di eventi cardiovascolari futuri in pazienti con infarto acuto del miocardio. L’ipotesi infettiva dell’aterosclerosi resta tuttavia ancora controversa e i trial finora condotti con antibiotici non hanno dato alcun risultato significativo nel ridurre gli eventi cardiovascolari. MARKER STRUMENTALI DI DANNO VASCOLARE PRECLINICO Nella stratificazione del rischio coronarico oltre alla valutazione dei fattori di rischio è utile la ricerca di segni di aterosclerosi preclinica, oggi possibile mediante lo studio ultrasonografico delle arterie carotidi, la misurazione dell’Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) e la valutazione non invasiva della funzione endoteliale. Ispessimento Intima-Media (IMT) e Placca Asintomatica Carotidea Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato un’associazione tra l’incremento dello spessore medio-intimale carotideo (IMT) o la presenza di placche aterosclerotiche asintomatiche (PCA) delle carotidi e l’incidenza di malattia cerebro- e cardiovascolare (ictus ed infarto miocardico) nella popolazione generale (vedi Capitolo 54). Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) Normalmente misurando la pressione arteriosa sistolica alla caviglia (tibiale posteriore) o alla tibiale anteriore e rapportandola alla pressione sistolica brachiale il rapporto è > 1. Se tale rapporto è < 0.9 questo significa che il paziente è portatore di aterosclerosi preclinica a livello dell’albero arterioso iliaco-femoro-popliteo (vedi Capitolo 12). Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato che una riduzione dell’ABI è associato ad aterosclerosi in altri distretti (coronarie e carotidi) ed a futuri eventi cerebro- e cardiovascolari. Disfunzione Endoteliale La disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens nella patogenesi dell’aterosclerosi (vedi Capitolo 48). La disfunzione endoteliale può essere dimostrata dalla vasocostrizione conseguente all’iniezione intrarteriosa di acetilcolina, in arteria brachiale o durante angiografia coronarica. Invece, se l’endotelio è integro, tale sostanza provoca vasodilatazione stimolando la liberazione di Nitrossido (NO) da parte dell’endotelio. Recentemente è stata messa a punto una tecnica non invasiva per lo studio la valutazione della funzione endoteliale attraverso lo studio della dilatazione flusso mediata (FMD) dell’arteria brachiale con tecnica ultrasonografica. Pazienti con scarsa FMD hanno un’alta probabilità di sviluppare eventi cardiovascolari rispetto a quei soggetti con normale FMD. Tale risultato evidenzia, infatti, una carente sintesi di ossido nitrico (NO) da parte dell’NO sintetasi endoteliale, fattore cruciale della disfunzione endoteliale. RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE E CARTE DEL RISCHIO Il rischio cardiovascolare è un processo complesso, influenzato da fattori genetici, ambientali, sociali e culturali. Pertanto, al fine di valutarlo in maniera obiettiva si è reso necessario introdurre il concetto di Rischio Cardiovascolare Globale (RCVG) e formulare le carte del rischio. Queste, mediante algoritmi e/o sistemi a punteggio che valutano una serie di parametri, consentono di stimare il rischio di eventi cardiovascolari nei successivi 10 anni. La prima carta del rischio è stata quella di Framingham, che si basa sul calcolo del risk score ottenuto dalla somma del punteggio attribuito ai singoli fattori di rischio presenti. La carta europea del rischio
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utilizza per il calcolo una mappa di mortalità cardiovascolare a codifica di colore e distingue in Europa 2 zone, una ad alto ed una a basso rischio, di cui fa parte l’Italia. Per stimare il rischio di presentare un evento cardiovascolare maggiore a 10 anni, l'Istituto Superiore di Sanità ha elaborato una carta italiana (Progetto Cuore), che distingue 4 categorie di soggetti: uomo diabetico (Figura 1), uomo non diabetico (Figura 2), donna diabetica (Figura 3), donna non diabetica (Figura 4), in cui il rischio è attribuito in base alla presenza o meno, e al valore crescente, di: età, genere, diabete, abitudine al fumo, valori di pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. Il RCVG è calcolabile per uomini e donne esenti da precedenti eventi cardiovascolari, di età compresa fra 40 e 69 anni. Il livello di rischio a 10 anni è distinto in: < 5%; tra 5 e 10%; tra 10 e 15%; tra 15 e 20%; tra 20 e 30%; > 30%. La stratificazione del rischio coronarico non costituisce un mero calcolo matematico, ma ha delle ovvie implicazioni di ordine pratico nella prevenzione di eventi cardiovascolari (Tabella I). PREVENZIONE PRIMARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA Per prevenzione primaria s’intende la messa in atto di una strategia d’intervento sulla popolazione mirata a prevenire un evento mai manifestatosi in precedenza. Il fulcro della prevenzione primaria è la correzione dei fattori di rischio ovvero l'abolizione dell'abitudine al fumo, la dieta alimentare (ridurre l'assunzione di zuccheri semplici, di alcool, di proteine animali, di sale e di colesterolo, prediligendo gli acidi grassi insaturi), il controllo del peso corporeo, l’attività fisica regolare, il trattamento dell’ipertensione, delle dislipidemie e dell’iperglicemia. I pazienti ipertesi ad alto rischio dovrebbero mirare a raggiungere una pressione arteriosa < 130/80 mm Hg, mentre valori < 140/90 mm Hg sono accettabili per l’ipertensione non complicata. Inoltre, se il rischio globale è > 20% va istituito un trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia anche lieve. Nella Tabella II sono riportati i target raccomandabili per il colesterolo-LDL, per categoria di rischio, secondo le Linee Guida NCEP-ATP III e le indicazioni ad instaurare una terapia. Per quanto riguarda le HDL-C il valore desiderabile dovrebbe essere > 40 mg/dl per gli uomini e > 50 mg/dl per le donne, per i trigliceridi < 150 mg/dl. Le modificazioni dello stile di vita prima discusse comportano un aumento del 10-20% dei livelli plasmatici delle HDL-C ed una riduzione dei trigliceridi. Nelle ipertrigliceridemie elevate > 500 mg/dl, l’intervento farrmacologico è necessario. Nel paziente diabetico, per il rischio particolarmente elevato è fondamentale l'ottimale controllo glicemico e lo stretto controllo di tutti i concomitanti fattori di rischio. Prevenzione nei pazienti a rischio intermedio, con aterosclerosi preclinica I soggetti con almeno 2 fattori di rischio, i quali secondo il Progetto Cuore hanno un rischio intermedio, in realtà se coesistono segni strumentali di aterosclerosi preclinica (IMT > 1 mm o PCA, o ABI < 0.9 o ridotta FMD) si collocano ad un livello di rischio molto più elevato. Tali soggetti necessitano di una strategia di prevenzione più aggressiva e di misure farmacologiche anche se in tal senso il consenso non è ancora unanime. PREVENZIONE SECONDARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA Per prevenzione secondaria si intende l’attuazione di una strategia terapeutica in soggetti che hanno avuto un evento cardiovascolare. Si basa sull’interazione tra modifiche dello stile di vita ed uso ragionato dei farmaci. Numerosi studi clinici hanno dimostrato l'utilità delle statine sia per il controllo dell'assetto lipidico sia per gli effetti di stabilizzazione sulla placca. Nel controllo dei valori pressori vanno considerati di prima scelta gli ACEinibitori, i sartani e i beta-bloccanti; questi ultimi hanno effetto cardioprotettivo, riducono il consumo di ossigeno e la mortalità. Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dai farmaci antitrombotici, in particolare dall’acido acetilsalicilico, che assunto con dosaggio da 75 a 325 mg/die riduce del 33% il rischio di reinfarto e del 25% la mortalità.
Capitolo 48 LE FUNZIONI DELL'ENDOTELIO Marika Massaro, Egeria Scoditti, Maria Annunziata Carluccio, Raffaele De Caterina L’ENDOTELIO VASCOLARE: DAL CONCETTO DI “CONTENITORE PER LA CIRCOLAZIONE” A QUELLO DI “CONTROLLO DELL’ OMEOSTASI VASCOLARE” I vasi sanguigni giocano un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi cellulare e della fisiologia d’organo. Essi infatti permettono al sangue di circolare ininterrottamente attraverso tutte le parti dell’organismo, e così assicurano sia la distribuzione capillare dei nutrienti e dell’ossigeno sia la rimozione dei cataboliti e degli xenobiotici da tutti gli organi e dai tessuti. William Harvey fu il primo a descrivere, agli inizi del quindicesimo secolo, i principi fondamentali della circolazione del sangue. Egli rimase talmente impressionato dalla sua complessità da affermare nel suo libro “Exercitatio Anatomica de Motu Cordis et Sanguinis in Animalibus” che sentiva quasi “che il moto del cuore e del sangue potesse essere compreso realmente solo da Dio”. Gli esperimenti di Harvey confermavano i principi secondo i quali il sangue rifluiva e circolava nel sistema vascolare, un’idea già presente nelle convinzioni di Galeno quindici secoli prima e che era stata successivamente sviluppata da Andrea Cesalpino nella seconda metà del ‘500. Da Cisalpino infatti per la prima volta il moto del sangue fu
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definito “circulatio” e fu puntualizzato che il cuore, e non il fegato, costituiva il centro del movimento. Ma la genialità della concezione di Harvey fu quella di considerare, per la prima volta nella storia della medicina, la circolazione da un punto di vista “meccanico e dinamico”. Egli tuttavia non riuscì a stabilire quale fosse il punto di unione tra sistema arterioso e venoso ossia come il sangue a dalle arterie alle vene. Quindi, il suo “circolo” anatomico restò “aperto” almeno fino a quando Marcello Malpighi non rivelò, nel 1661, che arterie e vene erano collegate da una finissima rete di capillari, un’osservazione tanto importante da essere considerata la seconda maggiore scoperta, dopo quella di Harvey, della medicina vascolare. Il o successivo nella caratterizzazione strutturale e funzionale dei vasi sanguigni, fu ad opera di von Recklinghausen, il quale, nel 1861 dimostrò che i vasi sanguigni non sono delle semplici strutture di conduzione che si affondano inerti nei tessuti, ma sono costituiti, e internamente ricoperti, da organizzazioni cellulari vitali. Altrettanto importanti acquisizioni furono ottenute verso la fine dello stesso secolo da Starling, il quale attraverso la formulazione delle leggi sulla “meccanica degli scambi capillari” (1896) dell’apprezzò l’endotelio come una “barriera selettiva”. Tuttavia è stato solo con gli studi di microscopia elettronica condotti da Palade nella metà degli anni ‘50 e con quelli di fisiologia cellulare condotti da Gowans poco anni dopo che si è dimostrata la possibilità di un’interazioni fisica fra linfociti e cellule endoteliali e quindi si è sancito in via definitiva il ruolo “attivo” giocato dall’endotelio nella fisiologia vascolare. Altra tappa fondamentale nella storia della biologia vascolare è stata la scoperta nel 1976 ad opera di Moncada e Vane, della prostaciclina (PGI2), per la cui importanza biologica Vane è stato insignito del premio Nobel nel 1982. Infine, nel 1980, Furchgott e Zawadzki hanno dimostrato in vitro che il rilassamento arterioso in risposta all’acetilcolina era subordinato alla produzione, da parte delle cellule endoteliali, di un “fattore” poi identificato da Moncada come nitrossido (NO), e per il quale riconoscimento Furchgott è stato insignito del premio Nobel nel 1987. Questa importante osservazione è stata la scintilla per l’esplosione di nuova serie di conoscenze tutte concordanti nell’indicare che l’endotelio svolge un ruolo chiave nell’assicurare la flessibilità funzionale dell’albero vascolare. Gli innumerevoli studi che da allora si sono succeduti hanno infatti permesso la caratterizzazione dell’endotelio vascolare come l’organo a più ampia diffusione, eterogeneità e dinamicità dell’organismo umano espletando funzioni vitali di carattere sintetico, secretorio, metabolico ed immunologico. Queste funzioni, come si apprezzerà nei paragrafi successivi, appaiono costantemente volte al mantenimento dell’omeostasi vascolare: in condizioni fisiologiche le cellule endoteliali garantiscono l’integrità vascolare attraverso una modulazione funzionale della liberazione di vari fattori vasoattivi, mentre negli stati patologici questa flessibilità, e dunque le potenzialità omeostatiche dell’endotelio, diminuiscono a favore di un’attività specifica che prende il sopravvento (Figura 1). RUOLO DELL’ENDOTELIO NELL’OMEOSTASI VASCOLARE Le cellule endoteliali svolgono un ruolo importante in molti processi fisiologici ed eseguono una grande quantità di funzioni, come la regolazione del trasporto di acqua e di soluti, la regolazione delle reazioni immunologiche ed infiammatorie, il mantenimento della fluidità del sangue nonché la regolazione del calibro dei vasi sanguigni nelle diverse condizioni emodinamiche od ormonali. Per la loro strategica localizzazione anatomica, tra il sangue circolante e la muscolatura liscia, le cellule endoteliali hanno la capacità di percepire variazioni emodinamiche (come le forze di shear stress e di pressione) e chimiche (ormoni, sostanze liberate dalle piastrine e peptidi prodotti localmente), e di rispondere a tutti questi stimoli con la produzione di molti fattori biologicamente attivi. Tali fattori includono il nitrossido (NO), la prostaciclina (PGI2) e il fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale (endothelium-derived hyperpolarizing factor, EDHF), ma anche sostanze con effetti opposti, ad azione vasocostrittrice, pro-aggregante e pro-mitogena, come il trombossano(TX) A2 la prostaglandina (PG)H2, l'endotelina(ET)-1 e l’angiotensina(Ang) II (Figura 1). E’ per questo motivo che l’endotelio viene considerato uno dei più importanti organi che partecipano all’omeostasi cardiovascolare (Tabella I). Cambiamenti in alcune di queste funzioni indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente anormali possono risultare nell’alterazione localizzata delle proprietà anti-emostatiche, del controllo del tono vascolare, e nell’acquisizione di un fenotipo iperadesivo verso i leucociti circolati o in una produzione aumentata di citochine e fattori di crescita. Queste alterazioni sono collettivamente indicate con il termine di “disfunzione endoteliale”, e poiché sono diverse, con fenotipo spesso diverso (vedi l’endotelio nell’infiammazione acuta contro l’endotelio nell’aterosclerosi), appare appropriato il termine di “disfunzioni”, al plurale. Il termine di “attivazione endoteliale” più specificatamente designa l’insieme delle disfunzioni endoteliali caratterizzate dall’acquisizione, sotto l’influenza di stimuli specifici, di nuove proprietà antigeniche e funzionali che condizionano soprattutto le interazioni dell’endotelio con i leucociti circolanti. MORFOLOGIA DELLE CELLULE ENDOTELIALI Morfologicamente le cellule endoteliali si presentano di forma approssimativamente poligonale, appiattite verso l’estremità e leggermente ingrossate al centro in corrispondenza del nucleo cellulare. Esse costituiscono un monostrato dello spessore di 0.2-4 µm che riveste, in maniera ininterrotta, la superficie interna dei vasi. Si stima che l’endotelio possa coprire in media un’area di 5,000 m2 e che la rete vascolare possa svilupparsi su 100,000 km di lunghezza. Inoltre, con un peso totale approssimativo di 1 kg per 6 trilioni di cellule, l’endotelio, rappresenta l’1% dell’intera massa corporea, e per questo motivo può a ben ragione essere considerato fra i più “grossi” organi del corpo umano. Sia la forma che l’orientamento delle cellule endoteliali dipendono dall’organizzazione del citoscheletro. In particolare l’orientamento delle cellule endoteliali, tipicamente nella direzione del flusso ematico, dipende dai processi di riorganizzazione cui vanno incontro le fibre di stress in seguito alle sollecitazioni emodinamiche. Tali sollecitazioni sono in grado infatti di determinare la riorganizzazione dei fasci di filamenti di actina ed actinina soprattutto verso la periferia della cellula determinando così l’orientamento cellulare. Marcatori delle cellule endoteliali sono l’enzima di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE), il fattore di von Willebrand (vWF, immagazzinato nei corpi di Weibel-
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Palade), i recettori per il fattore di crescita endoteliale (vascular endothelial growth factor receptor, VEGFR) di tipo 1 e di tipo 2, la vascular endothelial (VE)-caderina, la platelet-endothelial cell adhesion molecole(PECAM)-1 (o CD31), la P-selettina, la molecola simil-mucina CD34, e la E-selettina. Tuttavia, mentre la VE-caderina, la Eselettina e i recettori per il VEGF sono marcatori specifici per l’endotelio, l’ACE, il vWF, il CD31, la P-selettina e il CD34 sono presenti anche sui megacariociti, sulle piastrine e su diversi altri tipi cellulari ematopoietici (Figura 2). LA FUNZIONE DI BARRIERA DELL’ENDOTELIO Il monostrato endoteliale si presenta strutturalmente molto compatto. Esso infatti mostra degli spazi intercellulari molto ristretti tanto da costituire una barriera altamente selettiva al aggio di sostanze tra il sangue e i tessuti. Diversi fattori regolano la permeabilità e l’integrità del monostrato endoteliale. Questi includono a) le giunzioni intercellulari, b) alcune proteine di legame espresse sulla superficie cellulare, c) le cariche elettrostatiche della membrana cellulare e d) la struttura e la composizione della membrana basale. Le giunzioni intercellulari sono delle strutture che determinano uno stato di aderenza stretta tra le membrane cellulari appartenenti a due cellule contigue. Esse sono formate da proteine trans-membrana possibilmente legate a proteine citoplasmatiche e/o a proteine del citoscheletro, e costituiscono un sistema così dinamico e reversibile da assicurare entro pochi minuti, attraverso un cambiamento nella propria organizzazione strutturale, il aggio dei componenti del sangue all’interno dei tessuti. I tre principali tipi di giunzioni intercellulari identificabili in un monostrato endoteliale sono: le giunzioni strette (o tight junctions), le giunzioni comunicanti (o gap junctions) e le giunzioni aderenti (zonulae adherentes) (Figura 3). Le giunzioni strette Le giunzioni strette sono quelle che determinano un contatto serrato fra due cellule endoteliali adiacenti, tanto da impedire il aggio paracellulare dei fluidi e dei soluti. La frequenza delle giunzioni strette varia in relazione al letto vascolare: mentre nelle arterie cerebrali e nelle arterie di grosso calibro la loro frequenza è molto elevata, l’endotelio delle venule postcapillari può addirittura non mostrare alcuna giunzione stretta. Strutturalmente sono costituite da una proteina transmembrana, detta occludina, che sul versante intracellulare si associa con alcune proteine citosoliche a localizzazione periferica come la zonula occludens(ZO)-1 e -2, la cingolina, e la rabl3 le quali, complessivamente, collegano l’occludina al citoscheletro (Figura 3A). Nell’endotelio, in particolare, la ZO-1 si localizza immediatamente al di sotto della membrana plasmatica ed interagisce direttamente con l’occludina, mentre la cingolina e la ZO-2 fanno da ponte tra la ZO-1 e i microfilamenti di actina del citoscheletro (Figura 3A). Studi recenti evidenziano che le giunzioni strette proteggono l’endotelio dallo sviluppo di lesioni aterosclerotiche. E’ stato osservato infatti che il numero delle giunzioni strette aumenta nelle cellule endoteliali in coltura esposte a forze frizionali di tipo laminare. Ciò spiegherebbe quanto avviene in vivo in quelle regioni dell’aorta esposte ad alti livelli di forze frizionali (shear stress) e in cui la deposizione dei lipidi e la formazione delle lesioni aterosclerotiche sono eventi piuttosto rari. Giunzioni comunicanti Le giunzioni comunicanti o “gap junctions” (sinonimi: nexuses, giunzioni facilitanti intervallate, maculae communicantes) sono costituite da canali transmembrana che connettono i comparti citoplasmatici di cellule adiacenti permettendo uno scambio diretto di ioni e secondi messaggeri. I canali delle giunzioni comunicanti consistono di due emicanali chiamati connessoni ognuno dei quali è costituito da sei unità denominate connessine (Figura 3B). Le connessine fanno capo ad una famiglia multigenica composta da 15 membri, ognuno dei quali esibisce differenti proprietà di permeabilità, di trasporto e d’interazione con gli altri membri della stessa famiglia. Le giunzioni comunicanti costituiscono il mezzo di comunicazione intercellulare d’elezione sia tra tipi cellulari omologhi (comunicazione “omotipica” se ad esempio tali giunzioni sono stabilite fra due cellule endoteliali) che fra tipi cellulari diversi (comunicazione “eterotipica” se ad esempio stabilita fra cellule endoteliali e cellule muscolari lisce o fra cellule endoteliali e leucociti). Questo genere di comunicazione “giunzionale” gioca, ad esempio, un ruolo critico nella coordinazione della migrazione, della replicazione e della successiva organizzazione strutturale delle cellule endoteliali, dei periciti e delle cellule muscolari di o durante l’angiogenesi. Inoltre è stato recentemente ipotizzato un loro possibile coinvolgimento nell’aterogenesi, essendo stata osservata un’alterazione nel quadro di espressione delle connessine endoteliali e muscolari sia nelle placche aterosclerotiche umane che nelle lesioni sperimentalmente indotte in animali da laboratorio. Giunzioni aderenti (zonulae adherentes) Le giunzioni aderenti sono costituite da una serie di proteine transmembrana conosciute con il termine di caderine (Figura 3C). Esse assicurano alle cellule endoteliali il riconoscimento omotipico calcio-dipendente, ed è per questa ragione che molti autori sostengono la loro essenzialità nell’organizzazione dei contatti inter-endoteliali. Le giunzioni aderenti sembrano inoltre giocare un ruolo importante nel controllo della migrazione, della crescita e della differenziazione delle cellule endoteliali. L’endotelio esprime caderine specifiche e non specifiche. Le caderine non specifiche, e quindi presenti in diversi tipi cellulari, includono la N-caderina, la P-caderina e la E-caderina. Il loro ruolo nel mantenimento della struttura endoteliale rimane controverso. Diversamente, la VE-caderina è espressa solo dalle cellule endoteliali tanto da rappresentarne un marker di riconoscimento specifico. Solo recentemente è stata investigata la sua espressione in relazione all’aterosclerosi. A questo riguardo è emersa un‘alterazione della sua espressione nelle lesioni aterosclerotiche in corrispondenza delle cellule endoteliali che hanno dato luogo a fenomeni di neovascolarizzazione intraplacca. In particolare, la riduzione dell’espressione della VE-caderina in questi neovasi sembra coincidere con un aumento dell’entrata di cellule immunocompetenti nella matrice intimale circostante le strutture neovascolari. Ciò suggerisce che la disorganizzazione delle interazioni fra
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le cellule endoteliali entro la neovasculatura può costituire un evento significativo alla base della progressione della malattia aterosclerotica LA REGOLAZIONE DEL TONO VASCOLARE E DELLA FUNZIONE PIASTRINICA L’NO: biochimica e funzioni L’NO è il principale vasodilatatore prodotto dalle cellule endoteliali. Esso viene sintetizzato per azione della ossido nitrico sintasi (nitric oxide synthase - NOS), che catalizza l’ossidazione dell’azoto contenuto nella L-arginina, producendo NO e L-citrullina in presenza di NADPH. Una serie di studi di biologia molecolare ha portato all’identificazione di tre distinti geni che codificano tre diverse isoforme dell’enzima NOS: la “NOS di tipo I” o “nNOS”, contenuta nei neuroni e nel muscolo scheletrico; la “NOS di tipo II” o “iNOS”, inducibile in molti tipi cellulari (leucociti, endotelio, cellule muscolari lisce e miociti cardiaci); e la “NOS di tipo III” o “eNOS”, espressa soprattutto nell’endotelio, ma anche dalle piastrine, dai miociti cardiaci e dai neuroni dell’ippocampo. Le tre isoforme enzimatiche condividono molte caratteristiche strutturali e presentano dei meccanismi catalitici largamente sovrapponibili. Ad esempio, richiedono una serie di cofattori e gruppi prostetici per esplicare la loro attività, fra i quali il flavin adenina dinucleotide (FAD), il flavin mononucleotide (FMN), l’eme, la calmodulina (CaM) e la tretraidrobiopterina (BH4). Per la loro attività catalitica sono necessari tre distinti domini, che – a partire dall’estremità C-terminale – sono: un dominio reduttasico, un dominio di legame della CaM, ed un dominio ossigenasico. Il dominio reduttasico accoglie il FAD e l’FMN e trasferisce gli elettroni dal NADPH al dominio ossigenasico. Il dominio ossigenasico catalizza la conversione dall’arginina in citrullina ed NO, e contiene i siti di legame per l’eme, la BH4 e l’arginina. La NOS di tipo II è l’unica isoforma inducibile e calcio-insensibile, dal momento che viene espressa solo dopo attivazione cellulare ed è attiva anche a basse concentrazioni di Ca2+. Questo avviene perché la CaM rimane costantemente legata all’enzima, comportandosi come una sua subunità. La sua espressione può essere indotta in diversi tipi cellulari, primi fra tutti i macrofagi, in seguito a stimolazione con citochine proinfiammatrie come l’interleuchina(IL)-1 ed il fattore di necrosi tumorale(TNF)a. Si tratta dell’isoforma responsabile della produzione massiva di NO che è alla base dell’azione battericida e tumoricida dei macrofagi e dei neutrofili. Le isoforme NOS I e NOS III sono invece espresse costitutivamente, e sono calcio-sensibili, in quanto l’attività basale può essere aumentata dal legame della CaM a seguito dall’aumento dei livelli intracellulari di calcio. Le tre isoforme differiscono per la localizzazione intracellulare: la NOS I nel tessuto nervoso è localizzata nella membrana postsinaptica, mentre nel muscolo scheletrico è associata con il citoscheletro, tramite un’interazione con il complesso della distrofina; la NOS II, inizialmente ritenuta citoplasmatica, è risultata invece essere associata alla membrana plasmatica, sia pure in modo ancora indefinito; la NOS III, infine, è situata nella membrana plasmatica, in corrispondenza di microdomini altamente specializzati detti “caveole”. Le caveole si presentano come invaginazioni della membrana plasmatica composte essenzialmente da glicosfingolipidi e colesterolo, mentre le principali proteine che ne formano l’impalcatura strutturale sono le “caveoline”, proteine palmitoilate di 20-24 kDa, di cui si conoscono almeno tre isoforme: la caveolina 1, presente in un’ampia varietà di cellule, endotelio compreso; la caveolina 2 espressa principalmente negli adipociti; la caveolina 3 contenuta soprattutto nei muscoli striati, compreso il miocardio. Le caveole svolgono una funzione chiave nella regolazione dell’attività enzimatica. La eNOS infatti lega la caveolina o la CaM in una maniera mutualmente esclusiva: in condizioni basali il legame della eNOS alla caveolina riduce l’attività enzimatica, mentre in condizioni di attivazione cellulare l’aumento dei livelli intracellulari di calcio (in seguito ad esempio a stimolazione con acetilcolina o bradichinina) promuove la dissociazione reversibile della eNOS dalla caveolina e il successivo legame alla CaM che ne determina l’attivazione. La produzione endoteliale di NO è tuttavia regolabile non solo a livello dell’attività enzimatica, ma anche a livello pre- e post-trascrizionale. Gli estrogeni, alcuni componenti delle low density lipoprotein (LDL) come la fosfatidilcolina e lo shear stress inducono l’espressione della eNOS a livello trascrizionale. Diversamente, gli inibitori dell’enzima 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA reduttasi, fra i quali la simvastatina, aumentano l’espressione della eNOS prolungando l’emivita del suo messaggero. Infine sono state mostrate forme di modulazione posttraduzionali dovute a meccanismi di interazione proteina-proteina come con le heat shock protein 90 (hsp90), oppure ad eventi di fosforilazione a carico di siti specifici come in ser1177 che aumentano l’attività enzimatica potenziando il flusso di elettroni dal dominio di riduzione a quello ossigenasico. L’NO ha un’emivita approssimativa di 3-5 secondi. Una volta prodotto, esso diffonde facilmente verso le cellule della muscolatura liscia dove, attivando la guanilato ciclasi, determina il rilassamento della muscolatura e la vasodilatazione. L’attivazione della guanilato ciclasi è dovuta al legame dell’NO con l’eme dell’enzima: quest’interazione altera la conformazione dell’eme e disloca il Fe3+ dal piano dell’anello porfirinico. In questa maniera viene rimossa l’inibizione che il ferro esercita sull’enzima, e s’innesca una produzione massiva di guanosin monofosfato ciclico (cGMP) a partire dalla guanosina-5’-trifosfato (GTP). Il cGMP determina il rilassamento muscolare attraverso diversi meccanismi, fra i quali la fosforilazione delle chinasi della catena leggera della miosina (MLCK), che determina la riduzione nei tassi di fosforilazione della miosina e quindi aumenta la stabilità della miosina inattiva, nonché attraverso la riduzione dei livelli intracellulari di calcio. Oltre che in direzione abluminale, le cellule endoteliali liberano NO anche in direzione luminale e quindi, nella circolazione sanguigna. Qui l’NO può venire in contatto con le piastrine e i leucociti circolanti e sortire altrettanti importanti effetti biologici in termini sia di riduzione dell’adesività leucocitaria che dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica, sempre secondo meccanismi cGMP-dipendenti. L’NO nelle malattie cardiovascolari
