Narrativa Raffaella Battaglini
L'aria di casa
Edizione Digitale: 2011
ISBN: 978-88-6633-047-9
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La donna indossa un vestito da ballo scollato, di un tessuto leggero, increspato, si direbbe chiffon. Il vestito è chiaro, probabilmente bianco. Non è possibile dirlo con precisione, perché la fotografia è in bianco e nero. La donna è molto giovane. Ha un viso sottile e grazioso, incorniciato da un taglio di capelli troppo corto, che non le dona. Guarda il fotografo con ironia, inarcando le sopracciglia; ha gli occhi scintillanti di malizia, di riso trattenuto, di felicità. L’uomo con cui sta ballando, che vediamo solo di profilo, è palesemente più vecchio. Ha già un principio di calvizie, senz’altro precoce, non deve avere più di trentacinque anni. È in smoking. Non si può dire propriamente un bell’uomo, ma è probabile che, almeno nel suo ambiente, venga considerato un uomo di fascino. Sorride con leggero imbarazzo, chinandosi verso la sua compagna. Dal modo in cui le tiene il braccio, si capisce che è un ballerino più esperto di lei. Intorno a loro si indovina una sala da ballo vecchiotta, con profusione di velluti, una di quelle sale che abbondavano nei circoli di provincia per signorine di buona famiglia, il tipo di sala in cui le ragazze potevano ballare con i loro cavalieri sotto l’occhio vigile delle madri. Aleggia una musica, per noi inudibile, che certamente non è Cole Porter, né Frank Sinatra, né tantomeno qualcosa che abbia a che fare seppur remotamente con il jazz: no, niente di così moderno, siamo in provincia, un circolo per signorine di buona famiglia in una città di provincia del nord Italia, nella prima metà degli anni ‘50. La musica è sicuramente un valzer. Lo si deduce anche dalla posizione dei ballerini, benché in questo momento siano fermi a beneficio del fotografo. Sì. I due stanno ballando un valzer.
14 agosto 1906
Stasera siamo andati a letto senza frutta.
Era una di quelle serate. L'ho capito subito. Bastava guardare in faccia nostro padre mentre si sedeva a tavola. Non c'è stato neanche bisogno che dicesse “silenzio”. Si sono zittiti tutti, immediatamente.
Ecco, adesso canta anche di notte, quella maledetta. Dev'essere qui, sul melo, sotto le mie finestre. È lei che mi ha svegliata. Almeno credo. Qualcosa mi ha svegliata, comunque. Sono sveglia.
O forse è stato il caldo. Se suonasse la pendola, perlomeno saprei che ore sono. Dev'essere tardi, molto tardi. È buio pesto, buio di luna, e non si sente neanche un fiato. Sarà per questo che fa così caldo. Per via della luna, intendo. Caldo di sera, notte di luna nera... non mi suona tanto bene, quel che è certo è che si soffoca. Eppure è tutto aperto. Se solo potessi accendere la candela...
La gamba mi fa male di nuovo. Adesso, piano piano, cerco di voltarmi, devo cambiare posizione, ahi, il letto scricchiola, è vecchio questo letto, dev'essere tarlato, non vorrei che mi sentissero, non voglio che sappiano che sono sveglia. Soprattutto papà. Se vede una luce accesa a quest'ora, apriti cielo. È capace di chiudermi in camera per una settimana. Con l'umore che aveva stasera, poi... Comunque era stranissimo, non sembrava solo in collera. C'era anche qualcos'altro. Sembrava...
Ricomincia. Allora era questo. Non è stata la cicala. Ricomincia, ma è soffocato,
probabilmente sta piangendo nel cuscino. Neanche lei vuol farsi sentire. Singhiozzi soffocati nel cuscino. Da quanto tempo va avanti? Tra i singhiozzi sembra che biascichi qualcosa, forse il rosario, sì, è chiaro, sta pregando, “Ave Maria gratia plena” e giù singhiozzi, ma non è stufa di dire il rosario? l'abbiamo detto anche prima, da basso: come tutte le sere, del resto. Possibile che non si stufi? Eppure, non mi sembra che la Madonna la ascolti. Oh Dio, cos'ho detto, no, no, questo non dovevo dirlo, adesso mi segno, nel nome del Padre...
Di solito non piange così forte. Qualche volta la sento sospirare, si lamenta, questo sì, sospira rigirandosi nel letto, “Vergine Santa abbi pietà”, cose così, sussurrate a mezza voce, è sempre sull'orlo delle lacrime, si capisce, ma singhiozzi no, non mi pare, non di recente quantomeno. Non che non ne abbia motivo, naturalmente. A volte mi stupisco che sia ancora viva. Dev'essere più forte di quanto sembra, alla fin fine. Del resto è quel che dice anche lui, “non fare quella faccia da morta”, le dice, “è una specialità della tua famiglia, siete sempre malati ma campate cent'anni”, questo le dice, quando a tavola lei lascia qualcosa nel piatto. Lei non risponde, lo guarda e basta. Normalmente riprende a mangiare. Una volta si è alzata e ha respinto il piatto; quel che è successo dopo ce lo ricordiamo ancora. Da quel giorno non ha più tentato.
Di sotto c'è stato un rumore, come di i, ghiaia smossa o foglie, e poi un sussurro, forse un richiamo, o così mi è sembrato, un richiamo a bassissima voce, impossibile capire a chi appartenga, la voce intendo, chi può essere a quest'ora? anche lei deve aver sentito, infatti ha smesso di piangere, si è immobilizzata, non sento più il fruscio delle lenzuola: sta ascoltando, aspetta, anch'io aspetto, ascoltiamo.
Non si sente più nulla. Forse mi sono sbagliata. Eppure qualcosa succede, il silenzio è cambiato, come se qualcuno trattenesse il respiro: che stia arrivando un temporale? in effetti la gamba mi duole parecchio, devo voltarmi di nuovo, attenzione, accidenti a questo letto. Ecco. Naturalmente ha scricchiolato. Che sia vero quello che dice la Maria, che sono storpia perché la mamma quando era
incinta ha commesso peccato? me l'ha detto una sera in cucina, mi sono messa a piangere, ero piccola allora. Adesso non piangerei più. Sinceramente stento a credere che la mamma possa peccare, è sempre chiusa qui dentro, avemarie e singhiozzi, singhiozzi e avemarie, e qualche volta rifiutare il cibo, ma non mi sembra che più di questo... Comunque, su sette, uno storpio doveva pur venire. Senza contare i tre che sono morti da piccoli. Il povero Pino, e i due gemelli. Dei due gemelli non si parla granché, a dire il vero non so neanche come si chiamassero, forse non li hanno chiamati, non hanno fatto in tempo. In ogni caso, la mamma non ne parla. Sul povero Pino, invece, ogni tanto una lacrimuccia. Povera mamma. Stasera era così pallida. A ripensarci, lui era proprio strano, non ha nemmeno fatto commenti, di solito quando la vede così smunta le dice sempre qualcosa di sgradevole, stasera invece niente, solo una faccia di tempesta, e silenzio per tutta la cena. Quasi tutta. Perché a metà del secondo, mentre faticavamo a mandar giù lo spezzatino, lui si è fermato di botto, ha messo giù la forchetta, e ha detto: “Comunque, domani sera, da qui non esce nessuno. Chiaro?” Così, all'improvviso. Mentre parlava, guardava fisso Angelo, la frase era rivolta solo a lui. Angelo ha alzato la testa, gli ha lanciato uno sguardo che non riesco a definire, uno sguardo inquisitore, ecco, anzi, mi correggo, per essere precisi era uno sguardo d'odio – no, neanche questo è esatto, era qualcosa di molto più complesso. “Ci sono obiezioni?” fa lui. Ma non sembrava sicuro come al solito. Angelo non ha risposto. Ha riabbassato la testa, e ha ripreso a mangiare.
Finalmente si è alzato un po' di vento, un vento leggero, che porta fino a qui l'odore del fieno e della stalla, lo scalpiccio notturno dei cavalli. Avrei voglia di alzarmi, tanto ormai sono sveglia, ma ho troppa paura di fare rumore. Dall'altro lato del muro, silenzio di tomba. Non sta neanche pregando, evidentemente. Mi sembra di vederla, seduta sul letto in camicia da notte, con i capelli sciolti e gli occhi spalancati, in attesa. L'ho vista di rado con i capelli sciolti. Eppure sono belli i suoi capelli, così lunghi, color rame, le arrivano alla vita, come quelli di Teresa. Teresa è l'unica ad aver preso i suoi colori.
Ogni tanto, quand'ero piccola, la aiutavo a spazzolarli. Lei stava seduta alla toilette, con le sue vestaglie di raso, le sue vestaglie belle del corredo – a quei tempi le usava ancora – che si allargavano graziosamente ai suoi piedi, e nel
frattempo frugava fra le sue boccette, ne estraeva profumi che annusava con delicatezza, violetta di Parma, orchidea, vaniglia, e creme, lozioni che si spalmava sul viso e sulle mani, sul lungo collo bianco da duchessa. I capelli, al aggio della spazzola, crepitavano leggermente, come percorsi da un piccolo brivido. Poi si metteva a testa in giù, rovesciando quella gran massa fino a toccare il pavimento, e io dovevo spazzolarli nell'altro senso. La sua nuca era così fragile, e mandava un buon odore, un odore di talco e di fiori. Io tremavo di delizia, e continuavo meccanicamente ad eseguire il movimento, dall'alto verso il basso, sempre lo stesso movimento del polso, come ipnotizzata. Speravo che non finisse. Speravo di rimanere in quella stanza, avvolta nei suoi profumi, per sempre.
Di nuovo il richiamo. Non mi ero sbagliata. Per la precisione, adesso si è trattato di un fischio, un fischio leggero, breve, imperioso, come un ordine secco, “vieni fuori”, “dove sei”, “non c'è tempo da perdere”. Di là dal muro ho sentito un movimento, come se lei si fosse rizzata di scatto. Di sotto invece, ancora silenzio, ma per poco stavolta, poi la portafinestra ha scricchiolato, rumore di i veloci sulla ghiaia, uno “shhh” allarmato, a bassa voce. Un attimo dopo, un suono breve e soffocato, come di lotta. Un lamento femminile. Respiri affannosi, gemiti, qualcuno scalcia. “Lasciami andare adesso, ti ho detto di lasciarmi, immediatamente”, la voce è trattenuta e piena d'ira, ma non c'è dubbio, è la voce di Teresa. Teresa? Con uno sforzo mi metto a sedere, ahi, la gamba, cautamente, con circospezione cerco di scendere dal letto, non importa se mi sentono, stavolta devo farcela, devo arrivare alla finestra. “Ahi, smettila, mi fai male”, è sempre lei che parla, adesso c'è paura nella voce, ma con chi sta lottando? il cuore mi batte a precipizio, striscio verso la finestra, dio quanto tempo ci vuole, non posso zoppicare per non fare rumore, allora striscio lentamente, con grande fatica, di sotto c'è una pausa, si sentono solo i respiri, si sentono bene perché stanno ansimando, poi c'è un rumore come di strappo, forse è riuscita a liberarsi, Dio ti ringrazio. Pausa. Si sente solo l'ansimare. Io mi fermo, ansimo anch'io per lo sforzo, per un attimo ho una visione che non riesco a collocare, un déjà vu? questa scena l'ho già vissuta, io che arranco verso la finestra di notte, quand'è successo, ammesso che sia successo, dev'essere ato molto tempo, non riesco ad afferrare il ricordo, è già scomparso. Nel silenzio sento i i di lei nell'altra stanza, i leggeri e fruscianti, di sicuro si è messa la vestaglia, anche lei sta andando alla finestra. Anche lei. Cosa starà pensando,
mi chiedo. In questa frazione di secondo che inaspettatamente comincia a dilatarsi, nel tempo sospeso dell'attimo prima, ma l'attimo prima di che? per qualche ragione nel mio cervello c'è l'assoluta certezza che si tratti di un prima, in questa frazione di secondo dicevo una successione di scene slegate mi si affaccia alla mente, scene che ricordo solo in parte, e di cui al momento non ho afferrato il senso, ma che adesso inspiegabilmente sembrano aggregarsi dando luogo a una costellazione, una costellazione che assume una forma. È quella, mi chiedo, la forma che anche lei sta vedendo?
Tutti gli anni, a ferragosto, andiamo alla festa in paese. È una cosa organizzata dal parroco, quindi non c'è niente di male, ci viene anche la Maria che altrimenti esce solo per andare in chiesa, perfino nostro padre non riesce a trovarci da ridire, ci sono i fuochi d'artificio e si mangia, spiedini di maiale e pasta col ragù, si mangia in piazza sui tavoli di legno sotto gli alberi, è bello, qualcuno canta anche, soprattutto sul tardi quando sono tutti ubriachi – noi no naturalmente, a noi il vino è proibito – tutti, s'intende, a cominciare dal parroco, a cui il vino invece piace molto, soprattutto quello rosso. Questo nostro padre non lo sa, se no figuriamoci, ce la sogneremmo la festa. Lui, dal canto suo, non è mai venuto. E neanche la mamma, manco a dirlo. Non si è mai visto che una signora come lei vada alla festa del paese, e in ogni caso mio padre glielo proibirebbe: anche se ho il sospetto che a lei non dispiacerebbe del tutto, o perlomeno, non le sarebbe dispiaciuto quando stava meglio. Di notte, dopo i fuochi, qualcuno tra i più giovani si apparta in fondo alla piazza, dove gli alberi sono più fitti, si nascondono per baciarsi, questo lo so, li ho visti con i miei occhi, l'anno scorso anche la Noemi con quel ragazzo, il figlio del medico, se viene a saperlo papà l'ammazza con le sue mani, o forse li ammazza tutt'e due. Comunque l'ho vista con i miei occhi, la Noemi, nel suo vestito di mussola a fiori, che si stringeva con quello là, lei non se n'è accorta ma io li vedevo, li ho guardati tutto il tempo, lui la stringeva troppo forte, l'ho visto bene, e lei non lo respingeva di certo, anzi, se lo tirava addosso, io stavo un po' nascosta dietro la siepe, in silenzio, ho visto che si baciavano, e anche altre cose, poi è arrivata gente e hanno dovuto staccarsi. Ufficialmente la Maria dovrebbe tenerci d'occhio, ma naturalmente se ne guarda bene, ha il suo daffare con le altre vecchie, stanno tutto il tempo a parlare dei fatti altrui, e intanto lei non si accorge di quel che le succede sotto il naso. Io, comunque, la spia non la faccio. Anche se mi dà fastidio che la Noemi si faccia stringere in quel modo, mi dà fastidio, e mi fa anche un po' paura. Però la spia non la faccio, non sono come certa gente, Mariano ad esempio, che è
sempre pieno di fifa, e appena succede qualcosa va subito a dirlo alla mamma. È vero che è il più piccolo, ma non è affatto una buona ragione. Dal canto suo, la mamma ha i suoi motivi per tacere, almeno nella maggior parte dei casi, visto che le nostre colpe ricadono invariabilmente su di lei. La conseguenza è che mio padre non sa mai nulla di preciso, ha solo dei sospetti, sospetta in generale, ma questo è sufficiente per dar luogo alle famigerate punizioni mensili, che in effetti sono punizioni generiche, per ciò che si sospetta possiamo aver fatto. Queste punizioni seguono un rituale definito, immutabile negli anni, ma avvengono arbitrariamente, senza preavviso, annunciandosi con segnali inequivocabili fin dal mattino, per l'esattezza dalla prima colazione (nel salone grande, alle sette e mezza in punto), quando alla consueta riverenza e “buon giorno, signor padre” delle figlie, e al più sobrio cenno del capo dei figli, entrambi accompagnati dal baciamano, al posto dell'arcigno buongiorno abituale segue un silenzio implacabile, che si estende anche alla mamma. Quel silenzio mattutino è la fanfara che inaugura il giorno della punizione. Nel caso della mamma, la sua punizione specifica consiste appunto in quel silenzio, che si protrarrà per l'intera giornata, nella quale mio padre si astiene del tutto dal rivolgerle la parola. A dire il vero, non so se lei lo consideri una punizione o piuttosto un sollievo, dato l'ordinario tenore delle conversazioni, o forse dovrei dire dei monologhi, di mio padre, in quanto lei non apre mai bocca se non per rispondergli, e anche in questo caso con il minor numero di parole possibile. A tavola comunque parlare è vietato, anche nei giorni normali, l'unico ad esprimersi è il capofamiglia, e lo fa sotto forma di affermazioni violente, nei giorni di buonumore il tono è sarcastico, in quelli cattivi prevale l'insulto puro e semplice, il silenzio infine è la prerogativa dei giorni pessimi, quelli in cui le parole non sono sufficienti ad esaurire l'immensità del suo disgusto. Questo silenzio grava come una nuvola carica di pioggia su tutta l'opprimente giornata, si prolunga per l'intera durata dell'interminabile pranzo nel quale noi teniamo gli occhi fissi sul piatto senza lasciarci sfuggire neanche un respiro, per poi scaricarsi all'ora di cena come uno scoppio di temporale. L'ora di cena è l'ora del suo trionfo, il momento della punizione.
La mamma si era alzata a metà dalla sedia, in un tentativo impotente di impedire l'inevitabile, se non con le parole, di cui da tempo diffidava, perlomeno con il gesto, anch'esso inutile, già lo sapeva, ma in qualche modo impossibile da reprimere. Il gesto stesso era incompiuto e timoroso, si era limitata a respingere
la sedia e ad accennare il movimento, stava lì come sospesa nel suo vestito color lavanda, reliquia di tempi migliori, ancora bello e sofferente il viso così bianco, ancora morbidi i capelli così rossi nella crocchia stretta in alto sulla nuca. “Matilde” dice lui senza guardarla, saggiando sul palmo la resistenza della cinghia. “Matilde”, ripete: non è che stia alzando la voce, ripete semplicemente, mentre la cinghia sfregando fra le dita produce un leggero stridio. Il tono non è propriamente di minaccia, in realtà non è neanche di ammonimento, tutto sommato è un tono abbastanza neutro, forse per questo è così terrificante. Il silenzio è assoluto, adesso. Il cuore mi batte pazzamente, mi accorgo che sto sudando freddo, anche se so benissimo di non correre rischi, io non le prendo mai, per via della gamba. Da parte della mamma c'è un breve tentativo di resistenza, ancora per un attimo rimane nella sua posizione di protesta, poi lentamente si lascia scivolare sulla sedia, senza rumore. “Molto bene” dice lui, sempre in tono piano, in apparenza privo di sarcasmo, “molto bene”, dice, facendo scorrere lo sguardo su di noi, uno sguardo attento, di valutazione, come se stesse scegliendo un cavallo. Lui è bravo a scegliere i cavalli. Sento la tensione degli altri salire di minuto in minuto, Angelo, di fronte a me, è l'unico a guardarlo con aria di sfida, Gabriele alla mia sinistra è nella posizione di chi si prepara a schivare un colpo, Mariano laggiù in fondo, accanto alla mamma, è vicino alle lacrime, come sempre. Rannicchiata su se stessa con lo sguardo a terra, la Noemi è l'immagine del terrore, dev'essere per via del figlio del medico, di sicuro ha paura che qualcuno abbia parlato, mentre l'Amalia alla mia destra finge distacco sbriciolando nervosamente pezzetti di mollica: una signora deve saper mantenere la calma, e lei ci tiene a diventare una signora, inoltre è la più ligia agli editti di papà, non ha grossi motivi di timore. Delle ragazze, solo Teresa lo guarda dritto in faccia, ma senza sfida, con curiosità si direbbe, sembra che non abbia paura, mi pare addirittura di vedere nei suoi occhi un guizzo di segreta ilarità, chissà cosa sta pensando, si sistema una ciocca di capelli sfuggita alle forcine e tiene la testa alta, il lungo collo bianco simile a quello della mamma, la bocca leggermente sorridente, nel suo sorriso un'ombra di scherno. C'è una pausa, durante la quale si sente solo il rumore della cinghia, che papà ha cominciato a battere ritmicamente contro il tavolo. Papà è un maestro nel tenere le pause, questo bisogna riconoscerlo. So con certezza assoluta, anche se non riuscirei a spiegarne il motivo, che Angelo è il principale bersaglio del suo odio, almeno in questi ultimi tempi, ma c'è qualcosa che lo trattiene nei suoi confronti, forse semplicemente la paura di risultare prevedibile, una delle debolezze di papà è proprio il desiderio di stupire, non ama la monotonia nelle sue esecuzioni, vuole che il pubblico abbia delle sorprese, è un artista nel suo genere. Fuori, il vento di febbraio trascina le foglie in violenti mulinelli. La mamma
rabbrividisce, come per un presagio. C'è un colpo di cinghia più deciso, poi finalmente la designazione, con voce pacata: “Mariano”. “No!” la mamma grida, è più forte di lei, “il piccolo no!”, Mariano scoppia in lacrime istantaneamente, noi tutti raggeliamo, il “piccolo” in effetti ha quattordici anni, ma è malaticcio, almeno a sentire la mamma, un ragazzo cagionevole, così pare, anche se a mio avviso è soprattutto un frignone, e fino ad ora ha tacitamente goduto dell'esenzione accordata a me, che il castigo tocchi a lui è quasi un sacrilegio. Papà scosta la sedia e si alza, la cinghia schiocca nell'aria come una frusta, “Va' in camera tu”, alla mamma, sempre senza guardarla, lei non si muove, resta aggrappata al tavolo con le mani che le tremano, lui lentamente si volta, è inaudito che lei non gli ubbidisca, la guarda dall'alto con espressione imperscrutabile e alla fine sorride, “Va bene, allora rimani”, quel sorriso ci terrorizza, siamo paralizzati. Nell'immobilità generale lo vediamo fare il giro del tavolo – dalla cucina, incongrue in questo momento, arrivano le voci allegre delle serve, c'è anche una risata, breve, argentina, dev'essere la nuova – al suo aggio tutti ci ritraiamo istintivamente, Mariano ormai singhiozza senza freno, arrivato al suo posto lui lo scaraventa giù dalla sedia, Mariano è un mucchietto ai suoi piedi, il pianto è quasi un urlo. Quando la cinghia comincia a calare, la mamma cade a terra dibattendosi: è l'inizio di uno dei suoi attacchi.
Comunque, non c'è da pensare che la Noemi abbia smesso con quello là, lo so di sicuro che non ha smesso perché le ho sentite, le sento quando si parlano, anche se a me non raccontano niente. Di solito succede dopo pranzo, quando papà è nei campi a sorvegliare i contadini e la mamma è salita a riposare, nella bella stagione si mettono in giardino, sotto il pergolato del glicine, si siedono sulle vecchie panche di pietra corrose dal muschio e fanno finta di cucire, cuciono il loro corredo naturalmente, immensi lenzuoli di lino con gli angoli ricamati, tovaglie di bisso, pesanti asciugamani ricoperti di fregi. Sedevano così quel pomeriggio, nella luce dorata, il profumo del glicine molto intenso, profumo e ronzio d'insetti nella luce calda, cadevano i fiori del glicine senza rumore, loro parlavano fitto, le teste accostate, Teresa era vestita di bianco. Parlavano a voce bassa, sussurravano quasi, io dal mio nascondiglio dovevo tendere le orecchie per sentire, una sonnolenza dolce mi invadeva, una sonnolenza meridiana e primaverile, si era di maggio. “Naturalmente no” il sussurro è di Teresa “ ma no di certo, cosa ti viene in mente” risatina, buffetto sulla guancia della Noemi “non essere sciocca, sei
sempre la solita” altra risatina a cui la Noemi si unisce, ridono per un po' sottovoce, trattenendosi, complici. L'Amalia, sulla panca di fronte, non partecipa alla risata, ricama contegnosa un cuscino, è un ricamo complicato, sotto sotto disapprova, lo si vede benissimo, ma non lo dice per non suscitare lo scherno delle sorelle. “Io invece dico di sì”, la Noemi è maliziosa e trionfante, “ho visto come ti guardava, non ti ha persa d'occhio un secondo”, Teresa ride schermendosi, arrossisce, nella trama di luce e ombra del pergolato i capelli si accendono a tratti quando il sole li attraversa, “comunque vuol rivederti, questo è sicuro”, mentre lo dice la sorveglia con la coda dell'occhio, sa il fatto suo la Noemi, infatti la reazione non si fa aspettare, “Come fai a saperlo?” Pausa sapiente della Noemi: “Lo so” detto con noncuranza, abbassando gli occhi, mentre riprende a cucire. C'è un breve silenzio. Teresa freme. La Noemi cuce implacabile, senza alzare lo sguardo. Alla fine Teresa non ce la fa più: “Com'è che lo sai? Te l'ha detto qualcuno?”, la Noemi sorride enigmatica, “Può darsi”, dice, “può darsi”. Teresa d'un tratto le è addosso, le strappa il ricamo, le tira i capelli, ridendo fino alle lacrime rotolano entrambe sul prato: i lini preziosi si spargono, arruffandosi nella caduta, l'Amalia è scandalizzata, “Ma siete impazzite? Sveglierete la mamma!”, le due non le badano affatto, la lotta continua tra piccoli strilli, la Noemi è in svantaggio, è di gran lunga la più debole, “Ti arrendi?”, Teresa trionfante le è sopra e la schiaccia, i vestiti un groviglio, le trecce disfatte, il petto affannoso, sì, Noemi si arrende. “Allora? Chi te l'ha detto?” All'improvviso la Noemi è scontrosa, sembra di malumore, si rialza scuotendo via l'erba dal vestito, “Ma dai, è stato Michele. Sono amici, non lo sapevi?” Amazzone vittoriosa, Teresa la guarda dall'alto, il respiro ancora ansimante dopo la lotta, gli occhi che brillano di curiosità o di malizia, o forse di semplice gioia animale. “Quindi vi vedete ancora”, la Noemi sbuffa, “Ma sì, certo che ci vediamo”, con aria distante torna a sedersi, si è tutta rinchiusa in una sua ritrosia, Teresa incalzante le siede vicino. È così scura la Noemi, anche la pelle è scura, una pelle olivastra, sembra un'indiana, dicono che somigli alla nonna. Lei e Teresa insieme producono un curioso effetto di contrasto, come in uno di quei quadri rinascimentali in cui alla figura femminile centrale, biancovestita, di carni lattee e chiome rosse o dorate, si affianca una seconda figura solitamente ancillare, scura e sontuosa, spesso vestita di porpora, dai tratti orientali. In questo
momento Teresa le dice qualcosa all'orecchio, la Noemi in risposta scuote la testa ostinata. Teresa riprende il bisbiglio, la stuzzica, la Noemi sorride, poi scoppiano a ridere insieme. Con degnazione, l'Amalia alza gli occhi dal lavoro, si sente esclusa ma non vuole mostrarlo, “Cos'avrete da ridere”, dice, loro non le rispondono, continuano a sogghignare lanciandosi occhiate d'intesa, “tanto lo so che cos'avete in mente”, in tono di sfida, l'ha detto a caso ma spera che funzioni da esca, infatti la Noemi, con finta nonchalance, “cosa vorresti dire”, le chiede. L'Amalia prende fiato, butta là la sua bomba, “come se non ti vedessi, la notte, quando scavalchi il davanzale...” La Noemi è colta completamente di sorpresa, “io scavalco il davanzale? ma cosa stai dicendo?”, “ti ho vista”, l'Amalia è solenne, una volta tanto la tiene in scacco, si sta divertendo, si vede benissimo, non mollerà facilmente, questa è la sua occasione. “Tu sei matta. Te lo sei sognato”, la Noemi è sdegnosa ma è evidente che ha paura, l'Amalia ha colpito nel segno. Adesso anche Teresa la guarda, ha un'espressione difficile da decifrare, un misto di ammirazione e di rimprovero, e forse anche di invidia, non sono sicura, comunque è chiaro che non lo sapeva. “Non me lo sono sognata affatto. Ti ho vista. Ti ho vista benissimo, e più di una volta”, l'Amalia insiste accusatrice, la Noemi si alza come per fronteggiarla, si alzano entrambe, “Non è vero, sei una bugiarda”, come difesa è debole, l'Amalia sorride superiore, “Non farmi ridere. È inutile che neghi. Ti ho vista con questi occhi, c'era la luna, faceva chiaro come di giorno”, la Noemi vorrebbe contrattaccare ma è disarmata, “bugiarda” ripete, l'Amalia scuote la testa con scherno, ride, aggiunge perfida “Comunque non preoccuparti, non lo dirò a nessuno”. Con gesto teatrale raccoglie il suo ricamo e si prepara ad andarsene: “a meno che tu non lo faccia di nuovo”, precisa, poi le gira le spalle e si avvia verso casa. Non è bella l'Amalia ma ha classe, almeno così dicono, ha classe l'Amalia, basta vedere come cammina, l'Amalia “ha portamento”, non come noi, che siamo delle sciattone, noi non sembriamo delle signore, la Maria lo dice sempre, io poi, figuriamoci... Camminando con classe l'Amalia si allontana, le altre la seguono con lo sguardo, cala un silenzio di sgomento, la Noemi lentamente si siede. Lei e Teresa evitano accuratamente di guardarsi. Teresa con gesto meccanico prende in mano il ricamo, ricomincia a cucire. La Noemi guarda fisso davanti a sè, tenendo
le mani strettamente allacciate. C'è un lungo silenzio, poi Teresa, senza alzare lo sguardo: “È vero?” chiede. La Noemi fa spallucce, sbuffa, “Ma sì, certo che è vero. Cosa credevi?” Teresa tace per un po'. “Dove?” chiede infine. La Noemi sbuffa di nuovo, “che importanza ha, dove”. Si gira a guardarla, perplessa, “Perché vuoi saperlo?” Teresa non risponde, continua a cucire. La Noemi esita brevemente, poi dice tutto d'un fiato: “Domani sera, a mezzanotte. Ci aspettano al cancello, ci sarà anche lui. Mi ha detto di dirtelo.” La guarda di sottecchi; Teresa tiene gli occhi fissi sul lavoro. “Verrai?” Dietro il cespuglio che mi nasconde ho un brivido silenzioso, come se l'aria d'improvviso si fe più fredda. Teresa alza lo sguardo, socchiude gli occhi nel sole, sospira. Stirandosi pigramente, appoggia la testa ai rami del glicine, guarda imbronciata l'intreccio delle foglie facendosi schermo con la mano: “Perché no”, dice.
Quand'eravamo piccoli non ci lasciavano giocare nel boschetto, dicevano che era buio e che ci potevamo perdere, e a sentire la Maria era pieno di fantasmi: a tutte le ore e in tutte le stagioni, ma soprattutto di sera e d'inverno. Questa predilezione per l'inverno non mi era tanto chiara, forse i fantasmi amano il freddo, o forse nella nebbia si nascondono meglio. Certo, qui di nebbia ce n'è tanta. Comunque del boschetto avevamo paura, io e Mariano più di tutti, ma neanche l'Amalia ci entrava volentieri. Teresa invece era la più spavalda, lei e Angelo ci andavano spesso, giocavano a nascondersi, qualche volta insieme a Gabriele, anche se lui a dire il vero preferiva i campi, le lunghe eggiate solitarie alla ricerca di animali. A rigore anche questo era proibito, ma Gabriele ha sempre avuto questo dono, il dono di svanire senza lasciare traccia, all'improvviso non lo si trova da nessuna parte, è inutile cercarlo, riappare quando vuole. Quest'invisibilità intermittente lo protegge, lo mette al riparo dai castighi peggiori, in qualche modo è disarmante, anche per nostro padre; lui è così, non è ubbidiente né disubbidiente, semplicemente sfugge, scivola via, ha la capacità straordinaria di sottrarsi, in qualunque momento. Il suo non è l'atteggiamento di sfida ostentata di Angelo, né quello piagnucoloso e subalterno di Mariano, un atteggiamento sostanzialmente collaborazionista. Gabriele è altrove: cortesemente assente, sorride ma non risponde, quando gli parli pensa
visibilmente ad altro, a una sua vita segreta là fuori, nei prati e nei fossi, con nuovi compagni di giochi, complici di scorribande immaginarie. Nelle giornate di nebbia più fitta si usciva tutti in gruppo, capitanati dalla Maria e dal giardiniere: uscire bisognava, anche nei giorni peggiori, prendere aria con qualsiasi tempo era uno dei dogmi di nostro padre. Per noi era una pacchia, la nebbia era un'ottima occasione per far perdere le nostre tracce, Gabriele manco a dirlo era il primo a sparire, ma anche noi ci davamo da fare, giocavamo di squadra, qualcuno a turno distraeva la Maria mentre gli altri si slanciavano avanti facendosi inghiottire da quella coltre densa: quando ci entravi dentro aveva un odore speciale, un odore antico e severo, campestre e notturno, l'odore primordiale dell'inverno in pianura. Il giardiniere tanto non contava, era vecchio e già mezzo cieco, adesso è morto, la Maria dice che a volte lo sente. Pare che certe notti, oppure al mattino molto presto, salga scricchiolando la scala di legno che porta alla sua vecchia stanza. Io non l'ho mai sentito, ma la Maria giura che è vero, lei dorme lì vicino, dice che riconosce i i. In ogni caso lui non ci preoccupava affatto, restava subito indietro, per un po' continuavamo a sentirlo, ormai invisibile, chiamarci querulo e insistente dal fondo della nebbia, poi la voce si affievoliva, il vecchio rassegnato voltava le spalle e se ne tornava nel suo capanno. Soffriva molto il freddo, si lamentava sempre, questo me lo ricordo. La Maria invece non desisteva così facilmente, continuava a braccarci come un segugio, a volte miracolosamente riusciva ad acchiappare qualcuno per il braccio e se ne usciva con un urlo trionfante, per il malcapitato erano guai, noi nel frattempo ci davamo alla fuga. Io naturalmente non potevo correre, ma in questi casi Angelo mi sollevava, già allora era il più forte, Teresa mi sosteneva dall'altra parte, e in mezzo a loro penetravo in questo luogo incantato, il giardino trasformato dalla nebbia, uno spazio ignoto ed enorme, dilatato, dai contorni fantastici. Ciò che cambiava più di tutto erano le distanze, spariti i punti di riferimento abituali come il cancello, la fontana, il pergolato, ci aggiravamo in un luogo sconosciuto, estraneo e potenzialmente minaccioso, ma ai nostri occhi soprattutto magico, foriero di avventure e di incontri, che speravamo soprannaturali. Teresa in questo gioco era la nostra guida, ci sospingeva avanti nell'impalpabile reame indicandoci la direzione, solo a lei nota, del percorso iniziatico verso l'invisibile, e nel frattempo a voce bassa e mormorante ci raccontava delle storie, la storia della fata che dormiva sotto il biancospino, del folletto che abitava la fontana, degli gnomi che invadevano il boschetto: tutti gli angoli diurni e conosciuti si animavano allora di nuova vita attraverso il potere notturno della sua voce. Raramente le sue storie erano malvage, perlopiù si trattava di episodi buffi o bizzarri, Teresa sembrava avere grande intimità con le
creature della notte, conosceva le loro abitudini e i loro vizi, i loro tic e le loro manie, le loro timidezze, le improvvise e perentorie richieste. Una volta per esempio ci costrinse a una lunghissima deviazione per non disturbare la fata del biancospino, che, a suo dire, in quel momento si stava vestendo, e non gradiva estranei nei paraggi. Un altro giorno c'era da costruire una capanna di frasche per uno degli elfi, che aveva perso la strada e si era spaventato, e poi si dovette aspettare che venissero a prenderlo, non si poteva lasciarlo solo, era un elfo bambino. Altri racconti erano più tristi, come quello della fanciulla del salice, che appariva a volte nelle notti di primavera: la fanciulla si era uccisa per amore, e le sue apparizioni consistevano in brevi eggiate lungo le sponde del ruscello, che si concludevano appunto sotto il salice, dove lei si sedeva e cantava canzoni. Tutto questo avveniva sotto le finestre di Teresa, che di conseguenza la conosceva molto bene. Sapeva anche le canzoni a memoria, qualche volta ce le cantava, mai fino in fondo perché Angelo si ribellava, non amava questo tipo di storie, le trovava noiose, preferiva di gran lunga i folletti, casomai qualche spettro spaventoso, la fanciulla per i suoi gusti era troppo malinconica. Un giorno infine, che ci eravamo spinti molto avanti, alla ricerca di quella che Teresa chiamava “la fonte”, una sorgente miracolosa che aveva il potere di rendere invisibili e che Teresa situava nei dintorni del recinto delle vacche, la nebbia si addensò all'improvviso, isolandoci completamente. Non si vedeva più nulla, né la staccionata, né il sentiero, nemmeno gli alberi ai lati della strada; il respiro si condensava all'istante, le mani si congelavano, impossibile orientarsi, perfino Teresa che raramente si perdeva d'animo annusava ansiosamente l'aria nel tentativo di rintracciare un elemento noto, un oggetto qualsiasi che ci permettesse di ritornare sui nostri i, ma inutilmente. Ci eravamo persi. Rimarrà sempre nella memoria quel tempo non quantificabile in cui restammo immersi nella caligine, stringendoci gli uni agli altri per scaldarci, tremando di paura. Mariano, allora piccolissimo, piangeva aggrappato a Teresa, che cullandolo sussurrava incantesimi. Poi, d'improvviso com'era scesa, la nebbia scomparve. Nel frattempo era calata la notte. Sopra di noi, un cielo terso e gelido, gremito di stelle. Cautamente, increduli, come chi tutt'a un tratto recuperi la vista, ci eravamo avviati in fila indiana giù per il sentiero ritrovato, prima lentamente, poi sempre più in fretta, alla fine di corsa, a perdifiato. Dietro una
svolta, di colpo, ecco apparire la casa. Nitidissima nell'aria spazzata dal vento notturno, le finestre illuminate come per una festa, splendeva grandiosa e invitante, intima e misteriosa, pulsante di vita nell'oscurità: così la rivedo anche adesso, enigmatica epifania.
