L'eterno Marito 2m3u3g

Fedor Dostoevskij

L'eterno marito

ISBN: 9788874174584

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Indice dei contenuti

Informazioni

I - Veltcianinof

II - L'uomo con la fascia nera sul cappello

III - Pavel Pavlovitch Trusotsky

IV - La donna, il marito e l’amante

V - Lisa

VI - Nuove fantasie di un ozioso

VII - Il marito e l’amante si abbracciano.

VIII - Lisa è malata

IX - Visione

X - Al cimitero

XI - Pavel Pavlovitch vuol prendere moglie

XII - In casa Zaklebinin

XIII - Da quale parte pende la bilancia

XIV - Sacienka e Nadenka

XV - Saldo dei conti

XVI - Analisi

XVII - L'eterno marito

Informazioni

I n copertina: Giuseppe De Nittis, autoritratto, particolare © 2020 REA Edizioni Via S. Agostino 15 67100 L’Aquila www.reamultimedia.it [email protected] www.facebook.com/reamultimedia Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata sulla traduzione di Augusta Osimo del 1931. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

I - Veltcianinof

Cominciava l’estate e Veltcianinof si trovava trattenuto a Pietroburgo, contro ogni sua aspettativa. Il suo viaggio nel sud della Russia era andato a monte; poi il processo andava per le lunghe, non se ne vedeva la fine. L’affare, una lite per la proprietà, prendeva una cattiva piega. Tre mesi prima, sembrava tutto liscio, senza timori e, bruscamente era cambiato: « Del resto è così per tutto, si sciupa tutto » ripeteva continuamente a sé stesso, di cattivo umore. Aveva preso un avvocato abile, caro e noto, non aveva risparmiato denaro ma, per impazienza e per diffidenza, si occupava egli stesso del suo affare; s’era messo a scrivere delle carte che l'avvocato aveva premura di far sparire, correva per i tribunali, faceva fare delle inchieste e, in realtà, ritar dava tutto; alla fine, l'avvocato s'era lamentato, e l'aveva convinto a partire per la campagna. Ma non poteva risolversi ad andarsene. Quella polvere, il caldo soffocante, le notti bianche di Pietroburgo! che sovreccitano e snervano, egli godeva molto in città. Abitava nelle vicinanze del Gran Teatro, in un appartamento preso in affitto da poco e che non era di suo gusto. «Niente era di suo gusto!». La sua ipocondria cresceva di giorno in giorno, ma era iniziata da tempo. Era un uomo che aveva vissuto molto e bene, con i suoi trentotto o trentanove anni, non era nel pieno della gioventù e tutta questa « vecchiaia », come diceva, gli era venuta « quasi assolutamente all’improvviso »; egli stesso capiva che ciò che l'aveva fatto invecchiare così presto, non era la quantità, ma, per così dire, la qualità degli anni e che, se si sentiva piegare prima del tempo era dal di dentro piuttosto che dal di fuori. A vederlo, lo si sarebbe detto ancora un giovanotto. Era un ragazzone forte e biondo, con una capigliatura folta, senza un filo bianco e una gran barba bionda che gli scendeva quasi fino al petto. Al primo sguardo, gli si trovava un'aria rozza e trascurata ma, guardandolo da vicino, si scopriva subito un uomo ben educato e abituato ai modi della migliore società. Aveva conservato un atteggiamento disinvolto, fiero e persino elegante, a dispetto della brusca goffaggine acquisita poi. E aveva pure una sicurezza altera e aristocratica, di cui egli stesso forse non supponeva l’intensità, benché avesse l’intelligenza non solo aperta, ma sottile, e fosse indubitabilmente ben dotato.

La carnagione del suo viso chiaro e roseo aveva avuto un tempo una delicatezza veramente femminea e aveva attirato su di lui l’attenzione delle donne, ancora adesso, si diceva guardandolo: « Che salute; sangue e latte! ». Soltanto, questa «salute» era infetta d’ipocondria. I suoi grandi occhi azzurri, dieci anni prima, avevano fatto molte conquiste: erano degli occhi così chiari, allegri, spensierati, che attiravano l’attenzione di chi l’incontrava. Oggi, all’avvicinarsi della quarantina, la luminosità e la bontà si erano quasi spente in quegli occhi già cerchiati da lievi rughe; quel che esprimevano ora, era, invece, il cinismo di un uomo di mondo deluso dalla vita; l’astuzia, più spesso il sarcasmo, oppure una sfumatura nuova, che una volta non avevano, una sfumatura di tristezza e di sofferenza, d’una tristezza distratta e come senza oggetto, ma profonda. Questa tristezza si manifestava soprattutto quand'era solo. E il fatto strano è che quest’uomo che, soltanto due anni prima, era gioviale, allegro, che raccontava tanto piacevolmente delle storie amene, fosse giunto ora a preferire a tutte queste cose la solitudine completa. Aveva rotto appositamente con i suoi numerosi amici, da cui forse avrebbe potuto non separarsi, anche dopo la completa rovina della sua fortuna. A dire il vero, l’orgoglio aveva contribuito: il suo orgoglio sospettoso gli rendeva insopportabile frequentare i vecchi amici, a poco a poco, era giunto all’isolamento. Le sofferenze del suo orgoglio non ne furono attenuate, al contrario, ma, esasperandosi, presero una forma speciale tutta nuova: soffriva talora per dei motivi inattesi, che prima non esistevano per lui, ai quali, prima, non aveva pensato, per dei motivi « superiori » a quelli dei quali aveva tenuto conto sino allora, «a supporre che fosse esatto esprimersi così, e che vi fossero proprio dei motivi superiori e dei motivi inferiori » aggiun geva lui stesso. Vero è ch’era arrivato ad essere ossessionato da motivi superiori , ai quali prima non avrebbe pensato. Ciò che intendeva in fondo a sé stesso, per motivi superiori, erano i motivi dei quali (con suo grande stupore) nessuno può sinceramente ridere nella propria coscienza; nella propria coscienza, s'intende, poiché, dinanzi agli altri, è un altro affare! Sapeva molto bene che alla prima occasione e da domani, pianterebbe le segrete e pie imposizioni della coscienza, porterebbe a so tranquillamente tutti quei « motivi superiori » e sarebbe il primo a riderne. Le cose stavano così, salvo che aveva conquistato una notevolissima indipendenza di spirito riguardo ai « motivi inferiori » che l'avevano sino ad allora interamente governato. Capitava anche allora che alzandosi il mattino, avesse vergogna dei pensieri e dei sentimenti che aveva avuto di notte durante l'insonnia. (E soffriva negli ultimi tempi di frequenti insonnie). Aveva notato da lungo tempo, che era diventato assai scrupoloso, si trattasse di cose importanti o di futilità: così s’era deciso a fidarsi il meno possibile di sé stesso. Tuttavia so-

pravvenivano talora dei fatti, dei quali non era possibile contestare la realtà. Negli ultimi tempi, qualche volta, durante la notte, i suoi pensieri e i suoi sentimenti si modificavano fino a divenire quasi l'opposto di ciò che è normale e molto sovente non rassomigliavano più in niente a quelli che aveva avuto durante il giorno. Ne fu molto colpito: andò a consultare un medico celebre che conosceva molto bene, naturalmente gli parlò in tono di scherzo. Il medico rispose che il fatto dell’alterazione e anche dello sdoppiamento dei pensieri e delle sensazioni la notte, in stato d'insonnia, è un caso molto comune negli uomini « che pensano fortemente e sentono fortemente », che talora le convinzioni di tutta una vita cambiavano repentinamente, assolutamente, sotto l’azione deprimente della notte e dell’insonnia, che si vedono prendere a volte, senza buon senso, delle decisioni veramente fatali, che tutto questo del resto ammette dei gradi — che infine, se capita che il soggetto risenta molto vivamente lo sdoppiamento della sua personalità e ne soffra, è indizio di una vera malattia e si deve, in quei casi, agire subito: la cosa migliore è mutare radicalmente il genere di vita, cambiare il regime o anche viaggiare; una purga, senza alcun dubbio, farebbe buon effetto. Veltcianinof non volle udire di più; la cosa era perfettamente chiara: era malato. « Ecco dunque tutto ciò che vi era in quell’ossessione che attribuivo a qualche cosa di superiore: una malattia e niente più! » esclamava con amarezza. Non si rassegnava a confessarselo. Ben presto, ciò che aveva sentito solo di notte si produsse ugualmente anche di giorno, ma con una acutezza più penetrante e ora ne aveva una gioia maliziosa e sarcastica, invece dell’avvelenamento pieno di rimpianto che sentiva prima. Vedeva sorgere nella sua memoria, sempre più frequentemente « immediatamente e Dio sa perché » certi avvenimenti della sua vita anteriore, delle epoche antiche della sua vita e quegli avvenimenti si presentavano a lui in modo strano. Da lungo tempo si lamentava di aver perduta la memoria, aveva dimenticato il volto della gente che aveva conosciuto molto bene e che quando la incontrava, se ne mostrava offesa, gli capitava di dimenticare interamente un libro che aveva letto sei mesi prima. Ed ecco che malgrado questa perdita evidente della memoria, dei fatti di un periodo molto antico, dei fatti dimenticati da dieci o quindici anni, si presentavano bruscamente alla sua mente! con una così grande vivezza d’impressione che li riviveva. Qualcuna delle cose che risalivano alla coscienza, erano state sino allora così completamente abolite, che il fatto stesso di vederle ricomparire gli sembrava bizzarro.

Tutto questo non era ancora niente: le resurrezioni di questo genere, si producono in tutti gli uomini che hanno molto vissuto. Ma l’importante e che questi avvenimenti gli ritornavano alla memoria con un aspetto modificato, interamente nuovo, inatteso e gli apparivano sotto una visuale alla quale non aveva pensato mai. Perché il tale o il tal altro atto della sua vita ata, gli faceva oggi l’effetto di un delitto? Non si sarebbe tanto preoccupato, in verità, se non si fosse trattato che di una sentenza astratta resa dal suo pensiero: poiché conosceva troppo bene la natura cupa, singolare, morbosa del suo spirito, per dare alle sue decisioni qualche importanza. Ma la sua riprovazione aveva un’eco più profonda, arrivava a maledirsi, a scoppiare, quasi in lacrime interiori. Che cosa avrebbe detto, meno di due anni prima, se gli avessero predetto che un giorno avesse pianto così? Ciò che gli era tornato dapprima alla mente, erano, non gli stati di felicità, ma le cose che un tempo lo avevano urtato, ricordava certi insuccessi mondani, certe umiliazioni: ricordava, per esempio, le « calunnie di un intrigante » in seguito alle quali aveva cessato di essere ricevuto in una casa, — o ancora, come, poco tempo prima avesse subito un'offesa premeditata e pubblica, senza chiederne ragione — come un giorno, in compagnia di donne della migliore società, fosse stato colpito da un epigramma scritto molto acutamente, al quale non aveva trovato nulla da rispondere. Ricordava anche due o tre debiti che non aveva estinto, debiti insignificanti, è vero, ma debiti d’onore, contratti verso gente che non vedeva più e della quale gli capitava di dir male. Soffriva anche, ma solamente nei momenti peggiori, al pensiero di aver consumato nella maniera più sciocca due fortune, l’una e l’altra notevoli. Ma ben presto fu la volta dei ricordi e dei rimorsi di ordine « superiore ». Improvvisamente, per esempio, « senza buon senso » sorgeva, dal fondo di un oblio assoluto, la figura di un buon vecchio, piccolo funzionario, brizzolato e comico che un giorno, molto, molto tempo prima, aveva offeso, impunemente, solo per fare una stupidaggine: l’aveva fatto unicamente per compiacersi. Aveva dimenticato così bene tutta quella storia, che non riusciva a ricordare il nome del vecchietto e tuttavia rivedeva tutti i particolari della scena con chiarezza straordinaria. Ricordava molto bene che il vecchio aveva difeso la reputazione di sua figlia, una figlia già attempata e che viveva con lui e sulla quale avevano sparse in città delle voci maligne. Il vecchietto aveva tenuto testa e si era inquietato; poi improvvisamente si era

sciolto in lacrime davanti a tutti, ciò che aveva fatto una certa impressione. Aveva finito per fargli ingoiare dello champagne e ridere di lui. E quando ora « senza buon senso », Veltcianinof rivedeva il povero piccolo vecchio singhiozzare, col viso fra le mani, come un bambino, gli sembrava impossibile di averlo mai dimenticato. E, cosa strana, quella storia, che prima aveva trovato comicissima, gli faceva ora l’impressione opposta; soprattutto certi particolari, soprattutto il viso nascosto nelle mani. Ricordava così come, per divertirsi, aveva diffamato l'onestissima moglie di un maestro di scuola e come la diffamazione fosse venuta sino alle orecchie del marito. Veltcianinof aveva ben presto abbandonata quella piccola città e non aveva saputo quale seguito avesse avuto la sua diffamazione; ma improvvisamente, ora, si domandava come tutto questo poteva essere finito e Dio sa fin dove l’avrebbero condotto le sue congetture, se un ricordo molto recente non gli fosse bruscamente tornato alla mente: quello di una fanciulla di una piccola famiglia borghese che non gli era mai piaciuta, della quale anche ora arrossiva e dalla quale, senza saper troppo come aveva avuto un figlio; aveva abbandonato la madre e il bambino, senza neppure un addio (per mancanza di tempo, è vero), quando aveva lasciato Pietroburgo. Più tardi, per un anno intero, aveva cercato di ritrovare la fanciulla senza riuscirvi. I ricordi di questo genere si presentavano a lui a centinaia; ognuno ne faceva rivivere decine d’altri. Abbiamo già detto che il suo orgoglio aveva preso una forma singolare. Vi erano dei momenti, rari, è vero, in cui dimenticava il suo amor proprio al punto che gli era indifferente di non aver più la sua vettura, di correre ai tribunali a piedi, con vestiti trascurati; se capitava che l’uno o l’altro dei suoi vecchi amici lo guardasse attentamente con occhio indagatore, fingeva di non riconoscerlo; il suo orgoglio era tale che non se ne dispiaceva più. Ed era vero che non si dispiaceva. Era, a dire il vero, molto raro: momenti eggeri in cui dimenticava sé stesso ma, in generale, è certo che la sua vanità si disinteressava, a poco a poco, degli oggetti che gli erano così cari un tempo e si concentrava in un solo oggetto, sempre presente al suo spirito. «Sì, pensava con sarcasmo (era quasi sempre sarcastico quando pensava a sé), c’è qualcuno, senza dubbio, che si occupa di rendermi migliore e che mi suggerisce tutti questi ricordi maledetti e tutte queste lacrime di pentimento. Sia. E poi? Van benissimo le lacrime di pentimento, ma non sono certo che con i miei quarant’anni, i miei quarant’anni di un’esistenza stupida io abbia un briciolo di libero arbitrio. Che domani la stessa tentazione si ripresenti, che, per esempio,

abbia di nuovo un interesse qualsiasi a diffondere la voce che la moglie del maestro di scuola accettava con piacere ciò che le offrivo e ricomincerò, lo so bene, senza la minima esitazione e sarò tanto più vile e più perfido che lo farò per la seconda volta e non più per la prima. Che domani quel piccolo principe al quale, undici anni fa, ho ferita la gamba con un colpo di pistola, venga a offendermi di nuovo, mi farò premura di provocarlo e gli costerà una seconda gamba di legno. Tutti questi ritorni sul ato, è polvere perduta, non c’è neanche un colpo che valga. A che cosa servono questi ricordi quando non so liberarmi abbastanza di me al presente!» Non aveva maestre di scuola da diffamare, né gambe da ferire, ma il solo pensiero che questo fatto poteva ripetersi, all’occasione, quasi lo annientava. Non si può sempre essere in preda ai ricordi, ci devono essere degli intervalli nei quali si possa respirare, distrarsi. Era quello che faceva Veltcianinof: era dispostissimo ad approfittare di questi intermezzi per distrarsi, ma più il tempo ava, più la sua vita diventava penosa a Pietroburgo. Luglio si avvicinava. Gli veniva sovente il desiderio di piantare tutto il suo processo e il resto e di andare in qualche luogo, non importa dove, subito, in qualche parte della Crimea per esempio. Un’ora dopo, generalmente, rideva del suo progetto: «tutti questi maledetti pensieri, non ne posso venire a capo; ora che ci sono, so che sono un uomo maturo, non ho più modo di sfuggirli e poi non c’è ragione... « Perchè me ne andrei? - continuava a filosofare con amarezza. — Qui c'è tanta polvere e un calore soffocante; questa casa è così sporca, ci sono in questi tribunali, d ove o il mio tempo, presso tutti gli uomini d'affari, tante preoccupazioni s nervanti, tanti pensieri opprimenti; c’è in tutta quella gente che riempie la città, su quei visi che ano dalla mattina alla sera, un egoismo così ingenuamente e sinceramente spiegato, un'audacia così grossolana, una viltà cosi meschina, una poltroneria così bassa, che parlando molto seriamente è questo il paradiso per un ipocondriaco. Tutto è audace, tutto è palesato, niente si dà la pena di dissimulare, come fanno le nostre signore dovunque, in campagna, al mare o all’estero; veramente tutto merita qui la più sincera stima, non foss’altro per la sua franchezza e la sua semplicità... Non partirò! Creperò qui, ma non partirò! ».

II - L'uomo con la fascia nera sul cappello

E ra il tre luglio. L’aria era pesante, il calore soffocante. Quel giorno, Veltcianinof aveva tanto da fare. Varie commissioni occupavano tutta la sua mattinata, una visita era in programma per la serata, una visita presso un consigliere di stato, uomo autorevole, che poteva essergli utile e che doveva andare a vedere d’urgenza a casa sua, in campagna, molto lontano, sulla Tchiornaia. La sera dunque, verso le sei, Veltcianinof entrò per cenare in un ristorante di non bell’apparenza ma se, situato sulla Prospettiva Nevski, presso il ponte della Polizia. Sedette nel suo angolo abituale, alla piccola tavola che gli era riservata e ordinò il suo pasto. Ogni giorno desinava con un rublo, escluso il vino, che non prendeva se non in via eccezionale viste le cattive condizioni dei suoi affari. Si stupiva sovente di poter tollerare una simile cucina e tuttavia mangiava sino all'ultima briciola e ogni volta divorava con tanto appetito come se non avesse mangiato da tre giorni. «Deve essere la malattia» pensava quando se ne accorgeva. Quella sera prese posto alla piccola tavola con la peggiore disposizione di spirito, gettò violentemente il suo cappello in un angolo, si appoggiò sui gomiti e pensò. Se il suo vicino avesse fatto il minimo rumore, o il cameriere non l'avesse immediatamente capito lui, che di solito era sempre cortese e sapeva all'occasione rimanere imibile, avrebbe fatto, senza alcun dubbio del chiasso e forse uno scandalo. Dopo che fu servita la minestra, Veltcianinof prese il cucchiaio, ma improvvisamente, con gesto brusco lo gettò sul tavolo e balzò quasi dalla sedia. Un pensiero imprevisto si era impossessato di lui. In un istante, Dio sa come, aveva capito la ragione della sua angoscia, di quel l'angoscia che lo torturava da parecchi giorni, che lo stringeva, Dio sa come e Dio sa perché, senza un momento di tregua. Ecco che improvvisamente lo capiva e ne vedeva il motivo, così distintamente come le dita delle mani. - Il cappello! – mormorò come illuminato. Si, quel cappello maledetto, con

quell’abominevole fascia nera, ecco la causa di tutto. Veltcianinof si mise a riflettere ma più pensava, più diventava cupo, più «tutto l’accaduto» gli sembrava strano. «Ma…ma…è poi un avvenimento?». Ecco di cosa si trattava. Circa quindici giorni prima – a dire il vero non ricordava con precisione, ma doveva essere così – aveva incontrato, per la prima volta, in strada, in qualche luogo, si, all’angolo delle vie Podiatciskaia e Metcianskaia, un uomo che portava la fascia nera al cappello. Quel signore era come tutti e non aveva niente di speciale, ò in fretta ma ando gettò a Veltcianinof uno sguardo estremamente diretto e che attrasse straordinariamente la sua attenzione. Ebbe l’impressione immediata di conoscere quella figura. Certamente l’aveva già incontrato in qualche luogo. - Bah! – pensò – non ho incontrato nella mia vita migliaia di visi come quello? Non si può mica ricordarli tutti. Venti i più lontano , aveva dimenticato quell’incontro malgrado l’impressione che gli aveva fatto. Tuttavia, quell’impressione durò tutta la giornata, stranamente era come un’irritazione senza oggetto e molto speciale. Ora, quindici giorni dopo, ricordava tutto questo molto chiaramente. Ricordava anche che non aveva potuto capire allora, da che parte venisse questa irritazione, al punto che non aveva avuto l’idea di una relazione possibile fra il suo cattivo umore di tutta la serata e il suo incontro del mattino. Ma l’uomo prese cura di non lasciarsi dimenticare: l’indomani si ritrovò in faccia a Veltcianinof, sulla Prospettiva Nevski e, come la prima volta, lo fissò in modo strano. Veltcianinof sputò in segno di disprezzo, poi appena ebbe sputato si stupì di quello che aveva fatto. «Vi sono evidentemente delle fisionomie che ispirano, non si sa perché, un invincibile disgusto». — Non c’è dubbio, l’ho già incontrato in qualche luogo, disse con aria pensosa ancora una mezz’ora dopo l’incontro. E, di nuovo, durante tutta la serata, fu di cattivo umore; la notte, ebbe un sonno agitatissimo e non pensò che l’uomo in lutto potesse essere la causa del suo malessere, quantunque, quella sera, gli tornasse sovente alla memoria.

Era anche inquieto che «una simile sciocchezza» tenesse tanto posto nei suoi pensieri e sarebbe stato molto umiliato di dovergli attribuire lo stato di cui soffriva, se avesse potuto pensarvi. Due giorni dopo, lo incontrò di nuovo, questa volta in mezzo alla folla, alla fine della Neva. Questa volta Veltcianinof avrebbe volentieri giurato che il «signore dalla fascia nera» l’aveva riconosciuto e che la folla li aveva separati; credeva che avesse fatto l’atto di tendergli la mano, forse l’aveva chiamato col suo nome. Il resto, Veltcianinof non l’aveva udito distintamente, tuttavia… «Ma chi è questa canaglia? Perché non viene da me, se veramente mi conosce e vuole avvicinarmi?» pensava preso dalla collera, intanto che saltava in una carrozza per farsi condurre al convento di Smolny. Una mezz’ora più tardi, discuteva calorosamente con il suo avvocato ma la sera e la notte ricondussero in lui l’angoscia più fantastica. «Che io abbia un travaso di bile?» si chiedeva con inquietudine guardandosi allo specchio. Poi cinque giorni arono senza che incontrasse «nessuno» e senza che «la canaglia» desse segno di vita. Eppure non poteva aver dimenticato l’uomo con la fascia nera sul cappello! «Ma che cos’ho da occuparmi così di lui? — pensava Veltcianinof; — Hum! Certamente ha, anche lui, molti affari a Pietroburgo. Ma, di chi, dunque, porta il lutto?... Mi ha evidentemente riconosciuto.... Io no.... E, perché quella gente porta la fascia nera?.... Non s’addice loro... Credo bene che se lo vedessi più da vicino lo riconoscerei.... ». Era come se qualche cosa cominciasse ad agitarsi nei suoi ricordi, era come una parola che si sa bene, che si è dimenticata, e che ci si sforza quanto si può per ritrovarla. Si sa perfettamente, quella parola, si sa che la si sa, si sa quel che si vuol dire, le si gira tutto attorno e non la si può afferrare. «Era... era, è molto tempo... era in qualche luogo... vi era... vi era... Che il diavolo si porti quello che c’era o no! E vale la pena per quella canaglia di darsi tanto cruccio?» Si era terribilmente arrabbiato. Ma la sera, quando ricordò la sua collera « terribile » provò una gran mortificazione — come se qualcuno l’avesse sorpreso a fare del male.

Ne fu inquieto e stupito. « Ci dev’essere una ragione perché io vada in collera così di punto in bianco... a proposito di un semplice ricordo... » Non andò a fondo del suo pensiero, l’indomani ebbe una collera ancora più violenta ma, questa volta gli sembrò giustificata e sentì di essere assolutamente nel suo diritto. « Si è mai vista una simile insolenza! ». Si trattava di un quarto incontro col signore con la fascia nera che, di nuovo, era come uscito da sotto terra. Ecco la storia. Veltcianinof aveva raggiunto infine in strada quel consigliere di Stato, quell’uomo autorevole che inseguiva da molto tempo. Quel funzionario che conosceva un poco e che poteva essergli utile nel suo affare, aveva apertamente fatto tutto il possibile per non lasciarsi prender e e per evitare d’incontrarsi con lui. Veltcianinof, felice di averlo vicino finalmente, camminava al suo fianco, scrutandolo con lo sguardo, cercando di condurre il vecchio scaltro ad un argomento del discorso che gli permettesse di strappargli la preziosa parola, tanto desiderata, ma il furbacchione stava in guardia, rispondeva con degli scherzi o taceva: - Ed ecco che improvvisamente, in quel momento difficile e decisivo, lo sguardo di Veltcianinof incontrò sul marciapiede opposto l’uomo con la fascia nera. Si era fermato, guardava fisso verso di loro; li seguiva, era chiaro e senza alcun dubbio, si beffava di loro! - Che il diavolo lo porti! - esclamò con furia Veltcianinof, che aveva rapidamente preso congedo dal tcinovnik e che attribuiva l’insuccesso dei suoi sforzi all’apparizione improvvisa dell’« insolente », - il diavolo lo porti! Credo proprio che mi spii! Non c’è dubbio, mi segue. È pagato per questo e... e... per Dio, si beffa di me! Per Dio avrà da fare con me! Se avessi un bastone!... Vado a comperare un bastone! Non posso sopportare una cosa simile! Chi è quell’individuo? Bisogna che io sappia chi è. Erano ati tre giorni dopo questo quarto incontro, quando abbiamo trovato Veltcianinof al suo ristorante, fuori di sé e come inabissato. A dispetto del suo orgoglio, bisognava confessarlo, era proprio questo. Era ormai costretto a convenire che il suo umore e l’angoscia strana che lo soffocava da quindici giorni non aveva altra causa che l’uomo in lutto, quell’essere da nulla. « Sono ipocondriaco, è vero, sono sempre pronto a fare di una mosca un elefante, è anche vero; ma tutto questo sarebbe meno penoso essendo solo un’immaginazione? — Se una simile birba può permettersi di turbare

completamente un uomo, allora... allora.... » Questa volta infatti, al quinto incontro, che aveva avuto luogo in quel giorno e che aveva messo Veltcianinof fuori di sé, l’elefante non era che una mosca. L’uomo era ato, ma questa volta, non aveva guardato Veltcianinof, non aveva dato segno di conoscerlo, camminava ad occhi bassi e sembrava molto desideroso di non essere notato. Veltcianinof si era diretto verso di lui e gli aveva gridato ad alta voce: - Dite, uomo con la fascia nera! Adesso scappate? Fermatevi! Ditemi chi siete! Le domande non avevano alcun senso. Ma Veltcianinof se ne accorse solo dopo aver gridato. L’uomo così interpellato si era voltato, si era fermato un istante, era parso esitare, aveva sorriso, come in procinto di voler dire o fare qualcosa, era rimasto estremamente indeciso, poi si era bruscamente allontanato senza guardare dietro di sé. Veltcianinof lo seguiva con l’occhio stupefatto. - Che sia io che lo inseguo – pensò - e non lui? Quando ebbe finito di mangiare, Veltcianinof corse alla casa di campagna del tcinovnik. Non era in casa, gli risposero « che non era rientrato dal mattino, che non rientrerà, senza dubbio, prima delle tre o quattro di notte, perché era in città, presso suo nipote ». Veltcianinof rimase «offeso» al punto che il suo primo pensiero fu di andare dal nipote». Ma per strada rifletté che ormai era troppo lontano, abbandonò la sua carrozza a metà strada e si diresse gironzolando qua e là, verso casa, vicino al Gran Teatro. Sentiva che aveva bisogno di camminare. Gli occorreva una buona notte di sonno per calmare l’agitazione dei suoi nervi e per dormire gli occorreva della fatica. Non si trovò dunque a casa che alle dieci e mezza, poiché la distanza era grande e rientrò morto di stanchezza. L’alloggio che Veltcianinof aveva affittato nel mese di marzo, dopo aver speso molta fatica per trovarlo, — scusandosi, in seguito, del fatto « che era un campo volante e non abitava che momentaneamente Pietroburgo... a causa del maledetto processo », — quell’alloggio era lungi dall’essere così scomodo, così poco conveniente come a lui piaceva di dire. L’entrata, bisogna riconoscerlo, era un po’ scura, sporca anche. Non ve n’erano altre, d’altronde, oltre il portone. Ma l’appartamento, situato al secondo piano, era composto di due stanze molto chiare, molto alte e separate da un’anticamera semi-oscura. Una di queste due stanze guardava verso la corte, l’altra verso strada. Alla prima era attiguo un

gabinetto che poteva servire da camera da letto, ma dove Veltcianinof aveva messo dei libri e delle carte. Aveva scelto la seconda per la sua camera, poiché il divano funzio nava da letto. I mobili di quelle due stanze offrivano all’occhio un certo aspetto di comodità, quantunque in realtà fossero abilmente usati. Qua e là, qualche oggetto di pregio, ricordo di tempi migliori: — dei ninnoli in bronzo, in porcellana, — due quadri di buona fattura, il tutto in un gran disordine, sotto una polvere accumulata dopo la partenza di Palagheia, la ragazza che serviva Veltcianinof e che, improvvisamente, l’aveva lasciato per tornare con i suoi genitori a Novgorod. Quando pensava a questo fatto strano di una ragazza così sistemata presso un giovane che, per niente al mondo, avrebbe voluto venir meno alla sua qualità di gentiluomo, il rossore saliva alle guance di Veltcianinof. Era soddisfatto di Palagheia. Era entrata in casa sua nel momento in cui aveva affittato il suo appartamento, cioè a primavera, uscendo dalla casa di una giovane che andava ad abitare all’estero. Palagheia era molto accurata e ben presto mise in ordine tutto quanto le era stato affidato. Veltcianinof dopo la partenza della fanciulla, non volle più riprendere una donna come domestica. « Non vale la pena di prendere, per così poco tempo, un domestico... » D’altronde detestava la servitù. Fu dunque deciso che le camere sarebbero state ordinate ogni mattina dalla sorella della portinaia, Mavra, alla quale lasciava, uscendo, la chiave della porta che dava sulla corte. In realtà Mavra non faceva niente, prendeva il salario probabilmente rubando. Tutto questo gli era diventato indifferente ed era ben contento che la casa rimanesse vuota. Ma tuttavia i suoi nervi a volte si ribellavano, nelle ore d’irritazione, davanti a tutte quelle « porcherie » e gli capitava spesso, quando rientrava in casa, di non entrare nella sua camera che con disgusto. Quella sera Veltcianinof ebbe appena il tempo di spogliarsi. Si gettò sul suo letto, fermamente deciso a non pensare a niente e, a qualunque costo, ad addormentarsi « all’istante ». Cosa bizzarra, appena la testa fu appoggiata sul cuscino, il sonno lo prese. Era da un mese che non ci riusciva. Veltcianinof dormì così tre ore intere, tre ore pieno di quell’oppressione che si ha nelle notti di febbre. Sognò di aver commesso un delitto, un delitto che negava e del quale l’accusavano di comune accordo, gente che arrivava da ogni parte. Una folla enorme si era ammassata e ne entrava continuamente dalla porta spalancata. Poi tutta la sua attenzione si concentrava su di un uomo bizzarro, che aveva

conosciuto molto bene prima, che era morto e che ora gli si presentava improvvisamente. Il fatto più penoso è che Veltcianinof non sapeva chi fosse quell’uomo, aveva dimenticato il suo nome e non poteva ritrovarlo; tutto ciò che sapeva è che prima l’aveva molto amato. Tutta la gente che era là, aspettava da quell’uomo la parola decisiva, un’accusa formale contro Veltcianinof o la sua giustificazione. Ma l’uomo restava seduto presso la tavola, immobile, ostinatamente silenzioso. Le voci non cessavano, l’irritazione aumentava, improvvisamente, Veltcianinof esasperato dal silenzio dell’uomo, lo colpì e subito sentì uno strano senso di pace. Il suo cuore, stretto dal terrore e dalla sofferenza, si rimise a battere tranquillamente. Una specie di rabbia lo prese, batté un secondo colpo, poi un terzo, poi come fuori di sé di rabbia e di paura, in un'ebbrezza che andava sino allo smarrimento della ragione colpì, acquietandosi a poco a poco , colpì all’impazzata, senza fermarsi Voleva annientare tutto. Poi capitò questo: tutti mandarono un grido di spavento e si precipitarono verso la porta e nello stesso istante tre colpi di camlo, vigorosi, si udirono così forte che sembrava volessero strappare il camlo. Veltcianinof si svegliò, aprì gli occhi, saltò giù dal letto, corse alla porta; era certo che i colpi di camlo erano reali, che non li aveva sognati, che qualcuno era là e voleva entrare. «Sarebbe troppo strano che un suono così netto, così reale, non fosse che un sogno!» Con sua grande sorpresa il suono del camlo non era che un sogno. Aprì la porta, uscì sul pianerottolo, gettò uno sguardo lungo la scala: — decisamente nessuno. Il cordone del camlo pendeva immobile. Sorpreso, ma soddisfatto, rientrò nella sua camera. Accese una candela e ricordò che la porta non era che accostata, che non era chiusa né a chiave, né col catenaccio. Gli era capitato spesso, senza darvi la minima importanza. Palagheia glielo aveva più volte fatto notare. Ritornò in anticamera, aprì ancora una volta la porta, gettò ancora uno sguardo fuori, poi chiuse e tirò semplicemente il catenaccio, senza toccare la chiave. In quel momento, l’orologio suonò le due e mezzo: aveva dormito tre ore. Il sogno l’aveva così fortemente snervato che non volle ricoricarsi subito e preferì eggiare una mezz’ora per la camera, — il tempo di fumare un sigaro. Si vestì sommariamente, si avvicinò alla finestra, sollevò il pesante panneggio di seta e poi la tenda bianca. Già l’alba rischiarava la strada. Le chiare notti d’estate di Pietroburgo avevano sempre scosso fortemente i suoi nervi. Negli ultimi

tempi, esse avevano reso le sue insonnie così frequenti, che aveva dovuto, due settimane prima, appendere alle finestre delle pesanti cortine di seta che riparavano perfettamente dalla luce di fuori. Lasciando entrare il giorno, dimenticando la candela accesa sul tavolo, si mise a eggiare in lungo e in largo, tutto preso da una sensazione di sofferenza pungente. L’impressione che gli aveva lasciato il suo sogno persisteva. Provava sempre un dolore profondo all’idea che avrebbe potuto alzare la mano su quest’uomo e colpirlo. «Ma non esiste quest’uomo, non è mai esistito! Tutta questa storia della quale mi affliggo, non è che un sogno!». In preda alla disperazione, come se su quel punto si concentrassero tutti i suoi pensieri, si mise a pensare che decisamente era malato, « un uomo malato ». Gli era sempre stato penoso riconoscere che invecchiava o che la sua salute era cattiva e, in quelle ore nere, metteva dell’accanimento a esagerare l’uno e l’altro dei suoi mali, di proposito, per tormentare sé stesso. — È la vecchiaia! Sì, invecchio terribilmente, — mormorò marciando in lungo e in largo. < Perdo la memoria, ho delle visioni, dei sogni, sento dei camli... Che il diavolo mi porti! So per esperienza che degli incubi di questo genere sono un segno di febbre... Sono ben sicuro che tutta questa «storia» dell’uomo con la fascia nera non può essere che un sogno. Decisamente avevo ragione ieri: sono io, sono io che mi accanisco contro di lui, non è lui. Ho creato un mostro e ne ho paura, corro a salvarmi sotto la tavola. E poi per che cosa lo chiamo canaglia? Può esser un uomo a modo. Il suo viso non è gradevole, è vero; ma infine, non ha niente di particolarmente brutto. È come tutti. Non c’è che il suo sguardo... Andiamo, ecco che ancora penso a lui! Che cosa mi importa del suo sguardo? Non posso dunque vivere senza pensare a quel... a quel mascalzone! Fra tutti questi pensieri che si inseguivano nel suo cervello, ve ne era uno che gli era apparso chiaramente e che gli fu doloroso: si convinse che l’uomo dalla fascia nera era stato uno dei suoi amici più vicini e che ora, quando lo incontrava, quell’uomo si beffava di lui perché sapeva un gran segreto del suo ato e lo vedeva ora così perso. Andò meccanicamente alla finestra per aprirla e respirare la freschezza della notte e... e, bruscamente, rabbrividì tutto: gli sembrò che davanti a lui si producesse qualche cosa di prodigioso, di

inaudito. Non arrivò ad aprire la finestra, velocemente scivolò nel vano della medesima e vi si nascose: là, diritto in faccia alla casa, sul marciapiede deserto, aveva visto l’uomo con la fascia nera sul cappello. L’uomo era in piedi, col viso rivolto verso la finestra, non l'aveva certam ente visto; guardava la casa curiosamente, come se cercasse qualcosa. Sembrava riflettere: alzò la mano, si toccò la fronte con un dito. Infine si decise: gettò rapidamente uno sguardo attorno a sé poi, con la punta dei piedi, a piccoli i attraversò la strada molto rapidamente... Eccolo che si avvicina alla porta, alla piccola porta di servizio, che in estate non si chiude spesso prima delle tre del mattino. «Viene da me», pensò bruscamente Veltcianinof e più presto che potè, camminando anche lui in punta di piedi, attraversò l’anticamera, corse verso la porta e... vi si fermò davanti, inchiodato dall’aspettativa, la sua mano destra tremante teneva il catenaccio della porta, tutta la sua attenzione era tesa verso il rumore dei i sulla scala. Il cuore gli batteva così forte, che ebbe paura di non udire lo sconosciuto salire in punta di piedi. Di fatti non udiva niente, ma sentiva tutto con una lucidità amplificata. Era come se il sogno di poco prima si fosse fuso con la realtà. Veltcianinof era coraggioso di natura. Aveva amato talora spingere sino all’estremo il disprezzo del pericolo, anche quando nessuno lo vedeva, unicamente per piacere a se stesso. Ma, oggi era un’altra cosa. L'ipocondriaco sofferente di prima era trasfigurato; era ora tutt’altro uomo. Una risata nervosa, silenziosa, scuoteva il suo petto. Attraverso la porta chiusa indovinava ogni movimento dello sconosciuto. « Ah! ecco che entra, che sale, che guarda intorno a sé, ascolta sulle scale, respira a fatica, cammina a i da lupo… Ah!... Prende il battente della porta, tira, cerca di aprire. Immagina che la mia casa non sia chiusa. Sapeva, dunque, che a volte mi dimentico di chiudere?... Di nuovo, tira il battente... Pensa che la serratura cederà così?... È peccato, eh? andarsene! Peccato, tornarsene con le pive nel sacco! » E, di fatti tutto doveva essere avvenuto così come Veltcianinof aveva indovinato: qualcuno, difatti, era là, dietro la porta, aveva cautamente e senza rumore esplorata la serratura e tirata la maniglia « e senza alcun dubbio, aveva le sue idee ». Veltcianinof era deciso a svelare l’enigma; aspettava il momento con una specie di impazienza, bruciava dal desiderio di tirare bruscamente il catenaccio, di aprire la porta completamente, di trovarsi faccia a faccia col suo spavento e

dire con bontà: « Ma che cosa fate qui, mio caro signore? » E ciò avvenne infatti quando ebbe scelto il suo momento, tirò bruscamente il catenaccio, spalancò la porta e poco mancò non urtasse contro il signore dalla fascia nera sul cappello.