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Le alterazioni funzionali della trasduzione del segnale lungo la via biosintetica della L-arginina/NO possono svolgere un ruolo importante nella fisiopatologia delle malattie cardiovascolari, in quanto si associano ad una riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente con conseguente riduzione potenziale del flusso ematico locale e ad un ridotto potere antitrombotico e antiaterogeno dell’endotelio. Nell’uomo le coronarie con aterosclerosi presentano una ridotta risposta vasodilatatoria all’acetilcolina rispetto alle arterie normali; anche nei vasi di soggetti ipertesi tale risposta risulta diminuita, ma non è chiaro se questi comportamenti anomali siano primari o secondari alla malattia. Il fatto che questa alterata vasomotilità sia presente anche in coronarie angiograficamente integre ne suggerisce un ruolo primario. Corrispondentemente, in modelli animali di ipercolesterolemia l’inibizione farmacologica della NOS accelera l’aterosclerosi, mentre un’aumentata disponibilità di NO diminuisce o addirittura reverte la formazione delle lesioni aterosclerotiche. Tuttavia sebbene la somministrazione orale di L-arginina in animali ipercolesterolemici abbia generalmente sortito effetti benefici, i risultati nell’uomo sono stati più contrastanti, probabilmente a causa del numero limitato di soggetti arruolati e dei brevi periodi di osservazione cui gli stessi soggetti erano sottoposti. Prostanoidi Il termine “eicosanoidi” indica diverse famiglie di mediatori lipidici bioattivi, quali le prostaglandine (compresa la prostaciclina), i trombossani, i leucotrieni e gli acidi idrossieicosatetraenoici. Queste sostanze derivano dal metabolismo di acidi grassi poliinsaturi a venti atomi di carbonio, fra i quali il più comune e il più rappresentato è l’acido arachidonico, un componente dei fosfolipidi della membrana plasmatica. La prima tappa nella biosintesi degli eicosanoidi è la liberazione dell’acido arachidonico dalla membrana per azione della fosfolipasi A 2 (Figura 4). Una volta liberato, l’acido arachidonico può essere convertito in prodotti ossigenati da distinti sistemi enzimatici, fra i quali le “prostaglandine H sintasi-1 e -2, detti anche cicloossigenasi(COX)-1 e -2, i cui prodotti, raggruppati sotto il termine di prostanoidi, sono tra i più importanti mediatori prodotti dalla parete vasale. Mentre molti tessuti umani esprimono costitutivamente COX-1, tanto da far considerare questa una “housekeeping molecule”, l’espressione di COX-2 è inducibile in risposta a stimolazione con fattori di crescita, promotori tumorali, citochine, lipopolisaccaride batterico (LPS) e trombina. Entrambi gli isoenzimi COX possiedono un’attività cicloossigenasica, responsabile della captazione di due molecole di ossigeno e della ciclizzazione della catena idrocarburica dell’acido arachidonico, e un’attività perossidasica, che catalizza la riduzione del gruppo idroperossido legato al carbonio 15 in gruppo idrossile, essenziale per l’attività biologica. Il prodotto dell’attività cicloosigenasica, la PGH2, ha un’emivita molto breve, dell’ordine dei 5 minuti, e causa vasocostrizione. Esso tuttavia costituisce solo un prodotto intermedio, e infatti subisce un’immediata conversione enzimatica in una prostaglandina(PG) del tipo D2, E2, F2a, o in PGI2, oppure in TXA2, a seconda del tipo di isomerasi/sintasi che opera la trasformazione (Figura 4). Poiché esiste una variazione tessutale nell’espressione delle isomerasi, il profilo dei prostanoidi prodotti varia in maniera tessuto-specifica. I prostanoidi realizzano i loro effetti cellulari previo legame a recettori appartenenti alla superfamiglia dei recettori accoppiati alle proteine G. Nell’endotelio in condizioni basali (di non attivazione), l’azione costitutiva e concertata della COX-1 e della PGI 2 sintasi (PGIS) produce PGI2. Questa, attraverso l’attivazione del corrispondente recettore IP presente sulle cellule muscolari lisce e sulle piastrine, causa vasodilatazione e inibisce l’aggregazione piastrinica secondo un meccanismo che prevede l’attivazione della adenilato ciclasi e l’aumento dei livelli intracellulari dell’adenosin monofosfato ciclico (cAMP). Tuttavia, in condizioni proinfiammatorie (attivazione cellulare mediata da citochine e fattori di crescita), l’induzione di COX-2 determina, oltre all’accumulo di PGI2, un aumento significativo nella produzione di PGE2 (e in minor misura di PGD2), anche per effetto della concomitante induzione della PGE sintasi microsomiale (mPGES). Inoltre, le cellule endoteliali sono anche in grado di sintetizzare il TXA 2, un prostanoide fino a pochi anni fa ritenuto di esclusiva produzione piastrinica. Altri prodotti endoteliali dell’acido arachidonico sono rappresentati da una nuova classe di biolipidi, noti come isoprostani. Gli isoprostani sono prodotti di perossidazione dell’acido arachidonico e strutturalmente possono essere considerati isomeri delle prostaglandine convenzionali. Pur essendo mediata dai radicali liberi, la produzione di isoprostani nell’endotelio è inibibile dall’indometacina. E’ stato perciò ipotizzato un modello secondo il quale COX-2 contribuisce alla produzione endoteliale di isoprostani non in termini di catalisi enzimatica classica ma attraverso la generazione di specie radicaliche. Il contributo relativo di COX-1 e di COX-2 alla fisiopatologia dell’aterosclerosi rimane ancora molto dibattuto nonostante l’enorme interesse scientifico e la mole di lavoro prodotto. A differenza delle arterie normali che esprimono prevalentemente COX-1, RNA messaggero sia per COX-1 che per COX-2 è stato dimostrato nelle placche aterosclerotiche umane in corrispondenza dei macrofagi, delle cellule muscolari lisce e dell’endotelio. E’ stato ipotizzato che l’induzione di COX-2 in sede lesionale possa contribuire all’instabilizzazione della placca favorendo la digestione del cappuccio fibroso, secondo un meccanismo di accoppiamento funzionale fra COX-2 e la produzione, PGE2-mediata, di metalloproteinasi della matrice(MMP). Inoltre, fenomeni di neoangiogenesi intraplacca sono stati riconosciuti essere criticamente implicati nella crescita e nella instabilizzazione delle placche aterosclerotiche umane. Poiché diverse linee di evidenze sperimentali indicano un ruolo proangiogenico dei prodotti enzimatici di COX-2, e poiché è stato osservato che COX-2, la MMP di tipo 9, e la “membrane type-1 MMP” colocalizzano nelle cellule endoteliali dei vasa vasorum di aorte aterosclerotiche umane, si ipotizza che la produzione di prostaglandine COX-2-mediata possa contribuire alla crescita e all’instabilizzazione della placca aterosclerotica anche attraverso l’induzione e il mantenimento dei processi di neoangiogenesi. L’ EDHF Già nei primi anni ’80 diverse linee di evidenza cominciavano a indicare che la vasodilatazione endoteliodipendente non poteva essere spiegata esclusivamente con la produzione endoteliale di PGI 2 ed NO. Infatti, soprattutto nelle arterie di resistenza, l’inibizione farmacologica o il silenziamento genico delle NOS, con e senza
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inibizione della produzione di PGI2, non riusciva ad inibire completamente il vasorilassamento endoteliodipendente indotto sia in risposta a stimoli chimici (acetilcolina e bradichinina) che meccanici (shear stress). Si constatò in seguito che tale attività vasorilassante residua implicava l’iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce (oltre che dello stesso endotelio), indipendentemente dall’aumento dei livelli intracellulari di nucleotidi ciclici. Per queste ragioni si sospettò l’esistenza di quello che fu denominato “fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale”(o endothelium-derived hyperpolarizing factor, EDHF), e s’ipotizzo che l’EDHF avrebbe potuto sortire i suoi effetti inducendo, direttamente o indirettamente, l’apertura dei canali del potassio sulle cellule muscolari lisce oppure determinando l’iperpolarizzazione delle cellule endoteliali che sarebbe stata, a sua volta, trasmessa alle cellule muscolari lisce da un’accoppiamento elettrico tra i due tipi cellulari. Rimangono tutt’ora aperte molte questioni, prima fra tutte quella dell’identità chimica dell’EDHF. Si ritiene che l’eterogeneità tessutale e di specie comporti l’esistenza di forme diverse di EDHF, tanto che fino ad ora sono stati proposti almeno quattro candidati. Evidenze ben documentate propongono un ruolo per i prodotti dell’acido arachidonico ottenuti attraverso la via dell’epossigenasi P450, ossia degli acidi epossieicosatetraenoici (EET), che almeno in alcuni letti vascolari funzionano come EDHF. Ciò è basato sull’osservazione che, a seguito di un’adeguata stimolazione recettoriale, gli EET sarebbero sintetizzati e liberati dall’endotelio e diffonderebbero verso le cellule muscolari lisce nelle quali indurrebbero l’iperpolarizzazione in seguito all’apertura dei canali del potassio ad alta conduttanza (BKCa). Una seconda candidatura è stata proposta per un altro prodotto dell’acido arachidonico, ossia per il cannabinoide endogeno anandamide. L’anandamide infatti, attivando i recettori dei cannabinoidi sia nelle cellule endoteliali che nelle cellule muscolari, induce iperpolarizzazione e vasorilassamento. Una terza ipotesi riconosce gli ioni potassio (K+) come possibili EDHF. E’ stato ipotizzato, infatti, che un’adeguata stimolazione dei recettori endoteliali possa attivare l’apertura dei canali del potassio a bassa e media conduttanza (SKCa e IKCa) nelle cellule endoteliali, che porterebbe alla liberazione di K+ e quindi all’aumento del K+ extracellulare. Questo, a sua volta, indurrebbe l’iperpolarizzazione e il rilassamento delle cellule muscolari attivando i canali del K + di tipo rettificante in entrata (KIR) e la Na+ -K+ -ATPasi. Una quarta ipotesi, quella oggi più accreditata, riconosce nelle giunzioni comunicanti mio-endoteliali la struttura essenziale alla base dell’attività vasodilatatoria endotelio-dipendente mediata dall’EDHF. Il numero di queste giunzioni eterocellulari infatti aumenta con la diminuzione del diamentro dell’arteria, osservazione che coincide con la prevalente attività dell’EDHF nei vasi di minori dimensioni. Si ritiene che questi meccanismi non siano mutualmente esclusivi, ma anzi possano realizzarsi simultaneamente o sequenzialmente così da determinare un effetto additivo o sinergico. Gli effetti biologici dell’EDHF sono ridotti nella malattia vascolare aterosclerotica associata all’invecchiamento e dall’ipercolesterolemia. Perciò è stato suggerito che una diminuizione della produzione di EDHF possa essere responsabile, almeno in parte, delle alterazioni della risposta vascolare nell’aterosclerosi. Endoteline In netto contrasto con tutte le sostanze descritte fino ad ora, le endoteline (ET) sono dei potenti vasocostrittori. Si tratta di polipeptidi strettamente affini alla safratossina (componente tossico di alcuni veleni di serpente) e prodotti da diversi tessuti in tre forme: l‘ET-l, l’ET-2 e l’ET-3. Le cellule endoteliali producono solo l’ET-l, che è stata isolata per la prima volta, nel 1988, proprio dal mezzo condizionato di cellule endoteliali di aorta porcina. L’ET-1 deriva da un precursore a 203 residui amminoacidici, detto pre-pro-endotelina, che viene processato in successione per essere definitivamente convertito, in una reazione catalizzata dall’enzima di conversione dell’endotelina (ECE), nella forma biologicamente attiva a 21 aminoacidi. In natura esistono diverse isoforme dell’ECE, fra le quali la ECE-la, la ECE-lb e la ECE-2, ma le cellule endoteliali esprimono esclusivamente l’isoenzima-1a. Il 75% della produzione endoteliale di ET-1 diffonde abluminalmente verso le cellule muscolari lisce, mentre il restante 25% è liberato nel lume vasale, cosicché bassi livelli di ET-1 sono misurabili nel plasma anche in soggetti sani. L’ET-1 realizza i suoi effetti biologici attraverso la stimolazione di specifici recettori accoppiati alle proteine G, noti come recettori di tipo A (ETA) e di tipo B (ETB). Le cellule muscolari lisce esprimono soprattutto il recettore ETA e solo scarsamente il recettore ETB. La stimolazione di entrambi i recettori induce vasocostrizione attraverso due differenti meccanismi: aumento dell’influsso di calcio e attivazione della fosfolipasi C e della fosfolipasi A2. Gli stessi recettori ETB sono espressi anche dalle cellule endoteliali, nelle quali la loro stimolazione induce la produzione e la liberazione di NO e PGI2, allo scopo di ripristinare il normale tono vascolare. Un’alterata produzione endoteliale di ET-1 caratterizza gli stati di disfunzione endoteliale legati alla malattia aterosclerotica. In accordo con questo, molti dei fattori associati allo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche, come le citochine infiammatorie e le LDL ossidate, inducono la produzione endoteliale di ET-l. Inoltre l’aumento nella produzione e nell’espressione di ET-1 nelle placche aterosclerotiche umane ne conferma un potenziale ruolo patogenetico. Si ipotizza inoltre che l’ET-1 possa contribuire allo sviluppo dell’aterosclerosi non solo inducendo perturbazioni del flusso ematico, ma anche stimolando la proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’espressione endoteliale delle molecole di adesione e la chemiotassi dei leucociti circolanti. Il sistema renina-angiotensina nell’endotelio Il sistema renina-angiotensina è un complesso apparato enzimatico-ormonale deputato alla regolazione a lungo termine del bilancio idro-salino, della pressione sanguigna e del volume dei liquidi extra-cellulari. In condizioni fisologiche, il sistema viene attivato quando si verifica ipovolemia o una caduta di pressione (ad esempio in seguito ad un’emorragia). In queste condizioni, la diminuita perfusione dell’apparato iuxtaglomerulare dei reni stimola le cellule iuxtaglomerulari a liberare un enzima, la renina (che può anche essere liberata dai vasi sanguigni in seguito ad insulto meccanico o di altra natura), che converte un peptide inattivo di derivazione epatica, l’angiotensinogeno, in angiotensina (Ang) I; questo peptide viene a sua volta convertito in Ang II dall’enzima di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE) espresso principalmente dai capillari polmonari e in generale dall’endotelio vascolare. L’Ang II agisce da vasocostrittore, aumentando la
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pressione sanguigna e stimolando la secrezione di aldosterone, che a sua volta promuove la ritenzione di sodio. Nei vasi sanguigni, l’ACE è localizzato sulla superficie luminale delle cellule endoteliali dove, oltre a convertire l’Ang I in Ang II, degrada e inattiva la bradichinina, aumentando così, con la sua attività, l’effetto vasocostrittorio. Gli effetti biologici dell’Ang II sono generalmente mediati da una classe di recettori che comprende: AT1A, AT1B e AT2. Nelle cellule muscolari lisce, gli effetti di contrazione e di stimolazione della proliferazione cellulare sono mediati esclusivamente da AT1. Moltissime linee di evidenza suggeriscono un profondo coinvolgimento del sistema renina-angiotensina nello sviluppo della malattia cardiovascolare. L’accumulo dei lipidi all’interno della parete vascolare aumenta l’espressione di tutti i componenti del sistema renina-angiotensina, con il risultato di un aumento netto nella produzione di Ang II e quindi dei suoi effetti vasocostrittori e pro-mitogeni. Inoltre l’Ang II può modulare, in via diretta, lo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche attraverso un effetto pro-infiammatorio sulle cellule endoteliali. Ciò è stato ampiamente dimostrato in vitro dall’induzione, Ang II-mediata, di una serie di molecole di adesione, quali la vascular cell adhesion molecule(VCAM)-1 e la intercellular adhesion molecule(ICAM)-1, caratteristicamente implicate nelle fasi precoci di reclutamento leucocitario che accompagna la formazione della lesione aterosclerotica. Inoltre è stato accertato che questi effetti pro-infiammatori sono mediati dall’attivazione dei recettori endoteliali di tipo AT1, dal momento che il loro blocco farmacologico previene ogni effetto pro-infiammatorio dell’AngII. RUOLO DELL’ENDOTELIO NEL CONTROLLO DELL’EMOSTASI L’endotelio gioca un ruolo chiave nel controllo dell’emostasi, influenzando la funzionalità piastrinica, la coagulazione e la fibrinolisi. In condizioni normali l’endotelio possiede proprietà anti-piastriniche, anti-coagulanti e pro-fibrinolitiche; l’instaurazione di uno stato disfunzionale è caratterizzato dallo spostamento della bilancia emostatica da uno stato anti-trombotico verso un franco stato pro-trombotico (Figura 1, Figura 6). Controllo della funzionalità piastrinica In condizioni normali le piastrine circolanti non interagiscono con l’endotelio vascolare sia a causa della liberazione costitutiva di NO e PGI2 da parte dell’endotelio, sia per l’espressione endoteliale, anch’essa costitutiva, dell’enzima anti-piastrinico noto come ecto-ADPasi/CD39. L’NO, oltre ad esplicare un potente effetto vasodilatatorio, inibisce l’adesione, l’attivazione e l’aggregazione piastrinica attraverso diversi meccanismi. Esso induce l’aumento dei livelli intrapiastrinici di cGMP, inibisce l’espressione della P-selettina, previene l’aumento intrapiastrinico di calcio, e promuove la disaggregazione piastrinica inibendo l’attività della fosfatidil-inositolo 3-chinasi. Anche la PGI 2, oltre a regolare il tono vascolare, inibisce fortemente l’aggregazione piastrinica, attraverso l’attivazione dei recettori IP presenti sulle piastrine e il successivo aumento dei livelli di cAMP. Altra attività anti-piastrinica messa in atto dall’endotelio normale è quella che fa capo all’espressione della ectonucleasi di membrana conosciuta come ecto-ADPasi/CD39. L’ADP, interagendo con il recettore piastrinico P2Y 12, funziona da potente attivatore delle piastrine. La ecto-ADPasi endoteliale, essendo una ATP-difosfoidrolasi, metabolizza efficientemente l’ADP in AMP, contribuendo in tal modo al mantenimento delle piastrine in una condizione basale di non attivazione. Proprietà anticoagulanti dell’endotelio La coagulazione del sangue è il risultato di una serie di processi che possono realizzarsi all’interno o all’esterno di un vaso sanguigno, e che portano alla formazione di un coagulo o un di trombo. Pur essendo il processo di coagulazione unico, è possibile distinguere una forma fisiologica, detta emostasi, che avviene all’esterno di un vaso e conduce alla riparazione di una ferita, e una forma patologica, detta trombosi, consistente nella formazione di una massa solida nelle cavità cardiache o vascolari, e che può portare a conseguenze cliniche anche gravi. In entrambe le situazioni, la stabilizzazione dell’aggregato piastrinico primario è subordinata alla formazione e alla deposizione di un reticolo polimerico di fibrina. La fibrina deriva dalla scissione del fibrinogeno ad opera della trombina, una serin-proteasi che oltre all’attivazione del fibrinogeno contribuisce all’attivazione di diversi altri enzimi e cofattori della cascata coagulativa (Figura 5). Non è sorprendente quindi che diverse “vie di controregolazione” si siano evolute per contrastare fisiologicamente la generazione eccessiva di trombina. In questo senso l’endotelio gioca un ruolo di primo piano, orchestrando almeno tre meccanismi anti-coagulanti: a) il sistema eparina-antitrombina; b) il sistema di inibizione della via del fattore tessutale; c) il sistema anticoagulante della trombomodulina-proteina C. La matrice extracellulare a contatto con l’endotelio è particolarmente ricca di eparansolfati e glicosamminoglicani di derivazione endoteliale, molecole che promuovono l’attivita dell’antitromina(AT). Questo complesso inattiva la trombina, il fattore VIIa legato al fattore tessutale (TF), il fattore X e Xa (Figura 5). L’espressione degli eparansolfati e dei glicosaminoglicani da parte dell’endotelio è ridotta in condizioni pro-infiammatorie. L’endotelio previene la formazione di trombina anche attraverso la produzione dell’inibitore della via del TF (tissue factor pathway inhibitor, TFPI), il quale lega e inattiva il fattore Xa in un complesso quaternario costituito da TF/VIIa/Xa/TFPI (Figura 5). Sia la produzione di TFPI che di AT sono alterate negli stati protrombotici che accompagnano le complicanze cliniche su base aterosclerotica. La trombomodulina è una proteina di 74 kDa sintetizzata dalle cellule endoteliali, ed espressa sulla superficie luminale delle stesse a livello dei capillari, delle arterie, delle vene, e dei vasi linfatici. E’ stato stimato che le cellule endoteliali della vena del cordone ombelicale possono esprimere fino a 50,000 molecole di trombomodulina per cellula. Quando la trombina viene legata dalla trombomodulina (Figura 5), essa perde le sue proprietà procoagulanti e il complesso diviene un potente attivatore della proteina C, proteina a funzione anticoagulante prodotta e liberata dal fegato fino al raggiungimento di una concentrazione plasmatica di 4 µg/mL. Il tasso di attivazione della proteina C è più alto quando essa si lega, in maniera reversibile (KD ˜ 30 nM), al rispettivo recettore espresso dalle endoteliali noto come “recettore endoteliale della proteina C” (EPCR). Una volta attivata, la proteina C (ora “activated protein C”,
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APC), mantiene la sua affinità di legame per ER, ma questo complesso non sembra più possedere attività anticoagulante. L’APC infatti, quando si dissocia da ER, forma un complesso con la proteina S, una molecola sintetizzata nel fegato e nelle cellule endoteliali, catalizzando l’inattivazione dei fattori Va e VIIIa (Figura 5). Il TNFa riduce l’espressione della trombomodulina inibendo la trascrizione del suo RNA messaggero e favorendo la degradazione della proteina matura nei lisosomi. Il riscontro di una ridotta espressione in pazienti con angina instabile ha fatto ipotizzare un ruolo per la proteina S nello sviluppo della malattia vascolare. Proprietà procoagulanti dell’endotelio Il aggio chiave nella trasformazione dell’endotelio da una superficie anti-coagulante ad una pro-coagulante consiste nell’espressione del TF. Il TF è una glicoproteina di 263 residui aminoacidici strutturati in un dominio extracellulare di 219 residui, in una singola sequenza trans-membrana e in un corto dominio intracitoplasmatico. Poiché il TF catalizza l’attivazione della via estrinseca della coagulazione (Figura 5), in condizioni normali esso non è espresso. Esso invece risulta sovraespresso in corrispondenza di molte lesioni aterosclerotiche, e ciò giustificherebbe l’elevata trombogenicità di alcune placche. Corrispondentemente, l’espressione del TF è inducibile in vitro in risposta a diversi fattori pro-aterogeni, fra i quali le LDL ossidate, lo shear stress, le IL1a e ß, il TNFa, oltre che dall’attivazione del recettore del CD40 da parte di linfociti T e di piastrine esprimenti il corrispondente ligando (CD40 ligando). Le cellule endoteliali possono anche liberare il TF nel plasma, e questo avviene attraverso l’immissione del TF all’interno di strutture microparticellari. Infine le cellule endoteliali contribuiscono agli eventi coagulativi esprimendo sulla propria superficie i recettori per la fibrina e per i suoi prodotti di degradazione. Controllo della fibrinolisi La fibrinolisi è il processo mediante il quale il reticolo di fibrina viene dissolto dalla plasmina così da evitare la persistenza del coagulo e/o la formazione di trombi. La fibrinolisi ha inizio con la trasformazione del plasminogeno in plasmina per azione degli attivatori del plasminogeno come il tissue-type plasminogen activator (tPA) o l’urokinase-type plasminogen activator (uPA). Sebbene inizialmente si ritenesse che la produzione e la secrezione di tPA fosse propria di tutte le cellule endoteliali, studi più recenti condotti in vivo hanno dimostrato la produzione di tPA solo in alcune sotto-popolazioni di cellule endoteliali microvascolari. Analogamente, l’uPA non viene prodotto in condizioni basali, ma solo dopo stimolazione con plasmina. L’endotelio è anche in grado di produrre gli inibitori dell’attivatore del plasminogeno (plasminogen activator inhibitor, PAI). Sebbene il fegato rappresenti la maggiore sorgente di PAI, l’esposizione a diversi stimoli pro-infiammatori stimola le cellule endoteliali a produrre abbondanti quantità di PAI indipendentemente dal distretto tissutale di appartenenza. Infine il legame della trombina alla trombomodulina determina l’attivazione di una proteasi conosciuta come “inibitore della fibrinolisi attivabile dalla trombina” (thrombin-activatable fibrinolysis inhibitor, TAFI). Il TAFI è una carbossipeptidasi in grado di scindere i residui carbossiterminali della fibrina. Ciò risulta in una perdita dei siti di legame per il t-PA, con conseguente rallentamento del processo fibrinolitico. DANNO ENDOTELIALE E LESIONE ATEROSCLEROTICA Le lesioni aterosclerotiche hanno origine in punti critici della circolazione sanguigna, principalmente nei punti di diramazione di collaterali, nelle biforcazioni e sul lato convesso di arterie curve, dove gli shear stress, cioè le forze frizionali messe in gioco dallo scorrimento del sangue contro una parete vascolare ferma, sono bassi od oscillanti. Tali condizioni circolatorie probabilmente favoriscono sia il trasporto ivo di componenti del sangue arterioso nella parete vascolare che l’espressione di componenti della matrice (proteoglicani ricchi in condroitina), altamente ritensivi verso le LDL, che così vengono intrappolate nel sotto-endotelio. Le lesioni aterosclerotiche avanzate, come abitualmente osservate nell’adulto, prendono aspetti assai diversi e variegati, riflettendo stadi diversi dell’evoluzione delle placche e probabilmente storie naturali diverse tra placche diverse. A fronte di questa notevole varietà di aspetti “tardivi”, il primo stadio di sviluppo della placca aterosclerotica è ritenuto essere una lesione precoce denominata “stria lipidica”. Questo tipo di lesione è il primo a comparire nei modelli di aterosclerosi da ipercolesterolemia in diverse specie animali, compreso quello della scimmia con ipercolesterolemia moderata, il modello animale sicuramente più vicino alla patologia aterosclerotica umana, ed è stato riscontrato nelle coronarie del 50% di adolescenti tra i 10 e i 14 anni, venuti all’osservazione autoptica. La stria lipidica è un’area di ispessimento intimale focale, determinato dall’accumulo di macrofagi carichi di lipidi (cellule schiumose), circondato da una matrice extracellulare e da un numero variabile di linfociti. Molti considerano questa lesione reversibile, ma il consenso attuale è che la stria lipidica, benché potenzialmente reversibile, proceda invariabilmente verso lesioni più avanzate. Placche aterosclerotiche si sviluppano negli stessi siti dell’albero vascolare dove si localizzano inizialmente le strie lipidiche. Per questi motivi, l’origine dell’aterosclerosi può essere ragionevolmente ricondotta alla patogenesi della stria lipidica. Oggi è generalmente accettato che l’inizio dell’aterosclerosi non richieda un “danno” endoteliale, nella forma di desquamazione focale con denudamento intimale, ma piuttosto l’intero processo sembra avere origine da un insieme meno evidente di alterazioni che non richiedono la perdita fisica dello strato endoteliale. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, in condizioni normali l’endotelio vascolare contribuisce all’omeostasi della parete modificando adattativamente il proprio stato funzionale. Alterazioni delle funzioni endoteliali indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente abnormi possono modificare l’interazione tra componenti cellulari e macromolecolari che agiscono all’interfaccia sangue-parete vascolare. In generale, l’adesione di leucociti all’endotelio viene riscontrata in un gran numero di disturbi infiammatori ed immunologici. Famiglie diverse di proteine, ognuna con una distinta funzione, forniscono “segnali di traffico” per i leucociti. Queste famiglie comprendono: a) le “selettine”, che riconoscono come ligandi i carboidrati sialilati o fucosilati; b) i chemoattrattanti, alcuni dei quali, “classici”, come gli N-formil-peptidi, componenti del complemento, il leucotriene B4 e il platelet-activating factor- PAF-, agiscono ad ampio spettro, su neutrofili, eosinofìli, basofìli e
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monociti, altri, di più recente caratterizzazione, come la monocyte chemoattractant protein-1 (M-1) e l’IL-8 mostrano un’elevata selettività per monociti e linfociti T; c) la superfamiglia delle immunoglobuline endoteliali quali ICAM-l, -2, e -3, e VCAM-1, che riconoscono come ligandi “integrine” sulla superficie leucocitaria. Mentre le selettine mediano il legame iniziale dei leucociti all’endotelio, rallentandone la corsa e provocando il loro “rotolamento” sulla superficie endoteliale, il legame più tenace dei leucociti all’endotelio richiede l’interazione dei ligandi integrinici sulla superficie leucocitaria con immunoglobuline endoteliali quali VCAM-1 e ICAM-1. ICAM-1, il cui ligando coniugato integrinico leucocitario è la molecola CD11/CD18, è costitutivamente espressa a bassi livelli sulla superficie delle cellule endoteliali non stimolate, ma in seguito alla stimolazione con citochine infiammatorie quali l’IL-1, il TNFa e l’interferone(IFN)-( la sua espressione aumenta notevolmente. Il suo picco di espressione viene raggiunto dopo sei ore dalla stimolazione e rimane costante per almeno 72 h. L’espressione di ICAM-1 è regolata soprattutto a livello trascrizionale. Diverse sequenze induttrici sono state riconosciute nel promotore di ICAM-1, fra le quali siti di legame per nuclear factor(NF)- B, Spl, l’activator protein(AP)-1, elementi responsivi all’acido retinoico e C/EBP. VCAM-1 sembra giocare un ruolo chiave nel reclutamento leucocitario dell’aterosclerosi, in quanto media specificatamente l’adesione dei monociti, dei linfociti e dei basofili all’endotelio attivato, ma non l’adesione dei neutrofili. Noti induttori di VCAM-1 comprendono citochine come il TNFa, e l’IL-1, le LDL modificate e i prodotti di glicazione avanzata del diabete (advanced glycation endproducts, AGE). In maniera simile a quella di ICAM-1, la regolazione trascrizionale di VCAM-1 richiede l’attivazione di NF- B e AP-1. La recente osservazione di un ridotto numero di lesioni aterosclerotiche in topi geneticamente predisposti allo sviluppo dell’aterosclerosi, ma esprimenti un forma ipofunzionale di VCAM-1, ha fornito una forte evidenza a sostegno del ruolo causale di VCAM-1 nell’aterogenesi precoce. La fase finale di emigrazione dei leucociti attraverso l’endotelio implica invece un ruolo più attivo per la PECAM-1. Questa molecola è normalmente localizzata in corrispondenza delle giunzioni intercellulari, dove interazioni omodimeriche legano due cellule endoteliali adiacenti (Figura 2, Figura 6). Poiché PECAM-1 è anche espressa sulla superficie dei leucociti, la rottura del dimero endoteliale PECAM-1/PECAM-1 a favore della formazione di un nuovo dimero fra leucocita emigrante e la cellula endoteliale costituisce l’evento alla base della diapedesi dei leucociti, Tuttavia il ruolo patogenetico di PECAM-1 nell’aterogenesi è ancora incerto poiché non si osservano modificazioni significative della sua espressione in corrispondenza delle placche aterosclerotiche umane o in topi geneticamente predisposti allo sviluppo dell’aterosclerosi. Ruolo del fattore di trascrizione NF- B nella disfunzione endoteliale L'espressione genica delle molecole di adesione endotelio-leucociti come VCAM-1, ICAM-1 e di alcuni chemoattrattanti endoteliali solubili quali M-1 e IL-8, è aumentata di parecchie volte in risposta ai diversi mediatori molecolari del rischio cardiovascolare, come le LDL modificate, gli AGE o le citochine infiammatorie IL-1 e il TNFa. Le cellule endoteliali a riposo, non attivate, esprimono quantità trascurabili o assai basse di tali molecole, con l’eccezione di ICAM-1. Poiché la maggior parte delle molecole di adesione non viene espressa in condizioni basali, l’attivazione richiede evidentemente l’inizio di una trascrizione del corrispondente gene. Inoltre l’espressione delle diverse molecole di adesione procede simultaneamente all’espressione dei fattori endoteliali solubili. Dunque è necessario che avvenga un’attivazione concertata di tali geni, e ciò è reso possibile dall’attivazione di uno o di pochi fattori di trascrizione, tra cui NF- B. Quest’ultimo, in particolare, ha ricevuto un’attenzione crescente negli ultimi anni come denominatore comune dell’attivazione endoteliale, legato causalmente all’espressione delle molecole di adesione. Sequenze nucleotidiche capaci di legare specificamente fattori NF- B-simili sono stati identificati in molti geni, tra cui quelli delle molecole di adesione inducibili e delle citochine solubili. Il sistema NF- B comprende una famiglia di fattori di trascrizione originariamente identificati nelle cellule B e poi scoperti essere ubiquitariamente espressi oltre che filogeneticamente conservati, essendo stati riconosciuti anche in Drosophila. I membri di questa famiglia comprendono: p65 (RelA), RelB, c-Rel, NF- B1 (p50), e NF- B2 (p52), come pure le loro subunità inibitorie I Ba, I Bß, e I B(. Le subunità di NF- B formano complessi sia omo- che etero-dimerici, il più comune dei quali è l’eterodimenro p65/p50 che si lega alla sequenza consensus decamerica GGGRNNTYCC (R=G o A, Y=C o T, N un qualsiasi nucleotide), così inducendo l’espressione dei geni bersaglio. Normalmente tale dimero è sequestrato nel citoplasma in forma inattiva attraverso l’interazione con la subunità inibitrice. Sotto l’influenza di diversi stimoli fisiopatologici, tra i quali TNFa, IL-1, lipopolisaccardide batterico (LPS), AGE, alta concentrazione di glucosio, shear stress, LDL ossidate e ischemia/riperfusione, si assiste alla degradazione proteolitica di I B e alla conseguente migrazione di NF- B nel nucleo, dove NF- B attiva una varietà di geni implicati nell’attivazione endoteliale. Una peculiarità di NF- B è rappresentata dalla natura rapida e transitoria della sua attivazione che lo rende ben adatto a regolare l’espressione di quei geni che necessitano di essere espressi “su domanda” e per un periodo di tempo limitato. Indipendentemente dallo stimolo, l’attivazione di NF- B può essere inibita dal trattamento con antiossidanti o chelanti dei metalli. Per questo motivo è stato suggerito che l’attivazione di NF- B possa essere stimolata da modificazioni nel bilancio redox cellulare. Il sistema NF- B è quindi una potenziale via comune per coordinare l’espressione di un gran numero di geni implicati nell’attivazione e nella disfunzione endoteliale come VCAM-1, E-selettina, IL-1, IL-6, IL-8, TF, PAI-1, COX-2, e iNOS. Questo concetto è ato dal fatto che l’attivazione di NF- B risulta ben evidente nelle lesioni aterosclerotiche umane ed animali. CONCLUSIONI E’ stato ormai definitivamente accettato che l’endotelio non costituisce una semplice barriera di separazione statica tra sangue e tessuti, ma svolge un ruolo attivo nel mantenimento dell’omeostasi vascolare. Attraverso la secrezione di una serie di molecole specifiche, le cellule endoteliali assicurano l’appropriata regolazione del flusso
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ematico, prevengono l’attivazione delle piastrine e gli eventi indiscriminati di coagulazione. In condizioni normali, ad esempio, le cellule endoteliali rispondono a stimoli diversi modificando dinamicamente le proprie proprietà funzionali a sostegno della crescita dei vasi o della loro riparazione, o per guidare la risoluzione di un processo. Queste alterazione transitorie del fenotipo endoteliale terminano di solito con la ristabilizzazione dell’omeostasi vascolare. Tuttavia in certe condizioni patologiche, come nell’aterosclerosi, in cui il comportamento delle cellule endoteliali è cronicamente perturbato, le alterazioni della fisiologia endoteliale assumono una connotazione patologica e dànno l’avvio allo sviluppo della malattia. Negli ultimi vent’anni l’esplorazione della biologia endoteliale ha caratterizzato dal punto di vista cellulare e molecolare le funzioni dell’endotelio, compresi i meccanismi alla base delle sue modificazioni funzionali acute e croniche. Tutti gli sforzi fatti per comprendere le caratteristiche fisiologiche dell’endotelio, i meccanismi che sottendono i cambiamenti a lungo termine e la possibilità di correggerli certamente costituiscono la migliore via, e forse l’unica, per la scoperta di nuove strategie terapeutiche per il trattamento di condizioni patologiche in cui la disfunzione endoteliale gioca un ruolo patogenetico di primo piano.
Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare Capitolo 49 IL CUORE POLMONARE CRONICO Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria DEFINIZIONE Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro. FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed umorale del sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia, diviene rilevante solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by- del ventricolo destro, mettendo in comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga compromesso; ciò dimostra come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche senza il contributo del ventricolo destro. La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono basse. Per generare ed aumentare il flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi vasi e dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra pressione arteriosa polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani (Figura 1). La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo polmonare si misura la resistenza vascolare arteriolare, con la formula seguente:
e la resistenza vascolare totale, la cui formula è:
In entrambi i casi si assume una relazione pressione/flusso lineare, assunto del tutto erroneo. Per esempio, nella Figura 1 (pannello A) i punti 1 e 2 sono sulla stessa curva pressione/flusso (curva isoresistenza) ma su differenti resistenze calcolate, mentre i punti 1 e 2 del pannello B hanno la stessa resistenza calcolata ma sono su curve pressione/flusso diverse. Per calcolare veramente la resistenza vascolare polmonare, perciò, occorre costruire la relazione misurando almeno 3 punti identificati da pressione e flusso. Questo può essere fatto modificando la portata cardiaca con variazioni della postura o con l’esercizio fisico. La pressione polmonare a catetere incuneato o “wedge” si misura occludendo con la punta del catetere un ramo periferico dell’ arteria polmonare. Quella che si registra è la pressione del punto più lontano dal catetere in cui vi è ripresa di flusso (Figura 2). L’occlusione in A legge la pressione in B mentre l’occlusione in C legge la pressione in D. In clinica, però, non siamo in grado di percepire la differenza tra la pressione ottenuta occludendo A o C.
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La distribuzione del flusso di sangue nel polmone è funzione del rapporto tra pressione arteriosa polmonare, pressione venosa polmonare e pressione alveolare. Le camere del cuore destro sono cavità ad alta compliance, che possono accettare grandi volumi di sangue con piccole variazioni di pressione. Il sistema va “in crisi” in presenza di ipertensione polmonare, che si definisce presente se la pressione polmonare media è, a riposo e a livello del mare, > 20 mm Hg. FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del polmone o del circolo polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a ridursi quando la pressione polmonare sistolica è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico di pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a mantenenere pressioni molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro. Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-polmonare. Vasocostrizione ipossica In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla ipossia si costringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché riduce la perfusione di alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o comunque interessa una grossa parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica. Questa permette di reclutare nuovi vasi polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il lavoro del ventricolo destro. L’ipossia alveolare può essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema polmonare da alta quota) o cronica (patologia polmonare, della parete toracica o del controllo della ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie polmonari sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto alla durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la riduzione importante del volume polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare polmonare. Bisogna ricordare che la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con l’aumento del volume polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del volume polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua (Figura 3). Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick (obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità. L’ipossia alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica.
Restringimento meccanico dei vasi Le modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella genesi dell’ ipertensione polmonare. In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo fenomeno diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve esserci un ulteriore aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare polmonare (Figura 3).
Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore polmonare la rigidità del polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido.
Aumento della portata cardiaca L’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è compensata da un aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca. Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per il cuore destro. QUADRO CLINICO Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il quadro clinico è dominato dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In presenza di scompenso del cuore destro si ha un aumento della pressione venosa sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite.
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Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia polmonare ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) e d) malattie vascolari polmonari. Malattia polmonare ostruttiva Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto nei mesi invernali. Il paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali confusione mentale e disorientamento. I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione venosa (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle estremità; è quasi sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale. La radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia. I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento consistente del volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta. L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può peggiorare il quadro emogasanalitico. L’ECG (ECG 03) mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi Capitolo 3). L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione polmonare, valutata con metodica Doppler (Figura 4). La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno . La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo. Malattia polmonare restrittiva Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi infausta. Si possono riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare. Tutte queste malattie portano ad insufficienza ventilatoria con iperventilazione. Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è solo il o ventilatorio. Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico più tipico è quello del fumatore obeso. Malattie vascolari polmonari L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione polmonare che, a sua volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare può essere molto elevata, più che nelle forme ipossiche. L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o meno sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione polmonare primitiva (vedi Capitolo 51) o associata a varie vasculiti. L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si potrebbe aspettare dal numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio polmonare.
Capitolo 50 L'EMBOLIA POLMONARE Giuseppe Mercuro, sco Peliccia DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che determina un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel distretto polmonare a valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla dimensione dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o un suo ramo (Figura 1). L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è >15% nei primi 3 mesi dalla diagnosi. EZIOLOGIA
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All’origine di un’EP sta, nella quasi totalità dei casi, la mobilizzazione di un trombo venoso dalla sua sede di formazione periferica, usualmente le vene degli arti inferiori: il trombo percorre il circolo venoso refluo, l’atrio ed il ventricolo destro ed embolizza la circolazione arteriosa polmonare. Circa la metà dei pazienti con trombosi venosa profonda (TVP) pelvica o prossimale delle gambe subiscono un’EP, che rimane assai spesso asintomatica. Emboli a partenza dalle vene del polpaccio sono più raramente causa di EP, ma rappresentano la sorgente più probabile di emboli paradossi, che possono raggiungere la circolazione arteriosa sistemica attraverso un forame ovale pervio o un difetto del setto interatriale. L’origine di un trombo dagli arti superiori è possibile a causa dell’utilizzo crescente di cateteri venosi a permanenza per alimentazione parenterale o chemioterapia, nonché di elettrocateteri di pacemaker e defibrillatori cardiaci. Gli stati di ipercoagulabilità che possono causare un’EP, i fattori di rischio e le condizioni cliniche associate che possono favorirla sono gli stessi coinvolti nel determinismo della TVP (v. Capitolo …). Una predisposizione congenita deve essere considerata nei rari casi in cui l’EP colpisce soggetti <40 anni, con storia di ricorrenti TVP o con anamnesi familiare positiva. I difetti genetici più frequentemente in causa sono la resistenza alla proteina C attivata, la mutazione factor II 20210A, l’iperomocisteinemia e le carenze di Antitrombina III, proteina C e proteina S. In una minoranza di casi (<5%) l’embolo non deriva da un trombo, ma è di natura gassosa (posizionamento o rimozione di un catetere centrale), neoplastica, grassosa (trauma o frattura), amniotica o settica. FISIOPATOLOGIA Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica una diminuzione degli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a. dissociazione tra ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio all’area interessata dall’EP; b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-venose; c. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare. Il subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi aumento dei livelli circolanti di BNP, determina una deviazione del SIV verso sinistra, limitando il riempimento diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento, insieme con il ridotto precarico ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della perfusione coronarica. QUADRO CLINICO La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP (Tabella I). Un dolore toracico tipico è presente in caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della componente polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi quadri clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la prognosi. Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock cardiogeno. I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo polmonare, mostrano una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro (ipocinesia, insufficienza tricuspidale). Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima polmonare e può interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e tosse. Un infarto polmonare può prodursi in questa sede in capo a 3-7 giorni, associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata. DIAGNOSI Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla base del profilo di rischio, dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e con gli esiti delle indagini di laboratorio e strumentali. Test clinici e di laboratorio. Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente (Tabella II), ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4. Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale. Elevatissimo è il suo potere predittivo negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al dosaggio del D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano con il grado di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice predittivo di eventi e di morte cardiaca. La troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta all’aumentato stress di parete.
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La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non meno del 20% dei pazienti mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi. Tecniche strumentali e di imaging. Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero con manifestazioni di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da V1 a V4 (ECG 50). Inoltre, l’ECG serve ad escludere un infarto miocardico acuto. La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP massiva e centrale, una densità periferica a forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione dell’arteria polmonare discendente destra (Figura 2). L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con l’elevata sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa per la stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili con l’ETT sono la rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può escludere altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite. La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior parte dei pazienti con fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%; (Figura 3). Apparecchi di ultima generazione sono destinati a soppiantare l’angiografia polmonare come gold standard per la diagnosi dell’EP, consentendo l’acquisizione in pochi secondi dell’intero torace con una risoluzione inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC fornisce informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del ventricolo destro. La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di sospetta EP, mentre è riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al contrasto. La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e pressoché esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di prima generazione, consentendo l'identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la funzione del ventricolo destro.
Tecniche invasive L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di riempimento vasale intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia segmentale o una totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata. Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato dal diagramma in Figura 4. Esso prevede a. l’anamnesi indirizzata al profilo di rischio tromboembolico, l’esame fisico e il calcolo dell’indice di Wells; b. un ECG ed una radiografia del torace; c. il dosaggio del D-dimero che, se negativo, esclude l’EP in soggetti con indice di Wells =4; d. la TC o la scintigrafia polmonare, nonché l’ecografia venosa degli arti. In sintesi, l’EP può essere esclusa in pazienti con bassa probabilità clinica e D-dimero negativo, così come in quelli a rischio elevato, ma con TC negativa. Purtroppo, per quanto il test del D-dimero per l’esclusione dell’EP e quello della TC per la sua visualizzazione abbiano nettamente perfezionato la sensibilità diagnostica, l’EP rimane ancora ardua da diagnosticare e quadri di EP sub-massiva o moderata rimangono non riconosciuti in non meno del 50% dei pazienti. TERAPIA Una rapida stratificazione della gravità dell’EP è fondamentale per il corretto inquadramento clinico del paziente e per la scelta della terapia più appropriata. A questo scopo può essere utilizzato l’indice a punti di Ginevra che si basa su parametri anamnestici, clinici e strumentali facilmente ottenibili (Tabella III). Il trattamento dei pazienti con EP può essere farmacologico, interventistico o chirurgico. La scelta tra queste tre strategie dipende sia dalla loro disponibilità sia, soprattutto, dal grado di compromissione clinica e funzionale determinato dall’EP. i terapeutici immediati sono la somministrazione di 02 e la sedazione del dolore toracico con antinfiammatori non-steroidei. In soggetti a basso rischio, con pressione sistemica normale e senza evidenza di disfunzione ventricolare destra, il trattamento è mirato alla prevenzione di ricorrenti EP e/o TVP e si basa sulla sola anticoagulazione. Caposaldo di tale trattamento è l’eparina non frazionata (ENF), la cui somministrazione previene l’ulteriore formazione di trombi e consente alla fibrinolisi endogena di dissolvere il trombo già formato. Una valida alternativa all’ENF è oggi rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare, frammenti di eparina con migliore biodisponibilità e più lunga emivita dell’ENF e che, a differenza di questa, non richiedono un monitoraggio della terapia con determinazione del PTT. Insieme all’eparina occorre iniziare la
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somministrazione di un anticoagulante orale (AO), warfarin o acenocumarolo, il cui pieno effetto si manifesta in genere dopo 5 giorni. L’eparina garantisce l’effetto anticoagulante finché l’AO non abbia prodotto valori di INR superiori a 2 per almeno 2 giorni consecutivi. In seguito, la dose di AO va scelta con l’obiettivo di mantenere l’INR tra 2 e 3. In caso di emorragia in atto, di controindicazione all’uso degli anticoagulanti ovvero di EP ricorrente nonostante l’AO. è possibile ricorrere al posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore. Pazienti con EP massiva e shock cardiogeno o portatori di vasta trombosi ileo-femorale, sono candidati alla trombolisi, al fine di ridurre la mortalità e prevenire la ricorrenza di EP. Ciò avviene attraverso la dissoluzione sia del trombo occludente l’arteria polmonare, con rapido miglioramento dello scompenso cardiaco destro, sia dei trombi emboligeni presenti nella periferia del sistema venoso. Quando un’EP massiva determina una grave compromissione delle funzioni cardiorespiratorie, imponendo la ventilazione assistita e il o cardiocircolatorio, oppure quando la trombolisi non abbia avuto successo o sia controindicata, è appropriata l’embolectomia, con rimozione meccanica del materiale trombotico dall’arteria polmonare. Questa tecnica è stata eseguita per molti anni solo chirurgicamente, a torace aperto, in arresto di circolo o a cuore battente, costituendo un intervento efficace, ma gravato da una significativa mortalità. Attualmente, è invece possibile l’embolectomia per via percutanea in sala di emodinamica. La procedura non necessita di anestesia generale, richiede solo un accesso venoso, in genere a livello femorale e si esegue con speciali cateteri che frammentano e aspirano il trombo occlusivo. In considerazione della difficoltà di diagnosticare l’EP e di contenere il danno clinico che essa produce, è fondamentale attuare un’efficace prevenzione del tromboembolismo venoso. Occorre diffondere l’opinione che virtualmente tutti i soggetti ospedalizzati sono a rischio di EP e, se del caso, debbono ricevere misure preventive appropriate. Per i pazienti a rischio più elevato la terapia anticoagulante (eparine a basso peso molecolare o AO) ed i presidi meccanici (calze elastiche o compressione pneumatica intermittente) che incrementano il flusso venoso e stimolano la fibrinolisi endogena, rappresentano una profilassi con un rapporto costo/beneficio assai vantaggioso.
Capitolo 51 L'IPERTENSIONE POLMONARE PRIMITIVA Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto Poscia, sco Fedele DEFINIZIONE L’ ipertensione polmonare viene definita come un aumento della pressione polmonare media superiore a 25 mmHg in condizioni di riposo o di 35 mmHg durante attività fisica. Per cuore polmonare cronico (vedi Capitolo 48) si intendono gli adattamenti morfofunzionali del ventricolo destro che si osservano in corso di ipertensione polmonare, caratterizzati da aumento dello spessore della parete libera, dilatazione della cavità e riduzione della funzione sistolica. CENNI DI FISIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE Il circolo polmonare è caratterizzato da alto flusso e basse resistenze: è sufficiente una pressione media di soli 12-15 mmHg per far fluire tutta la portata cardiaca (circa 4-5 litri) attraverso i polmoni. Da un punto di vista emodinamico, dobbiamo distinguere due diverse forme di ipertensione:
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ipertensione polmonare precapillare, che coinvolge il circolo polmonare a livello arteriolare, provocando un aumento della pressione solo nell’arteria polmonare;
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ipertensione polmonare postcapillare, causata da un aumento delle resistenze a livello venulare o delle sezioni cardiache sinistre (come accade in corso di valvulopatie o miocardiopatie); in questa situazione, l'aumento della pressione in arteria polmonare è necessario per mantenere un normale gradiente transpolmonare. La distinzione tra queste due condizioni è importante dal punto di vista clinico e terapeutico, poiché:
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nella maggioranza dei casi l’ipertensione post-capillare è secondaria ad una disfunzione ventricolare sinistra, ed il trattamento deve riguardare la patologia ventricolare sinistra;
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nelle forme precapillari la compromissione cardiaca è prevalente a livello del cuore destro e le cure sono rivolte alla riduzione delle resistenze arteriolari polmonari.
CLASSIFICAZIONE Si distinguono 5 forme principali di ipertensione polmonare (Tabella I):
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Ipertensione arteriosa polmonare (precapillare)
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Ipertensione venosa polmonare (postcapillare)
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Ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari (precapillare)
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Ipertensione polmonare secondaria a malattie tromboemboliche (precapillare)
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Miscellanea
Ipertensione arteriosa polmonare (IAP) In questo gruppo vengono riunite le forme di ipertensione polmonare che hanno caratteristiche simili a quelle dell’ipertensione polmonare primitiva, che nella più recente classificazione viene definita come ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. Oltre alla forma idiopatica e familiare, la IAP può essere associata al consumo di anoressizzanti, a malattie del connettivo (sclerodermia, lupus), all'infezione da HIV, all’ipertensione portopolmonare, alle cardiopatie congenite con iperafflusso polmonare (sindrome di Eisenmenger) (vedi Capitolo 51); rientra in questo gruppo anche l’ipertensione polmonare persistente nel neonato. Tutte queste forme sono caratterizzate da un interessamento quasi esclusivo della componente vascolare del polmone, con ostruzione delle arteriole di piccolo calibro secondaria a proliferazione delle cellule endoteliali e della media ed a fenomeni di trombosi in situ. Ipertensione venosa polmonare E’ una forma di ipertensione polmonare post-capillare, il cui principale meccanismo emodinamico è l’aumento della pressione atriale sinistra (valvuopatie mitraliche) o telediastolica ventricolare sinistra (disfunzione ventricolare secondaria a valvulopatie, cardiopatia ischemica, miocardiopatie etc.. ). In questa situazione la pressione in arteria polmonare aumenta per mantenere il gradiente transpolmonare. Ipertensione polmonare secondaria a patologie parenchimali polmonari E' la forma più frequente di ipertensione polmonare precapillare; interessa prevalentemente pazienti con grave patologia polmonare e insufficienza respiratoria ipossica e ipercapnica (vedi Capitolo 48). Ipertensione polmonare secondaria a tromboembolia cronica Questa forma rappresenta l’esito di uno o più episodi embolici polmonari che non si sono risolti in modo completo. L’albero vascolare polmonare è ostruito da formazioni costituite da tessuto fibroso tenacemente aderente all'intima del vaso. L’incidenza di ipertensione polmonare cronica in pazienti con embolia polmonare è variabile tra lo 0,1 e il 3%. PATOGENESI DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE L’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica è una sindrome complessa, multifattoriale, in cui esiste una predisposizione genetica che conferisce una particolare “reattività” vascolare polmonare a stimoli di varia natura. Una delle ipotesi patogenetiche più accreditate è che diversi fattori (virus, tossine, fenomeni autoimmunitari, ecc.), agendo su un terreno predisposto geneticamente, possano causare una lesione endoteliale rompendo l’equilibrio tra fattori vasodilatanti/antimitogeni e fattori vasocostrittori/mitogeni a favore di questi ultimi. Si innescherebbe quindi un circolo vizioso caratterizzato da vasocostrizione, proliferazione delle cellule muscolari lisce ed endoteliali ed attivazione della cascata coagulativa, il cui esito è la formazione delle lesioni arteriolari che si osservano in questa malattia. FISIOPATOLOGIA Nel corso della malattia si assiste ad un progressivo aumento delle resistenze vascolari, e per mantenere la portata cardiaca il ventricolo destro deve generare pressioni sempre più elevate. La progressione verso l’insufficienza cardiaca dipende dalla capacità del ventricolo destro di mantenere una funzione accettabile a fronte di un continuo aumento delle resistenze vascolari polmonari. L’ipertrofia del ventricolo destro è quasi sempre un meccanismo di compenso non adeguato, per cui si assiste a riduzione della funzione sistolica, dilatazione delle sezioni destre e comparsa di insufficienza tricuspidale e polmonare per dilatazione degli anelli valvolari. Nel corso della malattia si a da una fase asintomatica o paucisintomatica (la portata cardiaca è normale a riposo, e riesce parzialmente ad incrementarsi durante esercizio fisico) ad una fase sintomatica, con ridotta tolleranza allo sforzo (portata cardiaca normale a riposo, incapacità di aumento sotto sforzo), per arrivare alla fase terminale in cui la portata cardiaca è ridotta anche a riposo. Insieme alle modificazioni della portata si assiste ad un aumento delle pressioni di riempimento ventricolare destro, con la comparsa dei segni di congestione sistemica (turgore delle giugulari, epatomegalia e edemi declivi). Oltre a fattori meccanici (aumento della pressione atriale destra), contribuiscono alla comparsa degli edemi anche fattori neuro-ormonali, come avviene nel corso dell'insufficienza ventricolare sinistra. L'attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dell'endotelina contribuiscono alla ritenzione idro-salina ed alla formazione di edemi. SINTOMI E SEGNI I sintomi della ipertensione arteriosa polmonare sono aspecifici e sono riconducibili alla incapacità di aumentare la portata cardiaca durante attività fisica e all’aumento del lavoro respiratorio. Comprendono, in ordine di frequenza, la dispnea (inizialmente da sforzo, nelle forme più gravi a riposo), l’astenia, il dolore precordiale, la lipotimia/sincope. Questo quadro sintomatologico si può associare a segni obiettivi di ingrandimento ventricolare destro, con insufficienza della tricuspide (soffio olostolico sulla margino-sternale sinistra al IV spazio intercostale) o suggestivi di ipertensione polmonare (aumento di intensità del II tono sul focolaio della polmonare). Nei casi più
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avanzati si osserva un quadro di insufficienza ventricolare destra (edemi declivi, turgore delle giugulari, epatomegalia, cianosi). DIAGNOSI La diagnosi di ipertensione polmonare è difficile perchè i sintomi sono aspecifici e compaiono solo negli stati avanzati della malattia. Nei soggetti con aumentata probabilità di sviluppare ipertensione arteriosa polmonare (pazienti con malattie del connettivo, con cardiopatie congenite operati e non, con infezione da HIV) il peggioramento della dispnea o dell’astenia, la comparsa di episodi lipotimici/sincopali da sforzo, l’ipertrofia ventricolare destra all’ECG (Figura 1) o la dilatazione dell’arteria polmonare destra alla radiografia del torace (Figura 2) possono far nascere il sospetto di un’ipertensione polmonare. Questo deve essere confermato dall’ecocardiogramma bidimensionale e Doppler, che permette di stimare la pressione sistolica in arteria polmonare attraverso il calcolo della velocità di rigurgito tricuspidale (vedi Capitolo 4) (Figura 3) e di valutare il grado di disfunzione ventricolare destra (Figura 4). Per la diagnosi di ipertensione arteriosa polmonare primitiva è necessario escludere la presenza di: - una pneumopatia significativa (le prove di funzionalità respiratoria permettono di riconoscere una patologia parenchimale polmonare, Figura 5). - un’ipertensione polmonare secondaria a tromboembolismo cronico: in questi casi la scintigrafia polmonare evidenzia difetti segmentari della perfusione (Figura 6) o la TC spirale dimostra trombosi nei rami dell’arteria polmonare (Figura 7). - un’ipertensione venosa polmonare, suggerita dalla presenza di disfunzione ventricolare sinistra (ECO 29). Raggiunta la diagnosi, è necessario eseguire ulteriori indagini che permettano di stabilire se l’ipertensione arteriosa polmonare è idiopatica o associata ad altre patologie (Tabella I). CENNI DI TERAPIA La terapia medica è in primo luogo imperniata sul trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia e prevede l’uso di diuretici (furosemide, spironolattone) e digitale; gli anticoagulanti orali possono essere utili in quanto un rilievo istopatologico frequente è la trombosi in situ. I calcio-antagonisti si impiegano solo nei casi responsivi ad un test acuto di vasodilatazione; sono indicati nella terapia a lungo termine la nifedipina o il diltiazem. L'ossigenoterapia è necessaria nei pazienti con ipossiemia a riposo. Farmaci specifici per l'ipertensione arteriosa polmonare Prostanoidi Il razionale per l'uso di questo categoria di farmaci consiste nel rilievo di un deficit di produzione di prostaciclina a livello dell'endotelio dei piccoli vasi polmonari, con vasocostrizione, aggregazione piastrinica e proliferazione degli elementi mio-intimali. I prostanoidi attualmente disponibili sono: l’epoprostenolo (somministrato per via infusionale continua), l’iloprost (per via inalatoria) e il treprostinil (per via sottocutanea). Tali farmaci hanno dimostrato efficacia nel migliorare la tolleranza allo sforzo e la la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. Antagonisti recettoriali dell'endotelina L’endotelina, mediatore autocrino e paracrino della proliferazione endoteliale e delle cellule muscolari lisce, ha certamente un ruolo nella patogenesi dell'ipertensione arteriosa polmonare. Il bosentan (antagonista dei recettori ETA ed ETB dell’endotelina), il sitaxentan e l’ambrisentan (antagonisti selettivi del recettore ETA) possono essere somministrati per via orale e si sono dimostrati efficaci sia nell’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica, che nelle forme secondaria a connettiviti. Sildenafil Il farmaco agisce bloccando la fosfodiesterasi 5 (particolarmente rappresentata a livello del circolo polmonare) con conseguente aumento del GMPc intracellulare che, in acuto, causa vasodilatazione e in cronico esercita un effetto antiproliferativo sulle cellule muscolari lisce. Il farmaco è efficace nel migliorare l’emodinamica e la tolleranza allo sforzo nei pazienti con IAP. Terapie chirugiche In caso di fallimento della terapia medica, l'unica alternativa è quella del trapianto di polmone. Nei casi con insufficienza congestizia refrattaria alla terapia medica che non possono essere messi in lista per il trapianto è possibile un intervento palliativo di settostomia atriale con catetere a palloncino durante cateterismo cardiaco (una procedura simile a quella che si esegue nella trasposizione dei grossi vasi, vedi Capitolo 53). Si crea così un difetto interatriale con shunt destro-sinistro (la pressione in questi pazienti è maggiore nell’atrio destro che nel sinistro) che consente una decompressione delle sezioni destre ed un aumento del riempimento ventricolare sinistro, a scapito della comparsa di cianosi. I risultati clinici della settostomia sono buoni, con riduzione dell’ascite e dell’epatomegalia e miglioramento della portata cardiaca sistemica.
Sezione XV. Cardiopatie Congenite 158
Capitolo 52 CARDIOPATIE CONGENITE PARTE I Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE Le cardiopatie congenite rappresentano le più frequenti malformazioni riscontrate alla nascita, con un’incidenza che varia dal 2.5 al 12% nelle diverse aree geografiche. Sulla base del quadro fisiopatologico, le cardiopatie congenite possono essere classificate in cinque gruppi principali. 1) Nelle cardiopatie con iperafflusso polmonare si realizza un aggio di sangue dal cuore sinistro al cuore destro a causa di una comunicazione anomala tra la circolazione sistemica e quella polmonare (shunt sistemicopolmonare). Tale shunt sinistro-destro comporta un iperafflusso polmonare, cioè un aumento della portata ematica polmonare, che risulta maggiore di quella sistemica. L’aumentato ritorno venoso polmonare che ne consegue determina un sovraccarico di volume delle cavità cardiache destre o sinistre a seconda che la sede dello shunt sia localizzata al di sopra (shunt pre-tricuspidalico) o al di sotto (shunt post-tricuspidalico) della valvola tricuspide. 2) Nelle cardiopatie con ipoafflusso polmonare è presente una riduzione del flusso ematico polmonare, generalmente secondaria ad un ostacolo all’efflusso del sangue dal ventricolo destro. Ne consegue ridotta ossigenazione del sangue arterioso e cianosi. 3) Nelle cardiopatie con circolazioni in parallelo il sangue venoso sistemico non ossigenato proveniente dalle vene cave ritorna direttamente nel circolo arterioso sistemico, mentre il sangue venoso polmonare ossigenato viene nuovamente inviato nella circolazione polmonare (Figura 1). Tale condizione si determina nella trasposizione delle grandi arterie (cardiopatia congenita in cui l’aorta origina dal ventricolo destro e l’arteria polmonare dal ventricolo sinistro), ed è incompatibile con la vita, a meno che non esista una comunicazione anatomica tra le due circolazioni (per esempio, difetto interatriale o dotto arterioso). Il neonato con questo tipo di patologia presenta cianosi alla nascita e più tardivamente scompenso. 4) Le cardiopatie dotto-dipendenti sono caratterizzate da una severa ostruzione o atresia dell’efflusso ventricolare destro o sinistro, per cui il flusso sistemico o quello polmonare dipende totalmente dalla pervietà del dotto di Botallo. Queste cardiopatie portano a cianosi o scompenso cardiaco precoce. 5) Le cardiopatie con ostruzione all’efflusso ventricolare sono caratterizzate da una stenosi lungo l’efflusso ventricolare destro o sinistro, tale da determinare un sovraccarico di pressione del ventricolo. A differenza di quelle “dotto-dipendenti”, in tali cardiopatie la gravità dell’ostruzione non è tale da condizionare una dipendenza del circolo polmonare o sistemico della pervietà del dotto di Botallo, per cui la sintomatologia clinica, caratterizzata da cianosi o scompenso cardiaco, può comparire anche più tardivamente. SEGNI CLINICI La cianosi e lo scompenso cardiaco sono i principali segni clinici di una cardiopatia congenita. La cianosi è una colorazione bluastra della cute e delle mucose dovuta alla presenza di almeno 5 grammi di emoglobina ridotta per decilitro di sangue. Tale condizione si può verificare per desaturazione del sangue arterioso (cianosi centrale) o per rallentamento del circolo periferico ed aumentata estrazione di ossigeno dal sangue capillare (cianosi periferica). Per rilevare la cianosi nel neonato è opportuno osservare soprattutto la punta del naso, le labbra, la mucosa orale e la lingua. Lo scompenso cardiaco è una condizione determinata dall’incapacità dell’apparato cardiovascolare a mantenere una portata cardiaca adeguata a soddisfare le esigenze metaboliche dell’organismo. In età pediatrica il sintomo più comune di scompenso cardiaco è la difficoltà ad alimentarsi e di conseguenza il ritardo della crescita. I segni clinici che possono presentarsi in un bambino in condizione di scompenso sono soprattutto pallore, sudorazione eccessiva, polipnea (> 60/minuto), dispnea, rientramenti intercostali, rantoli, tachicardia ed epatomegalia. Spesso si ascoltano il III e il IV tono (vedi Capitolo 2). CLASSIFICAZIONE Le principali cardiopatie congenite possono essere suddivise, in base ai diversi modelli fisiopatologici, in cinque gruppi. Per ogni singolo gruppo, sono elencate di seguito in parentesi, le cardiopatie più frequenti, che saranno trattate in questo capitolo ed in quello successivo.