D'estate, il sole al tramonto colpisce i vetri della facciata e li tinge di rosso, da lontano è come un incendio. La facciata è di pietra grigia, coperta di rampicanti, interrotta dai rettangoli regolari delle finestre che si affacciano sul giardino; la mia stanza invece dà sul retro, sul cosiddetto brolo, che sarebbe un incrocio tra il giardino e l'orto, là ci sono gli alberi da frutto, e anche qualche vigna, dietro c'è la collina. Non mi piace la collina, è troppo scura, scura di vegetazione fitta e inospitale, ha un aspetto minaccioso, sembra che gravi sulla casa, quando mi sveglio mi dà un senso di oppressione, come se occludesse l'orizzonte. Naturalmente il repertorio della Maria comprende anche storie che riguardano la collina, secondo lei è lì che in certe notti di luna piena le streghe si danno convegno, a differenza di Teresa la Maria ha una preferenza per i racconti del terrore, ci ha terrorizzati fin da piccoli, e comunque non c'è dubbio che la collina sia un luogo peccaminoso, ho sentito altri racconti, non destinati alle mie orecchie, e certamente meno soprannaturali, che avano tra le serve in cucina, solo frammenti s'intende, che non mi hanno permesso di capir molto, ma sembrava che qualcuno riguardasse il padrone. Questi aneddoti in particolare venivano narrati a mezza voce, e con frasi così smozzicate che non c'è stato verso di ricostruirli, per quanto a lungo mi fermassi ad origliare. In ogni caso, dicevo, d'estate il sole al tramonto colpisce i vetri della facciata e li incendia, da lontano la casa splende come un gioiello. È questa l'ora in cui Angelo torna a cavallo dalla sua eggiata, viene avanti lentamente, il cavallo stanco dopo la galoppata, ma lui si tiene dritto in sella, fa un figurone Angelo a cavallo, lo sa benissimo ed è per questo che sfila indolente di fronte al cancello prima di andarsene verso le scuderie, quasi sempre le serve escono a guardare, soprattutto quelle giovani, lui fa finta di non accorgersene ma si tiene ben dritto, le serve commentano sottovoce, ci sono scoppi di risatine soffocate, eccitazione trattenuta, poi un fuggi fuggi generale come di uccelli spaventati quando lo vedono avviarsi verso casa. Talvolta la loro fuga è accelerata da un'improvvisa apparizione di nostro padre, furibondo e tonante, gli stivali ancora sporchi di fango, che irrompe dall'aia e le scaccia con un gesto imperativo e collerico. Che il figlio sia oggetto di sguardi e ammirazione femminili, anche se si tratta solo di
sguattere, è qualcosa che supera di molto la sua capacità di sopportazione. Con Angelo ha in comune troppe cose, l'orgoglio di casta, l'arroganza, il disprezzo, perciò si detestano, si somigliano troppo, per di più Angelo è il maggiore, porta il suo stesso nome ed è il più bello dei maschi, cosa quest'ultima non indifferente in famiglia, Angelo è bello come lo era nostro padre da giovane. Per la verità neanche adesso papà è tanto vecchio, quanti anni può avere? cinquanta ce li ha di sicuro, ma non molti di più, a noi sembra vecchio ma le donne in paese la pensano diversamente, le ho sentite a volte mentre parlavano tra di loro, le ho sentite sospirare quando ava, e ho il sospetto che più d'una non abbia sospirato invano, questo è ciò che ho ricavato dai bisbigli delle serve, e in parte dalla Maria, che lo dice quando pensa che io non ascolti, o forse che non possa capire. Ad essere proprio sincera, sono pronta a scommettere che la stessa Maria, quand'era più giovane... ma su questo non voglio indagare. In effetti, adesso che ci penso, il giorno che è arrivato da noi quel ragazzo – un nipote della Maria, così ci è stato presentato – aveva, a ben guardare, un'aria di famiglia, o almeno è quel che mi è sembrato, ma forse sto fantasticando. Chissà se ancora adesso, qualche volta... ma no, questo no di certo, papà le vuole giovani e fresche, ragazze procaci, magari un po' pienotte, ad esempio quella nuova... anche qui sto immaginando, in realtà c'è stato solo uno sguardo, uno sguardo in corridoio mentre lei ci ava davanti, e seguendo quello sguardo ho notato anch'io quant'era carina, una pelle di pesca, e due occhi... di sicuro è giovanissima, non avrà più di sedici anni, ma papà non mi sembra certo il tipo da arrestarsi di fronte a simili quisquilie. Oh Dio, cos'ho detto, no, no, questo non lo dovevo dire, adesso mi segno, nel nome del Padre... Cosa ne pensi la mamma, nell'austerità della sua cella, non è dato saperlo. Su questo tema, non una parola, neanche durante le scene peggiori. È vero che parla poco in generale, ma anche quando esterna il suo disprezzo, le rarissime volte che lo fa, quest'argomento non viene proprio sfiorato, lei semplicemente lo ignora, nel suo sdegno di gran dama rifiuta di sporcarsi, lo sorvola con un gesto sublime, ultraterreno, il suo sguardo non si posa così in basso, lei non lo vede. Ecco. Lei non lo vede. È molto tempo, credo, che non lo vede. Sarà per questo che lui si sbraccia così tanto, e grida così forte? Comunque sia, sono anni che non entra in quella stanza. Nella stanza di lei, intendo. Non so perché, ma non credo che sia stato lui a decidere. Sembra strano, data la situazione, che lei sia in grado di negargli qualcosa, sottomessa com'è, eppure in questo caso – oh, non che glielo abbia vietato a parole, questo no, sicuramente ha taciuto, ma quella piega ostinata delle labbra, quel lampo di fanatismo negli occhi, è stato questo a sconfiggerlo, ne sono sicura, lui si è arreso di fronte a quello sguardo, al senso di
profanazione che emanava, tutt'a un tratto varcare quella soglia è diventato impossibile, un atto sacrilego, inimmaginabile, atroce. Dev'essere successo poco dopo la nascita di Mariano. Se ci sia stato un fatto, un evento scatenante, questo non saprei dirlo. Forse era solo stanca di farsi ingravidare. O forse no. Conoscendola, e sapendo quant'è devota, ci dev'essere stata una ragione. Un'offesa, presumibilmente. Un'offesa talmente grave... Certo, riesce difficile immaginare qualcosa di più offensivo del comportamento abituale di papà, ma quello, credo che lei lo ritenga normale. Inevitabile, per così dire. Qualcosa che, nel suo intimo, probabilmente definisce “la sua croce”, il fardello che Dio le ha assegnato. Non penso sia mai stato diverso, neanche all'inizio. A quel fardello lei è rassegnata, non si ribella, è un peso che ha accettato da sempre, senza condizioni, forse è convinta che proprio in questo risieda l'essenza del matrimonio, in una resa totale, incondizionata, a un carnefice autorizzato da Dio e dalla legge. Quindi, deve trattarsi di qualcos'altro. Qualcosa che perfino a lei, pur nella sua indomabile voluttà sacrificale, debba sembrare un oltraggio imperdonabile. La faccenda del bastardo non può essere, quella sicuramente rientra nei canoni da lei riconosciuti dell'arbitrio maritale, un uomo, soprattutto nelle condizioni di papà, si sa che certe cose non se le nega. Le condizioni essendo, che lui è il padrone, e della sua roba dispone come gli pare. Tra l'altro, non credo affatto che quello della Maria sia l'unico in circolazione, proprio l'altro giorno, mentre attraversavo il cortile, mi è capitato di vedere il figlio del fattore, un ragazzino particolarmente ostinato, e mi è sembrato di riconoscere quegli occhi azzurri, quelle labbra carnose... ma naturalmente, può trattarsi di una fisionomia comune da queste parti, una specie di genius loci. Anche se ne dubito. Soprattutto considerando che la moglie del fattore appartiene appunto a quel tipo di bruna prosperosa – benché ormai, in verità, un po' sfiorita – che mio padre predilige per questo genere di faccende. Comunque, ripeto, deve trattarsi di qualcos'altro. Oltretutto, la mamma praticamente non esce più di casa, e questo già da tempo, se si eccettuano le apparizioni per i pasti e per il rosario serale in effetti non esce più dalla sua stanza, nella sua condizione astratta e monacale credo abbia ormai una nozione assai vaga di tutto questo, certo soffre ancora, ma soffre in generale, e più che altro per i figli, questo tipo di cose, relative alle imprese amorose di mio padre, hanno perso da un pezzo il potere di ferirla. Ma forse un tempo non era così.
Il primo attacco, che io ricordi, risale a una sera di parecchi anni fa. Era
dicembre e faceva molto freddo, un inverno particolarmente freddo, il ruscello era ghiacciato e i campi ricoperti di brina, di notte la temperatura era bassissima, noi battevamo i denti sotto cumuli di coperte aspettando che la Maria ci portasse lo scaldino, eravamo piccoli allora. Io dormivo con Mariano nella camera in fondo al corridoio. È successo dopo cena, noi eravamo già a letto, sembrava una sera come tutte le altre. Papà non era neanche di cattivo umore, non più del solito perlomeno. A tavola aveva addirittura scherzato, cosa per lui davvero inusuale, non ricordo i particolari ma doveva trattarsi di un regalo, qualcosa che la mamma aspettava con ansia, allora aveva ancora di queste debolezze, lui l'aveva presa un po' in giro, ma con garbo, quasi con tenerezza, lei aveva sorriso, a raccontarlo adesso ha dell'incredibile. Quando è successo, io non dormivo ancora. Stavo cercando di scaldarmi, Mariano al mio fianco ronfava beatamente, lo detestavo, era sempre malato quell'inverno, questo me lo ricordo. All'improvviso c'è stato uno schianto, doveva essere nel corridoio, un tonfo sordo come di un corpo che cadeva, anche Mariano si è svegliato di colpo. Poi, dopo qualche secondo, è cominciato il grido. Era una voce sconosciuta e spaventosa, una voce mai sentita, inimmaginabile, non sembrava affatto la voce della mamma. A dire il vero, non sembrava affatto una voce umana. Siamo balzati a sedere sul letto, in preda al terrore, Mariano si è messo a piangere. Non riuscivamo a muoverci. Al grido si era aggiunto un altro suono, dei colpi regolari, a intervalli, come se qualcosa sbattesse ritmicamente contro il pavimento. Dopo un tempo che è sembrato interminabile, tutto è cessato di botto. A ripensarci, non dev'essere durato molto. Intanto la casa si era svegliata, le porte sbattevano, gente correva su per le scale, domande affannose, strilli, la voce di papà al limite dell'urlo, “State calme, vi ho detto. Vi ho detto di star calme!”, una corsa ansimante, singhiozzi irrefrenabili, la voce di Teresa. Sentendo quei singhiozzi, anche Mariano ha aumentato il suo pianto fino a una specie di parossismo, era un pianto isterico, convulso, sembrava proprio che stesse soffocando. Non sapevo cosa fare. Pareva che nessuno si ricordasse di noi. In corridoio nel frattempo qualcuno aveva cominciato a sollevare il corpo, si sentiva un tramestio, papà che dava ordini, “no, più piano. Attenti alla testa”, le serve che pregavano sussurrando, madre santa aiutaci tu, qualche esclamazione di orrore soffocato: “Oddio. C'è del sangue!”, commenti proferiti in tono superstizioso, ma a bassa voce che papà non sentisse, “Povera signora. C'era da aspettarselo”, e su tutto questo il fortissimo dei singhiozzi di Teresa, alti, strazianti, immedicabili. Poi i rumori si sono spostati verso il fondo del corridoio, verso la stanza della mamma. Mi arrivavano solo dei bisbigli, e il fruscio delle gonne delle serve. Mariano non si
calmava, ero sicura che sarebbe morto. Finalmente, dopo un tempo lunghissimo, una testa si è affacciata, era la Maria, in controluce, spettinata, ha socchiuso gli occhi per abituarli all'oscurità della stanza e ha mormorato “Cosa succede qui? Agnese, sei sveglia?” “Sì” ho risposto a bassa voce, intimidita, non so perché. Lei è entrata, si è avvicinata a o rapido, ha preso Mariano fra le braccia e ha cominciato a cullarlo, come quando era davvero piccino. Il pianto di lui per un attimo è aumentato di volume, un vero accesso di disperazione, dentro di me ero disgustata, che moccioso, pensavo, poi lentamente ha cominciato a scendere, si è trasformato in un singhiozzo sfinito, desolato, qualcosa di più simile a un lamento – “Shhh. Shhh”, faceva la Maria continuando a cullarlo – fino a scemare in un gorgoglio indistinto che preludeva chiaramente al sonno. Allora ho trovato il coraggio, sono scesa dal letto, piano piano mi sono accostata, “Maria, cos'è successo?” ho sussurrato. “Perché la mamma gridava in quel modo?” Mi sono interrotta, traversata da un dubbio: “Era la mamma, vero?” “Niente, tesoro, niente. È tutto ato” ha detto lei, spostando la testa ciondolante di Mariano e appoggiandosela al seno, un seno grande, morbido, ancora bello a quei tempi. “Il Signore vede” ha aggiunto oscuramente, riprendendo a cullarlo. Avrei voluto chiederle che cosa vedeva, ma lei d'un tratto si è messa a canticchiare, cantava piano, a bocca chiusa, una ninna nanna del suo paese, una nenia che già conoscevo, ce la cantava fin da piccolissimi, era la nenia di quando ci allattava.
Il giorno dopo, in casa c'era un gran silenzio, un po' come il silenzio dei giorni di festa, ma molto più denso, un silenzio ovattato e sinistro, le donne camminavano in punta di piedi e chiudevano le porte con cautela, l'aria compunta e misteriosa, invece di sbatterle festosamente e fragorosamente come facevano di solito, papà era uscito prestissimo e se n'era andato nei campi, noi bambini eravamo confinati nella cosiddetta stanza dei giochi ma nessuno si sognava di giocare, uscire per quel giorno era proibito, e anche andare in giro per la casa, dovevamo stare lì, sotto sorveglianza, la Maria aveva da fare e ci aveva affidati ad una serva giovane, totalmente inesperta e smarrita, Antonietta si chiamava, la giovane Antonietta sedeva impettita con la sua pettorina inamidata e le mani che tremavano, ogni tanto le sfuggiva un singhiozzo, credo che le fimo paura. Noi non facevamo niente per rassicurarla, questo è certo, Angelo aveva inalberato la sua aria più torva e si aggirava per la stanza come una belva in gabbia, allora aveva già tredici anni, era un ragazzo ormai, alto quasi come adesso, e per nulla disposto a starsene tranquillo, nessuna stupida domestica l'avrebbe costretto a stare in casa controvoglia, poco ma sicuro. Ogni volta che le
ava davanti, il che avveniva di frequente data la veemenza del suo andirivieni, lanciava alla poverina occhiate corrusche, e lei ne era tanto intimorita da trasalirne – o forse, ripensandoci adesso, trasaliva per altri motivi, perché avvertiva in lui qualcosa di cui all'epoca Angelo non era affatto consapevole, qualcosa che aveva a che vedere con il suo considerevole potere di seduzione: in ogni caso, ne era soggiogata. Noi ce ne stavamo immersi in un silenzio ostile, io e Mariano ammucchiati in un angolo e avvolti in uno scialle, Gabriele in posizione defilata, davanti alla finestra, a guardar fuori con aria sognante – era una giornata limpidissima, l'aria era tersa e gelida, in lontananza si vedevano i monti –, le bambine in un crocchio svogliato e renitente davanti al caminetto. Teresa era molto pallida, il viso ancora gonfio di pianto, per la prima volta, e con un po' di sorpresa, ho notato quanto somigliasse alla mamma. Senza dubbio le lacrime contribuivano non poco alla somiglianza, ma non era solo quello, la bocca era uguale, e i capelli, e in qualche modo la postura, anche se Teresa già allora la sorava di tutta la testa. Teresa a dodici anni. O erano undici? Credo che fosse bellissima, anche se non sono certo il miglior giudice per questo tipo di cose. Comunque, era quello che dicevano tutti, benché questo genere di commenti non fosse affatto incoraggiato, soprattutto da nostro padre, si temeva che la bambina montasse in superbia, allo spontaneo affiorare di un'esclamazione sulle labbra delle signore in visita – poche, per la verità, la vita sociale non rientrava tra le consuetudini della casa – rispondeva uno sguardo di riprovazione, così minaccioso da stroncare sul nascere qualsiasi ulteriore considerazione sull'argomento. In famiglia la vanità femminile era molto malvista, sarà per questo che noi bambine – e anche la mamma, a dire il vero – venivamo costantemente mortificate in abiti tanto modesti da far vergogna a una serva, tutto si voleva tranne che risultassimo appariscenti, per me naturalmente non c'era pericolo ma una particolarità austerità veniva applicata all'abbigliamento di Teresa e della Noemi, delle quali si temeva l'avvenenza, possibile fonte di disordine morale. In questo, l'atteggiamento rigorista e puritano era rafforzato dalla proverbiale avarizia di nostro padre, per il quale l'idea di spendere in vestiti era una specie di bestemmia, il suo concetto di abbigliamento consistendo nell'indossare gli stessi capi fino a che non cadevano in pezzi, l'unico oggetto in cui impiegava volentieri del denaro erano i cavalli, si può dire anzi che in questo campo fe addirittura delle follie, d'altra parte i cavalli erano stati il suo primo investimento, la sorgente originaria del suo benessere: in qualche modo, doveva loro della riconoscenza, anche se all'origine di quella predilezione c'era senz'altro una ione sincera, lui i cavalli li amava. Verso la fine della mattinata, mentre la collera di Angelo montava visibilmente
di minuto in minuto, si è sentito in lontananza il suono del camlo, debole e ovattato attraverso le porte chiuse. Doveva essere il dottore, era già venuto durante la notte, confusamente, nel mezzo del sonno, avevo avvertito il suo arrivo, la voce bassa e monotona interrotta dalla voce ansiosa di papà, erano troppo lontani perché potessi capire qualcosa, provavo solo un vago senso di allarme. Su di noi quel camlo ebbe l'effetto di un segnale, ci alzammo all'unisono, senza neanche bisogno di un'occhiata d'intesa marciammo compatti verso la terrorizzata carceriera, Angelo a gambe larghe, mani sui fianchi, arrogante e protervo, la perfetta incarnazione del padrone, le si mise di fronte e pronunciò, sillabando in tono di spregio: “Dacci le chiavi”. La poveretta si limitò a scuotere la testa in segno di diniego, era evidente che era troppo spaventata per emettere suono, il gioco era fin troppo facile, Angelo ci comunicò questa consapevolezza con uno sguardo di derisione e una scrollata di spalle, non si curò di muoversi, scandendo ripeté: “Ho detto le chiavi!” Lei continuava a far cenno di no ritraendosi sempre più sulla sedia, era visibilmente dilaniata tra due diverse paure, da un lato la punizione sicura e feroce di mio padre nel caso che ci avesse fatto uscire, dall'altra il terrore che le ispirava Angelo in quel momento. Nessuno di noi ebbe pietà. Angelo avanzò minaccioso – la lezione di papà serviva pure a qualcosa – mentre lei si rattrappiva disperatamente nel tentativo di sfuggirgli, posò una mano sulla spalliera della sedia facendola inclinare all'indietro, la ragazza cacciò un piccolo strillo, si teneva aggrappata convulsamente, come un animale, Angelo si voltò a guardarci con aria di trionfo. Noi, il suo pubblico, seguivamo ammirati, ci furono delle esclamazioni d'incoraggiamento. Mariano, reso baldanzoso dall'apparente impunità, fece qualche o in avanti, evidentemente sperava di partecipare all'esecuzione, è sempre stato così, fin da piccolo, vigliacco ma in fondo crudele, forse non dovrei dirlo, sono cattiva con lui, in fin dei conti è il mio fratello minore. Angelo, gigione, diede una lieve scrollata alla sedia, che oscillò pericolosamente. La ragazza tornò a strillare, l'Amalia si mise a ridere, scoppiò un inizio di applauso. Angelo si voltò di nuovo e disse, stavolta in tono pratico: “E adesso, cosa le facciamo?” L'Amalia era pronta: “Battiamola!” La povera creatura emise un lamento, Angelo la guardò con aria dubbiosa: “Con cosa?” domandò, dandole per precauzione un'altra scrollatina. L'Amalia era piena di risorse: “Ci dev'essere un battipanni, lì dentro. Lì, nell'armadio dei giocattoli. C'è di sicuro, l'ho visto!” “Bene, vallo a prendere” disse Angelo in tono regale, la vittima si contorse sul suo trespolo e mormorò qualcosa di inudibile, lui la scrollò gentilmente, con aria
giocherellona, magnanimo si chinò su di lei: “Hai detto qualcosa?” Lei scosse la testa mentre una lacrima le rigava la guancia, lui si voltò a guardarci sogghignando, gongolante, mi accorsi che guardava soprattutto Teresa, la scena era principalmente a suo beneficio. Lei non gli diede troppa soddisfazione, assisteva con distacco, con una specie di fredda curiosità, non era disgustata, ma nemmeno partecipe, stava semplicemente a guardare, aspettava, forse voleva vedere fino a che punto si sarebbe spinto. L'Amalia, dopo una breve ispezione nell'armadio, ritornò trionfalmente con il battipanni. “Eccolo” disse consegnandolo ad Angelo, che per un attimo lo guardò come se non sapesse bene cosa farne. L'Amalia assunse un'aria di scherno: “Sai come usarlo, spero” disse in tono maligno. Angelo si affrettò a riprendersi, “Certo che lo so”, d'improvviso era brusco e autoritario, “tu aiutami, tienila ferma”, l'Amalia si avvicinò zelante, la poverina nel frattempo era sempre aggrappata allo schienale, la costrinsero a mettersi a quattro zampe, lei non si ribellava più, piangeva senza rumore, noi le facemmo cerchio intorno. Eravamo silenziosi, in tensione. Guardai Mariano di sottecchi e scorsi nei suoi occhi un'espressione ambigua, un misto di eccitazione e di timore, per un attimo immaginai come avrebbe reagito se fossimo stati scoperti. Angelo esitò brevemente, poi con gesto teatrale sollevò la pesante gonna di panno nero scoprendo una fila di sottogonne, alcune delle quali sfilacciate ai bordi, che a loro volta nascondevano, e infine svelarono, un paio di mutandoni alquanto vetusti, il lino logorato e ingiallito dall'uso. In quel momento non potevo vedere il viso della martoriata, ma lo immaginai scarlatto e congestionato dalle lacrime e dalla vergogna. Le sfuggì un breve singulto. Per un secondo sembrò che Angelo volesse fermarsi; irresoluto, alzò gli occhi e incontrò lo sguardo glaciale e irridente dell'Amalia. Allora si chinò con aria di sfida e abbassò i logori mutandoni scoprendo un paio di natiche bianche e sode, sorprendentemente opulente. Le natiche brillarono inviolate nella loro abbacinante pienezza per il tempo che Angelo impiegò a farsi coraggio e a calare il battipanni sul loro candore: fu un colpo lieve e maldestro, trattenuto dal timore, forse dal desiderio. Lei cacciò un urlo. Era un urlo eccessivo, sproporzionato rispetto alla forza del colpo, un urlo acutissimo, lacerante, a pieni polmoni. Angelo fece un balzo indietro. L'Amalia fu spietata: “Cosa fai? Continua! Non vedi che sta facendo una scena?” Angelo era turbato: “Se grida così forte, ci sentiranno” protestò debolmente, ma l'Amalia non aveva intenzione di dargli tregua: “Cosa vuoi che sentano, sono dall'altra parte della casa” disse con sprezzo. “Hai paura?” aggiunse con un lampo di perfidia. Angelo la fulminò con lo sguardo, assunse un'espressione risoluta, si rimise in posizione e calò il secondo colpo, stavolta con più decisione. La candida pelle ne fu arrossata, il corpo di lei fremette e s'inarcò. Il grido fu atroce. Tutti noi trasalimmo, sembrava
che la stessero scuoiando. Perfino l'Amalia a questo punto mostrò un inizio di turbamento, che rientrò prontamente di fronte all'occhiata di Angelo, un'occhiata che era quasi una supplica, chiedeva supplichevolmente l'autorizzazione a smettere, ma non l'ottenne. “Continua” disse l'Amalia. Si era già ripresa. Angelo calò il terzo colpo. L'urlo fu così agghiacciante da gelarci il sangue nelle vene, non osavamo guardarci, Teresa uscì finalmente dal suo atteggiamento impenetrabile e disse: “Adesso basta”, ma nel frattempo Angelo per ragioni a noi misteriose aveva cominciato a prenderci gusto, calò un quarto colpo e poi un quinto con energia crescente, le grida aumentavano sempre più di volume, erano grida smisurate, irrealistiche, non era assolutamente possibile che stesse soffrendo così, e allora capii, o perlomeno, ebbi una percezione infantile e confusa di qualcosa che avrei capito più tardi: lei era la vittima. Angelo era ormai completamente catturato, continuava a colpire, Teresa fece un altro tentativo di fermarlo ma inutilmente, a dire il vero non pareva un tentativo molto convinto, guardandola mi resi conto che non era affatto inorridita come voleva sembrare, anzi, stava sviluppando un'attrazione morbosa per ciò che accadeva, era visibilmente affascinata, in realtà lo eravamo tutti. Nessuno prestò attenzione ai rumori che venivano dal corridoio, eravamo troppo assorti, in quello stato di intensa e rapita concentrazione i i precipitosi e allarmati che si avvicinavano alla porta arono completamente inosservati, fummo quindi colti del tutto di sorpresa dal rumore della chiave che girava nella toppa: con uno strappo improvviso e disperato, Angelo abbassò di colpo le sottane, come un sipario che venga calato in tutta fretta, sulle carni ormai fiammeggianti della sua preda, noi ci scostammo trasalendo dal luogo del delitto, il battipanni cadde a terra con un rumore secco mentre la porta si spalancava sul viso inferocito della Maria. La ragazza Antonietta venne colta nell'atto di risollevarsi faticosamente dalla sua umiliante posizione; quando si voltò, i capelli neri e arruffati le ricadevano in una massa scomposta sul viso arrossato e inondato di lacrime. La Maria marciò su di lei come una furia, la afferrò per la pettorina, già inamidata e ora sgualcita dal penoso esercizio, e la scrollò senza pietà gridandole in faccia: “Cos'hai combinato? Si sentivano le urla fino in cucina. Eri tu che strillavi?” Tipico della Maria, prendersela con i sottoposti anziché con noi. Segretamente, tirammo un respiro di sollievo. Angelo si mise addirittura le mani in tasca, ci mancava poco che cominciasse a fischiettare. La Maria continuò a scrollare la malcapitata: “Eri tu, sì o no?” Visto che non rispondeva, si voltò verso di noi con cipiglio: “Le avete fatto qualcosa?” Fece una pausa intimidatoria. “Cosa le avete fatto?” “Noi?” esclamò l'Amalia in tono oltraggiato. Tutti scuotemmo la testa con aria virtuosa, innocenti. La Maria mollò la presa, non ci teneva a indagare più di tanto, e tornò a rivolgersi alla ragazza: “Allora?”
Nel frattempo, alla nostra vittima era venuta un'idea, e la espresse, per quanto improbabile potesse suonare: “Ho visto un topo, signora Maria.” La Maria ululò disgustata: “Un topo? qui dentro? Figuriamoci! E come ci sarebbe arrivato?” “Magari è scappato dalla dispensa” opinò Angelo, volenteroso. “Sì, certo, è senz'altro così”, l'Amalia lo spalleggiò senza esitare: “L'ho visto anch'io” aggiunse per maggior sicurezza. Di fronte a una presa di posizione così unanime, la Maria capitolò: “E c'era bisogno di urlare in quel modo?” disse alla poveretta. “Pareva che ti stessero scannando!” Ad ogni buon conto, le mollò un ceffone, che lei incassò senza fiatare. “Ti avevo detto di tenerli buoni, sì o no? “ Sospirò scoraggiata: “ Sei una buona a nulla. Tornatene in cucina...” La ragazza Antonietta, come le era stato insegnato, fece una piccola riverenza, cercò vanamente di sistemarsi il grembiule, e batté in ritirata con la massima velocità concessale dalle terga doloranti. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, la Maria ci guardò: piccolo gruppo incerto e ondeggiante, pronto a sfaldarsi al minimo urto, Mariano già sull'orlo delle lacrime, Angelo che si sforzava inutilmente di mantenere un'aria spavalda. Non l'avevamo ingannata affatto. Sospirò di nuovo: “Grazie a Dio, non siete figli miei”, disse, raccogliendo il battipanni.
Erano in camera di Teresa adesso, le sentivo parlare, dal mio nascondiglio riuscivo a vedere solo una piccola parte della stanza, uno spiraglio del letto e dei piedi nudi di Teresa e una minima porzione della sua camicia da notte, una camicia leggera di cotone bianco, nel mio campo visivo entrò per un attimo anche una caviglia più scura con relativo piede, meno aggraziato di quelli di Teresa, di forma più tozza, quest'ultimo piede un po' tozzo sparì quasi subito forse per favorire una posizione sdraiata della sua proprietaria, che fosse la Noemi non ero del tutto sicura, le voci erano basse, non afferravo le parole, l'ora era molto tarda. A parte il mormorio che proveniva dalla stanza, la casa era completamente silenziosa. Strisciai cautamente in avanti, ero accucciata sul pavimento del corridoio, dietro una cassapanca di legno che emanava un vago sentore di lavanda e di spighe. Da quella nuova postazione riuscivo a sentire meglio le voci, per vedere di più avrei dovuto sporgere la testa, ma non ne avevo il coraggio, per il momento mi limitai a tendere l'orecchio. “Si può sapere perché?” disse la voce della Noemi. Il tono era esasperato. Prima della risposta ci fu una pausa: “Così. Non mi andava”, la voce di Teresa era
evasiva, non potevo vederla ma immaginavo la sua espressione, distante, leggermente imbronciata, la sua faccia di quando mentiva. “Io non ti capisco”, la Noemi si stava innervosendo.”Perché sei venuta, allora?” Un'altra pausa, poi uno sbuffo di Teresa: “Oh, insomma, quanto sei noiosa! Sono venuta perché ero curiosa, no?” Il suo piede dondolava energicamente sotto i miei occhi sbattendo a intervalli contro lo zoccolo del letto, quel movimento esprimeva tutta la sua furia, rivendicava la sua libertà, la facoltà di agire senza dar conto a nessuno, foss'anche per puro capriccio. Ma la Noemi non si lasciava smontare: “E io che figura ci faccio? Mi hai detto di farlo venire, lui si aspettava chissà cosa, d'altra parte un appuntamento a quell'ora, chiunque l'avrebbe pensato, ed ecco che tu, tutt'a un tratto... Per non parlare del rischio che abbiamo corso, e per un bel niente, è questo che non...” Teresa la interruppe bellicosa: “È proibito cambiare idea, adesso?” Il piede dondolava incollerito, la voce della Noemi si fece suadente nel tentativo di rabbonirla: “Ma ne avevamo parlato, no? Sembrava che ti pie... Altrimenti, io non avrei...” “Va bene. Ho cambiato idea. È un delitto forse?” Il tono era sferzante, da parte della Noemi ci fu un sospiro di scoramento: “Ah, be', se devi prenderla in questo modo...” Ci fu un fruscio di vesti, seguito dallo schiocco di un bacio, la voce di Teresa si fece colomba: “Non ti arrabbiare. Non voglio che ti arrabbi...” sussurrò carezzevole. “Non l'ho fatto apposta, lo sai come sono, mi è venuto così...” Seguì una pausa. D'improvviso, la Noemi si mise a ridacchiare: “E la faccia che ha fatto, poveretto...” Scoppiarono a ridere entrambe, convulse, la risata di Teresa alta e cristallina, “Shhh”, fece la Noemi, le risa proseguirono più soffocate, Teresa farfugliò: “Non l'ho nemmeno vista, la sua faccia... Ho cominciato a camminare, e via di corsa, senza mai voltarmi...”, nuovo scoppio di risa, non riuscivano a fermarsi, la Noemi articolò fra i singulti: “Se lo ricorderà per un pezzo, questo è certo...” Ansimarono, sfiatate, la risata lentamente si acquietò. Io presi coraggio, e mi sporsi leggermente da dietro la porta. Ebbi una fugace visione di corpi sdraiati e capelli sciolti, bianche braccia distese sui cuscini. Teresa alzò la testa, io mi ritrassi all'istante. Ci fu un silenzio. “Hai sentito?” disse Teresa a voce bassissima. “Cosa?” rispose la Noemi sullo stesso tono. “C'è stato un rumore, come uno scricchiolio”, continuò lei circospetta, poi aggiunse, a voce ancora più bassa: “C'è qualcuno che ci ascolta.” La Noemi era scettica: “Ma va. A quest'ora? Dormono tutti da un secolo...” “Zitta”, Teresa si era alzata in piedi, la sentii avanzare fino alla porta, io ero già scomparsa dietro la cassapanca. Lei si affacciò, la vedevo dal basso, in controluce, sbirciò nel
corridoio, attese, io trattenevo il respiro, lei ascoltava, alla fine si voltò decretando: “Non si sente più niente.” “Te l'avevo detto”, la Noemi sbadigliava, si sentì un cigolio, Teresa che tornava a sdraiarsi. Anche lei sbadigliò, lentamente, languidamente. Con la voce impastata dal sonno, la Noemi disse: “Ma allora, se non è lui, chi è?” Ci fu una pausa. “Chi è chi?” Dal tono, si capiva che Teresa era all'erta. La Noemi sbadigliò di nuovo: “Ci sarà pur qualcuno, no?” “Non c'è nessuno. Non c'è mai stato nessuno”, Teresa era recisa. Forse troppo. Anche la Noemi se n'era accorta, perché rise teneramente, con indulgenza, poi disse: “Contenta tu...” “Cosa vuoi dire?”, Teresa cominciava a inalberarsi. “Se non vuoi dirmelo, non ha importanza” disse la Noemi, magnanima. “Anche se io, le cose mie te le racconto...” “Non è vero”, Teresa era trionfante, si sentiva su un terreno più sicuro. “Non è vero affatto. Ad esempio, non mi avevi detto...” “Oh, quello” concesse la Noemi. “Sì, certo. Non te l'avevo detto. Ma io intendevo a grandi linee. Non i dettagli...” “Io non lo chiamerei un dettaglio” disse Teresa, pungente. La Noemi s'irritò. “Oh, senti... Sei peggio dell'Amalia. E poi, pensavo che lo avessi capito...” “Da cosa avrei dovuto capirlo?” si stupì Teresa. “Non ti tengo mica d'occhio, io!” “Be'...” disse la Noemi, pragmatica “semplicemente perché era logico. Quando due persone si piacciono...” “Io non so niente di queste cose” la interruppe Teresa, fredda. “Non sai niente?” la Noemi era ironica. “No. Io non so niente”, Teresa rimase impermeabile all'ironia. Era chiusa nella sua corazza. Lo era così totalmente che la sua compagna decise di metter fine al colloquio: “Bene, se è così”, disse la Noemi, e sentii che si stava alzando “è proprio inutile continuare a parlarne.” Sospirò lievemente. “Ti dò la buonanotte” disse. Nel suo tono c'era una leggera sospensione, come se sperasse che nella sua interlocutrice potesse ancora aprirsi una breccia. Fu delusa. “Buonanotte” disse Teresa. Il tono era definitivo. “Buonanotte” ripeté la Noemi a voce più bassa. Non ci fu nessun suono che potesse indicare un abbraccio. Mi arrivò solo il fruscio delle vesti della Noemi, e il lieve rumore dei suoi i che si avvicinavano alla porta. Io me ne rimasi ben nascosta. La vidi are nel buio, silenziosa, il viso una macchia chiara nella gran massa oscura dei capelli. Camminava velocemente, a testa china, i piedi scalzi leggeri sul pavimento di pietra, quasi senza suono. Scomparve in un attimo. Io trassi un lungo respiro. Adesso, di là dalla porta c'era silenzio: aspettai. La
candela non veniva spenta; non c'era alcun movimento. Mi immaginai Teresa immobile nel letto, supina, ad occhi aperti. Mentre me ne stavo lì, ad ascoltare nell'oscurità, la casa non mi sembrava più tanto quieta, la sentivo riempirsi di mormorii, di sospiri, parole sussurrate a mezza bocca, invocazioni o lamenti, la condizione amorfa e fluttuante dei dormienti pareva materializzarsi in quell'ondata sonora formata dai mille piccolissimi rumori che ognuno di loro emetteva nel sonno, rumori impercettibili, echi di sogni o di rimorsi, esclamazioni soffocate, bestemmie, frammenti di preghiere, lacrime represse. Restai ferma, respirando appena, lasciando che lo spirito insonne della casa salisse fino a me e mi sommergesse nel suo flusso notturno, annegando i pensieri della veglia. Percepii più che sentire i piedi di Teresa posarsi sul pavimento, lo spostamento d'aria prodotto dal suo corpo che si alzava. Mi drizzai, pronta. Non stava uscendo. Sgusciai fuori dal mio nascondiglio, e avvicinai l'occhio alla fessura della porta: in questo modo il mio campo visivo era molto più ampio, potei vederla a figura intera, anche se dal basso, avviarsi alla finestra, spalancare le imposte, appoggiarsi con calma al davanzale. L'aria era tiepida, c'era una piccola falce di luna. Secondo l'idea che mi andavo formando, era previsto che aspettasse qualcuno. Invece, sembrava proprio che stesse solo respirando, inghiottendo l'aria a gran sorsate, come chi abbia bisogno di una tregua. Le stelle tremolavano leggermente sopra la sua testa. ò del tempo. Non arrivava nessuno. Tutto pareva indicare che mi ero sbagliata: il suo atteggiamento, la quiete della notte, l'ora ormai troppo inoltrata. Mi appoggiai allo stipite, continuando a guardarla, avvertendo distintamente come ad ogni respiro i battiti del suo cuore si andassero calmando, l'angoscia diminuisse, la mente poco a poco si placasse. Contagiata da quel ritmo decrescente, anch'io andai allentando la tensione, le membra si rilassarono, abbandonai gradualmente la posizione di vedetta. Lentamente, inavvertitamente, scivolai nel sonno.
In autunno, il tramonto è l'ora del camino. È l'ora in cui si accendono i fuochi, alla Maria spetta il compito solenne di accendere quello della cucina grande, qualche volta, se siamo nelle vicinanze, ci viene concesso il privilegio di incendiare la prima fascina: è bello guardarla mentre brucia, è bello, mentre fuori comincia a far buio, sedersi accanto al camino sul vecchio pavimento logorato dall'uso, a guardare la fiamma che brucia sempre più alta. È lì che ci troviamo, io e Mariano, all'ora del té e delle chiacchiere, sprofondati in un sopore contemplativo che ci isola dagli eventi occasionali del mondo circostante, andirivieni di domestiche, conciliaboli di cuoche e di giardinieri, pettegolezzi di
sguattere, un intero universo ancillare che si agita intorno a noi in una pausa fugace del lavoro pomeridiano, o già assorto nei preparativi del pasto serale; è lì che ci trovavamo quella sera, doveva essere la fine di ottobre, era stata una giornata di foschia e adesso fuori c'era già un po' di nebbia, senza dubbio precoce, non era ancora stagione. Le due donne arrivarono che era buio, noi eravamo lì da un bel po', e si sedettero dietro di noi, su una panca un po' discosta dal fuoco. Il fatto di vederci così immobili, ipnotizzati com'eravamo dallo spettacolo delle fiamme, deve averle convinte che fossimo immersi nel sonno. Quando hanno cominciato a parlare io non stavo ascoltando, mi ero persa in una fantasticheria inconcludente, la mia attenzione si è risvegliata solo a un certo punto, per l'esattezza alla frase: “È sempre stata un problema, fin da piccola...”, pronunciata con un sospiro. La voce era quella della nostra cuoca, Agata si chiamava, era con noi da moltissimi anni. Le rispose una voce che non conoscevo: “Io non ho niente da rimproverarmi” disse, lo disse lamentosamente, in tono difensivo, “Dio mi è testimone, non è colpa mia se è venuta così, gli altri li ho tirati su bene, sono dei bravi ragazzi, lavoratori, non c'è niente da dire sugli altri...” Fece una pausa. Era una voce di donna anziana, più anziana della cuoca. Avrei voluto voltarmi per vederla in faccia, ma temevo che smettessero di parlare. La voce aggiunse ansiosamente: “Non è vero forse?” “Ma sì, certo che è vero” mormorò la cuoca in tono rassicurante “sono dei bravi ragazzi i tuoi figli, lo sanno tutti in paese, dei bravissimi figli, tutti lo dicono...” Sospirò. “So bene che non è colpa tua, è nata così, cosa vuoi farci, questione di carattere, destino, quando il diavolo ci si mette...” “Una disgrazia” disse l'altra cupamente, “una disgrazia, ecco cos'è.” “Be', adesso non esageriamo” la cuoca tentò di mostrarsi ottimista “ancora non è detto, mi pare...” “Sì che lo è” insistè l'altra “è proprio questo che sto cercando di dirti, non hai capito?” Ci fu un silenzio. “Te l'ha detto lei?” mormorò la cuoca. “No, naturalmente. Lei non dice nulla. Nega e basta, capisci? Nega tutto...” “Ma allora come fai ad esserne sicura?” disse la cuoca riprendendo coraggio. “Non per niente ho messo al mondo nove figli” ribatté l'altra, con una sfumatura di orgoglio. “Vuoi che non sia capace di accorgermi, quando...” S'interruppe. “E poi, adesso si comincia a vedere” aggiunse più piano. “Ah” disse la cuoca. Calò di nuovo il silenzio. Io guardai Mariano di sottecchi, per capire se avesse ascoltato. Teneva gli occhi chiusi, la testa appoggiata sul palmo della mano, il respiro era lento e regolare. A meno che non fingesse, e da lui c'era sempre da aspettarselo, sembrava proprio che stesse dormendo. A voce molto bassa, la cuoca disse: “Che cosa vuoi da me, esattamente?” L'altra esitò: “Pensavo che sapessi qualcosa” rispose infine. “In fondo, eri qui, le volte che lei è venuta...” Adesso era la cuoca a stare sulle difensive: “Io? E cosa vuoi
che sappia? Certo, ero qui, ma non vuol dire niente, lo sai bene, c'erano ospiti a cena e in quei casi c'è sempre confusione, gente che va e che viene, e io ho ben altro a cui pensare, non posso mica starle dietro, io badavo alle pentole, lei andava a servire, come posso sapere che cosa faceva, se non mi sono mossa dai fornelli? “ Si fermò per riprendere fiato. L'altra taceva. La cuoca ricominciò con foga: “ Ma cosa ti sei messa in testa, vorrei sapere. Perché non potrebbe essere un ragazzo del paese? Ce ne sono tanti, che le girano intorno, mi pare. Potrebbe essere uno di quelli, no?” D'improvviso, l'altra rise forte, con scherno. “Tu non conosci mia figlia” disse poi. “Un ragazzo del paese! Figuriamoci! Tu non la conosci! Mira in alto, quella! Una principessa, si crede, ecco cosa... E invece è solo una povera stupida, te lo dico io...” Ci fu una pausa. Poi la vecchia riprese come fra sè: “C'è soltanto una cosa che vorrei sapere” disse. “Solo una cosa, e poi ti lascio in pace, te lo giuro...” “Quale?” chiese la cuoca. Le tremava la voce, lo sentii benissimo. Nel profondo silenzio che seguì, l'unico suono udibile era il crepitio del fuoco, e un leggero russare, forse simulato, che proveniva dalle parti di Mariano. Alla fine la donna si decise: “Il vecchio o il giovane?” chiese in un soffio. “Zitta!” la cuoca saltò su come una furia. “Sei diventata matta, o cosa?” L'altra non se ne diede per intesa: “Il vecchio o il giovane?” ripeté, alzando un po' la voce. “E io come faccio a saperlo?” disse la cuoca, irritata. “Che razza di domande!” Sentii che si alzava in piedi, come a indicare che la conversazione era finita. L'altra non la imitò. Ci fu un nuovo silenzio; il nervosismo della cuoca era palpabile. “Tanto, non è che cambi molto” disse la vecchia alla fine. “In ogni caso, lei è rovinata...”