III - Pavel Pavlovitch Trusotsky

L’altro rimase al suo posto, immobile e muto. Restarono così, per qualche momento, l’uno di fronte all’altro, sulla soglia della porta, senza muoversi, con gli occhi negli occhi. Poi, improvvisamente, Veltcianinof riconobbe il suo ospite. Nello stesso istante, l’ospite capì che Veltcianinof l'aveva riconosciuto: si vide are come una luce nei suoi occhi. Il suo viso si illuminò con un sorriso, il più dolce del mondo. — È proprio ad Alexis Ivanovitch che ho il piacere di parlare? - disse con voce soave, tanto da essere comica, in quella circostanza. — Ma voi, non siete Pavel Pavlovitch Trusotsky? - esclamò Veltcianinof, con l’aria dell’uomo che indovina. - Ci siamo conosciuti, nove anni or sono a T..., e se mi permettete di ricordarlo, siamo stati assai buoni amici. - Sì, senza dubbio... è possibile... ma infine sono le tre del mattino e voi state cercando di sapere, da dieci minuti, se la mia casa è chiusa o no. - Le tre! esclamò l’altro, che afferrò il suo orologio, confuso di stupore, — è vero, le tre! Perdonatemi, Alexis Ivanovitch, avrei dovuto pensarci prima di venire, sono molto confuso. Me ne vado; mi spiegherò un’altra volta, ma ora... — Ma niente affatto! Se avete qualcosa da dire, è meglio subito! - interruppe Veltcianinof. - Fatemi il piacere di entrare di qua, nella mia camera. È questo che volete, immagino, non siete mica venuto di notte unicamente per esplorare la mia serratura.... Era sconvolto, spaventato, e sentiva che non era più padrone di sé. Ne aveva vergogna: che cosa c’era insomma, di misterioso o d’inquietante in tutta questa storia? Tanta emozione per aver visto spuntare la sciocca figura di Pavel Pavlovitch!... Eppure, in fondo, non trovava tutto ciò molto semplice; presentiva

qualcosa, confusamente, con terrore. Offrì una poltrona al suo ospite, sedette con un movimento brusco sul letto, a un o dalla poltrona e, chinato in avanti, con le palme aperte posate sulle ginocchia, attese che l’altro parlasse. Lo guardava avidamente e faceva uno sforzo per ricordare. Cosa strana, l’altro taceva, sembrava non capire che « doveva » spiegarsi subito, al contrario, guardava Veltcianinof con aria d’attesa. Forse aveva paura, semplicemente e si sentiva a disagio, come un topo in trappola. Ma Veltcianinof scoppiò. — Che cosa volete? – gridava, non siete, immagino, un fantasma o un sogno! Siete venuto qua per giocare ai morti? Dovete spiegarvi, piccolo padre! L'ospite si agitò, e cominciò timidamente: - Vedo che siete stupito soprattutto che io sia venuto a una simile ora, e in condizioni così speciali... Quando penso a tutto ciò che è stato prima, e al modo come ci siamo lasciati.... sì, è molto strano.... Del resto, non avevo assolutamente l’intenzione di entrare e, se questo è avvenuto, è proprio per caso.... — Come, per caso! Ma vi ho visto dalla mia finestra attraversare furtivamente la strada in punta di piedi. — Ah! voi mi avete visto! Allora, vi giuro, voi ne sapete più di me... Ma io vi faccio perdere la pazienza.... sono arrivato a Pietroburgo, da tre settimane, per affari.... sì, sono proprio Pavel Pavlovitch Trusotsky; voi mi avete perfettamente riconosciuto. Ecco di che cosa si tratta : mi muovo per ottenere di cambiare servizio e di are in un altro dipartimento con aumento di stipendio... No, non è precisamente questo... Infine, vedete, l'essenziale è che mi trascino qui da tre settimane e che, in fede mia, tiro alla lunga io stesso i miei affari.... sì, l’affare del mio cambio di impiego... e che se questo avviene, in fede mia, tanto peggio, dimenticherò che sia avvenuto, non potrò andarmene dalla vostra Pietroburgo nelle mie attuali condizioni. Mi trascino come se non avessi più scopo e come se fossi contento di non averne più.... nella mia situazione!.... — Ma infine in quale « situazione » ? - interruppe Veltcianinof. L’ospite alzò gli occhi su di lui, afferrò il suo cappello e, con una dignità piena di grandezza, mostrò la fascia nera. - Ebbene, sì, in quale « situazione »?

Veltcianinof guardò con occhio stupefatto la fascia e poi il viso del suo ospite. Improvvisamente il rossore coprì le sue guance e sentì un brivido terribile: — Come! Natalia Vassilievna! — Si, Natalia Vassilievna! Nel marzo ultimo... Una tisi quasi fulminante, in due o tre mesi !.... Ed io sono rimasto, come voi vedete! Dicendo queste ultime parole, l’ospite, con un’espressione di tristezza, aprì le braccia distese, tenendo con la mano sinistra il cappello e lasciò cadere la testa calva sul petto, per due o tre secondi. Quell’aria e quel gesto resero subito calmo Veltcianinof; un sorriso ironico, aggressivo, ò sulle sue labbra, ma scomparve nello stesso istante, la notizia della morte di quella donna che aveva conosciuto molto tempo prima, gli faceva un’impressione inattesa, profondissima. — È possibile, - mormorò - ma perché non siete venuto francamente e apertamente da me? — Vi ringrazio della vostra simpatia, la vedo e ne sono grato... Benché.... — Benché.... — Benché noi siamo divisi da molti anni, voi avete preso subito al mio dolore, a me stesso, un interesse così vivo, che sento per voi, non dubitatene, una viva riconoscenza. È quanto volevo dirvi. Non mi sono ingannato delle mie amicizie, poiché qui posso ritrovarle come quelle dei miei amici più sinceri (non vi citerò che Stefan Mikhailovitch Bagautov); ma davvero Alexis Ivanovitch, dopo le nostre relazioni di prima, e, lasciatemelo dire, poiché ho la memoria fedele, dopo la nostra vecchia amicizia, nove anni sono ati, senza che voi siate ritornato a trovarci e neppure ci siamo scambiate delle lettere. Si sarebbe detto che recitasse a memoria e per tutto il tempo che parlò tenne gli occhi fissi a terra, pur non perdendo nulla di ciò che avveniva. Veltcianinof era ridiventato padrone di sé. Ascoltava e guardava Pavel Pavlovitch, con delle impressioni bizzarre, la cui intensità andava crescendo e subito, quando tacque, le idee più singolari e più imprevedibili si accumularono nel suo cervello. — Ma come mai non vi ho riconosciuto fino ad ora? - esclamò. - Noi ci siamo

incontrati cinque volte per strada. — Difatti, mi ricordo; mi imbattevo in ogni istante in voi e due o tre volte, almeno.... — Vale a dire che ero io che, mi imbattevo ad ogni istante in voi, e non voi in me. Veltcianinof si alzò, e, improvvisamente scoppiò in una risata violenta, inattesa. Pavel Pavlovitch, rimase silenzioso, guardò attentamente e proseguì: — Se voi, non mi avete riconosciuto, è perché avete potuto dimenticarmi: il vaiolo ha conservato la traccia sul mio viso. — Il vaiolo? Di fatti, è vaiolo. Ma come?... — Come l’ho preso? Tutto capita, Alexis Ivanovitch; si è colpiti. — È ben strano. Ma continuate, continuate, caro amico! — Ebbene, benché vi avessi già incontrato... — Aspettate! Perché avete parlato così a proposito del vaiolo? Bisogna parlare in modo meno volgare. Ma continuate, continuate! Si sentiva d’umore sempre più gaio. L’oppressione che lo soffocava era completamente scomparsa. Camminava a grandi i per la camera, in lungo e in largo. — È vero, vi ho già incontrato, ed ero deciso, al mio arrivo a Pietroburgo, di venirvi a trovare ma, ve lo ripeto, sono in una tale disposizione di spirito... sono talmente sconvolto dal mese di marzo.... — Sconvolto dal mese di marzo?... Ah sì, capisco!... Scusate, non fumate? — Io, sapete, dal tempo di Natalia Vassilievna.... - Ah sì! ma dopo il mese di marzo? - Forse una piccola sigaretta.

- Ecco una sigaretta, accendetela e... proseguite! Proseguite, è eccessivamente... E Veltcianinof s’accese un sigaro e andò a sedere sul letto, sempre parlando. Pavel Pavlovitch l'interruppe: — Ma voi stesso, non siete un po’ agitato, state proprio bene? — Eh! al diavolo la mia salute! - esclamò Veltcianinof di cattivo umore. Continuate! L'ospite, a sua volta, vedendo l'agitazione di Veltcianinof, divenne più tranquillo e più padrone di sé. — Che cosa volete che continui? - disse — Figuratevi, prima, Alexis Ivanovitch, un uomo morto, veramente morto; un uomo che, dopo vent’anni di matrimonio, cambia vita, si mette a girare per le strade polverose, senza scopo, come se camminasse nelle steppe, quasi incosciente, di un'incoscienza che gli procura anche una certa calma. È vero: incontro a volte una conoscenza, magari un vero amico e o, di proposito, per non avvicinarlo in questo stato di incoscienza. In altri momenti, al contrario, ci si ricorda di tutto con tanta intensità, si prova il bisogno imperioso di vedere un testimone di quel ato scomparso per sempre, si sente battere così forte il cuore che bisogna assolutamente, sia di giorno che di notte, correre a gettarsi fra le braccia di un amico, anche se si dovesse per questo svegliarlo alle quattro del mattino. Può darsi, che io abbia scelto male la mia ora, ma non mi sono mai ingannato sull’amico: poiché adesso mi sento pienamente riconfortato. Circa l’ora, credevo, ve lo assicuro, fosse appena mezzanotte. Si beve il proprio dolore e si diventa, in un certo modo, ebbri. E allora, non è più dolore, è come una seconda natura che sento vivere in me... - Come vi esprimete! - disse con voce sorda Veltcianinof e subito ridivenne cupo. - Si, ho un modo bizzarro di esprimermi. - E non scherzate? - Scherzate! - esclamò Pavel Pavlovlitch, con tono di tristezza ansiosa, scherzate dal momento che vi dichiaro.... — Ah! non dite di più, vi prego.

Veltcianinof si alzò e si rimise a camminare per la camera. Cinque minuti arono così. L’ospite volle alzarsi, ma Veltcianinof gli gridò: Restate seduto! restate seduto! E l'altro docilmente si lasciò ricadere sulla sua poltrona. - Mio Dio come siete cambiato! — riprese Veltcianinof, ergendosi dinanzi a lui, quasi stesse accorgendosene soltanto allora. — Terribilmente cambiato! straordinariamente! Voi siete tutt'altro uomo! - Non è sorprendente: nove anni! — No, no, non è questione di età. Non è il vostro fisico che è mutato, ma voi siete diventato tutt'altro uomo! — Eh sì, è possibile, nove anni! — O non sarà piuttosto dopo il mese di marzo? — Eh! Eh! fece Pavel Pavlovitch con un sorriso malizioso, voi amate scherzare.... Ma, vediamo, poiché ci tenete, che cambiamento notate? - Ebbene, ecco. Il Pavel Pavlovitch di un tempo era un uomo serio, corretto, intellettuale; quello di adesso è assolutamente un «cialtrone!» , Veltcianinof era arrivato a quello stato di irritazione in cui gli uomini più padroni di sé, vanno con le parole, più lontano che non vogliano. - Cialtrone! Trovate?... Non sono più intellettuale? Non intellettuale, - disse compiacentemente Pavel Pavlovitch. — Al diavolo l'intellettuale! Ora voi siete intelligente e niente di più. « Sono insolente, pensava Veltcianinof, ma questa canaglia è ancora più insolente di me! Infine che cosa vuole? » — Ah! mio ben amato Alexis Ivanovitch, - esclamò improvvisamente l'ospite, agitandosi sulla sua poltrona. - Che cosa fare, ora? Il nostro posto non è più nel mondo, nella brillante società del gran mondo! Noi siamo due vecchi e veri

amici e, ora che la nostra intimità è diventata più completa, noi ricorderemo l'uno all'altro la preziosa unione dei nostri due affetti, tra i quali la defunta era un legame più prezioso ancora! E, come trasportato dallo slancio dei suoi sentimenti, lasciò di nuovo cadere il capo e si nascose il viso dietro il cappello. Veltcianinof lo guardava, con un misto di inquietudine e di ripugnanza. «Vediamo, tutto questo non sarebbe che una farsa? pensava. Ma no, no, no! Non ha l’aria da ubriaco... ma, dopo tutto, può darsi che sia ubriaco, ha il viso rosso. Del resto, ubbriaco o no, fa lo stesso... Infine che cosa vuole da me? Che cosa vuole da me questa canaglia?» — Ricordate, ricordate? - gridò Pavel Pavlovitch, allontanando un po’ il suo cappello e sempre più esaltato dai suoi ricordi. — Vi ricordate le nostre gite in campagna, le nostre serate, le nostre danze e i nostri piccoli giochi in casa di Sua Eccellenza; l’ospitalissimo Semen Semenovitch? E le nostre letture di sera, a tre? E i nostri primi colloqui, quando siete venuto da me, una mattina, a consultarmi per i vostri affari? Vi ricordate che eravate sul punto di spazientirvi quando Natalia Vassilievna è entrata e come dopo dieci minuti voi eravate già il nostro migliore amico, come lo siete rimasto per un anno, — proprio come nella Provinciale , la commedia di Turgenev.... Veltcianinof eggiava lentamente con gli occhi a terra, ascoltando con impazienza, con ripugnanza, ma ascoltando attentamente. — Non ho mai pensato alla Provinciale , interruppe e mai vi è capitato prima di parlare in quella voce in falsetto, in quello stile che non è vostro. Perché tutto questo? - È vero, prima tacevo di più e parlavo di me no, riprese con vivacità Pavel Pavlovitch. Sapete, prima preferivo ascoltare, quando la defunta parlava. Vi ricordate come discorreva, con quale spirito... Per quanto riguarda la Provinciale e in particolare Stoupendief, avete ragione: la cara defunta ed io, sovente, pensando a voi, subito dopo che ve ne eravate andato, abbiamo accostato il nostro primo incontro a quella commedia... e difatti, l’analogia era impressionante. E specialmente per Stoupendief... — Che il diavolo si porti il vostro Stoupendief! - esclamò Veltcianinof battendo i piedi, inquietandosi a quel nome, che destava nel suo spirito un ricordo inquieto.

— Stoupendief? ma è il nome del marito nella Provinciale , - continuò Pavel Pavlovitch con, la sua voce più dolce. - Ma tutto questo si riferisce all’altra serie dei miei rari ricordi, all'epoca che seguì la vostra partenza, quando Stefan Mikhailovitch Bagatof ci faceva il favore della sua amicizia, proprio come voi, ma per cinque anni interi! — Bagatof? Quale Bagatof? — replicò Veltcianinof, piantandosi dinanzi a Pavel Pavlovitch. — Ma Bagatof, Stefan Mikhailovitch Bagatof, che ci ha accordato la sua amicizia giusto un anno dopo di voi... e... proprio come voi. — Ma sì! Perdiana, si… Ma io lo conosco, - riprese Veltcianinof – Bagatof! Ma ero, credo, in carica nel vostro dipartimento? — Perfettamente, era alla dipendenza del governatore. Era di Pietroburgo... Un giovane elegante.... della miglior società, esclamò con vero trasporto Pavel Pavlovitch. — Ma sì, ma perfettamente ! Dove ho la testa? Allora anche lui?... — Anche lui, sì, anche lui, - ripetè Pavel Pavlovitch, con lo stesso slancio, afferrando al volo la parola imprudente del suo interruttore, anche lui! È allora che noi abbiamo rappresentato la Provinciale, in un teatro di dilettanti, in casa di Sua Eccellenza, l’ospitalissimo Semen Semenovitch, Stefan Mikailovitch faceva il conte, la defunta faceva « la Provinciale » e io... dovevo sostenere la parte del marito, ma mi hanno tolto questa parte per desiderio della defunta che credeva non ne fossi capace. - Ma che strano Stoupendief siete voi!... Prima di tutto voi siete Pavel Pavlovitch Tru sotsky e non Stoupendief, - interruppe violentemente Veltcianinof, che non poteva più contenersi e tremava quasi di irritazione. - Vediamo, permettete: Bagatof è qui, a Pietroburgo. L’ho visto io stesso, l’ho visto a primavera. Perché non andate da lui? — Ma, tutti i giorni, vado da lui, da tre settimane. Non mi riceve. È malato, non può più ricevere. Figuratevi che di fatti ho appreso, da buonissima fonte, che è malato gravemente. Ecco un amico! Un amico di cinque anni! Ah! Alessio Ivanovitch, ve l’ho detto e ve lo ripeto, vi sono dei momenti in cui si vorrebbe essere sotto terra e in altri, al contrario, ritrovare qualcuno di quelli che hanno vi-

sto e vissuto il nostro tempo ato, per piangere con lui, sì, unicamente per piangere! — Vediamo un po’, basta per oggi, non è vero? - disse seccamente Veltcianinof. — Oh sì! è più che abbastanza! - disse Pavel Pavlovitch alzandosi di scatto. Mio Dio! sono le quattro. Come vi ho egoisticamente disturbato! — Ascoltate, verrò anch’io a trovarvi e spero.... Vediamo! ditemi francamente... Non siete ubriaco oggi? — Ubriaco? ma niente affatto.. — Non avete bevuto venendo, o prima? — Sapete, Alexis Ivanovitch, avete proprio la febbre. — Domani verrò a trovarvi presto. — Sì, - interruppe con insistenza Pavel Pavlovitch. -Sì, voi parlate come in delirio. Ho cominciato ad accorgermene un momento fa. Sono varamento inquieto... Senza dubbio la mia stupidità... sì, me ne vado, me ne vado. Ma voi, Alexis Ivanovitch, coricatevi e cercate di dormire. - Ma voi non mi avete detto dove abitate! - disse Veltcianinof dietro a lui, mentre se ne andava. - Non ve l’ho detto? All’Hotel Pokrof? — Che cos’è l’hotel Pokrof? — È vicinissimo al quartiere Pokrof, nella stradina.... Bene, ecco che ho dimenticato il nome della stradina e il numero. Infine è vicinissimo a Pokrof.... — Lo troverò. — Addio. E già, era sulla scala. — Aspettate! aspettate! - gridò bruscamente Veltcianinof. - Non fuggirete così!

— Come? «fuggire»? disse l’altro, sgranando gli occhi e fermandosi sul terzo gradino. Per tutta risposta, Veltcianinof richiuse con forza la porta, diede un giro di chiave e spinse il catenaccio, poi rientrò nella sua camera e sputò con disgusto, come se avesse toccato qualcosa di sporco. Restò in piedi, in mezzo alla camera, immobile, cinque lunghi minuti e, improvvisamente, senza spogliarsi, si gettò sul letto e s’addormentò subito. La candela dimenticata sulla tavola si consumò sino alla fine.

IV - La donna, il marito e l’amante

Veltcianinof dormì pesantemente e non si svegliò che alle nove e mezza. Si alzò e si sedette sul letto e cominciò a pensare alla morte di « quella donna ». L’impressione che aveva ricevuta alla notizia di quella morte aveva qualche cosa di torbido e di doloroso. Aveva dominato la sua agitazione davanti a Pavel Pavlovitch ma, ora che era solo, tutto quel ato vecchio di nove anni rivisse immediatamente dinanzi a lui con una chiarezza estrema. Quella donna, Natalia Vassilievna, la moglie di « quel Trusotsky, l’aveva amata, era stato il suo amante, quando, a proposito di un’eredità, aveva soggiornato un anno intero a T...., quantunque la sistemazione dei suoi affari non reclamasse un soggiorno così lungo. La vera causa era stata quella relazione. Quel legame e quella ione l’avevano posseduto così tanto che era stato come uno schiavo per Natalia Vassilievna e che avrebbe fatto senza esitare la cosa più folle e più insensata per soddisfare il minimo capriccio di quella donna. Mai, ne prima, ne dopo, una cosa simile gli era capitata. Verso la fine dell’anno, quando la separazione era inevitabile Veltcianinof, all’avvicinarsi della data fatale, si era sentito disperato quantunque quella separazione dovesse essere di breve durata: aveva perduto la testa al punto da proporre a Natalia Vassilievna di rapirla e di condurla per sempre all’estero. Ci volle tutta la resistenza tenace e scherzosa di quella donna che prima, per noia o per celia, sembrava trovare il progetto seducente, per obbligarlo a partir solo. E poi? Meno di due mesi dopo la separazione, Veltcianinof a Pietroburgo si poneva questa domanda, alla quale non trovava risposta: aveva amato veramente quella donna o era stato vittima di una illusione? E non era né per leggerezza, né perché cominciasse una nuova ione che si poneva quella domanda, i primi due mesi che seguirono il suo ritorno a Pietroburgo rimase sotto l’azione di una specie di stu pore che gli impediva di osservare qualsiasi doma, benché avesse ripreso la sua vita mondana e avesse occasione di vederne molte. Sapeva bene, a dispetto di tutti i quesiti che si poneva che, se fosse ritornato a T... sarebbe ricaduto immediatamente sotto il fascino dominatore di lei. Cinque anni dopo ne era ancora convinto come il primo giorno, ma quella constatazione gli procurava solo irritazione e non

ricordava più quella donna se non con antipatia. Si vergognava di quell’anno ato a T... Non poteva capire come aveva potuto essere così « stupidamente » innamorato, lui Veltcianinof! Tutti i suoi ricordi di quella ione non gli davano che disgusto: arrossiva di vergogna sino alle lacrime. A poco a poco, tuttavia, ritrovò una certa quiete: cercò di dimenticare e ci era quasi riuscito. Ed ecco che improvvisamente dopo nove anni, tutto questo risuscitava in un modo strano, dinanzi a lui, alla notizia della morte di Natalia Vassil ievna. Ora, seduto sul suo letto, ossessionato da rapide idee che si affollavano in disordine nel suo cervello, non sentiva e non vedeva distintamente che una cosa, cioè che malgrado la scossa che gli aveva dato la notizia, si sentiva perfettamente calmo all’idea di saperla morta: « Non ho, dunque, per lei neppure un rimpianto? » si chiedeva. La verità, è che tutto quello che aveva avuto contro di lei di antipatia, si cancellava e che poteva, in quell’ora, giudicarla senza preconcetto. L’opinione che si era fatta di lei, nel corso di nove anni di separazione, era che Natalia Vassilievna fosse un tipo provinciale, della donna di « buona società » di provincia e che forse solo lui poteva perdere la testa per lei. Del resto aveva sempre dubitato che quell’opinione potesse essere sbagliata e lo sentiva ora. Infatti la contraddicevano: quel Bagatof era stato, anche lui, per molti anni, legato a lei, ed era chiaro che, anche lui, era stato « soggiogato ». Bagatof era veramente un giovane della migliore società di Pietroburgo, « un essere nullo come nessun altro » diceva Veltcianinof e che non poteva evidentemente fare la sua strada che a Pietroburgo. E quell’uomo aveva sacrificato Pietroburgo, vale a dire tutto il suo avvenire ed era rimasto cinque anni a T... unicamente per quella donna! Aveva finito per tornare a Pietroburgo, ma era possibile che così lo mandarono a so, come una ciabatta usata. Ci doveva essere quindi in quella donna qualcosa di straordinario, il dono di attrarre, di asservire, di dominare! Eppure gli sembrava non avesse quello che occorreva per accattivare e asservire: «Vediamo! era ben lontana dall’essere bella, non so neppure se non fosse semplicemente brutta.» Quando Veltcianinof la incontrò aveva già ventotto anni. Il suo viso non era grazioso, si animava talora piacevolmente, ma i suoi occhi erano veramente brutti; aveva lo sguardo eccessivamente duro. Era molto magra. La sua cultura era mediocre, aveva intelligenza sicura e penetrante ma ristretta. Le sue maniere erano quelle di una mondana di provincia, aveva però, bisogna dirlo, molto tatto e un gusto eccellente; soprattutto vestiva alla perfezione. Il suo carattere era risoluto e dominatore; impossibile intendersi con lei a metà: « tutto o niente ». Aveva nelle cose difficili, una fermezza e un’energia sorprendenti.

Aveva anima generosa e nello stesso tempo era ingiusta senza limiti. Non era possibile discutere con lei: per lei., due volte due non significava niente. Mai, in nessun caso ella avrebbe riconosciuto la sua ingiustizia o il suo torto. Le infedeltà senza numero che faceva a suo marito non le pesavano sulla coscienza. Era perfettamente fedele al suo amante finché non l’annoiava. Amava far soffrire i suoi amanti, ma amava anche ricompensarli. Era apionata, crudele e sensibile. Odiava la depravazione degli altri, la giudicava con una durezza spietata ed era lei stessa depravata. Sarebbe stato assolutamente impossibile condurla a rendersi conto della propria depravazione. «Sinceramente l’ignora,» giudicava Veltcianinof quando era ancora a T... È una di quelle donne che sono nate per essere infedeli. Non vi è pericolo che le donne di quella specie cadano finché sono fanciulle: è la legge della loro natura che le induce ad attendere di essere sposate. Il marito è il loro primo amante, ma non mai prima delle nozze. Non vi sono donne meglio accorte di loro per sposarsi. Naturalmente è sempre il marito il responsabile del loro primo amante. E le cose continuano così, con la stessa sincerità! infine si convincono di essere perfettamente oneste, perfettamente innocenti. Veltcianinof era convinto che esistono donne di quel genere ed era ugualmente convinto che esiste un tipo di marito corrispondente a questo tipo di donna e che non ha altra ragione di essere che di corrispondervi. Per lui, l’essenza dei mariti di quel genere consiste nell'essere per così dire « eterno marito » o, per meglio dire, nell’essere tutta la loro vita unicamente dei mariti e niente di più. « L’uomo di questa specie viene al mondo e cresce unicamente per sposarsi e, appena sposato, diviene immediatamente qualcosa di complementare alla moglie, anche quando ha un carattere personale e deciso. La marca distintiva di un tal marito è l’ornamento. Gli è impossibile non portarne, come al sole di non splendere e non soltanto gli è proibito di saperne mai nulla, ma anche gli è interdetto di conoscere le leggi della sua natura. » Veltcianinof credeva fermamente all’ esi stenza di questi due tipi e Pavel Pavlovitch Trusotsky, a T... rappresentava esattamente ai suoi occhi uno di quei tipi. Il Pavel Pavloviach che se n'era andato in quel momento non era più quello che aveva conosciuto a T... L’aveva trovato prodigiosamente mutilato, ma sapeva bene che non poteva essere mutato e che era questa la cosa più naturale del

mondo: il vero. Trusotsky, colui che aveva conosciuto, poteva avere la sua realtà completa solo finché vivesse sua moglie; ciò che restava ora, era una parte di quel tutto e niente di più, qualche cosa di abbandonato alla fortuna, qualcosa di sorprendente e che non somigliava a niente. Quanto a ciò che era stato il vero Pavel Pavlovitch, quello di T..., ecco il ricordo che ne aveva conservato Veltcianinof e che gli ritornò in mente: «Esattamente parlando, il Pavel Pavlovitch di T... era marito, e niente più.» Così, per esempio, se era nello stesso tempo funzionario, era unicamente perché doveva appagare uno degli obblighi essenziali della sua parte di marito: aveva preso posto nelle gerarchie dei funzionari per assicurare a sua moglie una posizione nel mondo di T... ; pur essendo, per se stesso, un funzionario molto zelante. Aveva allora trenta-cinque anni, aveva una certa fortuna, abbastanza considerevole. Non mostrava nel suo servizio, una capacità molto notevole, né d’altronde, un’incapacità molto notevole. Era ricevuto in tutti i migliori uffici del dipartimento e vi faceva buona figura. Tutti a T... erano pieni di riguardi per Natalia Vassilievna, lei ne teneva solo che il conto che conveniva, ricevendo tutti gli omaggi come cose dovute; sapeva così ricevere perfettamente e aveva così bene abituato Pavel Pavlovitch che eguagliava in distinzione di modi i massimi gradi del dipartimento. «Può essere, pensava Veltcianinof che avesse dello spirito, ma siccome Natalia Vassilievna non amava parlare molto, non aveva avuto l’occasione di dimostrarlo. Può essere che avesse, dalla nascita, delle qualità e dei difetti, ma queste qualità erano nascoste e i suoi difetti erano presso a poco soffocati e appena trapelavano!». Per esempio, Veltcianinof si ricordava che Trusotsky era naturalmente portato a prendersi gioco dei vicini: il che gli era stato proibito formalmente. Amava talora raccontare qualche storia: non gli era permesso che di raccontare cose molto insignificanti e molto brevi. Amava uscire, andare al circolo, bere con gli amici, il desiderio di farlo gli fu ben presto tolto. E con tutto questo, non si poteva dire che quel marito fosse sotto la pantofola della moglie. Natalia Vassilievna aveva tutte le apparenze della donna perfettamente obbediente e forse ella stessa era convinta della sua obbedienza. Forse Pavel Pavlovitch amava Natalia Vassilievna sino all’intera abnegazione di sé; ma era impossibile saperlo, visto il modo con cui lei aveva organizzata la loro vita. Durante il suo anno di soggiorno a T.., Veltcianinof, più di una volta, si era domandato se quel marito non avesse notato nulla del loro legame. Aveva anche interrogato, molto seriamente, Natalia Vassilievna che, ogni volta, era andata in collera e invariabilmente aveva risposto che un marito non sa niente di queste cose e non può saperne mai niente e che «tutto questo non lo riguarda in, alcun modo». Altro particolare curioso: mai ella si beffava di Pavel Pavlovitch, non lo

trovava. brutto, né ridicolo, l’avrebbe decisamente difeso da chiunque si fosse permesso una mancanza di riguardo verso di lui. Non avendo avuto figli, aveva dovuto consacrarsi esclusivamente alla vita mondana, ma lei amava la sua casa. I piaceri mondani non l’assorbivano mai completamente ed amava le faccende di casa. Pavel Pavlovitch ricordava sempre le loro serate di letture comuni, era vero: Veltcianinof leggeva, Pavel Pavlovitch leggeva pure e leggeva molto bene ad alta voce, con grande stupore di Veltcianinof. Natalia Vassilievna intanto ricamava e ascoltava tranquillamente. Si leggevano dei romanzi di Dickens, qualche articolo di rivista russa, talora qualcosa di «serio». Natalia Vassilievna apprezzava molto la cultura di Veltcianinof, ma in silenzio, come una cosa convenuta, della quale non era il caso di parlare: in generale, i libri e la scienza la lasciavano indifferente, come una cosa utile, ma che le era estranea; Pavel Pavlovitch ci metteva a volte dell’ardore. Quel legame si spezzò improvvisamente, nel momento in cui la ione di Veltcianinof, che non aveva fatto che ingrandirsi, era arrivata a toglierli quasi il senno. Fu cacciato, semplicemente all’improvviso e questo fu fatto così bene ch’egli partì senza rendersi conto che era stato respinto «come una vecchia ciabatta usata». Un mese e mezzo prima della sua partenza, era arrivato a T... un giovane ufficiale d'artiglieria, appena uscito dalla Scuola. Fu ricevuto presso i Trusotschy: invece di tre furono quattro. Natalia Vassilievna accolse il giovane con molta benevolenza, ma lo trattò come un bimbo. Veltcianinof non dubitò di nulla, neppure comprese il giorno in cui gli fu palesato che la separazione era diventata necessaria. Fra le cento ragioni per mezzo delle quali Natalia Vassilievna gli dimostrò che doveva partire, assolutamente, immediatamente, vi era questa: che era incinta, che bisognava scomparisse subito, non fosse che per tre o quattro mesi, perché fra nove mesi fosse più facile a suo marito di fare il conto, se gli fosse venuto un dubbio. Era un po’ tirato per i capelli, Veltcianinof la supplicò ardentemente di fuggire con lui. a Parigi o in Am erica, poi partì da solo per Pietroburgo, «senza il mino sospetto»: credeva di andarsene per tre mesi al massimo, altrimenti nessun argomento l’avrebbe convinto a fuggire così. Due mesi più tardi ricevette a Pietroburgo una lettera in cui Natalia Vassilievna lo pregava di non ritornare più, perché amava un altro; quanto alla gravidanza, si era sbagliata. Quest’ultima spiegazione era su perfl ua, ora ci vedeva chiaro: si ricordò del giovane ufficiale. Era finita per sempre. Qualc he anno dopo, seppe che Bagatof era andato a T... e vi aveva soggiornato cinque anni interi . Pensò, per spiegarsi la durata di quella relazione, che Natalia Vassilievna doveva essere molto invecchiata e che era diventata più fedele. Rimase là, seduto sul letto, quasi un'ora; infine ritornò in sé, chiamò Mavra,

chiese il suo caffè, lo bevve in fretta, si vestì e arrivate le undici, si mise alla ricerca dell’hotel Pokrov. Gli era venuto qualche scrupolo a proposito di tutto il suo colloquio con Pavel Pavlotich e bisognava che lo chiarisse. Tutta la fantasmagoria della notte, se la spiegava con il caso, con l’ubriachezza evidente di Pavlovitch, forse con altre cose ancora e quello che, in fondo, non arrivava a capire, era il perché andasse a riprendere dei rapporti col marito di prima, ora che tutto era ben finito fra di loro. Qualche cosa l’attirava: aveva risentito un’impressione speciale e da questa impressione si sprigionava qualche cosa che l’attirava.

V - Lisa

Pavel Pavlovitch non aveva affatto pensato a «scappare» e Dio sa perché Veltcianinof gli aveva fatto questa domanda: probabilmente perché aveva lui stesso perduta la testa. Alla prima domanda che fece in un piccolo negozio di Pokrof, gli indicarono l'albergo a due i, in una stradina. All’albergo, gli dissero che Trusotsky occupava un appartamento ammobiliato in casa di Maria Sysoevna, nel padiglione in fondo alla corte. Mentre saliva la scala di pietra, stretta e sporca del padiglione, sino al secondo piano, udì dei guaiti. Erano pianti di bimbi, d’un bimbo di sette o otto anni; la voce era piagnucolosa, si udivano dei singhiozzi soffocati che scoppiavano e nello stesso tempo il rumore di i, delle grida che si cercava di non lasciar udire e la voce rauca di un uomo. L’uomo si sforzava, cercava di calmare il bimbo, faceva di tutto perché non lo sentissero piangere, ma era lui a fare più rumore di tutti; gridava forte e il bimbo sembrava chiedere grazia. Veltcianinof infilò uno stretto corridoio sul quale si aprivano due porte da ogni parte; incontrò una donna molto alta, grossissima, con l’abito trascurato e le chiese di Pavel Pavlovitch. Ella indicò col dito la parte da dove venivano i singhiozzi. Il viso ampio e di quella donna di quarant’anni esprimeva l’indignazione. – Questo lo diverte! – brontolò dirigendosi verso la scala. Veltcianinof andò a bussare alla porta, ma cambiò idea, aprì ed entrò. La camera era piccola, ingombra di mobili semplici in legno verniciato; Pavel Pavlovitch era in piedi, nel mezzo, semivestito, senza panciotto, senza giacca, col viso rosso e stravolto; con grida, gesti, percosse. Forse, sembrava a Veltcianinof, che cercasse di calmare una bambina di otto anni, vestita da signorina con un abito di lana nero. La bimba sembrava essere in piena crisi nervosa, singhiozzava convulsamente, si torceva le mani verso Pavel Pavlovitch come se avesse voluto abbracciarlo, supplicarlo, intenerirlo. In un batter d’occhio, la scena mutò: alla vista dell’estraneo, la piccola gettò un grido e riparò in una cameretta vicina; Pavel Pavlovitch, subito calmo, si rischiarò in un sorriso, esattamente simile a quello che aveva avuto la notte precedente, quando bruscamente Veltcianinof gli aveva aperto la sua porta.