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Cardiopatie congenite semplici con shunt sinistro-destro (Difetto interatriale, Difetto interventricolare, Pervietà del dotto di Botallo) Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare destro (Stenosi polmonare, Tetralogia di Fallot)
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Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro (Stenosi aortica, Coartazione aortica)
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Cardiopatie congenite con circolazione in parallelo (Trasposizione dei grossi vasi)
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Cardiopatie congenite complesse (Canale atrioventricolare, Atresia della tricuspide, Cuore univentricolare, Truncus arterioso, Trasposizione corretta dei grossi vasi, Malattia di Ebstein). DIFETTO INTERATRIALE Il difetto interatriale isolato rappresenta circa il 10% di tutte le cardiopatie congenite; dal punto di vista anatomopatologico, il setto interatriale presenta una soluzione di continuo che può avere sede e dimensione variabili. Si distinguono quattro tipi di difetto interatriale (Figura 2): - ostium secundum, localizzato nella parte centrale del setto a livello della regione della fossa ovale (Patologia 52). - ostium primum, localizzato nella parte bassa del setto, appena al di sopra delle valvole atrioventricolari (Patologia 53). - seno venoso. - seno coronarico. La presenza di una comunicazione tra le due cavità atriali determina, a causa della maggiore pressione vigente nell’atrio sinistro, uno shunt sinistro-destro la cui entità varia in rapporto alle dimensioni del difetto e alla differenza di pressione tra i due atri. Questa cardiopatia è caratterizzata da iperafflusso polmonare (portata polmonare superiore a quella sistemica) e da sovraccarico di volume dell'atrio e del ventricolo destro. Segni clinici. La maggior parte dei pazienti con difetto interatriale di moderata ampiezza è asintomatica fino alla quarta-quinta decade di vita. I reperti ascoltatori dovuti all'iperafflusso polmonare sono rappresentati da un soffio sistolico eiettivo localizzato al II-III spazio intercostale lungo la margino-sternale sinistra e da uno sdoppiamento ampio e “fisso” del II tono (Vedi Capitolo II). L'elettrocardiogramma mostra di solito i segni di un ingrandimento atriale e ventricolare destro, con aspetto tipo blocco di branca destra (ECG 9 , ECG 10). L'esame radiografico mostra un ingrandimento delle sezioni destre del cuore, dilatazione dell'arteria polmonare ed iperafflusso polmonare (Figura 3). L'ecocardiogramma transtoracico permette di diagnosticare con precisione tipo, sede e dimensioni del difetto. (Figura 4). L'ecocardiogramma transesofageo mostra il difetto e lo shunt con grande evidenza (ECO 50). Cenni di terapia. La terapia del difetto interatriale è di tipo chirurgico o interventistico. Nei pazienti adulti e nei bambini con peso maggiore di 20 kg, il DIA tipo ostium secundum può essere chiuso per via percutanea mediante impianto di protesi a doppio ombrello (Figura 5). Prognosi e follow-up. La quasi totalità dei pazienti raggiunge in assenza di sintomi la prima e la seconda decade. Dopo la terza decade vita, si rileva spesso la comparsa di aritmie sopraventricolari (episodi di fibrillazione atriale parossistica, con evoluzione successiva in fibrillazione cronica). Nel DIA ampio può comparire in età avanzata l'ipertensione polmonare, con riduzione dello shunt sinistro-destro e, nelle fasi più avanzate, comparsa di shunt destro-sinistro e quindi cianosi. DIFETTO INTERVENTRICOLARE Fisiopatologia ed anatomia patologica. Consiste in una soluzione di continuo del setto interventricolare, la cui sede e dimensione sono estremamente variabili. I difetti interventricolari vengono classificati in (Figura 6):
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Difetti perimembranosi, localizzati nella porzione membranosa del setto interventricolare (Patologia 54).
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Difetti muscolari, localizzati esclusivamente nel setto muscolare (Patologia 55). Quadro clinico. Nei difetti di ampiezza moderata, i sintomi sono generalmente assenti nei primi giorni o settimane di vita, ma successivamente la riduzione delle resistenze vascolari polmonari provoca un aumento dell’iperafflusso polmonare con conseguente comparsa di difficoltà nell'alimentazione, scarso accrescimento ponderale o anche segni conclamati di scompenso cardiaco. All'ascoltazione è presente in questi casi un soffio olosistolico con massima intensità al bordo sternale sinistro basso. Nei difetti ampi, invece, la sintomatologia compare precocemente, e si realizza il quadro dello scompenso cardiaco, caratterizzato da tachipnea, sudorazione eccessiva, epatomegalia, scarso incremento ponderale e ritardo di crescita. Diagnostica strumentale. L’elettrocardiogramma è normale nei difetti piccoli, mentre si possono rilevare segni di ipertrofia biventricolare nei difetti moderati e ampi (Figura 7). La radiografia del torace mostra cardiomegalia ed eventuali segni di iperafflusso. L’ecocardiogramma-colorDoppler rappresenta la metodica diagnostica di prima scelta, utile per individuare la sede del difetto e le eventuali anomalie associate (Figura 8, Figura 9). Il cateterismo cardiaco viene impiegato come metodica diagnostica solo nel sospetto di ipertensione polmonare, o anche per stimare l’entità dello shunt in caso di dati clinici incerti o per escludere malformazioni associate se i reperti ecocardiografici sono dubbi. Cenni di terapia. Ai pazienti con sintomi clinici di marcato iperafflusso polmonare si somministrano farmaci ACEinibitori e diuretici. L'intervento chirurgico va effettuato precocemente (primi mesi di vita) nei casi di difetto
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interventricolare ampio con scompenso cardiaco refrattario al trattamento farmacologico. Nei DIV piccoli, per i quali non vi è indicazione alla correzione chirurgica, è consigliabile una profilassi antibiotica in caso di manovre invasive, per ridurre il rischio di endocardite infettiva. Prognosi e follow-up. La storia naturale del difetto interventricolare è caratterizzata da un ampio spettro di ossibilità, che variano dalla chiusura spontanea allo scompenso cardiaco congestizio. Nei pazienti adulti con ampi difetti interventricolari si sviluppa spesso una grave ipertensione polmonare, per cui lo shunt s’inverte, divenendo destro-sinistro, e compaiono cianosi, policitemia e ippocratismo digitale (sindrome di Eisenmenger).
PERVIETÀ DEL DOTTO ARTERIOSO Fisiopatologia ed anatomia patologica. Durante la vita fetale il dotto arterioso, che connette l’arteria polmonare sinistra all’aorta, presenta dimensioni uguali a quelle dell'aorta ascendente, e convoglia il flusso ventricolare destro verso l'aorta discendente. Dopo la nascita esso tende rapidamente a chiudersi grazie alla contrazione della componente muscolare, stimolata dall'aumento della tensione di ossigeno arteriosa secondaria all'inizio della respirazione. La chiusura è ritardata o assente nel neonato prematuro, nel quale l'incidenza di pervietà duttale è superiore a quella del nato a termine. La presenza di uno shunt duttale tra il circolo sistemico e quello polmonare condiziona un aumento del ritorno venoso polmonare e provoca un sovraccarico diastolico delle sezioni sinistre responsabile, alla fine, di una disfunzione ventricolare sinistra. In caso di ampio shunt duttale si può sviluppare con gli anni una vasculopatia polmonare irreversibile. Segni clinici. Le manifestazioni cliniche del dotto arterioso pervio dipendono dall'entità dello shunt e dalla capacità del paziente di compensare al sovraccarico di volume delle sezioni sinistre. Un dotto arterioso medio-ampio nel neonato può manifestarsi sotto forma di sindrome da distress respiratorio oppure di scompenso cardiaco con tachicardia, tachipnea, rientramenti intercostali e rantoli polmonari. Nel casi di dotti arteriosi di piccole dimensioni, invece, i reperti obiettivi sono limitati alla presenza di un soffio continuo in sede sottoclaveare sinistra (vedi Capitolo 2), con aumento di intensità della componente polmonare del II tono. Diagnostica strumentale. I reperti elettrocardiografici non sono significativi in caso di shunt lieve, mentre in presenza di un ampio dotto arterioso pervio si rilevano i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra o biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e aumentata vascolarizzazione polmonare quando lo shunt è moderato o severo. L’ecocardiogramma conferma la diagnosi, rilevando la presenza del dotto arterioso e la dilatazione delle sezioni sinistre negli shunt significativi. (Figura 10). Cenni di terapia. Nel neonato prematuro, la chiusura del dotto arterioso può essere favorita dalla somministrazione di farmaci anti-prostaglandinici (anti-infiammatori non steroidei, dei quali il più usato è l'ibuprofene). Nel caso di dotti ampi che determinino scompenso cardiaco o ipertensione polmonare in un neonato, il trattamento chirurgico rimane l'unica opzione terapeutica. Nel caso, invece, di dotti di moderata ampiezza è possibile procedere, dopo il periodo neonatale (a partire dai 5 kg di peso), alla chiusura percutanea mediante spirali metalliche o protesi in nitinol (Figura 11). Questa metodica è divenuta l'opzione terapeutica di scelta data la sua elevata efficacia ed il basso rischio che comporta. Prognosi e follow-up. La diagnosi di dotto arterioso pervio costituisce di per se stessa l'indicazione al trattamento per evitare l'insorgenza dello scompenso cardiaco (in caso di dotti arteriosi di grandi dimensioni) e ridurre il rischio di endocardite batterica (in caso di dotti arteriosi di piccole dimensioni). La chiusura chirurgica o in sala di emodinamica è gravata da una bassa mortalità e morbilità. STENOSI POLMONARE VALVOLARE Fisiopatologia ed anatomia patologica. La valvola polmonare stenotica è caratterizzata da un aspetto cupoliforme, con ispessimento e scarsa mobilità delle cuspidi, che si presentano fuse tra loro e/o displasiche (Patologia 57). La conseguenza funzionale della stenosi polmonare valvolare è l'ostruzione all'efflusso ematico dal ventricolo destro, con conseguente sovraccarico pressorio del ventricolo, che va incontro ad ipertrofia e talora si presenta ipocontrattile. Segni clinici. Nel neonato con stenosi polmonare critica dotto-dipendente le manifestazioni cliniche iniziano dopo la nascita, al momento della chiusura del dotto arterioso, e consistono in cianosi ed acidosi metabolica. Viceversa, la maggior parte dei pazienti con stenosi polmonare valvolare lieve-moderata è asintomatica e la diagnosi viene effettuata nel corso di una visita clinica routinaria. Il reperto clinico diagnostico della stenosi polmonare valvolare è costituito dal soffio sistolico eiettivo a livello del focolaio polmonare (II spazio intercostale sinistro, sull’emiclaveare). Diagnostica strumentale. La radiografia del torace mostra un aumento del II arco di sinistra, espressione dell'ectasia post-stenotica del tronco dell'arteria polmonare e, nel caso di stenosi severa, un’iperdiafania dei campi polmonari, dovuta all’ipoafflusso. L'elettrocardiogramma mostra un’ipertrofia ventricolare destra proporzionale all'entità della stenosi. L'ecocardiografia è estremamente utile per valutare le caratteristiche morfologiche della valvola polmonare, il grado di stenosi e le conseguenze fisiopatologiche dell'ostruzione (ipertrofia ventricolare destra) (Figura 12).
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Cenni di terapia. Il trattamento chirurgico è stato ormai sostituito quasi completamente dalla valvuloplastica polmonare percutanea eseguita con catetere a palloncino in corso di cateterismo cardiaco. Questa tecnica è altamente sicura ed efficace, potendo essere impiegata in tutte le fasce di età ed in pazienti con qualsiasi tipo di stenosi valvolare (Figura 13). Prognosi e follow-up. Senza trattamento, la stenosi valvolare polmonare severa può determinare disfunzione ventricolare destra con scompenso cardiaco. Dopo trattamento interventistico, raramente l'ostruzione valvolare polmonare si ripresenta, e soltanto il 5% dei pazienti necessita di una nuova procedura di dilatazione nel corso della vita.
TETRALOGIA DI FALLOT Fisiopatologia ed anatomia patologica. La tetralogia di Fallot è caratterizzata dalla deviazione anteriore del setto infundibolare. Da ciò deriva il complesso malformativo costituito da: 1) difetto interventricolare, 2) cavalcamento aortico sul setto interventricolare, 3) ostruzione all' efflusso ventricolare destro a livello sottovalvolare, e 4) ipertrofia ventricolare destra. (Figura 14, Patologia 58). Il quadro fisiopatologico è principalmente determinato dall’entità dell'ostruzione all'efflusso polmonare, che condiziona la quantità del flusso polmonare e quindi il grado di desaturazione arteriosa di ossigeno. Il difetto interventricolare è sempre ampio, cosicché la pressione nei due ventricoli è uguale. Segni clinici. La caratteristica clinica principale della tetralogia di Fallot moderata o severa è costituita dalla cianosi, la cui comparsa è legata all'ipoafflusso polmonare, tanto che nelle forme con grave ostruzione polmonare essa si evidenzia alla nascita ed il flusso polmonare risulta dipendente dalla pervietà del dotto arterioso. Talvolta l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro è anche di tipo dinamico, legata ad uno spasmo dell’infundibolo che provoca la comparsa di crisi di cianosi. Il reperto ascoltatorio tipico della tetralogia di Fallot è costituito dal soffio eiettivo localizzato sul focolaio polmonare ed accompagnato da una riduzione di intensità o dalla scomparsa della componente polmonare del II tono. Diagnostica strumentale. L'elettrocardiogramma rivela un quadro di ipertrofia ventricolare destra. Nelle forme severe, la radiografia del torace mostra un sollevamento della punta del cuore (“cuore a zoccolo”) con riduzione del flusso vascolare polmonare ed assenza del II arco di sinistra, corrispondente all’arteria polmonare. L'ecocardiogramma chiarisce con precisione il quadro anatomico (Figura 15), rivelando il grado di deviazione antero-superiore del setto infundibulare, della stenosi valvolare polmonare e/o sopravalvolare, e permettendo di valutare l’eventuale ipoplasia dell’anulus e dei rami polmonari. Il cateterismo cardiaco e l’angiografia consentono di accertare la sede dell’ostruzione all'efflusso ventricolare destro e le dimensioni delle arterie polmonari (Figura 16). Cenni di terapia. Nelle forme con dotto-dipendenza del circolo polmonare e severa cianosi perinatale si rende necessario l'uso delle prostaglandine per mantenere pervio il dotto arterioso. La terapia medica delle crisi asfittiche è finalizzata all'aumento dell'ossigenazione periferica (ossigeno-terapia in maschera), alla risoluzione dello spasmo infundibolare mediante la sedazione del paziente e la somministrazione di beta-bloccanti ed infine all'aumento della pressione arteriosa media (compressione degli arti inferiori in posizione genu-pettorale o somministrazione di farmaci ipertensivanti) in modo da aumentare il flusso ematico attraverso l'infundibolo polmonare spastico. Il trattamento palliativo, atto a creare una fonte aggiuntiva di flusso polmonare, può essere chirurgico o, in casi selezionati, percutaneo (effettuato in sala di emodinamica). Lo shunt sistemico-polmonare chirurgico (interposizione di un tubicino di gore-tex tra l’arteria succlavia ed il ramo polmonare omolaterale), si esegue nelle prime settimane di vita nei pazienti con cianosi severa ed elevato rischio per una correzione radicale. Il trattamento percutaneo consiste nell’impianto di uno stent all’interno del dotto arterioso, per mantenere pervia l’unica fonte di flusso polmonare “naturale” (Figura 17). L'intervento chirurgico correttivo si esegue tra i 3 e i 12 mesi ed è costituito dalla chiusura del difetto interventricolare e la risoluzione dell'ostruzione all'efflusso ventricolare destro (vedi Capitolo 65). Prognosi e follow-up. La tetralogia di Fallot non trattata presenta una prognosi infausta in quanto l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro tende progressivamente ad aumentare nel tempo. Il trattamento chirurgico migliora sensibilmente la prognosi sebbene comporti, in una certa percentuale di pazienti, la comparsa nel lungo termine di alcune sequele post-chirurgiche quali la disfunzione ventricolare destra da rigurgito polmonare residuo e le aritmie ventricolari. STENOSI AORTICA L’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro si può localizzare a tre livelli: a) valvolare (Patologia 59), b) sottovalvolare (dovuta alla presenza di una membrana o cercine fibromuscolare che ostacola l'efflusso del sangue dal ventricolo sinistro), c) sopravalvolare, caratterizzata da un restringimento del lume dell'aorta poco dopo la sua origine. La forma valvolare è la più frequente, con prevalenza nel sesso maschile (4:1). Fisiopatologia ed anatomia patologica. Nella forma critica del neonato, caratterizzata dalla dotto-dipendenza della circolazione sistemica, il ventricolo sinistro è di solito molto ipertrofico, con una cavità ridotta rispetto al normale o, talora, dilatato ed ipocontrattile. Nelle forme meno gravi la malattia ha comunque un andamento progressivo,
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caratterizzato da ipertrofia ventricolare sinistra, aumentata richiesta di ossigeno da parte del miocardio ed ischemia subendocardica. Segni clinici. I segni tipici della malattia sono il soffio sistolico eiettivo aortico ed i polsi di ampiezza ridotta. Nei pazienti con funzione di pompa depressa il soffio sistolico può essere assente o poco evidente ed i polsi periferici possono non essere palpabili. Nei casi più gravi, la malattia esordisce con scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto di Botallo (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Diagnostica strumentale. Nelle forme meno gravi la diagnosi è legata al riscontro occasionale di un soffio cardiaco o alla comparsa di sintomi quali palpitazioni, vertigini, sincope o angina. I reperti radiografici tipici sono la dilatazione dell’ombra cardiaca (Figura 18) e la dilatazione post-stenotica dell’aorta ascendente. All’ECG si osserva prevalentemente ipertrofia ventricolare sinistra. La diagnosi definitiva è possibile mediante l’ecocardiografia color Doppler che permette di stabilire la morfologia ed il numero delle cuspidi aortiche (Figura 19, Figura 20, ECO 20, ECO 21), e di differenziare la stenosi valvolare da quella sopra o sottovalvolare. La stenosi aortica sopravalvolare è determinata da un restringimento dell'aorta al di sopra dell'anello valvolare e del piano coronarico. Fra i tre livelli di ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro, la sede sopravalvolare della stenosi è la meno comune; spesso questa forma si associa alla Sindrome di Williams, caratterizzata da ritardo mentale, facies elfica, stenosi dei rami polmonari, stenosi delle arterie renali, ipercalcemia. Si può trattare di un'ostruzione a membrana (Figura 21), ad imbuto/clessidra o diffusa per un lungo tratto di aorta ascendente. La stenosi sottoaortica consiste in una ostruzione fissa del tratto di efflusso del ventricolo sinistro, al di sotto della valvola aortica. In oltre il 20% dei pazienti, la valvola è anomala (stenosi valvolare, piccolo anello aortico, valvola bicuspide); la membrana sottovalvolare è occasionalmente adesa a una delle cuspidi valvolari della valvola aortica e mitrale: questo può interferire con la funzione della valvola, producendo un'insufficienza di medio grado (Figura 22). Cenni di terapia. La terapia del neonato con stenosi aortica critica prevede la somministrazione di inotropi, prostaglandine e bicarbonati per stabilizzare il paziente. Per risolvere la stenosi valvolare, la valvuloplastica con palloncino rappresenta oggi un’alternativa alla valvulotomia chirurgica. Le forme sottovalvolari e quelle sopravalvolari, invece, richiedono sempre un intervento chirurgico per rimuovere l'ostruzione sottovalvolare o per allargare l'aorta a livello sopravalvolare. COARTAZIONE AORTICA La coartazione aortica consiste in un restringimento dell’istmo, la porzione dell’aorta localizzata tra l’origine della succlavia sinistra e il dotto di Botallo (Patologia 60). Tale condizione determina un sovraccarico di pressione del ventricolo sinistro, cui consegue ipertrofia del miocardio. La coartazione dell’aorta è più frequente nei maschi; il 15-25% dei pazienti con Sindrome di Turner ne è affetto. Fisiopatologia ed anatomia patologica. Spesso alla coartazione si associano bicuspidia aortica, pervietà del dotto arterioso, difetto interventricolare, stenosi mitralica. L’elevata pressione nel circolo arterioso prossimale alla coartazione e la bassa pressione arteriosa vigente nel territorio al di sotto dell’istmo favoriscono lo sviluppo di circoli collaterali atti ad aumentare il flusso ematico alla metà inferiore del corpo. Tali circoli si stabiliscono anteriormente fra le arterie mammarie interne (rami delle succlavie) e le arterie epigastriche della parete addominale, e posteriormente fra le arterie parascapolari e le intercostali. Proprio la dilatazione delle arterie intercostali è responsabile delle alterazioni a carico delle coste che si osservano all’esame radiologico in alcuni casi. Segni clinici. Nei casi più gravi, l’esordio è caratterizzato da scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto arterioso (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Le forme meno gravi possono decorrere a lungo asintomatiche: i bambini più grandi e gli adulti con patologia meno importante si rivolgono in genere al medico per la comparsa di ipertensione arteriosa o per il riscontro di soffi cardiaci o per l’assenza dei polsi arteriosi agli arti inferiori. Il reperto obiettivo più frequente è un soffio sistolico eiettivo sulla parete toracica anteriore e posteriore. Diagnostica strumentale. La radiografia del torace può documentare la dilatazione dell’aorta ascendente. Le incisure costali dovute all’erosione ossea da parte delle arterie intercostali dilatate diventano evidenti tra i 4 e i 12 anni di età (Figura 23A). Inoltre l’indentatura aortica pre-stenotica e la dilatazione post-stenotica (Segno del 3, Figura 23B) sono reperti patognomonici. L’ECG è spesso aspecifico, ma non di rado mostra ipertrofia ventricolare sinistra. L’ecocardiogramma permette di valutare con esattezza la morfologia dell’arco aortico, la sede della coartazione e la sua gravità attraverso la stima del gradiente pressorio. Nelle forma dell’adulto possono essere di ausilio altre tecniche di imaging quali la TC e la RM cardiaca (Figura 24A). Cenni di terapia. La terapia della coartazione aortica del neonato è chirurgica (vedi Capitolo 65). Per i bambini con peso superiore ai 20 kg, e per i pazienti adulti affetti da coartazione dell’aorta o recoartazione post-chirugica è proponibile la dilatazione della coartazione con catetere a palloncino (angioplastica) o con l’applicazione di stent endovascolari (i metallici di sostegno posizionati all’interno dell’arteria per mantenerla dilatata) (Figura 24B, Figura 24C).
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CARDIOPATIE CONGENITE PARTE II Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE Fisiopatologia ed anatomia patologica. La trasposizione delle grandi arterie è una cardiopatia congenita caratterizzata da un’anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi che da esse traggono origine, per cui l'aorta origina dal ventricolo destro e l'arteria polmonare dal ventricolo sinistro (Patologia 61). In circa il 50% dei casi sono presenti anche altre malformazioni cardiache. In questa malattia il sangue desaturato proveniente dalle vene sistemiche viene inviato nuovamente in periferia, mentre il sangue ossigenato proveniente dalle vene polmonari giunge nuovamente nel circolo polmonare (Figura 1). Le circolazioni sistemica e polmonare vengono, quindi, a trovarsi in parallelo e non in serie come in un soggetto normale, e l'unica possibilità di sopravvivenza dipende dalla presenza di comunicazioni tra le due circolazioni. L'entità di tale scambio intercircolatorio (“mixing”) dipende dal numero, dalle dimensioni e dalla posizione delle comunicazioni anatomiche presenti. Nei primi giorni di vita, la chiusura del forame ovale e del dotto arterioso tendono a separare completamente la circolazione sistemica da quella polmonare, determinando così cianosi ed ipossiemia: la sopravvivenza di questi neonati è legata alla persistenza di una comunicazione interatriale ed alla riapertura del dotto arterioso. Se non è presente un vero difetto interatriale, esso può essere creato artificialmente mediante l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind, procedura che consiste nel far are dall’atrio destro al sinistro un catetere a palloncino introdotto per via venosa percutanea (vena ombelicale o femorale); dopo il gonfiaggio del palloncino in atrio sinistro, il catetere viene bruscamente ritirato in atrio destro, lacerando così il setto interatriale e creando un difetto settale iatrogeno. La pervietà del dotto arterioso, invece, viene mantenuta mediante l'infusione di prostaglandine. Segni clinici. La principale manifestazione clinica che indirizza verso la diagnosi di trasposizione delle grandi arterie è la cianosi che si evidenzia alla nascita e si aggrava successivamente a seguito della progressiva chiusura del dotto arterioso. In assenza di malformazioni associate, i reperti clinici sono poco caratteristici, non rilevandosi né soffi né segni di scompenso cardiaco mentre in presenza di ampie sedi di "mixing" ematico la cianosi è lieve ed il quadro clinico può essere dominato dallo scompenso cardiaco secondario all'iperafflusso polmonare. Diagnostica strumentale. Alla radiografia del torace l'ombra cardiaca è di normale volumetria, con aspetto ovalare ed assottigliamento del profilo mediastinico alto a seguito dell'anomala disposizione dei grandi vasi. Il quadro elettrocardiografico non mostra alcun reperto anomalo alla nascita, mentre dopo il periodo perinatale si osserva una mancata regressione della fisiologica ipertrofia ventricolare destra neonatale. L'ecocardiogramma (Figura 2, Figura 3) consente di porre la diagnosi, evidenziando l'anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi, e di identificare le eventuali malformazioni cardiache associate (difetto interventricolare, stenosi polmonare). Il cateterismo cardiaco non è ormai più necessario per la diagnosi, ma viene talvolta utilizzato per eseguire l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind in caso di scarso "mixing" intercircolatorio. Cenni di terapia. La terapia medica consiste nel riequilibrio metabolico del neonato mediante la correzione di eventuali squilibri idro-elettrolitici e il miglioramento del "mixing" ematico mediante la somministrazione di prostaglandina E e l'atrioseptectomia secondo Rashkind. Il trattamento chirurgico della trasposizione delle grandi arterie (vedi Capitolo 65) ha lo scopo di riportare in serie la circolazione sistemica e polmonare, ristabilendo una normale connessione ventricolo-arteriosa (aorta dal ventricolo sinistro e arteria polmonare dal ventricolo destro). Prognosi e follow-up. La storia naturale della trasposizione delle grandi arterie non sottoposta a trattamento chirurgico è infausta, con una mortalità che si avvicina al 100% alla fine del I anno di vita. L'intervento chirurgico, invece, ha modificato sensibilmente la prognosi di questi pazienti, garantendo loro il raggiungimento dell'età adulta con una pressoché normale qualità della vita. CANALE ATRIO-VENTRICOLARE Il canale atrio-ventricolare rappresenta un difetto della giunzione atrio-ventricolare, e comprende un ampio spettro di lesioni che vanno da un difetto interatriale tipo ostium primum associato ad una fissurazione (“cleft”, ECO 12) della valvola mitrale (canale atrio-ventricolare parziale) fino ad una condizione in cui il difetto interatriale è molto ampio, la valvola atrio-ventricolare è unica, e coesiste un difetto interventricolare (canale atrio-ventricolare completo, Patologia 62). Frequente è l’associazione con la sindrome di Down (25-36%). Canale atrio-ventricolare parziale Fisiopatologia. Se non vi è insufficienza mitralica, la fisiopatologia è simile a quella di un difetto interatriale ampio, con importante shunt sinistro-destro ed iperafflusso polmonare; se, viceversa, è presente una insufficienza mitralica, il sovraccarico del circolo polmonare sarà più imponente e precoce, in quanto, oltre allo shunt interatriale vi sarà anche un aggio di sangue dal ventricolo sinistro direttamente in atrio destro (per la presenza del difetto interatriale ostium primum).
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Segni clinici. Il quadro clinico è variabile in base alla gravità dell’insufficienza mitralica, per cui si va da bambini che possono scompensarsi fin dal primo anno di vita, a pazienti che rimangono asintomatici fino all’età adulta. All’ascoltazione si rileva un soffio sistolico eiettivo sul focolaio polmonare e un soffio sistolico da rigurgito puntale. Diagnostica strumentale. All’ECG vi sono segni di ipertrofia ventricolare destra o biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare. L’Ecocardiogramma evidenzia lo shunt interatriale nella porzione più bassa del setto interatriale ed il cleft mitralico con insufficienza valvolare al color-Doppler (Figura 4). Il cateterismo cardiaco è utile non tanto per la diagnosi ma per rilevare le pressioni e le resistenze polmonari. Cenni di terapia. Il trattamento di questa malattia è esclusivamente chirurgico.