Qualche giorno dopo, a fine mattinata, stavo attraversando il cortile in direzione delle scuderie con l'intenzione di vedere il puledro nuovo, papà l'aveva comperato il giorno prima, ne andava particolarmente fiero, in casa si diceva che fosse magnifico. Era una giornata tiepida di sole autunnale, e io mi sentivo euforica e vagamente stordita, come sotto l'influsso di una lieve ebbrezza, doveva essere quel caldo fuori stagione. Mentre mi avvicinavo notai una ragazza in piedi accanto al cancello, là dove cominciavano i campi. Era bionda e piuttosto sottile; da lontano non riuscivo a distinguerne i lineamenti, ma mi sembrava del tutto sconosciuta. L'atteggiamento con cui aspettava – perché aspettava indubbiamente – rivelava però una certa grazia, quello che la Maria
avrebbe definito “portamento”. All'inizio non le prestai molta attenzione, era solo una figuretta sullo sfondo, una macchia di colore, poi man mano che avanzavo venni catturata da qualcosa nel suo modo di stare in attesa, un'intensità, anzi una concentrazione estrema, come se si preparasse a spiccare un balzo. Nei giorni precedenti avevo rimuginato a lungo, cercando vanamente di identificare la protagonista del dialogo che mi era capitato di ascoltare. A giudicare da quel che avevo sentito, le occasioni in cui veniva da noi erano molto rare, giusto le grandi cene, che a casa nostra non erano affatto numerose, anzi, in sostanza si limitavano a pochissime date: Natale, Pasqua, e il compleanno di papà – un tempo anche quello della mamma, ormai da anni caduto in disuso per suo esplicito desiderio –; in questo caso, potevo benissimo non averla mai vista, o quantomeno non averla notata, un viso sfuocato sopra il grembiule nero, mani anonime che porgevano i piatti e cambiavano le posate: in circostanze del genere l'altezza del mio sguardo non superava mai il livello della saliera, tale era il timore di incorrere in un'occhiata incollerita, se non peggio, per qualche incomprensibile mancanza, l'etichetta in vigore per questo tipo di serate segnalandosi infatti per una severità particolarmente insensata. I miei tentativi di identificazione, se si esclude qualche momento di ingiustificata euforia per un'illuminazione rivelatasi fallace, erano dunque andati a vuoto; ma adesso, mentre guardavo la ragazza, ebbi la certezza assoluta che si trattasse di lei, me lo diceva la qualità della sua attesa, quella concentrazione quasi dolorosa, mi verrebbe da dire che stava aspettando con troppa forza, per un momento mi sentii investita dall'ondata potente della sua volontà come da un fascio di luce estremamente intensa. Ora che le ero più vicina, potei confermare l'impressione iniziale: non la conoscevo affatto; il viso era bello e delicato, non sembrava per niente una ragazza di paese, notai che si era vestita con molta cura, avrei detto con eleganza se non fosse stato evidente che gli indumenti non erano nuovi. Lei ricambiò il mio sguardo, in un modo che mi fece temere di averla osservata troppo a lungo; non era uno sguardo servile, era uno sguardo altero e sdegnoso, di colpo mi vergognai della mia gamba, del grembiule scolorito che portavo quel giorno, tutto sembravo tranne la figlia del padrone, comunque da come mi guardava – con ostilità, non c'era dubbio – era palese che sapeva chi ero. Tra noi due era senz'altro lei ad essere in vantaggio, sia per l'aspetto fisico che per la quantità di informazione, io non sapevo affatto chi lei fosse, anche se immaginavo perché era lì. Tutto questo muto scambio si svolse nel giro di pochi secondi, poi lei girò ostentatamente la testa verso i campi a guardare l'orizzonte, escludendomi completamente dalla sua vista, e con ogni probabilità anche dai
suoi pensieri. Mi allontanai verso la scuderia, zoppicando più del solito, come se lei mi stesse ancora guardando. Mi sentivo penosamente inadeguata. Al tempo stesso, la mia curiosità si era risvegliata in sommo grado, e una parte del mio cervello stava lavorando freneticamente a uno stratagemma che mi consentisse di assistere alla scena che avrebbe avuto luogo tra breve. Sul fatto che avrebbe avuto luogo, non nutrivo alcun dubbio. Lei era troppo determinata, non se ne sarebbe andata a mani vuote. Inoltre, qualcosa in lei, quella sua forza che avevo avvertito andole accanto, mi faceva escludere che l'uomo da lei atteso, chiunque fosse, potesse mancare all'appuntamento. Entrai nella scuderia, ancora immersa nelle mie congetture, e sprofondai immediatamente nella penombra e nell'odore caldo e familiare dei cavalli, li ai in rassegna meccanicamente camminando con i trasognati verso il fondo, dove presumevo si trovasse quello nuovo: mancava il grande baio di mio padre, registrai la sua assenza in modo automatico, senza alcun pensiero collaterale. Striature di luce penetravano dalle strette feritoie formando un pulviscolo nebbioso che si posava sulle criniere e sulle groppe, continuai a camminare in quello stato assorto penetrando nel tepore e nella semioscurità come in un ventre che si andasse richiudendo, avevo una sensazione lenta e fluida, quasi di galleggiamento. Arrivata in fondo mi fermai, dimentica di quel che stavo cercando, ebbi un attimo di disorientamento da cui mi riscossi, sì, ero venuta per vedere il puledro, mi guardai intorno e d'improvviso lo vidi, alla mia sinistra. Era davvero magnifico. Mi avvicinai per carezzarlo, lui scartò, nervoso, io mi ritrassi. Era diffidente. Mi ricordai che era appena arrivato. Rimasi ferma davanti a lui, aspettando che si abituasse alla mia presenza; se respiravo molto lentamente, potevo raggiungere un'immobilità quasi assoluta. Questo, papà ce lo aveva insegnato. Il cavallo abbassò la testa e raspò irrequieto nella sabbia con lo zoccolo, sbuffò, scosse la criniera, e tornò a guardarmi di sottecchi. Io non mi mossi. ò qualche tempo. Quando stavo per ritentare un approccio, si sentì un rumore all'ingresso. Qualcuno stava entrando. Mi tuffai istantaneamente dietro un mucchio di fieno lì accanto, la grande groppa scura del puledro mi nascondeva completamente alla vista di chiunque arrivasse dall'entrata. Questa possibilità non l'avevo messa in conto. La mia idea prevedeva che l'incontro sarebbe avvenuto all'aperto, e che avrei potuto osservarlo comodamente dall'interno. Invece, i due stavano puntando dritti verso il fondo della scuderia; lei veniva per prima, da sotto la pancia del puledro potevo vedere i suoi stivaletti neri, dal tacco leggermente consumato, calpestare con cautela la paglia che copriva il terreno, seguiti da un paio di stivali maschili
da lavoro, molto usati, che procedevano con maggior noncuranza. Si fermarono a pochi i da me. Sopra gli stivaletti, era visibile l'estremità della gonna di lei, una gonna grigia da cui spuntava una leggera sottogonna di trina. C'era silenzio. Gli stivali maschili si avvicinarono confidenzialmente agli stivaletti, cercando di aprirsi un varco tra i piedi di lei. Gli stivaletti resistettero. La voce di lei disse: “No”. Ci fu un fruscio, la voce ripeté, più soffocata: “No. Non sono venuta per questo...” Mi arrivarono altri rumori che sembravano di lotta, poi uno schiocco secco come di stoffa che si strappava, infine un suono lungo e liquido che non riconobbi. Gli stivali riuscirono finalmente a farsi strada tra i piedi di lei, il fruscio si ripeté, seguito da un sospiro; la voce dell'uomo mormorò qualcosa di inudibile. “No” disse lei in un sussurro. Ora, oltre agli stivaletti, potevo vedere anche un breve tratto dei suoi polpacci, fasciati da calze nere di lana pesante. La gonna, a quanto pareva, era stata sollevata. “No, no, no...” disse lei, ma adesso era quasi un lamento. L'uomo mormorò di nuovo, la voce era bassa e molto roca, irriconoscibile per me. Cominciai ad avere paura. Gli stivaletti si sollevarono da terra, allacciati alle gambe di lui. Subito dopo, lei emise un gemito. Lui disse qualcosa, ma il respiro era molto affannoso, e non riuscii a capirlo. Gli stivali si inarcarono in avanti; lei riprese a gemere. Era un gemito lungo e sommesso, leggermente in crescendo, con alcuni picchi più acuti. L'uomo continuava a mormorare, frasi smozzicate e incomprensibili, interrotte dall'affanno crescente del respiro. Io cominciai a sudare. Il cuore mi batteva all'impazzata, avrei voluto fuggire ma non sapevo come, ero intrappolata, da quella parte non c'erano uscite. Ormai non vedevo più nemmeno gli stivali, dovevano essersi spostati, probabilmente per appoggiarsi al muro. Sentivo il tonfo dei corpi contro la parete. Li sentivo ansimare fortissimo, adesso era lei a dire frasi sconnesse, l'uomo aveva smesso di parlare. Improvvisamente, lei gettò un grido. Lui gemette, gridò a sua volta, molto forte, poi emise una specie di rantolo. Ci fu silenzio. Per un po' si sentì solo l'ansimare, che si andava lentamente placando. Io avevo chiuso gli occhi, e mi veniva da vomitare. Poco prima, quando aveva gridato, l'uomo aveva detto una parola, una parola che ci avevano insegnato a non ripetere, e l'aveva detta ad alta voce. Anche se era alterata dall'affanno, non avevo potuto evitare di riconoscere la voce di mio padre. Il respiro dei due si era calmato; si sentì un fruscio, come di vesti che venissero rassettate. Dopo una pausa, la voce di lei disse: “Ti dò una settimana”. “Ah sì? “ la voce di papà suonava divertita. “E poi, cosa succede?” I loro piedi erano rientrati nel mio campo visivo; adesso, con tutta evidenza, gli stivali si tenevano
ben lontani dagli stivaletti. “E poi vedrai” disse lei, evasiva. “Vedrò?” Il divertimento si era trasformato in sarcasmo. Lei lo sentì, e rispose con sfida: “Posso fare molte cose, sai. Posso andare da tua moglie. O anche dai tuoi figli. E dire a tutti quanti...” La risata di papà fu breve e secca, con una punta di allegria feroce. “Provaci soltanto” disse. Non si prese nemmeno la briga di assumere un tono minaccioso. Vidi gli stivali voltarsi, e dirigersi perentori all'uscita. Il suono dei suoi i si affievolì rapidamente; in un attimo, se n'era andato. Rimasi dov'ero, aspettando. La ragazza si lasciò scivolare a terra, come se le forze l'avessero abbandonata. Non la vedevo ancora in faccia, perché i capelli, che si erano sciolti, le coprivano parte del viso. Per un po' non si mosse, restò lì sdraiata a guardare il soffitto. Poi sembrò riscuotersi, e iniziò lentamente a rimettere ordine nel suo abbigliamento, alquanto devastato, per la verità. La camicetta aveva uno strappo intorno al collo ed era sollevata sul petto, scoprendo quasi interamente il seno bianco e pieno, un seno giovanile, dai capezzoli rosei; commovente, in un certo senso. Non so perché, pensai a Teresa. La ragazza cercò di agganciare il colletto con una spilla, rimediando malamente al danno, poi cominciò a ravviarsi i capelli. Mi chiesi se le fosse capitato altre volte di tornare a casa in quelle condizioni. Data la brutalità dell'approccio, dovevo supporre che i suoi incontri con mio padre fossero stati abbastanza frequenti; lui sembrava, a dir poco, piuttosto sbrigativo. O forse quella era la sua modalità abituale? Tutto ciò era per me assolutamente misterioso, com'era misterioso quell'estraneo che poco prima avevo sentito gridare, in preda a un'emozione a me ignota. La ragazza continuava a pettinarsi, raccogliendo nuovamente i capelli in una crocchia. Adesso potevo vederla in faccia, e con mio stupore mi resi conto che non aveva affatto l'aria sconfitta, né avvilita: anzi, aveva negli occhi una determinazione assoluta, sentii di nuovo molto intensamente tutta la forza della sua volontà. Credeva davvero di riuscire a ottenere qualcosa? Non era possibile che fosse così ingenua, pensai. E poi, cosa poteva ottenere? Soldi, immaginai confusamente. Doveva trattarsi di quello... A meno che non fosse così pazza... Nel frattempo, lei si stava alzando. Con una mano scosse via la paglia dalla gonna, ed ecco, era di nuovo in piedi, gli stivaletti indomabili già pronti a riprendere la strada, l'orlo di trina accuratamente inamidato ormai stracciato e sporco, sopra le calze nere che adesso non vedevo. I tacchi consumati si voltarono; vidi i suoi i veloci, in prospettiva, attraversare il pavimento della scuderia scandito da lame di luce. In lontananza, molto fievole, arrivò il suono di una camla. Era l'ora di pranzo.
A tavola papà era in ritardo. Quell'attesa per me fu un supplizio, acuito dall'assenza della mamma, che quel giorno era rimasta in camera a causa di un'emicrania, o così aveva detto. Il pranzo le era stato portato di sopra su un vassoio: era un privilegio di cui non poteva abusare se non in caso di malattia conclamata, in altre evenienze papà non tollerava posti vuoti, la famiglia doveva essere al completo, e la mamma era tenuta a dare il buon esempio. Quel giorno però lui tardava, e tra di noi serpeggiava un'irrequietezza inspiegabile, i ragazzi erano sfrenati, avevano ingaggiato una specie di battaglia, Gabriele e Mariano soprattutto, Angelo ad un tratto era intervenuto e li aveva separati molto rudemente, sembrava di umore cupissimo. Teresa era languida e svogliata, sbadigliava, guardava fuori in silenzio. Dato il caldo insolito, la portafinestra sul giardino era spalancata. Si sentirono i i di papà sulla ghiaia; io abbassai fulmineamente lo sguardo. Non sopportavo l'idea di guardarlo in faccia. Lo sentii entrare, le voci dei miei fratelli mormorarono in coro “Buongiorno signor padre”, mentre io non riuscivo ad articolare parola. Lui per fortuna non ci fece caso. Continuai a tenere la testa bassa; seguì il rumore della sua sedia a capotavola che veniva scostata, il peso del suo corpo che vi si calava, la voce, allegra e perentoria, rivolta alla Maria: “Cosa c'è da mangiare?” Era di buon umore, constatai stupefatta. Gli lanciai una rapida occhiata. Aveva un ottimo aspetto, pensai, sembrava così vigoroso e in buona salute, e molto contento di sè. Si lisciò la barba con aria soddisfatta, e sorrise. Angelo lo guardava torvamente. Lui se ne accorse, e disse in tono amabile: “Qualcosa non va?” Di solito, quel tono non prometteva niente di buono. Angelo non raccolse la provocazione. “Va tutto bene” rispose. Papà sorrise perfido: “Va tutto bene, signore “ disse. Voleva litigare, era chiaro. Angelo non lo assecondò: “Va tutto bene, signore” ripeté diligente, in tono meccanico. Papà rimase spiazzato. Era assolutamente insolito che mio fratello fosse così obbediente; mi domandai cosa stesse accadendo fra di loro, avvertivo una corrente sotterranea molto forte, fatta di sentimenti complessi e potenti, del tutto ingovernabili, per un attimo mi balenò il pensiero che una corrente così forte avrebbe finito per travolgerci tutti. Nel frattempo, papà guardava Angelo senza parlare, giocherellando distrattamente con le posate; evidentemente stava cercando il modo di sferrare l'attacco da un altro lato, visto che l'avversario si dimostrava tanto impermeabile. “Non hai una bella cera” disse infine, in tono soave. “Credo che un cambiamento d'aria ti farebbe bene. In certi casi è la cosa migliore. Soprattutto alla tua età. Sì, ti farebbe bene senz'altro” concluse paternamente,
rivolgendogli un sorriso di benevolenza. “A me, signore?” Angelo era disorientato. Non capiva dove stesse andando a parare; a dire il vero, non lo capivo neanch'io. “Potresti andare a Vicenza, da tuo zio” papà proseguì senza ascoltarlo, con indefettibile bonomia. “Lui ha bisogno d'aiuto, lì in studio, un ragazzo volenteroso gli farebbe comodo, e intanto tu potresti guardarti un po' intorno, darti da fare, conoscere la vita di città... Sei troppo grande ormai, per continuare a ciondolare qui in campagna, non trovi?” “Io non ciondolo, signore” Angelo si sforzava di trattenere la collera “io lavoro. Mi occupo della proprietà. In fin dei conti, questa terra è anche mia...” “Che cosa?” papà lo interruppe. La voce era pericolosamente calma. “Cos'è questa terra?” Fece una pausa. Nessuno parlò. “Che cos'hai detto?” Calò un silenzio di tomba. Angelo guardava fisso davanti a sè. Noi stavamo immobili, aspettando l'esplosione. “Finché sono vivo io, questa terra è mia, e di nessun altro” disse nostro padre, scandendo le parole. “È chiaro?” Lanciò un'occhiata circolare intorno al tavolo, accomunandoci in un generale disprezzo. “Nessuno di voi può accampare diritti su questa terra. Il padrone sono io. E ne faccio quel che mi pare.” Cominciò a tamburellare sul tavolo, segno che da un momento all'altro poteva scatenarsi l'inferno. “Alla mia morte, forse sarà vostra. Dico forse. Perché non sono affatto obbligato a lasciarla a voi. Siete un branco di buoni a nulla. Non sapreste gestirla. Vi fareste mangiare tutto. Non voglio lasciare la proprietà a degli incapaci. Piuttosto la lascio ai preti. Sì, piuttosto la lascio ai preti” ripeté con un sorriso maligno, guardandoci uno a uno. “Non c'è uno di voi che valga un soldo bucato. E ricordatevi che voi non avete niente. Voi non siete niente. Non avete nessun diritto. Non più dei miei fittavoli. Anzi, meno. Loro, se non altro, la terra la fanno fruttare. Voi siete solo dei parassiti.” Battè il pugno sul tavolo. “Solo dei parassiti” ripeté. Si alzò, scostando rumorosamente la sedia. “Mi avete rovinato l'appetito” disse. Alla Maria, che stava entrando con la minestra, fece un cenno imperioso, indicandole di tornare in cucina. Nessuno di noi aveva mangiato. “Quanto a te” continuò rivolto ad Angelo “finché stai in questa casa, fai quello che dico io e basta. Senza discussioni. Chiaro?” Angelo continuò ostinatamente a guardare davanti a sè. Noi ce ne stavamo in silenzio, sperando di scongiurare la tempesta. Lui ci guardò dall'alto, con infinito disdegno. Scosse la testa con commiserazione e sbuffò, come a significare che non valevamo nemmeno una scenata; poi, maestosamente, uscì dalla stanza.
Mi inoltrai lungo le rive del ruscello. Le voci venivano dalla panchina sotto il salice. La notte era molto buia, soffiava un vento di scirocco, nuvole veloci si accavallavano sopra la mia testa scoprendo a tratti una luna nebbiosa; c'era un odore forte di erba bagnata, come un annuncio di pioggia. Il rosario era finito da poco, io ero scappata di nascosto dalla porta della cucina, approfittando di un'assenza della cuoca. Non faceva tanto freddo. Mentre mi avvicinavo, mi arrivò chiara la voce di Angelo: “Tu devi essere pazza”, disse. Non ci fu risposta. Mi fermai trattenendo il respiro. Nell'oscurità era difficile distinguere le due figure, una di profilo, seduta sulla panchina, l'altra di spalle, in piedi davanti a me. La figura di spalle ripetè: “Devi essere pazza”. La donna sulla panchina continuò a tacere. Poco a poco, cominciavo a riconoscere i contorni, qualche particolare, la crocchia bionda raccolta sulla nuca, il profilo delicato, il vestito, sempre lo stesso – senza dubbio l'unico buono che possedeva –, la breve trina della sottogonna, ora di nuovo inamidata. La figura di spalle cominciò a camminare su e giù a i agitati, potevo vedere di tre quarti il viso di mio fratello, l'espressione indecifrabile nel buio, la mascella serrata, percepivo la sua furia dalla velocità dell'andatura, d'improvviso si fermò e disse: “Non penserai che voglia rovinarmi”. Lei rimase ferma e silenziosa, potei nuovamente apprezzare la sua capacità quasi animale di stare in attesa. “Non penserai che voglia rovinarmi?” ripeté lui, a voce più alta stavolta, e in tono interrogativo. Pensai che si ripeteva un po' troppo. Era evidente che il silenzio di lei lo metteva a dura prova. “Per una come te, poi”, aggiunse. Lei non reagì neanche a questo. Ci fu una pausa. Lui continuava ad andare su e giù, a un certo punto diede un calcio a una pietra, con rabbia. Lei non si mosse, non ebbe nemmeno un fremito. “E poi, chi mi dice che sia mio?” disse lui. “Non eri mica vergine, quando...” “Sei veramente spregevole” disse lei. Lo disse in tono piano, come una semplice constatazione. Mio fratello sussultò. Pensai che aveva ancora parecchio da imparare, papà aveva sprecato molto meno fiato. Con tutta evidenza, in questo caso era lei ad avere la meglio: Angelo non le faceva paura, si vedeva benissimo. Si alzò con calma: “Ti dò una settimana” disse. “Poi vado a parlare con tuo padre”. Provai un moto istintivo di ammirazione. Aveva coraggio, su questo non c'era dubbio. La osservai mentre si girava e si avviava senza fretta, l'andatura lievemente ancheggiante, il gesto leggiadro con cui reggeva l'orlo della gonna perché non si sporcasse; la vidi scavalcare la siepe di recinzione e inoltrarsi nei campi, dove l'oscurità si faceva più fitta. Per un attimo mi chiesi dove abitasse. Certo non in paese, altrimenti avrebbe preso l'altra strada. Immaginai un casolare
da qualche parte, là in fondo nella tenebra densa. Mio fratello rimase immobile a guardarla, mentre la figurina di lei rimpiccioliva rapidamente e spariva alla vista, inghiottita dal paesaggio notturno.
arono dei giorni senza storia, quel caldo innaturale continuava, le mattinate erano lente e afose, i crepuscoli precoci e sanguinanti, tutti eravamo in preda a una strana indolenza, io me ne stavo quieta e osservavo, incosciamente aspettavo la scadenza, penso che mio padre e mio fratello fero lo stesso, inconsciamente aspettavano, ognuno a suo modo, evitando il più possibile d'incontrarsi. Discussioni non ce ne furono altre, a tavola regnava il silenzio, la mamma stava spesso male, forse per via del clima, o perlomeno così diceva, di fatto ava le giornate in vestaglia, a sonnecchiare nella sua stanza; un giorno che finalmente scese a pranzo, benché si fosse presa la briga di sfoderare uno dei suoi abiti migliori, era di un pallore così impressionante che perfino papà ebbe paura, arrivò al punto di insistere per chiamare il dottore, la mamma non volle saperne. La settimana successiva, era un martedì, noi sorelle ci stavamo preparando per andare in paese insieme alla Maria. Il martedì era giorno di mercato, e occasionalmente ci veniva concesso questo svago, accompagnare la Maria e are una mattinata ariosa e inconcludente eggiando in mezzo ai banchi, osservando la gente, a volte addirittura provando dei vestiti, naturalmente senza comprare nulla perché soldi non ne avevamo, la borsa la teneva saldamente la Maria e la usava soltanto per le spese di casa, in rare occasioni poteva capitare che ci desse qualcosa per comprare dei dolci, ma molto controvoglia, mangiare fuori pasto era comunque un'infrazione. Io quel giorno nicchiavo, avrei voluto restare a casa, per un attimo accarezzai l'idea di fingere un malore, temevo che allontanandomi avrei potuto perdere qualcosa, lo svolgimento tanto atteso, la scena finale del dramma: fantasticavo cose straordinarie, forse perfino un autentico scandalo, mi domandai come sarebbe stato. La parola evocava scene romanzesche, immaginavo confusamente urla e svenimenti, oggetti rovesciati, la mamma riversa nel suo pallore, la mamma soprattutto, e le donne di casa, tutte in nero come in una tragedia, un coro lugubre e compatto di riprovazione e sgomento... Teresa quella mattina non sembrava mai sazia di bighellonare tra le bancarelle, le
soste per me erano estenuanti, lei e la Noemi si fermarono a lungo al banco di una vecchia che vendeva gioielli, interminabilmente Teresa estraeva dal mucchio lunghissimi fili di collane, quarzi scintillanti e ambre opache, e il freddo bagliore delle giade, “no” diceva la Noemi scuotendo la testa, secondo me lo diceva per dispetto, “no, non ti donano, è la carnagione, hai una carnagione difficile tu”, Teresa continuava a sfilarsele e a provarne di nuove, d'improvviso la mano le cadde su un girocollo di rubini, sembrava molto prezioso, “di sicuro saranno falsi” disse l'Amalia con aria maligna, Teresa regalmente la ignorò e se lo allacciò intorno alla gola: un taglio sanguinante sulla gola candida, la sua candida gola, la vecchia ebbe un fremito di ammirazione, “com'è bella”, disse. “No” disse la Noemi facendosi avanti, “porta male”, disse, sembrava veramente spaventata, Teresa si guardava allo specchio, non ascoltava, con aria sognante ò un dito sulle pietre della collana, sospirò, poi lentamente cominciò a slacciarla. “Tanto non ho soldi” disse. “Cosa fai” la rimbrottò la Maria che arrivava in quel momento, carica di ortaggi, “ancora qui a perder tempo coi gioielli, fai un po' vedere”, anche la Maria ha un debole per i gioielli, poveretta, non ne ha mai avuti, soltanto il crocifisso della comunione, Teresa si girò mettendo in mostra la collana, “non è meravigliosa”, disse, “tanto lo so che non possiamo comprarla”, la Maria ebbe un sobbalzo, “toglitela subito” disse, “porta male”: fece un o avanti e gliela tolse, imperiosamente. “Gliel'ho detto anch'io” fece notare la Noemi di rincalzo, con una certa soddisfazione. Teresa lasciò fare, docilmente permise che la Maria rimettesse la collana al suo posto, con un'ultima occhiata di rimpianto si lasciò condurre via mentre la vecchia del banco sussurrava: “Torni, signorina, gliela terrò da parte. Torni, mi raccomando”, la Maria si girò a fulminarla con lo sguardo, “Brutta strega”, disse, lo disse a voce bassa per non farsi sentire, mentre ci allontanavamo la udii mormorare qualcosa a fior di labbra, sicuramente uno scongiuro, con una mano teneva saldamente il braccio di Teresa che si faceva portare via senza dir nulla, la testa leggermente reclina, gli occhi socchiusi, “Mai più” sussurrò la Maria in tono feroce, “mai più ti devi avvicinare a quella, è una strega, io la conosco”, le scrollò il braccio con forza, “hai capito?”, aggiunse minacciosa, Teresa annuì senza parlare, sembrava che non ascoltasse. Il ritorno si svolse in un silenzio irreale, Teresa era assorta e come incantata, la Maria scura in volto, io invece avevo il cuore in gola, qualcosa era successo, ne ero certa, scrutavo ansiosamente la strada aspettandomi che qualcuno spuntasse all'orizzonte, chi o che cosa precisamente non sapevo, ma oscuramente presagivo catastrofi, la polvere si alzava dal sentiero sterrato su cui il nostro cavallo
avanzava lentamente, noi stavamo sedute sul carretto con le gambe penzoloni, la Maria taceva, dietro la collina il cielo si andava scurendo, forse stava per piovere, pensai, quel caldo fuori tempo sarebbe finito. Quando apparve la casa, tutto sembrava tranquillo, la grande aia deserta nella quiete dell'ora di pranzo, non ava nessuno, solo qualche gallina, per il resto silenzio e vento. Gli altri erano già a tavola quando entrammo, c'era anche la mamma, intorno al collo un nastrino di velluto con appeso il suo famoso cammeo, erano anni che non lo metteva, andammo a sederci con aria colpevole mentre la Maria scompariva in cucina, qualcosa è successo, continuavo a pensare, anche se non avrei saputo dire perché, ad esempio era strano che papà non parlasse, eravamo in ritardo, non c'erano dubbi, eppure lui continuava a tacere, semplicemente evitava di guardarci. Mangiammo la minestra e l'arrosto in un silenzio assoluto, la stanza si andava facendo sempre più buia per via dell'approssimarsi del temporale, al dolce cominciò a piovere, prima leggermente, poi a scrosci, all'improvviso papà scostò la sedia e disse: “Voi quattro” intendendo noi femmine “questo pomeriggio partite per Abano con vostra madre. Ho già ordinato la carrozza. Sarà qui per le sei.” Si alzò, segnale che il pranzo doveva considerarsi finito. Disciplinatamente, tutti lo imitammo. “Cosa state aspettando?” disse lui bruscamente, voltandosi verso di noi. “Andate a fare i bagagli. Alle sei, ho detto!”
Da un lato c'è una navicella su un mare piuttosto agitato, e intorno c'è scritto “In Tempestate Securitas”. Dall'altro, un cavaliere dall'elmo piumato che trafigge una specie di ramarro con le ali, devo suppore che sia un drago, infatti c'è scritto “S. Georgius Equitum Patronus”, San Giorgio patrono dei cavalli. È un medaglione d'oro, credo che appartenesse al nonno, di solito papà lo tiene appeso alla catena dell'orologio. Oggi invece l'ho trovato per terra in giardino, vicino a un cespuglio di Madame Hardy, le rose preferite della mamma. L'ho raccolto – con sforzo, per via della gamba – e non so perché me lo sono tenuto: come se fosse un indizio, ma un indizio di cosa? Ormai è parecchio che non piove, dev'essere dalla fine di giugno, se non sbaglio è proprio dalla sera di San Giovanni, me lo ricordo perché è la sera che i contadini vengono a ballare sull'aia, è l'unico giorno in cui gli è permesso, ballare qui sotto intendo, una volta scendeva anche papà e apriva le danze, i primi tempi addirittura con la mamma, aprivano graziosamente le danze seguiti
dai fittavoli accalcati, poi la mamma si accasciava sotto il portico con un ventaglio e papà proseguiva con le mogli e le figlie dei contadini. Adesso si limita ad assistere dal portone con benevolenza padronale, è raro che intervenga, ogni tanto qualcuno dei capofamiglia più vecchi e rispettati gli si avvicina con un cenno e siedono insieme annuendo austeramente, scambiano poche parole, bevono vino dei colli, nell'aria c'è odore di carne arrostita. Quest'anno invece Teresa ha insistito per essere lei ad aprire le danze insieme a papà, lui dapprincipio era restio, ma lei ha fatto il diavolo a quattro finché non l'ha convinto, noi femmine di solito restiamo di sopra, al massimo guardiamo dalla finestra, da bambine invece correvamo in gruppo con i figli dei contadini, davamo fastidio a quelli che ballavano e soprattutto facevamo un gran chiasso, una volta mi ricordo che il figlio del custode, quello piccolo che adesso è andato in città, mi ha tirato in un angolo e mi ha guardato sotto la gonna, se ci penso mi vengono ancora le lacrime. Quest'anno comunque Teresa ha insistito, e alla fine papà le ha detto di sì, si era messa un vestito bellissimo, ho pensato che era troppo per una festa di contadini, d'altra parte è anche vero che non andiamo mai da nessuna parte. Il vestito era molto scollato, non so papà cosa ne pensasse ma per una volta non ha detto nulla, lei aveva i capelli tirati su e sembrava felice, quando hanno cominciato a ballare c'è stato un applauso: Teresa ha sorriso trionfalmente e ha alzato gli occhi in direzione della casa, per un attimo ho creduto che ci stesse guardando, poi ho capito che guardava più a sinistra, verso la finestra dove, nascosta dietro la tenda, presumibilmente si trovava la mamma. Io stavo sul balcone insieme alla Maria, c'era anche l'Amalia, all'applauso ha sbuffato ed è tornata dentro, la Maria invece si è commossa, ho sentito che tirava su col naso, in quel momento ci ha raggiunto la cuoca, “sembra proprio la signora da giovane”, ha detto, la Maria le ha dato un'occhiataccia e si è segnata, non ho capito perché, poi ha detto, molto secca: “La signora non era così bella”. Dal balcone avevo la vista di tutto il cortile, la gente si accalcava per guardare, papà conduceva Teresa con grazia, è ancora un buon ballerino, e sì che non si tiene molto in esercizio, anche lui faceva una discreta figura e per un attimo sono stata orgogliosa, volteggiavano con grazia in mezzo a due ali di folla e nessuno si azzardava ad imitarli, le altre coppie di ballerini ferme ai lati della pista, i contadini ai tavoli con le forchette a mezz'aria, tutti a guardare Teresa che ballava sorridendo a papà, sfavillante, dimentica di tutto, o almeno così pareva. Dal fondo è arrivato un rumore di zoccoli, era Angelo, è sceso da cavallo davanti
al cancello e sembrava infuriato, il suo arrivo ha spezzato l'incantesimo, di colpo i ballerini si sono riscossi e sono entrati nella pista, la gente ha ripreso a mangiare e a chiacchierare, Angelo si è diretto alle scuderie in atteggiamento di palese disdegno, nel frattempo era calata la notte. Poco dopo, in giardino hanno le fiaccole. L'aria era dolce e odorava di fieno, si era alzato un po' di vento, in un angolo si arrostivano salsicce. I ballerini danzavano lentamente, amorosamente, seguendo la coppia padronale che guidava trasognata in un'aria di valzer. È stato allora che ha cominciato a piovere, grosse gocce silenziose come lacrime hanno preso a cadere allagando le tovaglie, riempiendo i bicchieri, inzuppando i vestiti delle donne. Papà e Teresa si sono bloccati per un attimo, come frastornati, poi lei è corsa a mettersi al riparo, si è rifugiata ansando sotto il portico e si è fermata a guardare la pioggia, io la osservavo dall'alto, non riuscivo a vederla bene in faccia, papà invece si è messo a dare ordini vociando per sgomberare il cortile, le contadine scappavano, c'è stato un fuggi fuggi, in breve tempo lo spiazzo era vuoto. “Andate dentro” ci ha intimato la Maria, e ha chiuso bruscamente il balcone, con fracasso. Le altre sono sfollate all'interno in uno sciame disordinato, avviandosi verso le stanze di sopra. Io ho finto di seguirle, per poi tornare indietro in silenzio, e riprendere il mio posto d'osservazione dietro il vetro. Quando mi sono affacciata, Teresa era ferma in mezzo al cortile, sola, sotto la pioggia battente, i capelli le si erano sciolti e scendevano bagnati lungo la schiena, il vestito fradicio s'incollava ai seni, il viso dagli occhi serrati proteso avidamente a ricevere l'acqua. Per molto tempo, più tardi, mi sono chiesta che cosa provasse, probabilmente una forma di trionfo, o forse qualcosa di più complicato, un misto di dolore e vergogna, ma anche una specie di sfida, non so, ancora adesso non sono in grado di dirlo.