— Alexis Ivanovitch! — esclamò col tono della più grande sorpresa. – Non me l’aspettavo... Entrate, dunque, vi prego! Qui, sul divano... o piuttosto no, qui, in poltrona... Ma come sono!... E si affrettò a mettersi la giacca, dimenticando il panciotto. — Ma no, lasciamo le cerimonie, restate come siete. E Veltcianinof sedette su di una seggiola. — Ma no, ma no, lasciatemi fare... Via, così sono un po’ più presentabile. Ma perché vi mettete in quell’angolo? Ecco! sul sofà, qui, vicino alla tavola... Non mi aspettavo... Sedette su una seggiola di paglia molto vicino a Veltcianinof, per vederlo bene in faccia. — Perché non mi aspettavate? Non vi avevo detto, questa notte, che sarei venuto a quest’ora? - Sì, ma credevo non veniste. E poi al risveglio, non ricordavo ciò che era accaduto e disperavo di vedervi mai più. Veltcianinof gettò un’occhiata intorno a sé. La camera era in un completo disordine, il letto disfatto, gli abiti buttati a caso; sulla tavola dei bicchieri dove aveva bevuto il caffè, delle briciole di pane, una bottiglia di champagne aperta, ancora piena a metà, un bicchiere accanto. Gettò uno sguardo alla cameretta vicina: tutto era silenzio. La piccola taceva e non si muoveva. — Come, siete a questo, ora? — disse Veltcianinof, indicando lo champagne. — Oh ! non l’ho bevuto tutto... — mormorò Pavel Pavlovitch tutto confuso. — Via, siete ben cambiato! — Sì, una cattiva abitudine! Ve l’assicuro, è dopo quel momento... momento... Non so trattenermi... Ma state tranquillo, Alexis Ivanovitch, non sono ubriaco in questo momento, non dirò sciocchezze come questa notte da voi... Vi giu ro, tutto questo, è dopo quel momento!... Ah se qualcuno mi avesse detto, solamente sei mesi fa, che sarei cambiato e mi avesse mostrato in uno specchio quello che

sono ora, non l’avrei di certo creduto! — Eravate dunque ubriaco, questa notte? — Sì, - confessò a mezza voce Pavel Pavlovitch, confuso, abbassando gli occhi. - Vedete, non ero più ubriaco, ma lo ero stato. Bisogna che vi spieghi... perché dopo l’ubriachezza divento cattivo. Quando esco dallo stato di ebrezza, sono cattivo come un pazzo e soffro terribilmente. È forse il dolore che mi fa bene. Può capitarmi allora di dire molte cose stupide e che feriscono. Vi sono sembrato molto strano questa notte? — Non vi ricordate? — Come? non mi ricordo? mi ricordo molto bene. — Vedete, Pavel Pavlovitch anch’io ho riflettuto, e devo dirvi... Sono stato questa notte, un po’ impulsivo, un po’ troppo' impaziente, lo confesso. Mi capita a volte di non sentirmi troppo bene e la vostra visita inattesa, di notte... — Sì, di notte, di notte! — disse Pavel Pavlovitch, scuotendo la testa, come se si condannasse da solo. - Come mi è capitata questa cosa? Ma, certamente non sarei entrato in casa vostra se voi non mi aveste aperto... Sarei andato via... Ero già stato da voi, Alexis Ivanovitch otto giorni fa e non vi avevo trovato... Forse non sarei più tornato. Sono un po’ orgoglioso, Alexis Ivanovitch, benché sappia... la mia situazione. Noi ci siamo incontrati per strada e mi dicevo ogni volta: « Ecco che non mi riconosce, ecco che si volta ». Sono molti, nove anni, non mi decidevo ad avvicinarvi. Quanto a questa notte... avevo dimentico l’ora. È tutta colpa di questo (e mostrava la bottiglia) e dei miei sentimenti. È bestiale, è bestiale! E se voi non foste l’uomo che siete, — poiché venite lo stesso dopo la mia condotta di questa notte per riguardo al ato — avrai perduto ogni speranza di ritrovar mai più la vostra amicizia. Veltcianinof ascoltava con attenzione: quell'uomo parlava sinceramente, gli sembrava, persino con qualche dignità. E tuttavia non aveva alcuna fiducia. - Ditemi, Pavel Pavlovitch, non siete solo qua? Chi è quella bimba che c’era quando sono entrato? - Pavel Pavlovitch alzò le sopracciglia con aria sorpresa, poi con uno sguardo schietto ed amabile, disse:

- Come? Quella bambina? Ma è Lisa! — disse sorridendo. - Quale Lisa? - balbettò Veltcianinof. E improvvisamente qualcosa si mosse in lui. L’impressione fu istantanea. Entrando, vedendo la bimba era stato un po’ sorpreso, ma non aveva avuto alcun presentimento, alcuna idea. — Ma la nostra Lisa, la nostra figlia Lisa, - insistette Pavel Pavlovitch, sempre sorridendo. — Come vostra figlia? Ma Natalia... la defunta Natalia Vassilievna avrebbe avuto dei bambini? — chiese Veltcianinof con voce quasi soffocata, sorda, ma calma. — Ma certamente... Ma, Dio mio! è vero, voi non potevate saperlo. Dove ho dunque la testa? È dopo la vostra partenza che il buon Dio ci ha favoriti... Pavel Pavlovitch si agitò sulla sedia, un po’ commosso, ma sempre amabile. — Non ho saputo niente, - disse Veltcianinof diventando molto pallido. — Difatti, difatti!.... Come l’avreste saputo? - riprese Pavel Pavlovitch con voce intenerita. — Noi avevamo perduta ogni speranza, la defunta ed io; vi ricordate bene... Ed ecco che improvvisamente il buon Dio ci ha benedetto! Che cosa ho provato! Egli solo lo sa. Questo è avvenuto un anno dopo la vostra partenza. No, non proprio un anno... Aspettate!.. Vediamo se non mi sbaglio, voi siete partito in ottobre o forse in novembre? — Sono partito da T... all’inizio di settembre, il 12 settembre, mi ricordo benisssimo... — Sì, davvero? in settembre? Hum!... ma dove ho la testa? – disse Pavel Pavlovitch, molto sorpreso. Infine, è bene così, vediamo: voi siete partito il 12 settembre e Lisa è nata l’8 maggio ; questo fa… settembre, ottobre - novembre dicembre gennaio febbraio – marzo - aprile otto mesi dopo la vostra partenza, più o meno!... E se sapeste come la defunta.... — Fatemela vedere, portatemela... — interruppe Veltcianinof con voce soffocata.

— Subito, all’istante, — disse in fretta Pavel Pavlovitch, senza finire la frase. E subito ò nella cameretta dove si trovava Lisa. arono tre o quattro minuti. Nella cameretta si parlava, con vivacità, ma molto piano; poi si udì la voce della bambina. « Ella supplica che la si lasci tranquilla» — pensò Veltcianinof. Infine comparvero. - È molto imbarazzata, — disse Pavel Pavlovitch, - è così timida, così orgogliosa..., è il ritrratto della defunta. Lisa entrò, con gli occhi asciutti e bassi. Suo padre la condusse per mano. Era una bimba slanciata, sottile e molte bella. Alzò con vivacità i suoi grandi occhi azzurri sul forestiero, con curiosità, lo guardò seriamente, poi abbassò subito gli occhi. Vi era nel suo sguardo, la gravità che hanno i bambini quando sono soli in presenza di uno sconosciuto, si rifugiano in un angolo e di là osservano, con aria diffidente, l’uomo che non hanno mai visto; ma forse vi era in quello sguardo un’altra espressione, un’altra cosa che quei pensieri infantili, almeno Veltcianinof credette di notarlo. Il padre la condusse per mano sino a lui. - Guarda, ecco uno zio che ha conosciuto la mamma; ci voleva bene; non bisogna aver paura di lui; dagli la mano. La bimba s'inchinò un poco e tese timida mente la mano. - Natalia Vassilievna non voleva che imparasse a fare la riverenza, le ha insegnato a salutare così, all’inglese, inchinandosi leggermente e tendendo la mano – spiegò a Veltcianinof, guardandolo fisso. Veltcianinof si sentiva sorvegliato, ma non cercava più di dissimulare il suo turbamento. Restava seduto, immobile, tenendo nell sua mano la mano di Lisa e guardando con attenzione la bimba. Ma Lisa era assorta, dimenticava la mano nella mano dell’estraneo e non abbandonava suo padre con gli occhi. Ascoltava con aria timorosa tutto ciò che diceva. Veltcianinof riconobbe subito quei grandi occhi azzurri , ma ciò che lo colpiva di più era lo stupefacente e delicatissimo candore del suo viso e il colore dei suoi capelli: a questi particolari che si riconosceva in lei. La forma del viso e la linea delle labbra, al contrario, ricordavano nettamente Natalia Vassilievna. Tuttavia Pavel Pavlovitch si era messo a raccontare qualche storia con molto calore e sentimento, ma Veltcianinof non l’udiva. Non afferrò che le ultime frasi:

- ...Così, Alexis Ivanovitch, non potete im maginare la nostra gioia quando il buon Dio ci ha fatto questo dono. Dal giorno che è nata è stata tutto per me e mi dicevo che se Dio mi togliesse la mia felicità, mi resterebbe Lisa. Di questo almeno, ero sicuro. - E Natalia Vassilievna? — chiese Veltcianinof. - Nat alia Vassilievna? — disse con ostentazione Pavel Pavlovitch. — Voi la conoscete bene, ricordate, non amava molto parlare, sol amente al suo letto di morte... allora ha detto tutto. Sì, il giorno che ha preceduto la, sua morte, ecco che all’improvviso si deprime, s’inquieta, grida che con tutte le medicine la si vuole uccidere, che non ha che una semplice febbre, che i nostri due medici non capiscono niente, che Koch (vi ricordate... il medico militare, quel vecchio) la rimetterà in piedi in quin dici giorni... Ancora cinque ore prima di morir e, si ricordò che entro tre settimane doveva andare a fare gli auguri, in campagna, a sua zia, la madrina di Lisa, per la sua festa... Veltcianinof si alzò bruscamente, sempre senza lasciare la mano di Lisa. Nello sguardo che la bimba teneva fisso su suo padre, gli sembrava di vedere una specie di rimprovero. - Non è mica malata? — chiese ansiosamente con aria strana. - Malata? Non credo, ma… lo stato dei nostri affari… - fece Pavel Pavlovitch con amarezza inquieta – e poi la bambina è strana, nervosa… dopo la morte di sua madre è stata malata per quindici giorni… isterismo… erano singhiozzi, quando siete venuto! Senti, Lisa, senti? E perché? Sempre la stessa ragione, perché esco, la lascio sola e non l’amo più come quando c’era la mamma; sono grandi rimproveri. E con questa idea assurda si monta la testa, quando non dovrebbe pensare che ai suoi giochi. È vero che non ha nessuno con cui giocare . - Allora siete soli, voi due? - Assolutamente soli... C’è una donna che viene a farci quel che occorre, una volta al giorno. - E voi uscite e la lasciate così, tutta sola? - Che cosa volete che faccia? Ieri, sono uscito, l’ho chiusa a chiave là nella cameretta, è per questo che oggi abbiamo avute tante lacrime. Ma, vediamo,

potevo fare altrimenti? Giudicate voi stesso, due giorni fa è scesa senza di me nel cortile, un monello le ha lanciato una pietra sulla testa e allora si è messa a piangere e a gettarsi su tutti quelli ch’erano nel cortile per domandare dove ero. Come è piacevole! E io che me ne vado per un’ora e rie ntro l’indomani mattina, come ho fatto questa notte!... La proprietaria è stata obbligata ad aprirle perché io non c’ero e a far venire il fabbro.! Non trovate che è una vergogna? Sono un mostro. E tutto questo perché non ho la testa a posto... - Papà ! disse la piccola con voce timorosa ed inquieta. - Andiamo, ancora! Ricominci! Che cosa ti h o detto or a? - Non lo farò più, non lo farò più, — esclamava Lisa, terrificata, torcendosi le mani. - Vediamo, non potete continuare a vivere cosi, — interruppe Veltcianinof, con impazienza, con voce forte. - Vediamo... vediamo, voi avete dei mezzi; perché abitate in una simile casa, un luogo così miserabile! - Questa casa! Ma noi dovremmo andarcene forse fra otto giorni e noi spendiamo anche molto denaro, non abbiamo poi tutti questi mezzi.... - Va bene, va bene, — interruppe con impazienza crescente e il suo tono voleva dire: «È inutile, so già tutto quello che vuoi dire ». — Ascoltate, voglio farvi una proposta. Voi mi avete detto ora c he ve ne andrete fra otto giorni, mettiamo quindici. C’è qui una casa dove io sono come in famiglia, proprio come se fossi a casa mia, da vent’anni. Sono i Pogoreltser. Si, Alessandro Pavlovitch Pogoreltser. Sono ora in campagna. Hanno una villa molto comoda. Claudia Petrovna Pogoreltseva è per me come una sorella, come una madre. Ha otto bimbi. Lasciatemi condurre Lisa, lo farò io stesso per non perdere tempo. L’accoglieranno con gioia e la tratteranno come una figlia! U na loro figlia! Era straordinariamente impaziente e non lo dissimulava più. - No, non è possibile, - disse Pavel Pavlovitch con un’espressione in cui Veltcianinof lesse della malizia e guardandolo in fondo agli occhi disse: - Perché non è possibile? - Ma perché non posso lasciar andar via la bambina così... Oh, so bene che con

un amico così sincero come voi... non è questo... ma infine è gente del gran mondo e non so come sarebbe ricevuta. - Vi ho detto che sono ricevuto da loro come se fossero miei parenti! — esclamò Veltcia ninof quasi in collera. - Claudia Petrovna la riceverà nel migliore dei modi, con una mia parola… come se fosse mia figlia... Che il diavolo vi porti! Lo sapete bene anche voi che dite tutto questo unicamente per parlare! Battè i piedi. - E poi, — riprese l’altro, — tutto questo non sembrerà ben singolare? Bisognerà sempre che io vada a trovarla una volta o l’altra, non potrà stare del tutto senza suo padre. E… come andrò, io, in una casa nobile? - Vi dico che è una famiglia molto semplice , senza pretese! — gridò Veltcianinof; — vi dico che vi sono molti bambini. Rinascerà là dentro. Vi presenterò domani, se volete. Ma bisognerà assolutamente che voi andiate a ringraziare, andremo tutti i giorni, se volete... — Sì, ma... - È assurdo! Ciò che è esasperante, è che sapete anche voi che le vostre obiezioni sono assurde! Vediamo, verrete in casa mia, questa sera per are la notte e poi domani mattina noi partiremo in modo da essere laggiù a mezzogiorno . - Voi mi confondete! Come, anche are la notte in casa vostra!... — acconsenti con gentilezza Pavel Pavlovitch, - è troppa bontà… E dov’è questa casa di campagna? - A Lesnoie. - Ma con ques ti abiti? Presso una famiglia così distinta, sia pure in campagna... Veramente… Voi non mi capite… il cuore di un padre! - Poco importa l’abito, lei è in lutto, non può mettere altro. L’abito che ha è perfettamente conveniente. Solamente della biancheria più fresca, un nastro. Difatti il nastro e la biancheria che si vedevano lasciavano molto a desiderare. - Subito— disse Pavel Pavlovitch con sollecitudine - vado a procurarle subito la

biancheria necessaria; è in casa di Maria Sysoevna. - Allora bisognerebbe cercare una vettura - disse Veltcianinof, — e molto in fretta, se è possibile. Ma ci fu un ostacolo: Lisa fece resistenza con tutte le sue forze. Aveva ascoltato con terrore e se Veltcianinof, mentre cercava di persuadere Pavel Pavlovitch, avesse avuto il tempo di guardarl a con un po’ di attenzione, avrebbe visto sul suo viso il segno della più profonda disperazione. - Non andrò, — disse energicamente e gravemente. - Ecco, vedete... è tutta sua madre! - Non sono come la mamma! non sono come la mamma! — gridava Lisa torcendosi disperatamente le piccole mani, come se si difendesse dal rimprovero di somigliare a sua madre. - Papà, papà, se mi abbandonate... Improvvisamente, si girò verso Veltcianinof, che rimase terrificato: - E voi, se voi mi portate via, io... Non poté dire altro, Pavel Pavlovitch l’aveva afferr ata per la mano e, brutalmente, con collera, la trascinava verso la cameretta. Uscirono di là, dopo alcuni minuti, dei sussurri e dei singhiozzi soffocati. Veltcianinof stava per entrare anche lui, allorché Pavel Pavlovitch ritornò e gli disse con un sorriso contratto che sarebbe ben presto pronto a partire. Veltcianinof fece uno sforzo per non guardarlo e distolse gli occhi. Maria Sysoevna entrò: era la donna che aveva incontrato nel corridoio. Portava della biancheria, che dispose in un grazioso piccolo sacco da viaggio, per Lisa. - Allora, siete voi, piccolo padre, che conducete via la bambina? — disse rivolgendosi a Veltcianinof, — avete una famiglia? Molto bene, piccolo padre; quel che voi fate è molto bel lo; la salvate da un inferno. - Andiamo, Maria Sysoevna! — grugnì Pavel Pavlovitch. - Ebbene! Che cosa? Forse non è un inferno questo? Non è una vergogna

comportarsi come fate voi davanti ad una bimba in età di capire? Volete una car rozza, piccolo padre? Per Lesnoie, non è vero? - Si, si. - Ebbene! buon viaggio, dunque! Lisa uscì, tutta pallida, con gli occhi bassi e prese il sacco. Non ebbe uno sguardo per Veltcianinof, si conteneva; non si gettò come prima, fra le braccia di suo padre per dirgli addi o: era chiaro che non voleva nemmeno guardarlo. Il padre la baciò forte sulla fronte e l’accarezzò; le labbra della bimba si serraro no, il mento tremò e continuò a non al zare gli occhi su suo padre. Pavel Pavlovitch impallidì, le sue mani tremarono, Veltcianinof se ne accorse, quantunque cercasse con grande sforzo di non guardarlo. Non aveva che un desiderio, partire il più presto. « Tutto questo non è mia colpa, pensava, doveva accadere ». Maria Sysoevna abbracciò Lisa e fu solamente allora, quando già ella era nella vettura, che Lisa alzò gli occhi su suo padre, giunse le mani e mandò un grido. Ancora un momento e si sarebbe gettata fuori della vettura, per tornare da lui, ma i cavalli già correvano.

VI - Nuove fantasie di un ozioso

- Vi sentite male? — disse Veltcianinof spaventato, faccio fermare, faccio portare dell’acqua... Lisa alzò su di lui uno sguardo violento, pie no di rimproveri. - Dove mi portate? – chiese con voce secca e tagliente. - Presso delle eccellenti persone, Lisa. Adesso sono in campagna, la casa è molto simpatica, ci sono molti bambini che vi vorranno bene, buoni… Non siate in collera con me, Lisa, vi voglio bene. Un amico che l’avesse visto in quel momento, l’avrebbe trovato stranamente cambiato. - Come siete… come siete… oh! Come siete cattivo! – esclamava Lisa soffocata dai singhiozzi, guardandolo con i begli occhi brillanti di collera. — Ma, Lisa, io... - Voi siete cattivo, cattivo! Serrava i pugni. Veltcianinof era annientato. - Lisa, mia piccola Lisa, se sapeste la pena che mi fate! - È vero che verrà domani? È ver o - chiese con voce imperiosa. - Sì, sì, è vero! lo condurrò io stesso; andrò a prenderlo e lo porterò. — Voi non potrete, non verrà, — sussurrò abbassando gli occhi. — Perché?... Non vi vuol bene, Lisa? — No, non mi vuole bene.

— Ditemi, che cosa vi ha dato pena? Lisa lo guardò con aria triste e non rispose. Poi si voltò e tenne gli occhi abbassati ostinatamente. Egli cercò di calmarla, le parlò con calore, in una specie di febbre. Lisa ascoltava con aria diffidente e ostile, ma ascoltava; cominciò a spiegarle che cos’è un uomo che beve. Le diceva che voleva bene anche lui a suo padre e che sarebbe disposto ad assistere anche lui. Lisa alzò infine gli occhi e lo guardò fissamente. Gli raccontò che aveva conosciuto la sua mamma e si accorse che s’interessava al suo racconto. A poco a poco la bimba cominciò a rispondere alle sue domande, ma di mala voglia, a monosillabi, con aria sospettosa. Alle domande più importanti non rispondeva niente; conservava un silenzio ostinato su tutto ciò che si riferiva ai suoi rapporti con suo padre. Sempre parlandole, Veltcianinof le prese la mano, come prima e la tenne fra le sue ed ella non la ritirò. La bimba non tacque sino alla fine; finì per rispondergli, in termini confusi, c he aveva amato suo padre più di sua madre, perché prima l’amava molto e sua madre l’amava meno; ma che la mamma, al momento di morire, l’aveva abbracciata molto forte e aveva pianto molto… quando tutti se ne erano andati ed erano rimaste sole tutte due.... e che ora amava sua madre più di tutti al mondo e l’amava ogni giorno di più. Ma la bimba era molto orgogliosa: quando si accorse che si era lasciata andare a parlare, si richiuse e tacque; ora guardava Veltcianinof con un’espressione di odio che, perché l’aveva trascinata a dire tante cose. Verso la fine della strada, i suoi nervi si erano calmati, ma restava pensosa, triste, selvaggia e dura. Tuttavia sembrava soffrire meno all’idea che la si conducesse presso degli sconosciuti, in una casa dove non era mai stata. Ciò che l’ossessionava era un’altra cosa e Veltcianinof la indovinava: aveva vergogna di lui, aveva vergogna che suo padre l’avesse abbandonata così facilmente ad un altro, che l’avesse gettata fra le mani di un altro. « È malata, pensava, molto malata, forse l’hanno fatta troppo soffrire... Ah! L’ubriacone , l’essere abbietto! Ti capisco, ora!... » Sollecitò il cocchiere. Contava, per lei, sulla campagna, l’aria aperta, il giardino, i bambini, il mutamento, una vita nuova e poi, dopo... Quanto a ciò che sarebbe dopo, non ci pensava; si affidava tutto alla speranza. Non vedeva che una cosa: mai aveva sentito quello che sentiva ora e mai, in tutta la sua vita, avrebbe potuto dimenticarlo!

« Eccolo, il vero scopo della vita ! eccola, la vera vita! » — pensava con trasporto. Aveva tanti pensieri, ma non ci si fermava, si rifiutava di entrare in particolari. Prese all’ingrosso le cose, erano molto semplici, andavano senza che ci si mettesse le mani. Il piano d’insieme si disegnava da solo: « Ci sarà modo, pensava, di far filare quel miserabile, mettendocela tutta. Sta fresco se pensa di averci affidata Li sa solo per un po’ di tempo, bisognerà che la lasci a Pietroburgo, in casa dei Pogoreltsef e che se ne vada da solo: Lisa resterà con me. Ecco tutto: perché montarsi la testa prima? E poi... poi, dopo tutto è proprio quello che desidera lui stesso: altrimenti perché la tormenterebbe come fa ora ? ». Infine arrivarono. La casa dei Pogoreltsef era difa tti un grazioso nido. Una pattuglia rumorosa di bimbi venne a spandersi sulla scalinata, per le accoglienze. Era molto tempo che Veltcianinof non era venuto e la gioia dei bimbi fu grande, perché li amava molto. Prima ancora che fosse sceso dalla vettura, i più grandi gli gridarono: — Ebbene! e il vostro processo? che cosa ne è del vostro processo? — E tutti gli altri, fino ai più piccoli ripeterono le domande con delle risa. Era un’abitudine di scherzare a proposito del suo processo. Ma quando videro Lisa, la circondarono subito e si misero ad esaminarla con la curiosità silenziosa e attenta dei bambini. Nello stesso istante, Claudi a Petrovna usciva dalla casa e, dietro lei, suo marito. Anche loro, per prima cosa, chiesero ridendo che cosa ne era del suo processo. Claudia Petrovna era una donna di trentasette anni, bruna, forte, ancora bella, col colorito fresco. Suo marito era un uomo di cinquantacinque anni, intelligente e fine, soprattutto molto buono . La loro casa era veramente per Veltcianinof « un angolo di famiglia » come diceva Ecco perché. Vent i anni prima, Claudia Petrovna era stata sul punto di sposare Veltcianinof, quando era ancora studente, quasi un ragazzo. Era stato il primo amore, l’amore ardente, l’amore assurd o, ammirabile. Tutto questo era finito con il suo matrimonio con Pogoreltsef. Si ritrovarono cinque anni più tardi e il loro amore di prima divenne un’amicizia franca e calma. Dell’antica ione non era rimasta che una specie di luce cal da, che colorava e riscaldava le loro relazioni di amicizia. Non vi era nulla che non fosse puro, irreprensibile nel ricordo che Veltcianinof conservava del ato e ci teneva tanto più che era quella, forse, una cosa unica nella sua vita. Presso quella famiglia era semplice, ingenuo e

buono, aveva tante piccole attenzioni per i bambini, non s’inquietava mai, assecondava tutto, senza riserve. Più di una volta aveva dichiarato ai Pogoreltsef che vivrebbe ancora qualche tempo nel mondo e che in seguito verrebbe a stabilirsi presso di loro definitivamente per non abbandonarli. Pensava a quel progetto molto seriamente. Diede a proposito di Lisa tutte le spiegazioni necessarie; del resto, l'espressione del suo desiderio bastava, senza alcuna spiegazione. Claudia Petrovna abbracciò « l’orfanella » e promise di fare tutto ciò che dipendeva da lei. I bambini presero Lisa e la condussero a giocare in giardino. Dopo una mezz’ora di conversazione animata, Veltcianinof si alzò e prese congedo. Era così impaziente di partire che tutti se ne accorsero. Tutti furono sorpresi: era ate tre settimane senza venire, ed ecco che se ne andava dopo mezz’ora. Giurò, ridendo, che sarebbe tornato il giorno dopo. Si notò che era molto agitato; improvvisamente, prese la mano di Claudia Petrovna e col pretesto che aveva dimenticato di dirle qualcosa di molto importante, la condusse in una stanza vicina. - Vi ricordate quel che vi ho detto, a voi sola perché vostro marito l’ignora, dell’anno che ho vissuto a T...? - Ricordo benissimo; me ne avete parlato spesso. - Non dite che ne ho « parlato », dite che mi sono confessato, a voi sola! Non vi ho mai detto il nome di quella donna: era la moglie di questo Trusotsky. Ella è morta, e Lisa è sua figlia, è mia figlia! - Davvero, non vi ingannate? — chiese Claudia Petrovna un po’ turbata. - Sono certo, assolutamente certo di non ingannarmi, - disse Veltcianinof con ardore. E raccontò tutto, più brevemente che potè, con vivacità. Claudia Petrovna, da tanto tempo sapeva tutto, meno il nome della donna. Veltcianinof era sempre stato pieno di terrore al solo pensiero che qualcuno potesse incontrare la signora Trusotskaia e stupirsi che egli avesse potuto, lui, aver tanto amore per lei, al punto da aver nascosto sino a quel giorno il nome di quella donna a Claudia Petrovna stessa, la sua amica più fidata.

— E il padre non sa nulla? — chiese quando egli ebbe finito il suo racconto. — No... Egli sa... è precisamente questo che mi tormenta: non riesco a vederci chiaro, — riprese Veltcianinof con calore. Egli sa, egli sa... Io l’ho visto chiaramente oggi e questa notte. Ma sino a che punto egli sa, ecco ciò che io debbo mettere in chiaro, ed è per questo che parto subito. Egli deve venire da me questa sera. Non arrivo a capire da dove potrebbe sapere, voglio dire: sapere tutto... Di Bagatof, non c’e dubbio, sa tutto. Ma per me?... Voi conoscete le donne! In certi casi non si sentono in imbarazzo ad ispirare fiducia ai loro mariti. Un angelo avrebbe un bel discendere dal cielo, è alla moglie che il marito crederebbe e non all’angelo. Non scuotete la testa, non mi condannate; mi condanno da me, mi sono condannato da tanto tempo, da tanto tempo!... Vedete, poco fa, in casa sua, ero talmente convinto che sa tutto, che mi sono tradito da solo, davanti a lui. Lo credereste? Ho vergogna di averlo ricevuto questa notte con incredibile villania… Vi racconterò più tardi tutto questo nei particolari… Evidentemente era venuto da me per farmi capire che sapeva l’offesa e conosceva l’offensore. È l’unica ragione di quella visita stupida, in stato di ubriachezza... Ma, dopo tutto, questo è molto naturale da parte sua! Ha certamente voluto confondermi. Io poco fa, e questa notte, non ho potuto trattenermi. Mi sono comportato come un imbecille. Mi sono tradito. Perché è venuto in un momento in cui non sono riuscito a controllare i miei nervi? Vi dico che tormentava Lisa, povera bambina, unicamente per avere la rivincita! Vi assicuro, è un pover’uomo, non un cattivo uomo. Ora è grottesco, lui che è stato un uomo importante ma, veramente, è naturale che sia successo così. Vedete, amica mia, bisogna essere caritatevoli. Vedete, mia cara amica, voglio essere diverso con lui; voglio essere dolce con lui. Sarà un’opera buona. Poiché infine sono io che ho avuto torto! Ascoltate, dovete saperlo: una volta, a T... ho avuto improvvisamente bisogno di quattromila rubli e me li ha dati all’istante, senza voler ricevuta, con una vera gioia di rendermi un servizio e io ho accettato, ho preso il denaro dalle sue mani, capite, come dalle mani di un amico! - Soprattutto, siate più prudente, — rispose a quel flusso di parole Claudia Petrovna, un po' inquieta — agitato come siete, ho veramente paura per voi. Certamente Lisa è ora mia figlia, ma vi sono ancora in tutto questo tante cose incerte!... L’essenziale, è che voi siate d’ora in poi più circospetto, bisogna assolutamente essere più prudenti! Quando voi vi sentite tanta gioia e tanto calore, avete troppa generosità, quando siete felice, — aggiunse con un sorriso. Uscirono tutti per accompagnane Veltcianinof alla carrozza, i bambini

condussero Lisa che giocava con loro in giardino. La guardavano ora con più meraviglia che all’arrivo. Lisa aveva un’aria scontrosa quando Veltcianinof l’abbracciò davanti a tutti, le disse addio e le promise di tornare il giorno dopo con suo padre. Fino alla fine rimase silenziosa senza guardarlo, ma bruscamente gli prese la mano, lo trascinò in disparte, fissò su di lui degli occhi supplichevoli: voleva dirgli qualcosa. Egli la condusse in una stanza vicina. - Che cosa c’è, Lisa? — chiese con voce tenera e persuasiva; ma ella lo guardava sempre con aria timorosa e lo trascinò ancora, più lontano, fino ad un angolo nascosto, non voleva che potessero vederli. - Dite Lisa, che cosa c’è? Ella taceva, non osava decidersi a parlare, i suoi occhi azzurri restavano fissi su di lui e un terrore pazzo si dipingeva sul suo viso di bambina. - Si… si impiccherà! – disse a bassa voce come in delirio. - Chi si impiccherà? – chiese Veltcianinof spaventato. - Lui, lui! Già questa notte ha provato ad impiccarsi! – disse la bimba con voce precipitosa senza respiro – si, l’ho visto! Voleva impiccarsi, me l’ha detto, l’ha detto! Era molto tempo che lo voleva fare, lo voleva… L’ho visto questa notte! - Non è possibile! – mromorò Veltcianinof perplesso. Poi si gettò sulle sue mani, le baciò, piangeva, soffocava di singhiozzi, lo pregava, lo supplicava ed egli non riusciva a capir nulla di quella crisi di nervi. E sempre, in seguito, in stato di veglia o in sogno, rivide quegli oc chi allucinati di bimba smarrita che lo guardavano con terrore e con un ultimo resto di speranza. « Lo ama dunque tanto? — pensava con un sentimento di gelosia, mentre tornava in città in uno stato di impazienza febbrile. — Poco prima mi ha detto che amava di più sua madre.... Chi sa? può essere che non l’ami per nulla, che lo odii!... Impiccarsi? Perché dice che vuole impiccarsi! Lui, l’imbecille, impiccarsi!... Bisogna che io sappia, e subito! Bisogna finirla il più presto possibile e davvero! ».

VII - Il marito e l’amante si abbracciano.

Aveva un imperioso desiderio di sapere , subito: « Questa mattina ero fuori di me… mi è stato impossibile riprendermi, pensava ricordando il suo primo incontro con Lisa, ma ora, devo sapere. » Per affrettare le cose, fu sul punto di farsi condurre direttamente da Trusotsky, ma si riprese subito: « No, è meglio che venga da me; aspettando, posso finalmente finirla coi miei maledetti affari ». Corse ai suoi affari con una fretta febbrile; ma sentì lui stes so , questa volta, che era troppo distratto e che non era in condizioni di applicarsi. Alle cinque, quando andò a desinare, gli venne subito un'idea strana, che non aveva mai avuto: forse non faceva che tardare la soluzione del suo affare, con la mania di occuparsi di tutto, di correre ai tribunali, di inseguire il suo avvocato che invece lo evitava. Questa ipotesi lo divertiva. «E dire che se questa idea mi fosse venuta in mente ieri, ne sarei stato deluso!» notava. E la sua allegria raddoppiò. Con tutta questa allegria, la sua distrazione e la sua impazienza aumentavano: a poco a poco divenne pensoso e il suo pensiero inquieto oscillava di soggetto in soggetto, senza arrivare ad alcuna decisione chiara, su ciò che gli importava di più. «Ma ho bisogno di quest’uomo, concluse; bisogna che io legga sino in fondo nei suoi pensieri e poi, bisognerà finire. Non vi è che una soluzione: un duello!». Quando rientrò in casa sua alle sette, non trovò Pavel Pavlovitch e ne fu estremamente sorpreso. Poi ò dalla sorpresa alla collera, dalla collera alla tristezza e infine dalla tristezza alla paura. «Dio sa come finirà!» ripeteva ora camminando a grandi i per la camera, ora disteso sul divano, sempre con l’occhio sull’orologio. Infine, verso le nove, Pavel Pavlovitch arrivò: «Se quest’uomo si prendo gioco di me, non avrà vita facile , tanto mi sento poco padrone di me », pen sava prendendo la sua aria più allegra e più accogliente. Gli chiese con disinvoltura e con buon umore, perché aveva tardato tanto a venire. L’altro sorrise con occhio sornione, sedette con aria disinvolta e gettò con trascuratezza su di una sedia il cappello colla fascia nera. Veltcianinof notò

questi modi e aprì gli occhi. Tranquillamente, senza frasi inutili, senza agitazione superflua, gli rese conto della sua giornata: gli disse come era andato il viaggio, con quale cortesia Lisa era stata accolta, il beneficio che ne avrebbe la sua salute, poi insensibilmente, come se dimenticasse Lisa, non parlò d'altro che dei Pogoreltsef. Vantò la loro bontà, la vecchia amicizia che lo univa a loro, disse che uomo eccellente e distinto era Pogoreltsef e altre cose simili. Pavel Pavlovitch ascoltava con aria distratta e gettava di tanto in tanto al suo interlocutore un sorriso incisivo e sarcastico. - Voi siete un uomo ardente, — mormorò infine con un sorriso cattivo. - E voi, voi siete oggi di cattivo umore – disse Veltcianinof, con tono offeso. - Perché, non sono cattivo come tutti? — gridò Pavel Pavlovitch, uscendo fuori dal suo angolo. Sembrava aver atteso l’occasione giusta per scoppiare. - Voi siete perfettamente libero! — disse Veltcianinof, sorridendo. — Pensavo vi fosse accaduto qualcosa. - Sì, mi è capitato qualcosa, — esclamò l’altro, forte, come se ne fosse fiero. — E che cosa? Pavel Pavlovitch tardò un po’ a rispondere. — Sempre il nostro amico Stefan Mikailovitch che ne fa delle sue!... Sì, proprio, Bagatof, il più onesto gentiluomo di Pietroburgo, il giovane della migliore società! — Si è ancora rifiutato di ricevervi? — Niente affatto; questa volta mi ha ricevuto, sono stato ammesso a vederlo, a contemplare le sue fattezze... Solamente, non erano più che le fattezze di un morto.

— Ma come? che cosa? Bagatof è morto? — disse Veltcianinof con uno stupore profondo, quantunque non ci fosse nulla in questo che dovesse stupirlo così. - Perfettamente! lui! Ah! il bravo, l’unico amico di sei anni!... Ieri, verso mezzogiorno è morto e non ne ho saputo niente!... Chi sa? forse è morto nell’attimo stesso in cui andavo a chiedere sue notizie! Lo seppelliscono domani, è già nella bara. È in una cassa foderata di velluto porpora a galloni d’oro... è morto di un accesso di febbre calda... Mi hanno lasciato entrare, ho potuto rivederlo in viso. Mi sono presentato come un amico sincero e per questo mi hanno fatto entrare... Vedete un po’, vi prego, ciò che ha fatto questo caro amico di sei anni! È forse unicamente per lui che sono venuto a Pietroburgo! - Ma vediamo, non vi arrabbierete contro di lui - disse Veltcianinof sorridendo — non penserete che sia morto appositamente! - Ma come! ho molta comione per lui, il carissimo amico!... Ecco tutto ciò che era per me. E subito, nel modo più inatteso, Pavel Pavlovitch portò due dita alla sua fronte calva e, alzandole da ogni lato, si mise a ridere, di un riso cal mo prolungato. Restò così un mezzo minuto, guardando con un’insolenza cattiva, dritto negli occhi di Veltcianinof. Questi fu stupefatto, come se vedesse uno spettro; ma la sua meraviglia non durò che un minuto, un sorriso ironico freddamente provocante, si disegnò lentamente sulle sue labbra. - Che cosa vuol dire tutto questo? — chiese con noncuranza, trascinando le sue parole. Questo vuol dire... ciò che voi sapete bene! - rispose Pavel Pavlovitch, togliendo infine le sue dita dalla fronte. Tutti e due tacquero. - Siete veramente un uomo di cuore! — riprese Veltcianinof. - Perché? Perché vi ho mostrato questo?.... Sapete? Alexis Ivanovitch, fareste molto meglio a offrirmi qualcosa. Vi ho dato da bere, a T... per un anno intero, senza mancare un giorno Fate dunque portare una bottiglia, ho la gola secca.

— Con piacere; avreste dovuto dirlo prima... Che cosa prendete voi? — Non dite voi , dite noi : dobbiamo bere insieme, non è vero? E Pavel Pavlovitch lo guardava diritto negli occhi, con aria di sfida, con una specie di inquietudine bizzarra. — Dello champagne? — Certo. Non siamo ancora all’acquavite. Veltcianinof si alzò senza premura, chiamò Mavra e le diede l’ordine. — Berremo alla nostra felice e giocosa unione dopo nove anni di separazione! — esclamò Pavel Pavlovitch, con uno scoppio di risa assurdo e che abortì subito. — Ora è la vostra volta. Siete voi che restate il mio solo e vero amico! Finito, Stefan Mikailovitch Bagatof! È come dice il poeta: È fin ita col gran Patroclo Il vile Tersite è ancor vivo. E, pronunciando il nome di Tersite, si indicava lui stesso con il dito. « Andiamo, animale! Spiegati al più presto, poiché non amo i sottintesi », pensava Veltcianinof. La collera ribolliva in lui e faceva gran fatica a contenersi. - Ma vediamo, ditemi, - disse con ironia, - se voi avete del risentimento contro Stefan Mikailovitch (non lo chiamava più semplicemente Bagatof) dovreste sentire una gioia viva per la morte del vostro offensore; perché ne sembrate irrequieto? - Della gioia? Che gioia? Perché della gioia? - In fede mia, ne giudico mettendomi al vostro posto. - Ah! Ah! A questo riguardo vi ingannate molto sui miei sentimenti. Il saggio l’ha detto: «un nemico morto, va bene, un nemico vivo, è ancor meglio…» Ah! Ah!

— Ma infine voi l’avete visto vivo, ogni giorno durante cinque anni, penso, e avete avuto tutto il tempo di contemplarlo, — disse Veltcianinof con espressione cattiva e aggressiva. - Ma che cosa sapevo, che cosa sapevo, allora? — esclamò con vivacità Pavel Pavlovitch, balzando di nuovo dal suo angolo e si sarebbe detto che provasse gioia a veder approssimarsi la domanda che aspettava da molto tempo — ma vediamo un po’, Alexis Ivanovitch, per chi mi prendete? E nel suo sguardo brillò d’improvviso una luce tutta nuova, assolutamente imprevista, che trasfigurò subito il suo viso, fino allora contratto in un’espressione di malizia cattiva e ripugnante. — Come! non sapevate nulla! — disse Veltcianinof tutto stupito. — Ah! davvero, pensate che avessi saputo. Ah! Questi padreterni! Per voi un uomo non è molto più di un cane e credete tutti quanti fatti a immagine della vostra miserabile natura!... Ecco per voi! Prendete! Picchiò violentemente il pugno sulla tavola, ma poi si spaventò a tanto rumore e guardò intorno a sé con occhio timoroso. Veltcianinof aveva ripreso tutta la sua sicurezza. - Ascoltate, Pavel Pavlovitch, mi è perfettamente indifferente, che voi abbiate saputo o no. Se non l’avete saputo, vi fa onore, si capisce, quantunque... Del resto non capisco neanche in nessun modo perché mi abbiate preso per confidente. - Non è per voi... non abbiate paura... non è per voi.... — balbettò Pavel Pavlovitch, con gli occhi a terra. Mavra entrò, portando lo champagne . - Ah! eccolo! — esclamò Pavel Pavlovitch, felice del diversivo. — Dei bicchieri, piccola madre, dei bicchieri! Benissimo!... Va bene, c’è tutto quel che ci occorre. È stappata? Ammirabile, graziosa creatura! Benissimo, potete lasciarci. Aveva ripreso coraggio: di nuovo guardò Veltcianinof in viso, con aria audace.