Canale atrio-ventricolare completo Il quadro clinico è in relazione all’ampiezza dello shunt sinistro-destro interatriale ed interventricolare, alla gravità dell’insufficienza della valvola atrio-ventricolare comune ed alla eventuale ipoplasia di uno dei due ventricoli. I pazienti sono sintomatici fin dai primi mesi di vita, e presentano scompenso cardiaco, deficit di accrescimento ponderale ed infezioni respiratorie recidivanti. All’ ascoltazione si rilevano un soffio olosistolico al mesocardio e un soffio sistolico puntale. Diagnostica strumentale. L’ECG mostra ipertrofia ventricolare destra o biventricolare e deviazione assiale sinistra. La radiografia del torace evidenzia cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare. All’Ecocardiogramma si osserva che le valvole atrio-ventricolari destra e sinistra stanno sullo stesso piano, a differenza che nel cuore normale, nel quale la valvola atrio-ventricolare destra è dislocata verso l’apice, e si trova più in basso rispetto alla sinistra. L’ecocardiogramma permette di valutare e quantizzare gli shunt interatriale ed interventricolare, l’insufficienza della valvola atrio-ventricolare, la pressione polmonare e l’eventuale associazione con stenosi sottoaortica. Il cateterismo cardiaco risulta utile per rilevare l’entità dello shunt, le pressioni e le resistenze polmonari. Cenni di terapia. Il trattamento di questa patologia è farmacologico in caso di scompenso, ma la correzione è esclusivamente chirurgica. L’intervento è indicato tra i sei e i dodici mesi (più precocemente nei casi in cui il canale atrio-ventricolare si associ a sindrome di Down). ANOMALIA DI EBSTEIN E’ una malattia caratterizzata da dislocazione apicale della valvola tricuspide, con origine della cuspide settale, e spesso anche di quella posteriore, dalla parete del ventricolo destro invece che dall’anulus fibroso (Patologia 63). Fisiopatologia ed anatomia patologica. L’anomala inserzione della valvola divide il ventricolo destro in due parti: la porzione di entrata, funzionalmente integrata con l’atrio (sezione atrializzata), e la vera parte funzionante del ventricolo destro. L’atrializzazione, la dilatazione del ventricolo destro e la sottigliezza delle pareti compromettono notevolmente lo svuotamento ventricolare, provocando diminuzione del flusso ematico polmonare. Segni clinici. Nei casi più gravi la sintomatologia può comparire precocemente, anche in epoca neonatale, caratterizzata da cianosi, dispnea e difficoltà di alimentazione. Nei casi lievi i sintomi sono scarsi e i pazienti possono condurre una vita abbastanza normale, con una sopravvivenza piuttosto lunga. Frequenti sono le crisi di tachicardia parossistica sopraventricolare, di flutter e fibrillazione atriale. All’ascoltazione si rileva uno sdoppiamento del I tono per ritardo di chiusura della valvola tricuspide e un soffio sistolico se è presente insufficienza tricuspidale. Diagnostica strumentale. L’ECG mostra una deviazione assiale destra, basso voltaggio dei complessi ventricolari, onda P gigante nelle derivazioni precordiali destre, blocco di branca destra, allungamento dell’intervallo PR. La radiografia del torace evidenzia una cardiomegalia. I campi polmonari sono poco irrorati, il peduncolo vascolare è ristretto e l’ombra cardiaca assume una conformazione a fiasca simile a quella dei versamenti pericardici. L’Ecocardiogramma rivela la dislocazione apicale del lembo settale della tricuspide, talora con aspetto ridondante, “a vela”, del lembo anteriore (Figura 5, ECO 25). E’ possibile quantificare il grado e la gravità della malattia analizzando la morfologia dei lembi tricuspidalici, le dimensioni degli atri e della porzione atrializzata del ventricolo destro, gli indici di funzione ventricolare destra, le modificazioni del setto interventricolare, lo stato funzionale del ventricolo sinistro e della valvola mitrale ed ancora la presenza ed il grado di eventuali difetti associati. Tali dati sono utili sia ai fini prognostici che per indirizzare una corretta strategia terapeutica. In particolare, l’entità della deformazione e della displasia dei lembi, unitamente al grado di atrializzazione ventricolare destro rappresentano importanti caratteristiche che condizionano le opzioni chirurgiche. Cenni di terapia. Il trattamento è farmacologico in caso di scompenso (digitale, diuretici e vasodilatatori); la correzione dell’anomalia è di tipo chirurgico, con plastica della valvola o con sostituzione della stessa. E’ consigliabile posticipare quanto più possibile l’intervento, in quanto esso è gravato da una elevata mortalità operatoria nei primi anni di vita.
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CUORE UNIVENTRICOLARE In questa cardiopatia congenita è presente un’unica camera ventricolare, in genere di morfologia sinistra, che riceve entrambe le valvole atrio-ventricolari e rifornisce il circolo sistemico e polmonare; l’altro ventricolo è ipoplasico (camera rudimentale collegata al ventricolo principale tramite un difetto interventricolare che generalmente prende il nome di forame bulbo-ventricolare) e non può essere utilizzato per la correzione chirurgica. I grandi vasi escono, comunque, da entrambe le camere ventricolari: tale connessione influenza il quadro fisiopatologico. Fisiopatologia ed anatomia patologica. In caso di normale connessione ventricolo-arteriosa (ventricolo sinistro principale che dà origine all’aorta e ventricolo destro rudimentale che dà origine all’arteria polmonare), il quadro fisiopatologico e clinico dipende dall’entità del flusso polmonare. Se vi è stenosi polmonare severa e ipoafflusso polmonare (Figura 6) è presente cianosi, ed i reperti clinico-strumentali sono quelli tipici delle cardiopatie cianogene. In assenza di stenosi polmonare, invece, il quadro fisiopatologico è dominato dall’iperafflusso, ed i segni clinico-strumentali sono quelli dello scompenso cardiaco congestizio. Segni clinici. Il reperto tipico è la cianosi, la cui gravità dipende non dal mescolamento del sangue sistemico e polmonare, ma dal flusso polmonare, cioè dalla presenza e dal grado della stenosi polmonare. Diagnostica strumentale. Il quadro radiografico evidenzia un’ombra cardiaca di volume normale o aumentato ed un flusso polmonare di grado variabile a seconda dell’entità della stenosi polmonare. L’ecocardiografia è fondamentale per la diagnosi della malattia e l’individuazione di eventuali lesioni associate (Figura 7). Il cateterismo cardiaco è indicato, in casi selezionati, per la esatta valutazione delle malformazioni associate e delle resistenze polmonari. Cenni di terapia. Dopo una iniziale palliazione volta alla regolazione del flusso polmonare, il trattamento chirurgico definitivo viene attuato secondo il principio di Fontan, che consiste nel "saltare" il ventricolo di destra, abboccando direttamente le vene cave all'albero polmonare (vedi Capitolo 65).
Sezione XVI. Malattie delle Arterie e delle Vene Capitolo 54 ARTERIOPATIE DEI TRONCHI SOPRAORTICI Salvatore Novo, Egle Corrado, Ida Muratori INTRODUZIONE L’aterosclerosi può colpire indifferentemente la circolazione coronarica, cerebrale e periferica degli arti, esitando frequentemente in episodi ischemici gravi e a volte invalidanti. Spesso essa è presente contemporaneamente in più distretti arteriosi dello stesso individuo, a dimostrazione del suo carattere di malattia sistemica. Prenderemo in considerazione le alterazioni vascolari a carico delle arterie carotidi, delle vertebrali e delle succlavie, dopo un breve ricordo di anatomia. L’origine delle arterie carotidi comuni è differente; infatti, a destra la carotide comune deriva dal tronco anonimo, che subito dopo l’origine si biforca in arteria carotide destra e arteria succlavia destra, mentre a sinistra la carotide comune e la succlavia prendono origine separatamente dall’arco dell’aorta. Dalle arterie carotidi comuni nascono la carotide esterna e la carotide interna, la quale, all’interno della teca cranica, dà origine alle arterie cerebrale anteriore, cerebrale media e comunicante anteriore. Le due arterie vertebrali, invece, nascono dalle rispettive succlavie e confluiscono nel tronco basilare, che successivamente si biforca nelle due arterie cerebrali posteriori e nelle comunicanti posteriori. Questo insieme di vasi costituisce il cosiddetto poligono del Willis (Figura 1). FISIOPATOLOGIA DELL’OSTRUZIONE DEI TRONCHI SOPRAORTICI La carotide, per le caratteristiche anatomiche che possiede, è una sede preferenziale per la formazione di placche aterosclerotiche; infatti, in corrispondenza della biforcazione in carotide interna ed esterna il flusso ematico non è più laminare ma turbolento, e si generano dei vortici. Questi, associati all’ipertensione arteriosa, al fumo di sigarette, al diabete ed all’ipercolesterolemia, sono i maggiori fattori di rischio per la genesi dell’aterosclerosi carotidea. La formazione di una placca ateromasica produce un ostacolo al aggio del sangue che ha, quindi, difficoltà a raggiungere i distretti di irrorazione periferica. In genere, le ostruzioni carotidee monolaterali, con carotide controlaterale pervia, sono asintomatiche perché le numerose anastomosi esistenti tra carotide interna, carotide esterna e arteria vertebrale riescono ad assicurare un adeguato apporto ematico al Sistema Nervoso Centrale. Si ricorre ad intervento chirurgico di rimozione della placca solo in caso di ostruzioni che determinino una sintomaticità clinica evidente (vedi Capitolo 67). Le conseguenze dell'ostruzione delle carotidi possono essere varie: in genere, l'ostruzione si instaura in un tempo lungo, il che permette alle altre arterie di modulare il flusso cerebrale; a volte, tuttavia, può verificarsi improvvisamente un evento trombotico, e dalla sede aterosclerotica possono liberarsi emboli che determinano eventi ictali.
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La patologia delle arterie carotidi comprende forme asintomatiche costituite dall’ispessimento intima-media e dalla placca carotidea asintomatica, e forme sintomatiche che danno origine all’attacco ischemico cerebrale transitorio, comunemente denominato TIA (transient ischemic attack) e all’ictus cerebrale ischemico. ESAME OBIETTIVO DEI TRONCHI SOPRAORTICI E CENNI DI DIAGNOSTICA STRUMENTALE La diagnostica delle ostruzioni dei tronchi sovraortici, si avvale di manovre semeiologiche e di indagini strumentali. Dapprima si osservano la sede e l’ampiezza dei polsi carotidei, quindi si procede alla palpazione delle arterie, da eseguire con delicatezza, al davanti del muscolo sternocleidomastoide e in corrispondenza della metà del collo, per evitare il seno carotideo situato al di sotto dell’angolo mandibolare. L’ascoltazione permette di rilevare eventuali soffi, spesso segno di stenosi emodinamiche del vaso. L’esame obiettivo si completa con la misurazione della pressione arteriosa bilateralmente; in caso di stenosi della succlavia, infatti, oltre a rilevare un eventuale soffio o un’iposfigmia, sarà presente una differenza dei valori pressori fra arto destro e sinistro. USO DEGLI ULTRASUONI L'Ecocolordoppler è l’esame di scelta per la diagnosi e lo screening delle malattie vascolari (vedi Capitolo 12). E’ una metodica non invasiva, affidabile, documenta bene anche le più piccole lesioni di parete e consente la valutazione quantitativa delle stenosi (Figura 2). Questo esame, assolutamente non invasivo, richiede una buona apparecchiatura e la conoscenza dell'anatomia dei vasi. Le placche di piccola - media entità, se non lipidiche o fibrolipidiche, non devono far temere eventi ischemici, ma vanno monitorate nel tempo; le placche “ulcerate”, invece, anche se di piccola entità, possono essere molto pericolose. Le lesioni carotidee con stenosi superiore al 70-75% determinano importante aumento della turbolenza ed accelerazione del flusso ematico; tali condizioni possono facilitare il distacco di una porzione di placca o la formazione di un coagulo a valle della lesione; il risultato è comunque l'obliterazione di una arteria medio-distale e la sofferenza del territorio cerebrale a cui viene a mancare l'apporto in ossigeno. I pazienti con stenosi carotidea sintomatica sono maggiormente a rischio di ictus ischemico rispetto a quelli con stenosi carotidea asintomatica di pari grado. Per quanto riguarda la stenosi carotidea sintomatica, lo studio NASCET riporta, per pazienti con stenosi tra il 70 e 99%, un’incidenza annuale di ictus del 13% entro il primo anno e del 35% a cinque anni, mentre lo studio Asymptomatic Carotid Endarterectomy Trial (ACAS) riporta, per pazienti con stenosi carotidea asintomatica tra il 60 e 99%, un’incidenza annuale di ictus solo del 2%. PATOLOGIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI: QUADRI CLINICI L’insufficienza cerebrovascolare può derivare da: 1) Ischemia dovuta a lesioni aterosclerotiche stenoticheocclusive a carico dei tronchi sovraortici, favorita da transitoria ipotensione sistemica; 2) Embolia a partenza da lesioni ulcerate (placche) o da aneurismi dei tronchi sovraortici, oppure di origine cardiaca; 3) Emoderivazioni brachiocefaliche (furto della succlavia) da lesioni stenotiche del segmento prevertebrale delle succlavie e del tronco anonimo. Gli episodi di insufficienza cerebrovascolare sono classificati, in base alla durata dei sintomi neurologici in: 1) TIA (attacco ischemico transitorio) con durata < 24 ore; 2) RIA attacco ischemico transitorio non completamente regredito con deficit modesti; 3) Ictus ischemico o emorragico. La lesione più spesso responsabile è una placca ateromasica localizzata all’origine della carotide interna, in grado di mettere in circolo frammenti che raggiungono i vasi intracranici, occludendoli. Se la placca si ulcera, si può formare un trombo piastrinico che può provocare l’occlusione acuta della carotide o microembolie. L’embolia può avere anche origine cardiaca, ad esempio in corso di fibrillazione atriale. Attacco ischemico transitorio Il termine TIA (transient ischemic attack) definisce un'ischemia transitoria i cui sintomi si risolvono entro 24 ore. I sintomi sono gli stessi dell'ictus, possono durare da pochi secondi a qualche ora e si manifestano con perdita transitoria della vista, disturbi della parola, incapacità di identificare le persone o i luoghi in cui ci si trova, temporanea sospensione della funzione di un nervo motorio (paralisi momentanea del braccio o della gamba, asimmetria della rima labiale, etc.), vertigini, nausea, barcollamento, sonnolenza. I sintomi regrediscono completamente, ma costituiscono un importantissimo camlo d'allarme: i TIA, infatti, preannunciano un probabile
futuro
ictus,
e
un
loro
adeguato
trattamento
può
evitare
l'insorgenza
di
quest'ultimo.
167
L’ischemia non compensata provoca entro pochi minuti un danno irreversibile che può regredire in parte perché i neuroni della zona periferica alla lesione presentano solo un’alterazione funzionale e pertanto reversibile. Poiché la maggior parte dei TIA dura meno di un'ora, spesso la diagnosi è solo anamnestica, al contrario dell'ictus dove nella maggior parte dei casi è disponibile anche il rilievo obiettivo. Ictus Dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori, l’ictus è la causa più comune di morte nei paesi industrializzati; esso rappresenta un’emergenza medica (“attacco cerebrale”) e deve essere prontamente diagnosticato e trattato in ospedale per l’elevato rischio di disabilità e di morte che comporta. La definizione di ictus comprende, sulla base dei dati morfologici, l'ictus ischemico, l'ictus emorragico, e alcuni casi di emorragia subaracnoidea. L’Ictus ischemico è caratterizzato dall’occlusione di un vaso a causa di una trombosi o di un’embolia o, meno frequentemente, da un’improvvisa e grave riduzione della pressione di perfusione. Le cause più comuni sono:vasculopatia aterosclerotica, che interessa le arterie di maggior calibro, comunemente le carotidi, le vertebrali
e
le
arterie
che
originano
dal
circolo
del
Willis,
all’interno
delle
quali
si
forma
un
trombo; occlusione delle piccole arterie(TIA o ictus lacunare); cardioembolia o embolia cardiogena, fenomeno frequente in presenza di fibrillazione atriale, protesi valvolare meccanica, stenosi mitralica con fibrillazione atriale, trombo in atrio e/o auricola sinistri, sick sinus syndrome, infarto miocardico acuto recente, trombo ventricolare sinistro, mixoma atriale, endocardite infettiva, cardiomiopatia dilatativa, acinesia di parete del ventricolo sinistro. L’iter diagnostico volto a inquadrare il paziente con ictus comprende l’esecuzione della TAC cerebrale senza contrasto per la diagnosi differenziale fra ictus ischemico ed emorragico e altre patologie non cerebrovascolari. L’ecocolordoppler permette di identificare l’occlusione o la stenosi di un vaso, la presenza di collaterali, o la ricanalizzazione. Le terapie acute dell'ictus (farmaci antiaggreganti come l'aspirina, farmaci trombolitici come rTPA) hanno visto progressi significativi durante gli ultimi anni; sono utili, comunque, a un modesto numero di pazienti, in quanto la fibrinolisi si applica soltanto in unità specializzate (Stroke Unit), presenti solo in una piccola parte degli ospedali italiani. Mentre le possibilità di intervento acuto una volta che si è manifestato l'ictus sono limitate, le possibilità di prevenzione (oppure la prevenzione di un secondo ictus una volta che sia avvenuto il primo) sono notevoli e devono essere sfruttate. Ispessimento intima-media e placca carotidea asintomatica Negli ultimi anni, numerosi studi hanno documentato l’utilità di valutare lo spessore medio-intimale (IMT) carotideo per l’individuazione e il monitoraggio della malattia aterosclerotica della parete arteriosa. La misurazione ultrasonografia dell’IMT è stata dapprima studiata in modelli animali e successivamente nell’uomo. Uno dei più importanti studi di validazione è stato realizzato dal gruppo italiano Pignoli-Paoletti, i quali dimostrarono come la distanza tra le due linee ecogene rilevate nell’immagine ultrasonografia correlasse con la somma delle tuniche intima e media misurate con tecniche anatomo-patologiche in arterie con e senza aterosclerosi (Figura 3). Dopo l’iniziale studio di Pignoli, misurazioni dell’IMT carotideo sono state realizzate in molti studi clinico-epidemiologici, permettendo di raccogliere numerose informazioni per quanto riguarda l’associazione tra IMT e rischio cardiovascolare. Tali studi hanno portato a considerare l’IMT carotideo come un indicatore di aterosclerosi generalizzata e indotto l’American Heart Association ad affermare che “nella valutazione del rischio cardiovascolare, la misurazione dell’ispessimento medio intimale carotideo può fornire informazioni aggiuntive rispetto ai fattori di rischio cardiovascolare”. Patologia delle arterie vertebrali
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Le arterie vertebrali originano dalla succlavia, e ando dal forame ovale delle vertebre cervicali si uniscono a livello del solco bulbo pontino a formare l’arteria basilare, grosso vaso che ha come terminali le arterie cerebrali posteriori. Il tronco basilare, che è la principale fonte di perfusione della fossa cranica posteriore, è l’unico esempio nel corpo umano di due arterie che si uniscono per formarne una sola. Questo spiega come l’ostruzione o l’agenesia (mancanza di sviluppo) di una delle arterie vertebrali possa risultare completamente asintomatica. L’ischemia del territorio vertebro-basilare (insufficienza vertebro-basilare - IVB) riconosce le seguenti etiologie: - ipotensione arteriosa (IVB emodinamica) - embolica a partenza cardiaca - emodinamica ed embolica associate. Nel 13% dei casi la causa dell’IVB è indeterminata. Quadro clinico I Sintomi per diagnosticare un TIA posteriore secondario a IVB emodinamica comprendono:
• • • • • • •
Turbe motorie mono o bilaterali Turbe sensitive al viso e/o agli arti Perdita visus bilaterale Emianopsia laterale omonima Turbe dell’equilibrio o della marcia in assenza di vertigine Drop attacks Diplopia, disfagia, disartria, vertigine associate tra loro o ad uno dei sintomi precedenti
Per la diagnosi di TIA “posteriore” è necessaria l’associazione di almeno tre sintomi. Per precisare la natura e la topografia della lesione, va associata alla diagnosi clinica la valutazione strumentale, che comprende l’ecocolordoppler, la TAC o la RMN cerebrale, il Doppler transcranico e, in casi selezionati, l’Angiografia. Sindrome da furto della succlavia L’arteria succlavia è destinata a portare il sangue all’arto superiore e alla parte posteriore dell’encefalo. La succlavia destra nasce dall’arteria anonima, la sinistra direttamente dall’arco dell’aorta. La Sindrome da furto della succlavia è una particolare situazione emodinamica in cui si viene a trovare il circolo epiaortico nel caso, non raro, in cui l’arteria succlavia presenti una stenosi prevertebrale, la cui causa è generalmente l’aterosclerosi (Figura 4). Il “furto” viene consentito dalle particolarità anatomiche della circolazione cerebrale, cioè dall’esistenza del poligono di Willis, al quale confluiscono l’arteria basilare e le due carotidi interne; questi vasi si riuniscono a formare, insieme alle arterie comunicanti, un unico circolo che permette, nel caso uno degli affluenti si occluda o sia gravemente stenotico, di far giungere il sangue anche a quella parte dell’encefalo di cui è tributaria l’arteria interessata (carotide interna o vertebrale). La stenosi della succlavia localizzata tra la sua origine e quella della vertebrale comporta la caduta pressoria non solo nella stessa succlavia, ma anche nella vertebrale. Dato che il torrente ematico scorre per gradienti di pressione, il flusso nell’arteria basilare si inverte, dirigendosi verso la vertebrale a bassa pressione e da qui alla succlavia nel tratto oltre la stenosi. La succlavia, perciò, “ruba” il sangue alla vertebrale omolaterale e al poligono di Willis. Il debito della succlavia derubata è pagato del circolo anteriore (carotidi interne) e in maggior misura dalla vertebrale controlaterale. La sintomatologia viene scatenata da un impegno muscolare dell’arto interessato dalla stenosi, che comporta il furto di un volume maggiore di sangue per sopperire all’impegno della succlavia, il cui compito è rifornire i muscoli del braccio. La sintomatologia dipenderà dal territorio prevalentemente derubato (anteriore nel caso di compenso carotido-vertebrale, posteriore nel caso di compenso vertebro-vertebrale). Ad ogni sforzo prolungato dell’arto omolaterale alla stenosi, si potranno manifestare TIA, vertigini, lipotimia, disturbi del visus. La sindrome andrà sospettata tutte le volte che ci si trovi di fronte ad una stenosi della succlavia (con differenza pressoria significativa tra le due omerali), specie se il paziente riferisce una sintomatologia tipica. Può confermare la diagnosi il test di iperemia reattiva mediante ecocolor doppler. Con la sonda posizionata sulla vertebrale si
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pratica (tramite un manicotto pressorio) l’ischemizzazione del braccio a minor pressione, per tre minuti. Al rilascio (sgonfiaggio rapido del manicotto) si otterranno modificazioni dell’onda velocimetrica relativa alla vertebrale, consistenti in inversione di flusso e/o incremento della velocità, a seconda del tipo di furto. Nel furto permanente la direzione del flusso è costantemente invertita, per cui l’iperemia al braccio produce un incremento della velocità di fuga del sangue dalla vertebrale derubata. Nel furto intermittente il flusso è diretto alla basilare in sistole ed alla succlavia in diastole. L’iperemia succlaveare comporterà la stabilizzazione della direzione di fuga dalla vertebrale. Nel furto latente la direzione di flusso è fisiologica di base, ma si inverte totalmente con il test dell’iperemia. CENNI DI TERAPIA DELL’ATEROSCLEROSI DEI TRONCHI SOPRAORTICI Le terapie mediche, volte a ridurre la probabilità di TIA ed ictus e di morte nei pazienti con danno carotideo, includono quelle che modificano i fattori di rischio e quelle che inibiscono la trombosi. I farmaci antiipertensivi, ipolipemizzanti e antiaggreganti riducono il rischio di TIA e ictus cerebrale ischemico. Anche gli ACE-inibitori diminuiscono la probabilità di ictus nelle popolazioni ad alto rischio. L’efficacia e sicurezza dell’aspirina a basso dosaggio nella prevenzione primaria cardiovascolare nelle donne, é stata indagata nel Women’s Health Study, il quale ha mostrato una riduzione del 17% del rischio di ictus nei soggetti trattati rispetto al gruppo placebo. In pazienti con precedente ictus o attacco ischemico transitorio, l'aspirina riduce il rischio di ulteriori eventi cardiovascolari del 23% . La rivascolarizzazione della carotide è indicata nei pazienti con stenosi carotidea asintomatica significativa (> 70%) e nei pazienti con sintomi rilevanti di ischemia cerebrovascolare o ictus non debilitante e stenosi > 60% (vedi Capitolo 67). Oltre che con la classica endarterectomia, la rivascolarizzazione può essere oggi effettuata anche con l’angioplastica che, dopo l’introduzione dei filtri, ha visto progressivamente diminuire il tasso di complicanze cerebrali, e quindi si pone come una metodica altamente competitiva rispetto all’endoarterectomia (vedi Capitoli 60 e 67).
Capitolo 55 ARTERIOPATIE DELLE ARTERIE PERIFERICHE Giuseppe Mercuro, Ettore Manconi DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA Le arteriopatie obliteranti degli arti inferiori (AOAI) comprendono un gruppo di malattie caratterizzate da un restringimento o un’occlusione dell’albero arterioso distrettuale, con riduzione dell’apporto ematico alle estremità. L’aterosclerosi è la causa di gran lunga più frequente delle AOAI, con una incidenza annuale di nuovi casi del 6‰. Vi è una sottostima dei casi di AOAI per una mancata diagnosi dei soggetti paucisintomatici, con circa 200 casi di AOAI non riconosciuta né trattata per ogni 100 casi di malattia clinica con claudicazione intermittente. L’incidenza massima della malattia è collocata tra la V e la VII decade di vita; si stima che il 12-17% della popolazione di età >50 anni ne sia affetta (Figura 1). Il sesso maschile è più colpito, con una frequenza tripla rispetto al sesso femminile durante la VI decade di vita; nelle decadi successive la differenza dipendente dal genere si attenua sensibilmente. In accordo con il concetto di pluridistrettualità della malattia aterosclerotica, le AOAI si associano con sensibile frequenza alla vasculopatia coronarica e cerebrale. La mortalità a 5 anni è pari al 32% dei casi con AOAI sintomatica. EZIOLOGIA E CLASSIFICAZIONE La AOAI sono causate nel 90% dei casi dall’aterosclerosi; pertanto, l’epidemiologia e le manifestazioni cliniche della malattia sono associate con i fattori di rischio classici (fumo, ipercolesterolemia, diabete, ipertensione, storia familiare e menopausa) e nuovi (es. iperfibrinogenemia, iperomocisteinemia). Il fumo e l’ipercolesterolemia sono particolarmente rilevanti nelle forme ad esordio precoce, mentre l’iperfibrinogenemia è l’indicatore di rischio più frequente in quelle che si manifestano in età più avanzata. Altre AOAI hanno eziologia degenerativa, infiammatoria (arteriti), trombotica e displastica. La più comune fra le arteriti è la tromboangioite obliterante (morbo di Burger), un processo occlusivo e trombotico, per lo più osservato in individui giovani e fumatori, che colpisce arterie di diverso calibro e vene superficiali. Frequenza minore hanno altre arteriti, fra le quali l’arterite a cellule giganti di Takayasu, la panarterite nodosa, la malattia di Kawasaki, le arteriti in corso di malattie sistemiche del connettivo. Tra le AOAI displastiche, la più frequente è la displasia fibromuscolare, che interessa prevalentemente le arterie iliache e le renali. Le AOAI trombotiche sono causate da anormalità coagulative primarie o secondarie, quali a volte si manifestano in presenza di neoplasie o di stati infiammatori.
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FISIOPATOLOGIA La stenosi o l’occlusione dell’arteria causano una riduzione del flusso ematico ai tessuti, definito ischemia. A livello cellulare si produce un adattamento al ridotto apporto di 02 e di nutrienti; in particolare, la cellula muscolare scheletrica muta il proprio metabolismo da aerobio a parzialmente anaerobio, con produzione finale di acido lattico. Nel distretto vascolare si produce una modificazione dell’architettura dei vasi, con rarefazione dei capillari nutritizi, che divengono allungati e con percorso tortuoso, per favorire una migliore estrazione dell’02. L’ischemia può essere acutao cronica, in base alle modalità d’insorgenza; relativa o assoluta, a seconda che l’apporto ematico distrettuale sia adeguato in condizione di riposo e insufficiente durante attività muscolare, o insufficiente anche a riposo. Quando l’ischemia relativa progredisce verso la forma assoluta, si configura il quadro dell’ischemia critica, termine che si riferisce non più solo all’impotenza funzionale dell’arto, ma a un rischio per la sua stessa conservazione anatomica. PRESENTAZIONE CLINICA La sintomatologia e l’inquadramento clinico, sempre correlati al grado di deficit emodinamico, sono tradizionalmente definiti dalla classificazione di Fontaine-Leriche.
Nel 1° stadio (preclinico) della malattia le lesioni arteriose possono essere più o meno diffuse, ma comunque non tali da provocare una significativa ischemia distrettuale. La sintomatologia è assente o aspecifica, con parestesie e una maggior suscettibilità delle estremità al freddo. Nel 2° stadio, quello con cui più frequentemente esordiscono le forme a decorso cronico, sono presenti lesioni arteriose emodinamicamene significative, cioè idonee a provocare un’ischemia relativa. Il sintomo peculiare di questo stadio è la claudicazione intermittente, legata alla produzione muscolare di acido lattico durante l’esercizio fisico (in genere la deambulazione) con comparsa di rigidità e dolore muscolare crampiforme, che costringono all’interruzione della marcia. La sede del dolore è strettamente connessa con il livello della lesione arteriosa. Al cessare dell’esercizio segue, in pochi minuti, la scomparsa spontanea del dolore. Caratteristica della claudicazione intermittente è laripetibilità nel tempo dell’episodio descritto, con l’insorgenza del dolore per un livello fisso di esercizio fisico (sogliaischemica) e la sua scomparsa dopo un tempo di recupero costante. Il 2° stadio dell’AOAI aterosclerotica viene suddiviso in due sottolivelli, sulla base dell’autonomia di marcia: 2° stadio A se essa è >200 metri; 2° stadio Bquando l’autonomia è <200 metri. In questo stadio si può osservare all’ispezione assottigliamento e pallore della cute, modificazione degli annessi cutanei, con rarefazione o scomparsa dei peli e distrofia ungueale (assottigliamento, indebolimento e talvolta fibrosi e discheratosi delle unghie). Alla palpazione si rileva riduzione della temperatura cutanea dell’arto ischemico e riduzione o assenza dei polsi arteriosi a valle della sede di lesione. Tipica dell’arteriopatia a localizzazione aorto-iliaca è la concomitante presenza di deficit dell’erezione peniena (sindrome di Leriche). Nel 3° stadio il sintomo caratterizzante è il dolore ischemico a riposo. Le AOAI ad insorgenza acuta esordiscono frequentemente con un quadro clinico al 3° stadio. Il paziente riferisce un dolore pressoché continuo, che insorge o si esacerba durante il riposo notturno, costringendolo ad alzarsi e a muovere qualche o; infatti, la posizione ortostatica fa elevare per gravità la pressione idrostatica e muta la condizione ischemica del distretto interessato da assoluta a relativa. Nel 3° stadio avanzato il decubito si fa obbligato e il riposo a letto senza dolore è possibile solo con l’arto ischemico in posizione declive fuori dal letto. Infine, quando la sintomatologia persiste senza modificarsi per oltre 15 giorni, ci troviamo nella situazione clinica dell’ischemia critica. Il 4° stadio dell’AOAI cronica è caratterizzato dalla presenza di lesioni trofiche. Esse possono essere parcellari, come le ulcerazioni, per lo più localizzate sulle aree di maggior sollecitazione meccanica (vallo periungueale, tallone) oestese, come le gangrene, nelle due varianti umida e secca, talvolta complicate da sovrapposizioni batteriche (gangrena gassosa). DIAGNOSI È relativamente semplice nel 2°, 3° e 4° stadio; è essenzialmente strumentale nel 1° stadio. L’AOAI iniziale andrebbe sospettata e ricercata nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare come fumo, ipercolesterolemia, diabete mellito e ipertensione, soprattutto se associati tra loro. La peculiarità dei sintomi e segni che accompagnano il 2° stadio rende sufficientemente agevole la diagnosi. D’altra parte, per quanto la claudicazione intermittente sia un sintomo estremamente caratteristico, essa può essere presente, anche se in modo meno costante e tipico, in altre condizioni cliniche, quali la compressione di radici nervose per ernia discale o l’artrosi anca/ginocchio/caviglia. Peraltro, nelle patologie non ischemiche il dolore non presenta la ripetibilità tipica delle AOAI, ma è più incostante. Inoltre, può essere presente già a riposo e si esaurisce non con l’interruzione della marcia, ma assumendo determinate posizioni. L’ipotesi clinica formulata con anamnesi ed esame obiettivo deve essere confermata con alcuni semplici test strumentali. Il più impiegato è l’indice pressorio caviglia/braccio (indice di Winsor). Esso si calcola misurando la pressione arteriosa sistolica brachiale con uno sfigmomanometro e quella alla caviglia con una cuffia pneumatica ed un apparecchio Doppler CW (vedi Capitolo 12). Nei soggetti sani, la pressione alla caviglia risulta di 10-15 mm Hg più elevata di quella brachiale, determinando un indice pressorio >1. Questo semplice rilievo, oltre che confermare la presenza dell’AOAI e di determinarne lo stadio di evoluzione, consente di apprezzare l’efficacia della terapia nel tempo. Un indice di 0.9 possiede una sensibilità del 79% ed una specificità del 96% nel riconoscere una stenosi =50%.