L'unica volta che abbiamo visto il mare è stato di sfuggita, dalla sommità di una collina. Stavamo tornando da una visita alla zia suora, una sorella di papà, più anziana di lui, seppellita da anni in un convento di semiclausura, sorte più volte evocata e minacciata per noi figlie nei momenti di collera, e particolarmente temuta dalla Noemi, una volta c'era stato addirittura uno scambio di corrispondenza in questo senso, o così almeno si favoleggiava, queste lettere non divulgate, e forse inesistenti, in cui si decideva la sua segregazione popolavano gli incubi della Noemi, e credo le fero meditare la fuga, la sorte della zia suora sembrandole di gran lunga peggiore della morte. Non che la povera zia
fosse finita in convento a causa della sua indisciplina, tutt'altro, era una creatura mite e inoffensiva dagli occhi azzurri un po' sbiaditi a cui di certo non si poteva imputare un'adolescenza ribelle, sicuramente la sua reclusione era frutto della decisione arbitraria e inappellabile di un padre ancor più dispotico del nostro, o dall'autorità ancor più indiscussa; lei d'altra parte non si era opposta, credo anzi che fosse confusamente grata al destino di averle fornito un'esistenza al riparo dalla dannazione della scelta: dava la sensazione, nella sua mansuetudine priva di curiosità, di considerarsi una privilegiata. Aveva l'abitudine di riceverci, in occasione della nostra visita annuale, in un piccolo chiostro interno ombreggiato da alberi molto frondosi, solitamente si andava a trovarla verso la fine della primavera, e anche in giornate molto calde ci faceva servire, come segno di particolare distinzione nei nostri confronti, una cioccolata bollente peraltro squisita, immutabile nel tempo, accompagnata da immutabili biscotti fatti a treccia. Era per lei, credo, l'unica occasione mondana dell'anno, le visite al convento erano rigidamente limitate, e abitualmente gli uomini non erano ammessi, penso che nel nostro caso fero un'eccezione per via della munificenza di papà, in queste cose non era avaro, più che altro, ritengo, per superstizione, oltre che per tradizione di famiglia, Dio è meglio tenerselo buono, non si sa mai. La zia suora ci faceva accomodare su antiche e scomode panche di legno sotto gli alberi, e qui iniziava una conversazione sconcertante fatta di domande infantili e antiquate che denotavano la sua assoluta ignoranza degli usi sociali, era entrata in convento molto giovane, e senza dubbio non era dotata di qualità speculative, a tutte le nostre risposte, anche le meno eccentriche, manifestava un mite stupore accompagnato da uno scrollar del capo, il mondo doveva sembrarle un luogo ben strano. Io in questi casi mi distraevo, tanto era raro che venissi interpellata, guardavo il chiaroscuro del fogliame e ascoltavo gli uccelli, altri rumori non ce n'erano, a tratti, con una folata, il vento portava l'odore del mare vicino. “Sì, è stato l'altr'anno”, era la mamma a parlare, rispondeva paziente a una domanda che non avevo udito, la voce un po' soffocata dalla spessa veletta che papà le faceva indossare in queste occasioni. A quell'epoca usciva ancora. Credo che considerasse la zia suora un'interlocutrice noiosissima, in effetti la sua conversazione era sfibrante, ma la mamma era troppo beneducata per darlo a vedere, si trattava pur sempre di una parente anziana, per giunta reverenda, inoltre credo che la mamma provasse un'inconfessata attrazione per il convento in quanto tale, più di una volta all'uscita l'avevo sorpresa nell'atto di voltarsi con
uno sguardo di rimpianto, era chiaro che avrebbe desiderato restare, d'altra parte è difficile biasimarla. Suor Agnese – questo il nome della zia suora, da cui il mio, forse l'idea originaria era quella di farmi fare la stessa fine – scosse la testa e sospirò. “Il tempo a così in fretta” disse in tono lamentoso. Questo era il tenore abituale delle sue osservazioni, salvo talvolta uscirsene all'improvviso con un commento stupefacente. Oltretutto non aveva la benché minima memoria per i nomi, quindi ogni volta era necessario ripeterle i nostri, soprattutto quelli dei maschi, che si ostinava a confondere tra loro. L'unica cosa che sembrava destare la sua attenzione era la storia della famiglia, peraltro non particolarmente gloriosa, essendo il nonno – suo padre – un comunissimo ladro di cavalli, poi arricchitosi e diventato rispettabile. Una volta possidente si era fatto straordinariamente moralista e bigotto, vietando qualunque allusione al suo non irreprensibile ato, che di conseguenza si era trasformato in leggenda. La zia suora di questo non parlava. È anche possibile che non ne fosse a conoscenza. Il suo interesse era tutto per certe lontane prozie, che avevano condotto un'esistenza ritirata ed erano, a suo dire, in odor di santità. Su questo argomento si diffondeva parecchio, in particolare sulle sue speranze di ottenere la beatificazione per la più vecchia delle tre, specialmente santa a quanto pare, che lei insisteva a chiamare “la Beata Virginia”, e di cui venivano citati aneddoti a profusione che ne testimoniavano i fitti traffici con la divinità. Stavamo finendo la cioccolata quando si udì un rumore di i veloci provenienti dal refettorio. Sul viso della zia suora ò un brivido di deferenza. “La reverenda madre” bisbigliò. La mamma si alzò in piedi, imitata da papà. Entrambi s'inchinarono. La madre superiora apparve in un turbinio di veli neri, accompagnata da una novizia. Era una donna imperiosa dai modi sbrigativi, estremamente pragmatica, quanto di più lontano dal misticismo si potesse immaginare. Credo appartenesse a una famiglia molto potente, perlomeno così si diceva. Veniva esclusivamente per salutare mio padre, e di solito si tratteneva il minimo indispensabile; al resto di noi, compresa mia madre, non era affatto interessata, benché con la mamma si sforzasse di fingere. Si fermò dunque di fronte a mio padre, declinando l'invito a sedersi, e tagliando corto con un gesto d'insofferenza alle serie di inchini che noi figlie avevamo iniziato. A papà e alla mamma porse velocemente la mano da baciare, come una formalità che andava espletata il più in fretta possibile, e andò subito al sodo, rivolgendosi come sempre solo a papà, con un fuoco di fila di domande, apparentemente di cortesia, sull'andamento dei suoi affari. Una volta rassicurata in questo senso, stava già
per andarsene, quando incredibilmente la mamma fece un o avanti e chiese con un filo di voce se poteva avere un colloquio. Sia mio padre che la superiora la fissarono sbalorditi, come se un mobile si fosse messo a parlare. Poi la superiora fece un brusco cenno d'assenso, e la invitò a seguirla. Il resto della visita si trascinò a fatica, con papà che tentava goffamente di sostituire la mamma nella conversazione, non riuscendoci affatto – non aveva alcuna confidenza con sua sorella, a cui dava del voi, e tantomeno argomenti in comune – mentre i ragazzi avevano abbandonato ogni ritegno e scorrazzavano indisturbati per il chiostro, spaventando gli uccelli. Io, approfittando del momentaneo rilassamento della disciplina, scivolai inosservata verso l'interno, nella direzione in cui erano sparite la mamma e la superiora. Dopo un breve girovagare per i corridoi, sentii un suono di voci provenire dalla cappella. Lì mi diressi, seguendo le voci e il profumo d'incenso. La cappella era piccola e semibuia, austeramente arredata. Mi fermai sulla soglia, nascondendomi dietro il battente. “Questo non è possibile, figlia cara, e lo sai benissimo” stava dicendo la madre superiora, invisibile dal mio punto d'osservazione. Nella voce c'era una sfumatura d'impazienza, molto malcelata. “Il tuo posto è nel mondo, accanto a tuo marito, e ai tuoi figli...” Nella luce ultraterrena che filtrava dalla vetrata, il viso della mamma, bianco sotto il nero della veletta sollevata, gli occhi gravati dal peso delle palpebre, ricordava quello di una monaca secentesca sfinita dopo un'estasi, annientata dalla visione del Tremendo. Era inginocchiata su un banco, in atteggiamento di penitente. “Reverenda madre...” implorò debolmente. “Non è possibile, punto e basta. Tu hai dei doveri, prima di tutto verso tuo marito.” La voce era decisamente autoritaria, adesso. “Reverenda madre...” la voce della mamma s'incrinò. Riprese con sforzo: “Reverenda madre, il mio matrimonio...” “Ah-ah-ah” disse la superiora, in tono di rimprovero. “Non una parola contro tuo marito. Dio non lo vuole...”
Ci fu un silenzio. Negli occhi luttuosi si formarono lacrime. Poi la mamma riprese, a bassa voce, ma ostinatamente: “Vedo e sento cose, reverenda madre, che la mente si rifiuta di credere, e la lingua di pronunciare. Se solo potessi parlare...” “Sciocchezze. Non può essere nulla di così grave” la interruppe la superiora, bruscamente. Sembrava molto irritata. “Tuo marito è un uomo pio. Un benefattore del nostro convento. Lo conosco da molti anni, e potrei mettere la mano sul fuoco...” La mamma si sporse in avanti, e disse poche parole a voce bassissima, così bassa che non potei afferrare nulla. Ci fu un altro silenzio, molto più lungo. Poi un rumore di sedie scostate indicò che la superiora si stava alzando. “Queste sono fantasie” pronunciò con voce ferma, comparendo finalmente nel mio campo visivo. Torreggiava sopra la povera mamma, ormai del tutto accasciata. “Fantasie pericolose. Dovresti vergognarti.” Si avviò, accompagnata dal sibilare minaccioso dei suoi veli. “Ti consiglio di parlarne con il tuo confessore.” Si girò a guardarla. La mamma non si era mossa. “Hai un confessore, mi auguro?” “Sì, reverenda madre”. Il viso della mamma era inondato di lacrime. “Gliene ho già parlato...” La superiora si fermò. “E che cos'ha detto?” La mamma esitò: “Si rifiuta di credermi” disse infine. “Lo vedi” disse trionfalmente la madre superiora, avanzando verso l'uscita a grandi i. “Cosa ti avevo detto? Fantasie...” Raccolse i suoi veli con un gesto di sdegno. “Mi meraviglio di te. Ti credevo una buona cristiana...” A queste parole, la mamma nascose il viso tra le mani, e scoppiò in singhiozzi disperati. La superiora proseguì senza degnarla di uno sguardo.
Quella volta, all'uscita la mamma non si voltò. Salì in carrozza senza una parola, bianca come una morta, e a metà del percorso si sentì male. Fummo costretti a fermarci, con grande malumore di papà. È stato allora, in quella sosta obbligata,
mentre la mamma veniva soccorsa con i sali, che dall'alto della collina ci è apparsa in lontananza la striscia azzurra e lucente del mare. Splendeva accecante e sconosciuto sotto i raggi del sole al tramonto, una distesa immobile, completamente piatta; unico segno di presenza umana, una vela solitaria ava lentamente all'orizzonte. Siamo rimasti in silenzio a guardarne il tragitto.
Per molto tempo, della ragazza non seppi più nulla. Al nostro ritorno da Abano, dopo due interminabili settimane termali in cui la mamma ebbe continui svenimenti – le terme a lei non giovavano affatto, mandarcela era pura crudeltà, e papà lo sapeva benissimo – in casa regnava una pace assoluta. Fittizia, a mio avviso. Io non osavo far domande dirette, giravo per le stanze come un'anima in pena alla ricerca di indizi, mi appostavo intorno alla cucina nella speranza di afferrare brandelli di conversazione, del tutto inutilmente, l'argomento che m'interessava non affiorava mai, nemmeno per accenni. Nonostante tutto, ero sicurissima di aver ragione, troppo compatto quel silenzio, troppo affrettata la nostra partenza, soprattutto quella della mamma, che normalmente non usciva di casa, figuriamoci andare in albergo. Ma il tempo ava, e nulla accadeva. Dopo un po', mi ero quasi convinta di aver sognato, o quantomeno di essere arrivata alle conclusioni sbagliate. Un giorno, verso metà mattina – dovevano esser ati almeno un paio di mesi, si era prima di Natale, mi ricordo che aveva nevicato – sentii uno schiamazzo al piano di sotto. Era una donna anziana, che gridava: da subito la voce mi parve familiare, ma non riuscii a collegarla, non arrivavo a sentire quel che diceva perché le grida si mescolavano ai singhiozzi, qualcuno cercava di calmarla, credo la Maria e forse anche la cuoca, ma lei non intendeva ragione, a un certo punto cominciò a gridare più forte, sentii distintamente la parola “assassini”, poi un nuovo scoppio di pianto, erano singulti secchi, senza lacrime. “Sta' zitta, sta' zitta”, la voce della cuoca, spaventata, nel frattempo ero arrivata alle scale, mi affacciai alla ringhiera e le vidi, la vecchia in nero con le braccia alzate in un gesto di maledizione e le due donne ai lati che la trattenevano, “Dio vi punirà” sillabò la vecchia rivolta ai piani superiori, oracolare nella sua furia, in quel momento seppi chi era, anche se ne conoscevo soltanto la voce, la Maria s'interpose autoritaria, “adesso basta” disse “vieni via”. “Voglio che mi sentano” disse lei, “devono sentirmi. Assassini” gridò con tutto il fiato che aveva, “assassini” ripeté, a voce più bassa. Le braccia le ricaddero lungo i fianchi. “Ti
hanno sentito” disse la Maria “adesso basta”, finalmente insieme alla cuoca riuscirono a trascinarla verso l'uscita, lei ancora si dibatteva, “me l'avete ammazzata” urlava, “assassini”, la Maria la spinse fuori e chiuse con fragore il portone alle sue spalle, le grida proseguirono, però attutite e sempre più lontane, in casa un silenzio di tomba, non si sentiva neanche un fruscio, pareva che gli abitanti l'avessero abbandonata. Mi ritirai trascinando la gamba. Ero enormemente sconvolta. Dunque l'avevano uccisa. Lì per lì mi sembrò logico, come se l'avessi sempre saputo. Non scesi a pranzo, fingendomi malata, e ai la giornata nella mia stanza a meditare piani di fuga. Non potevo restare in quella casa. Me ne sarei andata, definitivamente. Anche la mamma in quel momento mi sembrava colpevole. Come poteva rimanere lì? Era in camera sua, perciò aveva sentito, senza ombra di dubbio. In uno stato di estremo turbamento, ai in rivista varie possibilità, fuggire a piedi attraverso i campi, perdipiù in pieno inverno, nelle mie condizioni non sembrava praticabile, chiedere un aggio, ma a chi? forse potevo domandare alla Noemi, lei avrebbe saputo a chi rivolgersi, pensai che a sua volta aveva buoni motivi per fuggire, anche se non di ordine etico, magari sarei riuscita a convincerla. Verso sera, spinta dalla fame, scesi furtivamente al piano di sotto e mi introdussi nel retrocucina. Sentivo la cuoca nella stanza accanto, che tritava qualcosa sul tagliere. Mentre strisciavo per non fare rumore, cercando di arrivare alla dispensa, entrò in cucina la Maria con le istruzioni per la cena: pasta e fagioli, le sentii dire. Seguì una breve discussione sui contorni. Poi ci fu una pausa, nel corso della quale una sedia strusciò sul pavimento. La Maria doveva essersi seduta. “Setticemia” disse. Non avevo idea di cosa stesse parlando. “C'era da aspettarselo” disse la cuoca. “Ha voluto fare di testa sua...” Ci fu un silenzio. L'unico suono era quello del coltello che batteva ritmicamente sul legno del tagliere. “Ha avuto fegato, però” riprese la Maria. “Venire qui, e affrontarli in quel modo...” “Era una pazza” disse la cuoca. “È sempre stata un guaio, fin da piccola.”
“Può darsi” replicò la Maria. “Comunque, ha avuto fegato...” “Bel guadagno ci ha fatto” commentò acidamente la cuoca. “Le conveniva star zitta, e sposarsi qualcuno del paese, come tutte. Invece no: ha dovuto far scandalo...” “Ma com'è andata?” chiese la Maria. “Io ero al mercato, quella mattina.” “Non sono mica stata ad origliare” disse la cuoca, virtuosamente. “Ma com'è andata?” insisté la Maria. “Te l'ho già detto” disse la cuoca. “C'erano tutti e due: padre e figlio...” “E lei che cos'ha detto?” domandò la Maria. “Che era incinta del figlio” rispose la cuoca. Ci fu una pausa. “Secondo te era vero?” domandò la Maria. “Ah, questo, chi può saperlo...” disse la cuoca. “Se vuoi la mia opinione, non lo sapeva neanche lei.” “E loro?” chiese la Maria. “L'hanno umiliata” disse la cuoca brevemente. Seguì un silenzio, riempito dall'acciottolio delle stoviglie. “Comunque il vecchio ha avuto paura, te lo dico io” continuò la cuoca. “Tirchio com'è, se no non glieli dava i soldi...” “Almeno quelli li ha avuti” disse la Maria. “Bel guadagno” disse la cuoca. Qualcosa sul fuoco cominciò a sfrigolare. “Non era certo quello che voleva. Si era montata la testa...” Lo sfrigolio diminuì. La sentii rimestare con foga. “Mettersi contro i padroni...” “Due vigliacchi, ecco cosa sono” la Maria fece una pausa. “Il signorino più del
padre...” La cuoca rise: “Hai ancora del tenero per lui” disse. “Dopo tutti questi anni...” La Maria sbuffò. Ci fu un altro silenzio. “I disgraziati ci rimettono sempre” disse la cuoca. “Aveva fegato, sì, e che cos'ha ottenuto? Adesso è morta, e tanti saluti...” Con un rumore che suonò conclusivo, sbatté il coperchio sulla padella.
Questo fu tutto, quanto ad epitaffio.
Quella notte ho sognato che ci separavano. Io rimanevo sola con Mariano, d'inverno, per le strade di una città sconosciuta. Sapevo che eravamo lì per cercare qualcuno, ma non riuscivo a ricordarmi chi fosse, né dove si trovasse la casa. Mariano era stanco, e si lamentava. La città sembrava deserta, faceva freddo. D'un tratto, mentre camminavamo senza meta, iniziava a cadere la neve.
Da ragazzine, per un breve periodo siamo state mandate in collegio. Io all'epoca avevo più o meno undici anni, l'Amalia quasi tredici, Teresa e la Noemi intorno ai quindici. Era un collegio per signorine, sui colli, un posto rinomato e molto chic, gestito da suore si; la mamma lo riteneva una tappa imprescindibile per chiunque aspirasse a buon diritto a definirsi una signora. Lei stessa era un'ex allieva, e tutti gli anni mandava cerimoniose lettere d'auguri alla sua vecchia direttrice, scritte in bellissima calligrafia – uno dei frutti, ci teneva a farcelo notare, della sua istruzione in quel luogo. Papà invece era scettico, e soprattutto non gli andava che stessimo lontane da casa: a questo proposito ci fu un contenzioso, ma una volta tanto la mamma l'ebbe vinta, facendo leva sul senso d'inferiorità sociale di papà. Una sera, ando di fronte allo studio, sentii che gli chiedeva con la sua voce più altera se avesse intenzione di allevare le proprie figlie come delle contadine. “Qualunque siano gli usi della tua famiglia” stava dicendo la mamma – colsi
attraverso la porta uno scorcio della sua figura sottile, ritta davanti alla scrivania in atteggiamento di sfida – “ti pregherei di ricordare che sono anche figlie mie”. C'era stato un momento di silenzio. Dentro di me avevo tremato. Doveva essere impazzita, pensai, per osare tanto. Papà aveva scostato la sedia con fracasso. “Fuori di qui” aveva detto. Per giorni non le aveva rivolto la parola. Pensavo che l'argomento fosse definitivamente chiuso. Invece, con mio grande stupore, alla fine del mese eravamo partite per C. In collegio, le suore ci insegnavano a suonare il pianoforte e a parlare se, e beninteso anche a cucire, interminabili ricami a piccolo punto, si riteneva che queste attività fossero più che sufficienti a fare di noi delle fanciulle da marito – leggere non era previsto, se non qualche raccolta di poesie sentimentali. Io leggevo per conto mio, di notte, di nascosto, io ho sempre letto troppo. Di quel periodo ricordo soprattutto l'odore di minestra che stagnava nei corridoi, e l'angoscia nell'ora della siesta, le suore ci costringevano a riposare dopo pranzo, non nei nostri letti, ma in un apposito stanzone: le imposte venivano socchiuse, e noi ci stendevamo su delle sedie a sdraio, dormire era impossibile, almeno per me, me ne stavo in penombra con gli occhi sbarrati ad ascoltare i sussurri delle altre, qualcuna russava, il tempo si rifiutava di are, io progettavo inutili piani di evasione mentre fuori dalle finestre oscurate il grande giardino delle suore si stendeva invisibile e pieno di promesse, ne immaginavo la frescura, il ronzio delle api. Nello stanzone faceva caldo, le grandi si scambiavano confidenze a bassa voce. In quei giorni, Teresa aveva stretto amicizia con un'altra interna, una ragazza di Verona, timida e silenziosa, dall'aspetto dimesso e i capelli scuri raccolti in una treccia piatta, e due strani occhi verdi dalla forma allungata. La ragazza era l'unica figlia di un avvocato di un certo prestigio, il quale, rimasto vedovo troppo presto, e molto indaffarato, non appena sua figlia aveva raggiunto l'età consentita l'aveva depositata in collegio con notevole sollievo, e di tanto in tanto le faceva delle goffe visite portandole regali esagerati, che lei accoglieva senza alcun calore. Non usciva quasi mai dal collegio e non aveva amiche, le altre la snobbavano, qualcuna sosteneva che era una spia delle suore. Teresa, indignata
per questo atteggiamento, l'aveva presa subito sotto la sua protezione, che l'altra ricambiava con un attaccamento canino. Per qualche tempo furono inseparabili. La notte, dopo che le luci venivano spente, le sentivo bisbigliare a lungo sdraiate insieme sul letto di Teresa, cosa quest'ultima proibitissima; per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sentire una parola. Più di una volta, benché leggessi fino a tardi, mi ero addormentata mentre stavano ancora parlando. Poi, un giorno, c'era stato il litigio. Non ero presente e non conosco esattamente i fatti, ma credo che Teresa avesse sorpreso la sua amica – curiosamente, non riesco in nessun modo a ricordarne il nome – mentre strapazzava una delle piccole, da pochissimo arrivata in collegio, la quale, già smarrita di suo e terrorizzata dal nuovo ambiente, era scoppiata in lacrime disperate. Teresa era montata su tutte le furie. La sua protetta che si faceva persecutrice, era più di quanto potesse tollerare. Da quel momento non le aveva più rivolto la parola, e al suo aggio distoglieva ostentatamente lo sguardo, come se avesse visto un oggetto schifoso. Esagerava, senza dubbio. La Noemi, che dalla nuova amica si era sentita spodestata, gongolava in silenzio. Adesso erano tornate a eggiare loro due, e a chiacchierare fitto fitto, come a casa. Erano seguiti dei giorni apparentemente tranquilli, finché una sera la direttrice era piombata all'improvviso nella nostra camerata, seguita da un piccolo codazzo di suore, e aveva sequestrato il diario di Teresa. L'intera camerata era sprofondata nello sgomento. Un fatto simile non si era mai verificato. Allo smarrimento iniziale era subentrata una ridda di illazioni, la più ovvia delle quali era che si trattasse di una vendetta. “L'avevo sempre detto io, che quella era una spia” si sentiva ripetere da più parti. La spia, additata al pubblico biasimo, se ne stava solitaria nel suo angolo, tentando di ostentare indifferenza. Teresa sedeva sul suo letto, muta, bianca come uno straccio; la Noemi le cingeva le spalle con un braccio, mormorandole frasi di conforto; intanto, le altre a mo' di coro, in cerchio attorno al letto nei camicioni bianchi regolamentari, deprecavano l'accaduto o facevano previsioni per il futuro, quasi tutte foschissime. Dopo un po' era arrivata una delle guardiane: “A letto, signorine” aveva detto con voce tagliente “a letto svelte, e non voglio più sentire una parola”: il coro si era disperso in un baleno, non senza qualche ultimo mugugno.
Il giorno successivo, dopo la messa delle otto, Teresa era stata convocata nell'ufficio della direttrice. Noi sorelle aspettavamo trepidanti, non sapendo cosa potesse seguirne: nessuna di noi aveva la più pallida idea del contenuto del diario incriminato. Tutto il collegio era in preda all'agitazione, tra i banchi avano bigliettini, durante la ricreazione si formarono crocchi. La spia, reietta, non si era mossa dall'aula, temendo una sommossa popolare. Teresa uscì dall'ufficio dopo un tempo che a noi sembrò infinito. Sul viso pallido non c'era traccia di lacrime, la bocca era serrata in un'espressione caparbia. Non ci fu verso di cavarle una parola, né allora né dopo. Era chiaro che non aveva detto nulla neanche alla direttrice. Sostenuta dall'onda dell'emozione generale, a testa alta, era tornata al suo banco, mentre tutte le compagne le facevano ala e sussurravano parole di incoraggiamento al suo aggio. Già nel corso di quella stessa giornata però, scemato l'empito di solidarietà iniziale, intorno a noi incominciò a crearsi un'atmosfera strana. Io l'avvertii con chiarezza fin dal pranzo, quando facemmo il nostro ingresso nel salone del refettorio: non si trattava esattamente di freddezza, piuttosto era come se noi quattro fossimo delimitate da un cerchio invisibile, una specie di cordone immaginario che teneva le altre a distanza di sicurezza. Ci salutavano educatamente, qualcuna, con cautela, ci sorrideva perfino, ma nessuna ci si avvicinava. Pranzammo da sole a un tavolino appartato, cosa mai avvenuta perché fin dall'inizio Teresa era stata estremamente popolare, e intorno a lei di solito c'era un gran via vai. Quel giorno invece mangiammo in assoluto silenzio e senza alzare mai gli occhi dal piatto, quasi una riedizione dei nostri pranzi a casa. Nessuna di noi aveva il coraggio di levare lo sguardo su Teresa. Era chiaro, senza bisogno che ci venisse detto, che dall'ufficio era filtrata qualche informazione – informazione di cui noi eravamo all'oscuro. Pensai che avevamo il diritto di averla, quell'informazione, ma sapevo benissimo che qualsiasi domanda avessi fatto non avrebbe ricevuto risposta. Il giorno e poi la sera arono così, in quella sospensione e in quel silenzio. Fra di noi continuammo scrupolosamente ad evitare l'argomento. Teresa quella notte non dormì quasi affatto, la sentivo rigirarsi nel letto senza posa. La mattina seguente, mentre eravamo in classe, vennero a chiamarci durante la lezione di
se. “Vi aspettano di sotto” disse la portinaia, laconica. Nell'atrio trovammo nostro padre, in abito da viaggio e stivaloni, con il cappello in mano e una faccia scurissima. “Prendete le vostre cose” disse senza guardarci. “Io vi aspetto in carrozza”. Ci fu un attimo di sgomento. “Dove andiamo?” chiese l'Amalia. “A casa” disse papà brevemente. “A casa?” chiese la Noemi, incredula. “Fate presto. Ci vediamo fuori” tagliò corto papà. Ci voltò le spalle senza aggiungere altro e uscì dal portone a grandi i. Durante il viaggio, atrocemente lungo per via del pesantissimo silenzio che nessuno si azzardava a spezzare, la Noemi pianse senza sosta con la guancia appoggiata al finestrino. Non che le dispie di lasciare il collegio – come tutte noi, non sopportava le suore, e provava una particolare avversione per le lezioni di cucito – ma negli ultimi tempi aveva preso a vedersi di nascosto con il giovane aiuto giardiniere, l'unico maschio inferiore ai sessant'anni che fosse ammesso tra quelle caste mura. Io ero la sola ad esserne informata, perché una notte mi aveva chiesto di aiutarla a uscire dalla camerata senza farsi notare. Con me non si faceva scrupoli, perché pensava che non capissi niente. L'avevo vista tornare alle prime luci dell'alba, con i capelli grondanti di rugiada e le pupille molto dilatate, come quelle di un animale notturno. L'avevo vista sdraiarsi e addormentarsi di colpo, senza nemmeno togliersi i vestiti. Al suo aggio, mi era arrivata una folata del suo odore, un odore di terra e di segreti umori, che da quel giorno per me era indissolubilmente associato al peccato. Non volevo giudicare la Noemi, è mia sorella ed è fatta così, ma durante quell'interminabile tragitto non potevo impedimi di pensare che venivamo cacciate dal collegio non per quell'episodio, che a me bambina sembrava il colmo del proibito, ma per qualcosa commesso da Teresa, la quale per quel che ne sapevo non aveva altra colpa se non di avere dato troppa confidenza a
un'estranea. Teresa, la colpevole, giaceva immota in un angolo della carrozza, sempre con quella piega caparbia sulle labbra. Papà per tutto il viaggio non l'aveva degnata di uno sguardo.
Così finì la nostra permanenza in collegio. Ci eravamo rimaste meno di sei mesi.
Ecco, ha ricominciato. Nel silenzio che è sceso improvvisamente, la cicala ha ricominciato. Di sotto non si muove più nulla, non si sentono neanche i respiri, anch'io mi fermo, sono a un o dalla finestra ma mi fermo, è una specie di istinto, o forse è soltanto paura, sono ferma a un o dalla finestra e aspetto, nell'afa e nella notte il canto della cicala sale e si dilata, io sto ferma, non arriverò alla finestra, non voglio affacciarmi ed essere costretta a vedere. Dalla stanza accanto mi arriva un leggero cigolio, la mamma sta scostando le persiane. Si sente di nuovo un rumore di ghiaia smossa, poi un sussurro, basso ma distinguibile, è la voce di Angelo: “So tutto”, dice. C'è una pausa. “Tutto cosa?” la voce di Teresa trema di alterigia. “Cos'è che sai?” “So tutto” ripete lui ottusamente, con accanimento. “Vi ho sentiti” dice. C'è di nuovo una pausa. “Quando?” chiede lei. La voce adesso è fredda e incolore, non è la sua solita voce, è una voce estranea e metallica, la voce di una sconosciuta. “Oggi pomeriggio” dice Angelo. “Saranno state le sei.” Aggiunge, come se avesse importanza: “Stavo cercando i guanti da giardino”. “Ah” dice lei, sempre con la stessa voce priva di inflessioni. “Ah, ecco” dice. Angelo è sopraffatto dalla collera: “Non hai nient'altro da dire?” Lei d'improvviso cambia tattica: “Hai sentito male” dice in tono leggero. “Non
c'era niente da sentire.” “Niente?” lui alza la voce adesso, quasi grida. “Assolutamente niente” dice lei. Ride lievemente, una risatina di compatimento. “Chissà cosa ti sei immaginato” aggiunge. La ghiaia scricchiola sotto i i furenti di mio fratello. Di colpo, molto forte, arriva il suono di uno schiaffo. “Ahi” geme lei in tono di pianto. A giudicare dal rumore, lo schiaffo dev'essere stato violento, di sicuro l'ha fatta barcollare. “Da quanto tempo va avanti?” chiede Angelo. La voce è talmente alterata che stento a riconoscerla. Teresa tace. “Da quanto?” incalza lui. Lei continua a tacere. “Magari va avanti da sempre” dice lui amaramente. “Magari va avanti da sempre, e nessuno di noi...” “Ti stai immaginando tutto” lo interrompe lei. La voce adesso è tesa, si sente che cerca di controllare la paura. C'è un silenzio. “Non sto affatto immaginando” ribatte infine lui. Il tono è deciso, senza remissione. “Ti dico che lo so.” Sento la mamma dal suo balcone emettere un lamento strozzato, è un suono di terrore e di allarme, li sta supplicando di fermarsi, silenziosamente li supplica di smettere prima che le parole vengano dette. Con sforzo mi avvicino alla finestra. Ci metto un'eternità, o così mi sembra, la gamba duole, mi trascino, di nuovo ho una visione confusa di una situazione come questa – io che mi trascino di notte verso una stanza buia, svegliata da qualcosa che non so identificare – ma ancora non riesco a situarla, magari era soltanto un sogno, oppure una notte di tanti anni fa. Finalmente, ansimante, arrivo alla finestra. Mi affaccio. Guardo. Vedo Teresa con i capelli sciolti, scalza, bianca ed eretta contro il folto degli alberi. Vedo Angelo completamente vestito, come se non fosse mai andato a dormire. Vedo Teresa tirare un respiro profondo, e prendere una decisione. La sento dire: “E allora?” La voce è molto calma. “Sai tutto. E allora?”
Angelo deglutisce. Non se l'aspettava. “Quindi lo ammetti?” chiede lui, incredulo. “Sì” dice lei. C'è una pausa. “Da quanto tempo?” chiede Angelo, di nuovo. “Oh, non me lo ricordo” dice lei, scrollando le spalle. “Dieci anni. Forse di più...” “Lo ammazzo” dice Angelo. Teresa si mette a ridere, una risata bassa, silenziosa, che la scuote tutta. “Lo ammazzi?” chiede. Poi all'improvviso smette di ridere. “E se fossi io?” Fa due i verso di lui, con aria di sfida. “E se fossi io, a volerlo?” Sorride, provocante. “A questo non ci hai pensato?” Il pugno di Angelo scatta contro di lei, con tutte le forze. La colpisce in piena faccia. Teresa cade all'indietro. Vedo la sua testa battere con violenza sulle pietre del vialetto. Sento come attraverso una distanza il grido della mamma. Il sangue comincia a scorrere. Si sparge molto velocemente, lo vedo con distacco e insieme con estrema nitidezza, inonda la ghiaia del vialetto tingendola di scuro. Fisso affascinata la pozza di sangue macchiare le vesti bianche di Teresa.
Una porta si spalanca. Forse è papà, penso. La mamma grida di nuovo.
21 giugno 1925
È dalle quattro che sono sveglia. Mi sono alzata e son venuta qui, vicino alla finestra: buio pesto e nuvoloni, ci manca solo che piova. Di tornare a dormire nemmeno se ne parla, certo che avrò una bella faccia domani, cioè oggi, sarà meglio che il velo lo faccia calare anche davanti, così almeno mi nasconde le occhiaie. Adesso quasi quasi sarei tentata di scendere e chiamare una barca, che mi porti lontano, dove nessuno mi possa trovare, e pensare che sono stata io a volerlo, ma cosa mi è saltato in mente, a questo punto è chiarissimo che è stato un errore, tutto pur di andarmene da questa casa, ma sarà una ragione sufficiente? credo proprio di no, comunque ormai non c'è niente da fare. Eccomi qua. Sveglia dalle quattro. Ormai saranno almeno le sei, ma il sole ancora non esce, sarà nascosto dietro ai nuvoloni, però c'è un leggero chiarore, lentamente il cielo sta schiarendo, si comincia a vedere anche il canale. Tra un po' mi verranno a chiamare, alle sette arriva la sarta. Dio mio. Veramente non c'è modo di scappare? Qualcuna l'avrà fatto di sicuro. Ci vuole coraggio, questo sì, e io non ne ho. Ma soprattutto non mi va di far contenta la Iride, a lei non garba affatto che io mi sposi, ha fatto di tutto per fermarmi, addirittura un viaggio in America mi ha promesso, ma io niente, ho tenuto duro. Cosa crede, che resti qui a farle la serva per tutta la vita? Ci son rimasta anche troppo, a venticinque anni, si dice, è l'ultima occasione, ad essere sincera per me è anche la prima, non è che io abbia avuto 'sti gran corteggiatori, se no me n'ero andata già da un pezzo. Non che lui non mi piaccia. Si può anche dire che sia un tipo elegante. Certo è un po' piccolino, io lo supero di tutta la testa, il fatto è che sono alta, questo forse è un problema, vorrà dire che non metterò i tacchi. Però è un peccato. Tutta la vita senza tacchi? Detto così mi fa una gran tristezza. Ci sono scarpe così carine... Che senso ha diventare una signora, se poi non ci si può vestire come si deve? Però posso sempre rifarmi con i cappelli. I cappelli mi piacciono tanto, e poi mi stanno bene, è importante il cappello, l'ho sempre pensato, non c'è niente come un bel cappello per far buona figura in società. Ammesso che ci sia, la società... Voglio dire, non so se lui frequenti così tanto. Cioè, la famiglia è ricca, figuriamoci, la Iride su questo si è subito informata, però i suoi vivono in un posto di campagna, una villa sperduta in mezzo ai campi, è da lì che vengono i soldi, dalla terra, e di terra dev'essercene tanta, ma io a vivere là non ci vado, questo gliel'ho detto subito, io non ci vado a vivere in campagna, in mezzo ai suoi fratelli che si credono tutti chissà che, a dire il vero ho conosciuto solo una
sorella, Amalia si chiama, è venuta col marito, una vera strega, era qui in rappresentanza della famiglia, e Dio sa se mi ha studiata! io sono stata zitta tutto il tempo, avevo paura di fare errori di italiano, non sono mica istruita come loro, e poi c'è il fatto della trovatella, loro lo sanno che son stata adottata, non che ci voglia tanto a capirlo, basta vedere come mi tratta la Iride, e io che devo chiamarla signora. Oggi vengono tutti, la famiglia al completo, il padre è terribile a quanto ho capito, voleva farmi andare là, in campagna, a un pranzo della domenica, di sicuro per controllare se ho buone maniere, ma io non ci sono andata, non sono mica scema, all'ultimo momento ho fatto dire che stavo male. Chissà cos'avrà pensato, ma non me n'importa. Tanto lui per fortuna è innamorato, mi manda certe lettere! mai viste delle lettere così, è uno che sa scrivere, racconta tante cose, e le frasi d'amore! frasi davvero belle, la prima volta son rimasta intimidita, cos'è che si risponde a una lettera così? io mi vergogno, ho studiato così poco, allora gli ho mandato soltanto un biglietto, ma insieme ho messo la mia fotografia, quella di tre quarti con la sciarpa di velo, e non è stata una cattiva idea, perché a lui è piaciuta così tanto! la lettera dopo era tutta uno sviolinare sulla foto, e i miei capelli e i miei occhi e qui e là, adesso non è che mi ricordo bene, ma ce l'ho ancora da qualche parte, ah sì, l'ho messa nella scatola dei nastri, insomma quella foto gli ha fatto un grande effetto, si vede proprio che è innamorato. Comunque la Iride non ha perso occasione per fare la spilorcia, ha risparmiato perfino sul vestito, io avevo visto un modello molto chic, più caro si capisce, quello sì che mi avrebbe slanciato, e poi un pizzo bellissimo, invece questo qui m'ingrossa, io non sono tanto snella di vita, e col busto sarà una tragedia, non potrò neanche respirare, per fortuna il velo è molto lungo, almeno quello farà figura. Adesso che ci penso, nell'ultima lettera parlava di Parigi, ci dev'essere stato il mese scorso, mi sembra proprio che ci vada spesso, non so bene a far cosa, non è che avrà qualcuna? una di quelle lì, una ballerina... se no che cosa ci va a fare un uomo solo a Parigi? ah ma d'ora innanzi se lo scorda, di andare a Parigi da solo, e se è per questo neanche con me! io non ci vado di sicuro, nel luogo delle sue avventure, perché avventure certamente ne avrà avute, è un uomo fatto, ha quasi trentott'anni! non che li dimostri, sarà che è mingherlino, però un bell'uomo con quei baffetti, baffetti da seduttore, ecco, non è che poi sarà uno così? ma no, non credo, ha un'aria tanto mite, e poi è sempre così svagato, senso pratico non deve averne tanto, ma per me è meglio, così ci penso io. Ecco, adesso viene fuori il sole, meno male, ci mancava la pioggia, anche se sposa bagnata... ma di sicuro non è vero, lo dicono per consolare quelle disgraziate che si sposano sotto il diluvio e si ritrovano con l'acconciatura rovinata, per non parlare dei piedi nel fango... che poi ho delle scarpe così belle, speriamo solo che non stringano, io non ho quel che si dice un piedino. È che
sono alta, tutto qui. Ma starà bene il rossetto scarlatto? magari è un po' sfacciato, per una sposa... e d'altra parte con la pelle chiara... Mi piacerebbe avere le labbra più carnose, questo sì, però la bocca è bella, lui me lo dice sempre, anche se a dire il vero si dilunga soprattutto sugli occhi, gli pare più romantico io credo, e forse avrà paura di sembrarmi troppo osé, certo che gli uomini a volte si fanno degli scrupoli davvero strani, intanto però è tardi e come al solito non si trova mai niente, la cipria per esempio dov'è andata a finire... Oh Dio che cos'è questo straccio? a forza di frugare nei cassetti viene fuori di tutto, adesso questo vecchio straccio cos'è? dev'essere uno scialle, ah sì, è quello che mi sono messa la volta che mi ha portato a fare un giro in macchina a Cortina, è lì che ci siamo conosciuti, ma guarda qua com'è conciato! per forza, con tutta quella polvere, per i vestiti è una rovina, però mica ce l'hanno tutti la macchina, soprattutto una così, sportiva, com'è poi che si chiama? non ho proprio memoria per queste cose, comunque è bella, era la prima che vedevo, devo dire che mi ha fatto impressione. Lui era elegantissimo al volante, un automobilista, coi guanti di pelle e tutto il resto, sono rimasta senza fiato, “le piacerebbe fare un giro?” e io ho detto subito di sì, la Iride naturalmente mi ha fatto gli occhiacci ma io non l'ho badata, sono salita e via, tutta quell'aria, e io lì a tenermi lo scialle con le mani, lui è stato corretto, un vero signore, anche per questo mi è piaciuto, al ritorno la Iride come una furia: “È troppo vecchio per te”, che strega, ma io figurarsi, dritta per la mia strada. E adesso eccoci qui. Una non è che ci pensa, quando sale su una macchina... che un giorno si ritrova qui, alle sei del mattino, con una faccia da far spavento. La pendola ha suonato la mezza. E io con questa faccia... proprio il giorno che si dovrebbe esser belle, e invece... Chissà come fanno le altre. Probabilmente dormono. La notte tutto un sonno, e la mattina in piedi, fresche come rose, pronte per andare all'altare a dir di sì, per loro è come bere un biccher d'acqua, mica gli fa paura, vanno lì dritte e dicono di sì, senza un pensiero al mondo. Mah. Speriamo che almeno la vecchia Barberina non ne faccia una delle sue, l'altro giorno si è alzata le sottane e ha fatto pipì nel bel mezzo del salotto, proprio quando c'era gente in visita, e la Iride a urlare, ma cosa urla? tanto non c'è niente da fare, la vecchia è furba, secondo me lo fa apposta, certo se lo fa oggi, madonna santa! per me è capacissima, te lo immagini il padre? oh dio, adesso mi prende il fou rire, non riesco a fermarmi, mi manca il fiato, di sicuro sono i nervi. E se mi metto a ridere in chiesa? a questo non ci avevo pensato, succederà di sicuro, “vuoi sposare il qui presente?” e io giù a sghignazzare, che vergogna, cosa si fa in questi casi? forse devo portarmi i sali, calmano i nervi, sì sì, i sali sono il rimedio, e intanto magari la vecchia la fa vicino all'altare... no, no, non devo rimettermi a ridere, devo stare seria, è un giorno solenne, forse devo pensare a qualcosa di triste... a dire il vero
la vecchia a me è simpatica, certo non ci sta con la testa, ma fa andare la Iride su tutte le furie, secondo me la odia, e in questo la capisco, è così avara! la sera da mangiare le dà solo un brodino, e lei qualche volta lo versa per terra, paf! tutto sul tappeto, e allora la Iride si mette a gridare... per grazia di Dio d'ora in avanti non dovrò più vedere queste scene, avrò una casa mia, tutta in ordine, senza nessuno che piscia per terra, e soprattutto, nessuno che chiude a chiave la dispensa, le chiavi le avrò io, e mangerò quel che mi pare. Certo io avrei preferito rimanere a Venezia, Padova non mi piace, è troppo triste con quei portici bui, lì non conosco nessuno, e poi, andare in terraferma... qui la finestra dà sul Canal Grande, col tempo buono si vede fino al Lido, è così bello! è vero che non usciamo tanto spesso, però quando fa caldo andiamo sempre al Des Bains, ci sediamo in terrazza e mangiamo il gelato, lì è talmente elegante, le coppette d'argento, i camerieri, e tutta quella bella gente, l'altra domenica mi sono messa il vestito color crema, che devo stare attenta a non macchiarlo, sono carina con quel vestito, lo vedo bene, gli uomini che avano mi guardavano tutti, e lì di fronte il mare che brillava... Invece a Padova una nebbia, già me lo figuro, e di sicuro non c'è un posto per andare a ballare, neanche uno straccio di divertimento, e in più un freddo da ghiacciare le ossa, ma d'altra parte lui lavora lì... però la casa è bella, grande, con la portafinestra e il poggiolo che dà sulla piazza, e dietro c'è un giardino con le magnolie, è stato questo che mi ha deciso, lui mi ha chiesto se mi piaceva e io: sì, senza neanche pensarci, tutto per via delle magnolie. Dev'essere stato un momento di follia. È così che succede, poi ci si pente per il resto della vita. Santo cielo, e adesso chi è che urla? dev'essere arrivata la sarta, aiuto, sono le sette, e io in queste condizioni... sì, sì, arrivo subito, ma perché urlano tanto? eccomi qui, sono proprio agitate, in fin dei conti c'è un sacco di tempo...