- Confessate dunque, — disse maliziosamente – che tutto questo vi impaccia terribilmente, tutto questo è lungi dall’esservi perfettamente indifferente, come avete voluto dire e che voi sareste deluso se mi alzassi in questo istante e me ne andassi, senza spiegarvi nulla. - Siete assolutamente in errore, non sarei deluso per niente al mondo. « Tu menti ! » diceva il sorriso di Pavel Pavlovitch. - Bene! allora beviamo! — E riempì i bicchieri. - Beviamo, — riprese alzando il bicchiere, alla salute postuma di quel povero amico, Stefan Mikailovitch. - Non berrò con un simile brindisi, — disse Veltcianinof, che depose il suo bicchiere. — Ma perchè? non è un’idea graziosa? — Vediamo, eravate ubriaco venendo? — Peuh! Avevo bevuto un poco. Ma perché? — Oh! niente di speciale, solamente avevo creduto di vedere la notte ata e, soprattutto, questa mattina, che voi aveste un rimpianto sincero per la morte di Natalia Vassilievna. — E chi dice che il rimpianto sia meno sincero, ora? — disse Pavel Pavlovitch, balzando di nuovo, come mosso da una molla. — Non è questo che voglio dire, ma infine riconoscete voi stesso che avete potuto ingannarvi sul conto di Stefan Mikailovitch e questo ha importanza. Pavel Pavlovitch socchiuse gli occhi con malizia. - Ah! come bruciate di sapere in qual modo sono stato edotto di ciò che concerne Stefan Mikailovitch! Veltcianinof arrossì: — Vi ripeto ancora che questo mi è indifferente. «Se lo gettassi fuori con la sua

bottiglia?» pensava. E la sua collera saliva e il suo viso diventava rosso. - Via, tutto questo non ha importanza, — disse Pavel Pavlovitch, come se volesse ridargli coraggio. E si riempì il suo bicchiere. - Vengo subito a spiegarvi come ho saputo tutto e a soddisfare la vostra ardente curiosità, poiché voi siete un uomo ardente, Alexis Ivanovitch, un uomo terribilmente ardente! Ah ! Solamente datemi una sigaretta, perché dopo il mese di marzo... - Ecco. - Eh! sì, è dopo il mese di marzo che mi sono guastato, Alexis Ivanovitch ed ecco come tutto questo è avvenuto. Ascoltate. La tisi, voi sapete bene, caro amico, diventava sempre più familiare, la tisi è una curiosa malattia, il tisico muore all’improvviso, cinque ore prima della fine, Natalia Vassilievna progettava ancora di andare a trovare, quindici giorni più tardi, una zia, che abitava quaranta verstes più in là. D’altra parte voi conoscete certamente l’abitudine, o per meglio dire la mania che hanno molte donne e forse anche molti uomini, la mania di conservare le vecchie corrispondenze amorose... Il più sicuro, non è vero, è quello di gettarle al fuoco. Ebbene! no, il minimo pezzetto di carta, bisogna che lo chiudano preziosamente in cofanetti, ovvero classificano tutto quanto, ben numerato per anni, per categorie, per serie. Non so se ci trovano una consolazione; ma è certo che devono trovare dei graditi ricordi... Evidentemente, quando, cinque ore prima della fine progettava di andare a far visita a sua zia, Natalia Vassilievna, non pensava per nulla affatto che stava per morire, non ci pensava neppure un’ora prima quando chiedeva del dottor Koch. Così ella morì, il cofanetto di legno nero incrostato di madreperla rimase là nel suo cassettone. Ed era un bel cofanetto, con una graziosa chiave, un cofano di famiglia, che le veniva da sua nonna. Ebbene! era in quel piccolo cofano che c’era tutto, ma tutto, ciò che si chiama tutto: tutto senza eccezione, tutto da vent’anni, classificato per anni e per giorni. E siccome Stefan Mikailovitch aveva un gusto molto pronunciato per la letteratura, vi erano nella scatola ben cento lettere scritte da lui, di che fare un romanzo apionato per una rivista, è vero che la relazione era durata cinque anni. Qualche lettera era annotata a mano da Natalia Vassilievna... è piacevole per un marito, non trovate? Veltcianinof rifletté un momento e si ricordò che non aveva mai scritto a Natalia Vassilievna la minima lettera, né il minimo biglietto. Da Pietroburgo aveva

scritto due lettere, ma erano indirizzate ai due sposi, come era stato convenuto. Non aveva neppure risposto all’ultima lettera di Natalia Vassilievna, quella che gli aveva dato congedo. Quando ebbe finito il suo racconto, Pavel Pavlovitch tacque un minuto intero, col suo sorriso insolente e interrogativo. - Perché non rispondete alla mia piccola domanda? — disse con insistenza. - Quale piccola domanda? - Relativamente ai sentimenti gradevoli che prova un marito scoprendo la cassetta. - Eh! Che cosa mi importa! — disse con agitazione Veltcianiniof, che si alzò e camminò in lungo e in largo per la camera. - Scommetto che voi dite in questo momento: «L’animale, che da solo fa mostra del suo disonore!» Ah! ah! Che uomo disgustoso siete!

- Non penso a niente di tutto questo. Al contrario. Voi siete estremamente eccitato per la morte dell’uomo che vi ha offeso e poi, avete bevuto molto vino. Non ci vedo niente di straordinario; capisco perfettamente perché voi ci tenevate a che Bagatof vivesse e apprezzo assai il vostro rammarico, ma... - E perché, secondo voi, ci tenevo tanto che Bagatof vivesse? — Questo è affar vostro. — Scommetto che pensavate a un duello. — Che il diavolo vi porti! — esclamò Velcianinof, sempre meno padrone di sé, quello che pensavo è che un uomo come si deve... in un caso di questo genere non s’abbassa alle chiacchiere strampalate, all’ironia stupida, ai lamenti ridicoli, ai sottintesi ripugnanti che non fanno che degradare chi li usa, ma agisce francamente, apertamente, senza reticenze... da uomo come si deve. — Ah ! ah ! allora io non sono un uomo come si deve?

— Questo, una volta ancora, è affar vostro... ma infine perché, diavolo, dopo questo, avreste tanto bisogno che Bagatof vivesse? — Perché? Ma non foss’altro che per vederlo, il caro amico! Avremmo fatto portare una bottiglia e l’avremmo bevuta insieme. — Avrebbe rifiutato di bere con voi. — Ma perchè? Noblesse oblige! Bevete pure, voi, con me; perché avrebbe dovuto essere più delicato? — Io? io non ho bevuto con voi. - E perché, improvvisamente, tanto orgoglio? Veltcianinof scoppiò a ridere, di un riso nervoso e agitato. - Oh! ma, decisamente, voi siete veramente feroce! E io che credevo foste soltanto un «eterno marito»! - Come, un « eterno marito » ? Che cosa intendete dire con ciò? - disse Pavel Pavlovitch, che drizzò le orecchie. - Oh niente, un tipo di marito... È una storia troppo lunga da raccontare. E poi vediamo, dovete andarvene; è ora; mi annoiate! - E perché « feroce »? Avete detto feroce. - Vi ho detto, a titolo di scherzo, che siete veramente feroce. - Che cosa intendete con questo? Vi prego, Alexis Ivanovitch, ditemelo, per l’amor di Dio e per l’amor di Cristo! - Andiamo basta! – esclamò Veltcianinof irato - è ora andatevene. - No, non basta ancora! – disse Pavel Pavlovitch con voce vibrante. - Può darsi che io vi an noi, ma non me ne andrò così, perché prima di andarmene voglio bere con voi, trincare con voi. Beviamo, e poi me ne andrò, ma non prima! - Pavel Pavlovitch, volete andarvene al diavolo sì o no?

- Andrò al diavolo, ma quando avremo bevuto. Voi avete detto che non volete bere con me; ebbene io voglio che voi beviate con me! Non faceva più della malizia, non dissimulava. In tutti i tratti del viso, c’era stata una trasformazione così completa che Veltcianinof ne fu stupefatto. — Andiamo, Alexis Ivanovitch, beviamo, andiamo, non me lo rifiutate! — continuò Pavel Pavlovitch stringendogli fortemente la mano e fissando su di lui uno sguardo strano. Evidentemente si trattava ora d’altra cosa che di un bicchiere di vino. — Infine, se volete, - mormorò l’altro - ma vedete non c’è più che il fondo.... — Ne restano giusto due bicchieri e il fondo non è torbido; andiamo beviamo e trinchiamo! Abbiate la bontà di prendere il vostro bicchiere. Trincarono e bevvero. - Ebbene! ora.... poiché è così... Ah!... - Pavel Pavlovtch si prese la fronte fra le mani e restò così qualche istante. Veltcianinof aspettava, credeva che, questa volta, l’altro avrebbe detto tutto sino all'ultima parola. Ma Pavel Pavlovitch non disse niente. Guardò Veltcianinof tranquillamente con la bocca stirata a un sorriso che era una smorfia sarcastica. — Infine, che cosa volete da me, ubriacone? Voi vi prendete beffe di me! esclamò Veltcianinof con voce furiosa, battendo i piedi. — Non gridate, non gridate, perché gridare? - disse l’altro molto in fretta, calmandolo col gesto. Io non mi prendo beffa!... Ah! Sapete che cosa siete, che cosa ora siete per me? E con un movimento rapido gli prese la mano e la baciò. Veltcianinof non ebbe il tempo di ritirarla. - Ecco che cosa siete per me, ora. E ora me ne vado, per tutti i diavoli! - Aspettate, restate! - esclamò Veltcianinof, - dimenticavo di dire.... Pavel Pavlovitch era già presso la porta, ritornò.

- Vedete, — disse Veltcianinof con voce quasi bassa, con molta fretta, arrossendo e distogliendo gli occhi — è conveniente che andiate domani dai Pogoreltsef, per fare la loro conoscenza e ringraziarli... - Certamente! È troppo naturale, - rispose Pavel Pavlovitch con una sollecitudine inconsueta, facendo segno con la mano che era superfluo insistere. - Tanto più che Lisa desidera vedervi. Gliel’ho promesso... — Lisa? — ripeté Pavel Pavlovitch, - Lisa? Sapete che cosa è per me, Lisa, che cosa è stata e che cosa è? (E rideva con trasporto). Ma tutto questo.... tutto questo, è per più tardi... Per il momento, non basta che abbiate bevuto con me, Alexis Ivanovitch, mi occorre assolutamente un’altra soddisfazione.... Posò il suo cappello su di una seggiola e di nuovo, come prima, un po’ ansimante, guardò Veltcianinof bene in faccia. — Abbracciatemi, Alexis Ivanovitch, - disse bruscamente. — Voi siete ubriaco! — gridò l’altro indietreggiando. — Ubriaco! sì, mio Dio, ma non conta; abbracciatemi Alexis Ivanovitch. Ah! Dovete abbracciarmi, vi ho ben baciata la mano, io, ora! Veltcianinof rimase un momento silenzioso come se avesse ricevuto un colpo di bastone sulla testa. Poi, con gesto brusco, si chinò verso Pavel Pavlovitch, che era vicinissimo a lui e lo baciò sulle labbra che odoravano orribilmente di vino. Tutto questo fu così rapido, e così strano, che non seppe mai se davvero l’avesse baciato. — Ah! ora... ora!... - esclamò Pavel Pavlovitch in un trasporto da ubriaco, con gli occhi lucidi — ah! vedete, è quello che dicevo: Come! allora anche lui? Ma allora sì, è vero, a chi credere? E scoppiò in lacrime. — Allora voi capite che amico siete ora per me!.... E prese il cappello e fuggì. Veltcianinof rimase qualche istante in piedi, inchiodato sul posto, come dopo la prima visita di Pavel Pavlovitch.

« Bah! è un ubriacone e un buffone! e non altro! » e alzò le spalle. «Non altro, certamente! » insistè energicamente, quando si fu spogliato e si mise a letto.

VIII - Lisa è malata

L’indomani mattina, aspettando Pavel Pavlovitch, che aveva promesso di essere puntuale, per andare dai Pogoreltsef, Veltcianinof eggiava per la camera, prese il suo caffè, fumò e pensò: ora aveva l’impressione di un uomo che, al risveglio si ricorda di aver ricevuto un pugno la sera prima. «Hum!.... sa perfettamente com’è andata e vuole vendicarsi di me servendosi di Lisa!» pensava, e aveva paura. La figura delicata e triste della bimba si presentava davanti a lui Il cuore gli batteva all’idea che oggi stesso, presto, entro due ore, avrebbe visto la sua Lisa. «Non v’è dubbio, concluse con ardore, è lei d’ora in avanti tutta la mia vita, il mio unico scopo. Che cosa m’importano tutti gli schiaffi e tutti i ritorni al ato! A che cosa è servita la mia vita sino a questo giorno? Del disordine e del dolore... Ma ora tutto è cambiato: è un’altra cosa!» A dispetto della sua esaltazione le preoccupazioni lo invadevano sempre più. « Si vendicherà di me per mezzo di Lisa. È in lei che mi colpirà... Hum.... certamente non tollererò più le stravaganze di ieri!... — E arrossì a quel ricordo. — Ma non viene ed è mezzogiorno! » Aspettò ancora, fino a mezzogiorno e mezzo e la sua angoscia crebbe. Pavel Pavlovitch non arrivava. Infine l’idea che, se non venisse, era unicamente per aggiungere stravaganza alle stravaganze della vigilia, questa idea, che ritornava dopo molto tempo in fondo alla sua anima, s’impossessò di lui interamente e lo sconvolse. « come posso ora presentarmi a Lisa, senza di lui? » Infine non potè più resistere, a un’ora si fece condurre a Pokrof. Gli dissero che Pavel Pavlovitch non aveva dormito in casa, che era rientrato la mattina alle nove, che non si era fermato più di un quarto d’ora e che era ripartito. Veltcianinof ascoltava le spiegazioni della domestica , in piedi dinanzi alla porta di Pavel Pavlotvich la quale tormentava meccanicamente la maniglia. Quando ella ebbe finito, sputò, abbandonò la porta e chiese che lo conducessero da Maria Sysoevna. Questa avendo saputo che egli era lì, accorse immediatamente.

Era un’eccellente donna, « una donna di sentimenti molto generosi, » come diceva di lei Veltcianinof, quando raccontò in seguito a Claudia Petrovna la sua conversazione con lei. Subito dopo avergli chiesto notizie della bimba, si lasciò andare a chiacchierare sul conto di Pavel Pavlovitch. Come ella diceva, — « se non fosse stato per la piccola, l’avrebbe mandato a so da molto tempo. Già l’avevano trasferito dall’albergo nel padiglione a cagione del disordine della sua vita. È davvero un delitto, condurre in casa propria delle donne di cattivi costumi, quando si ha una bambina in età per capire!... E le grida allora: « Prendi, questa sarà tua madre quando io vorrò! ». Figuratevi che la donna che aveva portato con sé, gli sputò lei stessa in viso, dal disgusto. E le ha detto più volte: « Tu, tu non sei mia figlia, sei una bastarda. » - Ma come! - disse Veltcianinof spaventato, - L’ho udito con le mie orecchie. È un ubriacone, che non sa quel che dice, è vero, ma queste cose non si devono dire davanti una bambina! Anche se piccola, tutto questo le entra nel cervello e vi resta! La piccola piange, lo vedo bene, soffre tanto. Qualche giorno fa c’è stata una disgrazia da noi: qualcuno, un commissario, a ciò che si diceva, è venuto ad affittare una stanza, una sera, l'indomani mattina, si era impiccato. Si disse che aveva perduto al gioco. La gente si affolla, Pavel Pavlovitch non è in casa; la bambina non sorvegliata esce, io stessa vado nel corridoio fra la gente e la vedo, dall'altra parte, che guarda l’impiccato con aria strana. L’ho condotta via, subito. E, figuratevi, si mette a tremare di febbre, diventa tutta scura e, appena rientrata a casa, cade a terra irrigidita. Le ho fatto una frizione, le ho battute le mani, ho avuto un gran da fare per farla rinvenire. È grave, non è vero? Da quel momento ha iniziato a star male. Quando il padre rincasa e sa quel che è accaduto, comincia a pizzicarla: — perché, vedete, preferisce pizzicarla che batterla, — poi si versa un buon bicchier di vino e poi, ecco che torna a lei e le dice per spaventarla: « Anch’io, mi impiccherò, è con questa corda che io mi impiccherò » e fa un nodo dinanzi a lei. Allora la piccola ha perso la testa, si è gettata su di lui, si è aggrappata a lui con le piccole mani e ha gridato: « Non lo farò più! non lo farò più! » Ah è una pietà! Veltcianinof si aspettava delle cose bene strane, ma quel racconto lo costernò, tanto che non poteva credere fosse vero. Maria Sysoevna raccontò ancora molti altri fatti; una volta, per esempio, se non si fosse trovata presente, Lisa si sarebbe forse gettata dalla finestra. Quando abbandonò Maria Sysoevna, era come ubriaco: « lo ammazzerò come un cane, con un colpo di bastone sulla testa! » ripeteva fra sé.

Prese una vettura e si fece condurre da Pogoreltsef. Prima di arrivare fuori città, la vettura dovette fermarsi a un incrocio, vicino a un piccolo ponte sul quale sfilava un lungo funerale. Le estremità del ponte erano piene di equipaggi fermi e una folla compatta stava a guardare. Il funerale era ricco, la fila delle vetture era lunga. D’improvviso in una di quelle vetture, Veltcianinof vide comparire la figura di Pavel Pavlovitch. Non avrebbe creduto ai suoi occhi se l’altro non si fosse affacciato allo sportello e non l’avesse salutato con la mano e con un sorriso. Evidentemente era felice dell’incontro. Veltcianinof saltò a terra e a dispetto della folla e degli agenti, scivolò sino allo sportello della vettura che già prendeva il ponte, Pavel Pavlovitch era solo. - Perché non siete venuto? - gridò Veltcianinof - come mai siete qua? - Compio l’ultimo dovere.... non gridate, non, gridate!... Compio l’ultimo dovere, — disse Pavel Pavlovitch strizzando allegramente gli occhi, accompagno la spoglia mortale del mio eccellentissimo amico Stefano Mikailovitch. - Tutto questo è assurdo, ubriacone stupido, - gridò ancora più forte Veltcianinof, un poco imbarazzato. — Andiamo, scendete subito e venite con me: andiamo, subito! — Non è possibile... è un dovere. — Vi condurrò con la forza, - urlò Veltcianinof. — E io griderò, griderò! - disse Pavel Pavlovitch, col suo stesso scoppio di risa gioioso, come se il gioco lo divertisse, e ritirandosi nell’angolo della vettura. — Attenzione! attenzione! vi farete schiacciare, — gridò un agente. E difatti, una vettura arrivava sul ponte, con gran fracasso, in senso inverso del corteo funebre. Veltcianinof dovette saltare da un lato; altri equipaggi e la folla lo rigettarono più lontano. Sputò per dispetto e ritornò alla sua carrozza. «È lo stesso, in tutti i modi non sarebbe stato possibile condurlo in quello stato!» pensò inquieto e disorientato. Quando narrò a Claudia Petrovina i racconti di Maria Sysoevna e lo strano incontro di quel funerale, la donna rimase pensosa:

— Ho paura per voi, - gli disse, - bisogna che rompiate ogni relazione con quell’uomo e più presto sarà, meglio sarà. — Bah! è un ubriacone, è un buffone, ecco quel che è! — esclamò Veltcianinof inquieto. – Io avrei paura di lui? E come volete che io rompa ogni rapporto con lui, se c’è Lisa! Non dimenticate Lisa! Lisa era a letto, molto malata. La febbre l’aveva assalita la sera prima e stavano aspettando un medico, che avevano mandato a chiamare in città sin dal mattino. Veltcianinof ne fu turbato. Claudia Petrovna lo condusse presso la malata. — L’ho osservata molto attentamente, - gli disse prima di entrare - è un temperamento fiero e triste; ha vergogna di essere qui, abbandonata da suo padre, questa a mio avvisò è tutta la sua malattia. - Come! abbandonata? Perché pensate che l’abbia abbandonata? - Oh! il solo fatto che l’ha lasciata venire qui, in una casa sconosciuta, con un uomo.... quasi altrettanto sconosciuto, o almeno.... — Ma sono io che l’ho presa, che ho dovuto prenderla con la forza; non vedo... — Mio Dio, non è di me che si tratta, è di Lisa, che è una bimba e che vede le cose così... Per conto mio, sono certa che non verrà mai. Quando vide che Veltcianinof era venuto solo, Lisa non ne fu sorpresa; sorrise tristemente e volse verso il muro il viso bruciante di febbre. Non rispose nulla alle timide parole di conforto, né alle calde promesse di Veltcianinof, che s’impegnò a portarle il padre il giorno seguente, senza dubbio. Quando la lasciò si sciolse in lacrime. Il medico non giunse che verso sera. Quando ebbe visitata la malata, spaventò tutti fin dalla prima parola, dicendo che avrebbero dovuto chiamarlo prima. Quando lo assicurarono che aveva cominciato a star male solo dalla sera prima non ci volle credere. — Tutto dipende da come erà la notte - concluse. Scrisse le sue prescrizioni e se ne andò promettendo di tornare il giorno dopo, il

più presto possibile. Veltcianinof voleva assolutamente restare la notte ma Claudia Petrovna lo supplicò di fare ancora un tentativo «per condurre quel bruto.» — Questa volta, - disse Veltcianinof eccitato, - questa volta verrà, se anche dovessi legarlo e portarlo! L’idea di legarlo e di portarlo come un bagaglio s’impossessò di lui sino ad ossessionarlo. — Ora è finita, non, mi sento più per nulla al mondo colpevole verso di lui! — disse a Claudia Petrovna prendendo congedo da lei. — Rinnego tutte le mie sciocchezze sentimentali, le mie piagnucolosità di ieri — aggiunse indignato. Lisa era distesa con gli occhi chiusi e sembrava dormire; sembrava stesse meglio. Quando Veltcianinof si chinò su di lei, con precauzione, per deporre, prima di partire, un bacio discreto su qualcosa di lei, non fosse che un lembo di abito, aprì gli occhi, come se l’avesse aspettato e gli disse piano: — Portatemi con voi! Era una preghiera dolce e triste, dove non rimaneva più nulla dell’irritazione esaltata della vigilia, ma nella quale si sentiva della rassegnazione, come la certezza che non sarebbe stata esaudita. Quando Veltcianinof, disperato si mise a spiegarle che era impossibile, chiuse gli occhi e non disse più niente, come se non l’udisse e non lo vedesse. Quando fu rientrato in città, si fece condurre diritto a Pokrof. Erano le dieci; Pavel Pavlovitch non era in casa. Veltcianinof l’aspettò una mezz’ora, andando e tornando per il corridoio, in uno stato di impazienza dolorosa. Maria Sysoevna finì per fargli capire che Pavel Pavlovitch non sarebbe rientrato prima dell’indomani mattina. — Verrò dunque quando sarà giorno. E se ne andò per rientrare in casa sua. Fu stupito, quando, rincasando, apprese da Mavra che lo sconosciuto della vigilia era là ad attenderlo, dalle dieci.

Ha bevuto del thè qui, da noi e poi ha chiesto del vino, come ieri e mi ha regalato un biglietto da cinque rubli.

IX - Visione

Pavel Pavlovitch si era accomodato. Si era seduto sulla stessa seggiola della vigilia, fumava una sigaretta e stava versandosi il quarto ed ultimo bicchiere della bottiglia. La teiera e la tazza ancora mezza piena erano accanto a lui, sulla tavola. Il suo viso imporporato ora era pieno di soddisfazione. Si era tolta la giacca ed era in panciotto. — Mi scusate, carissimo amico? — fece scorgendo Veltcianinof e si alzò per rimettersi la giacca, che s’era tolta per stare più comodo. - Siete ubriaco del tutto? Posso ancora farmi capire? Pavel Pavlovitch esitò un momento. - Mio Dio... no... non del tutto.... Ho compiuto l’ultimo dovere col defunto e.... non del tutto. — Siete in condizioni da capirmi? — Ma sono qui precisamente per questo, per capirvi.... - In questo caso, - riprese Veltcianinof con voce soffocata dalla collera, comincerò col dirvi chiaramente che siete un miserabile. - Se voi cominciate così, dove diavolo finirete? — disse Pavel Pavlovitch, che, evidentemente aveva paura. Ma Veltcianinof proseguiva senza ascoltare. — Vostra figlia muore, è molto malata. L’avete abbandonata, sì o no? — Morente?.... davvero?... — È malata, molto malata, pericolosamente malata.

— Oh! una semplice crisi, forse.... — Andiamo! non dite delle bestialità. È gravemente malata. Voi avreste già dovuto andare, se non fosse.... — Per ringraziare dell’ospitalità? Eh sì! lo so anche troppo! Alexis Ivanovitch, mio caro, mio perfetto amico, — balbettava, prendendogli la mano fra le sue con una tenerezza da ubriaco, con le lacrime agli occhi e come se chiedesse perdono, — Alexis Ivanovitch, non gridate, non gridate... Che io muoia, che io cada all’istante nella Neva.... A che cosa serve, nelle circostanze presenti?... Quanto ai Pogoreltsef, ci sarà sempre tempo... Veltcianinof si fermò e riuscì a dominarsi. — Siete ubriaco e non capisco ciò che volete dire, - disse duramente. – Sono sempre disposto a spiegarmi con voi e ci tengo a farlo il più presto possibile.... Stavo, precisamente.... Ma, prima di tutto, ecco ciò che ho deciso: voi erete la notte qui. Domani mattina vi porterò da Lisa. Non vi lascerò — gridò con voce tonante - vi legherò e vi porterò con le mie mani!... Vediamo, questo divano andrà bene per voi? E indicava un divano largo e soffice, posto di fronte a quello sul quale dormiva lui stesso. Ma, ve ne prego, non importa dove.... - No, non importa dove, su questo divano. - Tenete, ecco delle lenzuola, delle coperte, un cuscino… - Veltcianinof prese tutto questo in un armadio a specchio e lo gettò con gesto vivace a Pavel Pavlovitch, che tendeva le braccia, con aria rassegnata, - andiamo, fatevi il letto, e subit o! Pavel Pavlovitch rimase là, in piedi in mezzo alla camera, con le braccia conserte, come indeciso, con un gran sorriso da ubriaco sulla sua faccia da ubriaco; a una seconda intimazione di Veltcianinof, che gridava, si mise a prepararsi con precipitazione. Allontanò la tavola e, sbuffando, spiegò e dispose le lenzuola. Veltcianinof venne ad aiutarlo; era soddisfatto della docilità e dello spavento del suo ospite. - Finite di vuotare il bicchiere e coricatevi, ordinò; - sentiva che bisognava comandare! - Siete voi che avete chiesto del vino?

— Eh! sì, sono io.... È che, Alexis Ivanovitch, sapevo bene che non avreste acconsentito a mandarne a prendere. — Va bene che abbiate capito questo, ma vi è un’altra cosa che dovete capire. Vi dichiaro che la mia decisione è presa: non sopporterò più tutte le vostre moine, né tutte le vostre carezze di ubriaco! — Oh! ma credetelo, Alexis Ivanovitch, - disse l’altro sorridendo, - capisco a meraviglia che tutto questo non è possibile che una sola volta. A questa risposta, Veltcianinof, che camminava per la camera, si fermò bruscamente dinanzi a Pavel Pavlovitch, con aria solenne. - Pavel Pavlovitch, parlate franco? Voi siete intelligente, lo ripeto, ma vi dichiaro che voi state percorrendo una falsa strada. Parlate franco, agite apertamente e vi dò la mia parola d’onore, risponderò a tutte le vostre domande. Pavel Pavlovitch sorrise di nuovo del suo largo sorriso, che bastava a esasperare Veltcianinof. — Vediamo! Non facciamo misteri! Vedo chiaro sino in fondo a voi. Ve lo ripeto, vi dò la mia parola d’onore che risponderò a tutto e che riceverete da me tutte le soddisfazioni possibili... voglio dire tutte le soddisfazioni possibili o no! Oh! come vorrei che voi mi comprendeste!.... — Ebbene! perché avete tanta bontà, - disse Pavel Pavlovitch con aria circospetta, - sono stato estremamente colpito ieri quando vi siete servito della parola « feroce ».... Veltcianinof sputò e si mise a camminare, più in fretta, per la camera. — Oh! Alexis Ivanovitch, non sputate perché sono curioso di sapere questo; sono venuto apposta per saperlo.... Eh sì! la mia lingua non è sciolta, oggi, ma voi sarete molto indulgente. Ho letto qualche cosa, in una rivista, riguardo a individui di tipo « feroce » e di tipo « mite »; di questo mi sono ricordato questa mattina.... ma, non mi ricordo più di che si tratti e, a ben dire, non ho ben capito.... Ecco, per esempio, quello che vorrei sapere: Stefan Mikailovitch era del tipo « feroce » o del tipo « mite » ? Di quale dei due? Veltcianinof taceva sempre e continuava a camminare. Si fermò bruscamente e

parlò con rabbia: - L’uomo di tipo « feroce » è l’uomo che si sarebbe affrettato a versare del veleno nel bicchiere di Bagatof, nel momento di bere con lui dello champagne, in onore dell’amicizia così felicemente rinnovata, come voi avete fatto ieri con me; ma un uomo di quella specie non sarebbe andato a condurlo al cimitero, come avete fatto poco fa, sa il diavolo per quale motivo segreto, basso e vile e si sarebbe guardato da tutte le vostre sporche moine! — Certamente non sarebbe andato, - disse Pavel Pavlovitch; - ma veramente voi mi trattate... — L’uomo di tipo « feroce », - proseguiva Veltcianinof, con ione, senza ascoltare, — non è uomo da darsi Dio sa quali arie, da comportarsi come un giustiziere esatto e scrupoloso, da studiare il suo caso con pedanteria, per trame argomento di lezione, da piagnucolare, da far moi ne, da gettarsi al collo delle persone e da essere contento di questo impiego del suo tempo!... Vediamo un po’, dite la verità: è vero c he avres te voluto impiccarvi? - Oh! sapete, è ben possibile, in un momento di ubriachezza... non mi ricordo... Ma vediamo Alexis Ivanovitch, gente come noi non può servirsi di veleni! Oltre essere un funzionario noto, ho un po’ di denaro ed è possibile che io pensi a rimaritarmi. — E poi si rischiano i lavori forzati. — Perfettamente! ed è una cosa sgradevole, quantunque ora i giurati accordino volentieri le circostanze attenuanti. Sentite, Alexis Ivanovitch, mi è ritornata alla mente, stamane, mentre ero nella mia vettura, una breve vittoria molto strana e bisogna che ve la racconti. Voi parlate adesso dell’uomo « che si getta al collo delle persone ». Vi ricordate forse di Semen Pe- trovitch Livtson, che è arrivato a T... al tempo vostro? Ebbene, aveva un fratello minore, un bel giovane di Pietroburgo, come lui, che era funzionario presso il governatore di V.... ed era molto apprezzato... Gli capitò un giorno di inquietarsi con Golubenko, il colonnello, in una riunione; vi erano delle dame e, fra di esse la dama del suo cuore. Si sentì molto umiliato, ma ingoiò l’offesa e non disse una parola. Poca dopo, Golubenko, gli portò via la dama del suo cuore e la chiese in sposa. Che cosa credete che fe Livtson? Fece in modo di divenire l’amico intimo di Golubenko, meglio ancora, chiese di essere testimone di nozze, il giorno del

matrimonio sostenne la sua parte poi, quando ebbero ricevuta la benedizione nuziale, s’avvicinò allo sposo per felicitarlo e «baciarlo» e, allora, dinanzi alla nobile società, davanti al governatore, ecco il mio Livtson che gli dà un gran colpo di coltello al ventre ed ecco il mio Golubenko che cade!... E poi non è tutto! Il più bello viene ora. Dopo la coltellata ecco che si getta a destra e a sinistra. « Oimè, che cosa ho fatto! oimè, che cosa ho fatto! e singhiozza, e si agita e si getta al collo di tutti e anche delle dame: Oimè! che cosa ho fatto! » Ah ! ah ! ah ! c’è da crepare dal ridere. C’era solo il povero Golubenko che faceva pietà; ma infine se l’è cavata. — Non vedo perché mi raccontiate questa storia, - disse Veltcianinof, seccamente, con le sopracciglia aggrottate. - Ma unicamente a causa della coltellata, - disse Pavel Pavlovitch, sempre ridendo. - Ecco un inesperto, che per il terrore, manca a tutte le convenienze, si getta al collo delle dame, in presenza del governatore... e tutto questo non impedisce che egli abbia dato la sua coltellata e che abbia fatto quel che voleva fare!... È solo per questo che ve lo racconto. - Andate al diavolo, — urlò Veltcianinof con voce mutata, come se qualcosa si fosse spezzato in lui, — andate al diavolo coi vostri sottintesi mascalzone, so chi siete; volete farmi paura, criminale, vile... vile... vile! — gridò fuori di sé, ansando ad ogni parola. Pavel Pavlovitch, d’improvviso, fu come trasfigurato. La sua ebbrezza scomparve, le sue labbra tremarono. — Allora, siete voi, Alexis Ivanovitch, voi, che trattate da vile me? Veltcianinof tornò in sé. — Sono pronto a farvi delle scuse, - disse dopo un momento di riflessione che lo terrificò, - ma ad una condizione, che voi stesso, subito, vi decidiate ad agire apertamente. — Al vostro posto, Alexis Ivanovitch, avrei fatto delle scuse senza condizione. — Ebbene, sia!... (Vi fu ancora un silenzio). Vi faccio le mie scuse ma voi converrete, Pavel Pavlovitch, che dopo tutto questo, posso considerarmi disimpegnato verso di voi... non parlo soltanto del caso presente; voglio dire in

ciò che concerne tutto l’affare. — Ma… quali conti ci possono essere fra noi? - disse Pavel Pavlovitch, sorridendo, con lo sguardo a terra. - Se è così, tanto meglio, tanto meglio! Andiamo, bevete il vostro bicchiere e coricatevi, poiché non voglio lasciarvi andar via. — Ah si! il vino... — disse Pavel Pavlovitch, un po’ turbato. Si avvicinò alla tavola, per vuotare il suo bicchiere. Poteva darsi che avesse già bevuto molto, fatto è che la sua mano tremava, che rovesciò una parte del vino per terra, sulla camicia, sul pavimento. Tuttavia bevve sino all'ultima goccia, come se avesse avuto rammarico a lasciarne, poi posò il bicchiere sulla tavola, con precauzione e andò docilmente verso il suo letto, per spogliarsi. — Ma non è meglio.... che non resti qua la notte? — disse all’improvviso. Aveva già tolta una delle sue scarpe e la teneva fra le mani. — Niente affatto, non andrebbe meglio! - rispondeva violentemente Veltcianinof che camminava in lungo e in largo, senza guardarlo. L’altro finì di spogliarsi e si coricò. Un quarto d’ora dopo, Veltcianinof si coricò ugualmente, e spense la candela. Cominciò ad assopirsi, senza trovare la calma. Qualcosa di nuovo, di più confuso ancora del resto, qualcosa che non aveva previsto, l’opprimeva ora e, nello stesso tempo, si sentiva come vergognoso di quell’angoscia. Stava per addormentarsi quando un rumore lo svegliò. Gettò subito gli occhi sul letto di Pavel Pavlovitch. Era scuro nella camera (le tende erano chiuse) ma credette di vedere che Pavel Pavlovitch non era più disteso, ma seduto sul letto. — Che cosa avete? — gridò Veltcianinof. — L’ombra! — disse Pavel Pavlovitch, dopo un silenzio, con voce sorda, appena percettibile. — Chi dunque? quale ombra?

— Là, nell’altra camera, accanto alla porta, mi è sembrato di vedere un’ombra. — L’ombra di chi? — chiese Veltcianinof, dopo un silenzio. — Di Natalia Vassilievna. Veltcianinof saltò giù dal letto, gettò un’occhiata nell’anticamera, poi nella stanza vicina, della quale la porta restava sempre aperta. Non c’erano tende alle finestre e le cortine leggere lasciavano entrare un poco di luce. — Non c’è niente in quella, camera, voi siete ubriaco, coricatevi! - disse Veltcianinof, che si coricò e si avvolse nelle sue coperte. Pavel Pavlovitch si ricoricò, così, senza dire una parola. — Avete già visto altre volte delle ombre? — chiese d’improvviso Veltcianinof dieci minuti più tardi. — Una volta sola, — disse Pavel Pavlovitch, con voce spenta. Poi si fece di nuovo silenzio. Veltcianinof non sapeva bene se dormisse o no. Un’ora ò, poi improvvisamente trasalì, era ancora un rumore che l’aveva svegliato; non sapeva niente, ma gli sembrò vi fosse, nella notte nera, qualche cosa di bianco, in piedi, a qualche distanza da lui, in mezzo alla camera. Si mise a sedere e guardò un minuto intero. — Siete voi, Pavel Pavlovitch? — disse con voce debole. Quella voce alterata, nel silenzio e nella tenebra, gli diede un’impressione strana. Non ottenne risposta, ma non c’era più il minimo dubbio: vi era qualcuno, là, in piedi. — Siete voi, Pavel Pavlovitch? — ripeté più forte, talmente forte che Pavel Pavlovitch, se avesse dormito tranquillamente nel suo letto, si sarebbe certamente svegliato di soprassalto e avrebbe risposto. Non ci fu risposta ma gli parve che la forma bianca, ora quasi distinta, si

muovesse, si avvicinasse a lui. Una cosa strana avvenne: ebbe improvvisamente una sensazione che aveva avuta già prima, la sensazione di qualche cosa che si rompesse in lui e gridò con tutte le sue forze, con voce rauca, soffocata, venendo meno quasi ad ogni parola: — Ubriaco, buffone, se vi immaginate di farmi paura, ebbene! mi volterò verso il muro, mi avvolgerò tutto intero anche la testa, nella mia coperta e non mi muoverò, per tutta la notte.... per mostrarti che per me non conti nulla... E voi avrete un bel restare là, in piedi, fino al mattino, a prolungare questa farsa.... E sputo su di voi!... E sputò con rabbia verso ciò che poteva essere Pavel Pavlovitch, poi si voltò, con un movimento brusco, verso il muro, s’avvolse nella sua coperta e restò così senza muoversi, come morto. Si fece un silenzio terribile. Non sapeva, non poteva sapere se il fantasma avanzasse verso di lui, o se restasse immobile e il suo cuore batteva, batteva, batteva. Cinque minuti arono, poi improvvisamente udì, a due i da lui, la voce di Pavel Pavlovitch, debole e spaventosa: — Sono io, Alessio Ivanovitch, mi sono alzato per cercare... (E nominò un oggetto indispensabile). Non l’avevo trovato accanto al letto... sono venuto a vedere, molto piano, vicino al vostro. — Perché non avete detto niente... quando vi ho chiamato? — chiese Veltcianinof con voce soffocata, dopo un lungo silenzio. - Ho avuto paura. Avete gridato così forte... ho avuto paura. - Là, nell’angolo, a sinistra... nel tavolino da notte. Accendete la candela..... — Oh! ora non vale la pena... — disse Pavel Pavlovitch, con voce molto dolce, — lo troverò... perdonatemi, Alexis Ivanovitch di avervi disturbato... mi sono sentito completamente ubriaco... Veltcianinof non rispose più. Rimase coricato, col viso rivolto verso il muro, tutta la notte, senza muoversi. Voleva mantenere il suo impegno e provargli che lo disprezzava? Non sapeva lui stesso che cosa avvenisse in lui, la scossa era stata così violenta che ne rimase come smarrito e ci volle molto prima di potere addormentarsi. Quando si svegliò l’indomani, alle dieci, sussultò e si trovò seduto sul letto,

come mosso da una molla... Ma Pavel Pavlovitch non era più nella camera. Il letto era vuoto, in disordine; era fuggito la mattina presto. - Lo sapevo bene! — disse Veltcianinof, tenendosi la fronte.