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Un test da sforzo al treill può essere utilizzato per differenziare la claudicazione ischemica da altre sindromi, quantificare l’autonomia funzionale del paziente e prescrivere un programma di riabilitazione fisica individualizzato. L’ecocolordoppler (vedi Capitolo 12) è la tecnica di imaging di elezione per lo studio accurato delle AOAI. Essa è in grado di precisare, con elevata sensibilità (97%) e specificità (86%) la sede, unica o multipla, di occlusione o stenosi arteriosa. L’ecografia bidimensionale consente una dettagliata analisi morfologica della parete arteriosa, differenziando la forma aterosclerotica da quella arteritica e identificando le lesioni aterosclerotiche a maggior rischio tromboembolico. Il color-Doppler consente di stabilire con grande precisione il grado della stenosi e l’entità del deficit di flusso nel circolo a valle. L’arteriografia trova attualmente indicazione solo nello studio di casi particolari, quali malformazioni vascolari o in associazione con terapie maggiori e tecniche invasive (trombolisi loco-regionale ed angioplastica percutanea, con o senza posizionamento di stent). È opportuno che nel paziente con AOAI aterosclerotica l’indagine sia estesa ad altri distretti, in specie quello coronarico, per la frequente associazione con la cardiopatia ischemica CENNI DI TERAPIA Il trattamento di questa malattia è indirizzato a: 1) controllare la progressione della malattia aterosclerotica; 2) migliorare la qualità di vita dei pazienti (incremento dell’autonomia di marcia); 3) prevenire le amputazioni degli arti interessati dalla malattia. La terapia dei pazienti con AOAI può essere farmacologica, interventistica o chirurgica (vedi Capitolo 68), con eventuale associazione dei diversi trattamenti. La scelta tra queste strategie dipende soprattutto dal grado di compromissione determinato dall’arteriopatia. Quando l’AOAI è riconosciuta al 1° stadio, il suo trattamento è esclusivamente medico e si fonda sulla correzione dei fattori di rischio per l’aterosclerosi e sulla terapia antiaggregante piastrinica (aspirina). In presenza di diabete mellito, è consigliabile un controllo particolarmente attento della glicemia e dei valori pressori. In caso di ipertensione arteriosa, le classi di farmaci che si dimostrano più efficaci nel favorire il controllo della progressione dell’AOAI sono gli ACE-inibitori e i Ca -antagonisti. Una dislipidemia imporrà l’utilizzo di ipolipemizzanti, come le statine. Nel 2° stadio di malattia, i farmaci da utilizzare, oltre quelli descritti per il 1° stadio, sono quelli che migliorino le qualità emoreologiche del sangue (pentossifillina) o il metabolismo muscolare (levo-propionil-carnitina). I prostanoidi (PGI2 e PGE1), molto efficaci nel migliorare l’autonomia di marcia, sono di esclusivo utilizzo ospedaliero. Questi farmaci, non privi di effetti collaterali spiacevoli, trovano maggiore indicazione negli stadi successivi dell’AOAI. La terapia interventistica, attuata con angioplastica percutanea, con o senza posizionamento di stent, è indicata nei casi con stenosi arteriose isolate e con restante circolo in buone condizioni. La terapia chirurgica è limitata agli stadi 3° e 4° dell’AOAI o ai casi del 2° stadio B che si dimostrino rapidamente evolutivi verso gli stadi successivi (vedi Capitolo 68).
Capitolo 56 ANEURISMI E ANEURISMA DISSECANTE sco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada DEFINIZIONE L’aneurisma è una dilatazione localizzata permanente di un’arteria. Nel caso di interessamento dell’aorta si parla di aneurisma se si verifica un aumento del diametro di almeno il 50% rispetto a quello normale del vaso. Laclassificazione degli aneurismi aortici è cruciale per formulare una diagnosi corretta e pianificare il trattamento. Essa si basa sulla forma (fusiforme se coinvolge l’intera circonferenza del vaso, sacciforme se solo una parte risulta dilatata), sulle dimensioni (macroaneurisma e microaneurisma), sulla struttura (vero o falso) e sulla eziologia (gli aneurismi possono essere la conseguenza di un processo congenito, degenerativo, infettivo, infiammatorio omeccanico-traumatico). Particolare importanza riveste poi l’individuazione della sede. Sulla base della localizzazione, infatti, gli aneurismi aortici si distinguono in toracici, toraco-addominali ed addominali (Figura 1). EZIOLOGIA Dal punto di vista eziologico, la causa più frequente è quella degenerativa, visto che l’aterosclerosi è responsabile del 90% degli aneurismi aortici. Il processo aterosclerotico (vedi Capitolo 46), che induce nella parete arteriosa la formazione di placche fibrose o ateromatose, può creare un’atrofia della tonaca media che a sua volta esita in indebolimento della parete, con conseguente ectasia e dilatazione aneurismatica. Tra le cause congenite si distinguono quelle idiopatiche da quelle dovute a un difetto del tessuto connettivo, come la sindrome di Marfan o a quella di Ehlers-Danlos. Tra quelle infettive distinguiamo le forme micotiche, sifilitiche e tubercolari; gli aneurismi che ne derivano vengono classificati come falsi o pseudoaneurismi, in quanto sono conseguenti alla rottura del vaso con formazione di un ematoma delimitato da tessuto connettivo periavventiziale, che risulta connesso al lume originario attraverso un orifizio a livello del punto di rottura. Infine, tra le cause infiammatorie
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sono la malattia di Takayasu, l’arterite a cellule giganti, la malattia di Behcet, la poliarterite nodosa e il lupus eritematoso sistemico. PATOGENESI Dal punto di vista patogenetico, vi sono due fattori comuni a tutte le forme aneurismatiche: la debolezza strutturale e la forza meccanica che, insieme alle cause specifiche per ciascuna forma (deficit genetico del tessuto connettivo, infezione, infiammazione, traumi), contribuiscono alla genesi e alla progressione degli aneurismi. Si suppone che il cedimento strutturale del vaso sia conseguente alla disgregazione del collagene (alla cui composizione concorre in maniera preponderante la presenza di elastina) contenuto nell’avventizia aortica. La predisposizione del tratto addominale dell’aorta a subire questa patologia dilatativa è dovuta a una ridotta presenza di lamelle elastiche nel contesto del tessuto connettivo avventiziale, che comporterebbe la diminuita elasticità del vaso. A ciò si aggiunge il fatto che i vasi nutritivi della parete arteriosa, i vasa vasorum, sono quasi del tutto assenti a livello dell’aorta sottorenale. Questi dati anatomici possono predisporre alla degenerazione aneurismatica il tratto sottorenale dell’aorta, se esposto a fattori locali o sistemici sfavorevoli, come accade in presenza di una patologia aterosclerotica. Lo sviluppo dell’aneurisma, a sua volta, provoca localmente stasi di sangue che, unitamente al danno intimale, favorisce il deposito di trombi e quindi l’ulteriore indebolimento della parete arteriosa. L’assottigliamento della parete che ne deriva, accompagnato a progressiva dilatazione, comporta una riduzione della resistenza, favorendo l’ulteriore dilatazione. Applicando la legge di Laplace, che mette in correlazione la tensione parietale con il raggio del vaso e la pressione transmurale, si può affermare che per una data pressione transmurale, la tensione parietale è direttamente correlata al raggio, per cui all’aumentare del diametro del vaso si assiste a un incremento della tensione esercitata sulla parete arteriosa e quindi ad una ulteriore tendenza alla dilatazione. SINTOMI E SEGNI CLINICI Esistono manifestazioni sintomatologiche e segni clinici comuni per tutte le forme aneurismatiche e altre specifiche a seconda del distretto interessato. Il sintomo principe di ogni malattia, il dolore, varia la sua localizzazione che può essere toracica, addominale o posteriore con localizzazione lombare e/o dorsale. La compressione da parte dell’aneurisma su strutture contigue può comportare, nel caso di un aneurisma a localizzazione addominale, disturbi gastrointestinali quali nausea, perdita di peso o ittero. In caso di erosione duodenale si può assistere a sanguinamento intermittente o ad emorragia massiva. Possono essere presenti sintomi correlati all’apparato urinario in caso di compressione ureterale. Se, invece, la compressione avviene a livello di strutture poste nella cavità toracica come la trachea o i bronchi possono manifestarsi dispnea e tosse. L’erosione del parenchima polmonare o delle vie aeree può provocare emottisi, e l’erosione dell’esofago disfagia od ematemesi. La trazione del nervo vago a livello dell’arco aortico può provocare paralisi del nervo laringeo ricorrente, con raucedine. Sono comuni l’embolizzazione distale di trombo o di frammenti ateromasici e la graduale ostruzione e trombosi dei rami viscerali e delle arterie degli arti inferiori. Circa tre quarti dei pazienti portatori dell’aneurisma aortico più comune, quello addominale, sono asintomatici al momento della diagnosi, che viene generalmente effettuata in seguito al riscontro di una massa pulsante addominale o come rilievo occasionale in corso di altre indagini. Un vago e discontinuo dolore addominale è spesso presente, ma questo diventa costante e importante solo quando, in seguito a una rapida espansione dell’aneurisma, si verifica uno stiramento del sovrastante peritoneo. In questo caso la palpazione in sede epigastrica accentua la dolenzia che si può anche irradiare posteriormente in sede lombo-dorsale. Lo shock è conseguenza di una fissurazione o di una franca rottura aneurismatica. L’esame clinico può evidenziare una pulsazione addominale patologica sia all’ispezione, in particolar modo se il soggetto è magro, che alla palpazione, che permette di individuare la massa pulsante in sede epigastrica. Talvolta l’aneurisma si accompagna a un soffio addominale. DIAGNOSI STRUMENTALE L’ecografia rappresenta l’esame di primo livello in caso di sospetto aneurisma aortico. Per l’aneurisma toracico, la metodica diagnostica è l’ecocardiografia transesofagea, mentre nel caso di localizzazione addominale si esegue più semplicemente un esame ecografico con metodica Doppler o color-Doppler che, oltre a visualizzare e a permettere di misurare con accuratezza la dilatazione vasale fornisce informazioni sul flusso e consente di distinguere il lume canalizzato dal trombo parietale e di visualizzare con accuratezza l’origine dei vasi che nascono dall’aorta. E’ possibile ottenere delle informazioni, seppur parziali, anche da una radiografia, che sia a livello toracico che addominale può mostrare uno slargamento dell’immagine del vaso sottolineata dalle calcificazioni della parete. L’aortografia ha il limite di valutare solo il lume pervio dell’aorta. L’esame imprescindibile in previsione di un intervento chirurgico è rappresentato dalla TC, in particolar modo con mezzo di contrasto (Angio-TC) (Figura 2,Figura 3), che analizza la parete aortica, il lume ed i rami emergenti. Le nuove metodiche TC permettono anche una ricostruzione tridimensionale dell’intera estensione aortica (Figura 3). TERAPIA CHIRURGICA
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Le indicazioni al trattamento chirurgico degli aneurismi, sia toracici che addominali, hanno parametri di riferimento comuni che possono indirizzare alla scelta chirurgica e all’eventuale strategia da adottare. Essi sono: il rischio operatorio, dipendente dalle condizioni cliniche del paziente, il rischio di rottura che si basa sull’eziologia, sul diametro e sulla morfologia dell’aneurisma, e l’eventuale presenza di sintomi o complicanze correlate. Per quanto riguarda il rischio operatorio, i fattori prognostici negativi sono costituiti dall’età avanzata e dalla presenza di patologie associate a livello cardiaco, polmonare e renale. Il rischio di rottura è maggiore per aneurismi sacciformi, poiché anche se piccoli questi sottendono una debolezza localizzata della parete aortica, o per aneurismi con trombo endoluminale eccentrico e con parete sottile o con estroflessioni sacciformi (blisters). Convenzionalmente, per gli aneurismi toracici che non presentano le caratteristiche precedentemente elencate e in presenza di una buona aspettativa di vita, l’indicazione al trattamento è costituita da un diametro superiore a 5,5 cm: numerosi studi dimostrano che al di sotto di questo valore il rischio di rottura è circa l’1%. Per quanto riguarda gli aneurismi addominali, un diametro superiore a 5 cm comporta un rischio di rottura compreso tra il 25 e il 40% a 5 anni, mentre per diametri minori i rischi sono compresi tra il 2 e il 10%. Altra indicazione al trattamento chirurgico per diametri inferiori a quelli sopra espressi è, per entrambi i tipi di aneurismi, è la crescita uguale o superiore a 1 centimetro per anno. La scelta di quale strategia adottare, tra tecnica a cielo aperto e tecnica endovascolare, dipende sia dalla aspettativa di vita e dalle condizioni cliniche, che dall’anatomia dell’aorta e della sua biforcazione. Nel caso di tecnica chirurgica tradizionale a cielo aperto, ulteriori parametri che possono indirizzare la scelta sono la conformazione del paziente, l’estensione della malattia aneurismatica e la presenza di complicanze. Le tecniche chirurgiche sono rappresentate dalla metodica tradizionale a cielo aperto e da quelle mininvasive (minilaparotomica nel caso di aneurismi addominali, laparoscopica, endovascolare). Nel caso di tecnica tradizionale la via d’accesso maggiormente praticata in caso di aneurismi toracici è rappresentata dalla toracotomia posterolaterale sinistra, mentre nel caso di aneurismi addominali le possibili scelte del tipo di approccio sono essenzialmente due: trans-peritoneale o retro-peritoneale. L’intervento più praticato consiste nella sostituzione del tratto aneurismatico mediante un innesto protesico (Dacron o Goretex) (Figura 4). Nel caso di aneurismi dell’aorta toracica, un elemento molto importante è rappresentato dalla protezione degli organi nobili (midollo spinale e reni) durante il periodo di clampaggio. In alternativa, si può ricorrere all’arresto cardiocircolatorio in ipotermia profonda, che presenta due vantaggi principali: quello di lavorare in un campo operatorio completamente esangue e quello di assicurare una protezione efficace contro l’ischemia. La tecnica minilaparotomica deriva direttamente dalla chirurgia classica e si limita a una incisione mediana ridotta (6-10 cm) sfruttando divaricatori autostatici e clamp aortici posizionati all’esterno dell’incisione. Alcune varianti comprendono l’accesso retroperitoneale, l’incisione trasversale o l’utilizzo di clamp particolari costituiti da un corpo malleabile che minimizza l’ingombro dei clamp tradizionali. I vantaggi ottenuti con la tecnica miniinvasiva sono la diminuzione della morbilità, della mortalità, della durata della degenza e conseguentemente dei costi. La tecnica laparoscopica può essere totalmente eseguita in laparoscopia o, nel caso di aneurismi addominali, anche con tecnica video-assisted (due tempi operatori: uno laparoscopico e uno tradizionale). La tecnica totalmente laparoscopica presenta i vantaggi della chirurgia a cielo aperto coma la visione tridimensionale del campo operatorio e l’impiego degli strumenti convenzionali (modificati per laparoscopia). Le problematiche maggiori poste da questa tecnica sono rappresentate dai tempi operatori piuttosto lunghi per la difficoltà nell’eseguire anastomosi vascolari con tecnica laparoscopica. Per ovviare a ciò, recentemente è stata introdotta la tecnica robot-assisted. La tecnica endovascolare (Figura 5, Figura 6) prevede il posizionamento di una endoprotesi o di uno stent autoespandibile ricoperto da materiale protesico di Dacron o di Goretex attraverso un accesso chirurgico inguinale (bilaterale o anche semplicemente percutaneo in caso di aneurismi addominali). I vantaggi di questa tecnica sono rappresentati dalla ridotta invasività, inferiore a qualsiasi altra tecnica, che risulta vantaggiosissima in caso di rottura aneurismatica. I limiti sono rappresentati dalla applicabilità condizionata dalle condizioni anatomiche favorevoli (appropriati siti di ancoraggio prossimale e distale, contenuta tortuosità dell’aorta, etc.). Ciascuna di queste tecniche presenta delle complicanze che possono essere comuni o specifiche. Quelle comuni sono l’infezione (particolarmente nelle metodiche a cielo aperto), l’occlusione, l’embolizzazione distale, l’ischemia (midollare se la sede è toracica, intestinale se è addominale). Le complicanze specifiche per ciascuna tecnica sono rappresentate, nel caso di tecniche a cielo aperto, dall’ipotensione post-declampaggio, da fistole tra la protesi e gli organi contigui, da lesioni a carico di strutture viciniori e dalla formazione di falsi aneurismi. Nel caso di tecniche laparoscopiche, il problema principale è la scarsa affidabilità in termini di tenuta e di pervietà delle anastomosi se non opportunamente confezionate. Nel caso di tecnica endovascolare le complicanze sono: la possibilità di rottura dell’endoprotesi (1% circa), il rischio di migrazione (1% circa), l’impossibilità di eseguire la metodica con necessità di conversione in intervento chirurgico tradizionale (1-2% circa), e soprattutto gli endoleak (fenomeni che comportano una imperfetta esclusione dell’aneurisma dal circolo aortico e che determinano quindi un rifornimento della sacca aneurismatica; questi problemi insorgono in una percentuale che oscilla attorno al 2530%. SINDROME AORTICA ACUTA
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La sindrome aortica acuta può insorgere per rottura aneurismatica, dissezione aortica, ulcera penetrante, ematoma intramurale o lesioni traumatiche (penetranti o contusive). In questi casi ci si trova davanti a una condizione di emergenza chirurgica gravata da un alto tasso di complicanze. L’evenienza più frequente è la rottura dell’aneurisma, che presenta una mortalità operatoria del 50% circa; la mortalità, tuttavia, aumenta a oltre il 90% se si prende in considerazione anche il decesso che avviene prima dell’arrivo in ospedale. Il forte dolore toracico o addominale con irradiazione posteriore, accompagnato da shock, indirizza verso la diagnosi di rottura. La terapia chirurgica è volta ad arrestare il sanguinamento e a ripristinare la continuità aortica. Il successo della procedura è strettamente condizionato dal tipo di rottura (libera o tamponata), dallo stato emodinamico del paziente e dalla possibilità di un rapido controllo del sanguinamento della lesione aortica quando il paziente si presenta instabile per un’emorragia attiva. Il trattamento si avvale delle due opzione terapeutiche già descritte: la terapia convenzionale o quella endovascolare. La morbilità legata all’esposizione chirurgica e al clampaggio aortico sempre toracico, o comunque sopra-renale, anche in caso di aneurismi addominali, rende in particolari condizioni vantaggioso l’approccio endovascolare, che risulta efficace e sicuro anche in condizioni anatomiche favorevoli. DISSEZIONE AORTICA La dissezione aortica, in precedenza definita come aneurisma dissecante, è la condizione in cui il sangue penetra nella parete aortica attraverso una lacerazione intimale, e si fa strada all’interno della tonaca media, creando un “falso lume”. La dissezione della media può estendersi per un lungo tratto (anche per tutta l’aorta) e interessare i rami che nascono dall’aorta; in diversi casi il sangue che riempie il falso lume torna poi nel lume vero attraverso una breccia distale. Dal punto di vista anatomo-patologico, questa lesione dell’aorta è uno pseudoaneurisma, perché l’intima (il lume vero) non è realmente aneurismatica, ma la dilatazione del falso lume (che di solito è il più ampio dei due lumi) dà luogo a un allargamento dell’aorta al di là delle sue dimensioni normali, per cui è stato attribuito a questa condizione il termine di “aneurisma”. Esistono due sistemi di classificazione quello di Standford e quello di DeBakey (Figura 7): se è interessata l’aorta ascendente, l’arco dell’aorta e l’aorta discendente si parla di tipo A secondo Stanford, che corrisponde al tipo I e II di DeBakey . Se l’aorta ascendente non è interessata si parla di tipo B di Stanford, che corrisponde al tipo III di DeBakey. La lesione anatomo-patologica tipica riscontrata nei pazienti con dissezione aortica acuta di tipo B (che sono di solito anziani e spesso ipertesi) è la degenerazione muscolare liscia all’interno della tonaca media. Nei pazienti con dissezione di tipo A, che sono in genere più giovani, si assiste invece a un’alterazione congenita del tessuto connettivo della tonaca media dell’aorta (medionecrosi cistica) con conseguente degenerazione del tessuto elastico. Quadro clinico. Le dissezioni aortiche diagnosticate entro due settimane dall’inizio del dolore o degli altri sintomi d’esordio vengono classificate come acute, mentre quelle diagnosticate più tardivamente sono definite croniche. Il sintomo più comune è un fortissimo e lancinante dolore toracico anteriore o posteriore, interscapolare, dovuto allo stiramento dell’avventizia aortica da parte dell’ematoma dissecante. La migrazione del dolore fa pensare che la dissezione si stia espandendo o estendendo. Si può anche manifestare un quadro di shock (per rottura intrapericardica dell’aorta con tamponamento cardiaco o per rottura intra-toracica con sanguinamento). L’esordio può avvenire, sebbene di rado, con un quadro di infarto miocardico causato da dissezione coronarica. L’ampia costellazione di sintomi e segni concomitanti (ictus, paraplegia, ischemia degli arti superiori o inferiori, anuria, dolore addominale per ischemia renale o mesenterica) è correlata al coinvolgimento, da parte della dissezione, dei rami aortici distali e alla conseguente compromissione della perfusione dei diversi organi irrorati da tali rami. Il dolore toracico va distinto da quello di tutte le altre malattie, cardiovascolari e non, che possono essere responsabili di questo sintomo: infarto miocardico, pericardite, embolia polmonare, pneumotorace, malattie dell’esofago, affezioni ossee, nevralgie, etc. A parte i casi non frequenti di dissezione coronarica e correlato infarto miocardico, l’Elettrocardiogramma e il dosaggio dei marker di necrosi miocardica sono normali nei pazienti con dissezione aortica, permettendo una immediata esclusione della cardiopatia ischemica. In una percentuale non minima dei casi l’ascoltazione del cuore rivela un’insufficienza aortica massiva, prima assente, provocata dalla dilatazione della radice aortica, con mancato collabimento delle cuspidi valvolari in diastole. La diagnostica strumentale si avvale dell’ecocardiografia transtoracica, ma soprattutto di quella transesofagea (ECO 22) e della TC con mezzo di contrasto (Figura 8). Nella dissezione acuta di tipo A, il primo obiettivo terapeutico è rappresentato, in attesa dell’intervento chirurgico, daltrattamento dell’ipertensione, per prevenire la rottura dell’aorta nel pericardio o nello spazio pleurico, ed evitare il coinvolgimento degli osti coronarici o della valvola aortica o il danno irreversibile multiorgano. L’intervento chirurgico consiste nella sostituzione protesica dell’aorta ascendente e della parte prossimale dell’arco. Nel caso di dissezione acuta di tipo B spesso si preferisce la terapia medica, mentre l’intervento chirurgico viene riservato a pazienti giovani, a basso rischio, con dissezione non complicata, allo scopo di prevenire una rottura, e
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consiste nella sostituzione protesica del segmento di aorta toracica discendente che contiene le lesioni più gravi. Nella dissezione cronica, sia di tipo A che B, l’indicazione chirurgica tiene presente che i fattori di rischio più frequenti per una rottura aortica sono il diametro aortico, l’eccentricità della dilatazione e una rapida espansione (maggiore di 1 cm per anno). Pertanto, si pone indicazione all’intervento chirurgico in caso di dilatazione dell’aorta ascendente superiore a 5,5 cm oppure pari a 5 cm, quando coesistano patologie del tessuto connettivo, specialmente la Sindrome di Marfan, o in caso di dilatazione dell’aorta discendente superiori o pari a 6 cm o più, o se è presente una familiarità per connettivopatie. L’approccio endovascolare prevede l’impianto di una endoprotesi a copertura della dissezione prossimale per ripristinare il flusso ematico nel lume vero compresso. La procedura, che prevede l’eventuale stenting del flap intimale in caso di malperfusione d’organo, si pratica soprattutto nei casi di dissezioni di tipo B non complicate. L’ULCERA PENETRANTE AORTICA consiste in una lesione della lamina elastica interna da parte di un processo ateromatoso che si estende sino alla tonaca media. La sua evoluzione naturale è rappresentata dall’ematoma intramurale, dalla dissezione o dallo pseudoaneurisma, con conseguente possibile rottura vasale. Il suo riscontro occasionale non implica necessariamente il trattamento, che si rende invece necessario in caso di sintomatologia o di rapida progressione. La metodica terapeutica maggiormente indicata è rappresentata dal trattamento endovascolare atto a escludere la lesione.
Capitolo 57 MALATTIE DELLE VENE Marco Matteo Ciccone CENNI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLE VENE Nella circolazione venosa esistono due distretti, quello profondo e quello superficiale: questi lavorano sinergicamente, ma hanno differenti funzioni. La circolazione superficiale porta il sangue dal microcircolo cutaneo o viscerale al circolo venoso profondo e questo convoglia il sangue all’atrio destro. Le caratteristiche della circolazione venosa variano da un distretto all’altro; negli arti inferiori, per esempio, si distinguono (Figura 1): a) Vene profonde in continuità con l’atrio destro, satelliti delle arterie omonime, con decorso al di sotto delle aponeurosi (R1). b) Vene superficiali tronculari affluenti del circolo venoso profondo con decorso sottocutaneo al di sopra delle aponeurosi muscolari (R2). c) Vene superficiali comunicanti, che sono vasi sopra-aponeurotici di connessione tra vene superficiali tronculari (R3). d) Vene perforanti, ovvero vasi di connessione tra circolo venoso profondo e superficiale, che perforano le aponevrosi ed in condizioni normali dirigono il sangue dal circolo superficiale al profondo (R4). Le vene sono da considerare, da un punto di vista idraulico, come dei tubi compressibili a basso regime pressorio, nei quali si genera pressione quando aumenta il volume del liquido in essi contenuto. L’ingresso del sangue nelle vene genera una tensione che, data la presenza di valvole unidirezionali, determina la progressione del sangue verso l’atrio destro. La pressione intratoracica contribuisce a determinare il ritorno venoso, e quando diventa negativa, come nell’inspirazione profonda, produce un effetto di suzione che facilita il ritorno venoso. Questo fenomeno riguarda particolarmente le vene profonde, che sono caratterizzate da un flusso continuo, modulato dagli atti del respiro. Classificazione delle malattie delle vene La classificazione anatomica prevede due gruppi di flebopatie: quello delle vene superficiali e quello delle vene profonde; la classificazione fisiopatologica, invece, è basata su tre gruppi nosografici: flebopatie ectasianti, flebopatie obliteranti e/o flogistiche, e flebopatie funzionali. MALATTIE DELLE VENE SUPERFICIALI Le malattie delle vene superficiali hanno come sintomi: senso di pesantezza a volte associato a dolore, stanchezza alle gambe o tensione dopo prolungata stazione eretta, crampi a riposo, prurito ed edema malleolare serotino. Si riconoscono le seguenti forme: Flebopatia ipotonica o malattia delle commesse E’ caratterizzata da da sintomatologia flebostatica (senso di pesantezza ed edemi bilaterali serotini degli arti inferiori) senza segni strumentali di insufficienza venosa né di ipertensione venosa superficiale. La patogenesi è da attribuire ad ipotonia parietale venosa. Flebostasi costituzionale
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Ha come elemento fondamentale l’acroipotermia (estremità fredde); il sottocute ha un aspetto similmixedematoso, ed i quadri clinici più frequenti sono l'eritrocianosi declive tipo rusticanus, la cianosi lipomatosa ed il lipedemacellulitico. Altre flebopatie funzionali sono: L’acrocianosi, caratterizzata da cianosi ed ipotermia a livello delle estremità. L’eritrocianosi, nella quale si manifesta cianosi in regione malleolare. La livaedo, in cui compaiono alterazioni del colorito cutaneo simili ai lividi che si osservano dopo esposizione al freddo. Si presenta in tre forme cliniche: anularis, reticularis e pigmentata. Flebite superficiale (non trombotica) E’ caratterizzata dall'improvvisa comparsa di dolore, rossore e calore sul territorio di una vena superficiale. Può risolversi spontaneamente entro una settimana o evolvere in flebotrombosi; frequentemente recidiva. Malattia varicosa Le varici sono dilatazioni e tortuosità permanenti delle vene superficiali; possono essere tronculari principali se interessano gli assi safenici, o tronculari collaterali se interessano collaterali safeniche. Si distinguono varicicongenite o angiodisplasiche, che compaiono più spesso entro la seconda decade di vita, caratterizzate da spiccata tortuosità segmentaria dei vasi venosi, e varici primitive o essenziali, che interessano le vene in tutto il loro decorso, sono quasi sempre familiari e riconoscono fattori facilitanti fra cui l'obesità, l'ortostatismo, la stipsi, la gravidanza. Le varici secondarie si sviluppano a seguito di una trombosi venosa profonda, e rappresentano un circolo di supplenza; in questa situazione le vene appaiono ectasiche ma senza tortuosità. Tromboflebite superficiale E’ caratterizzata da dolore, rossore e calore lungo il decorso di una vena superficiale. Alla palpazione, la vena ha l'aspetto di un cordone, e le indagini strumentali dimostrano una trombosi parziale o totale della vena. Rare sono le complicanze tromboemboliche. Insufficienza venosa superficiale cronica In questa situazione è presente una disfunzione cronica del circolo venoso superficiale, espressa da insufficienza venosa, ipertensione venosa, stasi ed ulcere flebostatiche. Ulcere Flebostatiche. Rappresentano l'80% di tutte le ulcere degli arti, e sono provocate dall'ipertensione venosa. Le ulcerazioni possono interessare i piani muscolari, hanno sede paramalleolare e sono sensibili all'elastocompressione ed alla terapia eparinica ed antibiotica topica. MALATTIE DELLE VENE PROFONDE TROMBOEMBOLISMO VENOSO Si definisce "malattia tromboembolica venosa" la condizione in cui si realizza una patologia trombotica a carico del circolo venoso profondo, associata o meno ad embolia polmonare. Si riconoscono i quattro seguenti quadri clinici :
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Trombosi venosa profonda o flebotrombosi Embolia polmonare Sindrome venosa post-trombotica Ipertensione arteriosa polmonare secondaria a tromboembolismo.