Proprio il giorno del mio compleanno. Se voleva farmi un dispetto... Ah, ma non c'è più nessuna gratitudine. Sposarsi, e il giorno del mio compleanno. A me, che l'ho tirata fuori dal fango... e lo dico in senso letterale, perché è esattamente lì che stava, in mezzo agli altri sudici marmocchi, i suoi fratelli. Una bambina sudicia, e ingrata. I suoi, figurarsi, non vedevano l'ora di darmela, per loro era soltanto una bocca in meno da sfamare... È così che ragiona questa gente, disgraziati, gente rozza, senza sentimenti. Per loro, un figlio o un gatto è uguale. Non hanno sentimenti. E lei, la Clara, nonostante le apparenze – perché da piccola era tanto carina – è venuta su come loro. Senza sentimenti. Pensa solo al suo tornaconto, quella lì. Non gliene importa niente, che io rimanga qui da sola,
con la vecchia che peggiora a vista d'occhio. Pensa solo a sposarsi. Ho perfino provato – siccome lo so che è venale – a offrirle un viaggio in America, una roba di lusso, in piroscafo, purché non si sposasse. Ma lei niente. È proprio invasata, con questa storia del matrimonio... Rinunciare a un viaggio così! Per me è matta. L'unica soddisfazione è che d'ora in avanti non si muoverà più di casa, altro che America. Quello di certo non la fa viaggiare. L'ho capito subito, il tipo. Adesso fa l'uomo di mondo, ma appena può la chiude dentro, son sicura, al massimo la porta a messa la domenica. Come suo padre, quell'energumeno. Lui per la verità ha l'aria mansueta, ma buon sangue non mente. Ho sentito certe storie... Gliel'ho detto, alla Clara, che la famiglia non mi piaceva, anni fa c'è stato anche uno scandalo, i particolari non son riuscita a saperli, qualcosa che riguardava una sorella mi sembra, comunque qualcosa di brutto. Ma lei niente. Testarda come un mulo. Seduta lì, a cucire il corredo, vicino alla finestra. Con la luce che le piove sui capelli. Certo bisogna dire che è bella, con quella pelle bianca e i capelli così neri. È bella, ma non sa niente della vita, questa è la verità. A venticinque anni ha paura di restar zitella. Paura di che, dico io... Chissà cosa si aspetta. Tutte sciocchezze, di sicuro, fantasie, roba da donnette. Sentimentalismi. Se tornassi indietro, io certamente non mi risposerei. Non che abbia avuto un cattivo marito, per carità, non voglio lamentarmi, un gentiluomo, militare di carriera, non quello che si dice un gran conversatore, ma di buonissima famiglia, e molto decorativo in uniforme. È morto in guerra. Ad essere precisi è morto di tifo, comunque pur sempre al fronte, quindi un eroe. L'unica cosa che mi ha lasciato, a parte i soldi naturalmente, è quella vecchia schifosa di sua madre. Bell'eredità. Almeno si decidesse a crepare. Invece non ci pensa nemmeno, completamente svanita, ma sana come un pesce. Finirà per sotterrarmi, di sicuro. E a proposito, adesso chi le porta la tisana? Quella Clara è proprio un'ingrata. Io gliel'ho detto in tutti i modi, che una vera signora non ha nessun bisogno di sposarsi, si sposano le poverette che devon farsi mantenere, ma se ci sono i soldi che bisogno c'è? io per esempio sono stata costretta, in casa mia non c'era un quattrino, solo il nome, un nome aristocratico ma neanche una lira, in questi casi c'è poco da discutere, tocca sposarsi per forza, mica si può far tanto le difficili, l'importante è che sia un buon partito. E lei, che potrebbe farne a meno, guarda qua! Se ci penso mi viene una rabbia! Trattata come una figlia, e non vede l'ora di andarsene. Ah, ma da me non avrà un soldo, di questo può star certa, ho già cambiato il testamento. Prima l'ho minacciata, ma lei non se n'è data per intesa, pensava forse che mi sarei impietosita, figuriamoci! appena ho visto che non mollava, sono andata dal notaio. Ho cambiato tutto. Adesso tutti i soldi, e anche il palazzo, che vale una fortuna, e i gioielli! che le piacciono tanto, tutto, dico tutto, andrà alle mie nipoti che stanno in America, anzi mi pare che stiano in Argentina. Peccato che sarò
morta, perché avrei proprio gusto di vederla la sua faccia, quando verranno dall'Argentina a toglierle i brillanti dalle orecchie, e a tirarle via i tappeti sotto i piedi. Io non le dirò niente, questo è il bello, fino all'ultimo starà nell'incertezza, anzi sarà convinta che vada tutto a lei. Mi vien proprio da ridere. Tanto non l'ho mica adottata legalmente, quindi non ha nessunissimo diritto. Quella stupida. Lei pensa di andare a star bene, ma non è mica tanto ricco suo marito, i soldi sono del vecchio, e quello figurarsi se li molla, una salute di ferro, e in più sono un sacco di fratelli. Chissà cosa si crede. Al massimo potrà tenere una domestica. Certo non più di due. Se la sogna, la vita che fa qui! Servita e riverita, come una principessa. Certo, ogni tanto c'è qualche lavoretto, è chiaro, la casa è grande, e in più la vecchia sporca, non è che può starsene sempre con le mani in mano, d'altra parte bisogna pur che impari, alla sua età, come si tiene una casa, e poi l'ozio è immorale, fa venire cattivi pensieri. Una buona educazione le ho dato, altro che. Tutto perché se la goda quello là. Che secondo me è anche tirchio. E per di più le arriva alla spalla. A me, gli uomini bassi non sono mai piaciuti. Mio marito, riposi in pace, perlomeno era alto. Un bel personale, robusto, con le spalle larghe, faceva proprio la sua figura. Poi, per tutto il resto zero, ma non importa, se non altro il giorno delle nozze era impeccabile, un vero ufficiale, con la marsina e gli stivali scintillanti, che bell'uomo, le mie amiche me lo invidiavano tanto. Tutta apparenza, ma tanto non lo sa nessuno. L'importante è quello che si vede, io glielo dico sempre alla Clara, ma lei non capisce un accidente. Se ne va via con quel bassetto, e a Padova per giunta. Non penseranno mica che vada a trovarli. Una città schifosa. Io non ci metto piede, poco ma sicuro. Oltretutto c'è nebbia e ci si ammala, quella pianura lì è malsana, non vado certo a rischiare i polmoni, e per di più che casa vanno a scegliere? si fossero sognati di consultarmi, invece no, l'ho vista solo a cose fatte, e manco a dirlo hanno sbagliato, tra tutti e due non un briciolo di gusto, per carità, il posto è bello, e anche il giardino, ma c'è qualcosa che non va nella facciata... non so, troppo borghese, questo è un palazzo nobiliare, se una è abituata qui, ma come fa a are... ma quella Clara non capisce niente. A lei interessa solo che la casa sia sua. Che mentalità. Proprio da serva, mi dispiace dirlo. E sì che ho speso per educarla da signora... ma con gente così non c'è niente da fare. Dovevo immaginarlo, che sarebbe stata una gran delusione. E adesso, come se non bastasse, mi tocca anche vestirmi in pompa magna – dio mio, sono quasi le sette, fra due minuti arriva la sarta – e far la faccia allegra con i parenti di lui, gente che arriva dritta dalla campagna, bovari pieni di soldi... Chissà come si son conciati, avranno su i vestiti della festa, ci sarà da sprofondare, e bisognerà sopportarli per tutta la giornata... oddio il camlo, questa è la sarta, e io sono ancora in vestaglia... la Clara di sicuro sta dormendo, beata incoscienza, nessuno
che vada ad aprire, ma che fine hanno fatto tutti quanti?
Madonna santa che razza di giornata. Vorrei tanto che fosse già finita, compresa la notte, aiutami gesù! quella è la parte peggiore naturalmente, meglio che non ci pensi, adesso devo solo sorridere e fare finta di esser calma, però avevo tanta paura della cerimonia in chiesa e almeno quella è andata, non è successo niente di tremendo, non ho balbettato, non ho riso, non ho nemmeno pianto, certo quando ho risposto al prete la voce mi si è un po' incrinata, ma spero che non l'abbiano notato, l'unica cosa sono inciampata mentre andavo all'altare e a momenti mi cadeva il bouquet, meno male che il commendatore mi ha sorretta, mi ha accompagnato lui all'altare perché mio padre è morto e comunque dei miei non c'era nessuno, figurarsi se la Iride li voleva fra i piedi, l'avrebbero fatta sfigurare pensa lei, non so neanche se li abbia avvertiti, in ogni caso il commendatore mi ha sorretto e così il bouquet non è caduto, che dev'essere una cosa che porta sfortuna, se cade voglio dire, invece non è caduto e nemmeno io e all'altare sono arrivata sana e salva, e lui era lì che mi aspettava, vestito da sposo in tight e tutto quanto, piuttosto buffo a dire il vero, mi sono messa al suo fianco e lì in piedi come due cretini per tutta una messa interminabile, neanche il coraggio di voltarmi per vedere chi c'era, all'ingresso con la marcia nuziale eccetera non ho visto proprio niente, ero come instupidita, e adesso tutta quella gente alle mie spalle e c'è anche qualcuno che singhiozza, certo non la Iride, pare brutto che la sposa si volti per guardare gli invitati, e allora avanti con lo sguardo fisso sul prete senza sentire una parola, finché è arrivato il momento culminante e Gabriele mi ha guardato e ho capito che dovevo dire di sì e l'ho detto, certo un po' piano, però l'ho detto nel momento giusto, pensa se l'avessi detto un po' prima o un po' dopo, sarebbe stato terribile, e poi l'ha detto lui e lì ho capito che era emozionato perché gli tremava la voce, molto più che a me, e ho pensato poverino è proprio innamorato. Per fortuna che adesso non sono obbligata a parlare perché a tavola siamo non so quanti, io basta solo che sorrida, continuo a sorridere a tutti il più spesso possibile, questo mi viene facile, e nel frattempo posso ripensare, mi sembra di non essermi goduta proprio niente, ero troppo agitata. Anche all'uscita della chiesa una valanga di gente che voleva baciarmi, quasi tutti dei perfetti sconosciuti, ma chi è questa gente mi son detta, ma chi li ha invitati, poi mi sono confusa perché non sapevo quali fossero i parenti dello sposo. Adesso finalmente li ho davanti e posso guardarli con calma, il padre a capotavola sembra un vecchio profeta della Bibbia, di quelli che si vedono nelle illustrazioni, con una barba grigia che gli arriva fino al petto e uno sguardo
estremamente corrucciato, sarà perché non gli sono piaciuta? non pare per niente contento, e sì che la roba da mangiare è proprio buona, questo è un ristorante famoso, ha tutte le vetrate che danno sul mare e c'è una gran luce, io ho caldo e non ho fame e mi sento svenire, devo avere un aspetto tremendo. Mi sono tolta il velo perché era lunghissimo, ma il busto è davvero troppo stretto. Forse adesso smetterò di respirare e cadrò con la faccia nel piatto. Spero proprio di no perché ho di fronte la sorella, quella antipatica, che mi guarda di continuo e storce la bocca, devo dire però che è elegantissima con quel vestito bianco e nero, e un cappellino che costerà una fortuna, meno male che la Iride pensava che fossero dei poveri cafoni. Ha anche un marito, molto più vecchio di lei, che mangia ininterrottamente dall'inizio del pranzo, in faccia è molto rosso, pare che gli debba venire un colpo apoplettico, ma la moglie non sembra preoccupata, forse è sempre così. Vicino al padre è seduto il fratello maggiore, Angelo si chiama, cerco di non guardarlo troppo perché è talmente bello, all'inizio non riuscivo a levargli gli occhi di dosso, lui sì che è alto e biondo con una bocca bellissima e occhi così azzurri, molto più bello di Gabriele poverino, naturalmente non sta bene che la sposa guardi fissamente il fratello maggiore dello sposo, e infatti adesso tengo gli occhi bassi, quando incrocio il suo sguardo ho paura di arrossire, comunque anche lui non ha mai smesso di guardarmi, me ne sono accorta benissimo. Per il resto ha l'aria piuttosto arrogante, come il padre, mangia in silenzio e si annoia, sembra che non veda l'ora di andarsene, devo dire che lo capisco. A quanto pare non è sposato, il che è strano perché avrà più di quarant'anni, o forse la moglie sarà morta, chi lo sa. Poi c'è l'Agnese, la sorella zoppa, una zitella secca vestita in modo austero, non ha addosso nemmeno un gioiello, e ho avuto l'impressione che porti degli stivaletti. Mi ha squadrata un bel po' da capo a piedi ma non sono riuscita a capire cosa pensa, con Gabriele sono stati abbracciati molto a lungo e avevano l'aria commossa, mi è sembrato addirittura che avessero pianto. Sinceramente non capisco tutto questo affetto, a vederla così non pare tanto amabile, ha uno sguardo severo e scrutatore, mi fa sentire a disagio, non che ci sia motivo. Sono sicura che si è accorta di come guardavo suo fratello maggiore, ho visto i suoi occhi che mi seguivano con attenzione, allora ho abbassato lo sguardo molto in fretta ma ho fatto in tempo a vedere il suo sorriso, un sorriso lievemente canzonatorio, però non mi è sembrato maligno, era il sorriso di una che ne ha viste tante e ormai si aspetta di tutto, lei non ha la bella bocca arrogante di suo fratello grande e di suo padre, anzi ha le labbra piuttosto sottili, quando sorride però non è tanto brutta, e non ha più quello sguardo severo. Credo che scriva poesie, o racconti, non ho capito bene, naturalmente non li pubblica perché il padre non è d'accordo, anzi la considera una cosa sconvenientissima. Ecco, adesso il commendatore vuole fare
un brindisi, è già ubriaco naturalmente e si diffonde troppo sulla bellezza della sposa, io sto zitta e mi vergogno, fa anche una battuta a doppio senso che fingo di non capire, poi mi viene vicino e allora devo alzarmi e farmi baciare su tutt'e due le guance, io non ne posso più di questi baci, guardo Gabriele ma lui è distratto, sta parlando col fratello più giovane che invece non è bello per niente, con quegli occhi sporgenti e l'aria guardinga, con me è stato molto formale, a quanto ho capito fa il notaio o qualcosa del genere. La moglie è una donna ricchissima che lo domina completamente, molto altezzosa nei miei confronti, certo quanto a denaro non possiamo competere, lei in compenso ha un aspetto orribile con quel cappello schiacciato in testa e i capelli certamente tinti, in più deve aver bevuto perché ha le guance molto rosse e un paio di volte ha riso sguaiatamente a una battuta volgare del commendatore, il marito se n'è accorto ma non osa intervenire, ha solo cercato di nasconderle il bicchiere, senza alcun successo. Adesso la sorella antipatica mi rivolge la parola in tono condiscendente, mi chiede dove eremo la prima notte, io divento rossa e mormoro qualcosa che non si capisce, “dove?” ripete lei a voce più alta, vedo che anche Angelo mi guarda e divento ancora più rossa, mi schiarisco la voce, “a Torcello” rispondo, lei sorride finemente, “Ah, Torcello” dice, è un po' ironica o sbaglio? “molto romantico”, non capisco se sorrida perché è troppo romantico o perché non è una destinazione alla moda, Angelo però mi viene in aiuto, “Torcello è bellissima” dice, e ha un tono gentile “non potevate scegliere di meglio”, io lo guardo con gratitudine, la sorella si azzittisce, lui ricambia il mio sguardo con una certa intensità. Abbasso precipitosamente gli occhi, sono sicura che l'Agnese ha seguito tutto. Non oso guardarla. Mentre me ne sto a testa bassa, cercando di distogliere l'attenzione degli altri, ripenso a qualcosa che mi ha detto la Iride, c'erano altre due sorelle, la più grande dev'essere morta, l'altra è scappata col medico del paese, il padre non ha più voluto vederla, credo che adesso viva in ristrettezze con un sacco di figli e il marito malato, una storia pietosa, i dettagli non li so. Gabriele non ne ha mai fatto cenno. Questo era uno degli argomenti della Iride contro il matrimonio, una sorella ripudiata e malmaritata, e l'altra morta non si sa come, se la Iride non è riuscita a saperlo dev'essere proprio un gran mistero. Alzo gli occhi sperando che abbiano smesso di guardarmi, e assisto sbalordita all'ingresso della vecchia con addosso il suo vestito migliore, un'antica reliquia di pizzo nero macramé, credo che risalga agli inizi del secolo, ha addirittura una specie di strascico, per non parlare dell'acconciatura che è qualcosa di mai visto, con perle e piume e dio sa cos'altro, deve averci ato l'intera mattinata, forse è per questo che non è venuta in chiesa. E adesso eccola qui, accompagnata dalla cameriera che la guarda con autentico terrore, così acconciata è certamente una bomba, avrà
intenzione di dare spettacolo. Vedo la Iride sbiancare e alzarsi a metà dal suo posto, “Venite, mamma” dice con voce tremante “sedetevi accanto a me”, e in effetti c'è di che tremare, io mi sento gelare il sangue nelle vene, ero così contenta che non fosse venuta, adesso di sicuro succederà qualcosa. Lei invece procede regalmente e va a sedersi fra la Iride e il padre dello sposo, che galante si alza per farle il baciamano, lei gli sorride addirittura civettuola. Chissà cos'avrà in mente. C'è un attimo di silenzio agghiacciante, rotto dalla Iride che sussurra: “Volete un po' di arrosto, mamma?”. “Prima di tutto un brindisi agli sposi!” trilla lei, garrula, alzando il bicchiere che premurosamente le viene riempito. Sollevati, tutti alzano il bicchiere e brindano, io e la Iride ci scambiamo uno sguardo, noi non ci facciamo ingannare, sappiamo benissimo che è soltanto l'inizio. Sorprendentemente, ma forse non tanto, la vecchia ora sembra lucidissima, si comporta da gran dama e dice cose del tutto sensate e perfino intonate all'occasione, oggi non è affatto svanita, neanche un po'. Questo significa se non altro che non farà pipì sul pavimento, sta recitando un personaggio che non contempla questo tipo di gesti, be', in fondo è un sollievo, anche se a questo punto non sappiamo cosa aspettarci, senza dubbio qualcosa di peggio. Intanto io continuo nervosamente a spilluzzicare nel piatto tenendola d'occhio, vedo la Iride fare lo stesso, lei nel frattempo cinguetta felice come se niente fosse, ha ingaggiato una conversazione col padre, chi l'avrebbe mai detto, sembra che vadano d'accordo. Lui le sorride e non ha più l'aspetto di un profeta della Bibbia, ai suoi tempi dev'essere stato un uomo affascinante, molti anni fa di sicuro, forse il figlio maggiore ha preso da lui. Gabriele si china verso di me e mi sussurra qualcosa che non sento, poi mi prende la mano e la bacia. Penso con un certo rimorso che non gli ho parlato quasi affatto, allora mi giro a guardarlo e gli sorrido con il sorriso dei momenti intimi, quello allusivo a labbra socchiuse, lui poverino s'illumina tutto, dev'essere tremendo innamorarsi così. Ad essere sincera, di momenti intimi non è che ce ne siano stati tanti, c'era sempre qualcuno a sorvegliarci, l'unica volta che mi ricordo è stato il giorno che mi ha fatto la proposta, era un pomeriggio d'autunno e lui era venuto da Padova preceduto da un biglietto molto formale, non ci vedevamo dalla fine dell'estate, cioè da Cortina, un pomeriggio piuttosto piovoso e per niente adatto a una situazione romantica, comunque quella volta la Iride aveva avuto la decenza di lasciarci da soli, era già buio, eravamo in salotto con le lampade accese. A un certo punto, dopo una conversazione stentata e piena di pause, lui si è seduto al mio fianco sulla dormeuse, io avevo il vestito di seta lilla, me lo ricordo bene, e un filo di perle lunghissimo, e prendendomi la mano ha detto qualcosa di molto confuso, qualcosa sul fatto che da quando mi aveva visto eccetera, e volevo io
degnarmi, e l'avrei fatto tanto felice se soltanto, e allora io ho girato leggermente la testa senza parlare e ho sorriso con le labbra socchiuse, e lui a quel punto mi ha baciato naturalmente, cos'altro poteva fare, un bacio piuttosto timido a fior di labbra, sono stata io ad aprire la bocca e a fargli sfiorare la lingua, allora lui si è fatto più audace e ci siamo baciati davvero profondamente con la lingua e tutto, a dire il vero io sarei stata disposta ad andare molto più avanti, però lui dopo il bacio si è staccato di fretta come se temesse chissà che e ha balbettato qualcosa di ancor più confuso, sul rapimento e l'estasi eccetera, ma in sostanza che mi portava tanto rispetto, e io di tutto questo rispetto in quel momento non sapevo che farmene, ma dato che so cosa ci si aspetta da una ragazza perbene, ho chinato la testa e ho fatto cenno di sì, pudicamente, come vergognandomi, e questo gli è tanto piaciuto perché subito dopo è riuscito a formulare una frase coerente e mi ha chiesta in sposa. Comunque la Barberina sta riscuotendo un successo enorme, intorno a lei si è formato una specie di crocchio, tendo l'orecchio per sentire cosa dice e mi sembra che racconti episodi dei tempi andati, cose della sua giovinezza, che è anche quella del padre di Gabriele, il quale ascolta con grande interesse e con occhio benigno. Se non ho sentito male, pare che addirittura conoscesse la moglie, la madre di Gabriele, morta naturalmente da gran tempo, non per vecchiaia ma per delicata costituzione, e per troppo peso di figli mi vien da supporre, “la povera Matilde” la sento dire, non credo alle mie orecchie, ma veramente sono state amiche? e come mai non l'ha detto fino ad ora? certo dalla vecchia c'è da aspettarsi di tutto, a quanto pare si tratta di ricordi di collegio, sono state in collegio insieme, un collegio per ragazze nobili, già, anche la madre di Gabriele era nobile. Il padre no, inutile dirlo. Chissà perché l'ha sposato. “Ci siamo scritte per moltissimi anni” sta dicendo la Barberina, con grandissima faccia tosta. Sarà vero? Io non ci credo per niente. Quel che è certo è che si sta divertendo un sacco. Il padre la guarda stupefatto: “Non sapevo che mia moglie tenesse una corrispondenza” dice gelido, e d'improvviso ha una faccia crudele. Mi fa un po' paura. Non dev'essere stato un matrimonio felice, e adesso mi fa pena la povera Matilde, che la vecchia continua impavidamente a descrivere come “una ragazza molto sensibile, così religiosa, praticamente una mistica”, io cerco d'immaginarmi questa creatura così sensibile insieme all'uomo che ho di fronte, e mi viene come un senso di freddo. Guardo Gabriele per vedere le sue reazioni, ma sembra che non stia ascoltando, o forse che non voglia sentire. Mi sorride e mi bacia la mano, poi dice qualcosa in tono svagato sull'andamento del pranzo, un po' lento, e però com'era buono il risotto, non è vero? Io faccio segno di sì, e per la prima volta mi viene il sospetto che non sia così limpido come credevo, mi è sempre parso tanto ingenuo, e molto semplice da gestire, in questo momento è chiaro che non
lo è. Non riesco a capire che cosa pensa, e per un attimo provo un lieve senso di allarme. Non è che adesso mi darà delle sorprese? Tutt'a un tratto lo guardo come si guarda un estraneo, e lui probabilmente se ne accorge, perché subito mi sorride fiducioso ed estatico come sempre, com'è buono, mi vuole così bene, è così trasparente, questo non è un uomo che può avere pensieri nascosti, di sicuro mi sono sbagliata. Rassicurata ricambio il sorriso, e addirittura mi spingo a dargli un bacio sulla guancia, lui mi stringe leggermente, sì, sì, è tutto apposto, lui è mio, posso leggergli dentro come in un libro aperto. Il commendatore ha notato l'abbraccio, e fa immediatamente un commento salace accompagnato da un'allusione alla notte, la notte che effettivamente ci aspetta e si fa sempre più vicina, dio mio non ci voglio pensare, no, non adesso. Dall'ingresso principale entrano due camerieri che portano in trionfo la torta nuziale, una cosa gigantesca piena di panna e meringhe, a me le meringhe non piacciono, però evidentemente sono decorative, c'è un applauso d'incoraggiamento, ecco adesso cos'è che devo fare? sicuramente tagliare la torta, infatti qualcuno mi incita, mi alzo in piedi insieme allo sposo salutata da un altro applauso, qualcuno mi mette in mano il coltello, la torta mi viene posata davanti, non so neanche da dove cominciare. “Brava!” grida il commendatore come se fosse in loggione, dev'essere molto ubriaco, e già che c'è fa il saluto fascista. Il commendatore inutile dirlo è un fascista sfegatato, se potesse parlerebbe tutto il tempo di Mussolini e della sua grande amicizia con i vari gerarchi, che a sentir lui lo invitano sempre alle loro feste in ville meravigliose, con grandiosi buffet e compiacenti donnine, e qui strizza l'occhio, le amanti dei gerarchi, cocottes le chiama la Iride, mi sono sempre chiesta come siano queste cocottes, me le immagino in sottoveste di pizzo che si sporgono dalle finestre delle meravigliose ville per salutare i loro amanti gerarchi, devono fare una gran bella vita, sempre alle feste a ballare e mangiare cose squisite, e poi in letti sontuosi ad aspettare i gerarchi avvolte in costosi profumi, naturalmente davanti a me la Iride non vuole che se ne parli. A dire il vero la Iride non vuole che si parli neanche di Mussolini, e non solo davanti a me, lei è antifascista perché dice che Mussolini è un uomo volgare, con il commendatore hanno avuto una discussione piuttosto accesa sull'argomento, ancora tre anni fa, al tempo della marcia su Roma, in seguito alla quale la Iride gli ha proibito di metter piede in casa nostra. Poi naturalmente si sono riconciliati perché lui ha tanto insistito e in più è una sua vecchia fiamma, non che la Iride sia sentimentale però le fa piacere che lui sia ancora galante, ma da quel momento gli è stato proibito nel modo più assoluto di menzionare il tema, e lui di solito si attiene. Ad essere sincera Mussolini non piace neanche a me, è proprio vero che è un uomo volgare, in questo ha ragione la Iride, con quella voce sempre così tonante in modo fastidioso, quando urla i suoi discorsi alla
radio, che poi a sentir bene non è affatto una bella voce, anzi per la verità è una voce un po' fessa, anche se lui si sforza tanto di renderla marziale. Naturalmente adesso queste cose è meglio non dirle, infatti non le dice più neanche la Iride, si limita soltanto a storcere il naso quando qualcuno lo nomina, come se sentisse un cattivo odore. Non ho modo di verificare la sua reazione al saluto fascista perché sto appunto tagliando la torta nuziale, operazione che continua a suscitare grande euforia tra i commensali ed entusiastici battimani, finché finalmente tutti sono sistemati davanti alla loro fetta e così mi è concesso di tornare a sedermi, e allora posso guardarla e vedo che in effetti è molto arcigna, non mangia la torta e fissa il commendatore con occhi di fuoco, lui fa finta di niente e continua a parlare di politica con Mariano, il fratello notaio, che dev'essere anche lui molto fascista, e con la consorte dai capelli tinti, pure lei fascistissima a quanto sento, mi sa che è una di quelle donne che vanno matte per il duce, pare che ce ne siano una quantità, e sì che io lo trovo un uomo bruttissimo, anche questo è meglio non dirlo. Comincio a mangiare la torta scostando man mano le meringhe, sperando in cuor mio che la discussione politica cessi prima che la Iride decida di reagire, quando la voce squillante della Barberina all'improvviso si leva su tutte: “Ma non c'era una figliola più grande? Quella che somigliava tanto alla povera Matilde...”. Si guarda intorno golosamente, aspettando una reazione. Sembra più che mai un vecchio pennuto. “Due gocce d'acqua, proprio”. Fa una pausa. “Come mai non è qui? È malata?” Sui convitati cala un silenzio di tomba, che dura per un tempo incalcolabile. Poi il padre a capotavola, visibilmente impallidito, getta con sdegno il tovagliolo sul piatto, scosta la sedia, e si alza senza una parola. Il figlio Angelo ancora più pallido si alza a sua volta, getta il suo tovagliolo con gesto praticamente identico, e sempre in assoluto silenzio i due girano i tacchi ed escono insieme dalla stanza. Io nel mio vestito da sposa rimango impietrita aggrappandomi al tavolo con le mani convulse, e per un tratto che sembra lunghissimo nessuno si muove né parla, né tantomeno fa segno di voler inseguire i fuggiaschi e convincerli a tornare. I vari fratelli compreso Gabriele non si guardano fra loro e fissano anzi intensamente la tovaglia, finché la Iride, che bisogna dirlo con tutti i suoi difetti è una donna di fegato, si alza intrepidamente e dice qualcosa tipo gentili signori mi spiace per l'incidente ma spero che continuerete a godervi la festa, e con grande sollievo tutti tornano a tuffarsi sulla torta e sullo champagne fingendo che non sia successo niente, e intanto la Iride imperiosamente fa segno alla
cameriera di trascinar via la vecchia scandalosa che con il suo goloso sguardo da uccello sembra divertirsi un mondo e ridacchiare fra sé, e ormai raggiunto il suo scopo si fa portar via mansueta non senza aver ottenuto un'altra fetta di dolce, e il commendatore riprende impavido il suo discorso sul fascismo sapendo che in questa situazione resterà impunito, e la moglie del notaio riprende a civettare sfacciata con le guance sempre più rosse, e i fratelli rialzano gli occhi e riprendono a parlare ma continuano a non guardarsi fra di loro, e l'Agnese naturalmente non parla ma osserva tutto e tutti con il suo sguardo implacabile. Io invece guardo Gabriele, mio marito, che fissa il mare fuori dalla finestra con sguardo sognante, come se desiderasse intensamente essere altrove, anzi, come se fosse già da un'altra parte, forse proprio sul mare, in viaggio verso luoghi lontani. Durante il periodo del fidanzamento non gli ho mai visto quell'espressione. Forse ha ragione la Iride, che facevo meglio a non sposarmi. Adesso magari mi trovo da sola, con uno sconosciuto che sorride gentile pensando a tutt'altro. Dei suoi parenti in effetti mi ha parlato pochissimo, e io non gli ho chiesto mai niente, non mi sembrava importante, avrei dovuto fare più attenzione. Mi sa che non ho fatto attenzione a troppe cose. Sento su di me lo sguardo dell'Agnese, e mi giro di scatto cercando di avere un aspetto felice come sarebbe d'obbligo per una sposa, ma vedo benissimo che non la inganno, allora mi sforzo di tirar fuori un sorriso smagliante e lei mi risponde con un piccolo sorriso comprensivo e triste, è terribile che questa donna capisca tutto, e ormai è pomeriggio avanzato e tra qualche ora sarà notte, dio mio che cosa farò, non voglio restar sola con quest'uomo che non conosco e che ormai è mio marito, quando saremo in albergo non sapremo nemmeno di cosa parlare, in fondo cos'abbiamo in comune? alla fin fine è un perfetto estraneo, e a ben pensarci non gli devo proprio nulla, forse non è troppo tardi, la Iride di certo non aspetta altro, magari sono ancora in tempo a prendere il piroscafo e partire per l'America...
Dio che stanchezza. Non so neanche quant'è che sto qui, appoggiata al davanzale, a guardare il canale come una stupida. Dev'essere tardi, perché non si sente più nessun rumore. Perfino la vecchia maledetta e nefasta ha smesso di picchiare per terra col bastone, è furiosa perché l'ho chiusa dentro, e in più non ha avuto la cena, sta fresca se pensa che le dia da mangiare, dopo il bel lavoretto che ha fatto oggi. A dir la verità stavo quasi pensando di non darle niente nemmeno domani, e
continuare così per qualche giorno, chi sa che non muoia di fame, sarebbe la cosa migliore, però se poi qualcuno fa domande, il parroco che magari viene in visita, o qualche vicina che non si fa gli affari suoi, per non parlare delle serve! mica mi posso fidare di quelle, e non c'è da sperare che non se ne accorgano, con tutto il baccano che fa, e comunque è la Rita che le porta il pranzo di solito, che figura ci faccio se le dico di non darle più niente? no, no, così non si può fare, dovrò trovare un altro sistema, ma prima o poi me la levo di torno, poco ma sicuro. Si è alzata una luna che fa quasi paura da quant'è grande, c'è una luce che sembra giorno, se avessi un cannocchiale potrei vedere fino a Torcello... cosa starà facendo adesso la Clara, da sola con quello là, non so perché ma non mi sento tranquilla. A me quell'uomo lì non piace, sarà che è troppo basso, e poi oggi è rimasto talmente calmo, non mi fido di uno che resta così calmo in un frangente simile, non è naturale, certo dal mio punto di vista è stato meglio perché se anche lo sposo perdeva le staffe, e magari dio ne guardi correva dietro al padre per convincerlo a tornare, allora il matrimonio era proprio rovinato, invece così ho ripreso in mano la situazione senza troppi danni, poteva andare peggio, comunque resta il fatto che lui si è comportato in modo strano. Sì. È tutto veramente strano, e la famiglia... La Clara è una stupida testarda, però adesso mi fa pena, dico la verità. Quando è salita in barca per andare a Torcello, con lui che la seguiva tenendole lo strascico, sembrava una bestia portata al macello. Non è un bel paragone, per una che sta andando in luna di miele. Luna di miele, poi, che razza di espressione. Se penso a com'è andata la mia... ma è meglio lasciar perdere. Tutto quell'affanno, tutti quei preparativi, per non parlare di mia madre quella santa donna che un giorno mi ha preso da parte e se n'è uscita con dei discorsi senza senso, frasi del tipo che gli uomini, capisci, non sono come noi, il che di per sé non vuol dire un accidente, ma lei lo diceva fissandomi intensa e in tono di cospirazione, come se si trattasse di un gran segreto o come se ci fosse chissà che sottinteso, e io ad annuire facendo finta di aver capito, e le amiche che si chiudevano nella mia stanza sussurrando e ridendo e facendo predizioni, e mi guardavano e si davano di gomito e scoppiavano a ridere di nuovo, naturalmente neanche loro ne sapevano niente ma si davano l'aria delle grandi esperte, e alla fine di tutta questa giostra, la sera delle nozze, quando è arrivato il momento di mettersi a letto – io con la camicia da notte di merletto, e a dire il vero con un po' di tremarella per via che gli uomini non sono come noi – ecco che lui mi dà un bacio sulla guancia e mi dice “buonanotte, tesoro, fai un buon riposo”, e via che si gira dall'altra parte, col suo pigiama di seta cinese, senza sfiorarmi nemmeno con un dito, e avanti così per altri quindic'anni. Poi finalmente è morto, che Dio lo perdoni.
A mia madre non gliel'ho mai detto. Se è per questo non l'ho detto a nessuno, nemmeno al confessore, a parte il fatto che dopo un po' di tempo ho anche smesso di andare a confessarmi. Non son cose che si dicono, queste. Non voglio mica farmi rider dietro. Certo, col tempo è stata dura, tutti che si aspettavano che rimanessi incinta, e io naturalmente niente, finché hanno cominciato a guardarmi in modo strano, e il parroco un giorno è venuto per dirmi che i figli sono la benedizione del matrimonio, e non è che per caso non li volevamo, perché questo è un peccato veramente grave figlia mia, e io mi sono limitata a scuotere la testa, e lui a insistere, è così figliola? e io finalmente sono riuscita a dire “è solo che non vengono, padre”, e devo aver avuto un'aria sconsolata perché lui a quel punto si è alzato e mi ha fatto la benedizione, e poi ha aggiunto che bisogna aver pazienza, e che le vie del Signore non le conosciamo. È stato dopo questa visita che ho deciso di prendere la Clara, così almeno se ne stavano zitti. Non che sia proprio una figlia, naturalmente. Ma in qualche modo, con lei le cose sono andate meglio, sembravamo di più una famiglia. L'importante è quello che si vede, io alla Clara glielo dico sempre, anche se lei non mi vuole ascoltare. E infatti adesso è lì a Torcello, che se avessi un cannocchiale riuscirei a vederla, con la luna che fa chiaro come di giorno. A quest'ora di sicuro han finito di cenare, saranno già di sopra, e lei si sarà messa il deshabillé rosa, quello che dietro ha uno strascico a ventaglio, è veramente chic, una creazione, gliel'ho fatto arrivare apposta da Parigi. Certo non è la stessa situazione, quel bassetto non ci pensa due volte a prendersi quello che gli spetta, basta guardarlo in faccia per capirlo, anche se sembra così mansueto. È che la Clara è veramente ingenua, crede di essere furba, ma invece non capisce proprio niente. Povera Clara, con quella faccia da cane bastonato, lì sulla barca che cominciava a allontanarsi, e lei che continuava a guardare indietro. Mi ha fatto molta pena, dico la verità. Potrei addirittura cambiare il testamento. No, be', adesso non esageriamo. In fondo, un po' se l'è voluta. Io ho cercato di dissuaderla in tutti i modi. E in fin dei conti, santo cielo, non è mica morta! semplicemente, si troverà male, ma questo si sa succede quasi a tutte. E allora, si può sapere di cosa mi preoccupo? lo so che è irragionevole, però non riesco proprio a star tranquilla, sarà la luna, o il fatto che in casa c'è troppo silenzio...