X - Al cimitero

Il dottore aveva visto giusto: lo stato di Lisa peggiorò più di quanto Veltcianinof e Claudia Petrovna avessero previsto alla vigilia. Quando Veltcianinof giunse, il mattino, la malata era ancora cosciente, quantunque fosse bruciante di febbre, giurò più tardi che gli aveva sorriso e che gli aveva teso le sue piccole mani. Fosse vero, o fosse un’illusione consolante, non c’era più tempo per verificare: quando venne la notte aveva perduto la conoscenza e rimase così sino alla fine. Il decimo giorno dopo il suo arrivo presso i Pogoreltsef, morì. Le giornate che precedettero la morte furono spaventose per Veltcianinof: i Pogoreltsef temettero per lui. ò presso di loro la maggior parte di questo periodo di grande angoscia. Durante gli ultimi giorni, rimase delle ore intere da solo, non importa dove, in un angolo, senza pensare a nulla; Claudia Petrovna veniva talora a distrarlo, ma rispondeva appena e talora lasciava capire che quei colloqui gli erano penosi. Ella non avrebbe creduto che soffrisse tanto. Solo i bambini riuscivano a distrarlo, rideva qualche volta con loro, ma ad ogni momento si alzava in punta di piedi e andava a vedere la malata. Gli sembrò molte volte che lo riconoscesse. Non c’era alcuna speranza di vederla guarire, ma non poteva allontanarsi dalla camera dove lei moriva e rimaneva abitualmente nella camera vicina. Due volte, durante questo periodo, fu preso da un bisogno estremo di agire. Partì, corse a Pietroburgo, andò dai medici più importanti e li riunì a consulto: l’ultimo ebbe luogo la vigilia della morte. Tre giorni prima, Claudia Petrovna gli aveva detto che era indispensabile ritrovare a qualunque costo il signor Trusotky: « In caso di disgrazia, sarebbe impossibile persino seppellirla senza la presenza di suo padre ». Veltcianinof aveva risposto con aria distratt a che gli avrebbe scritto. Il vecchio Pogoreltsef aveva allora dichiarato che lo avrebbe fatto cercare dalla polizia. Veltcianinof aveva finito per scrivere qualche parola laconica e l’aveva lui stesso portata all’albergo. Pavel Pavlovitch era assente, come d’abitudine e dovette affidare la lettera a Maria Sysoevna. Lisa morì infine, in una magnifica sera d’estate, mentre il sole tramontava. Fu come se Veltcianinof uscisse da un sogno. Quando l’ebbero portata via, quando

l’ebbero vestita con un piccolo abito bianco, l’abito da festa di uno dei bimbi della casa, quando l’ebbero distesa con le mani giunte, sulla tavola della sala, coperta di fiori, si avvicinò a Claudia Petrovna e, con gli occhi lucidi le dichiarò che andava a cercare «l’assassino» e che lo avrebbe condotto subito lì. Non volle udire alcun consiglio, rifiutò di aspettare il giorno dopo e partì subito per la città. Sapeva dove trovare Pavel Pavlovitch. Quando durante quegli ultimi giorni s’era recato a Pietroburgo, non era stato soltanto per vedere dei medici. Gli era qualche volta sembrato che se avesse potuto portare a Lisa suo padre, questa sarebbe ritornata in vita udendo la sua voce; e poi, scoraggiato, aveva rinunciato a cercarlo. Pavel Pavlovitch abitava ancora nello stesso luogo, ma non era possibile trovarlo in casa sua. «Sta qualche volta tre giorni senza coricarsi qui, senza neppure rientrare, raccontava Maria Sisoevna; quando per caso ritorna, ubriaco, resta un’ora, poi riparte; non conserva più la decenza ». Il cameriere dell’albergo informò Veltcianinof che già da molto tempo, Pavel Pavlovitch andava a trovare delle donne che abitavano nei pressi di Voznesensky. Veltcianinof non fece fatica a trovare le donne. Quando le ebbe ben pagate, si ricordarono d’un tratto del loro cliente — il cappello con la fascia nera le aveva colpite — e si lamentarono molto di non vederlo più. Una di esse, Katia, dichiarò « che era molto facile trovare Pavel Pavlovitch », visto che non abbandonava più Maxka Prostakova. Katia non credeva di poterlo trovare subito, ma promise per il giorno seguente. E Veltcianinof fu ridotto a contare sul suo aiuto. Tornò l’indomani alle dieci, andò a prendere Katia, si mise in cerca con lei. Non sapeva ancora ciò che avrebbe fatto di Pavel Pavlovitch, se lo avesse ucciso sul luogo o se si fosse accontentato di annunciargli la morte di sua figlia e di spiegargli che la sua presenza alle esequie era indispensabile. Le prime ricerche furono infruttuose se ppero che Mascka Prostakova era venuta alle mani con lui e gli aveva gettato uno sga bello sul capo. Infine, alle due di mattina, Veltcianinof, nel momento in cui usciva da un caffè notturno che gli avevano indicato, si trovò faccia a faccia con lui. Pavel Pavlovitch era completamente ubriaco, due donne lo trascinavano verso il caffè, una lo sosteneva per le braccia, un giovane alto le seguiva da vicino, gridando con tutte le sue forze e facendo a Pavel Pavlovitch delle furiose minacce. Urlava fra le altre cose « che l’aveva sfruttato e che aveva avvelenata la sua vita... ». Si trattava verosimilmente di denaro. Le donne avevano una paura

terribile e si affrettavano quanto potevano. Quando vide Veltcianinof, Pavel Pavlovitch si gettò su di lui, con le mani tese e gridò, come se lo sgozzassero: - Fratello, aiuto! Il giovane che li seguiva, quando vide la figura terribile di Veltcianinof, si dileguò in un batter d’occhio. Pavel Pavlovitch, fiero della sua vittoria, gli mostrava il pugno, mandava grida di trionfo ma Veltcianinof lo afferrò violentemente per le spalle e senza sapere perché, si mise a scuoterlo con tutta la forza delle sue braccia, in modo che l’altro sbatteva i denti. Pavel Pavlovitch cessò subito di gridare e lo guardò con aria stupefatta e imbecille da ubriaco. Veltcianinof, non sapendo che fare, lo spinse violentemente e lo buttò seduto su di un paracarro. - Lisa è morta! — gli disse. Pavel Pavlovitch continuava a guardarlo, seduto sul paracarro e tenuto in equilibrio da una delle donne. Finì per capire e fece uno sguardo di sconforto. — È morta... — mormorò con aria strana. Era solo il suo largo e ignobile sorriso di ubriaco o qualcosa di sornione e di cattivo che ò nei suoi occhi? Veltcianinof non poté rendersene conto. Un istante dopo, Pavel Pavlovitch alzò con uno sforzo la mano, per fare un segno della croce, ma la croce rimase incompleta e la mano tremante ricadde. Un poco dopo ancora, si alzò penosamente dal paracarro e aggrappandosi alla donna, si appoggiò su di lei e si rimise in strada come se nulla fosse, senza più occuparsi di Veltcianinof. Questi l’afferrò di nuovo per le spalle. - Capirai, brutto ubriacone, che non posso seppellirla senza di te? — gridò soffocando di collera. L’altro rivolse la testa verso di lui. - Il sottoluogotenente... d’artiglieria... sapete? - balbettò, con la lingua pesante. — Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante. — È lui, il padre! Cercalo... per il funerale.

— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle. — Canaglia!... Sapevo bene che mi avresti servito questo! Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch. Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa. — Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, sai ciò che diciamo in russo? - e pronunciò una frase che non si può scrivere. Ecco per te!... E ora, vattene, e in fretta! Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso. Le donne lo sostennero e lo accompagnarono via in fretta, quasi trascinandolo. Veltcianinof non lo seguì. L’indomani arrivò dai Pogoreltsef un signore robusto, di età matura, un funzionario in uniforme. Diede molto cortesemente a Claudia Petrovna un pacco, da parte di Pavel Pavlovitch Trusotsky. Il pacco conteneva una lettera, trecento rubli e le carte concernenti Lisa. La lettera era breve, molto deferente, perfettamente corretta... Esprimeva tutta la sua gratitudine a Sua Eccellenza Claudia Petrovna per la bontà e l’interessamento che aveva dimostrato all’orfana e aggiungeva che Dio solo avrebbe potuto compensarla. Spiegava vagamente che un’indisposizione molto grave non gli permetteva di venire di persona ad assistere alle esequie della sua cara e povera bambina e si rimetteva per tutto questo, in tutta fiducia, all’angelica bontà di Sua Eccellenza. I trecento rubli, aggiungeva, rappresentavano il costo del funerale c le spese che aveva procurato la malattia, se la somma era troppo forte, la pregava molto rispettosamente di impiegare l’eccedenza in messe per il riposo dell’anima di Lisa. Il funzionario che portò la lettera, non poté aggiungere nulla; era chiaro, solamente, da alcune parole che pronunciò, che Pavel Pavlovitch aveva dovuto insistere fortemente per ottenere da lui che accettasse quella missione. Pogoreltsef fu esasperato per l’espressione: « le spese che aveva procurato la malattia », valutò la spesa per il funerale a cinquanta rubli, — non poteva impedire al padre di pagare le esequie di sua figlia, — e voleva rinviare all’istante al signor Trusotsky i duecentocinquanta rubli restanti. Finalmente

Claudia Petrovna decise che non glieli avrebbe restituiti, ma che gli avrebbe fatto pervenire una ricevuta dalla chiesa attestante che i duecentocinquanta rubli erano stati consacrati a dei servizi per il riposo dell’anima della bambina. In seguito, questa ricevuta fu rimessa a Veltcianinof, che la mandò per posta a Pavel Pavlovitch. Dopo la sepoltura, scomparve. Due settimane intere errò per la città, senza scopo, solo, pensieroso al punto che si urtava ai anti. Talora restava tutto il giorno disteso sul divano, dimenticando tutto, anche le cose più elementari. I Pogoreltsef a varie riprese, l’invitarono con insistenza; prometteva e poi non ci pensava più. Claudia Petrovna andò un giorno in persona, ma non lo trovò in casa. Il suo avvocato riuscì a raggiungerlo, un accordo facile si presentava alfine; la parte avversa acconsentiva a un'intesa, bastava rinunciare a una parte insignificante di proprietà. Non mancava che il consenso di Veltcianinof. L’avvocato fu stupefatto di incontrare un’indifferenza e una noncuranza tale presso il cliente meticoloso e agitato di prima. Si era nei più caldi giorni di luglio, ma Veltcianinof dimenticava anche il tempo. Soffriva senza tregua di un dolore cocente come di un ascesso maturo, a ogni istante gli venivano dei pensieri che lo torturavano. Il suo grande dolore era che Lisa non avesse avuto il tempo di conoscerlo, che fosse morta senza sapere come la sua tenerezza fosse ardente. Lo scopo unico della sua vita, quello scopo che aveva intravisto in un’ora di gioia, era scomparso per sempre nella notte. Quello scopo che aveva sognato e al quale ora pensava ad ogni minuto, era che ogni giorno, ad ogni ora della sua vita intera, Lisa sentisse la tenerezza che aveva per lei. «Non pensava talora in una esaltazione disperata, no, non vi sono al mondo scopi più elevati dell’esistenza! Se ve ne sono altri, non ve ne sono di più sacri! Con l’aiuto del mio amore per Lisa, avrei purificato e riscattato tutto il mio ato assurdo e inutile; avrei cacciato da me l’uomo ozioso, vizioso e indifferente che sono stato, avrei cresciuto per la vita un piccolo essere grazioso e in nome di quel piccolo essere tutto mi sarebbe stato perdonato, io stesso mi sarei perdonato tutto....». Questi pensieri gli venivano sempre in mente accompagnati dalla visione chiara, molto vicina, commovente, della bimba morta. Rivedeva il povero visino tutto bianco e ne rivedeva l’espressione. La rivedeva nella bara, fra i fiori, la rivedeva senza conoscenza, bruciata dalla febbre, con gli occhi fissi, spalancati. Ricordava l’emozione profonda che aveva avuta, quando l’aveva vista distesa sulla tavola e aveva notato che una delle sue dita era diventata quasi nera. La vista di quel

povero ditino gli aveva dato un desiderio violento di ritrovare Pavel Pavlovitch subito e di ucciderlo sul posto. Era della sua fierezza umiliata che era morto quel piccolo cuore di bimba, ovvero erano i tre mesi di sofferenza che le aveva fatto sopportare suo padre, l’amore troppo presto cambiato in odio, le parole di rimprovero, il disdegno per le sue lacrime e poi il suo abbandono in mano di stranieri? — Tutto questo gli ritornava in mente, senza posa, sotto mille forme diverse.... «Sapete ciò che Lisa è stata per me?» Ricordò il grido di Trusotsky e sentì che non si trattava di una smorfia, ma che il suo strazio era sincero, che era tenerezza. «Come mai quel mostro aveva potuto essere così crudele con la bambina che adorava? Era credibile?». Ma sempre allontanava quella domanda e la fuggiva; essa conteneva un elemento di incertezza terribile, qualche cosa d’intollerabile e d’insolubile. Un giorno, senza che neppure sapesse come, giunse al cimitero dove era sepolta Lisa. Non vi era tornato mai dopo le esequie: gli sembrava che il dolore fosse troppo forte e non osava. Cosa strana, quando si fu chinato sulla pietra che la copriva e l’ebbe baciata, si sentì il cuore meno oppresso. Era una sera chiara, il sole scendeva all’orizzonte, attorno alla tomba cresceva un’erba rigida e verde, vicino, un’ape ronzava, volando da una rosa di siepe a un’altra; i fiori e le corone che i bambini di Claudia Petrovna avevano lasciato sulla tomba erano ancora là semi spogliati. Per la prima volta, dopo molto tempo, una specie di speranza illuminò il suo cuore. «Com’è dolce!» pensò e si sentì invaso dalla pace del cimitero mentre guardava il cielo chiaro e calmo. Sentiva affluire al cuore una specie di gioia pura e forte. «È Lisa che mi manda questa pace; è Lisa che mi parla» pensava. Era notte del tutto quando abbandonò il cimitero per rientrare. Vicino alla porta del cimitero , sul margine della strada, vide una piccola casa di legno, una specie di caffè, le finestre erano spalancate, della gente si trovava intorno alle tavole e beveva. Gli parve che uno di essi che guardava dalla finestra, fosse Pavel Pavlovitch che l’aveva visto e lo osservava con curiosità. Continuò il suo cammino. Subito sentì che cercavano di raggiungerlo: era difatti Pavel Pavlovitch. Senza dubbio. L’aria calma di Veltcianinof l’aveva reso ardito. L’avvicinò con aria timorosa, sorrise, ma non più con il sorriso di prima, del suo sorriso di ubriaco; non era ubriaco. — Buongiorno, — disse. — Buongiorno, — rispose Veltcianinof.

XI - Pavel Pavlovitch vuol prendere moglie

Nello stesso tempo che rispondeva «buongiorno», Veltcianinof fu sorpreso di ciò che provava. Gli sembrava strano di vedere, ora, quell’uomo senza la minima collera e di provare nei suoi riguardi qualche cosa di nuovo, come un desiderio di altri sentimenti. - Che bella sera! — disse Pavel Pavlovitch guardandolo in fondo agli occhi. - Non siete dunque ancora partito! — riprese Veltcianinof, col tono di una riflessione più che di una domanda e continuò a camminare. - C’è stato del ritardo, ma ho finalmente un posto remunerativo. Partirò certamente dopodomani. — Avete ottenuto un posto? — disse Veltcia ninof e questa volta fu proprio una domanda. — Perché, non posso? — rispose Pavel Pavlovitch con una smorfia. - Mio Dio, dicevo così per dire... — si scusò aggrottando le sopracciglia. E gettò un’occhiata obliqua su Pavel Pavlovitch. Fu vivamente sorpreso accorgendosi che l’abito, il cappello con la fascia nera e tutto l’aspetto del signor Trusotsky erano senza dubbio più decenti di due settimane prima. «Ma perché diavolo si trovava in quella locanda?» pensava. — Bisogna anche, Alexis Ivanovitch, che vi comunichi un'altra grande gioia, — riprese Pavel Pavlovitch. — Una gioia? — Mi sposo.

— Ma come? — Dopo la tristezza la gioia... così va la vita! Avrei ben voluto Alexis Ivanovitch... Ma temo... voi avete fretta, ne avete l’aria... — Sì, sì, ho fretta, e poi... non mi sento molto bene. Gli venne bruscamente un desiderio violento di sbarazzarsi dell’altro: tutte le sue disposizioni alla simpatia svanirono in un attimo. - Eh sì! avrei ben voluto... Pavel Pavlovitch non disse ciò che avrebbe voluto, Veltcianinof taceva. — Ma in, questo caso sarà per un’altra volta, quando avrò la fortuna di incontrarvi... — Sì, sì, un’altra volta, — disse in fretta Veltcianinof, senza guardarlo e senza fermarsi. Tacquero un minuto, Pavel Pavlovitch continuò a camminare al suo fianco. — Ebbene! dunque, arrivederci, — disse infine. — Arrivederci, spero.... Veltcianinof rientrò in casa, di nuovo turbato. Il contatto di quell’uomo gli era decisamente insopportabile. Era più forte di lui. Coricandosi, si chiese ancora: « Che cosa faceva presso il cimitero? » L’indomani mattina, decise infine di andare a trovare i Pogoreltsef; si decise senza piacere, ogni simpatia gli era di peso, anche la loro. Ma loro erano così inquieti per lui che doveva assolutamente andarci. Ebbe l’idea che avrebbe provato un grande imbarazzo rivedendoli. « Andrò o non andrò? » pensava, terminando rapidamente di pranzare quando, con suo grande stupore Pavel Pavlovitch entrò. Malgrado il suo incontro della vigilia, si aspettava così poco che quell’uomo si ripresentasse in casa sua e ne fu così sconcertato, che lo guardò senza trovare

una parola da dirgli. Ma Pavel Pavlovitch non fu per nulla imbarazzato, lo salutò, sedette sulla stessa seggiola sulla quale si era seduto nella sua ultima visita, tre settimane prima. Il ricordo di quella visita tornò in mente a Veltcianinof: guardò il suo ospite con inquietudine e disgusto. — Siete sorpreso? — cominciò Pavel Pavlovitch, che notò lo sguardo di Veltcianinof. La sua attitudine era più disinvolta della vigilia e nello stesso tempo era visibile che era più intimidito. Il suo aspetto esteriore era molto curioso. Vestiva con estrema ricercatezza: giacchetta estiva, pantaloni chiari, aderenti, panciotto chiaro, guanti, occhiali d’oro, biancheria impeccabile, anche la sua persona era tutta profumata. Tutto quel personaggio aveva qualcosa di ridicolo e nello stesso tempo di strano e di spiacevole. - Perfettamente, Alexis Ivanovitch, — seguitò inchinandosi, — la mia visita vi sorprende, e me ne accorgo. Ma vi sono persone fra cui rimane sempre qualche cosa... non credete? qualche cosa di superiore a tutte le eventualità e a tutte le contrarietà che possono accadere... non credete? - Vediamo un po’, Pavel Pavlovitch, vi prego di dirmi molto in fretta e senza troppe parole ciò che avete da dirmi, — disse Veltcianinof aggrottando le sopracciglia. - Ecco, in due parole: mi sposo, vado adesso dalla mia fidanzata in campagna. Vorrei mi faceste il grande onore di permettermi di accompagnarvi in quella casa e sono venuto a pregarvi, a supplicarvi — e inchinò la testa, umilmente — di accompagnarmi... - Di accompagnarvi dove? — disse Veltcianinof, con gli occhi spalancati. - Da loro, in campagna. Scusatemi, mi esprimo male, con una precipitazione febbrile, goffamente; ma ho così paura che voi vi rifiutiate! E guardò Veltcianinof con occhio dolente. - Volete che vi accompagni subito dalla vostra fidanzata? — disse Veltcianinof trasecolato e non credendo né ai suoi occhi, né alle sue orecchie. - Si - disse Pavel Pavlovitch, timoroso, - ve ne prego, Alexis Ivanovitch, non

inquietatevi, non vedete in questo dell’audacia, ma semplicemente una preghiera, molto umile! Ho pensato che forse non mi opporreste un rifiuto... - Prima di tutto è assolutamente impossibile, - rispose Veltcianinof, agitato. — Eppure è il mio desiderio più vivo, — riprese l’altro con tono supplichevole, e non ve ne nasconderò il motivo. Non volevo dirvelo che in seguito, ma vi prego, molto umilmente.... Si alzò rispettosamente. — In tutti i modi è impossibile, confessatelo! Veltcianinof si era alzato a sua volta. — Ma sì, Alexis Ivanovitch, è perfettamente possibile. Volevo presentarvi come un amico. E poi, vi conoscono già laggiù. Si tratta del consigliere di Stato, signor Zaklebinine. — Come dite?... — disse Veltcianinof sorpreso. Era il consigliere di Stato che aveva inutilmente cercato di raggiungere due mesi prima e che rappresentava nel suo processo la parte avversa. - Ma sì, ma sì, — disse Pavel Pavlovitch, sorridendo, come se la viva sorpresa di Velt- cianinof gli desse coraggio, — ma sì, è lui, vi ricordate bene, colui col quale parlavate quando vi ho guardato, e mi sono fermato. Aspettavo per avvicinarlo che voi l’aveste lasciato. Siamo stati colleghi, dodici anni or sono e quando ho voluto parlargli dopo di voi, non avevo ancora alcuna idea... L’idea mi è venuta improvvisamente, otto giorni fa. - Ma, ditemi un po’, mi sembra che sia gente molto a modo? — riprese Veltcianinof, con ingenuo stupore. - Senza dubbio, e poi? — disse Pavel Pavlovitch col viso contratto. - Oh! niente! non è che... è solamente che credevo di aver notato, quando sono stato da loro... - Oh! ricordano molto bene che siete stato da loro, — interruppe Pavel

Pavlovitch con sollecitudine festosa, solamente non avete visto la famiglia. Il padre si ricorda di vi tiene in gran conto. Gli ho parlato di voi nei termini più caldi. - Ma come accade che, vedovo da soli tre mesi… - Oh! il matrimonio non avrà luogo subito, solamente entro nove o dieci mesi e allora il mio lutto sarà finito. Siatene persuaso, tutto andrà molto bene. E poi Fedosci Pchovitch mi conosce dall’infanzia, ha conosciuto mia moglie, sa come ho vissuto, sa la mia carriera, ho qualche bene di fortuna, ed ecco che ottengo un posto degli aumenti: tutto va bene. - Ed è sua figlia.... - Vi racconterò tutto nei minimi dettagli, — disse Pavel Pavlovitch con un tono più amabile; lascia temi accendere una sigaretta. E poi, vedrete voi stesso, oggi. Sapete, qui, a Pietroburgo, capita spesso che si valuta la fortuna di funzionari come Fedosci Petrovitch dall’importanza delle loro funzioni. Eh bene! salvo lo stipendio e il resto, supplementi di ogni sorta, gratificazioni, indennità d’alloggio e di vitto e altro, non ha il minimo capitale. Vive spendendo molto, ma è impossibile mettere da parte qualcosa con una famiglia così numerosa. Pensate, dunque: otto figlie e un figlio molto giovane. Se dovesse morire non resterebbe loro che una miserabile pensione. E otto figlie! pensate! quando occorre solamente un paio di scarpette per ognuna, vedete quanto fa! Cinque sono da marito: la maggiore ha ventiquattro anni (una graziosa ragazza, vedrete), la sesta ha quindici anni ed è ancora al liceo. Ecco dunque cinque ragazze alle quali bisogna trovare un marito e non troppo tardi: bisogna che la madre le conduca in società e immaginate ciò che costa! E poi, ecco che improvvisamente mi sono presentato come pretendente e mi conoscevano da molto tempo e conoscevano le mie condizioni finanziarie... Ecco! Pavel Pavlovitch aveva raccontato tutto questo con una specie di ebrezza. — È la maggiore che avete chiesto in moglie? — No... non la maggiore, ho chiesta la sesta, quella che è ancora al liceo. — Ma come? — disse Veltcianinof, con un sorriso involontario. - Ma se mi avete detto ora che ha quindici anni!

— Quindici anni adesso, ma fra dieci mesi ne avrà sedici, sedici anni e tre mesi, e allora!... Solamente, siccome non sarebbe conveniente, lei non sa nulla, si è combinato tutto con i genitori... Non è vero che ho fatto bene? - Allora non c’è niente di deciso? - Deciso? Sì! tutto è deciso. Non è vero che va molto bene? - E lei non sa niente? - Cioè, per convenienza, non gliene parlano; ma dovrebbe aver capito qualcosa, — disse Pavel Pavlovitch con un’amabile strizzatina d’occhi. - Ebbene? Mi farete questo favore, Alexis Ivanovitch? – concluse molto umilmente. - Ma che cosa volete che io vada a fare laggiù? E poi, - aggiunse in fretta, — siccome in ogni caso non verrò, è inutile cercare delle ragioni per convincermi. - Alexis Ivanovitch.... - Via, posso andarmi a presentare con voi? Distratto per un momento dalle chiacchiere di Pavel Ivanovitch, si sentiva ripreso dalla sua antipatia e dalla sua avversione. Ancora un po’ e l’avrebbe gettato fuori di casa. Era scontento di sé stesso. — Vediamo, vi prego, Alexis Ivanovitch, sedete qui, accanto a me e non agitatevi — supplicò Pavel Pavlovitch con voce piangente. — No, no! — aggiunse rispondendo a un gesto risoluto di Veltcianinof, - no, Alexis Ivanovitch, non rifiutate così, definitivamente... Vedo che mi avete capito male, so troppo bene che non possiamo essere fratelli, non sono abbastanza stupido per non sentirlo. Il servizio che vi chiedo non v’impegna per l’avvenire. Partirò dopo domani per sempre: sarà come se non fosse successo niente. Sarà un fatto isolato, senza seguito. Sono venuto a voi, confidando nella nobiltà dei sentimenti che forse gli ultimi avvenimenti hanno risvegliato nel vostro cuore... Vedete con quale sincerità vi parlo; direte ancora di no? Pavel Pavlovitch era estremamente agitato, Veltcianinof lo guardava stupefatto. - Voi mi chiedete un servizio di tal natura e insistete in modo così pressante che mi mettete necessariamente in guardia. Voglio saperne di più.

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L’unico servizio che vi chiedo è che mi accompagnate. Al ritorno, vi dirò tutto, come ad un confessore. Alexis Ivanovitch, abbiate fiducia in me! Ma Veltcianinof persisteva nel rifiuto. Rifiutava con tanta maggiore ostinazione che sentiva salire in lui un pensiero cattivo e maligno. Era cresciuto piano piano in lui, da che Pavel Pavlovitch aveva cominciato a parlare della sua fidanzata, era una semplice curiosità o qualche altro impulso ancora oscuro? Vero è che provava la tentazione di acconsentire. Più la tentazione cresceva, più si ostinava a resistervi... Restava seduto con i gomiti appoggiati pensando, e Pavel Pavlovitch insisteva, lo supplicava, lo aggrediva con parole lusinghiere. - Allora, va bene, verrò! — disse Veltcianinof alzandosi con un’agitazione quasi ansiosa, Pavel Pavlovitch traboccava di gioia. - Presto, Alexis Ivanovitch, vestitevi! E girando attorno a lui esultava. «E perché dunque ci tiene tanto? Che strano uomo! » pensava Veltcianinof. - E poi, Alexis Ivanovitch, bisogna che mi rendiate ancora un altro servizio. Voi acconsentirete a darmi un buon consiglio. — A proposito di che? — Ecco, è una questione grave, la mia fascia a lutto sul cappello. Che cosa è più conveniente: levarlo o tenerlo? — Come volete. — No, bisogna che decidiate. Che cosa fareste al mio posto? A mio avviso, conservandolo darei prova di costanza nei miei affetti e questo mi gioverebbe. — Bisogna levarlo. — Credete proprio? (Pavel Pavlovitch rimase un momento pensoso). Ebbene! no, preferirei tenerlo. — Come vorrete!... — Allora non ha fiducia in me, questo va bene, pensò

Veltcianinof. Uscirono. Pavel Pavlovitch guardava con soddisfazione Veltcianinof che aveva un buon a- spetto e si sentiva pieno di considerazione e di rispetto. Veltcianinof non capiva nulla del suo compagno, e neanche di sé. Una vettura elegante li attendeva alla porta. — Ma come! avevate preso una vettura prima! Eravate dunque certo che sarei venuto con voi! — Oh! avevo preso la vettura per me, ma ero sicuro che voi avreste acconsentito, — riprese Pavel Pavlovitch, col tono di un uomo interamente soddisfatto. - Dite, Pavel Pavlovitch, — disse Veltcianinof, un po’ nervoso, appena iniziarono a muoversi, - non siete un po’ troppo sicuro di me? — Vediamo un po’, Alexis Ivanovitch non sarete voi a concluderne che sono uno sciocco? - rispose Pavel Pavlovitch, gravemente ad alta voce. « E Lisa! » pensò Veltcianinof. E subito respinse quell’idea come un sacrilegio. Gli sembrò improvvisamente di comportarsi in modo meschino e miserabile, gli sembrò che il pensiero che l’aveva tentato, fosse un pensiero così riprovevole, così spregevole!... Ed ebbe il violento desiderio di piantare tutto là, di saltare fuori dalla vettura, di sbarazzarsi di Pavel Pavlovitch con la forza. Ma l’altro si rimise a parlare, e di nuovo la tentazione si impossessò del suo cuore. - Alexis Ivanovitch, vi intendete di gioielli? - Di quali gioielli? - Di diamanti. - Ma sì. - Vorrei portare un dono. Consigliatemi. Devo o no? - A mio avviso non è necessario. - Lo desidererei tanto! Solamente, ecco, non so che cosa comperare. Bisogna

prendere tutta la fornitura, spilla, orecchini, braccialetto o solamente un piccolo oggetto? — Quanto volete spendere? — Quattro o cinquecento rubli. — Diavolo! — Trovate che è molto? - disse con inquietudine Pavel Pavlovitch. — Prendete un braccialetto da cento rubli. Questo non andava bene per Pavel Pavlovitch. Voleva spendere di più. Si fermarono davanti a un negozio. Finirono per comprare solo un braccialetto, non quello che piaceva di più a Pavel Pavlovitch, ma quello che scelse Veltcianinof. Pavel Pavlovitch non fu contento quando il mercante che aveva chiesto centosettantacinque rubli, lo lasciò per centocinquanta: ne avrebbe volentieri dati duecento se glieli avessero domandati, tanto desiderava pagar caro. - Non c’è alcun problema che io faccia dei doni sin d’ora, - disse con sollecitudine, quando si furono rimessi in cammino - non sono gente del gran mondo, è gente semplice... L’età innocente ama i doni, - aggiunse con un sorriso malizioso ed allegro. - Poco fa avete avuta una sorpresa, Alexis Ivanovitch, quando vi ho detto che ha quindici anni, ma è appunto questo che mi ha fatto girar la testa, questa bimba che va al liceo col cestino sotto al braccio, con i suoi quaderni e le sue penne, eh! eh!... È questo che mi ha conquistato. Io, vedete, Alexis Ivanovitch, sono per l’innocenza. Per me è più importante della bellezza del viso. Delle bimbe che ridono da scoppiare in un angolo, e perché? mio Dio? perché il gattino è saltato dal tavolino da notte sul letto ed è rotolato come una palla... Tutto ciò assomiglia a un ramo di piccole mele fresche. Ma, bisogna levare il nastro nero? - Come volete. - In fede mia, lo levo! Prese il suo cappello, strappò il nastro e lo gettò. Veltcianinof vide nei suoi occhi come un chiaro raggio di speranza nel momento in cui si mise il cappello sulla testa calva.

«Ma, pensava di cattivo umore, che cosa c’è di sincero nelle arie che si dà? Che cosa significa, in fondo, la sua insistenza per accompagnarlo? Ha veramente la fiducia che dice nella generosità dei miei sentimenti? O è solo un burlone, un imbecille o un «eterno marito»? In tutti i casi è intollerabile!

XII - In casa Zaklebinin

In casa Zaklebinin erano difatti «gente per bene», come aveva detto poco prima Veltcianinof e Zaklebinin era un funzionario rispettabile. Quello che Pavel Pavlovitch aveva raccontato delle loro risorse, era ugualmente esatto: «Vivevano largamente, ma se il padre fosse morto, non sarebbe rimasto loro nulla». Il vecchio Zaklebinin ricevette Veltcianinof «in perfetta cordialità, l’avversario di prima divenne subito un eccellente amico». - Tutti i miei rallegramenti per la felice soluzione del vostro processo, - disse subito con l’aria più affabile - sono sempre stato per una soluzione amichevole e Peter Karlovitch (l’avvocato di Veltcianinof) è da questo punto di vista un uomo prezioso. Prenderete sessantamila rubli, senza chiasso, senza noie. E l’affare poteva ancora trascinarsi per tre anni! Veltcianinof fu subito presentato alla signora Zaklebinin; era una donna matura e grassa, dai tratti volgari e affaticati. Poi fu la volta delle fanciulle, una ad una o due per due. Ve n’era una truppa; Veltcianinof ne contò dieci o dodici, poi vi rinunciò, le une entravano, le altre uscivano, delle vicine si erano aggiunte a quelle di casa. La casa dei Zaklebinin era un edificio in legno, di un gusto mediocre e bizzarro, fatto di corpi di edifici di epoche diverse. Era circondata da un gran giardino, sul quale davano tre o quattro altre ville: il giardino era comune e le ragazze si frequentavano amichevolmente. Veltcianinof capì dalla prima parola che era atteso e che il suo arrivo, in qualità di amico di Pavel Pavlovitch, desideroso di essere presentato, era un avvenimento. Il suo occhio, esperto in questa specie di cose, vide subito diffusa in tutto questo un’intenzione speciale: l’accoglienza eccessivamente cordiale dei genitori, una certa aria delle fanciulle, i loro abiti inamidati (è vero che era giorno di festa) gli diedero immediatamente a pensare che Pavel Pavlovitch gli avesse giocato un tiro, e che avesse fatto delle insinuazioni che potevano bene aver l’aria di un primo o, annunciandolo come uomo del «bel mondo», un vecchio scapolo ricco, stanco del celibato e forse disposto a mettervi fine da un momento all’altro e a sistemarsi, soprattutto ora che aveva ricevuto un’eredità.

Sembrava bene che ci fosse qualcosa di simile per la maggiore delle figlie, Katerina Fedoseievna, quella che aveva ventiquattro anni e della quale Pavel Pavlovitch parlava come di una graziosissima persona. Si distingueva dalle sorelle per una maggiore ricercatezza nell’abbigliamento e per l’acconciatura originale che s’era fatta coi suoi magnifici capelli. Le sue sorelle e le altre fanciulle avevano tutta l’aria di essere persuase che Veltcianinof venisse «per Katia». I loro sguardi, certe parole, gettate furtivamente nel corso della giornata, lo convinsero che la sua ipotesi era esatta. Katerina Fedoseievna era una giovane bionda , dal viso straordinariamente dolce, dal carattere apertamente tranquillo, un po’ esitante, molle. «È molto strano che una simile ragazza non sia ancora sposata, pensò suo malgrado, Veltcianinof, guardandola con vero piacere, non ha dote, è vero e ingrassa troppo presto ma tuttavia si trovano molti amatori, per questo genere di bellezza...». Le sorelle erano tutte molte gentili e, fra le amiche, notò molti tipi piacevoli e anche molto belli. Non che non prendesse piacere a tutto questo, ma era venuto con una disposizione di spirito speciale. Nadejda Fedoseievna, la sesta, la liceale, la corteggiata da Pavel Pavlovitch, si faceva aspettare. Veltcianinof era molto impaziente di vederla, questa sensazione lo sorprese e gli parve ridicola. Infime venne e il suo ingresso fece effetto. C’era un’amica, una piccola bruna, non bella, dall’aria vivace e birichina, accompagnata da Maria Nikitiscna, che evidentemente faceva una gran paura a Pavel Pavlovitch. Questa Maria Nikitiscna, una ragazza di ventitré anni, ridanciana e intelligente, era istitutrice in una casa vicina, da tanto tempo la trattavano in casa dei Zaklebinin come se fosse della famiglia e le ragazze l’amavano molto. Era chiaro che Nadia soprattutto non poteva fare a meno di lei. Veltcianinof si era accorto al primo sguardo che le fanciulle erano tutte contro Pavel Pavlovitch, comprese le vicine. Nadia era entrata da un minuto appena ed egli comprese subito che lo detestava. Si convinse ugualmente che Pavel Pavlovitch non lo dubitava assolutamente o non voleva vedere niente. Nadia era incontestabilmente la più bella di tutte le sorelle: era una piccola bruna, dall’aspetto un po’ selvaggio, con un’aria indifferente da nichilista, un piccolo demonio dall’occhio ardente, dal sorriso squisito, sovente malizioso, dalle labbra e dai denti meravigliosi, sottile e slanciata, con un’espressione fiera e risoluta e nello stesso tempo un po’ infantile. Ogni suo o, ogni sua parola faceva capire che aveva quindici anni.