Le prime due forme sono acute, le ultime due croniche. L’embolia polmonare e l’ipertensione arteriosa polmonare conseguente a tromboembolismo venoso vengono trattate rispettivamente nel Capitolo 50 e nel Capitolo 51. Trombosi venosa profonda E’ la condizione in cui si forma un trombo occludente o parzialmente occludente il lume di una vena profonda. Spesso la malattia ha come evoluzione la sindrome post-trombotica (SPT), nella quale si verifica la devalvulazione del sistema venoso profondo, cui consegue l’insufficienza venosa. Epidemiologia. La reale incidenza della malattia tromboembolica venosa nella popolazione generale è difficile da determinare, perché la maggior parte delle informazioni riguarda pazienti ospedalizzati. In uno studio condotto in 16 ospedali americani, l'incidenza annuale è stata di 48 episodi di trombosi venosa profonda (TVP) e 23 di embolia polmonare (EP) per 100.000 abitanti, con una mortalità ospedaliera del 12%.
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Eziologia. Il rallentamento della circolazione venosa è il presupposto fondamentale per la formazione del trombo. Sono le vene profonde della sura, della coscia e dell'asse ileo-femorale le sedi da cui più frequentemente si distaccano gli emboli, mentre raramente questi provengono dalle vene superficiali delle gambe o dalle vene profonde degli arti superiori. Quadro clinico. Il paziente affetto da trombosi venosa profonda può essere asintomatico o presentare, in relazione all'entità dell'ostruzione ed al segmento venoso interessato, uno o più dei seguenti sintomi e segni clinici: tensione dolorosa all'arto, dolore intenso e crampiforme che si accentua con il movimento, dolore alla dorsiflessione del piede (segno di Homans), dolorabilità in seguito alla compressione dei muscoli, perchè la flogosi attiva i nocicettori della parete vasale. L'ostruzione venosa, inoltre, provoca ipertensione venosa locale, e quindi edema caratteristicamente associato a fovea. Tra i segni obiettivi più affidabili è l'aumentata circonferenza dell'arto interessato rispetto al controlaterale; altri segni clinici sono l'ipertermia ed il rossore, provocati dalla flogosi venosa locale e dall'aumento del flusso venoso superficiale. La cute può presentare discromia, o può essere cianotica a causa dell'ipossia. Nella trombosi ileo-femorale si può realizzare il quadro clinico della phlegmasia cerulea dolens, della gangrena venosa o della phlegmasia alba dolens (cute pallida ed ipotermica, polsi iposfigmici per vasocostrizione arteriolare). La trombosi venosa profonda può risolversi con restitutio ad integrum, oppure esitare nella sindrome post-trombotica con insufficienza venosa cronica. Nelle vene degli arti inferiori, in cui l'innervazione simpatica è scarsa, diversamente che nelle vene cutanee e splancniche, ed il flusso venoso anterogrado è garantito dalla pompa muscolare e dall'integrità delle valvole, il processo trombotico altera tali strutture ed il circolo venoso diviene incontinente. Diagnosi. La trombosi venosa profonda è sintomatica in meno del 50% dei soggetti. Quando presenti, i sintomi e segni clinici di questa affezione sono simili a quelli di numerose altre malattie (affezioni muscolo-tendinee, osteoarticolari, del circolo linfatico, affezioni cutanee, cisti poplitee), per cui la diagnosi è difficile. La flebografia è considerata la metodica di riferimento nella diagnosi di trombosi venosa profonda. La flebografia ascendente evidenzia difetti di riempimento del lume venoso, o interruzione brusca del mezzo di contrasto con presenza di circoli collaterali.Tra le indagini non invasive, l'Eco-Color-Doppler ha sensibilità e specificità analoghe alla flebografia Tra tutti gli esami di laboratorio proposti per la diagnosi di trombosi venosa profonda in fase acuta, il dosaggio del D-dimero si è rivelato particolarmente utile, anche per l’alto valore predittivo negativo nei confronti della trombosi venosa profonda. Sindrome venosa post trombotica Lo stato successivo a uno o più episodi di trombosi venosa profonda, caratterizzato da insufficienza venosa, ipertensione venosa, alterazioni cutanee (dermatite cianotica ed ulcere flebostatiche) prende il nome di sindrome post trombotica. Questa può evolvere clinicamente verso un flebedema persistente, che va trattato con elastocompressione, terapia fisica e terapia farmacologica. Farmaci che hanno dimostrato efficacia in tale condizione sono le eparine e gli anticoagulanti orali.
Sezione XVII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Cardiochirurgia Capitolo 62 CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREA Claudio Muneretto, Paolo Piccoli, Gianluigi Bisleri INTRODUZIONE La terapia chirurgica delle malattie cardiache è ostacolata da difficoltà di carattere tecnico legate alla necessità di vicariare la funzione cardio-polmonare per l’intervallo di tempo necessario all’esecuzione dell’intervento. Solo dopo l’acquisizione di nuove tecnologie nella manifattura di materiali plastici biocompatibili e lo sviluppo delle moderne tecniche anestesiologiche e chirurgiche, e dopo la scoperta dell’azione anticoagulante dell’eparina, ha potuto avere inizio l’evoluzione di efficaci tecniche di circolazione extra-corporea (CEC). La sperimentazione di sistemi pompa-ossigenatore risale all’inizio degli Anni ’30 quando John Gibbon (Figura 1) iniziò i primi lavori sperimentali al Massachusetts General Hospital di Boston; nel 1953 fu proprio Gibbon ad effettuare il primo intervento cardiochirurgico, la riparazione di un difetto interatriale, utilizzando una macchina cuore-polmone (Figura 2). Da allora il progresso tecnologico e l’acquisizione di conoscenze sempre più approfondite nell’ambito della risposta infiammatoria sistemica e del danno d’organo causati dalla CEC hanno consentito una progressivo miglioramento dei biomateriali e delle tecniche di by- cardio-polmonare (Figura 3). PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DELLA CEC La circolazione extra-corporea è basata sull’esclusione dal circolo del cuore e dei polmoni (by- cardiopolmonare) tramite la deviazione del ritorno venoso dalle sezioni destre del cuore ad un ossigenatore e quindi la re-immissione del sangue ossigenato nel circolo arterioso (Figura 4) .
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Durante la CEC il sangue, reso incoagulabile con eparina, scorre in un sistema di tubi in materiale plastico biocompatibile e viene quindi raccolto in un contenitore (cardiotomo o reservoir) da dove, spinto da una pompa, raggiunge il sistema ossigenatore/scambiatore di calore. L’arterializzazione del sangue venoso avviene nell’ossigenatore mediante diffusione di anidride carbonica e ossigeno, secondo gradienti di concentrazione, attraverso una membrana semipermeabile dell’ossigenatore stesso. Lo scambiatore di calore connesso con l’ossigenatore permette di regolare la temperatura del sangue per ottenere i diversi gradi di ipotermia necessari. Una volta ossigenato, il sangue viene reimmesso nell’organismo tramite una cannula inserita nel circolo arterioso ( aorta ascendente, a. femorale, o ascellare). Prima dell’apertura delle camere cardiache è necessario clampare l’aorta, cioè posizionare una particolare pinza, chiamata “clamp” in aorta ascendente in modo da isolare il cuore dalla circolazione arteriosa e di impedire il sanguinamento. Con il clampaggio dell’aorta si interrompe la circolazione coronarica e si realizza pertanto una condizione di ischemia miocardica completa. Appare pertanto necessario proteggere il cuore mediante infusione nelle coronarie di una soluzione denominata “cardioplegia” che ha lo scopo di raffreddare il miocardio a 10° C (riduzione del metabolismo basale) ed arrestarlo in diastole (riduzione del metabolismo funzionale) . “L’arresto diastolico cardioplegico” viene ottenuto con la somministrazione di elevate concentrazioni di potassio (20-25 mEq/l). La “protezione miocardica” indotta dalla cardioplegia consente, con ragionevole sicurezza, di eseguire clampaggi aortici anche prolungati (2 ore) durante i quali è possibile eseguire la totalità degli interventi cardiochirurgici. IL CIRCUITO Per veicolare il sangue all’esterno del sistema cardiocircolatorio del paziente vengono utilizzate delle cannule inserite rispettivamente nel sistema venoso ed arterioso del paziente. Esistono diversi schemi di cannulazione per circolazione extra-corporea (Figura 5): comunemente si utilizza per il drenaggio venoso una singola cannula a doppio stadio inserita in atrio destro attraverso l’auricola dirigendo la punta nella vena cava inferiore (Figura 5A), e per la linea arteriosa una cannula inserita in aorta ascendente o in arteria femorale. Negli interventi a carico della valvola mitrale o di strutture del cuore destro (valvola polmonare, tricuspide, setto interatriale), si utilizza uno schema di cannulazione che prevede l’inserimento di due cannule rispettivamente in vena cava superiore ed inferiore (Figura 5B). L’OSSIGENATORE L’ossigenatore è il componente più importante della macchina cuore-polmone, non soltanto perché regola la tensione dei gas presenti nel sangue, ma soprattutto poiché nell’ossigenatore vi è la maggior superficie di contatto tra sangue e materiale “artificiale non-self”: dalla membrana ossigenante si attivano gran parte delle reazioni infiammatorie caratteristiche della CEC. I moderni ossigenatori a membrana sono composti da un sistema di fibre cave al cui interno scorre la miscela gassosa ed intorno alle quali a il sangue. LO SCAMBIATORE CI CALORE E L’IPOTERMIA L’ipotermia viene utilizzata in cardiochirurgia per ridurre le richieste di ossigeno e quindi diminuire il rischio di danni da ipoperfusione sistemica durante la CEC. Per variare la temperatura dell’organismo si agisce raffreddando o riscaldando il sangue nel suo aggio all’interno dell’ossigenatore: all’interno di questo vi è un circuito separato in cui scorre acqua a temperatura controllata da una unità esterna (scambiatore di calore). Negli interventi di routine (by- aorto-coronarico, sostituzione valvolare, riparazione di cardiopatie congenite semplici) è desiderabile il raggiungimento di una temperatura intorno ai 28- 33°C (ipotermia moderata). Per l’esecuzione di interventi complessi che prevedano una fase di arresto del circolo (ad esempio, sostituzione dell’arco aortico) è necessario raggiungere temperature anche inferiori a 20° (ipotermia profonda). L’EMODILUIZIONE Prima dell’avvio della CEC il circuito viene riempito (priming) con una soluzione elettrolitica bilanciata. Una volta instaurata la circolazione extra-corporea tale soluzione viene a mescolarsi con il sangue del paziente creando un certo grado di emodiluizione. L’emodiluizione da un lato diminuisce la viscosità ematica con effetti positivi dal punto di vista reologico (minore emolisi, migliore per fusione capillare); dall’altro diminuisce la capacità di trasporto dell’ossigeno e riduce la pressione colloido-osmotica favorendo la trasudazione capillare. Oggi, si preferisce evitare l’eccessiva emodiluizione, e si tende a mantenere l’ematocrito a valori non inferiori ai 28-30% LA POMPA La funzione propulsiva dei ventricoli viene vicariata da una pompa. Il meccanismo più semplice ed efficace è costituito dalla cosiddetta pompa “roller” (Figura 6A): un rotore all’interno di un cilindro metallico comprime il tubo al cui interno a il sangue, generando forza propulsiva. Questo sistema è efficace, di semplice costruzione
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ed economico; tuttavia il traumatismo a carico delle emazie all’interno del tubo ad ogni giro del rotore determina un certo grado di emolisi. Per ovviare a questo problema sono state disegnate delle pompe che utilizzano la forza centrifuga come propulsore (Figura 6B,C); queste pompe determinano un ridotto effetto emolitico, ma risultano più costose e di complessa gestione. LA CARDIOPLEGIA Le soluzioni cardioplegiche (cristalloidi o ematiche) contengono una elevata concentrazione di potassio (8-20 mEq/L), magnesio ed una miscela di componenti (stabilizzatori di membrana, aminoacidi, elettroliti) volti a ridurre il danno ischemico e da riperfusione. L’infusione della cardioplegia avviene immediatamente dopo clampaggio aortico e successivamente ad intervalli di 20-30 minuti. L’arresto dell’attività meccanica e la riduzione del metabolismo basale dovuta all’ipotermia, riducono del 90-95% il consumo miocardico di ossigeno. Questo consente di intervenire per un intervallo di tempo di circa 2 ore, oltre il quale aumenta progressivamente il rischio di danno ischemico del cuore. DANNI DA CEC L’ assenza di flusso pulsatile, l’alterazione della perfusione distrettuale, la perdita dei riflessi baro e chemo-cettori, la riduzione della pressione colloido-osmotica plasmatica e la formazione di microemboli che si verificano durante la circolazione extra-corporea possono determinare un’alterazione dell’omeostasi ed una serie di danni d’organo. La continua esposizione del sangue a superfici non endotelizzate determina l’attivazione di una forma peculiare di infiammazione generalizzata (whole body inflammatory response) che coinvolge il sistema del complemento, i granulociti neutrofili, i monociti, le cellule endoteliali e, in misura minore, le piastrine ed i linfociti. L’attivazione di queste componenti ha come conseguenza la sintesi e secrezione di ingenti quantità di enzimi citolitici, citochine, radicali liberi e peptidi vasoattivi che partecipano attivamente al danno da ischemia/riperfusione. Le alterazioni della funzione renale dopo CEC (aumento della creatinina, riduzione filtrato glomerulare) sono in parte conseguenza della reazione infiammatoria generalizzata. La risposta infiammatoria insieme all’emodiluizione indotta da CEC è causa di un’aumentata permeabilità capillare con conseguente edema interstiziale generalizzato. Gli effetti negativi dell’edema interstiziale possono essere particolarmente evidenti nel parenchima polmonare dove causano una significativa riduzione della compliance. Esistono delle sottoclassi di pazienti con aumentato rischio di morbilità post-CEC rappresentate dai neonati e bambini al di sotto del 1° anno di vita, soggetti anziani o con scompenso cardiaco cronico. In queste sottoclassi di pazienti, un’esacerbata risposta infiammatoria e la coesistenza di patologie associate incrementano il rischio di complicanze post-CEC quali insufficienza renale e respiratoria, coagulopatie ed eventi neurologici. Tuttavia normalmente la CEC non causa una morbilità evidente dal punto di vista clinico ne complicanze di rilievo, ed è molto ben sopportata dalla grande maggioranza dei pazienti.
Capitolo 63 INTERVENTI SULLE VALVOLE CARDIACHE Luigi Chiariello, Carlo Bassano INTRODUZIONE La chirurgia delle valvole cardiache può essere di tipo sostitutivo, con protesi meccaniche o biologiche, (Figura 1) ovvero riparativo. La prima opzione viene scelta quando i lembi valvolari sono malati (sclerosi, calcificazione), mentre la seconda viene impiegata quando i lembi sono relativamente sani (per esempio, l’insufficienza aortica secondaria a patologia dell’aorta ascendente) oppure quando la malattia primitiva dei lembi consenta una chirurgia riparativa con “restitutio ad integrum” della funzionalità. LE PROTESI VALVOLARI Protesi biologiche Le protesi biologiche (Figura 2) si distinguono in:
•
eterologhe (valvola aortiche di suino, valvole con lembi in pericardio bovino o equino rese non
immunogene e conservate in soluzioni fissanti);
• •
omologhe (prelevate da cadavere, sterilizzate e utilizzate fresche o crioconservate); autologhe (valvola polmonare del paziente rimossa e impiegata in posizione aortica con contemporaneo
impianto di una protesi omologa in posizione polmonare).
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Le protesi eterologhe possono essere montate su una struttura portante (stent) che ne facilita l’impianto, oppure essere prive di sostegno (stentless, esclusivamente per la sede aortica); quelle omologhe e autologhe sono sempre stentless. Protesi meccaniche Le prime erano a dispositivo occludente (una sfera o un disco); in seguito sono state introdotte quelle a disco incernierato oscillante e più recentemente quelle a doppio emidisco, dotate di miglior rendimento meccanico (Figura 3). Sono tutte costituite da una struttura rigida di lega metallica (in genere carbonio pirolitico) di forma circolare, nel cui interno sono alloggiati dei sistemi di cerniera dove vengono ancorati gli elementi mobili e al cui esterno è fissato un ulteriore anello in tessuto attraverso il quale vengono ate le suture necessarie all’impianto. Vantaggi e svantaggi delle diverse protesi valvolari Le protesi biologiche hanno ottima biocompatibilità, non necessitano di profilassi antitrombotica e non sono rumorose; tuttavia vanno incontro a progressiva degenerazione strutturale (spesso determinata da calcificazione dei lembi) che ne comporta una durata mediana di circa 15 anni in pazienti di età avanzata (nei pazienti più giovani il tasso di deterioramento strutturale primitivo è maggiore, nei più anziani minore). Le valvole meccaniche sono anch’esse dotate di buona biocompatibilità in quanto costituite da componenti biologicamente inerti e non vanno praticamente mai incontro a deterioramento strutturale primitivo. Tuttavia necessitano di profilassi antitrombotica a vita, con conseguente rischio combinato di fenomeni tromboembolici e di emorragie dell’1-2%/anno/paziente. Modalità di disfunzione protesica Sono sostanzialmente di due tipi:
•
Deterioramento strutturale, cioè rottura o grave alterazione morfologica e meccanica degli elementi mobili
(lembi biologici o dischi).
•
Disfunzione non primitiva, cioè un processo patologico che non riguarda la protesi in sé, ma che
comunque ne limita la capacità funzionale, come la trombosi o la crescita di panno fibroso che ostacolano, fino a bloccare, i meccanismi di cerniera delle protesi meccaniche, le endocarditi (che possono provocare distacco protesico, perforazione dei lembi delle bioprotesi o crescita di vegetazioni ad alto rischio embolico) o le deiscenze anastomotiche.
SOSTITUZIONE VALVOLARE AORTICA Dopo aver instaurato il by cardiopolmonare e una volta ottenuto l’arresto cardioplegico, si esegue un’aortotomia trasversale e si espone la valvola nativa (Figura 4A). Si procede alla exeresi dei lembi e alla rimozione completa delle calcificazioni anulari eventualmente presenti, e si procede alla misurazione del diametro anulare per scegliere una protesi di dimensioni adeguate (Figura 4B). Punti staccati in poliestere vengono ati attraverso l’anulus nativo; tali suture possono essere semplici o doppie (ad “U”), rinforzate da pledgets in feltro di teflon per evitare che possano tranciare i tessuti (Figura 5). I capi liberi delle suture vengono quindi ati attraverso l’anello di sutura della protesi e infine annodati, solidarizzando l’anulus nativo alla protesi. In alternativa, la protesi può essere anche impiantata con una sutura continua in polipropilene. L’aortotomia viene infine chiusa con una sutura in polipropilene e il cuore deareato e riperfuso. Nel caso delle protesi stentless la procedura chirurgica è più complessa e prevede due linee di sutura: la prima del tutto analoga a quella precedentemente descritta per le bioprotesi stented e meccaniche, la seconda per ancorare la sezione distale della bioprotesi all’interno della parete aortica (Figura 6). SOSTITUZIONE VALVOLARE MITRALICA Instaurato il by cardiopolmonare e ottenuto l’arresto cardioplegico, per accedere all’atrio sinistro si utilizza in genere un’atriotomia sinistra anteriore allo sbocco delle vene polmonari destre. In alternativa si può incidere l’atrio destro e quindi il setto interatriale. Una volta esposta la mitrale (Figura 7A), si procede alla rimozione dei lembi (Figura 7B), avendo però cura di risparmiare parte dell’apparato di sostegno sottovalvolare (corde tendinee primarie e loro inserzione sui muscoli papillari (Figura 7C). Infatti, la discontinuazione del sostegno tendineopapillare ha un effetto prognostico negativo sui risultati a distanza della SVM a causa della modificazione
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geometrica che induce sul ventricolo sinistro, che tende ad assumere un aspetto sferico anziché ellissoidale, una volta eliminato il sistema di ancoraggio dei muscoli papillari allo scheletro fibroso del cuore. Analogamente a quanto avviene per la protesi aortica, una serie di punti staccati ad “U”, rinforzati con pledgtes in feltro di teflon in posizione sotto- o sopra-anulare vengono ati nell’anulus nativo, quindi attraverso l’anello di sutura della protesi e infine annodati per ottenere la solidarizzazione tra strutture biologiche e materiale protesico (Figura 7E). La procedura è completata con la deareazione e la riperfusione miocardica. Rischi specifici della sostituzione valvolare mitralica Due aspetti tecnici aumentano il rischio legato alla SVM. Il primo riguarda la difficoltà di rimozione completa delle calcificazioni dall’anulus mitralico: il calcio può infiltrare profondamente il miocardio e la sua rimozione può provocare lesioni della parete libera del ventricolo sinistro. Il secondo riguarda il rischio di ledere il ramo circonflesso della coronaria sinistra durante il posizionamento delle suture, con possibilità di provocare un infarto miocardico intraoperatorio o un’infiltrazione emorragica della parete ventricolare sinistra. Inoltre, la preservazione dell’apparato cordale può interferire con il libero movimento degli elementi mobili delle protesi meccaniche, che deve quindi essere accuratamente verificato dopo l’impianto. Anche le manovre di deareazione devono essere eseguite con cautela, in quanto la protesi rigida in posizione mitralica potrebbe provocare la rottura della parete ventricolare sinistra. CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA AORTICA Nell’adulto si esegue quasi esclusivamente per l’insufficienza valvolare. Può essere effettuata per difetti primitivi delle diverse componenti anatomiche della valvola aortica (anulus, commissure, lembi) o per insufficienza valvolare secondaria a patologia della radice aortica (aneurismi degenerativi cronici o dissecazioni aortiche acute). Il presupposto fondamentale è che i lembi siano morfologicamente normali, cioè non sclerotici e privi di calcificazioni. Tecniche riparative dell’insufficienza aortica primitiva Dipendono dal meccanismo che determina l’insufficienza. Questi i più comuni:
•
Dilatazione anulare: si esegue una plastica commissurale con l’intento di avvicinare i lembi tra loro,
diminuendo il diametro anulare e aumentando l’area di coaptazione. Se coesiste un prolasso questo può venire corretto da una plastica asimmetrica delle commissure o associando una plicatura del margine libero del lembo (Figura 8A).
•
Prolasso di un lembo in valvola bicuspide: in genere è responsabile del prolasso il lembo fuso. La tecnica
consiste nella resezione del tessuto esuberante e nella ricostruzione del lembo, in genere associandola alla plastica commisurale (Figura 8B).
Tecniche riparative dell’insufficienza aortica secondaria L’insufficienza aortica secondaria riconosce due diversi meccanismi patogenetici: in caso di aneurisma espansivo che coinvolga la giunzione senotubulare, la trazione centrifuga esercitata sulle commissure provoca dislocazione dei lembi e perdita della coaptazione centrale; nel caso delle dissecazioni aortiche, invece, le commissure possono perdere il sostegno della parete aortica, determinando dislocazione centripeta della commissura stessa e prolasso dei lembi. In entrambi i casi la valvola aortica è in genere normale e può essere risparmiata: la ricostituzione della radice aortica nelle giuste dimensioni ripristina la corretta disposizione anatomica dei lembi e la loro corretta funzione. Questa può essere ottenuta con la semplice sostituzione protesica dell’aorta ascendente e conseguente ricostruzione della giunzione senotubulare. Se la patologia aortica coinvolge la radice l’intervento diventa più complesso. In quest’ultimo caso, due approcci simili sono stati messi a punto: il reimpianto della valvola aortica secondo David e il rimodellamento della radice aortica secondo Yacoub. In entrambi i casi è prevista l’exeresi totale dei seni di Valsalva, e quindi è inevitabile il reimpianto degli osti coronarici sul condotto protesico col quale si sostituisce l’aorta prossimale. CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA MITRALICA La chirurgia riparativa della stenosi mitralica (commissurotomia) è stato uno dei primi interventi della cardiochirurgia: consisteva nella separazione delle commissure fuse eseguita manualmente a cuore chiuso, cioè senza l’ausilio della circolazione extracorporea. La commissurotomia è stata poi per anni eseguita anche a cuore
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aperto in visione diretta (Figura 9), ma attualmente è stata soppiantata dalla valvulotomia percutanea, ed ha quindi quasi esclusivamente un valore storico. La riparazione della mitrale si esegue pertanto quasi esclusivamente per insufficienza mitralica. In base ai meccanismi patogenetici del vizio valvolare si possono identificare sostanzialmente tre tipi di insufficienza mitralica, che richiedono approcci chirurgici diversi: 1) da esagerato movimento dei lembi (prolasso); 2) da ridotto movimento dei lembi (alterazioni dell’apparato sottovalvolare o dilatazione del ventricolo sinistro con allontanamento dei papillari e trazione sui lembi); 3) con normale movimento dei lembi (dilatazione anulare o perforazione dei lembi). Nel primo caso sarà necessario eliminare il tessuto ridondante (resezione dei lembi o accorciamento delle corde tendinee), nel secondo restituire libertà di movimento per ottenere un aumento della superficie di coaptazione (allungamento o sostituzione delle corde e anuloplastica restrittiva), nel terzo infine la strategia chirurgica sarà valutata sulla base del meccanismo prevalente (anuloplastica o riparazione con piccoli patches di eventuali perforazioni). Chirurgia riparativa della mitrale per prolasso Il lembo prolassante è quasi sempre il posteriore. Il tessuto esuberante viene quindi resecato e la continuità del lembo ricostruita con una sutura a punti staccati o continua a sopraggitto. Nella resezione (di norma un frammento quadrangolare) viene incluso anche il corrispondente segmento di anulus mitralico su cui si impiantava il tratto di lembo esuberante, che sarà preventivamente ricostruito con un punto in poliestere (Figura 10). E’ possibile che si associ un grado variabile di dilatazione anulare, per cui diventa opportuno eseguire un’anuloplastica riduttiva con un apposito anello protesico (vedi oltre). L’impianto di un anello protesico dà inoltre maggiore stabilità alla plastica. Il coinvolgimento del lembo anteriore mitralico Il prolasso del lembo anteriore, associate o meno al prolasso posteriore, è più difficile da trattare in quanto la resezione del tessuto esuberante non ha portato a risultati soddisfacenti e il segmento anteriore dell’anulus mitralico è fisso, cioè non riducibile chirurgicamente. Una tecnica di facile applicazione consente tuttavia di ovviare spesso a questo problema: ancorando il margine libero del lembo anteriore al corrispondente margine libero del lembo posteriore (plastica edge-to-edge) si riesce a prevenire il ribaltamento del lembo anteriore verso l’atrio sinistro. La mitrale assume un aspetto a “doppio orificio”senza che questo comporti una stenosi, in quanto la somma delle aree dei due orifici è, di norma, più che sufficiente ad un aggio del sangue di tipo non restrittivo (Figura 11). Anuloplastica mitralica con anello protesico L’impianto di un anello protesico rigido o flessibile, sovrapposto all’anulus mitralico nativo (Figura 12), può essere eseguito con due scopi sostanziali: dare stabilità nel tempo ad altre procedure (per esempio, una resezione quadrangolare del lembo posteriore o una plastica edge-to-edge), oppure ridurre le dimensioni di un anulus nativo dilatato per patologia degenerativa primitiva o secondariamente a dilatazione del ventricolo sinistro (frequentemente in casi di insufficienza mitralica secondaria a cardiomiopatia ischemica). Altri tipi di valvuloplastica mitralica Interventi meno comuni sulla mitrale sono quelli di chirurgia cordale: ne esistono di due tipi, cioè la traslocazione (sezione cordale e reinserimento del capo sezionato in modo tale da ripristinare la funzione di contenimento, scegliendo la sede di reimpianto in funzione della lunghezza della corda) oppure la sostituzione cordale con filamenti di politetrafluoroetilene, dopo exeresi delle corde rotte o allungate (Figura 13). Infine, nel caso di perforazioni dei lembi conseguenti ad endocarditi con perdita di sostanza, è possibile colmare le lacune dei lembi con delle piccole toppe (patches) in pericardio autologo con sottili suture in polipropilene. CHIRURGIA DELLA VALVOLA TRICUSPIDE La valvola tricuspide è raramente affetta da patologie primitive, sia acquisite che congenite. Tuttavia è spesso secondariamente coinvolta nelle patologie valvolari del settore sinistro, soprattutto quella mitralica. L’ipertensione polmonare di lunga data, quale che ne sia la causa, provoca dilatazione del ventricolo destro e conseguente dilatazione anulare tricuspidale, cui segue insufficienza valvolare da deficit di coaptazione dei lembi (vedi Capitolo 14). Un’anuloplastica riduttiva ripristina le dimensioni dell’anulus e consente una efficace giustapposizione dei lembi. La tecnica più diffusa di anuloplastica tricuspidale è quella proposta da De Vega: consiste nella conduzione di una sutura circonferenziale tipo “borsa di tabacco” lungo tutto l’anulus tricuspidale: la trazione sui capi liberi consente di ridurre quindi la circonferenza anulare al livello desiderato. Alternativamente, è possibile eseguire un’anulocommissuroplastica secondo Kay, che consiste nell’obliterazione della commissura laterale, escludendo così un settore di anulus e riducendo l’area utile al aggio di sangue, mentre l’anulus stesso assume una forma a “racchetta”.