È mezzanotte. Ho sentito i rintocchi. Sto seduta sul letto davanti alla finestra, fuori c'è una gran luna, il mare sembra seta. Sento il sangue che continua ad uscire, ha già macchiato il deshabillé di raso che mi ero messa per la notte di nozze, se lo sapesse la Iride che ci teneva tanto, adesso il sangue non verrà più
via. Sto ferma ferma sperando che smetta, non voglio scendere e macchiare il pavimento, ci sono dei tappeti, è un albergo di lusso. Io non lo so se tutto questo sangue è normale. Chissà com'è che succede di solito, non ne ho nessuna idea, magari avrei dovuto chiederlo, ma a chi? Adesso se potessi alzarmi, e andare alla finestra, forse con un cannocchiale vedrei il Canal Grande e le finestre di casa, che ormai non è più casa mia. La luna fa una luce che sembra giorno. Qui in albergo ci son solo stranieri, si e americani, c'è una se con i capelli corti, molto carina, veramente alla moda, l'ho guardata per tutta la cena, anche perché non sapevo cosa dire. Lui non è che abbia parlato molto, mi versava il vino, parlava del cibo, due o tre volte mi ha chiesto se non avevo freddo, assurdo, è una serata estiva, e oltretutto avevo lo scialle. Io praticamente non l'ho mai guardato, per cui non posso dire che espressione avesse, però non c'era traccia del suo sguardo adorante, di questo son sicura, sembrava molto controllato, solo ad un certo punto, dopo un bel po' di vino, perché io non ho bevuto quasi niente, si è fatto più espansivo e mi ha detto che ero bella, ma non aveva un tono galante. Chissà se la Iride è sveglia. Starà dormendo di certo. Anche qui sembra che dormano tutti, c'è un silenzio che fa quasi paura, non è come a Venezia, dove qualche rumore lo si sente sempre. Siamo in un'isoletta in fondo alla laguna. All'improvviso questa cosa mi angoscia, non so perché non ci avevo pensato, un posto così solitario... Per fortuna sono solo tre giorni. All'inizio sembrava tanto poco, adesso l'idea mi terrorizza, soli in questo deserto per tre giorni interi... Devo distrarmi, non ci devo pensare, a dormire non ci provo nemmeno, eppure dovrei essere stanca, non ho dormito neanche l'altra notte. Sembra ato un secolo. Se penso che ero preoccupata per la cerimonia... Questo sangue non smette. Secondo me non è normale, forse si è rotto qualcosa e morirò dissanguata. Devo chiamare qualcuno? No, per carità, pensa che vergogna. Potrei scendere dal letto tamponandomi con la camicia, tanto ormai è rovinata, andare fino in bagno, e mettermi del ghiaccio sulla pancia. Ma dove lo trovo, il ghiaccio? Niente, non c'è niente da fare. Morirò dissanguata. Ecco qua. Così imparo a far di testa mia. Se avessi ascoltato la Iride, a quest'ora sarei in viaggio per New York...
In tutto questo, lui dorme come un sasso, roba da non credere. Russa, perfino. Non tanto, ma un po' russa. Ci mancava anche questa. E sì che non è ancora vecchio. Figuriamoci dopo. Comunque, posso anche smetterla di stare così immobile, tanto lui non si sveglia. Mi sposto leggermente verso il bordo del letto, e tasto il lenzuolo per sentire se è bagnato. È tutto inzuppato. Che razza di figura. Se domattina non sarò ancora morta, giuro che scappo dall'albergo. Non voglio vedere la faccia della cameriera. E soprattutto, mettiamo che al risveglio lui vuol ricominciare. Un vero incubo, l'unica è darmi malata. Del resto, sono malata. C'è poco da fingere... Pensare che nelle lettere era così cerimonioso. Tutte quelle frasi d'amore, talmente fiorite, perfino un po' ampollose a dir la verità, però questo pensiero mi sembrava sacrilego, erano le lettere del mio fidanzato, e quindi mi son detta, un uomo che scrive queste cose, sicuramente è pazzo d'amore... Certo ero proprio ingenua. È vero che non ho esperienza. D'altra parte, le poche volte che siamo stati soli, lui sembrava così trepidante... E rispettoso, soprattutto. Invece, questa notte, neanche una parola. Già a tavola era stato silenzioso, non che io l'abbia aiutato, questo lo ammetto, ma quando siamo saliti, io mi sarei aspettata, non dico tanto, ma almeno una frasetta, quattro parole, per dirmi com'era felice, o cose del genere... Adesso dal piano di sotto arriva un suono di voci, piuttosto allegre mi sembra, dev'essere il gruppo degli americani che torna da Venezia, beati loro, si saranno divertiti, cinque o sei giovanotti e due ragazze, senza neanche uno straccio di chaperon, certo in America son proprio fortunate, le lasciano libere, magari non si sposano neanche, oppure molto tardi, si godono la vita quelle, e nessuno che gli dica niente. La ragazza se invece era con un uomo pallido dall'aria severa, molto più vecchio di lei, forse sono anche loro in luna di miele. L'ho pensato perché non si guardavano in faccia e non parlavano quasi, dev'essere una conseguenza del matrimonio. Più tardi, mentre ero in bagno a prepararmi per la notte – ci ho messo un'eternità a sistemarmi i capelli, non riuscivo a decidere se lasciarli sciolti o se farmi una treccia, ero così agitata che non ce la facevo a uscire – tutto a un tratto il deshabillé di Parigi, che a casa mi piaceva così tanto, mi è parso troppo audace con quella scollatura sulla schiena, per cui mi sono messa la vestaglia, che certo rovinava l'effetto però mi vergognavo molto meno, tutto inutile perché quando sono rientrata la stanza era completamente al buio e lui già disteso sul letto, mi si è gelato il sangue, con circospezione mi sono avvicinata e mi sono sdraiata dal
mio lato, il cuore mi batteva così forte che pensavo di svenire. Per un po' non è successo niente, un silenzio tremendo, sentivo solamente il suo respiro, speravo tanto che dicesse qualcosa ma invece niente e nel silenzio ho cominciato a sudare. Poi ad un certo punto, all'improvviso, senza nemmeno un bacio o una carezza un accidente di niente, lui si è girato dalla mia parte e mi ha tirato su la camicia, mi è montato sopra, e ha cominciato a spingere per infilarmelo dentro, e lì naturalmente non c'è stato verso perché io ero spaventata e mi faceva male, ma lui non desisteva e si accaniva e continuava a spingere come un ossesso, finché io non gli ho detto, prima a voce bassa, poi più alta perché pareva che non mi sentisse “Per favore smettila, mi stai facendo male”, e dopo che l'ho ripetuto per la terza volta lui si è fermato di botto e mi ha chiesto scusa. Però non è uscito come io speravo, è rimasto lì fermo per un po' e io sentivo il suo cuore che batteva veloce, e mi pesava addosso da morire con quei fianchi ossuti, e per fortuna è magro ma mi pesava lo stesso da togliermi il fiato, e dopo un po' ha richiuso gli occhi e senza dire una parola ha ricominciato, questa volta più in fretta e più accanito spingendo fino in fondo senza nessuna pietà, e adesso sì che mi faceva un male del diavolo e gliel'ho detto ma lui pareva proprio che non mi sentisse e andava sempre più in fretta e il respiro si faceva sempre più affannoso, e allora mi sono rassegnata e ho stretto i denti sperando che finisse il più presto possibile, e poi ho sentito che accelerava all'improvviso e respirava più forte e alla fine ha fatto un verso stranissimo e mi è crollato addosso e per un attimo ho pensato che fosse morto. È stato lì io credo che il sangue ha cominciato ad uscire. Poi ho capito che non era morto perché ho sentito che continuava a respirare, e anzi nel giro di trenta secondi non di più il respiro si è fatto più profondo e più lento finché è stato chiaro che si era addormentato, allora come un rubinetto che si apre hanno cominciato a venirmi giù le lacrime, prima piano poi un vero diluvio finché mi sono messa a singhiozzare senza freno, ma questo non gli ha affatto impedito di dormire, e dopo un po' che piangevo disperata con lui che mi pesava addosso come un sacco di pietre mi sono spostata di fianco e l'ho fatto scivolare dall'altra parte del letto, tanto non c'era pericolo che si svegliasse, e adesso eccomi qua con questo sangue che non si ferma. Magari succede sempre così e io mi ero fatta delle idee, forse è tutto normale anche se a me sembra terribile, possibile che le altre sopportino una cosa simile senza dir niente, a dire il vero non ho molte amiche sposate e non sono riuscita a far domande perché ultimamente c'era sempre la Iride a sorvegliare che non si parlasse di questo, così si finiva inevitabilmente per parlare del corredo, un argomento pochissimo interessante a mio avviso, e naturalmente alla Iride neanche a pensarci di chiederle qualcosa, appena ci si avvicinava anche solo
vagamente al tema lei alzava le sopracciglia e prendeva la sua aria più scostante, col bel risultato che non so proprio niente anche se da qualche allusione delle serve avevo dedotto che ci fosse da divertirsi, forse a loro piace perché sono rozze anche se non riesco proprio a capire cosa ci sia di gradevole in quel che è successo stasera, no no non è possibile che sia normale, ad esempio quell'unica volta che ci siamo baciati con la lingua, il giorno che mi ha fatto la proposta, io mi sentivo, non so come spiegare, mi sentivo del tutto diversa, non avevo per niente paura e anzi avrei voluto che lui continuasse, stasera invece ho sentito solo un gran dolore e poi lui è stato talmente insultante, certamente non tutti sono così altrimenti non si sposerebbe più nessuna, è vero che se sono ignoranti come me vanno al macello senza saperlo – la sola idea che la cosa si debba ripetere ogni notte, l'unica consolazione è che lui è spesso via per lavoro. Domani comunque non se ne parla perché starò male, certo se dovesse prendermi con la forza, il che è praticamente quel che ha fatto, mica posso chiamare qualcuno perché mi difenda da mio marito, ormai l'ho sposato e non c'è più niente da fare. Solo a pensarci mi vengono di nuovo le lacrime, intanto però mi sembra che il sangue si sia fermato, allora forse non morirò. Scivolo giù dal letto con le gambe che mi tremano, sì, si è proprio fermato, faccio un paio di i vacillanti incredula di riuscire a camminare, mi fermo nel mezzo della stanza nella luce di luna che inonda il pavimento, respiro profondamente per placare l'affanno e l'odore salmastro della laguna mi arriva molto forte, un odore familiare, che mi calma. A tentoni mi dirigo alla finestra e mi appoggio al davanzale, l'odore del mare ancora più intenso e in sottofondo il rumore della risacca, onde piccolissime che si rompono piano sulla spiaggia riparata dell'albergo, la luna è molto alta nel cielo, il vento è calato. La notte è così chiara che riesco a vedere esattamente il punto in cui finisce la laguna e inizia il mare aperto, le onde dell'Adriatico, larghe e lente, che brillano sotto la luna. Prego perché mi spuntino le ali per poi spiccare il volo e andarmene lontano, come quelle ragazze americane che viaggiano tranquille senza chaperon, e ballano tutta la notte e si mettono i vestiti corti con le frange, e si tingono la bocca di scarlatto anche al mattino, e poi penso che io non so volare e che in America non ci andrò mai, e mi viene una grandissima tristezza. Penso che invece andrò a finire a Padova nella casa col poggiolo e le magnolie, dove sicuramente c'è la nebbia anche d'estate. Però la casa è bella, penso per farmi coraggio, domani con il sole sembrerà tutto diverso, e magari lui sarà tornato come prima, un uomo gentile che mi guarda adorante, e questa cosa orribile non
succederà più. Penso che adesso, qui in piedi alla finestra, mi piacerebbe mettermi a fumare, come fanno gli uomini e come ho visto fare prima a una delle ragazze giù in salone, che fumava una sigaretta con un bocchino lunghissimo color avorio, se lo racconto alla Iride è capace che va subito a comprarsene uno, lei per queste cose alla moda ci va matta, anche se è chiaro che non fumerà mai in vita sua. Poi penso che d'estate io al Des Bains ci verrò in ogni caso, marito o non marito, e mi siederò sulla terrazza a mangiare il gelato e mi farò guardare dagli sconosciuti, e lui che se ne resti pure a Padova con tutta quella nebbia. Penso a quanto mi piacerebbe chiudere gli occhi e svegliarmi nella mia cameretta, e sentire la vecchia che batte per terra col bastone, e perfino portare la colazione alla Iride, come mi toccava fare quando la Rita era malata. Penso a un'infinità di cose, affacciata a questa finestra alta sul mare, e nel frattempo la notte a e l'aria si rinfresca, e il riflesso sull'acqua piano piano si spegne. Quando alzo gli occhi, la luna è impallidita. In lontananza si sente il fischio di una nave. Penso che è quasi l'alba e dovrò pur decidermi a dormire, e poi mi volto con circospezione e guardo finalmente il letto dove lui dorme e sogna disteso per traverso, russando leggermente – dorme beato con la bocca semiaperta sul lenzuolo macchiato del mio sangue, dorme profondamente e chissà cosa sogna. Una mosca gli si posa sul braccio; lui la scaccia senza svegliarsi, con un gesto automatico. Il suo viso nel sonno è rilassato e distante, un viso sconosciuto. Questo è quel che vedrò per il resto della vita, penso, e per un attimo ho la tentazione di prendere la rincorsa e buttarmi di sotto, ma naturalmente non lo faccio. Invece mi avvio verso il letto e mi sdraio al suo fianco, con gli occhi spalancati, mentre fuori gli uccelli cominciano a cantare.
Aprile 1938
Bianco. Tutto bianco. Dovunque guardo. Forse un sogno? Difficoltà a girare la testa. Impossibile girarla. Sento dei rumori. Non sono sola qui. Una parte della mia mente è sveglia. Una parte. Che parte? Vorrei chiamare, ma non posso. Impossibile girarmi. In qualche posto qualcuno si lamenta. Una voce di vecchia. Ripete “mamma, mamma”. A intervalli regolari. Mi fa paura. Dove sono? Se sono morta, questo non è il paradiso. Ho avuto un incubo tremendo. Ho degli incubi tremendi. Mi sono svegliata da un incubo tremendo. Svegliata? Una parte della mia mente è sveglia. Una parte... Nel sogno, mi ricordo che entravo in una stanza, e lì succedeva qualcosa di atroce, ma non riesco a ricordarmi cosa. Sento dei rumori. Non sono sola qui. Impossibile girare la testa. Vorrei girarla. Guardarmi intorno. Capire dove sono. Ma è impossibile. Impossibile girarla. C'è molta luce, ma non c'è una finestra. O almeno, io non la vedo. Davanti a me c'è qualcosa di bianco. Una tenda? Non riesco a capire. Sento un odore. Un odore molto forte. Sgradevole. Ho la nausea. Devo chiudere gli occhi. Non posso tenerli aperti. Un'ondata di nausea. Qualcosa tremola dietro le palpebre. Come una luce che lampeggia prima di spegnersi. Poi il buio.
Qualcuno si china su di me. Non apro gli occhi. Sento una voce, una voce di donna, una voce fastidiosamente alta: “Allora? Ci siamo svegliate?” La voce ostenta familiarità, ma io questa voce non la conosco. “Vogliamo svegliarci? Su, non facciamo così, lo vedo bene che siamo sveglie...” Perché parla di me al plurale? “Un piccolo sforzo. Apriamo gli occhietti. Vogliamo aprirli, questi occhietti?” Non li apro. La voce è fastidiosa. Vorrei che questa donna se ne andasse. La testa continua a farmi male, le tempie battono con un rumore sordo. La voce è impaziente: “Tiriamoci su. Su, a sedere. È ora di far colazione”. Qualcuno mi dà uno strattone, sento che ammucchia dei cuscini dietro la mia testa. Io tengo gli occhi chiusi. La voce diventa decisamente ostile: “Ah, se cominciamo così... Non ho mica tempo da perdere, io.” Mi dà un altro strattone per tirarmi su. Io rimango iva. Un vassoio mi viene piazzato sulle ginocchia: “Ma io la colazione te la dò lo stesso. Non penserai che stia qui ad aspettare i
tuoi comodi, vero?” Un cucchiaio cerca di forzarmi le labbra. Io le tengo serrate. Il cucchiaio insiste, e riesce a buttar dentro qualcosa, del tè credo, molto zuccherato. Lo sputo. Sento la tazza che sbatte sul vassoio, con rabbia. La voce è furente: “Ah, è così? Allora non farai colazione. Peggio per te. Ma lo dirò al dottore. E ti assicuro che saranno guai. Non ti è bastato il trattamento di ieri? Non ti è bastato? Ah, ma sta' tranquilla che ne avrai dell'altro, e poi vedremo se avrai ancora voglia di sputare...” Sento che si riprende il vassoio, un tintinnio di tazze e di piattini. Poi dei i che si allontanano. Cautamente, apro gli occhi. La luce è sempre bianca. Continuo a non vedere altro che la tenda, se di tenda si tratta, o forse è un paravento. Cos'è successo ieri? La testa continua a dolermi, un dolore lancinante, però voglio provare a girarla un tantino. Ecco, così. Appena appena. No, il dolore è troppo forte. Richiudo gli occhi. Sono già sfinita. Voglio soltanto rimettermi a dormire, e se è possibile non risvegliarmi. Solo, non vorrei che tornassero gli incubi.
Che non vengano a dirmi che è stata colpa mia. Perché non è vero. Nossignore. Io di colpa non ne ho nessuna. Nessunissima, proprio. Caso mai sarà lui ad averla, qualche colpa. Non tanto in quest'ultima faccenda, questa è stata proprio una fatalità. Una disgrazia, non c'è altro da dire. Chi poteva aspettarselo? Da fuori, è facile giudicare, si sa. Facile dare le colpe. A parte che, per fortuna, com'è andata davvero non lo sa nessuno. Tranne lui e me, naturalmente. E lei. Che però adesso, anche se parlasse, non le crederebbero più. E poi forse non ricorda più nulla. Va' un po' a sapere, cosa si ricorda. Io non ci tengo a saperlo, poco ma sicuro. Lui, invece, è lì che si tormenta. Tutto il santo giorno a tormentarsi. A cosa serve, dico io. Tanto ormai non si può rimediare. Adesso è ora che metta su qualcosa da mangiare, perché tra poco tornano i ragazzi e hanno sempre una fame da lupi. Non ho neanche pensato cosa fargli. In questi giorni sono tutta sottosopra, è naturale, chiunque lo sarebbe. Ma bisogna mantenere gli orari, altrimenti va tutto per aria. Potrei fare uno stufatino, credo che un po' di carne sia avanzata, e poi ci metto le patate, così si saziano. Oggi non sono neanche uscita a far la spesa. Sono proprio sottosopra. E il bello è che invece devo stare sempre attenta, altrimenti quello si fa prendere dalla disperazione, e io continuamente a tirarlo su. Certo gli uomini son proprio
fragili, lo diceva sempre anche mia mamma. E dire che era tanto una bella giornata. Uno di quei giorni di sole, ma così caldi, così luminosi, quei giorni che si sente la primavera, e si vorrebbe andar fuori, in campagna, a vedere gli alberi in fiore, io poi che in campagna ci sono nata, figuriamoci, e invece qui mi devo accontentare del giardino, non che sia brutto, anzi è bello grande, quasi un parco, certo un po' buio, ma molto ben tenuto, col giardiniere i cani e tutto quanto, si vede proprio che è una casa da signori. A pranzo avevo fatto il baccalà alla vicentina, perché era martedì, e in questa casa il martedì si mangia pesce. Io il baccalà lo faccio sempre buono, anche se per i miei gusti è un po' pesante, ma quel giorno ho superato me stessa, perfino lui mi ha fatto i complimenti, e non è che succeda tanto spesso. I ragazzi l'hanno divorato, anche la Monica che di solito è smorfiosa e per farla mangiare ci vuole una pazienza, e suo fratello grande si è servito tre volte. Soltanto lei non l'ha quasi assaggiato, ma lei ha sempre mangiato molto poco, e poi non mi voleva dar soddisfazione, tanto che di nascosto ne ha dato metà al cane. Si sventolava e aveva mal di testa, e si è anche lamentata del caldo, come si fa a lamentarsi dico io dopo l'inverno che abbiamo avuto, e poi quel giorno non era affatto caldo, c'era un bel venticello e si stava così bene, avrei tanto voluto andarmene a eggio, invece di stare in casa a pulire, ma io non sono mica una signora, che il pomeriggio va in giro a far visite. Lei dopo pranzo è andata a riposarsi, e mi ha detto di svegliarla alle quattro, perché doveva portare il regalo a sua cognata. “Mi aspetta per le cinque, viene anche l'avvocato Ravenna”, così ha detto, quando lui glielo ha chiesto. Me lo ricordo come fosse ora. Buio. Buio senza sogni. Buio profondo. Né colori, né suoni.
Qualcuno ha cominciato a schiaffeggiarmi, prima piano, poi sempre più forte, finché sono riemersa dal buio con un grido. “Sveglia” è la solita voce, ma stavolta è allarmata “ti devi svegliare!” Forse ho solo creduto di gridare? A quanto pare lei non mi ha sentito. Continua più piano, rivolta a qualcun altro nella stanza: “Questa se adesso crepa ci mette nei guai...” “No che non crepa” è una voce maschile questa, una voce brutale “non vedi che è già sveglia, e poi puoi star tranquilla, questi sembrano delicati ma sono forti come tori. L'ho già visto un sacco di volte, dammi retta. Puoi fargli quello che ti
pare, e sta' sicura che non crepano...” “Ho paura che il dottore ci sia andato giù pesante” dice la donna. “E ha fatto bene” dice lui. “Quando sono agitati, bisogna farlo. Puoi star certa che dopo si calmano. Questa era agitata, no?” “Crisi d'isteria” dice la donna. “Ecco, vedi” dice l'uomo “te l'avevo detto. Il dottore sa quello che fa. Se c'è bisogno, sta' tranquilla che lo fa”. Sento che lei mi a una mano sul viso, per vedere se sono cosciente. Faccio finta di svegliarmi solo ora. Apro gli occhi e la guardo. Non è bella. Non è neanche giovane. Si raddrizza la cuffietta e sorride, facendo la voce suadente: “Ah, ecco! Siamo sveglie finalmente! Ma allora siamo proprio dormiglione! Volevi farci spaventare?” Io non parlo. L'uomo si avvicina al letto. È in camice bianco, con le maniche corte, e ha le braccia molto pelose. “Cos'è, hai perso la voce?” Io non parlo. “Ti ho chiesto se hai perso la voce.” Io non parlo. L'uomo fa una faccia, come se stesse per picchiarmi. La donna gli mette una mano sul braccio. “Sta' calmo. Ci penserà il dottore.” “Questa ci prende per il culo” dice l'uomo. “Parlava, quando è arrivata, no?” “Altroché se parlava!” dice la donna. “Gridava come un'ossessa. Graffiava, anche. Abbiamo dovuto legarla.” L'uomo sogghigna. “Vedi” dice “adesso è più calma.” Ridono tutti e due.
Che poi non riesco a capire perché è così in ritardo, sono quasi le otto e lo stufato sta finendo di cuocere, un profumino tra l'altro, poco fa sono entrati i ragazzi, prima Beppe poi Piero, “che buon profumo” dicevano, e non si toglievano dai piedi, finché gli ho fatto due urli perché uscissero dalla cucina, è strano però, i ragazzi di questa storia non parlano affatto, come se non fosse successo niente, è vero che ne sanno gran poco, ma lei non la nominano proprio, vanno in giro per casa e fanno le solite cose, giocano a pallone, studiano, escono con gli amici, magari un po' più pallidi, magari un po' svogliati, ma non ne parlano. È strano. Non hanno quasi fatto domande. Neanche al padre. Si sono accontentati di quel poco che gli ha detto, e dio sa che non c'è una parola di vero. Con le bambine è più difficile perché quand'è successo erano a casa, soprattutto la Monica che è più grande si è chiusa in un mutismo che fa paura, la piccola ha pianto per tutta la notte ma poi un po' alla volta si è calmata, del resto ha solo cinque anni. Lei però è l'unica che ogni tanto la chiama o chiede dov'è, io le dico che tornerà presto e allora la smette, non sempre però, certe volte riprende a singhiozzare, in questi casi bisogna distrarla, io per fortuna coi bambini ci so fare, anche se non è che li sopporto tanto. Assaggio. È quasi cotto. Perché lo stufato venga buono ci vuole il vino rosso, ma oggi mi sono dimenticata di comprarlo, pazienza, per questa volta si accontenterà. Certo che è scomoda questa cucina, cucinare ogni giorno per tutta questa gente, per i fornelli ci vuole più spazio, adesso che lei si è cavata di torno magari riesco a fare qualche cambiamento, mica gli chiedo i soldi, farò un po' di cresta sulla spesa, tanto lui non si accorge di niente. Per la verità lo facevo anche prima, però con lei dovevo stare più attenta, non che fosse un granchè come donna di casa, anzi non era buona a niente, solo che quando le girava veniva qui a rompermi le scatole, e certe volte controllava pure. Entra Beppe e cerca d'infilare un pezzetto di pane nel sugo, io lo blocco con fermezza, “dio quanto sei noiosa” mi dice, allora gli taglio un pezzetto di salame, in questi giorni li vizio, così stanno calmi, non posso fare la dura in questo momento, sennò c'è il rischio che vadano a lamentarsi col padre, ci mancherebbe altro, già quello è in piena crisi, gli basta niente per sbroccare del tutto, e allora lo sa dio quel che può combinare, e soprattutto cosa può uscirgli di bocca. “Grazie” mi dice Beppe, e se ne prende altre due fette. Poi mi guarda e mi fa un gran sorriso. Il sorriso significa “tanto ormai non puoi dirci più niente”, hanno
capito tutto 'sti bastardi. Avrei voglia di sbatterlo fuori, invece gli sorrido a mia volta, meglio fare la stupida, per il momento.
Me ne sto immobile a guardare il soffitto. Sono ore che lo guardo. Ombre e luci. Come di foglie. Forse ci sono degli alberi fuori. La luce sta cambiando. Sta venendo sera. La luce fuori intendo, perché qui dentro è sempre la stessa. Stessa luce bianca. Da qualche parte c'è una finestra, ma io non la vedo. Da qualche parte. Se solo riuscissi ad alzarmi. Potrei andare alla finestra. Vedere gli alberi. Vedere la sera che scende. Se solo riuscissi.
La donna si china su di me. Vedo la sua cuffietta bianca. Vedo i suoi capelli neri. Sento il suo odore. Non è un buon odore. Sento la sua voce: “Come stiamo?” Fa una pausa e mi osserva. “Siamo sveglie, vedo. Molto bene. Adesso ci facciamo belle, perché abbiamo visite.” Io sto ferma. “Non sei contenta? Ho detto che abbiamo visite.” Io sto ferma. “Adesso ci facciamo belle.” Tira fuori un pettine, e comincia a ravviarmi i capelli. Credo che stia cercando di rifarmi la crocchia. I miei capelli sono molto lunghi. Li guardo mentre lei li pettina. “Hai dei bellissimi capelli” dice lei. “Così lunghi. E il colore. Un nero quasi blu.” Io li guardo. Guardo come lei li arrotola – nel modo sbagliato, ma non glielo dico – per fissarmeli in cima alla testa. Guardo il suo viso. La guardo mentre contempla la sua opera. “Meglio” dice, soddisfatta. “Così è molto meglio. Eri proprio in disordine. Così
stai molto meglio.” Mi abbottona la camicia da notte, cercando di stirarne le pieghe. Si dà molto da fare. Non capisco perché. “Non vuoi sapere chi c'é?” dice, con una voce piena di lusinghe. Io non parlo. “Davvero non vuoi saperlo? Su, non fare l'indifferente. Adesso te lo dico. So che muori dalla voglia di saperlo. C'è tuo marito, ecco chi c'è. È venuto a trovarti. Non sei contenta?” Di scatto balzo giù dal letto, e con una forza che non credevo di avere cerco di scappare, ma lei mi blocca. Mi tiene bloccata. È molto più forte di me. “Che cosa fai? Vuoi che ti leghi di nuovo?” La voce è cambiata. È molto dura adesso. Accanto a lei appare l'uomo, quello con le braccia pelose. Scosta la donna, e mi afferra le braccia con forza, torcendole. Mi fa male. “Problemi?” “Ha cercato di scappare” dice la donna. “ All'improvviso. Quando le ho detto che c'era il marito.” Io grido. Grido molto forte. “Leghiamola” dice l'uomo. Mi legano. Io continuo a gridare. “Ma cristo” dice la donna. “Smettila di urlare.” “Bavaglio” dice l'uomo. M'imbavagliano. Sono legata al letto, imbavagliata. Li guardo.
“Non capisco” dice la donna. “Oggi era tanto tranquilla.” “Sarà per il marito” dice l'uomo. “Queste li odiano, i mariti. Non per niente sono pazze.” “Sarà. Comunque è strano” dice la donna. Si allontana. L'uomo con le braccia pelose resta a farmi la guardia. “E così, non ti va di vedere tuo marito” dice. “Ma guarda un po'. Chissà quante gliene avrai fatte, a quel pover'uomo. Una pazza come te. Bella disgrazia, gli è capitata.” Sento la voce della donna, un po' più in là. Sta parlando con qualcuno. “Mi sa che non vuole vederla” dice. C'è una pausa. “Come sarebbe, non vuole vedermi?” È la sua voce. Vorrei rannicchiarmi nel letto, nascondermi sotto il cuscino, ma sono legata molto stretta, non posso fare nessun movimento. “Come sarebbe, non vuole vedermi?” dice, alzando il tono. “Sono suo marito. Ho il diritto di vederla...” “Non alzi la voce” dice la donna. “Disturba i pazienti.” “Ma io sono il marito. Ho il diritto di vederla...” insiste lui. “Si calmi. La vedrà un altro giorno. Oggi è meglio di no”, dice la donna. “Lucia” chiama lui. Sento i suoi i. Si sta avvicinando. “Lucia!” chiama. Io comincio a tremare. L'uomo con le braccia pelose si muove veloce. Sparisce dietro il paravento. “Si fermi immediatamente” lo sento dire. “Qui non può entrare.” “Voglio solo vederla” dice lui. “Solo un attimo...”
“Le abbiamo già detto che lei non vuole. Quindi, adesso se ne vada. Torni domani” dice l'uomo. È molto sgarbato. Mio marito chiede: “Che cosa le state facendo?” “La stiamo curando” dice la donna, più gentile. “Non si preoccupi. La vedrà domani. Adesso vada, su. Faccia il bravo... “ Ha il tono di quando parla con me. Lo sento esitare: “Ma domani potrò vederla?” “Le ho già detto di sì. Adesso vada, da bravo...” dice la donna. Il tono è seccato ora, sbrigativo. “Almeno le dia questi...” dice lui. Si è arreso. Sento i suoi i allontanarsi. A poco a poco smetto di tremare. “Domani ci toccherà inventarci qualcosa” dice la donna. Dalla voce sembra stanca. “Tranquilla. Vedremo di sedarla, prima che arrivi” dice l'uomo. “Bisognerà parlarne col dottore” dice lei. “Ma sei proprio fissata, con 'sto dottore!” dice lui. “Per cose come queste, ce la caviamo benissimo da soli.” “Preferisco parlarne col dottore” dice lei, ostinata. Fa una pausa. “Comunque è strano” aggiunge. “Cos'è che è strano?” chiede lui. “Questa reazione col marito” dice lei. “È strana, no?” Lui ride. “Certo che è strana. Che discorsi. È pazza. Che reazioni vuoi che abbia,
normali?” La donna entra e mi guarda. Ha dei fiori in mano. Io la fisso. Il bavaglio mi soffoca. “Sei contenta, adesso?” dice. Mi mostra i fiori. “Guarda cosa ti ha portato. E tu, dovevi proprio fare questa scena?” Sono degli iris. Gialli e viola. Non mi piacciono gli iris. Lei li sistema in un bicchiere, dove stanno stretti. “Domani gli troveremo un vaso” dice, posandoli sul comodino.
Sto sdraiata sulla schiena. Il bavaglio mi soffoca. Sono ancora legata. Guardo il soffitto, ombre e luci. Dalle luci capisco che è notte. Da qualche parte al mio fianco, nell'oscurità, la vecchia ha ripreso a lamentarsi. “Mamma” dice. “Mamma.”
Sento la chiave nella porta d'ingresso, è arrivato, era ora, metto su una faccia da brava donnina, una che sa stare al suo posto, e rimescolo lo stufato con gran zelo. Lui entra con un'aria scurissima, “è pronto?” dice senza neanche salutarmi, l'Ada gli corre incontro gridando “papà” e lui la prende in braccio stringendola troppo, oddio ci siamo, c'era da aspettarselo, è in uno dei suoi giorni neri. L'Ada si divincola dall'abbraccio, “papà mi fai male” dice, lui la mette a terra, “Dove sono gli altri?” chiede senza guardarmi. “Erano qui un attimo fa” dico io tutta allegra “adesso non lo so, comunque hanno di sicuro una gran fame, vada a lavarsi le mani che tra un minuto è pronto.” Esce in corridoio e lo sento che saluta i figli, loro con lui sono giusto educati, niente di più, lui invece ha la voce che gli trema, gesù quanto ci sentiamo in colpa oggi. Ci sono solo i maschi perché la Monica è sparita, sarà di nuovo chiusa in camera sua, quella ragazzina sta diventando un problema. Ah, ma io me ne frego. Canticchio giuliva mentre spengo lo stufato, l'immagine della brava massaia, non sarò certo io ad arrendermi al suo umore, lo sento mentre va in sala da pranzo e dal suono mi sembra che si stia versando qualcosa, non è che adesso
si metterà a bere, da quando è successo mi pare che ci dia giù parecchio, il brutto è che quando si ubriaca diventa nostalgico e piange, e dice che lei è una santa. La donna più santa che sia mai vissuta, addirittura. S'inginocchia e piange, pregando questa santa di perdonarlo. Ma io stasera non ho nessuna voglia di beccarmi il piagnisteo, poco ma sicuro, anche se lo sento arrivare come il temporale. Mi sa che appena hanno finito di cenare mi chiudo in camera mia con un gran mal di testa – anch'io posso avere il mal di testa, in fin dei conti – e lascio che beva da solo, finché gli pare. Basta che dopo non faccia disastri, tipo andare dai figli battendosi il petto. Sarebbe capace. Forse è meglio che resti a sorvegliarlo, non si sa mai. Intanto metto la testa in sala da pranzo, e dico in tono ilare: “È pronto!” Lui in effetti è in piedi e sta bevendo, del whisky se non sbaglio. Sarà dura. Gorgheggio “È pronto!” rivolta alle scale, e mentre lui non mi degna di uno sguardo, vengo ricompensata da uno scalpiccio, vedo i ragazzi sfrecciarmi davanti con Beppe in testa, Piero con l'Ada attaccata alla sua mano, e in coda addirittura la Monica, l'aria sdegnosa, tutta spettinata, con addosso un vestito così vecchio che se sua madre lo vedesse, per di più è macchiato, faccio finta di niente e porto in tavola; loro si siedono in ordine sparso, il padre a capotavola, se non altro ha avuto il buon gusto di non portarsi dietro il bicchiere di whisky. Comunque non dev'essere ancora tanto andato, perché vedendo la Monica ha un sussulto di sdegno, e per un solo attimo è di nuovo lui, “cosa ti sei messa”, le dice, per lui l'ineleganza è un peccato capitale, “chi ti ha dato il permesso, vorrei sapere, di presentarti a tavola con quello straccio”, lei lo guarda in silenzio e non risponde, “rispondi a tuo padre!” urla lui, lei continua a tacere e lui quasi singhiozza, da ubriaco: “in casa di un artista come me, perché vostro padre è un artista nel suo campo, ricordatevelo...” Sulle labbra della Monica vedo formarsi un risolino, i ragazzi tacciono cupi guardando nel vuoto, l'Ada grazie a dio non capisce: intervengo in gran fretta con lo stufato, Piero viene silenziosamente in mio soccorso, e in un modo o nell'altro riusciamo a far are la crisi. Tutti cominciano a mangiare ad occhi bassi. L'Ada piagnucola perché il piatto è troppo caldo: “Soffiaci sopra, amore” le dico “devi soffiare, altrimenti ti scotti”. Torno in cucina a prendere il contorno, tanto io non mi siedo, sono la serva, anzi “la governante” come mi ha chiamato lui la prima volta, quando mi ha portato a casa a conoscere la moglie, “questa è la Mara” le ha detto, “la governante dei nostri figli”, lei per un attimo mi ha guardato perplessa, “ma ha esperienza?” mi ha chiesto. “Mi sembra un po' giovane” ha aggiunto. “Sono giovane, ma ho un sacco di fratelli, signora” ho detto io “le assicuro che l'esperienza non mi manca”, lei mi ha guardato meglio e forse ha avuto pena,
perché ha smesso di fare obiezioni. “La governante”. A pensarci mi viene da ridere. Chissà perché voleva tanto avermi in casa. Era più comodo, suppongo. Più comodo che farlo in sartoria, con il rischio che ci scoprisse qualcuno. D'altra parte, io non avevo casa. Dormivo in sartoria, nella stanza sul retro, in mezzo alle pezze di stoffa. Lo facevamo lì, prima.
“Un caso chiarissimo” dice la voce. È una voce fonda, autoritaria, la voce di un uomo anziano. “Classico, oserei dire. Un caso, se mi permette il termine, da manuale, nel vero senso della parola.” “Cioè?” chiede la voce del dottore. Sentendola, m'irrigidisco. I muscoli si tendono. Comincio a tremare. “Ma è evidente, carissimo” dice il vecchio. “Un comunissimo caso d'isteria. Quattro gravidanze... allattamenti prolungati... depressione post-partum... sappiamo come vanno queste cose... la depressione post-partum è degenerata... e come conseguenza, gli attacchi convulsivi, e la sindrome persecutoria nei confronti del coniuge. È tutto chiaro. Non ci sono dubbi.” “Certo, è chiaro” dice il dottore. La voce è meno baldanzosa del suo solito. “Non la vedo tranquillo” dice il vecchio. “Terapia?” “Quella nuova” dice il dottore. “Naturalmente”. “Naturalmente” assente l'altro. “Con che frequenza?” “Tutti i giorni, per ora”, la voce del dottore. Io sto tremando fortissimo. “Bene” concorda il vecchio “molto bene.” C'è una pausa. Io continuo a tremare.
“Risultati?” chiede il vecchio. “Be', come vede, indubbiamente è calma”, dice il dottore. “Ma il bavaglio?” chiede il vecchio. “Oh, niente” dice il dottore. “Ha avuto una piccola crisi, prima. Niente d'importante”. Ha un'esitazione. Poi prosegue: “Da qualche giorno, è insorto un nuovo sintomo”. “Quale?” chiede il vecchio. “Non parla” dice il dottore. “Mutismo isterico” sentenzia il vecchio. Sembra sollevato. “Come le avevo detto, è un caso da manuale”.
Resto sdraiata, e sento le voci allontanarsi. A poco a poco smetto di tremare. Vedo, un po' dall'alto, e attraverso una grata, due bambine che corrono precedute da un cane. Le bambine gridano, e tendono le braccia nella mia direzione. Portano dei vestiti chiari. Una è più piccola, e piange incespicando, trascinata dall'altra. Il cane abbaia, e salta cercando di raggiungermi, ma ogni volta ricade. È un bastardino piccolo dal pelo corto. La strada è un lungo viale silenzioso, fiancheggiato dagli alberi.
Ho dovuto buttare praticamente tutto perché quasi nessuno ha toccato cibo, se c'è una cosa che detesto è buttare la roba, a casa mia la carne c'era due volte l'anno, e uno stufato come questo, poco ma sicuro, durava come minimo una settimana, ma questi qui sono troppo signori per mangiare gli avanzi, figurarsi, mentre li butto penso con rimpianto che avrei potuto fare le polpette. Alla fine del pasto, nel silenzio, la Monica si è alzata senza chiedere il permesso spingendo via il suo piatto quasi pieno. Incredibilmente, suo padre ha trovato abbastanza fiato per dirle: “La cena non è di tuo gradimento, signorina?” “Questa roba fa schifo” ha detto lei guardandomi con sfida. Lui è sbiancato. Lei
si è girata e se n'è andata di sopra, e tanto per chiarire ha sbattuto la porta. Immergo i piatti nella saponata guardando fuori dalla finestra aperta, la notte è limpida e c'è una falce di luna, con il vento mi arriva il profumo dei fiori. Respiro a fondo. Penso che una sera di queste me ne potrei andare, camminare nel buio e non voltarmi indietro, e tutt'a un tratto mi viene da piangere. Sento il suono dei suoi i in corridoio e con un sussulto ritorno al presente, svelta svelta mi asciugo le lacrime e mi sistemo i capelli, mi pizzico le guance per darmi colore. Lui arriva e si ferma sulla soglia. Ha il bicchiere semivuoto in una mano, il viso è coperto di sudore, l'occhio è vitreo. Barcolla leggermente. Non l'ho mai visto così ubriaco, e a dir la verità ho una gran paura, ma faccio finta di niente e sorrido radiosa: “Tutto bene?” gli dico. “Vuoi un po' di caffé?” “No” dice lui. “Devo parlarti” aggiunge, articolando a stento. “Sì?” dico io, sempre raggiante, come se mi aspettassi chissà che meraviglia. “Tu...” fa una pausa. Mi guarda. L'occhio è sempre più vitreo. “Non puoi restare qui” dice infine. Io resto zitta. Era quello che temevo. C'è un silenzio. “Non puoi... ora che lei è lì” riprende lui. La voce è talmente impastata che fatico a capirlo. “Non è...” s'interrompe, inciampando nelle parole “... riguardoso nei suoi confronti”. Fa un leggero singulto. Un'altra pausa. “E i miei figli...” alza le braccia al cielo, melodrammatico. “I miei figli mi giudicano” conclude, tetro. Vuota il bicchiere e lo posa sul tavolo con gesto teatrale. Io lo guardo.