Il braccialetto ebbe poco successo; l’effetto prodotto fu persino spiacevole. Pavel Pavlovitch appena arrivato, si era avvicinato a lei col sorriso sulle labbra. Disse come pretesto «il gran piacere che aveva provato l’altra volta udendo cantare una bella romanza al piano...». Balbettò, non arrivò a finire la frase, rimase immobile, confuso, porgendo l’astuccio e cercando di metterlo nella mano di Nadia. Ma lei rifiutò di prenderlo, arrossì di vergogna e di collera, ritirò la sua mano; si voltò andando verso sua madre che sembrava sconcertata e le disse forte: - Non voglio, mamma! - Accetta e ringrazia, — disse il padre, con tono calmo e severo, ma era anche lui molto scontento - Era inutile, veramente inutile, - disse piano a Pavel Pavlovitch con tono fermo. Nadia, rassegnata, prese l’astuccio e con gli occhi bassi, fece una riverenza da bambina, si inchinò vivacemente per rialzarsi vivacemente come mossa da una molla. Una delle sorelle si avvicinò per vedere il gioiello, Nadia porse l’astuccio senza aprirlo, per mostrare che non ave- va alcun desiderio di guardare. Il braccialetto ò di mano in mano, tutti guardarono senza dir nulla, qualcuno con un sorriso ironico. Solo la madre disse con aria imbarazzata che il braccialetto era molto bello. Pavel Pavlovitch avrebbe voluto mettersi sotto terra. Veltcianinof trasse tutti d’imbarazzo. Afferrò la prima idea venutagli e parlò a voce alta e con foga: cinque minuti dopo, tutte le persone presenti in sala, non avevano orecchi che per lui. Possedeva meravigliosamente l’arte della conversazione mondana, l’arte di prendere un’aria di persuasione e di candore e di dare agli uditori l’impressione che li considerava anche loro, persone coscienti e candide. Sapeva, quando occorreva, sembrare il più felice e il più allegro degli uomini. Era abilissimo nel collocare al momento giusto una parola spiritosa e mordace, un’allusione strana, un gioco di parole, con la più grande naturalezza del mondo, senza sembrare di porgere attenzione, anche quando lo scherzo era preparato da molto tempo, imparato a memoria e detto cento volte. Ma in quel momento tutto in lui era in gioco. Si sentiva in vena, animato, sentiva con una certezza piena e trionfante che gli sarebbero bastati pochi minuti, perché tutti gli occhi fossero fissi su di lui, perché tutte quelle persone non ascoltassero più che lui, non ridessero più che di ciò che direbbe. E difatti, a poco a poco, tutti entrarono nella

conversazione, che egli conduceva con padronanza perfetta. Il viso affaticato della signora Zaklebinin si rischiarò di soddisfazione, quasi di gioia e Katia si mise a guardare e ad ascoltare, rapita. Nadia l’osservava di nascosto, era chiaro che era prevenuta contro di lui, ciò che non fece che stimolare di più la facondia di Veltcianinof. La malevola Maria Nikitiscna aveva saputo far correre su di lui una voce che nuoceva al suo prestigio; aveva affermato che Pavel Pavlovitch aveva parlato di Veltcianinof come di un suo compagno d’infanzia, cosa che lo invecchiava di almeno sette anni. Ma ora, la stessa malevola Maria ne subiva il fascino. Pavel Pavlovitch era completamente smarrito. Si rendeva conto di ciò che faceva la superiorità del suo amico; prima era stato entusiasta del suo successo, aveva anche lui riso e preso parte con gli altri alla conversazione, ma a poco a poco cadde in una specie di fantasticheria e, poi in una specie di tristezza che la sua fisionomia tradiva. — Ma voi siete un ospite col quale non è necessario far complimenti! — disse allegramente il vecchio Zaklebinin, alzandosi per risalire in camera sua dove l’aspettavano quantunque fosse giorno di festa, delle carte da esaminare. — E pensate che vi immaginavo l’uomo più ipocondriaco del mondo! Come ci si inganna! Vi era in sala un piano a coda, Veltcianinof chiese chi si occupava di musica e si rivolse subito verso Nadia. — Ma voi cantate, io credo? — Chi ve l’ha detto? - disse seccamente. — È Pavel Pavlovitch che l’ha detto poco fa. — Non è vero, canto per ridere, non ho un filo di voce. — Ma anch’io non ho voce e canto lo stesso. - Allora ci canterete qualcosa? E poi vi canterò qualcosa a mia volta, - disse Nadia, con una luce negli occhi - solamente non ora, dopo pranzo... Non posso soffrire la musica, aggiunse, questo piano mi annoia, dalla mattina alla sera non si fa qui che cantare e suonare, solo Katia se ne intende un po’! Veltcianinof prese la palla al balzo e tutti convennero che effettivamente Katia era la sola che s’intendeva veramente di musica. La pregò di suonare qualcosa.

Tutti furono palesemente soddisfatti che si rivolgesse a Katia e la madre arrossì di piacere. Katia si alzò sorridendo, si diresse verso il piano e subito, senza che se lo aspettasse, si sentì arrossire e fu tutta confusa come una ragazzina, lei, la grande e forte giovane di ventiquattro anni, tutto questo si leggeva sul suo viso, intanto che sedeva per suonare. Suonò un piccolo pezzo di Haydin, correttamente, senza espressione, ma era intimidita. Quando ebbe terminato, Veltcianinof lodò con calore, non la sua esecuzione ma Haydin e quel piccolo pezzo; ella ne ebbe un piacere così visibile e ascoltò con aria così riconoscente e così felice l'elogio che faceva non di lei ma di Haydin, che Veltcianinof non poté fare a meno di guardarla con occhio più attento e cordiale: «Davvero sei un’eccellente ragazza», diceva il suo sguardo e tutti capirono subito il suo sguardo e soprattutto Katerina. - Che magnifico giardino avete! — disse ri volgendosi a tutte e gettando uno sguardo verso la porta vetrata della terrazza. — Sapete? andiamo tutti insieme in giardino. — Sì, benissimo, in giardino! Fu un grido di gioia, come se egli avesse risposto al desiderio di tutti. Si scese in giardino per attendere il pranzo. La signora Zaklebinin, che da tempo non desiderava che una cosa, fare la sua siesta, dovette uscire con tutti, ma si fermò prudentemente sulla terrazza, ove sedette e si addormentò subito. In giardino, i rapporti fra Veltcianinof e le fanciulle diventarono ben presto completamente familiari e amichevoli. Vide subito uscire dalle ville vicine, per venire ad unirsi a loro, due o tre giovani: uno era studente, l’altro era ancora al liceo, ognuno raggiunse la fanciulla per la quale veniva. Il terzo era un giovane di vent’anni, con aria cupa, i capelli arruffati, con enormi occhiali azzurri si mise a parlare molto in fretta e a voce bassa con Maria Nikitiscna e con Nadia. Gettava verso Veltcianinof degli sguardi duri e sembrava assumersi il compito di avere verso di lui un atteggiamento di disprezzo. Qualcuna delle fanciulle propose di giocare subito. Veltcianinof chiese a che cosa giocassero di solito: gli risposero che giocavano a ogni tipo di gioco, ma più spesso ai proverbi. Gli spiegarono: tutti si siedono, uno solo si allontana un momento, si sceglie un proverbio qualunque e poi, quando è fatto, si fa tornare colui che deve indovinare, bisogna che ognuno a sua volta gli dica una frase dove si trovi una delle parole del proverbio, l’altro deve indovinare la frase

intera. - Ma è molto divertente, - disse Veltcianinof. - Oh no! È molto noioso, - risposero due o tre voci. - E poi noi giochiamo anche al teatro – disse Nadia, rivolgendosi a lui. – Vedete laggiù, quei grossi alberi circondati di panche! Gli attori sono dietro gli alberi, come fra le scene, ognuno esce al suo turno, il re, le regine, le principesse, il giovane attore, ognuno viene come gli aggrada, dice ciò che gli a per la testa ed esce. - È bellissimo! – replicò Veltcianinof. - Oh no! È molto noioso! È sempre brutto in principio e poi, nessuno sa più cosa dire, nessuno sa finire. Può essere che con voi vada meglio… Noi abbiamo creduto che voi foste l’amico di Pavel Pavlovitch, ma vediamo ora che si è vantato. Sono molto contenta che voi siate venuto... per causa di un, affare, disse guardando Veltcianinof con aria seria, con insistenza e subito corse a raggiungere Maria Nikitiscna. — Giocheremo stasera ai proverbi — disse piano a Velteianinof un’amica che aveva appena notato e che non aveva ancora detto parola. — Vedrete, prenderemo in giro Pavel Pavlovitch, e voi con noi. — Oh! sì, come avete fatto bene a venire. È sempre così noioso da noi, — disse un’altra amica, che non aveva neppure notata, una piccola ragazza, ansante per aver corso. Pavel Pavlovitch era sempre più a disagio. Veltcianinof faceva amicizia più che poteva con Nadia, ella non lo guardava più dall’alto in basso, come fino ad allora, rideva con lui, saltava, chiacchierava e due volte gli prese la mano, era assolutamente felice e non faceva più attenzione a Pavel Pavlovitch come se non ci fosse. Veltcianinof era certo, c’era un complotto organizzato contro Pavel Pavlovitch. Nadia, con un gruppo di fanciulle, aveva attirato Veltcianinof in disparte, un’altra schiera di amiche, con diversi pretesti, trascinavano Pavel Pavlovitch in un altro angolo, ma egli si aggrappava a loro, correva diritto al gruppo dove si trovava Nadia e Veltcianinof e sporgeva la sua testa calva e inquieta per udire ciò che dicevano. Presto dimenticò le convenienze e i suoi

gesti e la sua agitazione erano talora di un’ingenuità prodigiosa. Veltcianinof non poté fare a meno di osservare attentamente Katerina Fedoseievna. Ella vedeva ora, senza dubbio, che non era venuto per lei e che s’interessava molto a Nadia, ma il suo viso restava dolce e calmo come prima. Era, sembrava, tutta felice di essere vicina a loro e di ascoltare ciò che diceva il nuovo ospite; lei stessa, povera figliola, era incapace di unirsi abilmente alla conversazione. - Che eccellente figliola è vostra sorella Katia. - disse piano Veltcianinof a Nadia. - Katia! ma non è possibile essere migliore di lei! È l’angelo di tutte e io l’adoro, - rispose con calore. - Alle cinque servirono il pranzo. Evidentemente avevano fatto per l’ospite delle cose straordinarie. A vevano aggiunto al menù abituale due o tre piatti molto ricercati; uno era così strano che nessuno lo assaggiò. Oltre ai vini ordinari servirono una bottiglia di tokai; alla frutta, con un pretesto qualunque si servì dello champagne. Il vecchio Zaklebinin, dopo aver bevuto un po’ più del solito, era pieno di cordialità e rideva di tutto ciò che diceva Veltcianinof. Infine, Pavel Pavlovitch non poté più trattenersi, volle anche lui fare la sua parte e lanciò un gioco di parole; ci fu subito un violento scoppio di risa all’estremità della tavola dove era seduto, accanto alla signora Zaklebinin. — Papà! papà!... Pavel Pavlovitch ha detto un gioco di parole: gridarono insieme due ragazzine. — Ah! fa dei giochi di parole, anche lui ! Ebbene, sentiamo! — disse il vecchio, con la sua voce grave, volgendosi verso Pavel Pavlovitch e sorridendo compiaciuto, con confidenza. Fu difficile fargli capire in che cosa consisteva il gioco di parole, quando infine ebbe capito: — Ah! ah! benissimo, fece... Infine, un’altra volta troverà di meglio. — Che cosa volete, Pavel Pavlovitch? non si possono avere tutti i talenti in una

volta, - disse molto forte, con tono di beffa Maria Nikitiscna. — Ah mio Dio! ecco che soffoca con una spina! - esclamò e saltò dalla sedia. Ci fu una confusione generale: era tutto quello che desiderava Pavel Pavlovitch. Dopo il suo effetto mancato, aveva voluto nascondere la sua confusione vuotando il bicchiere e gli era andato di traverso, ma Maria Nikitiscena gridò ai quattro venti che « era proprio una spina, ne era sicura e si è vista della gente morire per questo. » — Bisogna battergli la schiena, - disse qualcuno. - Sì, sì, benissimo, - approvò Zaklebinin. E si gettarono su l’infelice: Maria Nikitscna, la piccola rossa, perfino la madre, tutta spaventata, era una gara a chi gli batteva sulla schiena. Pavel Pavlovitch dovette alzarsi da tavola e andarsene. Quando tornò, spiegò lungamente che gli era andato il vino di traverso. Solo allora si capì che non era stato che un cattivo tiro di Maria Nikitiscna. - Ah! che birba che sei! - volle dire severamente la signora Zaklebinin, ma scoppiò anche lei in una risata pazza che non le era solita e che fece ugualmente il suo effetto. Dopo pranzo uscirono a prendere il caffè sulla terrazza. - Che belle giornate! - disse con effusione il vecchio, guardando il giardino con occhio soddisfatto. - Ora avremmo bisogno di un po’ dì pioggia... Andiamo, vado a riposare un momento. Quanto a voi, divertitevi! Andiamo, bisogna divertirsi! - aggiunse battendo sulla spalla di Pavel Pavlovitch. Quando furono tutti ridiscesi in giardino, Pavel Pavlovitch raggiunse Velteianinof e lo tirò per il braccio. — Un minuto, vi prego, - gli disse piano con aria agitata. Andarono verso un sentiero appartato del giardino. — No, qui non vi lascerò... ah! no, non vi permetterò... - disse, soffocando di rabbia, stringendogli il braccio.

— Che cosa? che cosa? - chiese Veltcianinof, spalancando gli occhi. Pavel Pavlovitch lo guardò senza dir parola, mosse le labbra ed ebbe un sorriso di collera. — Ma dove siete? Che cosa fate? Non si aspetta più che voi, gridarono le fanciulle impazienti. Veltcianinof alzò le spalle e si diresse verso di loro, Pavel Pavlovitch lo seguì. - Scommetto che vi sta chiedendo un fazzoletto, - disse Maria Nikitiscna, - già l’altra volta aveva dimenticato il suo fazzoletto. — Lo dimentica sempre, - disse un’altra. — Ha dimenticato il suo fazzoletto! Pavel Pavlovitch ha dimenticato il fazzoletto. Mamma, Pavel Pavlovitch ha di nuovo dimenticato il fazzoletto, mamma, Pavel Pavlovitch è di nuovo raffreddato, gridarono da tutte le parti. — Ma perché non lo dice? Come siete timido Pavel Pavlovitch! - sospirò la signora Zaklebinin con la sua voce strascicata. - Non bisogna scherzare col raffreddore. Vado subito a farvi portare un fazzoletto... Ma come si fa che è sempre raffreddato? — aggiunse allontanandosi, felice che un pretesto le permettesse di rientrare. - Ma ho due fazzoletti e non ho il minino raffreddore, - le gridò Pavel Pavlovitch. Ella non udì e, un momento dopo, Pavel Pavlovitch che cercava di seguire gli altri e di non perdere di vista Nadia e Veltcianinof, vide accorrere una cameriera tutta affannata che gli portava un fazzoletto. - Giochiamo, giochiamo, giochiamo ai proverbi! - gridarono da ogni parte come se si aspettassero Dio sa che cosa da quel gioco. Scelsero un luogo e tutti sedettero. Maria Nikitiscna fu designata per prima a indovinare, la fecero allontanare abbastanza perché non potesse udire nulla, scelsero il proverbio e si divisero le parole. Maria Nikitiscna tornò e indovinò subito.

Poi fu la volta del giovane dai capelli arruffati e dagli occhiali azzurri. Lo mandarono ancora più lontano, vicino ad un padiglione, dove rimase col naso appoggiato al muro. Il giovane si appoggiò a questo con aria di disprezzo superbo, si sarebbe detto che si sentisse un po’ umiliato. Quando lo chiamarono non indovinò niente e fece ripetere due volte, rifletté lungamente, con aria cupa e non trovò niente di più. Il proverbio da indovinare era: «La preghiera fatta a Dio, il servizio reso allo Zar non sono mai perduti». — Che proverbio stupido! - mormorò il giovane indispettito e malcontento, ritornando al suo posto. — Ah! com’è noioso, - fecero delle voci. Fu la volta di Veltcianinof, lo condussero ancora più lontano dei primi, non indovinò niente neanche lui. — Ah! com’è noioso! - fecero delle voci più numerose. - Bene! adesso è il mio turno, - disse Nadia. - No, no, è il turno di Pavel Pavlovitch! - gridarono tutte le voci con vivacità. Lo condussero sino in fondo al giardino, lo piantarono in un angolo col naso contro il muro e, perché non potesse voltarsi, gli misero accanto una sentinella, la piccola rossa. Pavel Pavlovitch, aveva ritrovato un po’ di padronanza e volle compiere con piena coscienza il suo dovere, rimase lì diritto come un paracarro, con gli occhi al muro. La piccola rossa lo sorvegliava a venti i di distanza e faceva dei segni alle ragazze, in uno stato di agitazione estrema, era chiaro che aspettava qualcosa con impazienza. Bruscamente, la piccola rossa fece un segnale col braccio. E in un batter d’occhio tutte fuggirono a gambe levate. - Correte dunque, ma correte dunque! – dissero a Veltcianinof dieci voci inquiete di vederlo restare al suo posto. - Che cosa c’è? Che cosa si fa? - domandava mettendosi a correre dietro di loro. - Non così forte! non gridate! Bisogna lasciarlo in piedi laggiù, a guardare il suo muro, e scappare. Ecco Nadia che scappa anche lei.

Nadia, la piccola rossa, correva da perdere il respiro, agitando le braccia. Ben presto tutte e rano fuggite dall’altra parte del giardino, dietro lo stagno. Quando Veltcianinof vi giunse a sua volta vide che Caterina faceva dei vivi rimproveri alle sue compagne, soprattutto a Nadia e a Maria Nikitiscna. — Katia, colomba mia, non t’inquietare, - diceva Nadia abbracciandola. — Via, non dirò niente alla mamma, ma me ne vado, perché non è affatto bene. Che cosa deve pensare quel povero uomo, laggiù, davanti al suo muro! Ella andò via, ma le altre non ebbero né comione, né rimorso. Insistettero perché Veltcianinof fe finta di niente quando Pavlovitch sarebbe andato a raggiungerlo. — E ora, giochiamo ai quattro cantoni! - gridò la piccola rossa, tutta divertita. Pavel Pavlovitch rimase almeno un quarto d’ora prima di raggiungere la comitiva! era effettivamente rimasto dieci minuti dinanzi al muro. Quando venne il gioco era già avviato, tutti gridavano e ridevano. Folle di collera, Pavel Pavlovitch corse diritto a Veltcianinof e gli prese il braccio. — Un minuto, vi prego. — Andiamo via, ancora l’altro col suo minuto! - Domanda ancora un fazzoletto! — fecero delle voci. - Questa volta, siete voi... è colpa vostra... Pavel Pavlovitch non poté dire niente di più: batteva i denti. Veltcianinof lo indusse amichevolmente a essere più allegro: - Se vi tormentano, è perché siete di cattivo umore, quando tutti sono allegri. Con suo grande stupore, il suo consiglio determinò in Pavel Pavlovitch un cambiamento completo di attitudine; divenne calmo immediatamente, tornò a unirsi alla compagnia, come se fosse stata colpa sua e prese parte a tutti i giochi;

al termine di mezz’ora aveva ritrovato la sua allegria. In tutti i giochi faceva coppia, quando c’era bisogno con la piccola rossa o con uno dei Zaklebinin. Quello che portò al colmo lo stupore di Veltcianinof, è che una sola volta rivolse la parola a Nadia, quantunque si tenesse sempre vicino a lei. Sembrava accettare la sua situazione come cosa dovuta, naturale. Ma verso la fine della giornata, l’occasione si ripresentò di giocargli un tiro. Stavano giocando a nascondersi. Era permesso di andare a nascondersi dove si voleva. Pavel Pavlovitch era riuscito a nascondersi in una siepe folta, ebbe l’idea di andarsi a nascondere in casa. Lo videro e iniziarono a gridare. Salì la scala a quattro a quattro sino al piano superiore; vi conosceva un eccellente nascondiglio dietro un tavolino da notte. Ma la piccola rossa si arrampicò dietro di lui, fino alla porta della camera dove si era rifugiato e la chiuse a chiave. Continuarono a giocare come prima, corsero al di là dello stagno, all’altra estremità del giardino. In capo a dieci minuti, Pavel Pavlovitch, vedendo che non lo cercavano più, mise la testa alla finestra. Più nessuno! Non osò chiamare per il timore di disturbare i genitori e poi i domestici avevano avuto l’ordine formale di non comparire e di non rispondere all’appello di Pavel Pavlovitch. Caterina solo avrebbe potuto essere d’aiuto ma era rientrata nella sua camera e si era addormentata. Rimase dunque così circa un’ora. Infine le ragazze apparvero ando a due o tre, come per caso. — Pavel Pavlovitch, perché non venite a raggiungerci? Se voi sapeste com’è divertente! Giochiamo al teatro, Alexis Ivanovitch fa Fattore giovane. — Pavel Pavlovitch, perché non scendete? Siete stupefacente, — dissero, ando, altre fanciulle. — Perché stupefacente? — disse improvvisamente la voce della signora Zaklebinin, che si era appena svegliata e che si decideva a fare un giro in giardino, aspettando il thè per vedere il gioco delle «ragazze». — Ma guardate Pavel Pavlovitch! Ed esse indicarono la finestra per la quale l’altro ava la testa, con un sorriso contratto, livido di rabbia. - Che singolare piacere restare chiuso solo, quando tutti si divertono! — disse la madre scuotendo la testa.

Durante questo tempo, Veltcianinof apprese infine da Nadia le ragioni per le quali era stata felice di vederlo venire e la grande cosa che li preoccupava. La spiegazione ebbe luogo in un viale deserto. Maria Nikitiscna aveva fatto segno a Veltcianinof, che prendeva parte a tutti i giochi e cominciava ad annoiarsi molto e l’aveva condotto in quel viale, dove lo lasciò solo con Nadia. - Sono certissima, — disse a voce alta e con precipitazione, che non siete così intimo amico di Pavel Pavlovitch come a lui è piaciuto dire. Voi siete il solo uomo che possa rendermi un servizio importante, ecco il suo odioso braccialetto - e trasse l’astuccio di tasca, — vi chiedo il modo più rapido per restituirglielo immediatamente, perché io non voglio più parlargli per tutta la mia vita. D’altronde potete dirgli che è da parte mia e vi prego di aggiungere che non si permetta più di presentarsi con dei doni. Quanto al resto, glielo farò sapere da altri. Volete farmi questo grande piacere? — In nome di Dio, ve ne prego, dispensatemene, — rispose Veltcianinof con un grido di protesta. — Ma come? come? dispensarvene! — riprese Nadia sconcertata aprendo dei grandi occhi. Ella perdette la calma e si sciolse in lacrime. Veltcianinof sorrise. — Non crediate... Sarei stato felice... Ma è che non sono in buoni rapporti con lui... — Lo sapevo bene che non eravate suo amico e che ha mentito! — interruppe subito. — Non sarò mai sua moglie, capite! Mai! Non capisco neanche come mai ha osato... Ma, non è vero, bisogna che glielo restituiate quest’odioso braccialetto! Se no, che cosa volete che io faccia?... Voglio assolutamente che gli sia reso oggi stesso. E poi, se viene a dirlo a papà, vedrà che cosa gli capita. In quel momento vide improvvisamente dalla siepe il giovane dai capelli arruffati e dagli occhiali azzurri. — Bisogna che voi rendiate il braccialetto, - gridò a Veltcianinof con una specie di rabbia, - non fosse che in nome dei diritti della donna... suppongo che voi siate all’altezza del problema! Non ebbe il tempo di finire. Nadia lo afferrò violentemente per il braccio e lo

respinse lontano da Veltcianinof. — Mio Dio! come siete stupido, Predposilof, gridava. — Andatevene! andatevene e non permettetevi più di ascoltare ciò che si dice. Vi avevo dato l’ordine di stare lontano!... E batté i piedi. L’altro era già rientrato fra la siepe, che lei continuava a camminare in lungo e in largo, con gli occhi scintillanti e i pugni chiusi. - Voi non immaginate fino a che punto sono stupidi! — disse fermandosi dinanzi a Veltcianinof. — Voi trovate questo ridicolo, ma non sapete ciò che è per me! - Allora non è lui? — disse Veltcianinof sorridendo. - Evidentemente no, come avete potuto pensarlo? — disse Nadia, sorridendo e arrossendo tutta. — Non è che un suo amico. Ma come sceglie i suoi amici! Non capisco niente: dicono che questo è « un uomo d’avvenire », io non ci capisco proprio niente... Alexis Ivanovitch, siete il solo uomo a cui posso rivolgermi, ditemi la vostra ultima parola; lo restituirete, sì o no? — Ebbene! sì, glielo restituirò; datemelo. — Ah! voi siete gentile, voi siete buono! — esclamò raggiante di gioia, porgendogli l’astuccio. — Canterò per voi tutta la sera poiché, sapete, canto molto bene e ho mentito quando ho detto che non amavo la musica. Ah! se voi ritornate un’altra volta come sarò contenta! Vi racconterò tutto, tutto, tutto e vi dirò ancora molte cose, poiché voi siete così buono, così buono!... buono... come Katia! E difatti quando furono rientrati per il thè, lei cantò per lui due romanze, con voce ancora poco formata, ma gradevole e già forte. Pavel Pavlovitch era seduto con i genitori accanto alla tavola da thè, sulla quale si era disposto un servizio di vecchio Sévres e dove bolliva un immenso samovàr. Discorreva, senza dubbio, di cose molto serie, poiché doveva partire il giorno dopo per nove mesi. Non fece alcuna attenzione ai giovani che rientravano dal giardino, non ebbe neppure uno sguardo per Veltcianinof, evidentemente si era calmato e non si lamentava della sua disavventura. Ma quando Nadia si mise a cantare, si avvicinò. Ogni volta che le rivolgeva la parola, lei non rispondeva; ma non ne fu turbato. Rimase in piedi dietro di lei,

appoggiato allo schienale della seggiola e tutto il suo atteggiamento diceva che quel posto era suo e che non lo avrebbe ceduto a nessuno. — Ora è la volta di Alexis Ivanovitch di cantare, mamma, Alexis Ivanovitch, canta! — esclamarono in coro le fanciulle spingendosi verso il piano, intanto che Veltcianinof vi pren deva posto, sicurissimo di sé per accompagnarsi da solo. I genitori e Caterina Fedoseievna, che era sed uta accanto a loro e serviva il thè si avvicinarono. Veltcianinof scelse una romanza di Gliuka, oggi quasi dimenticata: Quando nell’ora della gioia aprirai le labbra E mi parlerai , più tenera di una colomba ... Cantava rivolto verso Nadia, che era in piedi accanto a lui. Non aveva da molto tempo che un filo di voce, ma questo bastava a dimostrare che sapeva cantare molto bene. Aveva sentito quella romanza, venti anni prima quando era studente, dalla bocca di Gliuka stesso , a un pranzo di artisti e di letterati, dato da un amico del compositore. Gliuka, quella sera, cantò e suonò alcune delle sue opere che preferiva. Non aveva più voce, ma Veltcianinof ricordava l’effetto straordinario che aveva prodotto in particolare quella romanza. Un cantante di professione non sarebbe mai riuscito a produrre un’impressione così potente. In quella romanza la ione ingrandisce e si eleva ad ogni verso, ad ogni parola; la gradazione è così forte e così unita che la minima nota falsa, il minimo sbaglio che a inosservato nell’opera, toglie al pezzo tutto il suo valore e tutta la sua portata. Per cantare questa piccola cosa così semplice, ma così straordinaria, occorre assolutamente della sincerità, uno slancio d’ispirazione, una ione vera o perfettamente simulata. Altrimenti non è più che una piccola romanza qualunque brutta e anche sconveniente: non è possibile tradurre con così grande forza la tensione estrema della ione, senza provocare disgusto, a meno che la sincerità e la semplicità del cuore non salvino tutto. Veltcianinof ricordava il successo che gli era valso quella romanza. Si era appropriata, quanto più gli era possibile, della maniera di Gliuka e ora ancora, dalla prima nota, dal primo verso, un’ispirazione vera riempì la sua anima e ò nella sua voce. A ogni parola, il sentimento cresceva in forza e in audacia, verso la fine, fece udire un vero grido di ione, guardando Nadia con i suoi occhi accesi, cantava gli ultimi versi della romanza:

Ora, guardo con più audacia nei tuoi occhi. Avvicino le mie labbra , e senza forza per udire , Voglio baciarti, baciarti , baciarti! Voglio baciarti , baciarti , baciarti! Nadia tremò di paura e indietreggiò, il rossore coprì le sue guance e vi fu come un lampo che ò da Veltcianinof al suo viso scon volto di confusione e quasi di vergogna. Gli altri uditori furono ad un tempo affascinati e sconcertati: ognuno sembrava dire che era fuori luogo cantare così e nello stesso tempo tutti quei giovani visi e quegli occhi brillavano, scintillavano. La figura di Caterina Fedoseievna era così raggiante che Veltcianinof la trovò quasi bella. - Ecco una bella romanza! — mormorò il vecchio Zaklebinin con un po’ d’imbarazzo. - Ma non è troppo violenta? È bella, ma violenta... - È violenta... — volle dire a sua volta sua moglie. Ma Pavel Pavlovitch non gli lasciò il tempo di finire, balzò avanti, come un pazzo, prese Nadia per il braccio e la spinse lontano da Veltcianinof, si piantò dinanzi a lui, lo guardò con occhio smarrito, le labbra gli tremavano. — Un minuto, vi prego, disse infine. Veltcianinof comprese subito che se avesse tardato ancora un poco, quell’individuo avrebbe fatto atti dieci volte più assurdi, lo afferrò per il braccio e, senza badare alla sorpresa di tutti, lo condusse sulla terrazza, scese con lui in giardino, dove era già quasi notte. — Capite che dovete all’istante partire con me? — disse Pavel Pavlovitch. — Ma non capisco perché... — Ricordatevi, — proseguì Pavel Pavlovitch, con rabbia, — ricordatevi che voi mi avete sollecitato a dirvi tutto, sì tutto , sinceramente, sino alla fine! Vi ricordate? Ebbene, il momento è venuto... Andiamo! Veltcianinof rifletté, guardò ancora una volta Pavel Pavlovitch e acconsentì a partire.

Questa partenza imprevista addolorò i genitori ed esasperò le fanciulle. — Almeno, accettate ancora una tazza di thè - supplicò la signora Zaklebinin. - Ma infine, che cos’hai da essere così agitat o? - chiese il vecchio con tono severo e malcontento a Pavel Pavlovitch, che sorrideva e taceva. — Pavel Pavlovitch, perché portate via Alexis Ivanovitch? — gemettero le fanciulle, guardandolo con occhio furioso. Nadia gli gettò uno sguardo così duro che egli ebbe una contrazione; ma non cedette. — Veramente Pavel Pavlovitch mi ha reso il servizio di ricordarmi un affare estremamente importante, che stavo per dimenticare, - disse Veltcianinof sorridendo. Strinse la mano al padre, s’inchinò dinanzi alle fanciulle e in particolar modo dinanzi a Katia, cosa che fu pure notata. - Grazie di essere venuto a trovarci, noi ne saremo sempre felici, tutti, — disse con insistenza il vecchio Zaklebinin. — Oh! sì, noi siamo così felici... — riprese la madre, calorosamente. - Voi tornerete, Alexis Ivanovitch, ritor nerete! — gridavano le fanciulle dall’alto della scalinata, intanto che saliva in vettura con Pavel Pavlovitch. E una voce sottile aggiunse più piano delle altre: - Oh sì! ritornate! caro, caro Alexis Ivano vitch! - Questa è la piccola rossa, — pensò Veltcianinof.

XIII - Da quale parte pende la bilancia

Pensava ancora alla piccola rossa e tuttavia il rammarico, lo scontento di sé gli bruciava il cuore da tanto tempo. Nel corso di quella giornata che, in apparenza, era stata così gaia, la tristezza non l’aveva abbandonato. Prima di mettersi a cantare, non sapeva più come liberarsene, forse è per questa ragione che aveva cantato come un tale slancio. «E ho potuto io, abbassarmi a questo punto… dimenticare tutto!» - pensava. Ma subito tagliò corto con i rimorsi. Gli sembrava umiliante piangere su di sé; avrebbe preferito cento volte far are subito la sua collera su di un altro. - L’imbecille! — brontolò con collera, gettando un’occhiata di sottecchi verso Pavel Pavlovitch seduto senza dir parola accanto a lui, in carrozza. Pavel Pavlovitch restava ostinatamente silenzioso, sembrava raccogliersi in sé e prepararsi. Di tanto in tanto, con gesto impaziente, levava il cappello, s’asciugava la fronte col fazzoletto. — È inzuppato! — grugnì Veltcianinof. Una sola volta, Pavel Pavlovitch, aprì la bocca per chiedere al cocchiere se il temporale dovesse scoppiare o no. — Sicuramente! e davvero! Siamo andati arrosto tutto il giorno. - Difatti il cielo si oscurava, illuminato talora da lampi ancora lontani. Erano le dieci e mezza quando entrarono in città. — Vi accompagno a casa, — disse Pavel Pavlovitch volgendosi verso Veltcianinof quando furono arrivati abbastanza vicini alla casa. — Lo vedo bene, solamente vi prevengo che mi sento molto seriamente indisposto. — Oh! non mi fermerò a lungo.

Quando arono dinanzi alla loggia, Pavel Pavlovitch si allontanò un momento per andare a parlare a Mavra. — Che cosa siete andato a dire? — gli chiese severamente Veltcianinof, quando l’ebbe raggiunto, ed entrarono nella camera. — Oh! niente... Il cocchiere... - Sapete, non avrete da bere! L’altro non rispose. Veltcianinof accese una candela. Pavel Pavlovitch si sedette su di una poltrona. Veltcianinof si piantò dinanzi a lui, con le sopracciglia aggrottate. - Vi ho promesso di dirvi, anch’io, la mia ultima parola, — disse con agitazione interiore che riusciva a padroneggiare. - Ebbene! ecco, questa parola: stimo che tutto sia definitivamente regolato fra di noi a tal punto che noi non abbiamo più niente a dirci... Voi capite, più niente, per conseguenza, è meglio è che andiate subito e che io chiuda la porta dietro di voi. - Regoliamo i nostri conti, Alexis Ivanovitch - disse Pavel Pavlovitch, guardandolo in fondo agli occhi in modo straordinariamente dolce. - Come! «Regoliamo i nostri conti?» — rispose Veltcianinof estremamente sorpreso. – Che espressione strana!... E che conti?... Ah ! È dunque questa la vostra «ultima parola»; la rivelazione che mi promettevate! - È questo. - Non abbiamo più conti da regolare, da molto tempo tutto ò regolato! — replicò Veltcianinof con aria altera. — Davvero! credete? — riprese Pavel Pavlovitch con tono sorpreso. E nello stesso tempo faceva il gesto bizzarro di giungere le mani e di portarle al petto. Veltcianinof tacque e camminò in lungo e in largo per la camera. Il ricordo di

Lisa gli riempì il cuore; fu come il richiamo di un lamento. — Andiamo, vediamo, quali sono i conti che volete regolare? — disse dopo un lungo silenzio, fermandosi davanti a lui con le sopracciglia aggrottate. Pavel Pavlovitch non aveva cessato di seguirlo con l’occhio, con le mani giunte contro il petto. — Non andate più laggiù! — disse con voce quasi bassa, supplicante e si alzò bruscamente dalla seggiola. — Ma come? non è che questo? — esclamò Veltcianinof con un sorriso cattivo voi ate di sorpresa in sorpresa, oggi! — continuò con voce mordente, poi bruscamente mutò atteggiamento. — Ascoltatemi, — disse con un’espressione di tristezza e di sincerità profonda, ritengo che mai, in nessun caso, mi sono disprezzato come oggi, prima acconsentendo ad accompagnarvi e poi comportandomi come ho fatto... Tutto questo è stato così meschino, così pietoso... Mi sono macchiato, avvilito, lasciandomi andare... obliandomi.. E poi, che cosa! — s i riprese improvvisamente. — Ascoltate: voi mi avete preso oggi alla sprovvista, ero sovreccitato, malato... Non ho nessuna giustificazione! Non tornerò più laggiù e vi assicuro, non vi è niente che mi attiri, — concluse con tono deciso. - È vero? è proprio vero? — esclamò Pavel Pavlovitch trasportato dalla gioia. Veltcianinof lo guardò con disprezzo e si mise a camminare per la camera. - Allora, voi mi sembrate ben deciso a fare la vostra felicità ad ogni costo! — non poté impedirsi di dire alla fine. - Oh! sì, — disse Pavel Pavlovitch, con dolcezza e con slancio ingenuo. «È grottesco, pensò Veltcianinof, e non è cattivo che a furia di stupidità; ma non è affar mio e, in tutti i modi, non posso non odiarlo... e pertanto non lo merita neppure!». - Vedete, io sono un «eterno marito»! — disse Pavel Pavlovitch, con un sorriso sottomesso e rassegnato. — È molto tempo che io conosco la vostra espressione, Alexis Ivanovitch, risale all'epoca in cui abbiamo vissuto insieme a T... Ho ricordato molte di quelle frasi delle quali voi amavate servirvi durante,

quell’anno. L’altra volta, quando avete parlato qui d’«eterno marito» ho capito benissimo. Mavra entrò, portando una bottiglia di champagne e due bicchieri. — Scusatemi, Alexis Ivanovitch! Sapete che non posso farne a meno. Non vi inquietate se mi son permesso... Vedete, sono troppo al disotto di voi, indegno di voi. — Ma va bene! — disse Veltcianinof con disgusto — vi assicuro che non sto bene. — Oh! non sarà cosa lunga... l’affare di un minuto, — rispose l’altro sollecitamente, solamente un bicchiere, un piccolo bicchiere, perché ho la gola.... Vuotò il suo bicchiere d’un tratto, golosamente e risedette e guardò Veltcianinof con una specie di tenerezza. Mavra uscì. — Che disgusto! — mormorò Veltcianinof. — Vedete, è colpa delle sue amiche, — riprese subito con calore Pavel Pavlovitch molto ringagliardito. — Ma come? che cosa? Ah sì! pensate sempre a questa storia... - È colpa delle sue amiche! È ancora così giovane! Quelle non pensano che a fare delle follie, per divertirsi!... È molto bello lo stesso... Più tardi sarà un’altra cosa. Sarò ai suoi piedi, le prodigherò ogni cura; si vedrà circondata di rispetto. E poi, la gente... infine avrà il tempo di cambiare. «Devo però restituirgli il braccialetto!» pensò Veltcianinof preoccupato, tastando l’astuccio in fondo alla tasca. - Voi dicevate ora se sono deciso a fare ancora una volta la mia felicità? Eh! sì, Alexis Ivanovitch, bisogna assolutamente che io mi sposi. - proseguì Pavel Pavlovitch con tono confidenziale, un po’ turbato, - altrimenti che cosa volete che io diventi? Vedete bene voi stesso? - E mostrava la bottiglia col dito. — e non è questa che la minore delle mie... qualità. Non posso, decisamente non posso, vivere senza una donna, senza un appiglio, senza un’adorazione. Adorerò e sarò salvo.