Capitolo 64 183
CHIRURGIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA Luigi Chiariello, Paolo Nardi IL BY- CORONARICO Il by coronarico (coronary artery by- grafting, CABG), introdotto alla fine degli anni ’60 da Renè Favaloro, è da circa 35 anni l’intervento chirurgico maggiore più diffuso nel mondo occidentale. La sua diffusione è stata giustificata dagli ottimi risultati clinici in termini di sopravvivenza e libertà da eventi sfavorevoli a distanza, risultati coi quali ogni tecnica alternativa di rivascolarizzazione è opportuno si confronti. Il CABG rappresenta la terapia chirurgica della cardiopatia ischemica, che nella grande maggioranza dei casi è secondaria ad aterosclerosi ostruttiva dell’albero coronarico. Lo scopo di questo intervento è di saltare, cioè aggirare (“byare”) il punto in cui l'arteria coronaria è stenotica o del tutto occlusa, permettendo così l’irrorazione di quella parte di muscolo cardiaco del quale cui l’arteria è tributaria. L’intervento tradizionale di CABG prevede l’accesso al cuore ed all’aorta del paziente mediante sternotomia mediana, il prelievo dell’arteria mammaria interna (Figura 1) e/o della vena safena dall’arto inferiore (Figura 2), l’avvio della circolazione extracorporea (vedi Capitolo 62) e l’arresto del cuore stesso con la cardioplegia. Il chirurgo esegue quindi il/i by dopo aver praticato una piccola incisione sulla/e coronaria/e a valle del punto di stenosi, suturando l’arteria mammaria nella sua estremità distale o il segmento di vena safena autologa invertita (la safena è provvista di valvole che impedirebbero la progressione del sangue!) alla coronaria. L’estremità prossimale della safena viene poi suturata all’aorta ascendente, da cui il sangue, attraverso la vena stessa, raggiunge la coronaria, mentre l’estremità prossimale dell’arteria mammaria, ramo dell’arteria succlavia, è già naturalmente collegata al sistema arterioso (Figura 3, Figura 4, Figura 5). INNESTI PER IL BY- CORONARICO Gli innesti più frequentemente utilizzati per la rivascolarizzazione sono l’arteria mammaria interna (AMI) e la vena safena invertita. La superiorità dell’AMI rispetto alla vena safena in termini di pervietà a distanza (superiore al 95% rispetto a circa il 65% a 12 anni), di sopravvivenza (60% rispetto al 35%) e di maggiore libertà da infarto miocardico e reintervento, rende routinario l’utilizzo dell’arteria mammaria interna sinistra, in particolare per il ramo discendente anteriore della coronaria sinistra, il vaso più importante ai fini prognostici perché responsabile di oltre il 50% dell’irrorazione del miocardio ventricolare sinistro. Per l’ottima pervietà dell’arteria mammaria interna rispetto alla vena safena, si è anche esteso l’impiego di entrambe le arterie mammarie (generalmente l’AMI destra per il ramo discendente anteriore, l’AMI sinistra per il ramo marginale ottuso) (Figura 6) che rispetto all’uso dell’AMI singola si è confermato associarsi ad un ulteriore miglioramento della sopravvivenza a 20 anni e ad una maggiore libertà da reintervento. Per la minore pervietà a distanza, rispetto a quella evidenziata per l’arteria mammaria, sono meno frequentemente utilizzati altri innesti arteriosi quali l’arteria radiale, la gastroepiploica e l’epigastrica (Figura 7). INDICAZIONI AL BY- CORONARICO L’efficacia del CABG rispetto alla sola terapia medica per il trattamento della cardiopatia ischemica è stata valutata da grandi trial i quali hanno avuto il merito di identificare i pazienti che più traggono beneficio dalla chirurgia: il CABG risultava la metodica più efficace nel garantire migliore sopravvivenza e libertà da eventi a lungo termine in presenza di: 1) malattia del tronco comune della coronaria sinistra (stenosi =50%), 2) malattia trivasale, 3) malattia bivasale con stenosi prossimale del ramo discendente anteriore. Il beneficio della chirurgia risultava ancora più evidente in presenza di angina, prova da sforzo positiva, ridotta funzione sistolica del ventricolo sinistro (frazione di eiezione <50%). Il CABG non offriva, invece, vantaggi superiori alla terapia medica in presenza di malattia monovasale o bivasale con buona funzione del ventricolo sinistro, senza coinvolgimento dell’arteria discendente anteriore. Stato attuale della chirurgia coronarica. Durante gli anni di sviluppo ed espansione delle metodiche di rivascolarizzazione percutanea, anche la chirurgia ha fatto importanti progressi, con notevole espansione delle indicazioni al CABG. I pazienti sottoposti a intervento chirurgico sono oggi di età sempre più avanzata, con maggiore incidenza di disfunzione ventricolare sinistra e di malattia multivasale, di comorbidità associate (insufficienza renale, respiratoria, vasculopatia periferica, diabete, fumo, fattori di rischio cardiovascolari) ed in genere con rischio più elevato. I progressi della chirurgia sono legati all’affinamento delle tecniche di protezione miocardica e di emostasi intraoperatoria, al miglioramento delle metodiche anestesiologiche e rianimatorie, all’impiego estensivo dei graft arteriosi, in particolare dell’arteria mammaria interna bilaterale, alla possibilità di eseguire interventi a cuore battente. Grazie a tali progressi, la mortalità per intervento di CABG è rimasta stabile, intorno al 2%, nonostante la complessità dei pazienti chirurgici sia aumentata, visto che i casi di coronaropatia con compromissione anatomica non molto grave e diffusa vengono oggi trattati con angioplastica percutanea. In conclusione, il CABG rappresenta il “gold standard” per il trattamento della malattia mutivasale e del tronco comune per: a) bassa mortalità operatoria (circa 2%); b) risultati ineguagliati in termini di sopravvivenza a lungo termine e libertà da eventi cardiaci maggiori; c) eccellenti risultati, confermati anche in categorie di pazienti ad elevato rischio operatorio; d) pervietà dell’arteria mammaria interna >90% a lungo termine; e) rischio minimo di ripetere una nuova rivascolarizzazione a distanza (0.5%/anno).
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L’efficacia a lungo termine della chirurgia si basa essenzialmente su due razionali che la terapia medica o le metodiche di angioplastica percutanea non hanno: 1) totale e più completa rivascolarizzazione: il by coronarico consente il trattamento di qualsiasi tipo di lesione coronarica, anche la più complessa o l’ostruzione completa, e non solo della lesione responsabile della sintomatologia, ma anche di tutte le altre presenti (rivascolarizzazione completa); 2) pervietà a lungo termine degli innesti, in particolare di quelli arteriosi (arteria mammaria), che favorisce la stabilità del risultato a distanza.
Capitolo 65 CHIRURGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE Mario Chiavarelli, Gianluca Lucchese DIFETTI DEL SETTO INTERATRIALE Il difetto interatriale necessita di terapia chirurgica solo in presenza di sovraccarico ventricolare destro. Di solito un difetto interatriale della fossa ovale ha indicazione alla chiusura se il rapporto tra flusso polmonare e flusso sistemico (Qp/Qs) è superiore a 2 oppure superiore a 1,5 nei difetti interatriali complicati. Non c’è vantaggio in termini di risultati ad aspettare un’età superiore a 1-2 anni, anche se in molti casi la diagnosi è successiva. L’età avanzata non costituisce controindicazione. La terapia chirurgica consiste nella chiusura del difetto o per sutura diretta o mediante “patch” (toppa) di pericardio o tessuto artificiale. L'approccio chirurgico mininvasivo ha trovato un crescente interesse per ragioni estetiche. La chiusura di difetto interatriale con device (ombrellini), posizionati in corso di cateterismo cardiaco (cardiologia interventistica) ha un’applicazione crescente nei casi non complicati. Tra tutti i difetti interatriali, si deve porre particolare attenzione a quelli tipo cavale e seno coronarico per la frequente associazione ad altre malformazioni cardiache fra cui ritorno venoso polmonare anomalo. DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE La presenza di un difetto interventricolare non costituisce indicazione a correzione chirurgica: i difetti muscolari e perimembranosi, specialmente se piccoli, possono chiudersi spontaneamente in un'alta percentuale di casi (fino al 50%). Questo processo generalmente si verifica entro i 5 anni. I difetti interventricolari grandi non operati sono gravati da una mortalità del 9% nel primo anno di vita, e portano a morte il 40% dei soggetti prima dei vent’anni e il 78% prima dei quaranta; circa il 25-45 % dei pazienti sintomatici portatori di un difetto interventricolare deve essere operato entro il primo anno di vita per la comparsa di insufficienza cardiaca. L’indicazione chirurgica deve tener conto da un lato della probabilità di chiusura spontanea del difetto interventricolare, dall’altro del rischio di mortalità per insufficienza cardiaca e di sviluppare malattia vascolare polmonare, con conseguente ipertensione polmonare e inversione dello shunt, nei pazienti non operati. L’intervento è condotto generalmente per via transatriale destra, dopo retrazione della valvola tricuspide e consiste nel suturare un patch di tessuto artificiale ai margini del difetto, evitando di danneggiare il tessuto di conduzione, che spesso è in relazione con il difetto interventricolare. Se il peso del paziente è molto basso, o in caso di sepsi o di difetti multipli, può essere attuato il bendaggio dell’arteria polmonare: un intervento palliativo che controlla l’iperafflusso polmonare e fa guadagnare tempo per la correzione definitiva. La chiusura con device (ombrellino) in laboratorio di emodinamica è possibile per casi selezionati. PERSISTENZA DEL DOTTO ARTERIOSO Nei pazienti a termine il dotto può essere chiuso con una bassa incidenza di complicanze (meno dello 0,5%). La chiusura può essere effettuata tradizionalmente mediante legatura, divisione o applicazione di clip metallica. Attualmente l'occlusione endoluminale (cardiologia interventistica) o la legatura in toracoscopia prevalgono sulla chirurgia tradizionale. Nel prematuro è indicato il trattamento farmacologico con indometacina o ibuprofene, farmaci inibitori della ciclossigenasi. La chiusura chirurgica è indicata in caso di inefficacia dei farmaci o ricorrenza della pervietà del dotto arterioso dopo una prima fase di chiusura. COARTAZIONE AORTICA Le tecniche impiegate per ricostruire o sostituire l’aorta nel suo tratto coartato sono molteplici e vanno considerate in base all’età del paziente e al tipo di coartazione. Flap di succlavia. L'utilizzo della succlavia come lembo (flap) per la ricostruzione dell'aorta implica l’interruzione della succlavia sinistra e può essere eseguito se l'arteria è di dimensioni e decorso adeguati. Nei pazienti di età inferiore ad un anno il sacrificio dell'arteria succlavia è compensato dallo sviluppo di un circolo collaterale che assicura un’adeguata perfusione dell'arto superiore sinistro. Resezione del tratto coartato ed anastomosi termino-terminale. È quasi sempre possibile ed applicabile e ha il vantaggio di rimuovere il tessuto duttale. Ha indicazione anche nel trattamento dell’ipoplasia tubulare. Aortoplastica con patch. Incisione della parete aortica e allargamento dell’arteria mediante sutura di patch ai margini dell’aortotomia. Questa metodologia è impiegata nel bambino quando la coartazione è presente per un
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lungo tratto di aorta o nel neonato quando l'intervento è eseguito in emergenza. Il vantaggio di questa tecnica è la semplice eseguibilità, anche se sono possibili recidive e formazione di aneurisma. Aortoplastica con condotto. L'interposizione di un condotto artificiale a sostituzione del tratto aortico coartato è una tecnica oggi quasi abbandonata in età pediatrica, ma ancora impiegata nell'adulto. TETRALOGIA DI FALLOT La presenza di questa malformazione costituisce indicazione all’intervento chirurgico. La correzione a 2 stadi (palliazione con shunt sistemico-polmonare, seguita da riparazione), effettuata in ato in tutti i casi, ha oggi indicazione limitata a bambini molto piccoli o situazioni particolari. La riparazione primaria può essere eseguita anche in età neonatale ma è lo standard dopo i 6 mesi; l’età ottimale è i due anni di vita. La chiusura del difetto interventricolare avviene per via transatriale destra; da questo accesso vengono rimosse le bande muscolari ostruttive del ventricolo destro. Se questo non è sufficiente ad eliminare l’ostacolo, l’infundibolo viene ampliato con un patch, che può essere esteso attraverso la valvola polmonare (correzione con patch transanulare). L’insufficienza della valvola polmonare è molto frequente dopo riparazione, ma viene ben tollerata per molti anni e solo occasionalmente richiede l’inserzione di una protesi valvolare. TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE Nella trasposizione con setto interventricolare integro si inizia infusione di prostaglandina E1 alla nascita, per mantenere il dotto aperto e favorire il mixing, e si corregge l’acidosi metabolica. In casi di mixing non soddisfacente si procede alla settostomia atriale con pallone. Nella prima settimana e non più tardi di 30 giorni si esegue lo switch arterioso, ristabilendo la normale connessione tra ventricoli e grandi arterie e reimpiantando le coronarie (correzione anatomica). Se il bambino viene proposto per correzione chirurgica dopo le prime settimane di vita, il ventricolo sinistro è ormai abituato a pompare nel circolo polmonare a basse resistenze e non è in grado di sostenere la circolazione sistemica. In questi casi si opta per una correzione fisiologica con reorientamento dei flussi a livello atriale (intervento di Mustard o di Senning) in modo da ridirezionare il sangue venoso sistemico verso la mitrale e quello polmonare verso la tricuspide, ristabilendo le circolazioni in serie.
Sezione XIX. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Chirurgia Vascolare Capitolo 67 LA MALATTIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI sco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA La conoscenza della patologia aterosclerotica, principale causa della malattia nel sistema cerebro-vascolare extracranico, e dei suoi effetti sull’emodinamica arteriosa, ha permesso già negli anni ’50 la nascita della chirurgia carotidea. Il notevole sviluppo che questa chirurgia ha avuto negli anni successivi ha posto l’esigenza di individuare gruppi e sottogruppi di pazienti, sia sintomatici che asintomatici, che potessero beneficiare del trattamento chirurgico rispetto a quello medico nella prevenzione dell’ictus, a condizione che le complicanze operatorie fossero inferiori alla morbilità e mortalità della popolazione non operata. L’obiettivo dei trial intrapresi è stato quello di valutare l’efficacia dell’endo-arteriectomia carotidea nella prevenzione dell’ictus e quindi di fornire indicazioni chirurgiche standardizzate. I più importanti studi multicentrici randomizzati condotti in pazienti sintomatici sono stati il NASCET (North AmericanSymptomatic Carotid Endarterectomy Trial) e l’ECST (European Carotid Surgery Trial), che hanno valutato gli effetti emodinamici di una stenosi carotidea sul flusso a valle e il rischio emboligeno delle lesioni. I risultati hanno permesso di stabilire che per stenosi uguali o superiori al 70%, responsabili di TIA o ictus lieve nei sei mesi precedenti, e con rischio chirurgico inferiore al 6%, la terapia chirurgica è superiore rispetto a quella medica perché diminuisce il rischio di ictus a 2 anni dal 26% al 9%, con una riduzione ancor più vantaggiosa in presenza di placca ulcerata. Per contro, nei pazienti con stenosi comprese tra il 50 ed il 69%, il tasso di ictus a 5 anni si riduce dal 22 al 17%. Si può concludere che nei pazienti sintomatici, l’indicazione all’intervento chirurgico è certa per stenosi superiori al70%, mentre nel caso di stenosi comprese tra il 50 ed il 69% vanno operati solo i pazienti a più alto rischio, e per stenosi inferiori al 50% la chirurgia è una scelta inappropriata. A volte anche le stenosi asintomatiche vanno sottoposte a trattamento chirurgico: il trial ACAS (Asymptomatic Carotid Aterosclerosis Study) ha messo in luce una riduzione del rischio di ictus a 5 anni dall’11% al 5% per stenosi superiori al 60%, e lo studio ACSRS (Asymptomatic Carotid Stenosis and Risk of Stroke) ha individuato tre categorie di pazienti a rischio con stenosi superiori all’80%, concludendo che per i soggetti con rischio inferiore all’1% non vi è indicazione chirurgica, per quelli con rischio superiore al 4% l’indicazione è possibile solo se il rischio chirurgico è contenuto, mentre per i pazienti con rischio superiore al 7% l’indicazione chirurgica è assoluta.
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L’indicazione all’intervento chirurgico rimane valida anche in caso di stenosi generate da alterazioni del decorso anatomico delle arterie carotidi (kinking o coiling) che determinino un’accelerazione del flusso tale da creare conseguenze emodinamiche al circolo cerebrale. In presenza di accertata patologia ostruttiva o emboligena carotidea in un paziente con deficit neurologico lieve o moderato, con coscienza conservata, ed in particolar modo in caso di occlusione carotidea controlaterale, si propende oggi per l’intervento chirurgico allo scopo di ripristinare la pervietà carotidea (in caso di occlusione) o di eliminare la fonte emboligena (in caso di stenosi significativa o di placca “soft”). INDICAZIONI ALLA TERAPIA ENDOVASCOLARE Una nuova svolta nel trattamento delle lesioni extra-craniche si è avuta di recente con l’introduzione della metodica endovascolare (vedi Capitolo 59) che, anche se non ha cambiato le indicazioni al trattamento, ha sostituito in alcuni casi la tecnica chirurgica tradizionale. Anche in questo caso studi prospettici quali il NAPTAR (North American Percutaneous Transluminal Angioplasty ) e il CREST (Carotid Revascularization Endarterectomy versus Stent Trial) hanno permesso di definire meglio il ruolo di questa metodica, dimostrando che i suoi risultati in termini di morbilità e mortalità sono incoraggianti soprattutto in casi selezionati, quali i pazienti ad alto rischio chirurgico, nelle restenosi successive ad endoarteriectomia, nei colli ostili, nelle stenosi in soggetti irradiati, nelle lesioni distali della carotide interna. L’ANESTESIA NELLA CHIRURGIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI La tecnica anestesiologica praticata è in relazione al tipo di intervento che si intende eseguire: è possibile un’anestesia locale in caso di tecnica endovascolare percutanea, oppure un’anestesia locoregionale o generale in caso di intervento chirurgico tradizionale. Nel primo caso si ha il vantaggio di mantenere la coscienza del paziente conservata, condizione utile durante le fasi di interruzione della circolazione, ma con lo svantaggio di un mancato confort per il paziente e di riflesso per il chirurgo. Tale situazione si annulla con l’anestesia generale, che però non permette al chirurgo di verificare la coscienza del paziente al momento dell’interruzione della circolazione; si cerca di ovviare a ciò tramite metodiche che predicono la necessità di utilizzare un cortocircuito temporaneo, detto “shunt”, per mantenere la circolazione pervia durante l’intervento. TECNICHE DI CHIRUGIA VASCOLARE La tecnica chirurgica maggiormente praticata consiste nella endoarteriectomia carotidea (Figura 1, Figura 2), Questa metodica consiste nel preparare accuratamente un tratto di arteria carotide comune e la sua biforcazione e, dopo aver interrotto la circolazione, nell’eseguire una rimozione della placca dall’intero tratto interessato dalla patologia aterosclerotica mediante uno scollamento a partenza dagli strati esterni della tonaca media dell’arteria A questa fase segue la chiusura dell’arteriotomia, che si effettua mediante l’applicazione di un “patch” di allargamento in materiale sintetico o biologico nel caso in cui la carotide interna appaia di calibro ridotto. Una variante dell’endoarteriectomia standard è l’endoarteriectomia per eversione, che consiste nel sezionare la carotide interna, generalmente all’origine dalla biforcazione, evertere poi su se stessa la carotide interna sezionata per poter eseguire la rimozione della placca mediante una spatola e infine nel ricostruire la continuità del vaso. Una ulteriore variante tecnica, utilizzata principalmente in caso di lesioni aterosclerotiche particolarmente estese sulla carotide interna, consiste nell’eseguire un by- a partenza dalla carotide comune sino alla carotide interna a valle della lesione, con sezione e legatura di quest’ultima. La tecnica endovascolare (Figura 3, Figura 4) si effettua attraverso un accesso percutaneo e consiste nell’eseguire un’angioplastica e l’applicazione di uno “stent”, con l’eventuale ausilio di meccanismi di protezione, volti ad evitare l’embolizzazione della placca, posizionati prima di espandere lo stent (vedi Capitolo 60).
Capitolo 68 LE ARTERIOPATIE PERIFERICHE sco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada DEFINIZIONE DI INSUFFICIENZA ARTERIOSA L’insufficienza arteriosa cronica è caratterizzata compromissione della vascolarizzazione distale.
da
un’alterazione
della
perfusione
con
progressiva
La classificazione dell’ischemia critica secondo Leriche-Fontaine (vedi Capitolo 55) definisce la severità funzionale dell’arteriopatia periferica ma non delinea chiaramente il livello di gravità della malattia e il rischio evolutivo legato alle lesioni aterosclerotiche. Proprio tale parziale corrispondenza tra stadio clinico e lesioni arteriose sottostanti ha condizionato per molto tempo l’iter decisionale. In ato, infatti, un’arteriopatia al secondo stadio era prevalentemente appannaggio della terapia medica, e solo la comparsa di dolore a riposo o di turbe trofiche conducevano alla terapia chirurgica. Questo concetto va oggi rivisto in considerazione di due fattori. Il primo è la migliore conoscenza della storia naturale della malattia, che può comportare la distruzione irreversibile del letto a valle, il secondo è il ruolo
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sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare, che offre un’alternativa poco invasiva, anche se talvolta meno efficace, alla terapia chirurgica tradizionale. INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA L’ischemia funzionale al I stadio non rappresenta un’indicazione chirurgica, ma rivela un rischio vascolare multifocale e dunque la necessità di un’indagine multi-sistemica del rischio aterosclerotico e di un successivo piano di sorveglianza. L’ischemia funzionale al II stadio rappresenta un’indicazione relativa all’intervento chirurgico, e ciò dipende dalla conoscenza della storia naturale della claudicatio intermittens, che a 5 anni prevede una stabilizzazione o un miglioramento nel 50% dei casi, una progressione della sintomatologia nel 15% dei casi, il ricorso a un intervento chirurgico nel 25% dei pazienti e un’amputazione maggiore in meno del 4%. Elementi quali il grado di claudicatio, l’età, le condizioni generali, lo stile di vita e la presenza o meno di circolo collaterale condizionano le indicazioni terapeutiche. Nel caso di una claudicatio lieve o moderata da ostruzione sotto-inguinale, soprattutto in pazienti anziani, è consigliabile il solo controllo dei fattori di rischio per frenare e stabilizzare l’evoluzione della malattia e una terapia farmacologica anti-trombotica e vasoattiva. Per contro, la presenza di unaclaudicatio severa causata da un deficit arterioso sopra- o sotto-inguinale può avvalersi, oltre che della terapia farmacologica, anche della rivascolarizzazione chirurgica o endovascolare. L’ischemia critica (stadi III e IV) costituisce un’indicazione assoluta a un intervento terapeutico invasivo in tutti i casi in cui non vi sia un’adeguata risposta alla terapia farmacologica, sempre che esistano le condizioni tecniche per una ragionevole probabilità di successo. Nell’ambito del IV stadio, una considerazione a parte meritano i pazienti portatori di lesioni gangrenose estese all’avampiede e al tallone ma che non hanno ancora una compromissione irrimediabilmente delle funzioni di appoggio del piede. Queste situazioni necessitano un intervento terapeutico rapido ed efficace, mentre l’indicazione alla terapia medica è limitata ai soli pazienti in cui tale situazione sia espressione di danno arterioso-capillare. TECNICHE CHIRURGICHE Il trattamento dell’ischemia cronica è basato su un’ampia varietà di by- e di tecniche di disostruzione, cui recentemente si è aggiunta l’opzione della terapia endovascolare. La scelta fra queste diverse metodiche è influenzata da numerosi fattori quali la topografia delle lesioni (sopra- o sotto-inguinali), la loro natura (obliterante o emboligena) e il tipo di compromissione del vaso (stenosi od occlusione). Per la tecnica convenzionale bisogna tener conto dell'afflusso, comunemente indicato con il termine inglese “inflow”, a livello del sito dell’anastomosi prossimale del by-, dell’efflusso (“outflow” o “run-off”) delle arterie riceventi, e della disponibilità di materiale protesico. Per quanto riguarda la strategia endovascolare, invece, la scelta è influenzata dalla sede e dalla lunghezza della lesione, dal tipo e dalla morfologia dell’ostacolo al flusso e dalla condizione del run-off. La notevole diffusione e il ruolo sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare ha stravolto l’approccio al trattamento dell’ischemia critica. La rapida evoluzione dei materiali endovascolari ha allargato notevolmente le potenzialità della metodica, e numerosi studi hanno suggerito che il primo approccio all’ischemia critica sia la terapia endovascolare, la quale permette di affrontare in maniera poco invasiva sia le occlusioni che le stenosi e le placche ateromatose friabili. Per quanto riguarda il trattamento chirurgico tradizionale, le opzioni sono il by-, la tromboendoarteriectomia e la profundoplastica. Il by- consiste nel superamento dell’ostruzione tramite un ponte che viene impiantato prossimalmente alla lesione, su un segmento di arteria sana, ed ha il punto di arrivo su un tratto di arteria sana distale alla lesione. Il by- femoro-popliteo sopra-articolare è indicato se i vasi distali sono integri, mentre in presenza di occlusione completa della poplitea sottoarticolare si rende necessario un by- distale (destinato ai vasi del terzo inferiore di gamba o del piede) quando vi è almeno un vaso di gamba pervio. Le opzioni chirurgiche prevedono: by- in venaautologa e in particolar modo in vena grande safena nelle due varianti “invertita” e “in situ”, lasciata cioè nella sua sede naturale (Figura 1), oppure by- in protesi sintetica, o ancora by- compositi combinando in varia maniera materiale venoso e protesico. La vena autologa costituisce il materiale migliore per il basso rischio di infezione e per la presenza, sulla superficie di flusso, di uno strato endoteliale vitale che, insieme alla componente elastica, riduce sensibilmente la trombogenicità, soprattutto in prossimità delle sedi anastomotiche. Tra le vene autologhe si distingue per lunghezza, diametro e posizione anatomica la vena grande safena (VGS), che decorre lungo tutto l’arto inferiore e può consentire di eseguire un by- fino alle arterie pedidia e plantare. Se la VGS non è presente per pregressi interventi chirurgici (by- aorto-coronarici, stripping per varici) o non ha un calibro adeguato viene utilizzata la vena piccola safena o, se anche questa è inadeguata o assente, le vene dell’arto superiore. Nel by- in vena grande safena invertita, è necessario lo scollamento del segmento venoso scelto per il pontaggio e la sua inversione al momento di confezionare le anastomosi prossimale e distale. In caso di by in vena grandesafena in situ, si rende necessaria la preparazione completa del segmento venoso ma si esegue uno scollamento solo del tratto iniziale e di quello distale per permettere il confezionamento dell’anastomosi prossimale e, dopo aver devalvulato la vena con appositi strumenti (valvulotomi o stripper), anche di quella distale. A pontaggio eseguito, si dovrà effettuare un’attenta legatura dei rami collaterali della vena grande safena sotto visione diretta, angiografica, angioscopica o con l’ausilio di uno strumento Doppler, dato che
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se i collaterali della vena “arterializzata” rimanessero pervi si realizzerebbe un “furto” di sangue dal distretto arterioso a quello venoso . I materiali protesici, indispensabili nei casi in cui non vi sia materiale autologo adeguato, possono essere biologici e di materiale sintetico, principalmente polimerico. Tra i primi annoveriamo le protesi omologhe arteriose e venose, segmenti vasali, freschi o conservati, prelevati da cadaveri. Il problema principale di queste protesi è rappresentato dal basso tasso di pervietà a distanza e dalla frequente degenerazione aneurismatica. Sono anche disponibili protesi eterologhe, vasi di animali modificati in laboratorio, come ad esempio l’arteria carotide bovina fissata con glutaraldeide. Queste non presentano una significativa perdita di stabilità strutturale e mostrano risultati di pervietà buoni nel distretto sopra-popliteo ma insufficienti a livello sotto-popliteo . Le protesi di materiale sintetico (Dacron, Teflon, ePTFE) offrono numerosi vantaggi quali l’impermeabilità e la biocompatibilità, ma presentano il limite della quasi totale assenza di “compliance”, cioè di quella capacità di ritorno elastico durante la fase diastolica che i vasi possiedono. Questa differenza di “compliance” tra protesi e arterie comporta problemi emodinamici che inducono l’iperplasia peri-anastomotica, responsabile della bassa pervietà a distanza dei by- femoro-tibiali in protesi sintetiche. Per migliorare l’esito a lungo termine di questi interventi sono stati escogitati numerosi espedienti tecnici, che prevedono l’uso di un collare venoso o di un patch venoso interposto nel punto d’anastomosi tra protesi artificiale e arteria nativa. I risultati della chirurgia tradizionale riportano pervietà a 6 anni dei by- femoro-poplitei sopra-articolari in materiale venoso pressochè sovrapponibili a quelli eseguiti in PTFE (76% vs 68%). Per i by- femoro-poplitei sotto-articolari, la pervietà a distanza è del 67% per quelli eseguiti in vena e del 39% per quelli in PTFE. Per le rivascolarizzazioni femoro-distali la pervietà è maggiore per i by- in vena safena in situ rispetto a quelli eseguiti utilizzando le vene del braccio o le protesi in PTFE. La tecnica endovascolare consiste nell’eseguire, attraverso un accesso percutaneo in anestesia locale, un’angioplastica con eventuale applicazione di stent. Nel caso di lesioni stenotiche, si esegue una procedura transluminale, mentre nel caso di ostruzione un’alternativa a questa metodica è quella sottointimale. Per eseguire la tecnica transluminale si oltrea la stenosi con una guida metallica flessibile, sulla quale si inserisce nel vaso un catetere che reca all’estremità distale un palloncino gonfiabile; questo viene portato in corrispondenza della stenosi ed espanso, provocando il rimodellamento o la rottura della placca aterosclerotica e lo stiramento della media e dell’avventizia (Figura 2). Nell’approccio sottointimale, invece, la guida viene fatta avanzare non nel lume, ma all’interno della parete, sotto l’intima, e dopo aver superato l’occlusione viene fatta rientrare nel lume arterioso vero, dilatando il tratto occluso mediante un catetere a palloncino. COMPLICANZE Nella valutazione delle complicanze che possono insorgere a seguito di un intervento chirurgico vascolare a carico degli arti inferiori bisogna tener conto di un duplice aspetto: l’intervallo temporale di insorgenza e la relazione fra la complicanza e la procedura eseguita. Per quanto riguarda l’aspetto temporale si distingue un periodo postoperatorio precoce (entro 30 giorni) e uno tardivo (dopo 30 giorni). Riguardo al secondo aspetto le complicanze possono essere distinte in specifiche e non specifiche. Le prime sono ulteriormente suddivise in vascolari locali (stenosi, trombosi e infezione del by- o emorragia) e non-vascolari locali. La metodica endovascolare ha ridotto la percentuale di queste complicanze, ma ne ha aggiunte altre, tra cui quelle nel sito di puntura (ematoma, pseudo-aneurisma, fistola artero-venosa, trombosi), e quelle nella sede di dilatazione, di cui la più importante è la dissezione vasale con formazione di un flap intimale, che può essere trattato con una nuova dilatazione e l’impianto di uno stent. Una trattazione a parte merita l’ischemia acuta, che può assumere un aspetto drammatico se non si è creato nel corso del tempo un circolo collaterale. Le cause sono rappresentate nella maggior parte dei casi da embolia cardiogena (per esempio in corso di fibrillazione atriale o di trombosi all’interno delle camere del cuore sinistro), o da emboli a partenza da aneurismi dell’aorta o di arterie dell’arto colpito da ischemia. Nei restanti casi l’ischemia acuta dipende da traumi vascolari. Il trattamento si basa sulla terapia medica anticoagulante (per evitare la progressione del trombo), trombolitica (per sciogliere il trombo) o su quella chirurgica, che prevede la rimozione dell’embolo tramite un catetere a palloncino o il by-.
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