“E della casa, chi se ne occuperà?” chiedo. Lui scuote la testa con disdegno. “Qualcuno troverò, non ti preoccupare” dice. Aggiunge perfido: “Una cuoca vera, ad esempio”. Io taccio. Guardo fuori. La collera mi soffoca. “Naturalmente, hai tempo qualche giorno” aggiunge lui magnanimo. “Grazie” dico. C'è un silenzio. Poi mi volto a guardarlo: “Farò come vuoi tu” dico. Mi chino per buttare qualcosa nel secchiaio, e come per caso, con un piccolo gesto, lascio cadere giù la spallina del vestito. Le cose basta farle intravedere, lo so per esperienza, ma stasera è talmente ubriaco che non so se funziona. Lui per un po' non si muove. Poi a gran i viene verso di me, mi afferra per la vita, e mi abbassa il vestito fino ai fianchi. Io gli o le braccia intorno al collo, gli offro il seno in cui subito affonda le labbra. Morde e succhia, con cattiveria, mi fa male. Io grido. Mi inarco, strofinandomi contro di lui, e lo sento gemere di piacere. È fatta, penso con esultanza, mentre lui mi spalanca le gambe.
Conto le gocce che cadono dal soffitto. Una, due, tre. Riesco ancora a contare. Una. Due. Tre. Quattro. Quattro gocce. Riesco ancora a pensare. Fuori piove. Il tetto perde. Cadono delle gocce. Il mio nome è... Calma. Il mio nome è... Calma, devo stare calma. Mi verrà in mente. Basta avere pazienza. Riprendiamo da capo. Ho quarantadue anni. Ho i capelli scuri. Ho quattro figli. Sono ancora viva. Il mio nome è... Riprendiamo da capo. Basta avere pazienza. Ho i capelli scuri. Ho quarantadue anni. Ho quattro figli. Sono ancora viva. Una parte della mia mente è sveglia. Riesco ancora... Conto le gocce che cadono dal soffitto. Una, due, tre, quattro...
Devo essermi addormentata. Ho le labbra secche. La luce è diminuita. Forse è sera.
Sento la voce del dottore e tremo. “È sedata?” “Sì, dottore” la voce della donna, umile quando parla con lui “ho fatto come mi ha detto”. “Ma è in grado di star sveglia?” “Sì, dottore. Cioè, fino a un certo punto.” “C'è qui il marito. È lì fuori, l'ho appena visto.” “Lo faccio entrare?” “Certo” dice il dottore “l'abbiamo sedata apposta”. Chiudo gli occhi. Qualcosa, molto lentamente, scivola lungo la mia guancia. Sento un suono di i. “Entri pure” la voce della donna,”ma faccia piano, oggi è un po' stanca”. Qualcuno si avvicina al mio letto. Non apro gli occhi. “Lucia” è la sua voce. “Lucia” dice, alzando il tono. “Guardami” dice. Non apro gli occhi. “Come sei dimagrita” dice. C'è un silenzio. “Stai piangendo?” dice. “Lucia” dice. “Sono io”. Mi afferra la mano. Io rimango inerte. Sento un tonfo. Dev'essere caduto in ginocchio. Mi copre la mano di baci, singhiozzando. “Potrai mai perdonarmi” singhiozza “potrai mai, mai, mai perdonarmi...” Sento la donna arrivare di corsa.
“Eh no” la voce della donna “eh no, così non va. Assolutamente. Cosa crede di fare? È venuto per fare delle scene? Se ne vada, adesso. Così la sconvolge. Con la fatica che facciamo per tenerla calma...” I singhiozzi cessano. Lo sento alzarsi. Tira su col naso. “Adesso vado” dice. “Solo un minuto”. “Mi raccomando” dice la donna allontanandosi. “Guardami” dice lui. “Apri gli occhi” dice. Io non mi muovo. Tengo gli occhi chiusi. “Ti prego” dice. “Solo uno sguardo” dice. Io non mi muovo. Lui tira su col naso. “Vuoi punirmi” dice. “Questo posso capirlo. Però sei cattiva. Ti ho chiesto solo uno sguardo”. Io non apro gli occhi. Lui mi prende la mano. a del tempo. Dopo un po', sento degli altri i. “Come andiamo?” È la voce del dottore. Il tono è affabile, quasi allegro. “Ha visto com'è calma?” dice il dottore. “Molto meglio, no?” C'è una pausa. Li sento uscire dalla stanza. “Ha un aspetto terribile”, la voce di mio marito, molto bassa.
“Lei trova?” dice il dottore in tono disinvolto. “A me sembra solo un po' stanca”. “Ma quelle bruciature sulla fronte?” “Ah, quelle” dice il dottore. “Sono un effetto secondario”. “Di cosa?” “Del trattamento” dice il dottore, con sufficienza. “Un trattamento nuovo. Molto efficace. Risultati incredibili”. “Ah” dice mio marito. “Ma...” dice. “Risultati incredibili” dice il dottore. “Una nuova frontiera. Qui, caro mio, siamo all'avanguardia, sa? Tra poco lo anno tutti.” “Non mi guarda nemmeno” dice mio marito. “Adesso è un po' sedata” dice il dottore. “Torni domani sera. Sarà vispa come un fringuello”. “Mi basterebbe che mi guardasse” dice mio marito. “Ma certo” dice il dottore. “La guarderà, naturalmente. È una fase transitoria”. “Che cos'è che le fate, esattamente?” “Non penserà che mi imbarchi in spiegazioni mediche” dice il dottore. Il tono non è più tanto affabile. “A lei basti sapere che è un trattamento risolutivo. Nella stragrande maggioranza dei casi”. “Ah” dice mio marito. “Lei vuole che guarisca, non è vero?” dice il dottore in tono di minaccia. “Sì, certo. Naturalmente” dice mio marito, spaventato. “Questa è una clinica seria” dice il dottore. “Considero la sua mancanza di fiducia un'offesa personale”. “No, no, la prego” dice mio marito, “la prego, non si offenda. Non c'è nessuna
mancanza di fiducia. Volevo solo...” “Qui, meno cose sapete, e meglio è” dice il dottore, secco. “Tanto non ci capite niente. L'unica cosa che dovete fare è fidarvi di noi. Non è tanto difficile, mi sembra”. “Naturalmente” dice mio marito. “Mi perdoni” dice. “Così va meglio” dice il dottore, rabbonito. “ Ci lasci lavorare. Questo deve fare. Nient'altro”. C'è una pausa. “Adesso vada a casa” dice il dottore. “Va bene” dice mio marito. “Buonasera” dice.
Io riapro gli occhi. Sul comodino c'è di nuovo un mazzo di fiori. Rose, stavolta. Un mazzo di rose rosa.
Oggi è venuta su quell'odiosa della vicina. Stronza ficcanaso. Io stavo finendo di stirare. Mai potuta vedere, quella lì. Fa finta di aver bisogno di qualcosa, le forbici in questo caso, in realtà viene solo a far domande, e intanto si guarda intorno dappertutto, come se la tenessimo nascosta in casa, figuriamoci. Lui non l'ha ancora detto a nessuno dov'è, anche se qui nel quartiere lo sanno di sicuro, l'han vista portar via con l'ambulanza, almeno penso che l'abbiano vista, anzi a quest'ora lo saprà tutta la città, ma per ora la versione ufficiale è che è andata in montagna a riposarsi, a “riprendere le forze”, così dice lui: non si sa bene come le abbia perse, visto che non ha mai fatto niente in vita sua, ma non importa. Questa è la versione, e io mi ci attengo, anche se nessuno ci crede, lo vedo benissimo, e tra un po' comincerà a diventare imbarazzante, non può mica rimanere in montagna per sempre. Comunque la vicina con una scusa qualsiasi è riuscita a entrare perfino in
camera da letto, la camera matrimoniale intendo, cioè quella di lei, dato che lui non ci dorme più da un pezzo, e infatti adesso si vede che non la usa nessuno, io la pulisco sempre però, dò aria tutti i giorni, così almeno non sa di chiuso. Cos'avrà voluto vedere quella, questo mi chiedo, cosa vuol controllare, non penserà mica che io e lui dormiamo insieme, secondo me è capace di pensarlo. Roba da matti, con i figli in casa. Infatti è andata anche nella mia stanzetta, sempre per il fatto di cercare le forbici, e per fortuna lì era tutto in ordine, il letto fatto – singolo – con le coperte rincalzate, una stanza appostissimo, la stanza di una ragazza sola che si guadagna da vivere. Che poi è proprio vero, che mi guadagno da vivere – lui non mi regala niente, questo è certo. “Ma se lei dovesse stare via per molto” ha detto la vicina a un certo punto, in un tono mellifluo “perché non si sa mai, in certi casi...” “Tornerà presto, stia tranquilla” le ho detto “sta soltanto rimettendosi in forze”. “Una così bella signora” ha detto lei. “Che peccato” ha detto. “E poi distinta, così elegante, il vero tipo della donna di classe...” Se ci fosse qui lei, non ti permetterebbe neanche di guardarla da lontano, questa casa, a una donnetta come te, ho pensato, e mi stava montando la rabbia, ma naturalmente sono stata zitta. “E quei vestiti” ha detto la vicina, sognante. “E come li portava...” Ne parla già al ato, penso con allarme. “Li porta ancora, i vestiti” dico. “Ma certo” dice la vicina. “Naturalmente”. C'è una pausa. Io aspetto che lei se ne vada. “Quello che volevo dirti, però” fa lei, confidenziale “quello che ti volevo dire, ecco, è che adesso, se lei non c'è, una ragazza come te, giovane, povera, sola con un uomo...” “Come sola” le faccio “e i ragazzi?”
“I ragazzi non contano” dice lei. “Non in questo senso”. Fa una pausa. “Sto parlando della tua reputazione” aggiunge. “Mi scusi” dico. “Devo finire di stirare”. “La tua reputazione” continua lei. “Io lo dico per te. Non hai mica nessuno, tu, che ti difenda. Ci devi pensare da sola. E continuare a stare qui... Quando capisci benissimo che lui, un signore com'è, e poi un uomo così affascinante... Ne ha sempre avute tante, questo lo sanno tutti. Anche lei lo sapeva, poveretta...” sospira. “Chissà che non sia per questo...” s'interrompe. “In ogni caso, non ti sarai messa in testa delle idee. Ne ha tante, e sono delle gran signore, cosa credi, mica delle sguattere... con tutte le clienti eleganti che ha, contesse, donne ricchissime, perfino delle attrici mi hanno detto... e lui che sembra un divo del cinema, con quella faccia, e quel portamento... Ne vanno pazze, ti dico. Pazze. E tu, scusami se te lo dico, di carte ne hai proprio pochine... di viso non sei bella per niente, questo lo sai, vero... certo con gli uomini non si può mai dire, soprattutto dopo una certa età. Perdono la testa, secondo me. E lui, mi han detto, con tutte le occasioni che ha, se la fa anche con donne di bassissima estrazione. Roba da non credere. Con una moglie così, mettersi con delle donnacce... forse per il gusto della novità, giusto per quello... o magari perché sono giovani e fresche... o perché sono a portata di mano, e gli vien comodo. Comunque sia, appena si sono un po' sfiorite, quello le butta via come fossero stracci. Poco ma sicuro.” “Devo finire di stirare” dico. “Questo è il mio posto di lavoro, se non lo sapeva. Io ci lavoro, qui. “ Brandendo il ferro da stiro, faccio due i verso di lei, che indietreggia. “ E adesso mi scusi, ma devo proprio salutarla”. La vicina si dirige alla porta. Poi si ferma, voltandosi a guardarmi. “Come fossero stracci, le butta via” dice.
Se credono che scenda per mangiare, hanno sbagliato i conti. A tavola con loro non ci vado più, dovessi anche morire di fame. Me ne sto chiusa in camera, e da qui non mi muovo. Finalmente ho ritrovato la chiave, perché l'avevano fatta sparire – è stata lei, di sicuro – e ho dato una doppia mandata, per sicurezza. Voglio proprio vedere adesso, come faranno a farmi uscire. È vero che la stanza è anche dell'Ada, ma tanto lei è piccola, e della stanza non ha nessun bisogno.
Almeno, non di pomeriggio. Intanto la megera sta pulendo di sotto, la sento che va su e giù, e ha perfino il coraggio di cantare, con una voce così stonata che fa pena sentirla, “Amore vuol dir gelosia”, e intanto sbatacchia le porte. Non posso soffrirlo, il rumore che fa. Per non vedere più il suo brutto muso, sarei disposta a tutto, anche a calarmi giù dalla finestra nel cuore della notte e non tornare mai più, ed è probabile che lo farò, forse proprio stanotte. Soltanto mi dispiace per Piero, però anche lui è così strano ultimamente. Non ci parliamo più come una volta, anzi, non ci parliamo più per niente. C'è come un imbarazzo, dopo quella sera. Lui adesso sta fuori tutto il giorno, torna solo per cena, non lo so mica dove va, lui dice a studiare da amici; invece le mie compagne di scuola, che di lui sono tutte innamorate, mi han detto che va in giro con quel suo professore comunista, com'è che si chiama, quello famoso, e con un gruppo di studenti che al posto di studiare fanno gli antifascisti, se lo sapesse papà. Lo vedono, mi han detto, parlare fitto fitto sotto i portici, fuori dall'università, col professore comunista e i suoi amici, magro, elegante, il bavero dell'impermeabile un po' alzato, ha un piglio mio fratello, in questo ha preso da papà, anche se per il resto non gli assomiglia affatto. Mio fratello più grande non ce l'ha, quel piglio, si dà un sacco di arie perché ha già vent'anni, ma nessuna delle mie amiche è innamorata di lui, sarà perché è un grandissimo maleducato, io per esempio non lo posso sopportare. Lui col professore comunista non ci parla di certo, prima di tutto è un grandissimo ignorante, oltre che maleducato, non è mica bravo a studiare come Piero, e poi va sempre alle adunate dei giovani fascisti, una volta con Piero si son presi a cazzotti, per questo. Per essere precisi, è stato Beppe a prenderlo a cazzotti. Comunque a me non interessa, io di politica non ci capisco, solo che Beppe è un gran maleducato. Anche il papà di politica non ci capisce, ma di sicuro non è comunista, a lui interessano solo i Savoia perché ha una gran ione per la monarchia e in generale per l'aristocrazia, dev'essere perché è un parvenu, glielo diceva sempre la mamma quando litigavano, “sei proprio un parvenu”, gli diceva, “un uomo così rozzo, ma come ho fatto a sposare un uomo così rozzo”, a dire il vero il papà non è rozzo per niente, tutti quanti lo trovano così distinto, e poi ha sempre delle sciarpe bellissime, e d'inverno dei paltò con il collo di pelliccia che gli stanno benissimo, e tutte quelle paia di scarpe, e da giovane somigliava a Rodolfo Valentino, anche se resta pur sempre un parvenu. Ma non penso che la mamma fosse tanto obiettiva.
Grazie a Dio la megera ha smesso di cantare. Mi sa che sta uscendo. Sì, si è messa i tacchi, lo sento dal rumore. Andrà a fare la spesa, di sicuro, dove vuoi che vada. Mettersi i tacchi per fare la spesa, ridicolo, ma quella è capace di tutto. Da quando la mamma le ha insegnato a vestirsi, perché quando è arrivata da noi, che era una ragazzina, a vederla faceva spavento, io ero piccola ma me la ricordo, magra come uno stecco e con una fame che se la portava, “quel sacco di stracci”, diceva la mamma, “ho preso quel sacco di stracci e ne ho fatto una donna”, ed è vero, la mamma le ha insegnato tutto, le regalava i suoi vestiti e anche i rossetti, e lei la seguiva come un'ombra, aveva un'adorazione per la mamma, e dai e dai dallo spaventaeri che era è diventata quasi decente, prima di tutto perché mangiava tutti i giorni, e poi perché copiava la mamma in ogni cosa, infatti adesso tra la permanente, i vestiti vecchi della mamma, e il rossetto che le fa la bocca a cuore, a volte non è neanche tanto brutta, naturalmente è molto volgare, non per niente è una donna del popolo. Salvo poi quando va in giro per casa con le ciabatte e i bigodini in testa, sempre quando non c'è papà s'intende, che a vederla c'è da prendersi un colpo. Infatti mio fratello Beppe, che è un grandissimo maleducato, a volte le ride proprio in faccia, quando la vede girare così. Non che mi faccia piacere, però tutto sommato le sta bene. A volte penso che la mamma avrebbe fatto meglio a lasciarla com'era, invece di darsi tutto quel da fare. Comunque adesso, se quella finalmente esce, posso andare in cucina e mangiarmi qualcosa. Che poi, se voglio scappare di casa, farei meglio a farmi un fagotto con le provviste. È così che si fa. E dopo, dove vado a dormire? Potrei sempre andare a casa dell'Olga, ma in questi giorni mi dà così sui nervi, soprattutto quando fa quella faccia, come se sapesse delle cose che io non so. Cosa vuole saperne, l'Olga. Un mucchio di pettegolezzi, questo sa. Tutta roba che le ha detto sua mamma, che è una che non si fa gli affari suoi, come dice papà. Comunque, l'Olga fa la misteriosa, e quando io insisto, dice delle sciocchezze, però le dice con aria misteriosa, come se continuasse a nascondermi chissà che. Ma io lo so benissimo che sono sciocchezze, quelle che dice l'Olga. Cosa vuole saperne, lei. Non vive mica qui. Dovrò anche portarmi dei vestiti, non posso certo andar via senza niente. E cos'è che mi porto? Prima di tutto l'impermeabile, perché in questa stagione ci vuole. Poi mi porto il vestito blu coi pois, che è fresco e mi sta bene. Poi il golfino che metto per la scuola, e la gonna coi faldoni. E poi? Più di tanto non posso portare, se mi calo dalla finestra. E le scarpe? Dovrò avere delle scarpe di ricambio. Potrei farmele mandare da Piero, insieme con i libri. I libri pesano parecchio. Ma
se poi Piero non è d'accordo? In ogni caso, lui non è tipo da far la spia. Ma non vorrei che tentasse di dissuadermi. Perché io la mia decisione l'ho presa. Qui non ci resto. Ci restassero loro, in quest'inferno. Con la megera che spadroneggia dappertutto, e fa anche finta di essere servile, con noi ha sempre un tono così melenso, ma io lo vedo, che spadroneggia. E papà che si rincretinisce a furia di bere. E tutti che fanno finta di niente. Io i miei fratelli non li capisco. Soprattutto Piero. Chi l'avrebbe pensato, che reagiva così. Che ci restino loro, a mangiare la merda che cucina quella. Io ne ho abbastanza.
Sto correndo più veloce che posso e ho una paura terribile, ma corro in uno spazio molto angusto, come una specie di corridoio, una specie di budello molto stretto. Non c'è luce. Io corro sempre più veloce, ma sembra che non riesca a guadagnare terreno, sento i i del mio inseguitore che si fanno sempre più vicini. So che se mi volto a guardarlo sono perduta. So che non devo vedere il suo inimmaginabile viso. Lo so, ma non riesco a evitare di voltarmi, e all'improvviso c'è una luce accecante e una scossa come di terremoto. Io cado a terra, mi rannicchio e mi riparo gli occhi con le mani. “Sveglia” dice una voce. Io non apro gli occhi. “Sveglia” dice la voce. È una voce di donna, ma non è la solita. “Abbiamo visite”, dice. Io non apro gli occhi. C'è una pausa. Dei i si avvicinano al mio letto. “Lucia” dice la voce di mio marito. “Lucia” dice. “Guarda chi c'è”. Io non apro gli occhi. “Lucia, svegliati” dice mio marito. “Ti prego. C'è una sorpresa”. Sento una mano che si posa sul mio braccio, timidamente. Non mi sembra la mano di mio marito.
Allora guardo. Chino su di me c'è un ragazzo molto pallido, con gli occhi scuri. Ha un maglione bianco con lo scollo a v. Io lo guardo. Anche lui mi guarda. Continua a tenere la mano sul mio braccio. “Hai visto, Lucia?” dice mio marito, che è in piedi a fianco del ragazzo. “Hai visto chi c'è?” Io guardo il ragazzo. Lui mi guarda. a un po' di tempo. “Mamma” dice il ragazzo a bassa voce. “Come stai, mamma?” Io lo guardo. “Lucia” dice mio marito. “Hai visto che c'è Piero? Non sei contenta? Non sei contenta che Piero è venuto a trovarti?” Io guardo il ragazzo. Lui mi guarda. a dell'altro tempo. Dopo un po', il ragazzo volta via la faccia e mi gira le spalle. “Andiamocene” dice. Mio marito lo prende per un braccio, e se lo porta via. Sento le loro voci da dietro la porta.
“Te l'avevo detto” dice mio marito. “Io te l'avevo detto, di non venire. Hai insistito. Hai voluto venire a tutti i costi. Adesso l'hai vista. Sei contento?” C'è una pausa. “Non ci verrò mai più” dice il ragazzo. “Certo che non ci vieni più. Io te l'avevo detto, di non venire. Hai insistito. Hai voluto venire a tutti i costi. Ma non è giusto. Non è giusto per voi. Io non ve lo permetto. È la mia croce, questa. E la devo portare da solo.” La voce gli si spezza. “Da solo, la devo portare! Nessuno può aiutarmi! Nessuno di voi riesce nemmeno a immaginarselo, che croce è questa!” Ci sono dei singhiozzi. “Papà, non fare scene” dice il ragazzo. “Andiamocene a casa”.
Oggi quella matta della Monica è tornata a chiudersi in camera. Dio sa se ne devo avere, di pazienza, con quella. E sì che ha quasi quattordici anni. Io alla sua età andavo già a lavorare, mi alzavo ogni mattina alle cinque, e di sicuro non avevo il tempo di avere grilli per la testa, nossignora. A quindici ero già entrata in sartoria, e lì c'era gran poco da scherzare, soprattutto all'inizio, finché lui non mi ha presa in simpatia, e comunque anche dopo ho sempre lavorato duro. Se fosse per me, a suon di ceffoni gliele farei are, le paturnie. Ma con lui figurarsi, le figlie guai a chi gliele tocca, e allora vai con le moine, anche oggi le ho bussato alla porta, “Ma non ti senti bene, cara? Non la vuoi la merenda?”, e lei naturalmente non risponde, come se mi divertissi a far le scale per niente, con tutto il lavoro che ho. E con la giornata che ho ato, per giunta. Non bastava quella vipera della vicina. Ah, ma io ne ho fin sopra i capelli, di tutte queste umiliazioni. Verrà il giorno... ma chissà se verrà. Ogni tanto m'immagino di tornare al paese, a casa di mia mamma, vestita come una signora e con la fede al dito. La mostrerei a tutti, la mostrerei. Anche a quell'ubriacone di mio papà, ammesso che sia ancora vivo. Non che a lui gliene importi. Ma a mia mamma le farebbe impressione, sapere che ho sposato il padrone, lei che mi continuava a dire che avrei preso una cattiva strada. Chissà cosa si crede, quella. Che io sia sul marciapiede, magari. Certo, se fosse per lei... Non si può dire che si sia sprecata, per me. Solo ai miei fratelli, pensava. Non che ci fossero soldi. Poveri in canna, eravamo. E io mi dovevo arrangiare. Ma lei non voleva sentir ragioni, dura come
il ferro era, mia mamma, e picchiava anche. Quella mattina all'alba che mi ha beccata mentre tornavo a casa, che scavalcavo la finestra con le scarpe in mano – avevo tredici anni allora, ma sembravo già molto più grande – mi ha attaccato una di quelle solfe, che ancora me la ricordo, e mi ha picchiato con la scopa. È stato lì che mi ha predetto un brutto destino. “Finirai male, finirai”, mi continuava a dire, e io a far le corna di nascosto. Che poi non era neanche per soldi, quella volta. Era uno sposato, del paese, che era da un pezzo che mi girava intorno. A me gli uomini mi son sempre piaciuti, dico la verità. Ma sul marciapiede non ci sono finita. Adesso sono in una casa rispettabile, e se le cose andranno come devono andare... Naturalmente ci vorrà del tempo. Ma lei non potrà mica durare in eterno, stando come sta. Non che le voglia augurare del male. Del resto, peggio di così... Per lei sarebbe una liberazione. Lo penso veramente. Buttarmi via come uno straccio, figurarsi. Vorrei proprio vedere. Io con lui lo so come fare, per tenerlo. Lo so io, cosa gli piace. Poi ne avrà anche delle altre, io non dico, gli uomini si sa come sono, e lui è un uomo di mondo, ma sono delle avventure, cose senza importanza, anche se lui s'immagina di innamorarsi. Del resto, anch'io mi prendo le mie distrazioni, qualche volta. Non che abbia tante occasioni, ma se mi capita, non sono certo il tipo che si tira indietro. L'altro giorno al mercato, per esempio, c'era uno che non avevo mai visto, quello sì che mi ha guardata ben bene, forse è il nuovo garzone del droghiere, bisognerà che lo chieda a qualcuno. Uno giovane, scuro, con i muscoli sodi, come piace a me. La prossima volta che lo vedo, troverò il modo di attaccar discorso. Si fa presto a capirsi, in questi casi. Sempre con la massima discrezione, s'intende, ci mancherebbe che lui venisse a saperlo.
L'Olga sostiene che sua mamma sostiene, che la mamma l'han portata via perché ha avuto “una crisi”. Di che crisi si tratti, io non lo capisco. Secondo me, la mamma non ha avuto nessunissima crisi. Anzi quel giorno stava proprio bene, era più allegra del solito, e per uscire si era messa elegante come non faceva da un pezzo. Quindi non capisco di che crisi stiano parlando. Secondo me sono tutte sciocchezze, pettegolezzi e basta, la mamma dell'Olga non ha un accidente da fare dalla mattina alla sera, e in più non è bella per niente, quindi della mamma di sicuro è invidiosa. Per giunta dice, e questo è proprio il colmo, che alla mamma la crisi è venuta perché ha trovato una lettera d'amore, di qualche donna che scriveva al papà. Figurarsi se alla mamma può venire una crisi per una
stupidissima lettera, vuol dire proprio che non la conoscono, e la cosa più assurda è che loro sostengono, l'Olga e sua mamma, che la lettera era di questa famosa contessa, che è una che nessuno ha mai visto, e non sappiamo nemmeno se esiste. Cioè, per esistere esisterà pure, è vero che il papà ha tutte queste clienti ricchissime e qualcuna è anche nobile, e che lui alle nobili ci tenga, questo si sa, dato che è fissato con l'aristocrazia per il fatto che è un parvenu, ma da questo a pensare... Dicono che questa contessa è una donna scicchissima e che si fa fare dei gran abiti da sera perché va sempre alle feste, e soprattutto che se li fa fare perché va pazza per il papà, e quindi lo vuol vedere in continuazione. Io, sarò sincera, a tutte 'ste contesse non ci credo. Anche la mamma era tanto gelosa di 'ste contesse, e in generale delle clienti di papà, tanto è vero che qualche volta è andata in sartoria a fargli delle scenate, pensando di trovarlo con chissà chi, ma per me si sbagliava. Al papà io non credo che gli piacciano tanto 'ste contesse, e nemmeno le attrici del cinema tipo la sca Bertini che andava anche lei a farsi i vestiti dal papà, quand'era giovane ovviamente, perché adesso ormai è un po' vecchia. Comunque io credo che con donne così il papà non si senta granché a suo agio, sarà che in fin dei conti è anche lui un uomo del popolo, e forse si trova meglio con delle sartine o roba del genere. Tanto è vero che son quasi sicura che se la fa con la megera, anche se loro due fanno di tutto per nasconderlo, e lo credo bene, che il papà non ci tenga a farlo sapere in giro. Che veramente ci vuol tutta, per farsela piacere, quella là. Soprattutto paragonata con la mamma, che non si può neanche pensare di paragonarle. Che la mamma lo dicono tutti, che da giovane oltre ad essere ricca, era la ragazza più bella della città, e il papà, che allora era uno squattrinato e veniva dalla Toscana, che è un posto dove sono più poveri di qui, l'ha vista per la strada ed è rimasto folgorato, e ha fatto una scommessa con i suoi amici, che un giorno se la sarebbe sposata. A me questa storia della scommessa ha sempre fatto una brutta impressione, ma invece non dev'esserci niente di male perché il papà la raccontava sempre davanti alla mamma, anche quando c'era altra gente, e anzi sembrava che ne andasse fiero. La mamma diventava solo un po' pallida, e per qualche tempo stava zitta, ma non credo che si offendesse veramente. Sembra che la mamma dell'Olga dica anche un'altra cosa, che mi vergogno soltanto a pensarci, da quanto è assurda. Dice che là in ospedale, alla mamma stanno facendo una cura, che è una cura modernissima, e che è un toccasana per la malattia della mamma, che non so che malattia è. Però dice che questa cura, ogni volta che gliela fanno, la mamma si fa la pipì addosso, che è una conseguenza della cura. Quando la Olga mi ha detto questa cosa, io ci sono stata malissimo. E soprattutto non ci posso credere. La mamma che si fa la pipì
addosso... la mamma, che è una signora come non ce n'è, lo diceva sempre anche l'avvocato Ravenna che è stato un corteggiatore della mamma, naturalmente quand'era ragazza. E l'avvocato Ravenna è un vero gentiluomo, e anche un avvocato importantissimo, quindi se lo dice lui c'è da crederci senz'altro. Ultimamente l'avvocato Ravenna non lavora più tanto, questo perché la sua famiglia è di origine ebraica, che è una cosa che il governo vede di pessimo occhio, anche se nessuno può capire perché, l'avvocato Ravenna ad esempio è una bravissima persona, e son sicura che lo pensano tutti. “Tua figlia ha la tua stessa bocca” ha detto l'avvocato Ravenna, un giorno che sono entrata in salotto mentre loro due prendevano il tè. “La tua bellissima bocca”, ha aggiunto, e aveva un tono così strano che io mi sono vergognata e ho cominciato a guardare per terra. La mamma ha riso, è diventata rossa, e si è sventolata con il suo ventaglio. “Non si dicono certe cose” ha detto “a una donna sposata”, ma si vedeva che era contenta.
Qua non è ancora tornato nessuno e sono già le sette e tre quarti, sarà andato di nuovo in ospedale, ma deve proprio andarci tutti i giorni, dico io? Oltretutto non arrivano neanche i ragazzi, quell'altra è chiusa in camera, e io da sola con l'Ada che mi segue dappertutto, è peggio del gatto quella bambina, non mi molla un secondo, e come se non bastasse parla in continuazione, sembra una radio, io non ce la faccio mica ad ascoltarla, con tutti i pensieri che ho, adesso per esempio cos'è che mi sta raccontando, un mucchio di fantasie e immaginazioni, mi pare che stia parlando di una festina da un'amica della Monica, ma se non ci vanno mai alle festine, lei poi a cinque anni figurarsi, in ogni caso a momenti mi scoppia la testa, se non la smette la soffoco con un cuscino. Poi mi viene un'illuminazione: “Vuoi un po' di budino?” le dico, anche se a quest'ora sarebbe proibitissimo perché tra poco si va a cena, però almeno mangiando starà zitta. Lei fa un po' di smorfie perché non ha tanto appetito, me l'avessero dato a me il budino alla sua età, comunque le faccio un gran sorriso e glielo servo su un piattino, un budino di cioccolato di quelli da leccarsi i baffi, lei si siede e lo mangia con aria svogliata, e nel frattempo continua a chiacchierare. Non so più a che santo votarmi, se lui non arriva e non me la toglie di dosso giuro che mi viene a me, la crisi di nervi, e allora voglio proprio vedere come vanno a finire,
tutti quanti. Lei chiacchiera e io non la ascolto e penso a tutto quello che ho da fare domani, quando ad un certo punto mi rendo conto che ha ricominciato a parlare di sua madre, era parecchio che non lo faceva. Comincio ad ascoltarla attentamente, e capisco che sta parlando proprio di quel giorno, per l'esattezza sta parlando di quando lei e sua sorella sono arrivate a casa e l'hanno vista. Cos'è che può aver detto prima? Mi maledico per essermi distratta, allora con un'aria casuale, che però non mi riesce affatto bene, mi metto a farle un po' di domande, tipo a che ora siete tornate a casa, e chi c'era quando siete arrivate, e ti ricordi dov'era la mamma, ma la stramaledetta bambina si accorge che l'argomento mi interessa molto, allora ammutolisce e con grandissima concentrazione si mette a far dei buchi nel budino con il dito. Avrei voglia di spaccarle la testa, ma non mi servirebbe a niente, per cui rinuncio all'interrogatorio e le servo un'altra fettona di budino, che so benissimo che non lo vuole. Mi piacerebbe tanto che ci si strozzasse, ma di sicuro è una speranza vana.
Qualcuno mi infila un ago nella vena e io apro gli occhi con un sobbalzo. “Così la smetterai di lamentarti” dice la donna, mentre l'infermiere con le braccia pelose mi fa l'iniezione. La donna è spettinata e non ha la cuffietta. “Anche noi abbiamo diritto di dormire, qua dentro. Alle tre di notte, avremo pure il diritto. Non siamo mica delle bestie.” L'infermiere sfila l'ago e si rialza. “Là” dice con soddisfazione. “Non avrai esagerato” dice la donna. “Mi raccomando” dice. Io chiudo gli occhi. Provo una sensazione di calore, piacevole, insieme a una leggera nausea. “Tu non ti preoccupare” dice lui. “Morire non muore.” “Sì, ma non bisogna esagerare” dice la donna. “Tu non ti preoccupare” dice l'uomo. Poi le sussurra qualcosa in un orecchio. La donna fa una risatina.
“Così almeno ci lascia un po' tranquilli” dice lui. Si sente un tramestio, e un fruscio di vestiti. La donna fa un respiro profondo. “Vacci piano” dice. L'uomo ride. “Non mi sembrava che ti fe male, prima” dice. “Shhh” dice la donna. L'uomo ride. “Chi vuoi che ci senta” dice. “Shhh” dice la donna. “Tanto questa non capisce un accidente” dice lui. “Oggi non ha riconosciuto neanche il figlio.” “Già” dice la donna. “Va di male in peggio” dice. “Ci credo” dice l'uomo. “Le danno delle scariche che ammazzerebbero un cavallo”. “Non dire così” dice la donna. “Il dottore lo sa quel che fa”. “Sei proprio fissata, con 'sto dottore” dice l'uomo. La donna ride. “Non fare lo scemo” dice. “Non sarai mica geloso del dottore”. “E perché no” dice l'uomo. Un altro tramestio. L'uomo dice qualcosa, piano. La donna sospira. “Smettila” dice, a voce molto bassa. “Ma non lo vedi che ha gli occhi chiusi” dice l'uomo. “La morfina sta già facendo effetto. Non lo vedi?”. “Chissà perché si lamentava tanto” dice la donna. “Che cosa te ne importa” dice lui. “Chissà cos'è che sogna” dice la donna. “Deve avere degli incubi tremendi.”
“Chi se ne frega, di cosa sogna” dice lui.
Allora sono andata in braccio al papà e lui mi ha dato un bacio e mi ha abbracciata stretta stretta. Il bacio del papà aveva un odore molto forte, quell'odore che non mi piace, per cui mi sono scostata un po', ma siccome lui aveva l'aria triste l'ho baciato anch'io e lui si è commosso e mi ha chiamato la sua piccolina, e poi mi ha guardato e ha detto: “Ma hai la bocca tutta sporca di cioccolata”, e ha detto alla Mara: “La bambina è tutta sporca di cioccolata”, e la Mara ha detto che per merenda mi aveva dato un po' di budino, e allora lui ha fatto la faccia cattiva e ha detto che così mi guastava l'appetito, e la Mara ha cominciato a scusarsi, e io perché lui non si arrabbiasse ho detto che avrei mangiato tutto lo stesso. Allora lui mi ha baciato di nuovo e ha detto che ero la sua brava bambina, e io sono andata a sedermi al mio posto, ma la Monica non scendeva, così abbiamo aspettato un sacco, e io nel frattempo ho raccontato al papà tutti i giochi che mi ero inventata oggi. Oggi ho giocato tutto il giorno da sola e mi sono annoiata parecchio, per cui ho dovuto inventarmi un sacco di giochi nuovi. Al papà sembrava che i miei giochi non gli interessassero più di tanto, e invece guardava in continuazione Piero che stava zitto e guardava sempre da un'altra parte, che è una cosa che di solito non fa mai, e intanto Beppe si mangiava tutto quanto il pane, approfittandosi che non lo guardava nessuno. Io allora gli ho dato un calcio sotto il tavolo per dirgli che ne lasciasse un po' anche a me, e lui si è girato e mi ha fatto una linguaccia, e io gliel'ho restituita, e poi ho detto al papà che Beppe si mangiava tutto il pane e anche che mi aveva fatto una linguaccia, e il papà gli ha dato un ceffone, e Beppe non ha detto niente perché tanto ci è abituato. Poi il papà ha detto che era stufo di aspettare e che la Monica per quel che gliene importava poteva anche morire di fame, e che la Mara portasse pure in tavola che avremmo mangiato senza di lei. Solo che la Mara aveva fatto i peperoni, che a me non piacciono per niente, e allora li ho lasciati tutti nel piatto, e il papà per queste cose si arrabbia sempre tanto. Infatti mi ha guardato molto male e se li è presi nel suo piatto e poi se li è mangiati tutti quanti, per farmi vedere che erano buonissimi, e ha detto che noi non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati ad aver sempre tanta roba da mangiare, e che lui alla nostra età se lo sognava. Poi si è messo a fare dei discorsi lunghissimi ai miei fratelli sulla sartoria e cose del genere, e io non lo ascoltavo e mi annoiavo tantissimo, e a un certo punto ho cominciato a tirare a Piero delle molliche di pane perché speravo che si girasse e mi sorridesse come fa sempre, che lui è l'unico che gioca con me, e invece lui non si voltava e non
mi guardava, e allora io sono scoppiata a piangere. Il papà mi ha chiesto perché piangevo e io ho detto che Piero non mi voleva più bene e ho pianto ancora più forte, e la Mara ha detto: “La bambina è stanca. È meglio che la porti a letto”, ed è venuta verso di me e mi ha presa in braccio e io ho cominciato a scalciare e a divincolarmi e a dire che volevo la mia mamma, allora il papà si è alzato e ha detto: “La porto su io”, e quando il papà mi ha preso in braccio e siamo andati su per le scale io piano piano mi sono calmata. Mentre facevamo le scale io tenevo il naso nella giacca del papà, e sentivo gli odori della giacca del papà, che sono tutti odori buonissimi, c'è l'odore del tabacco e l'odore della colonia, e c'è anche un altro odore che non so cos'è ma è buono anche quello, e tutti questi odori insieme sono l'odore del papà. L'unico odore che non mi piace è di quella roba che beve, ma adesso si sentiva meno. Il papà mi teneva stretta e io ero contenta e stavo quasi per addormentarmi, poi siamo arrivati davanti alla porta e il papà ha bussato e ha detto alla Monica di aprire immediatamente, e la Monica è venuta ad aprire in camicia da notte e a piedi scalzi, e il papà ha detto che con lei ci parlava domani, e aveva un bruttissimo tono. Poi mi ha messa a letto e mi ha rincalzato le lenzuola, che è una cosa che faceva la mamma, e io trattenevo il fiato e pregavo gesù che non se ne andasse, e lui si è chinato e mi ha dato un bacio sulla fronte e ha detto buonanotte amore ed è andato alla porta ed è uscito. Allora io mi sono rimessa a piangere, prima piano perché il papà non mi sentisse, poi sempre più forte che mi è quasi venuto il singhiozzo, e la Monica è rimasta nel suo letto e non è venuta a consolarmi perché è un'odiosa. Io ho continuato a singhiozzare e a chiamare la mamma per un sacco di tempo, finché ero talmente stanca che mi sono addormentata e non mi ricordo più niente di niente.