« Ma perché diavolo dirmi tutto questo?» - per poco gridò Veltcianinof, che a fatica non scoppiava a ridere; ma si contenne, sarebbe stato troppo crudele. - Ma infine, - esclamò, - ditemi perché mi avete trascinato laggiù per forza. A che cosa poteva servirvi? — Era per fare una prova, — disse Pavel Pavlovitch, imbarazzato. — Che prova? — Per provare l’effetto... Vedete, Alexis Ivanovitch, è sol da una settimana che vado là in qualità di... (era sempre più commosso). Ieri vi ho incontrato e mi sono detto: «Non l’ho mai visto in una società di estranei, voglio dire, con altri uomini all’infuori di me...». Era una idea stupida, lo vedo ora; era proprio superfluo. Ma l’ho voluto fare a tutti i costi. La colpa è del mio disgraziato carattere.... E nello stesso tempo alzò la testa ed arrossì. «Sarebbe vero, tutto questo?» - pensò Veltcianinof, stupito. — Ebbene, e allora? — disse forte. Pavel Pavlovitch sorrise, di un sorriso dolce e sornione. — Sono state infantilità, molto gentili! È stata colpa delle amiche!... Bisogna che mi perdoniate la mia condotta stupida a vostro riguardo durante tutta questa giornata. Questo non capiterà più, mai più. — Anche a me, questo non capiterà più.... Non andrò più laggiù, — disse Veltcianinof sorridendo. - È anche mio desiderio. Veltcianinof si chinò un poco. - Ma infine, non sono solo al mondo, ci sono altri uomini! — disse con vivacità. Pavel Pavlovitch arrossì di nuovo. - Mi fate pena, Alexis Ivanovitch, e ho tanta stima, tanto rispetto per Nadeida Fedoseievna...

- Perdonatemi, perdonatemi, non avevo intenzione di fare insinuazioni... solamente io trovo un po’ sorprendente che voi abbiate fatto attenzione ai miei mezzi di piacere... e... che voi abbiate riposto su di me, una grande attenzione. - Se l’ho fatto, è perché questo giungeva dopo tutto ciò che era capitato prima. - Allora mi considerate ancora un uomo d’onore — disse Veltcianinof, arrestandosi di colpo davanti a lui. In un altro momento, si sarebbe spaventato che una domanda così ingenua, così imprudente, gli fosse sfuggita. - Non ho mai cessato di ritenervi tale, — rispose Pavel Pavlovitch abbassando gli occhi. - Si, senza dubbio, certamente... non è questo che volevo dirvi... volevo domandarvi se non avete la minima... la minima prevenzione? - Nessuna. - E quando siete venuto a Pietroburgo? Veltcianinof non poté trattenersi dal fargli quella domanda, quantunque sentisse lui stesso fino a che punto la sua curiosità fosse prodigiosa. — Quando sono arrivato a Pietroburgo, vi consideravo l’uomo più onorevole del mondo. Ho sempre avuta molta stima per voi, Alexis Ivanovitch. Pavel Pavlovitch alzò gli occhi, e lo guardò in faccia, francamente, senza il minimo turbamento. Veltcianinof, improvvisamente ebbe paura: non voleva, per niente al mondo, che avvenisse uno scandalo, essendone la causa. — Vi ho voluto bene, Alexis Ivanovitch, — disse Pavel Pavlovitch, come se improvvisamente si decidesse, - sì, vi ho voluto bene durante tutto il nostro anno di T... Voi non ci avete badato, — continuò con voce un po’ tremante, che terrorizzò Veltcianinof, — ero troppo poca cosa, accanto a voi, perché voi vi badaste. E poi, forse era meglio. Durante tutti questi nove anni, mi sono ricordato di voi, perché non ho mai avuto nella mia vita un altro anno come quello. — I suoi occhi brillavano stranamente. - Non ho dimenticato le espressioni e le idee che vi erano familiari. Mi sono sempre ricordato di voi

come d’un uomo dotato di buoni sentimenti, di un uomo colto, notevolmente colto e pieno d’intelligenza. «I grandi pensieri vengono meno da un grande spirito che da un grande cuore», eravate voi che lo dicevate e l’avete forse dimenticato, ma io lo ricordo. Vi ho sempre considerato come un uomo di gran cuore e l’ho creduto... malgrado tutto... Il suo mento tremava. Veltcianinof era spaventato, bisognava ad ogni costo mettere fine a quelle effusioni inattese. - Basta, vi prego, Pavel Pavlovitch, — disse con voce sorda e fremente arrossendo — perché, perché — alzò subito la voce fino a gridare — perché attaccarvi così ad un uomo malato, scosso, a due dita dal delirio e trascinarlo in tutte queste tenebre... quando tutto quanto non è che fantasma, illusione, menzogna, falsità… e senza alcuna misura... Sì, è questo l’essenziale e veramente la cosa più vergognosa è che tutto questo, noi, voi ed io siamo uomini viziosi, dissimulatori e vili... E volete che vi provi subito, non solamente che non mi volete bene, ma che mi odiate con tutte le vostre forze e che voi mentite e che non ne dubitate? Siete venuto a prendermi, m’avete condotto laggiù, non per fare ciò che voi dite, per trovare la vostra fidanzata... una simile idea può entrare nella mente di un uomo? No, la verità, eccola qui, semplicemente: mi avete visto ieri e la collera vi ha ripreso e mi avete condotto per mostrarmela, e per dirmi: «Vedi, com’è! Ebbene, sarà mia, vieni dunque ora!... Voi mi avete provocato!... Chi sa? forse non lo sapevate voi stesso, ma è questo, è questo che avete sentito... E per fare una provocazione simile, ci vuole dell’odio; eh sì! voi mi odiate! Correva per la camera, gridando tutto questo e si sentiva urtato, offeso, umiliato soprattutto all’idea che si abbassava così sino a Pavel Pavlovitch. — Volevo fare la pace con voi, Alexis Ivanovitch! — disse l’altro improvvisamente, con voce decisa, ma breve e rotta e il suo mento si rimise a tremare. Un furore selvaggio s’impossessò di Veltcianinof, come se avesse subito la più terribile ingiuria. — Vi ripeto ancora una volta, — urlò, — che vi siete aggrappato a un uomo malato, demolito, per strappargli, nel delirio, non so quale parola che non vuol dire! Andiamo... non siamo gente dello stesso mondo, capitelo e poi... poi fra noi

vi è una tomba! — finì balbettando pieno di rabbia; si ricordava improvvisamente. - E come potete sapere... — Il viso di Pavel Pavlovitch si scompose subito e divenne pallidissimo — come potete sapere che cosa rappresenta per me quella piccola tomba, qui, qui dentro! — gridò andando verso Veltcianinof e colpendosi, col pugno il petto, con un gesto ridicolo, ma terribile. — La conosco, quella piccola tomba, e noi siamo, voi ed io, in piedi ai suoi due lati, solamente che dalla mia parte vi è ben più che dalla vostra, sì, ben di più... — balbettava come in delirio, continuando a colpirsi col pugno il petto — sì, ben di più, ben di più... Un colpo di camlo violento li richiamò bruscamente a loro stessi. Suonavano così forte che sembrava volessero strappare il camlo. - Non si suona in casa mia, a questo modo, - disse Veltcianinof di cattivo umore. - Eppure non siamo a casa mia! — brontolò Pavel Pavlovitch che, in un batter d’occhio, era ridiventato padrone di sé e aveva ripreso i suoi modi di prima. Veltcianinof aggrottò le sopracciglia e andò ad aprire. - Il signor Veltcianinof, se non m’inganno? - disse sul pianerottolo una voce giovane, sonora e perfettamente sicura di sé. - Che cosa desiderate? - So in modo certo, — proseguì la voce sonoramente - che vi è da voi in questo momento un certo Trusotsky. Ho bisogno di vederlo subito. Veltcianinof avrebbe provato un vivo piacere a gettare con un calcio dalle scale, il signore così sicuro di sé. Ma rifletté, si scostò e lo lasciò are. — Ecco il signor Trusotsky. Entrate.

XIV - Sacienka e Nadenka

Entrò nella stanza. Era un uomo molto giovane, di diciannove anni, forse meno, tanto sembrava giovane il suo grazioso aspetto, fiero e sicuro. Era molto ben vestito o almeno tutto ciò che indossava gli stava molto bene, una statura un po’ al di sotto della media: dei capelli neri in lunghi ricci folti e dei grandi occhi audaci e scuri davano una espressione singolare alla sua fisionomia. Il naso era un po’ largo e rialzato; senza quel naso, sarebbe stato molto bcllo. Entrò con aria grave. - È senza dubbio al signor Trusotsky a cui ho il piacere di parlare - e appoggiò con soddisfazione speciale la voce sulla parola «il piacere» per far capire che non trovava che quella conversazione gli promettesse né onore, né piacere. Veltcianinof cominciava a capire e Pavel Pavlovitch sembrava supporre qualche cosa. Una certa inquietudine si dipingeva sul suo viso, del resto si conteneva. — Siccome non ho l’onore di conoscervi, — rispose tranquillamente, - non suppongo che possiamo avere qualcosa da fare insieme. — Cominciate ad ascoltare, e poi direte quel che vi piacerà, — disse il giovane con una sicurezza prodigiosa. Poi si accomodò il suo occhialino d’oro che pendeva a un filo di seta e guardò la bottiglia di champagne collocata sulla tavola. Quando ebbe sufficientemente considerato la bottiglia tolse l’occhialino e si girò di nuovo verso Pavel Pavlovitch. — Alessandro Lobof. — Chi è Alessandro Lobof? — Sono io. Non conoscete il mio nome? — No.

— Difatti, come lo conoscereste! Vengo per un affare importante, che vi riguarda molto; ma prima, permettetemi di sedere, sono stanco... - Sedete, — disse Veltcianinof. Ma il giovane sedette prima che avessero il tempo di invitarlo. Malgrado la sofferenza, che gli lacerava il petto, Veltcianinof si interessava a quel giovane sfrontato. In quella graziosa figura di adolescente vi era una certa aria di rassomiglianza lontana con Nadia. - Sedete anche voi, — disse il giovane a Pavd Pavlovitch indicandogli, inchinando la testa, una sedia davanti a lui. - Ma no, resterò in piedi. - Vi stancherete... E voi, signor Veltcianinof, potete restare. - Non ho alcuna ragione di andarmene, sono a casa mia. - Come vorrete. Del resto, desidero che voi assistiate alle spiegazioni che sto per avere con il signore. Nadeja Fedoseievna mi ha parlato di voi in termini estremamente lusinghieri. - Davvero? E quando? - Subito dopo la partenza. Vengo ora di là. Ecco di che si tratta, signor Trusotsky, — disse volgendosi verso Pavel Pavlovitch, che era rimasto in piedi e parlava tra i denti — è molto tempo che ci amiamo, Nadejda Fedoseievna ed io, e che abbiamo impegnata la nostra parola l’un l’altra. Voi vi siete messo in mezzo fra noi. Sono venuto a invitarvi di lasciare il posto. Siete disposto a ritirarvi? Pavel Pavlovitch trasalì, impallidì e un sorriso cattivo comparve sulle sue labbra. — Non sono disposto per nulla al mondo, - rispose nettamente. — Allora, va bene! — disse il giovane lasciandosi andare sulla poltrona e incrociando le gambe. — E poi, vediamo, non so neanche con chi parlo — disse Pavel Pavlovitch. — Penso che questa conversazione sia durata abbastanza.

A questo punto, trovò opportuno sedere a sua volta — Ve lo dicevo bene che vi stanchereste, — osservò il giovane. - Ho avuto il piacere di dirvi, un minuto fa, che mi chiamo Lobof e che Nadeida Fedoseievna ed io abbiamo impegnato reciprocamente la nostra parola; di conseguenza, non potete pretendere, come fate ora, di non sapere con chi avete a che fare; non potete più essere del parere che noi non abbiamo più niente da dirci. Non si tratta di me, si tratta di Nadeida Fedoseievna che voi avete importunato in modo impudente. Vedete bene che vi è materia di spiegazione. Disse tutto questo fra i denti, come un giovane fatuo, degnando appena di articolare le sue parole, quando ebbe finito di parlare, rimise l’occ hialino e si mise a guardare molto attentamente qualche cosa, non importa cosa fosse . - Prego, giovanotto.... — esclamò Pavel Pavlovitch tutto vibrante. Ma il «giovanotto» lo interruppe netto. - In tutt’altra circostanza vi avrei assolutamente negato di chiamarmi «giovanotto» ma nel caso presente, riconoscerete voi stesso che la mia giovinezza costituisce precisamente, nei vostri confronti, la mia principale superiorità; converrete che oggi, per esempio, quando avete offerto il vostro braccialetto, avreste dato chissà cosa per avere un briciolo in più di giovinezza! - Oh! Il vile! – mormorò Veltcianinof. - In ogni caso, signore, - riprese Pavel Pavlovitch con dignità – i motivi che voi invocate e che da parte mia giudico di gusto dubbio e perfettamente sconveniente, non mi sembrano di natura tale da giustificare un colloquio più prolungato. Tutto questo non è che monelleria, ingenuità. Domani andrò a trovare Fedosei Semenovitch, intanto vi prego di lasciarmi in pace. - Ma guardate un po’ la dignità di quest’uomo! – esclamò l’altro a Veltcianinof, perdendo il suo bel sangue freddo. Lo cacciano di là beffandosi di lui. Credete che sia soddisfatto? Ah sì! Andrà domani a riferire tutto al padre, uomo sleale che siete, che volete ottenere la fanciulla per forza, che pretendete comperarla a della gente cui l’età ha tolto l’intelletto e che approfittano della barbarie sociale per disporre di lei a loro piacimento?... Ella vi ha tuttavia dimostrato sufficientemente il suo disprezzo. Non vi ha fatto restituire oggi stesso il vostro stupido dono, il vostro braccialetto?... Che cosa vi occorre di più?

— Nessuno mi ha reso il braccialetto... non è possibile, — disse Pavel Pavlovitch rabbrividendo. — Come, non è possibile! Il signor Veltcianinof non ve l’ha reso? «Che il diavolo lo porti!» pensò Veltcianinof. — Infatti, — disse forte, con aria cupa, — Nadeyda Fedoseievna mi ha incaricato oggi di restituirvi questo astuccio, Pavel Pavlovitch. Non volevo incaricarmene, ma ha insistito... Eccolo... Sono dispiaciuto... Tolse l’astuccio dalla tasca e lo porse con aria imbarazzata a Pavel Pavlovitch, che rimase stupefatto. - Perché non l’avete ancora reso? — disse severamente il giovane, volgendosi verso Veltcianinof. - Non ho trovato l’occasione, — disse l’altro di cattivo umore. - È strano. - Che cosa? - È alquanto strano, convenitene... Infine, voglio ben credere che in questo vi sia solo un malinteso. Veltcianinof ebbe un furioso desiderio di alzarsi nel momento stesso e di andare a tirare le orecchie al giovincello, ma scoppiò suo malgrado in un rumoroso scoppio di risa: il giovane si mise subito a ridere. Solo Pavel Pavlovitch non rideva, se Veltcianinof avesse notato lo sguardo che gli gettò mentre tutti e due ridevano, avrebbe capito che quell’uomo si trasformava in quel momento in una bestia pericolosa… Velt cianinof non vide quello sguardo, ma capì che bisognava venire in soccorso di Pavel Pavlovitch. - Ascoltate, signor Lobof, — disse in tono amichevole, — senza portare alcun giudizio sul resto della cosa, nella quale non voglio immischiarmi, vi faccio osservare che Pavel Pavlovitch, chiedendo la mano di Nadeida Fedoseievna ha per sé, in primo luogo il consenso di quella onorevole famiglia, in secondo luogo una posizione distinta e considerabile ed infine una bella sostanza che, per conseguenza, è in diritto di essere sorpreso della rivalità di un uomo come voi, di

un uomo ammirabilmente dotato, forse, ma infine di un uomo giovane al punto che nessuno lo può prendere per un rivale serio... E, per conseguenza, ha ragione di pregarvi di finirla. — Che cosa intende per estrema giovinezza? Ho diciannove anni da un mese. Ho da molto tempo l’età legale del matrimonio. Ecco tutto. — Ma infine quale padre si deciderebbe di darvi oggi sua figlia, se anche foste destinato a essere più tardi milionario, o a diventare un benefattore dell’umanità? Un uomo di diciannove anni può appena rispondere di sé stesso e voi vorreste, a cuor leggero, caricarvi dell’avvenire di un altro essere, dell’avvenire di una bimba, bimba quanto voi?... Vediamo, pensateci, questo non è neppur bene. Se mi permetto di parlarvi così, è che voi stesso, poco fa, mi avete invocato come arbitro fra Pavel Pavlovitch e voi. - Allora è Pavel Pavlovitch che si chiama? - disse il giovane. — Perché dunque immaginavo si chiamasse Vassili Petrovitch?... A dire il vero, - e si volse verso Veltcianinof, — il vostro discorso non mi sorprende per niente al mondo, sapevo bene che siete tutti uguali! È pertanto curioso che mi abbiano parlato di voi come un uomo un po’ moderno... Del resto, tutte queste non sono che sciocchezze. La verità, eccola: non mi sono comportato male come vi siete permesso di dire; è proprio il contrario, come spero di farvi capire. Prima noi abbiamo vicendevolmente impegnata la nostra parola, poi le ho formalmente promesso dinanzi a due testimoni, che se lei venisse ad amarne un altro, o se si sentisse portata a rompere con me, mi riconoscerei senza esitare colpevole di adulterio, per darle motivo di divorzio. Non è tutto: siccome bisogna prevedere il caso in cui mi smentirei e in cui mi rifiuterei di fornirle questo motivo, il giorno stesso delle nozze per assicurare il suo avvenire, le consegnerò una cambiale di centomila rubli, in modo che se venissi meno ai miei impegni, essa potrebbe cedere la mia tratta e io, rischierei la prigione! Ecco il primo punto: - Scommetto che è Predposilof che vi ha suggerito questa combinazione, — disse Veltcianinof. — Ah! ah! ah! - rise sonorame nte Pavel Pavlovitch. — Che cos’è che diverte tanto il signore?... Voi lo avete indovinato, è un’idea di Predposi- lof e riconoscerete che è ben fatta. In questo modo la nostra assurda legislazione è assolutamente impotente contro di noi. Naturalmente sono ben

deciso ad amarla sempre ed ella non fa che ridere di queste precauzioni; ma infine riconoscerete che tutto questo è abilmente e generosamente combinato, e che non tutti.... farebbero così. — A mio avviso, non soltanto il procedimento manca di nobiltà, ma è assolutamente volgare. Il giovane alzò le spalle. — Il vostro sentimento non mi sorprende per nulla, — disse dopo un silenzio — è molto tempo che ho cessato di stupirmi di tutto ciò. Predposilof vi direbbe molto chiaramente che la vostra ignoranza completa delle cose più naturali proviene dal fatto che i vostri sentimenti e le vostre idee sono state perfettamente pervertite dall’esistenza oziosa e stupida che voi avete condotta... Del resto, è possibile che noi non ci comprendiamo l’un l’altro; mi hanno parlato bene di voi.. Ma voi avete ato la cinquantina? - Se volete torniamo al nostro affare. - Scusate la mia indiscrezione, e non offendetevi, non era mia intenzione. Io continuo... Non sono affatto il futuro milionario che vi è piaciuto immaginare... è un’idea piuttosto singolare!... Sono quel che vedete, ma ho una fiducia assoluta nel mio avvenire. Non avrò in alcun modo un eroe o un benefattore dell’umanità, ma assicurerò l’esistenza di mia moglie e la mia... Per essere esatti, non ho al momento un soldo. Sono stato cresciuto da loro sin dalla mia infanzia.... - Come mai, questo? - Sono figlio di un parente lontano della signora Zaklebinin; quando sono rimasto orfano, a otto anni, mi hanno preso con loro e più tardi mi hanno iscritto al liceo. Il padre è un brav’uomo, vi prego di crederlo. - Lo so bene. - Si, solamente invecchia, è in ritardo. D’altronde bravissimo uomo. Da molto tempo mi sono sottratto alla sua tutela per guadagnarmi da solo la vita, e non dover nulla a nessuno. - Da quando? — chiese con curiosità Veltcianinof

— Saranno presto quattro mesi. — Oh! ora diventa tutto chiaro: siete amici d’infanzia!... E avete un posto? — Sì, un posto provvisorio, presso un notaio: venticinque rubli al mese. Ma vi devo dire che non guadagnavo neanche questo quando ho fatto la mia proposta. Ero allora alle ferrovie, dove mi davano dieci rubli. Ma tutto questo è provvisorio. — Allora avete fatta la vostra proposta alla famiglia? — Sì, in tutte le forme, da molto tempo, sono ben tre settimane. — E cosa hanno detto? - Il padre ha cominciato a ridere forte, poi si è inquietato, diventando tutto rosso. Hanno chiuso Nadeyda in una camera del primo piano, ma non ha avuto debolezze, è stata eroica. Del resto non sono riuscito a convincere il padre perché ha un vecchio rancore nei miei confronti. Non mi perdona d’aver lasciato un posto che mi aveva procurato nel suo ufficio quattro mesi or sono, prima che io entrassi alle ferrovie. È vecchio, è molto indebolito. Oh! lo ripeto, in famiglia, è semplice, è piacevolissimo; ma nel suo studio, non potete immaginare! Siede là come un Giove! Gli ho fatto capire chiaramente che le sue maniere non mi andavano, ma ciò che ha dato fuoco alle polveri è avvenuto per colpa del suo vice capo: questo signore ha pensato bene di andarsi a lamentare che io sono stato villano con lui, mi ero limitato a dire che è un retrogrado. L’ho mandato a so e ora sono dal notaio. - Siete ben pagato al vostro ufficio? - Oh! sono in soprannumero! Lo ripeto è un brav’uomo... Ma ecco! noi non siamo gente da cedere... Certamente, venticinque rubli, sono lontani dall’essere sufficienti, ma io penso che fra un po’ mi chiameranno per mettere ordine negli affari del conte Zavihiski: sono molto imbrogliali. Allora avrò tremila rubli per iniziare, è più di quanto non guadagni un uomo d’affari. Se ne occupano ora... Diavolo! che colpo di tuono! Il temporale si avvicina, è una fortuna che io sia arrivato prima che scoppi; sono venuto da laggiù a piedi, ho corso quasi sempre . - Scusate, ma allora, se non vi ricevono più in casa, come avete potuto parlare con Nadeyda Fedoseievna?

- Eh, mah! si può parlare da sopra i muri! Avete notato la piccola rossa? — disse sorridendo. - Ebbene, ella è assolutamente con noi e Maria Nikitscna anche, è un vero serpente quella Maria Nikitiscna... Perché fate quella faccia? Avete paura del tuono? — No, sono sofferente, molto sofferente... Veltcianinof fu preso da un dolore improvviso al petto; si alzò e camminò per la camera. — Se è così, vi disturbo... Non fatevi riguardo, me ne vado subito. E il giovane si alzò dal suo posto. — Non mi faccio riguardo per nulla, non è nulla, — disse piano Veltcianinof. — Non è nulla, come dice Kobilnikof quando ha mal di ventre... Vi ricordate Stscedrine. Amate Stscedrine? — Senza dubbio! — Anch’io... Bene! Vassili.... Scusate! Pavel Pavlovitch, finiamola! — riprese volgendosi verso Pavel Pavlovitch, molto amabilmente, con un sorriso. — Perché comprendiate meglio, vi faccio ancora una volta la domanda, molto chiaramente: consentite a rinunciare domani, ufficialmente, in presenza dei parenti e in mia presenza a tutte le vostre pretese su Nadeyda Fedoseievna? — Non acconsento a nulla, — disse Pavel Pavlovitch alzandosi con impazienza e collera, — vi prego, ancora una volta, di lasciarmi in pace... poiché tutto questo non è che una una bambinata e una sciocchezza. - Guardatevi! — rispose il giovane con un sorriso arrogante, minacciandolo col dito, — non fate dei falsi calcoli? Sapete dove può condurvi un errore simile nei vostri calcoli? Vi anticipo che in nove mesi, quando avrete speso molto denaro, che vi sarete data molta pena, sarete bene obbligato a rinunciare da solo a Nadeyda Fedoseievna e se allora non vi rinuncerete le cose andranno male per voi.... Ecco ciò che vi aspetta, se vi ostinate!.... Devo prevenirvi che voi sostenete la parte del cane che impedisce l’avvicinarsi della faina — scusate, non è che un paragone. Ve lo ripeto caritatevolmente: riflettete, cercate di rifletterle seriamente, almeno una volta nella vostra vita.

- Vi prego di farmi grazia della vostra morale! - gridò Pavel Pavlovitch con furore. — E riguardo a queste che sono le vostre confidenze compromettenti, da domani prenderò delle misure, delle misure radicali! - Le mie confidenze compromettenti? Che cosa intendete con questo? Siete voi un dissoluto, se simili cose vi vengono in mente! Del resto aspetterò sino a domani; ma sì... Bene! ancora il tuono!... Arrivederci, sono felice di aver fatto la vostra conoscenza, - disse a Veltcianinof. E scappò per sfuggire al temporale ed evitare la pioggia.

XV - Saldo dei conti

- Avete visto? Aveste visto? — esclamò Pavel Pavlovitch balzando verso Veltcianinof, appena il giovane fu uscito. - Eh! sì, non avete fortuna! — disse Veltcianinof. Non si sarebbe lasciata sfuggire quella frase, se non fosse stato esasperato dal dolore crescente che lo torturava al petto. Pavel Pavlovitch sussultò come se avesse sentito una scottatura. - Ebbene, e la vostra parte, in tutto questo? È senza dubbio per comione di me che non mi avete reso il braccialetto, eh? - Non ne ho avuto il tempo… - È perché mi compiangevate con tutto il vostro cuore, come un vero amico compiange un amico vero? - Ebbene, sia! Vi compiangevo, — disse Veltcianinof cominciando a inquietarsi. Tuttavia, raccontò in poche parole come era stato obbligato ad accettare il braccialetto, come Nadejda Fedoseievna l’aveva costretto a immischiarsi in questo affare.... — Capite bene che non volevo incaricarmene a nessun costo, ho già abbastanza noie senza di questo! — Vi siete lasciato intenerire e avete accettato! — disse beffardo Pavel Pavlovitch. — Sapete bene che quello che dite è stupido, ma bisogna perdonarvi... Voi avete visto ora che non sono io che ho la parte principale in questa faccenda! — Però, non v’è che dire, vi siete lasciato intenerire.

Pavel Pavlovitch sedette e riempì il suo bicchiere. — Voi credete che io ceda il posto a quel monello? Lo sbriciolerò come una pagliuzza, ecco quindi che farò! Domani, andrò laggiù, e metterò ordine in tutto questo. Spazzeremo via tutte queste puerilità... Vuotò il suo bicchiere d’un tratto e se ne versò un altro; agiva con una libertà straordinaria. - Ah! ah! Nadenka e Sacienka, che cari bambini! ah! ah! Non si teneva più dal furore. Un violento colpo di tuono scoppiò, mentre un lampo sfolgorava e la pioggia si mise a cadere copiosa. Pavel Pavlovitch si alzò e andò a chiudere la finestra. - Vi chiedevo poco fa se avete paura del tuono... Ah! ah! Veltcianinof, aver paura del tuono!.... E poi, il suo Kobilnikof! è ben così, è vero? sì, Kobilnikof! E poi i vostri cinquant’anni... Ah! ah! Vi ricordate? — fece Pavel Pavlovitch con aria beffarda. - Avete preso alloggio qui... — disse Veltcianinof che poteva appena parlare, tanto soffria, - io vado a coricarmi... Farete quel che vorrete. - Non si metterebbe un cane fuori con un tempo simile! — grugnì Pavel Pavlovitch ferito dall’osservazione e quasi felice che si presentasse un’occasione di mostrarsi offeso. - Va bene! restate seduto, bevete... ate la notte come volete! — mormorò Veltcianinof, si distese sul divano e gemette debolmente. - are la notte qui?... Non avete paura? - Paura di che? — chiese Veltcianinof alzando bruscamente la testa. - Che ne so io? L’altra volta avete avuto una paura terribile, almeno mi è parso.... — Siete un imbecille! — gridò Veltcianinof fuori di sé e si voltò verso il muro. — Va bene, non parliamone più! — disse Pavel Pavlovitch.

Appena il malato si fu disteso si addormentò. Dopo la sovreccitazione fittizia che l’aveva tenuto in piedi tutto il giorno e negli ultimi tempi, restava debole come un bimbo. Ma il male riprese il sopravvento e vinse la fatica e il sonno: in capo a un’ora, Veltcianinof si svegliò e si alzò sul divano con dei gemiti fortissimi. Il temporale era cessato, la camera era piena di fumo di tabacco, la bottiglia era vuota sulla tavola e Pavel Pavlovitch dormiva sull’altro divano. Si era coricato tutto lungo, aveva tenuto abiti e scarpe. L’occhialino era scivolato dalla sua tasca e pendeva all’estremità del filo di seta, quasi al livello del pavimento. Il suo cappello era rotolato a terra, non lontano da lui. Veltcianinof lo guardò di cattivo umore e non lo svegliò. Si alzò e eggiò per la camera, non aveva più la forza di restare coricato; gemeva e pensava alla sua malattia con angoscia. Ne aveva paura, non senza motivo. Da molto tempo era soggetto a quelle crisi, ma prima, non venivano che a lunghi intervalli, di un anno o due. Sapeva che provenivano dal fegato. Cominciavano con un dolore profondo di stomaco, o un po’ più in alto, un dolore sordo, debole ma esasperante. Poi il dolore aumentava, a poco a poco, senza interruzioni, talora per dieci ore di seguito e finiva per avere una tale violenza, per essere così intollerabile, che il ma- lato vedeva venire la morte. All’ultima crisi, un anno prima, dopo quell’esacerbazione progressiva del dolore, si era trovato così spossato che poteva appena muovere la mano, il medico non gli aveva permesso durante tutta quella giornata che un po’ di thè leggero, un po’ di pane inzuppato nel brodo. Le crisi sopravvenivano per dei motivi molto diversi, ma sempre comparivano in seguito a scosse nervose eccessive. Non si presentavano sempre allo stesso modo, talora riusciva a soffocarle all’inizio, nella prima mezz’ora con l’applicazione di semplici compresse calde, altre volte, tutti i rimedi erano impotenti e non riusciva a calmare il dolore se non dopo molto tempo e dopo aver vomitato molto; l’ultima volta, per esempio, il medico dichiarò, subito, che aveva creduto a un avvelenamento. Ora, c’era ancora molto tempo, prima di giungere al mattino e non voleva si cercasse un medico finché durava la notte, del resto non amava i medici. Infine, non si contenne più e si lamentò molto forte. I suoi lamenti risvegliarono Pavel Pavlovitch; si sollevò sul divano e restò seduto un momento spaventato, ascoltando e guardando Veltcianinof, che correva come un pazzo per la camera. Il vino che aveva bevuto aveva fatto così bene il suo effetto che ci volle molto tempo, prima che ritrovasse il suo pensiero, infine capì, si avvicinò a Veltcia-

ninof; l’ altro balbettò una risposta. — È dal fegato che viene; oh! conosco bene questo male! — disse Pavel Pavlovitch con una sicurezza sorprendente, — Peter Kuzmitch e Polosukine hanno avuto la stessa cosa, ed era il fegato... Bisogna mettere delle compresse molto calde. Peter Kuzmitch usava sempre delle compresse... E si può morire! Volete che corra a chiamare Mavra, dite? — Non vale la pena, non vale la pena! — disse Veltcianinof al termine delle forze, — non ho bisogno di nulla. Ma Pavel Pavlovitch era, Dio sa perché, fuori di sé, così sottosopra come se si fosse trattato di salvare suo figlio. Non volle sentire nulla e insistette con calore: bisognava assolutamente mettere delle compresse calde e poi bere in fretta, d’un un fiato, due o tre tazze di thè leggero, più caldo che è possibile, quasi bollente. Corse a cercare Mavra senza aspettare che Veltcianinof lo permettesse, la condusse in cucina, accese del fuoco ed il samovar, nello stesso tempo fece coricare il malato, lo spogliò e l’avvolse in una coperta ed in capo a venti minuti, il thè era pronto e la prima compressa era calda. - Ecco quel che va bene.... dei piatti ben caldi, brucianti! — disse con sollecitudine apionata, applicando sul petto di Veltcianinof un piatto avvolto in una salvietta. — Non abbiamo altre compresse e ci vorrebbe troppo tempo per procurarcene... E poi dei piatti, ve lo posso garantire, è ancora ciò che vi è di meglio, ne ho fatta io stesso l’esperienza in persona su Peter Kuzmitch... È che sapete, si può morire!... Si tratta di salvarvi, non si tratta di fare per modo di dire. Scuoteva Mavra, che dormiva ancora a metà; cambiavano i piatti ogni tre o quattro minuti. Dopo il terzo piatto e la seconda tazza di thè bollente, bevuto di colpo, Veltcianinof si sentì sollevato. - Quando si riesce a rendersi padroni del male, allora, grazie a Dio! è buon segno! — esclamò Pavel Pavlovitch. E corse tutto allegro a cercare un altro piatto e un’altra tazza di thè. — L’importante è di tenere in pugno il male! Tutto sta nel giungere a farlo cedere! — ripeteva ad ogni minuto. In capo a mezz’ora, il dolore era calmato del tutto ma il malato era così

estenuato che, nonostante le suppliche di Pavel Pavlovitch, rifiutò ostinatamente di lasciarsi applicare « ancora un piccolo piatto ». I suoi occhi si chiudevano di debolezza. — Dormire! dormire! — mormorò con voce spenta. — Sì, sì! — disse Pavel Pavlovitch. — Coricatevi anche voi... Che ora è? — Quasi le due meno un quarto. — Coricatevi. — Sì, sì, mi corico. Un minuto dopo, il malato chiamò di nuovo Pavel Pavlovitch, che accorse e si chinò su di lui. — Oh! voi siete.... siete migliore di me! - Grazie. - Dormite, dormite! — disse piano Pavel Pavlovitch. E ritornò in fretta al suo divano, in punta di piedi. Il malato l’udì ancora fare piano il letto, togliersi gli abiti, spegnere la candela e coricarsi a sua volta, trattenendo il respiro per non disturbarlo. Veltcianinof dovette addormentarsi senza dubbio, appena la luce fu spenta, lo ricordò più tardi molto nettamente. Ma durante tutto il sonno, sino al momento in cui si svegliò, gli sembrò, in sogno, che non dormisse, che non potesse riuscire ad addormentarsi, malgrado la sua strema debolezza. Sognò che si sentiva delirare, che non riusciva a cacciare le immagini ostinatamente affollate dinanzi al suo spirito, quantunque avesse pienamente coscienza che erano visioni e non realtà. Riconosceva tutta la scena: la sua camera e ra piena di gente e la porta, nell’ombra, restava aperta; la gente entrava in folla, saliva la scala in file serrate. In mezzo alla camera, accanto alla tavola,

un uomo era seduto esattamente come nel suo sogno di un mese prima. Come allora l’uomo rimase seduto, coi gomiti appoggiati alla tavola, senza parlare; ma questa volta aveva un cappello con la fascia nera. «Ma come? era Pavel Pavlovitch, anche l’altra volta?» pensò Veltcianinof ma considerando le fattezze dell'uomo silenzioso si convinse che era qualcun altro. «Ma perché porta il lutto?» pensò. La folla sospinta attorno alla tavola parlava, gridava e il tumulto era terribile. Quella gente sembrava irritata contro Veltcianinof, più minacciosa che nell’altro sogno, tendevano il pugno verso di lui e gridavano con tutte le forze, che cosa gridavano, che cosa volevano, non riusciva a comprendere. «Ma vediamo un po’, tutto questo non è che delirio! pensava, so bene che non ho potuto addormentarmi, che mi sono alzato, che sono in piedi, perché non potevo rimanere coricato, tanto soffrivo!...». E tuttavia le grida, la gente, i gesti, tutto gli appariva con una perfetta chiarezza, con una tal aria di realtà, che ora gli venivano dei dubbi: «È poi veramente un’allucinazione tutto questo? Che cosa vuole questa gente, mio Dio! Ma... se tu tutto questo non è che un delirio, com’è possibile che questo grido non svegli Pavel Pavlovitch? Poiché infine dorme, è là, sul divano!». Infine, accadde ciò che era accaduto nell’altro sogno: tutti riaffluirono verso la porta e si gettarono a precipizio dalle scale e furono rigettati nella camera da una nuova folla che saliva. I nuovi arrivati portavano qualcosa, qualcosa di grande e di pesante, si udivano risuonare per la scala i i pesanti dei portatori, dei rumori salivano, delle voci senza fiato. Nella camera tutti gridavano: «Lo portano! lo portano!». Gli occhi sfavillarono e si spalancarono, minacciosi su Veltcianinof e violentemente, con un gesto, gli indicarono la scala. Già, non dubitava che tutto questo fosse, non un’allucinazione, ma la realtà: si alzò sulla punta dei piedi per vedere al più presto, al di sopra delle teste, ciò che portavano. Il suo cuore batteva, batteva, batteva e subito, esattamente come nell’altro sogno, tre violenti colpi di camlo risuonarono. E di nuovo erano così chiari, così precisi, così distinti, che non era possibile non fossero reali!... Mandò un grido e si svegliò. Ma non corse alla porta, come l’altra volta. Quale idea improvvisa diresse il suo primo movimento?... Ed era un’idea qualunque che in quel momento lo faceva agire?... Fu come se qualcuno gli dicesse ciò che doveva fare, si alzò con vivacità sul letto, si gettò in avanti, verso il divano dove dormiva Pavel Pavlovitch, con le mani tese, come per prevenire, respingere un attacco. Le sue mani incontrarono altre manli, tese verso di lui, le strinse fortemente; qualcuno

era là, in piedi, chino verso di lui. Le persiane erano chiuse, ma l'oscurità non era completa, veniva una debole luce dalla stanza vicina, che non aveva tende opache. Improvvisamente, un dolore terribile gli lacerò il palmo e le dita della mano sinistra e capì che aveva stretto fortemente con quella mano la lama di un coltello o di un rasoio. Nello stesso momento, udì il rumore secco di un oggetto che cadeva a terra. Veltcianinof era ben tre volte più forte di Pavel Pavlovitch, pertanto la lotta fu lunga, durò quattro o cinque minuti. Infine l’atterrò, gli mise le mani dietro il dorso, per legargliele subito. Tenne fermo l'assassino con la mano sinistra e con l’altra cercava qualcosa per legare, il cordone delle tende della finestra; tastò a lungo, lo trovò infine e lo strappò. Fu sorpreso lui stesso del vigore straordinario che quello sforzo aveva richiesto. Durante quei tre minuti, né lui, né l’altro, dissero una sola parola, niente si udiva, tranne che il soffio ansante e il rumore sordo della lotta. Quando riuscì a legare le mani di Pavel Pavlovitch, lo lasciò coricato a terra, si rialzò, andò alla finestra, allontanò le tende. La strada era deserta, il giorno cominciava ad albeggiare. Aprì la finestra, vi rimase qualche istante, respirò a pieni polmoni l’aria fresca. Erano quasi le cinque. Richiuse la finestra, andò all’armadio a specchi, prese un asciugamani e strinse forte la sua mano sinistra, per fermare il sangue. Vide ai suoi piedi il rasoio aperto, sul tappeto; lo raccolse, lo asciugò, lo rimise nella scatola che aveva dimenticata la mattina su un tavolino collocato accanto al divano dove aveva dormito Pavel Pavlovitch, lo mise nel cassettone, che chiuse a chiave. Poi si avvicinò a Pavel Pavlovitch. Era riuscito ad alzarsi con gran fatica e a sedere su una poltrona. Non era né vestito, non aveva neanche le scarpe. La sua camicia era macchiata di sangue, sul dorso e sulle maniche; era sangue di Veltcianinof. Era certamente Pavel Pavlovitch, ma era irriconoscibile, tanto il suo viso era sconvolto. Era seduto, con le mani legate dietro al dorso, faceva uno sforzo per tenersi dritto, il viso alterato, convulso, verde a furia di pallore; di tanto in tanto, tremava. Guardava Veltcianinof con lo guardo fisso, ma spento, con occhio che non vedeva. Improvvisamente ebbe un sorriso stupido, smarrito, indicò con un movimento del capo la caraffa, sulla tavola e disse, balbettando, molto piano: - Da bere...

Veltcianinof riempì un bicchier d’acqua e glielo fece bere con la sua mano. Pavel Pavlovitch beveva l’acqua golosamente, bevve tre sorsate, poi alzò la testa, guardò molto fissamente, in faccia, Veltcianinof che restava in piedi dinanzi a lui, col bicchiere in mano; non disse nulla e ricominciò a bere. Quando ebbe finito, respirò profondamente. Veltcianinof prese il suo cuscino, i suoi abiti, ò nella stanza vicina e chiuse Pavel Pavlovitch a chiave nella camera dove si trovava. Le sue sofferenze della notte erano completamente cessate, ma la sua debolezza ridivenne estrema, dopo il prodigioso sforzo che aveva dovuto fare. Cercò di riflettere a ciò che era avvenuto, ma le sue idee non arrivarono a coordinarsi: la scossa era stata troppo forte. Si assopì, dormì qualche minuto, poi subito dopo, tremò ini tutte le sue membra, si svegliò, ricordò tutto, sollevò con precauzione la mano sinistra, sempre avvolta nell’asciugamano umido di sangue e si mise a riflettere, con un’agitazione febbrile. Un solo punto era perfettamente chiaro per lui; è che Pavel Pavlovitch aveva veramente voluto sgozzarlo, ma che forse, un quarto d’ora prima di fare il colpo ignorava lui stesso quel che avrebbe voluto fare. Forse la scatola del rasoio gli era saltata agli occhi, la sera prima, senza che avesse alcuna premeditazione e il ricordo di quel rasoio aveva agito, in seguito, come un’ossessione. (I rasoi, solitamente erano chiusi a chiave nel cassettone, il giorno prima Veltcianinof se ne era servito e l’aveva lasciato fuori inavvertitamente). «Se avesse voluto uccidermi si sarebbe munito di un pugnale o di una pistola, non poteva contare sul mio rasoio che non aveva mai visto» pensava. Infine, suonarono le sei. Veltcianinof tornò in sé, si vestì e si avvicinò a Pavel Pavlovitch. Aprendo la porta, non poteva spiegarsi perché avesse chiuso Pavel Pavlovitch, perché non lo avesse cacciato, subito, fuori di casa sua. Fu sorpreso di trovarlo tutto vestito: il prigioniero era riuscito a disfare i suoi lacci. Era seduto in poltrona, si alzò quando Veltcianinof entrò. Teneva il cappello in mano. Il suo sguardo torbido diceva: «È inutile parlare, non c’è niente da dire; non c’è da parlare...». - Andate! — disse Veltcianinof. — Prendete il vostro astuccio, aggiunse. Pavel Pavlovitch tornò sino alla tavola, prese l’astuccio, lo mise in tasca e si diresse verso la scala. Veltcianinof era in piedi accanto alla porta, per chiuderla

dietro di lui. I loro sguardi s’incontrarono un’ultima volta. Pavel Pavlovitch si fermò. Per cinque secondi si guardarono in faccia, gli occhi negli occhi, come indecisi. Infine, Veltcianinof gli fece segno con la mano. — Andate! — disse a mezza voce. E chiuse la porta a chiave.

XVI - Analisi

Un sentimento di gioia inaudita, immensa, lo riempì tutto intero, qualcosa finiva, si concludeva; una pesantezza spaventosa se ne andava, si staccava da lui. Ne aveva coscienza. Era durato cinque settimane, alzò la mano, guardò l’asciugamani macchiato di sangue e mormorò: - No, questa volta tutto è finito! E durante tutta quella mattina, per la prima volta durante tre settimane, non pensò quasi più a Lisa, come se il suo sangue, colato dalle dita ferite, l’avesse liberato anche di quell’altra ossessione. Capiva chiaramente che un terribile pericolo l’aveva minacciato. «Quella gente, pensava, un minuto prima non sa se vi sgozzerà o no e poi, una volta che tiene il coltello fra le mani tremanti e sente il primo getto di sangue sulle dita, non ha più il coraggio di sgozzarvi, bisogna che vi taglino netta la testa: « hop! » come dicono i forzati. È così». Non potè restare in casa, bisognava assolutamente che fe qualcosa subito, qualcosa gli sarebbe accaduto inevitabilmente: uscì, camminò per la strada e attese. Aveva un desiderio estremo di incontrare qualcuno, di conversare con qualcuno, anche con uno sconosciuto e questo desiderio gli diede l’idea di vedere un medico e di farsi curare la mano. Il medico che conosceva da molto tempo, esaminò la ferita e gli chiese con curiosità: — Come è potuto capitarvi questo? Veltcianinof rispose con uno scherzo, scoppiò a ridere, per poco non raccontò tutto, ma si contenne. Il medico gli tastò il polso e, quando seppe della crisi che aveva avuta la notte prima, gli fece prendere subito una pozione calmante che aveva sotto mano. Quanto alla ferita, lo rassicurò. — Questo non può avere conseguenze molto serie. Veltcianinof si rimise a ridere e dichiarò che delle conseguenze eccellenti

c’erano già state. Due volte ancora in quella stessa giornata, fu ripreso da un desiderio irresistibile di raccontare tutto ; una volta, anche in presenza di un uomo che gli era del tutto sconosciuto e al quale rivolse la parola per primo, in una pasticceria, — lui che fino a quel giorno non aveva mai potuto sopportare di parlare con degli sconosciuti in luoghi pubblici. Entrò in un negozio, comprò un giornale, andò dal suo sarto, ordinò degli abiti. L’idea di andare a far visita ai Pogoreltsef continuava a non dargli alcun piacere: non pensava affatto a loro e, d’altronde non era possibile che andasse alla loro casa in campagna, doveva aspettare in città, non sapeva che cosa. Mangiò con buon appetito, parlò col cameriere e col suo vicino di tavola e vuotò una mezza bottiglia di vino. Non pensava che un ritorno della crisi del giorno prima fosse possibile, era convinto che il suo male fosse completamente ato nel momento stesso in cui a dispetto del suo stato di debolezza era, dopo un’ora e mezza di sonno, saltato giù dal letto e aveva così vigorosamente gettato a terra il suo assassino. Verso sera però, la testa cominciò a girare e momentaneamente, sentì salire qualcosa che somigliava al sogno delirante della notte. Rientrò in casa dopo il crepuscolo e la sua camera lo terrorizzò quando vi entrò. Si sentì agitato ed oppresso. Percorse molte volte il suo appartamento, andò anche in cucina dove non andava mai. «È qui che ieri si sono fatti scaldare i piatti», pensava. Chiuse la porta col catenaccio e, più presto del solito accese le candele. Tuttavia ricordò che poco prima ando dinanzi alla loggia, aveva chiamato Mavra e le aveva chiesto: «Pavel Pavlovitch non è venuto in mia assenza?» come se veramente potesse essere venuto. Una volta che si fu chiuso con cura, prese nel cassettone la scatola dei rasoi e aprì il rasoio «di ieri» per esaminarlo. Sul manico di avorio bianco vi era ancora qualche goccia di sangue. Rimise il rasoio nella scatola e lo ripose nel cassettone. Desiderava dormire: doveva assolutamente coricarsi subito, altrimenti «domani non sarebbe buono a nulla». Questo domani gli appariva come un giorno destinato a essere in qualche modo fatale e «definitivo». Ma gli stessi pensieri che, durante tutta la giornata, mentre correva per le strade, non l'avevano abbandonato un solo istante, invasero tumultuosamente la sua testa malata, senza che vi potesse metter ordine o scartarli e pensò, pensò, pensò e dopo lungo tempo riuscì ad addormentarsi....

«Rimanendo d’accordo che si era messo a sgozzarmi, senza premeditazione alcuna, pensava, non ne avrà mai avuto il pensiero prima, una sola volta, non l’ha mai sognato, in uno dei suoi cattivi momenti?». Trovò una risposta bizzarra: «Pavel Pavlovitch voleva ucciderlo, ma l’idea dell’assassinio non era venuta una sola volta in mente al futuro assassino». Più brevemente: Pavel Pavlovitch voleva uccidere, ma non sapeva chi voleva uccidere. È incomprensibile, ma è così, pensò Veltcianinof. Non è né per cercare un posto, né per Bagatof che è venuto a Pietroburgo, — quantunque una volta giunto aveva cercato un posto ed era corso da Bagatof ed era stato fuori di sé quando l’altro è morto; si crucciava di Bagatof come di una disdetta. È per me che è venuto qua, e che è venuto con Lisa... Io stesso mi aspettavo qualcosa...» Si rispose che decisamente sì, se l’era aspettato dal giorno in cui l’aveva visto in vettura al funerale di Bagatof. «Mi aspettavo qualcosa, ma naturalmente, non questo... non, naturalmente, che mi tagliasse il collo!... «Ma vediamo un po’, era sincero, — esclamò ancora, sollevando bruscamente la testa dal cuscino e aprendo gli occhi — era sincero, tutto quello che... quel pazzo mi diceva ieri della sua tenerezza per me, intanto che il suo mento tremava e che si batteva il petto col pugno? — Era perfettamente sincero, — pensò approfondendo l’analisi senza ordine. — Era perfettamente abbastanza bestia e abbastanza generoso per attaccarsi all’amante di sua moglie, alla condotta della quale non ha trovato nulla da ridire per vent’anni! Mi ha stimato per nove anni, ha onorato il mio ricordo, ha conservato le mie «espressioni» nella sua memoria. Non è possibile che abbia mentito ieri! Non mi voleva bene ieri, quando mi diceva: «Regoliamo i nostri conti?». Proprio così, mi voleva bene pur odiandomi; quest’ amore è il più forte di tutti... «È possibile — è certo — che ho fatto su di lui a T... un’impressione prodigiosa sì, prodigiosa e che l’ho soggiogato, sì, con un essere simile, questo è potuto accadere. Mi ha fatto cento volte più grande di quello che sono, perché si è sentito schiacciato dinanzi a me… Sarei ben curioso di sapere esattamente ciò che, in me, gli faceva tanto effetto... Dopo tutto, è ben possibile che siano i miei guanti nuovi e il modo con cui li mettevo. I guanti, è più di quello che occorre

per certe anime nobili, soprattutto per delle anime d’«eterno marito». Il resto, se lo esagerano, lo moltiplicano per mille, essi si batteranno per voi, se questo vi fa piacere... Come ammirava i miei mezzi di seduzione! È ben possibile che fosse specialmente questo che gli fe più impressione... E il suo grido, l’altro giorno: «Anche lui! ma allora non c’è più modo di fidarsi di nessuno! » Quando un uomo è a questo, è finita, non è più che un bruto!.... «Uhm! È venuto qui perché «ci abbracciassimo e piangessimo insieme», come dichiarava con la sua aria sorniona, ciò vuol dire che veniva per tagliarmi il collo e che credeva di venire ad abbracciarmi e piangere... Ha condotto Lisa con sé. Sì, è questo, se avessi pianto con lui, forse mi avrebbe perdonato, poiché aveva un gran desiderio di perdonare! Tutto questo dal nostro primo incontro, che si è svolto in tenerezze da ubriaco, in sciocchezze grottesche, con volgari piagnistei di donne offese. È per questo che è venuto completamente ubriaco, per essere, con tutte le sue smorfie in condizione di parlare, non lo avrebbe potuto mai fare senza essere ubriaco... E come le amava le smorfie! Che gioia quando mi sono lasciato trascinare dall’abbraccio. Solamente non sapeva allora se tutto sarebbe finito con un bacio o con un colpo di coltello: Ebbene! La soluzione è venuta, la migliore, la vera soluzione, il bacio o il colpo di coltello, tutte e due ad un tempo. È la soluzione assolutamente logica!... «È stato abbastanza stupido da condurmi a vedere la sua fidanzata! Signore! Non vi è che un essere come lui che possa aver l’idea di «rinascere a vita nuova» in questo modo. Tuttavia, ha avuto dei dubbi, gli si è ripresentata l’alta considerazione di Veltcianinof, dell’uomo del quale faceva così gran conto. Occorreva che Veltcianinof gli desse l’assicurazione che il sogno non era un sogno, che tutto era ben reale... Mi ha condotto perché mi ammirava infinitamente, perché aveva una fiducia senza limiti nella nobiltà dei miei sentimenti, — e chi sa? perché sperava che laggiù sotto gli alberi, noi ci saremmo abbracciati e avremmo pianto a due i dalla sua casta fidanzata. — Eh sì! Bisognava bene che una buona volta quell’«eterno marito» si vendicasse di tutto e, per vendicarsi prese in mano il rasoio... senza premeditazione è vero, ma infine l’ha preso in mano! Vediamo un po’! c’era un pensiero occulto quando mi ha raccontato del testimone? «Eppure gli ha dato una coltellata al ventre, eppure ha finito per dargliene, in presenza del governatore!...». E aveva egli un’intenzione l’altra notte quando si è alzato, ed è venuto là, in mezzo alla camera? Uhm!... Ma no, era per farmi uno scherzo. Si era alzato senza cattive intenzioni e poi, quando ha visto che avevo paura, è rimasto là, senza rispondermi, per dieci minuti, perché si divertiva molto nel vedere che avevo

paura di lui... È ben possibile, che in quel momento l’idea gli sia venuta per la prima volta, intanto che era là in piedi nel buio. «Ma vediamo un po’, se non avessi dimenticato ieri il mio rasoio sulla tavola... ebbene! credo non sarebbe capitato niente. Evidentemente! Evidentemente! Poiché mi ha evitato tutto questo tempo! perché non veniva più da quindici giorni, per pietà di me! Poiché era Bagatof e non io che voleva!... Poiché si è alzato stanotte per scaldare i piatti, sperando che la pietà potesse allontanare il coltello!... È ben chiaro, li scaldava per sé come per me quei piatti!...». A lungo ancora la sua testa malata lavorò a tessere il vuoto, fino al momento di assopirsi. Si svegliò, l’indomani mattina, la testa sempre così malata, ma si sentì in preda a un terrore nuovo, imprevisto... Quel terrore veniva dalla convinzione che si era fatta in lui che dovrebbe, lui, Veltcianinof, quel giorno, di sua volontà, andare da Pavel Pavlovitch. — Perché? in vista di che cosa? Non ne sapeva niente, non voleva saperne niente, ciò che sapeva era che sarebbe andato. La sua follia — non trovava altra parola — s’ingrandì a tal punto che finì per trovare a quella scelta una spiegazione ragionevole e un pretesto plausibile: già la vigilia, era stato ossessionato dall’idea che Pavel Pavlovitch, rientrato in casa sua, si fosse rinchiuso e impiccato, proprio come il commissario del quale gli aveva parlato Maria Sysoevna. Quell’allucinazione della vigilia era diventata a poco a poco per lui una certezza assurda ma invincibile. «E perché diavolo quell’imbecille si è impiccato?», si chiedeva ad ogni istante. Ricordava le parole di Lisa: «Del resto, al suo posto, anch’io mi sarei impiccato...», pensava. Infine non poté trattenersi: invece di andare a pranzare si diresse verso la casa di Pavel Pavlovitch. — «Mi accontenterò di domandare a Maria Sysoevna,» si disse. Ma appena fu sotto il portone si fermò. — Vediamo, vediamo! — gridò confuso e furioso. — Mi trascinerò fin là per «abbracciarci e piangere insieme»! Scenderò fino a questo livello di vergogna, a questa bassezza insensata! Fu salvato da quella «bassezza insensata» dalla Provvidenza, che veglia sugli uomini a modo. Appena fu in strada si urtò contro Alessandro Lobof. Il giovane era fuori di sé, agitatissimo.

— Ah! Venivo precisamente da voi! Ebbene! e il nostro amico Pavel Pavlovitch?... — Si è impiccato! — mormorò Veltcianinof con aria smarrita. — Come, impiccato?... E perché? — fece Lobof spalancando gli occhi. — Niente... non badateci... Credevo... Continuate. — Ma che singolare idea!... Non si è impiccato affatto! Perché si sarebbe impiccato? Al contrario, è partito. L’ho messo sul treno or ora... Ma cosa beve! cosa beve! cantava a squarciagola sul vagone, si è ricordato di voi, mi ha raccomandato di salutarvi... Vediamo, è una canaglia? che cosa ne pensate? dite? Il giovane era estremamente sovreccitato: il suo viso illuminato, i suoi occhi scintillanti, la lingua pastosa lo confermavano. Veltcianinof scoppiò a ridere, a bocca aperta. — Allora, anche loro hanno finito per fraternizzare. Ah! ah! si sono abbracciati e hanno pianto insieme! — Sappiate che ha preso congedo, laggiù … C’è stato ieri e anche oggi... Ci ha denunciati tutti. Hanno chiuso Nadia nella stanza del primo piano. Delle grida e dei pianti, ma non cederemo!... Ma che cosa beve! che cosa beve! Parla sempre di voi... ma che differenza con voi! Voi, voi siete veramente un uomo a modo e poi, voi avete fatto parte della buona società e, se voi siete obbligato a restare in disparte, ora, è unicamente per povertà, non è vero?... — Allora, è lui che vi ha detto questo di me? — È lui, è lui, ma non inquietatevene. Essere buon cittadino è meglio che essere del gran mondo. A mio avviso, ai nostri tempi non si sa più chi stimare in Russia. E convenitene, è una spaventosa calamità, per un’epoca, di non sapere più chi stimare... non è vero? — È giustissimo... Ma lui? - Lui? Chi, lui?... Ah! sì!... Perché diavolo diceva: «Veltcianinof ha cinquant’anni, ma è rovinato»? Rideva di gran cuore e ha ripetuto questa frase più di mille volte. È salito sul vagone e si è messo a cantare, e ha pianto... Era

semplicemente vergognoso, era anche penoso, quell’uomo, ubriaco!... Ah! non amo gl’imbecilli!... E poi gettava del denaro ai poveri per il riposo dell’anima di Lisa... È sua moglie, non è vero? — Sua figlia. — Che cosa avete fatto alla mano? — Mi sono tagliato. — Non è niente, erà... Ha fatto bene ad andare al diavolo, ma scommetto che dove andrà si sposerà subito... non credete? — Ebbene, ma, anche voi, vi volete sposare. — Io? oh! ma è un’altra cosa!... Siete strano! Se voi avete cinquant’anni, egli ne ha bene sessanta e, in simile materia, occorre della logica, mio piccolo padre!... E poi bisogna che vi dica, un tempo ero un panslavista furibondo, ma ora attendiamo l’aurora dell’Occidente... Andiamo, arrivederci; sono ben soddisfatto di avervi incontrato senza avervi cercato. Non posso salire da voi, non me lo chiedete, impossibile! E riprese la sua corsa. — Ah! ma dove ho dunque la testa? — disse ritornando sui suoi i. — Mi ha incaricato di una lettera per voi! Ecco la lettera... Perché non l’avete accompagnato alla stazione? Veltcianinof risalì in casa e aprì la busta. Sopra la busta non vi era una sola linea di Pavel Pavlovitch; soltanto una lettera di un’altra mano. Veltcianinof riconobbe la scrittura. La lettera era vecchia, il tempo aveva ingiallito la carta, l’inchiostro era impallidito. Ella aveva scritto per lui dieci anni prima, due mesi dopo la sua partenza da T... Ma non gli era giunta, non era stata mandata, era stata sostituita. Lo capì subito. In quella lettera Natalia Vassilievna gli diceva addio per sempre — proprio come in quella che aveva ricevuto — ella gli dichiarava che amava un altro, al quale non aveva rivelato che era incinta. Gli prometteva per consolarlo di affidargli il bimbo che sarebbe nato, gli ricordava che da ciò nascevano per loro dei nuovi doveri, che la loro amicizia era sigillata per sempre... In una parola la lettera era

molto poco logica, ma diceva molto chiaramente che doveva porre fine al suo amore. Ella gli permetteva di tornare a T... entro un anno per vedere il bambino. — Ella aveva riflettuto e Dio sa perché, aveva sostituito l’altra lettera a quella. Veltcianinof, leggendo, divenne pallido; ma si immaginò Pavel Pavlovitch che trovava quella lettera e la leggeva per la prima volta, davanti al cofano di famiglia, il cofano d’ebano rivestito di madreperla. «Anche lui è dovuto diventare pallido come un morto, — pensò, constatando il proprio pallore nello specchio — sì, certamente, quando l’ha letta, ha dovuto chiudere gli occhi e poi, riaprirli bruscamente, con la speranza che la lettera ridiventasse un semplice foglio bianco... Sì, avrà ripetuto tre volte la prova!... ».

XVII - L'eterno marito

Due anni dopo, in una bella giornata d’estate, il signor Veltcianinof si trovava in treno, diretto a Odessa, per far visita a un amico, sperava d’altronde che questo amico lo avrebbe presentato ad una donna molto interessante, che da molto tempo desiderava conoscere da vicino. Era molto cambiato o, per meglio dire, era molto migliorato nel corso di quei due anni. Non gli restava quasi niente della sua ipocondria. Di tutti i «ricordi» che l’avevano torturato due anni prima, a Pietroburgo, durante il suo interminabile processo, non gli restava che un po’ di confusione, quando pensava a quel periodo di impotenza e di pusillanimità malata. Si consolava dicendosi che quello stato non si sarebbe più ripresentato e che nessuno mai ne avrebbe saputo niente. Senza dubbio a quell’epoca, aveva compietamente rotto con la gente, si era trascurato, si era tenuto in disparte, lo si era perfettamente notato. Ma era rientrato nel mondo con una motivazione perfetta, e si era mostrato così rinnovato, così sicuro di sé, che tutti gli avevano perdonato la defezione momentanea. Quegli stessi che aveva cessato di salutare, furono i primi a riconoscerlo e a tendergli la mano, senza fargli alcuna domanda fastidiosa, come se avesse dovuto semplicemente consacrare qualche tempo ai suoi affari personali, che non riguardavano che lui. La causa principale della sua felice trasformazione era, ben inteso, l’esito del suo processo. Aveva avuto sessantamila rubli, era poca cosa, evidentemente, ma per lui erano molto. Si ritrovò su un terreno solido, sapeva che non avrebbe sciupato stupidamente quelle ultime risorse, come aveva fatto delle altre e che li avrebbe fatti durare per tutta la sua vita. «Possono bene rovesciare a loro gusto l’edificio sociale e cantarci nelle orecchie tutto ciò che vorranno — pensava talora, considerando le cose belle, eccellenti che si realizzavano attorno a lui e nella Russia intera — gli uomini possono cambiare, le idee anche, io non me ne curo: so che avrò sempre a mia disposizione un pranzetto accurato, come quello che assaporo in questo momento e, quanto al resto, sono ben tranquillo.» Questa formazione di spirito borghese e voluttuoso aveva trasformato a poco a poco

anche la sua persona fisica, l’isterico uomo di prima era completamente scomparso, aveva lasciato il posto a un uomo nuovo, a un uomo gaio, aperto, posato. Anche le rughe inquietanti che si erano mostrate per un periodo attorno ai suoi occhi e sulla sua fronte, si erano quasi cancellate, la sua carnagione si era modificata, era diventata bianca e rosa. Era comodamente seduto in uno scompartimento di prima classe e il suo spirito estasiato accarezzava un pensiero piacevole. Aveva un dubbio alla stazione seguente: «Ho dunque una scelta, se abbandono la linea diretta per andare a destra, potrei fare una visita, due stazioni più in là, a una signora che conosco, che è appena tornata dall’estero e che si trova in una solitudine molto favorevole a me, ma molto curiosa per lei: ecco di che occuparsi in modo altrettanto interessante quanto a Odessa, tanto più che vi sarà sempre tempo di raggiungere in seguito Odessa...» Esitava ancora, e non arrivava a decidersi e aspettava la scossa improvvisa per decidere. Tuttavia la stazione era vicina e la scossa non veniva. Vi era in quella stazione una fermata di quaranta minuti e il pranzo era servito per i viaggiatori. Alla porta della sala d’aspetto di prima e di seconda classe vi era un raggruppamento di gente che si urtava per vedere meglio: senza dubbio avveniva qualcosa di scandaloso. Una signora, scesa da uno scompartimento di seconda classe, molto bella, ma troppo elegantemente vestita per una viaggiatrice, trascinava quasi a forza un ulano, un giovane e avvenente ufficiale, che cercava di liberarsi dalle sue mani. Il giovane ufficiale era sicuramente ubriaco e la donna, più grande di lui, probabilmente una parente, gli impediva di correre al caffè per ricominciare a bere. L’ulano urtò, nella folla, un giovane mercante, ugualmente ubriaco, al punto da non avere più la ragione. Quel giovane mercante non aveva abbandonato la stazione da due giorni, era rimasto là a bere e a spendere il suo denaro con dei camerati, senza trovare il tempo di proseguire la sua strada. Vi fu una lite, l’ufficiale gridò, il mercante si offese, la dama era alla disperazione, cercava di tagliar corto la disputa e trascinare l’ulano, gridandogli con voce supplicante: — Mitinka! Mitinka! Il giovane mercante trovò questa cosa rivoltante. Tutti ridevano da scoppiare, ma lui, si giudicava profondamente offeso nella sua dignità. — Ebbene, che cosa? «Mitinka!» - disse scimiottando la piccola voce acuta e supplicante della dama. Non aveva vergogna, davanti alla gente!

La dama si era lasciata cadere su di una seggiola ed era riuscita a far sedere l’ulano accanto a sé, il giovane mercante si avvicinò titubante, li guardò con aria di disprezzo e urlò un’ingiuria La dama mandò grida laceranti e guardò attorno a sé con angoscia, se nessuno fosse venuto in suo aiuto. Era vergognosa e terrorizzata. Per colmo, l’ufficiale si alzò dalla sedia, vociferò delle minacce, volle gettarsi sul mercante, scivolò e ricadde indietro, sulla seggiola; le risa aumentarono, ma nessuno pensava a recar loro soccorso. Il salvatore fu Veltcianinof, prese il mercante per il colletto, lo fece girare su di sé e lo mandò ruzzoloni a dieci i dalla giovane donna spaventata. Fu la fine dello scandalo: il giovane mercante, calmato subito dalla scossa e dall’inquietante statura di Veltcianinof, si lasciò condurre via. L'andatura imponente di quel signore così ben vestito, fece il suo effetto su coloro che ridevano: le risa cessarono. La dama, arrossendo tutta, con le lacrime agli occhi, gli espresse con effusione la sua riconoscenza. L’ulano balbettava: «Grazie! grazie!» e volle tendere la mano a Veltcianinof, ma cambiò idea, si coricò su due seggiole e allungò i piedi verso di lui. — Mitinka! — gemette la dama con gesto d’orrore. Veltcianinof era molto soddisfatto dell’avventura e del suo esito. La dama lo interessava, era evidentemente una provinciale agiata, vestita senza gusto, ma con civetteria, in modo un po’ ridicolo, — tutto ciò che occorre per dare buone speranze a un uomo fatuo della capitale che ha delle mire su di una donna. — Conversarono, la dama gli raccontò la storia con ardore, si lamentava di suo marito «che era improvvisamente scomparso, e che era la causa di tutto.... Scompariva sempre nel momento in cui aveva bisogno di lui...». — È andato... — balbettò l’ulano. - Ovvia! Mitinka! — interruppe assai supplicante. - Bene! attenti al marito! — pensò Veltcianinof. — Come si chiama? — chiese forte, — andrò a cercarlo. Pa…! Pa…lito, — balbettò l’ulano. — Vostro marito si chiama Pavel Pavlovitch? - chiese con curiosità Veltcianinof.

Nello stesso momento, la testa calva che conosceva molto bene, comparve fra lui e la dama. In un attimo, rivide il giardino dei Zaklebinin, i giochi innocenti, l’insopportabile testa calva che s’interponeva sempre fra lui e Nadejda Fedoseievna. - Ah! eccovi infine! — gridò la giovane donna con rabbia. Era Pavel Pavlovitch in persona; guardò Veltcianinof stupefatto e con gran terrore, e restò pietrificato, come alla vista di un fantasma. La sua meraviglia fu tale che, per un buon minuto, non udì nulla dei rimproveri violenti che sua moglie gli rivolgeva con estrema forza. Infine capì, vide ciò che lo minacciava e tremò. - Si, è colpa vostra, e questo signore — ella nominava così Veltcianinof — è stato veramente per noi un angelo salvatore, e voi... voi, voi siete sempre lontano, quando si ha bisogno di voi... Veltcianinof scoppiò a ridere. — Ma noi siamo vecchi amici, degli amici d’infanzia! — esclamò guardando la dama stupefatta e posando familiarmente, con aria protettiva, la mano destra sulla spalla di Pavel Pavlovitch, che sorrideva vagamente, tutto pallido, — non vi ha mai parlato di Veltcianinof? — No, mai, — disse. — In questo caso presentatemi a vostra moglie, oblioso amico! — Difatti, mia cara Lipotsca, il signor Veltcianinof che è qua.... Si confuse, si smarrì, non potè continuare. Sua moglie, tutta rossa, lo guardava con occhio furioso, evidentemente perché l’aveva chiamata Lipotsca. — E figuratevi che non mi ha neanche annunciato il suo matrimonio e non mi ha invitato a nozze; ma ve ne prego, Olimpiada.... — Semenovna, — finì Pavel Pavlovitch. — Semenovna, — ripeté l’ulano che si addormentava.

— Vi prego, Olimpiada Semenovna, perdonategli, fatemi questa grazia, in onore del nostro incontro... È un eccellente marito! E Veltcianinof batté amichevolmente sulla spalla di Pavel Pavlovitch. — Sono andato lontano, mia cara piccola, per un breve minuto solamente, — disse Pavel Pavlovitch, per scusarsi. — E avete lasciato insultare vostra moglie! - interruppe Lipotsca. — Quando si ha bisogno di voi, non ci siete mai, quando non c’è bisogno di voi, eccovi presente... — Si! si! quando non c’è bisogno di lui, è presente, quando c’è bisogno... ripeté l’ulano. Lipotsca soffocava di collera, sentiva che questo non era bene dinanzi a Veltcianinof e arrossiva, ma non poteva contenersi. — Quando non occorre, sapete prenderne delle precauzioni! — Fin sotto al letto.... cerca gli amanti... fin sotto al letto... quando non è il caso, quando non è il caso, — gridava Mitinka, che si animava a sua volta. Ma nessuno faceva attenzione a Mìtinka. Tutto finì per acquietarsi, fecero una conoscenza più approfondita. Si mandò Pavel Pavlovitch a cercare del caffè e del brodo. Olimpiada Semenovna spiegò a Veltcianinof che venivano da O...., dove suo marito era impiegato e che andavano a are due mesi in campagna, non molto lontano, a quaranta verste da quella stazione, che avevano laggiù una bella casa e un giardino, che ricevevano, che avevano dei vicini e che, se Alexis Ivanovitch era così gentile di andar loro a far visita «nella loro solitudine» essa l’accoglierebbe come «un angelo custode», perché non poteva pensare senza terrore a quello che sarebbe accaduto se.... ecc., ecc.» — in una parola «come un angelo custode». — Sì, come un salvatore, — fece eco calorosamente l’ulano. Veltcianinof ringraziò, dichiarò che ne sarebbe stato felicissimo, che poteva disporre del suo tempo, non era legato ad alcuna occupazione e che l’invito di Olimpiada Semenovna lo seduceva infinitamente. Poi conversò molto allegra-

mente, collocò due o tre complimenti molto a proposito. Lipotsca arrossì di piacere. Quando Pavel Pavlovitch venne a raggiungerli, ella gli annunciò con agitazione che Alexis Ivanovitch aveva avuto l’amabilità di accettare il suo invito, che verrebbe volentieri a are con loro un mese intero in campagna, e che aveva promesso di arrivare entro una settimana. Pavel Pavlovitch sorrise con aria disperata e non disse nulla. Olimpiada Semenovna alzò le spalle e gli occhi al cielo. Infine si separarono: vi furono ancora dei ringraziamenti, dei nuovi «angelo custode, salvatore», di nuovo «Mitinka», poi Pavel Pavlovitch ricondusse sua moglie e l’ulano al loro scompartimento. Veltcianinof s’accese un sigaro e eggiò in lungo e in largo sulla banchina, aspettando la partenza, pensava che Pavel Pavlovitch sarebbe venuto per parlare fino all'ultimo momento. E questo accadde, Pavel Pavlovitch si presentò dinanzi ai lui, con gli occhi, la fisionomia piena di domande ansiose. Veltcianinof sorrise, lo prese amichevolmente per il braccio, lo trascinò fino a una panca vicina, sedette, lo fece sedere accanto a sé. Non disse niente. Voleva che cominciasse Pavel Pavlovitch. — Allora, venite da noi? — chiese improvvisamente, andando diritto alla questione. - Ne ero sicuro! Ah! siete sempre lo stesso. - disse Veltcianinof ridendo. Vediamo — continuò battendogli la spalla — avete potuto credere un solo istante che verrei davvero a chiedere ospitalità per un mese intero? Ah! ah! Pavel Pavlovitch era raggiante di gioia. — Ma no, non verrò, non verrò! — disse Veltcianinof con un sorriso festoso. Non capiva perché tutto questo gli sembrava prodigiosamente comico, ma più andava avanti, più si divertiva. — Sicuro? — disse seriamente? E Pavel Pavlovitch sussultò di impazienza e di inquietudine. — Vi ho detto che non verrò; che strano uomo voi siete! — Ma allora, che cosa dirò?... Come spiegherò a Olimpiada Semenovna, alla fine della settimana, quando vedrà che non venite, quando vi aspetterà? — Che bella difficoltà! Direte che mi son rotta la gamba, o non importa che

cosa! — Non lo crederà! — disse Pavel Pavlovitch con voce gemente. — E vi rimprovererà? — riprese Veltcianinof, sempre sorridendo — Ma davvero, povero amico, mi pare che voi tremiate dinanzi alla vostra bella moglie, eh? Pavel Pavlovitch fece quel che poté per sorridere, ma non vi riuscì. Che Veltcianinof avesse promesso di non venire, andava molto bene, ma che si permettesse di scherzare così familiarmente sul conto di sua moglie, era inammissibile. Pavel Pavlovitch si fece scuro in viso: Veltcianinof se ne accorse. Intanto suonavano il secondo colpo di campana, una sottile voce acuta uscì da uno scompartimento, chiamando impazientemente Pavel Pavlovitch. Egli si agitò al suo posto, ma non si arrese ancora alla chiamata; era chiaro che aspettava ancora qualcosa da Veltcianinof, senza alcun dubbio una nuova promessa di non venire. — Di che famiglia è vostra moglie? — chiese Veltcianinof come se non si accorgesse dell'inquietudine di Pavel Pavlovitch. — È la figlia del nostro pope, — rispose l'altro guardando con occhio inquieto, verso il suo scompartimento. — Sì, vedo bene, è per la sua bellezza che l’avete sposata Pavel Pavlovitch si oscurò ancora. — E chi è Mitinka? — È un mio parente lontano, figlio di una cugina di primo grado, che è morta. Si chiama Goloubtchikof. L’hanno cacciato di servizio per una certa storia, sta per rientrarvi; siamo noi che l'abbiamo aiutato.... È un povero uomo che non ha avuto fortuna... - È questo, è proprio questo, c'è tutto, - pensò Veltcianinof. — Pavel Pavlovitch! — fece di nuovo la voce che veniva dal treno, ma questa volta in tono più acuto.

— Pa....el Pa.litch! — ripeté un'altra voce, una voce di ubriaco. Pavel Pavlovitch si agitò, si mosse, ma Veltcianinof lo afferrò vivamente per il braccio e lo tenne immobile. — Volete che vada subito a raccontare a vostra moglie che avete voluto assmi? eh? — Che cosa? Come? — disse Pavel Pavlovitch tutto spaventato, - Dio ve ne guardi! — Pavel Pavlovitch! Pavel Pavlovitch! — gridò di nuovo la voce. — Ebbene, andate, per ora! — disse Veltcianinof lasciandolo, egli rideva di gran cuore. — Allora non verrete? — mormorò un’ultima volta Pavel Pavlovitch, disperato, con le mani giunte, come prima. — Vi giuro di no! Andiamo, scappate, o sarà un brutto affare. E gli porse cordialmente la mano, ma sussultò: Pavel Pavlovitch non la prendeva e ritirava la sua. La campana suonò per la terza volta. ò fra di loro istantaneamente, qualcosa di strano, erano come trasformati. Veltcianinof non rideva più, sentiva in sé un fremito, un dolore improvviso. Afferrò Pavel Pavlovitch per le spalle, violentemente, brutalmente. — E se, io vi porgo questa mano, - e gli mostrava il palmo della mano sinistra su cui si vedeva la lunga cicatrice della ferita, — voi non la rifiuterete, forse! — disse piano, con labbra pallide e tremanti. Pavel Pavlovitch divenne pallido e tremò, i suoi lineamenti divennero convulsi. — E Lisa? — disse con, voce sorda, precipitosamente. E improvvisamente le sue labbra fremettero, le sue guance e il suo mento tremarono, delle lacrime comparvero nei suoi occhi. Veltcianinof restava dinanzi

a lui, come pietrificato. — Pavel Pavlovitch! Pavel Pavlovitch! Questa volta era un urlo, come se avessero sgozzato qualcuno. Si udì un fischio. Pavel Pavlovitch tornò in sé e corse a rotta di collo. Il treno si muoveva. Riuscì ad afferrare lo sportello e a balzare con un salto sul treno. Veltcianinof rimase là sino a sera, poi riprese il viaggio interrotto. Non andò a destra, non andò a trovare la signora che conosceva; non ne aveva più voglia.... FINE