Saranno stati quei maledetti peperoni, ma non ci riesco proprio a prender sonno. Devono essere almeno le tre. Cosa mi è venuto in mente di fare i peperoni che so benissimo che non li digerisco, e in questa casa tra l'altro non piacciono a nessuno, neanche a lui, anche se questa sera se li è mangiati tutti per dare una lezione ai ragazzi. Son qui che mi rigiro e penso a tante cose, quasi tutte spiacevoli, la stanza è piccola e certe volte è proprio soffocante, soprattutto nelle notti come questa, quando mi vengono i brutti pensieri. Stasera è andato tutto storto, l'ho capito dal momento che è entrato. Li ho visti nell'ingresso lui e Piero, che stranamente sono tornati insieme, e si pulivano le scarpe sullo zerbino per asciugarle dalla pioggia, perché verso le otto si era
messo a piovere, una pioggerellina fina fina. Li ho guardati, e avevano due facce da far paura, Piero così pallido non l'avevo mai visto, e lui che continuava a sbirciarlo ansiosamente, come se dovesse svenire da un momento all'altro. Mi sono detta, non sarà stato così pazzo da portarlo là, e mi sono fatta avanti per prendergli la giacca, ma lui ha fatto un gesto come per mandarmi via. Allora ho battuto in ritirata e dalla cucina l'ho visto che accompagnava Piero nel salotto come si fa con un malato, e Piero si lasciava guidare senza dire niente, poi ha avuto un moto di fastidio, e suo padre si è fatto da parte con un'espressione da far pietà. Per fortuna è arrivata quella scema dell'Ada, con la faccia tutta sporca di cioccolata, che non avevo fatto in tempo a pulirla, e gli è corsa incontro e gli ha buttato le braccia al collo, che lui per poco non si metteva a piangere. A volte anche i bambini servono a qualcosa, per quanto possa sembrare incredibile. Ma lui doveva avere il fiato che puzzava di whisky, che in effetti è una cosa che fa schifo anche a me, infatti la bambina si è tirata indietro e lui dev'essersene accorto, tanto è vero che per tutta la sera non ha più toccato un goccio, che di questi tempi è un fatto memorabile. Da un lato dovrei essere contenta, ma il fatto è che quando ha questi accessi di moralità io lo so già che quella che ci va di mezzo sono io, infatti non mi ha degnata di uno sguardo per tutta la durata della cena, e a dir la verità nemmeno dopo, infatti questa notte non si è fatto vedere, e io che son rimasta sveglia ad aspettarlo. Da quando lei non c'è, questa è la prima volta che non viene, esclusa beninteso la sera che è successo, che quella sera lì la casa era in subbuglio ed eran tutti svegli, perfino la bambina, in ogni caso a lui sarebbe parso un sacrilegio, e forse neanche io me la sarei sentita, non che sia il tipo che si fa degli scrupoli, ma c'è un limite a tutto. Prima, quando lei era qui la notte era impossibile, anche se a dire il vero a volte è capitato, lui con dei gran patemi d'animo però, perché era veramente un grosso rischio, con tutto che dormivano in stanze diverse e lei nell'ultimo periodo prendeva dei sonniferi. D'altra parte, a lui farlo di giorno gli piaceva, come a tutti gli uomini del resto, e tante volte veniva a casa apposta, quando sapeva che lei era fuori. Tutto in gran fretta però, e sempre con un senso di angoscia, anche se lui diceva che così era eccitante. Ci son momenti, dico la verità, che mi vien da rimpiangere i tempi della sartoria, lo so che sembra assurdo, ma per me era una casa, mentre qui mi sento sempre un'estranea. Per di più il lavoro mi piaceva, e come lavorante ero brava, adesso se la sognano una lavorante così, tutte scansafatiche che non son buone neanche a fare un'impuntura, degli ateliers bellissimi in mano a delle incompetenti, è vero che c'è lui, ma non può mica fare tutto da solo, e la pellicceria e il taglio e la modisteria, lui poi è un genio
soprattutto per il taglio, e invece gli tocca occuparsi di tutto. Ai tempi del signor Giovanni, che era il padre di lei, c'era una responsabile per ogni settore, e qualcuna veniva direttamente da Parigi, era una cosa veramente grandiosa. A tavola stasera lui ha ripreso il discorso, un po' io credo per distrarre Piero, ma anche perché se ne fa un cruccio che nessuno dei figli lo segua nel mestiere, con tutto che la sartoria ha una buonissima clientela, ma quelli figurarsi, Piero fa l'intellettuale, è troppo snob per impicciarsi di vestiti, e quell'altro è talmente infingardo, non se la prende neanche morto questa briga, e così andrà di sicuro tutto a rotoli, per lui dev'essere un pensiero molto triste. Comunque io non son più abituata ad addormentarmi da sola e questo è un fatto. Quando lui viene è tutta un'altra storia, anche se poi torna sempre di sopra, e invece questa sera ritrovarmi da sola a rigirarmi come un'anima in pena, e mettermi a pensare i pensieri più brutti: ho un bel ripetermi che a certe cose devo farci l'abitudine e che nella mia situazione mi devo accontentare, non c'è niente da fare, non me ne faccio proprio una ragione. Ma domani mattina com'è vero dio al mercato ci vado e quel tipo lo incontro di sicuro, e allora lo vedrà se mi faccio mancare qualcosa, non ci penso nemmeno un secondo, comodo lui, crede di avere l'esclusiva, mi vien proprio da ridere mi viene, quando hanno voglia sono tutti uno zucchero e poi se non gli va chi s'è visto s'è visto, ma ha ancora da nascere quello che mi mette i piedi in testa, fino a prova contraria sono libera e oltretutto sono molto più giovane di lui, posso avere tutti gli uomini che voglio basta soltanto che gli faccia un cenno. Intanto oggi come se non bastasse la schiena mi fa un male da morire, da quando lui ha licenziato le domestiche io qui a momenti mi ammazzo di lavoro, non sono mica una bestia da soma alla fin fine, del resto non c'era altra soluzione. Adesso se soltanto riuscissi a dormire, ma a quanto pare stanotte non c'è verso. Forse sarebbe meglio che mi alzassi, potrei sempre mettermi a ricamare, così almeno mando via i pensieri. Altrimenti lo sento da qui che da un momento all'altro mi metto a ripensare a quel giorno, quell'argomento lì è sempre in agguato, finora ce l'ho fatta a ricacciarlo, ma questa notte non è detto che mi riesca, anzi sono sicura che se non mi alzo... ma non mi frega mica, no no, ecco che sono in piedi, in un minuto sono già in poltrona col ricamo in mano, e giù coi punti, e pazienza se mi rovino gli occhi, sarà pur sempre meglio che farmi mangiar viva dai rimorsi, quello già basta e avanza che lo faccia lui.
Che poi a Piero gli ho raccontato tutto quella notte. Intendo dopo che l'han
portata via. Io non riuscivo neanche a mettermi sdraiata, e l'Ada ha pianto senza mai fermarsi, non ha smesso nemmeno un secondo, neanche quando l'ho presa nel mio letto. A un certo punto è venuta su la Mara: “Bambine, è tardi, è ora di dormire”, era in camicia da notte, uno spettacolo orrendo, e per giunta con la sua voce più melensa, “volete che rimanga qui con voi” ha avuto il coraggio di dire,”vi ho fatto un po' di camomilla”, ma io l'ho sbattuta fuori in malo modo, lei e la sua camomilla. Per un po' l'Ada ha continuato a singhiozzare, io la tenevo abbracciata stretta stretta, poi piano piano ho iniziato a cullarla come quand'era piccolissima, e son riuscita a farla addormentare. Allora in punta di piedi sono uscita e sono andata verso la camera di Piero, doveva essere davvero molto tardi. Sotto la porta filtrava la luce. Quando ho bussato lui mi ha aperto subito, era completamente vestito, e non sembrava stupito di vedermi. Mi ha fatto posto a sedere sul suo letto, e io ho cominciato a piangere a singulti come l'Ada, come se fossi una bambina piccolissima, e lui è stato zitto e ha aspettato che mi sfogassi, solo ogni tanto mi accarezzava i capelli. Allora tra un singhiozzo e l'altro mi sono messa a parlare, e credo che all'inizio non si capisse quasi niente, comunque ho cominciato a raccontargli, in maniera confusa e singhiozzando, di come quel giorno io e l'Ada, saranno state le cinque e mezza o le sei, ritornavamo a casa tenendoci per mano, ed era proprio una bellissima giornata, un pomeriggio di sole così bello, e si sentiva il profumo degli alberi, tutti gli alberi del viale erano in fiore, e l'Ada chiacchierava senza sosta, che quando fa così la strozzerei. Io di solito non me la porto dietro, ma quel giorno dall'Olga che sta qui a due i c'era una specie di festina, e l'Ada ha talmente insistito che l'ho dovuta portare, anche perché frignava come un'ossessa. Tornavamo dunque io e lei tenendoci per mano, e io mentre lei chiacchierava pensavo ai fatti miei, per essere precisa pensavo a un ragazzo con cui a scuola ci guardiamo sempre, e che alla festina con mia gran delusione non c'era, però questo particolare a Piero non l'ho detto. Quando siamo arrivate davanti al cancello abbiamo visto una cosa molto strana, il cancello era completamente spalancato e fermo lì davanti c'era un carro tutto chiuso, un carro bianco con dei cavalli attaccati, io un carro così non l'avevo mai visto. Ci siamo avvicinate, l'Ada guardava soprattutto i cavalli, e io ho notato che sul retro del carro c'era una finestrina con un'inferriata, mi sono chiesta a che cosa servisse. In quel momento dall'interno della casa abbiamo sentito la mamma che gridava molto forte, e senza dirci niente sempre tenendoci per mano abbiamo cominciato a correre verso l'ingresso, e anche lì la porta era aperta e si sentivano gli urli della mamma, siamo corse dentro e siamo entrate in salotto e lì l'abbiamo vista che si dibatteva tenuta da due uomini, la mamma col suo tailleur marrone da eggio che gridava e si dibatteva cercando di liberarsi, e i due uomini che la tenevano
stretta cercando di portarla fuori, e la mamma non voleva saperne e tentava di aggrapparsi ai mobili e agli oggetti e non voleva esser portata via, e gridava aiuto aiuto lasciatemi e noi siamo corse verso di lei anche noi gridando e piangendo, e ci siamo aggrappate alle sue gonne e lei ha cominciato a gridare le mie bambine le mie bambine e gli uomini cercavano di staccarci da lei, e il papà continuava a ripetere Lucia stai calma devi star calma vedrai non ti faranno niente, e nella stanza c'era anche la Mara ma io non la guardavo perché vedevo solo la mamma, la mamma aveva perso il cappellino e i suoi bei capelli si stavano sciogliendo, e gridava le mie bambine le mie bambine lasciatemi vi prego per amore delle mie bambine, e noi piangevamo e strillavamo fortissimo attaccate alle sue gonne, e gli uomini allora l'hanno sollevata di peso mentre lei scalciava e gridava e noi continuavamo a restarle attaccate e gli uomini ci hanno staccato con violenza e l'hanno trasportata di peso per il viale verso quel carro, e noi due dietro di corsa piangendo e urlando, e la mamma che piangeva e urlava, e Pippo che abbaiava come un matto, finchè sono riusciti a issarla dentro il carro e chiudere le porte ed ecco che lei non si vedeva più, ma potevamo ancora sentirla che ci chiamava, e il carro si è messo in moto tirato dai cavalli e noi due a corrergli dietro sempre tenendoci per mano e piangendo come disperate, con Pippo che correva e abbaiava al nostro fianco, e per un po' siamo riuscite a stargli appresso ma poi i cavalli si son messi al galoppo e noi siamo rimaste indietro ma abbiamo continuato a correre lo stesso per tutto il viale, col cuore che ci batteva all'impazzata, finché il papà ci ha raggiunto e ci ha costretto a fermarci anche se noi ci siamo ribellate graffiandolo e mordendolo con tutte le forze, e con l'aiuto della Mara che sia maledetta e che è molto più forte di quello che sembra il papà alla fine ce l'ha fatta a riportarci in casa. Piero durante tutto il mio racconto è rimasto zitto senza mai interrompermi, e anche quando ho finito non ha alzato lo sguardo e non ha detto nemmeno una parola. Io in questo silenzio terribile ho cominciato a tremare così forte che il tremito mi scuoteva tutta dalla testa ai piedi, allora lui mi ha ato un braccio intorno alle spalle e così abbracciati abbiamo pianto insieme, ma silenziosamente, senza singhiozzare, come se fossimo troppo sfiniti anche per quello. Poi lui mi ha detto: “adesso è meglio che vai a dormire perché devi essere esausta”, e io mi sono alzata in piedi e sono tornata in camera mia, e mi sono addomentata di botto perché ero stanca davvero, e da quel giorno non ne abbiamo più parlato.
Sto salendo le scale della casa di mio fratello, so che è casa sua anche se in realtà è molto diversa, le scale sono estremamente ripide e le ringhiere hanno strane volute, e io sono vestita a lutto perché mio fratello è appena morto. In testa ho un velo nero molto fitto che mi copre la faccia. Sulle scale c'è una luce verdastra, come la luce che c'è sotto il mare. Mentre salgo, l'angoscia aumenta di gradino in gradino, e faccio sempre più fatica a proseguire. Sul pianerottolo mi viene incontro la vedova di mio fratello, anche lei vestita a lutto, e mi fa segno di seguirla senza far rumore. Io la seguo nel corridoio e poi a un certo punto lei sparisce, e io ho sempre più paura e mi trovo di fronte alla porta della stanza da letto, che è socchiusa, e son sicura che dentro c'è il morto. Sulla porta ad un tratto compare il dottore, e mi dice qualcosa di strano, dice: “È meglio che non entri perché c'è troppa luce”, ma in realtà la stanza è in penombra, le imposte sono chiuse. Io lotto per entrare e il dottore mi blocca, finché ad un tratto qualcuno nella stanza spalanca le imposte e in effetti la luce è bianchissima e abbagliante, talmente forte che mi copro gli occhi e cado in ginocchio con un grido. Il dottore è chino su di me e sorride rassicurante. “Va tutto bene” dice, poi a voce più bassa chiede alla donna: “Grida sempre così?” “Tutte le notti” dice la donna. “Per noi è una gran fatica, cosa crede” dice. “Come sta la nostra bella paziente?” dice il dottore in tono incoraggiante, continuando a sorridermi. “La più bella delle nostre pazienti” dice “non è vero Irma?” “Verissimo” dice la donna. “Oggi non siamo in gran forma” dice “ma adesso ci sistemiamo per benino, giusto?” “Brava Irma” dice il dottore. “La lascio nelle mani della nostra Irma” dice rivolto a me, scandendo le parole come se fossi sorda. “La sistemerà per il meglio. Noi ci vediamo più tardi” dice, e scompare dietro il paravento. Io smetto di tremare. C'è un silenzio. “Non c'è pericolo che si sprechi, il dottore” dice la donna, sedendosi accanto al
mio letto. “Pare sempre che lo stiano inseguendo, da quanto ha fretta. E il lavoro di merda tocca tutto a noi” dice. Tira fuori il pettine e mi scioglie i capelli. Io chiudo gli occhi. Non è spiacevole. Il pettine va su e giù. “Oggi non te la danno, la scossa” dice la donna. Io apro gli occhi e la guardo. “Sì, hai capito bene. Oggi non te la danno. Si fa vacanza, oggi” dice. “Sei contenta?” Io chiudo gli occhi. Il pettine va su e giù. “Tirati su che ti faccio lo chignon” dice la donna. Io ubbidisco. Lei mi punta i capelli e poi mi guarda. “Poveretta anche te” dice.
Gliel'ho detto anche stamattina a mio marito, che non riesco a capire cosa ci sia sotto. Lui che di solito è un perfetto gentiluomo, adesso per la strada quasi non mi saluta. E dire che lo incontro tutti i santi giorni. Sua moglie, che Dio la perdoni, è sempre stata talmente superba, teneva tutti così a distanza, che qui nel vicinato non aveva rapporti con nessuno, ma lui che a prima vista non si direbbe affatto invece è una persona veramente perbene, così cortese, una volta che mi ha visto con le borse della spesa me le ha tolte di mano e me le ha portate fino a casa, che è una cosa che al giorno d'oggi non fa più nessuno, e poi si fermava sempre a chiedermi notizie dei ragazzi, davvero una persona gentile, e per di più un così bell'uomo, non che io sia il tipo che fa caso a queste cose, però per non notarlo dovrei essere cieca. Due anni fa quando si è sposata la Giovanna sono andata a farmi fare il vestito da lui, a dir la verità avevo un po' di paura perché dicono che sul lavoro sia un vero dittatore, e addirittura a volte mandi via le clienti se non gli sembrano degne di portare le sue cose, dice che ha cacciato perfino la signora Dallapiccola per via del fisico troppo sgraziato, semplicemente si è rifiutato di vestirla, almeno così dicono, certo lei chissà come c'è rimasta, considerando tutti i soldi che ha. Quindi ci sono andata con un po' di batticuore come se dovessi fare un esame, invece lui mi ha subito riconosciuto ed è stato davvero squisito, e mi ha fatto accomodare nell'atelier principale, dove ci sono delle signorine elegantissime che solo a vederle fanno soggezione, e grandi specchi e divani e
piante in vaso, e lui ha detto a due di quelle signorine che si mettessero a mia disposizione, e io mi sono confusa e non sapevo più che cosa dire, per paura di non sembrare a mio agio. Per fortuna le signorine erano efficientissime e hanno deciso loro tutto quanto, dal colore alla stoffa al modello, io non ho fatto altro che dire di sì, e per quel giorno lui non l'ho più visto. La volta dopo, mentre ero alle prese con le due signorine che mi puntavano addosso degli spilli – avevano scelto un raso granata che veramente a me sembrava un po' eccessivo, ma non ho avuto il coraggio di contraddirle – lui è arrivato ed è rimasto sulla porta, e ho visto che mi guardava nello specchio. È rimasto lì fermo per un po' senza dire nemmeno una parola, e io dentro di me ho cominciato a tremare temendo che mi cacciasse come la signora Dallapiccola, invece mi si è avvicinato, ha tirato fuori un gessetto e con gesto regale ha fatto dei segni misteriosissimi intorno alla scollatura, poi si è chinato e ha fatto altri segni lungo i fianchi, sempre in silenzio e con aria corrucciata, e le due signorine hanno annuito precipitosamente, e lui si è rialzato ancora corrucciato e soltanto alla fine mi ha fatto un gran sorriso, mi ha baciato la mano ed è sparito. Un uomo veramente affascinante, ho pensato, ma mi tremavano un pochino le gambe. Poi il vestito è venuto bellissimo anche se è costato veramente uno sproposito, quando mio marito ha visto il conto per un momento non ci voleva credere, e ho dovuto giurargli che mai più nella vita, comunque al matrimonio ho fatto un figurone e tutte quante a farmi i complimenti, io a dire il vero mi sentivo a disagio perché per i miei gusti era un tantino vistoso. Adesso è lì appeso nell'armadio e ogni tanto lo sfioro con le dita, ha davvero un colore stupendo ma mi pare impossibile che sia mio, sembra il vestito di un'altra donna, una donna molto più chic che va sempre ai cocktail e roba del genere, non credo che lo metterò mai più, anche se detto fra noi considerato quel che costa è davvero uno spreco. Ecco, lei era proprio il tipo di donna che poteva portare una cosa del genere come se niente fosse, e su di lei non aveva l'aria esagerata, anzi, sembrava quasi un vestito da tutti i giorni. Certe volte la guardavo mentre ava per il viale, camminava a o svelto, senza guardarsi intorno, completamente immersa nei suoi pensieri, tanto è vero che più di una volta quando la salutavo faceva come un piccolo sobbalzo, riscuotendosi, e poi rispondeva al saluto, educatamente sì, ma molto sulle sue, infatti nel quartiere stava antipatica a tutti, dicevano che si dava troppo tono, io però credo che fosse anche timida. Comunque non l'ho mai
vista una volta fermarsi a parlare con nessuno, tranne naturalmente con le sue amiche quando andavano a eggio, e allora dovevi vedere che sfoggio di toilettes, e qualche volta con le figlie quando tornavano da scuola. Dicevo ieri alla signora di sopra che l'ho incontrata anche il giorno che l'han portata via, saranno state io credo le cinque, era una giornata bellissima e lei era vestita in pompa magna, probabilmente stava rientrando da una visita, e non aveva affatto l'aria sconvolta. Anzi era scostante proprio come al suo solito e prima che mi rispondesse ho dovuto chiamarla ben due volte, allora ha sventolato una mano e mi ha detto che era di fretta perché aveva lasciato a casa il regalo per sua cognata, mi ricordo che aveva un tailleur, sicuramente fatto dal marito, che le stava una meraviglia, color marron glacé, e un cappellino in tinta leggermente inclinato da un lato, ho anche pensato che avrei dovuto farmene uno uguale. Che poi lo sanno tutti che lui l'ha sposata perché suo padre aveva la sartoria, che era già così ben avviata, e poi è riuscito a cacciar via anche il fratello di lei, che adesso poverino è morto, sicuramente di crepacuore dico io. Certo lei la sua famiglia non l'ha difesa per niente, a lui con la scusa che era un genio gli ha fatto fare tutto quello che ha voluto, i piedi in testa si è fatta mettere da quell'uomo, in tutti i sensi, e infatti guarda che razza di fine. Adesso quei poveri ragazzi in mano a quella sciamannata, non ci posso pensare, sempre in ciabatte e con la sigaretta in bocca tutto il tempo, dicono che lui ci vada a letto ma veramente si fa fatica a crederci, comunque qualche cosa di vero ci sarà perché lui poco dopo il fattaccio ha licenziato le altre due domestiche, e se l'ha fatto un motivo ci dev'essere. Mi chiedo quella lì come faccia a mandare avanti da sola tutta quella casa, infatti adesso c'è un disordine, l'altro giorno ci son ata con una scusa e ho dato un'occhiata alle stanze, quella non sa nemmeno come si fa un letto, se fosse a servizio da me sai dove la manderei, ma lì i servizi sono altri mi sa, comunque io qualcosina gliel'ho detta, anche perché deve capire che non siamo proprio ciechi, e che qui intorno ne parlano tutti. Ma quella lì mi dà l'idea di una che non ha proprio nessuna vergogna, infatti praticamente mi ha detto di farmi i fatti miei, quando io in fin dei conti parlavo anche per il suo bene. Una sfrontata, ecco cos'è. Ah, ma farà una gran brutta fine quella lì, questo è poco ma sicuro. Donnacce come quelle, si sa come vanno a finire. Che poi vorrei sapere da dove l'ha tirata fuori, mi sa che ha cominciato facendo la piccinina in sartoria. Bella carriera ha fatto. E quella poveretta della moglie, Dio sa che non mi era simpatica, ma farle un affronto del genere, a una donna come lei... sempre che sia vero quello che dicono, naturalmente. Non che sia stata l'unica, tutt'altro, ma è di gran lunga la peggiore. Praticamente una serva, e dentro casa. Ci credo che lei è diventata matta. C'è un limite a tutto. Perfino a quello che una donna così può sopportare, e sa il cielo se non aveva fatto qualunque cosa per quell'uomo.
Addirittura rinnegare il suo proprio fratello. Cioè, non so se l'abbia veramente rinnegato, comunque quel che è certo è che il marito si è impadronito di tutto, e lei non ha nemmeno fiatato. Sposarsi sotto la propria condizione non porta mai niente di buono, io glielo dico sempre a mia figlia, ma lei per fortuna non avrà una gran dote e poi non è nemmeno carina, e quindi nel suo caso c'è poco pericolo, che a dirla francamente per me è un vero sollievo perché non ha nessunissimo discernimento. Quello che mi dispiace in tutto questo è che non ho il modello di quel bel tailleurino, e a lui di certo non lo posso chiedere. Volevo farlo rifare alla mia sarta, che è brava e costa poco. Marron glacé... Un colore molto raffinato. Che a lei stava benissimo con quella pelle così bianca, ma mi chiedo che effetto possa fare sulla mia carnagione, a me i colori scuri non mi hanno mai donato. Comunque uno di questi giorni quando lo vedo per la strada com'è vero iddio giuro che lo fermo, alla fin fine è una questione di buon vicinato, devo pur dirgli quanto mi dispiace, e qualche domandina provo a fargliela, così, senza parere, con un'aria innocente, voglio proprio vedere cosa mi risponde.
Poi di scappare non ne ho avuto il coraggio, perché il papà è venuto su con una faccia bruttissima. Avevo già preparato il fagotto e l'avevo nascosto sotto il letto, però mi ero spogliata lo stesso e messa la camicia da notte e tutto il resto nell'eventualità che con l'Ada salisse qualcuno, solo che pensavo che arrivasse la Mara e dicesse le sue solite scemenze e magari mi portasse anche un piatto con la cena, lamentandosi che ormai era fredda e che l'avevo fatta cucinare per niente eccetera eccetera. Invece ho sentito bussare con violenza e la voce del papà che diceva: “Monica, apri immediatamente”, e non aveva affatto un bel tono. Io ho aperto senza fiatare e me lo sono visto davanti con l'Ada in braccio mezza addormentata, una cosa che non era mai successa. Mi ha guardato malissimo e ha detto: “Con te ci parlo domani”, e non sembrava neanche tanto ubriaco. È entrato senza più guardarmi e ha posato l'Ada sul lettino, lei chiaramente non voleva staccarsi e continuava a tenergli le braccia intorno al collo, allora lui l'ha presa e con molta dolcezza l'ha messa addirittura sotto le lenzuola e gliele ha rincalzate proprio come faceva la mamma, io lo guardavo e non credevo ai miei occhi, mancava solo che le raccontasse una fiaba. Poi le ha dato un bacio sulla fronte ed è uscito sempre senza guardarmi e ha chiuso la porta alle sue spalle molto piano, e io mi sono sentita veramente uno schifo. In più quella scema
dell'Ada naturalmente si è messa a singhiozzare ed è andata avanti una vita a piangere e a chiamare mamma finché non ha avuto più voce, ma io me ne frego di lei e delle sue lagne e non capisco perché alla mia età non posso avere una stanza tutta mia invece di dormire con questa frignona insopportabile, per di più in tutta la mia vita non ricordo che il papà mi abbia mai messa a letto, e nemmeno portata su in braccio se è per questo. In ogni caso è tutto uno schifo e ho pensato che non valeva neanche la pena di scappare, ero talmente demoralizzata, e ho pensato anche che se andavo dall'Olga sua mamma di sicuro mi riportava indietro. Ero così depressa che per riuscire a addormentarmi mi sono raccontata tutta quanta una storia sul fatto che un giorno, il più presto possibile, mi sarei sposata con qualcuno che al papà non pie per niente e che anzi considerasse del tutto inadatto, e gliel'avrei detto proprio all'ultimo momento lasciandolo con un palmo di naso, e in casa non ci avrei mai più messo piede, e lui ne avrebbe avuto il cuore spezzato e mi avrebbe supplicato di perdonarlo per tutte le sofferenze che mi aveva fatto patire, compresa naturalmente la megera. La mattina dopo mi sono preparata in fretta e furia e sono andata a scuola senza nemmeno fare colazione, primo perché non volevo incontrare il papà, e secondo perché ero molto in ritardo per via che non avevo sentito la sveglia. La professoressa nonostante il ritardo ha fatto finta di niente e io mi sono seduta al mio posto vergognandomi moltissimo, ultimamente ho la sgradevole impressione che mi tratti come se potessi andare in pezzi da un momento all'altro, preferirei di gran lunga che mi trattasse come tutti gli altri. Durante la ricreazione è successa un'altra cosa spiacevole, io stavo eggiando nel cortile per i fatti miei quando ho visto un gruppetto in cui c'era anche l'Olga e altre amiche sue e tutte stavano parlando molto animatamente, io mi sono avvicinata e all'improvviso è calato il silenzio, la Olga ha detto qualcosa di completamente insulso per fingere di continuare una conversazione ma si capiva benissimo che aveva cambiato argomento, allora io sono diventata rossa come il fuoco e mi sono allontanata senza dire una parola, e per il resto della ricreazione sono rimasta in classe da sola. A fine mattinata quando è suonata la camla sono scattata in piedi e mi sono diretta all'uscita velocissima, la Olga ha cercato di raggiungermi ma io ho fatto finta di non vederla e sono uscita sul piazzale praticamente di corsa. Non mi guardavo intorno e camminavo in fretta e cercavo di non mettermi a piangere, quando ho sentito qualcuno che mi chiamava e mi sono girata, e proprio lì davanti al cancello c'era Piero, con il suo impermeabile e la sciarpa e i capelli
tutti spettinati, e intorno a me ho visto le mie compagne di classe che allungavano il collo e per un attimo mi sono sentita meno derelitta, allora ho raddrizzato la schiena e gli sono andata incontro e l'ho baciato su tutt'e due le guance come una vera signora. Lui mi ha guardato un po' stupito perché di solito non ci facciamo tutti 'sti salamelecchi, ma io l'ho preso sottobraccio come se fosse il mio fidanzato e come fanno sempre nei film e mi sono incamminata con lui sotto gli occhi di tutte quelle arpie, che chissà cosa darebbero per essere al mio posto. Per la verità Piero non era mai venuto a prendermi a scuola, per cui ho avuto un po' di paura e gli ho chiesto se per caso era successo qualcosa e lui ha scrollato le spalle senza rispondere, in realtà guardandolo meglio aveva un'aria molto abbacchiata, ma ho pensato che non era il caso di domandargli nient'altro. Infatti lui non aveva assolutamente voglia di parlare, abbiamo camminato per un po' in silenzio ognuno immerso nei suoi pensieri, nel mio caso niente affatto belli e credo neanche nel suo, c'era un po' di vento e il sole era pallido, Piero si è messo gli occhiali scuri e somigliava a quell'attore se, com'è che si chiama, quello che piaceva tanto alla mamma. Dopo un po' mi è sembrato che il silenzio cominciasse a pesare, allora tanto per dire qualcosa gli ho chiesto di quel suo professore comunista, e se è vero che lui e gli altri studenti si riuniscono per fare l'antifascismo, e di che cosa parlano, e Piero si è girato a guardarmi molto sorpreso e ha detto: “E tu come fai a saperlo?” “Me l'hanno detto le mie compagne di classe” ho risposto. “Ah” ha detto lui. Ci ha pensato su un attimo, e poi ha aggiunto: “E loro come fanno a saperlo?” “Ah, loro” ho detto io “loro sanno tutto di te”, e lui era sempre più stupito e ha chiesto: “E come mai?” “Ma perché sono tutte innamorate” ho detto io, come se fosse una cosa ovvia. “Innamorate di chi? di me?” ha chiesto lui, e sembrava sbalordito. “Ma sì, di te” ho detto io “perché, non lo sapevi?” “No che non lo sapevo” ha detto Piero. Poi ha fatto una pausa. “Peccato che sono tutte racchie” ha aggiunto, e ho visto che gli scappava da ridere. Allora anch'io sono scoppiata a ridere, e abbiamo riso insieme come non facevamo da tanto, abbiamo riso fino alle lacrime, come quand'eravamo piccoli, e tutt'a un tratto lui aveva di nuovo la sua faccia da ragazzo.
Poi abbiamo ripreso fiato e ci siamo rimessi a camminare, questa volta tenendoci per mano, e dopo un po' gli ho chiesto: “Ma è proprio vero che il tuo professore è comunista?” “Certo che è vero” ha risposto lui tornando serio. “È un uomo molto coraggioso” ha detto. Poi mi ha guardato: “Di queste cose non bisogna parlare con nessuno” ha detto, “mi raccomando, proprio con nessuno, e se le tue compagne ti chiedono qualcosa, tu non sai niente, è chiaro?” “Chiarissimo, comandante” ho risposto. Volevo anche dirgli, non sono mica scema come pensi tu, ma sono stata zitta. Abbiamo continuato a camminare e il sole era più forte e cominciava a far caldo, e Piero si è levato l'impermeabile e la sciarpa, e all'improvviso mi ha chiesto: “E quali sarebbero di preciso, queste che sono innamorate di me?” “Oh, be', più o meno tutte” ho risposto. Poi per un senso di giustizia ho aggiunto: “ E non è vero che sono tutte racchie, l'Elena per esempio è carina”. “E quale sarebbe, quest'Elena?” ha detto lui facendo l'indifferente. A quel punto io mi sono pentita, ma ormai era fatta, e ho dovuto rispondere: “Una bionda, con i capelli ricci” ho detto molto in fretta, “ma tanto non te la ricordi”. Ho fatto una pausa, e ho aggiunto: “Comunque, secondo me non è il tuo tipo”. “E che cosa ne sai, tu” ha detto lui “cosa ne sai tu, di qual è il mio tipo?” e poi si è messo a ridere, e mi ha dato un bacio sulla guancia, e io mi sono stizzita. Lui se n'è accorto e mi ha preso sottobraccio, e io per un po' di tempo ho fatto il broncio, ma poi lui mi ha fatto le smorfie, e ci siamo messi a ridere di nuovo. “Stamattina è ato l'avvocato Ravenna” ha detto Piero quando abbiamo ripreso a camminare, “voleva salutarci. Ha lasciato tanti saluti anche per te. Anzi, per te in particolare”. “Perché saluti?” ho chiesto io, senza capire. “Dov'è che andava?” “È dovuto partire” ha detto Piero, evasivo. “Ma dov'è andato?” ho insistito.
“Non si sa” ha detto Piero brusco, tagliando corto. “Ma è molto meglio, sai, che sia partito. Non è aria adesso, per quelli come lui”. “Ah” ho detto io. Sono stata in silenzio per un po', mentre continuavamo a eggiare. In fondo al viale, tra gli alberi, si cominciava a vedere la casa. “E per me, cos'ha lasciato detto?” “Salutatemi tanto la mia principessa. Così ha detto”. “E sarei io, la sua principessa?” “Saresti tu. Incredibile, vero?” ha detto Piero e si è messo a ghignare, e io ho cercato di menarlo ma come al solito non ci sono riuscita, se ne approfitta sempre perché lui è più grande.
Qualcosa batte e risplende. Batte e risplende. Sotto le palpebre. Se tengo gli occhi chiusi. Una luce dorata. Come un rombo d'ali. Batte e risplende. Tenebra rossa. Sangue che pulsa. Dietro le palpebre. Come ali che sbattono.
Silenzio.
Sento una mano armi lungo il viso La mano le dita i polpastrelli
Furtivamente le dita mi accarezzano
le palpebre la fronte le labbra i capelli gli occhi gli zigomi le guance il mento la bocca
Sotto quelle carezze ho un fremito impercettibile
Non apro gli occhi
Con cautela le dita si ritraggono
A fianco del letto c'è un uomo che mi guarda. Ha una faccia larga e bella dai lineamenti marcati, e i capelli scuri pettinati all'indietro. Gli occhi sono gonfi e pesti come se avesse pianto, e leggermente iniettati di sangue. Le labbra sono carnose, il mento ha una fossetta. Mi sembra che assomigli vagamente a qualcuno. Forse a un attore, o a un personaggio famoso. In questo momento, non riesco in nessun modo a ricordarne il nome. L'uomo si china su di me. Posa la mano sul mio braccio. Al mignolo porta un anello con una pietra dura, si direbbe onice, un anello d'argento dalla montatura
quadrata. Le mani dell'uomo sono molto curate, con le unghie aguzze. L'uomo mi guarda. Io guardo il suo anello. C'è una pausa. “Lucia” dice l'uomo. Io lo guardo. “Lucia” dice. Io guardo l'anello. Non riesco a ricordare il suo nome. “Lucia” dice l'uomo, e la voce gli trema. Io guardo l'anello. Al centro della pietra c'è inciso qualcosa, come uno stemma. L'uomo si copre il viso con le mani, e singhiozza. Io guardo l'anello, e poi l'attaccatura dei suoi capelli. L'uomo singhiozza col viso fra le mani. a del tempo. Lentamente, l'uomo si rialza. Si asciuga gli occhi col dorso della mano, e mi sfiora leggermente la guancia con le dita. Poi esce. Sento la sua voce dietro il paravento. “Voglio parlare col dottore” dice. La voce è molto calma. “Non è possibile adesso” è la voce della donna. “Il dottore è occupato” dice. “Non mi muovo di qui” dice l'uomo. “Gli dica che lo aspetto”.
“Mi scusi, le ho detto che è impossibile” dice la donna. “Il dottore è impegnato. E non è neanche orario di visite. Con lei siamo molto comprensivi, lo sa? Ma sembra che non riesca a capirlo. Facciamo quello che possiamo, ma a tutto... “ “Non mi muovo di qui” dice l'uomo. “È meglio che glielo dica, al dottore”. Una pausa. Si sente un brusio in sottofondo, seguito da un rumore di i. “Allora, che cosa succede?” è la voce del dottore, una voce gioviale. C'è un silenzio. “Qualcosa non va?” “Non mi ha riconosciuto” dice l'uomo. “Non l'ha riconosciuta?” Breve pausa. La voce è un po' meno gioviale. “Be', non c'è da allarmarsi. Un leggero stato confusionale. Ovviamente eggero. Sono cose che capitano. Conseguenze del trattamento. Lievi stati confusionali, del tutto eggeri. Non ci sorprendono affatto. Li abbiamo messi nel conto.” Bonaria risata. “Non deve spaventarsi. È in buone mani, qui”. “L'ultima volta non ha riconosciuto neanche il figlio” dice l'uomo. “Gliel'ho già detto” la voce del dottore, paziente. “Può capitare. Sono dei piccoli imprevisti, tutto qui. Ma sono transitori, questo è certo.” “Io ho l'impressione che peggiori di giorno in giorno” dice l'uomo. Breve pausa. “Vuole che le ricordi in che stato è arrivata?” la voce del dottore ha una sfumatura di minaccia. “Certo, era un po' agitata, ma...” “Un po' agitata?” Il dottore fa una pausa. “Era delirante. Se lo ricorda?” “Be', adesso, delirante...” “Ce lo ha detto lei stesso, che delirava. O intende ritrattare?”
“Io...” “Vuole che le ricordi le cose che diceva?” “No, io...” “È meglio che le dimentichiamo, quelle cose. Non crede?” “Sì” dice l'uomo. “Certo” dice. Fa una pausa. “È che vederla in quello stato...” “Una temporanea perdita di lucidità” dice il dottore “come ho già detto, non deve spaventare. È ampiamente prevista. L'importante è che la paziente abbia recuperato un minimo di serenità. Questo è l'importante. Non crede?” “Sì, però...” “Tra poco, tutto il resto andrà a posto benone. Mi dia retta. Si tratta solo di darle un po' di tempo” dice il dottore. È di nuovo gioviale. “Adesso vada. E su col morale. Un po' di ottimismo, che diamine. Lei deve pensare ai suoi figli...”
I i si allontanano. Se chiudo gli occhi ancora più stretti, la luce aumenta. Il sangue pulsa forte. Posso sentire il rombo delle ali.
Mi sono svegliata che era tutto buio. La luce del comodino era spenta e non si vedeva proprio niente, non si sentiva neanche un rumore non si vedeva niente era proprio buio buio buio, e io mi sono messa a gridare fortissimo e a piangere e a singhiozzare ma sembrava che non mi sentisse nessuno, e la Monica non so dov'era ma non in camera perché io l'ho chiamata tantissimo e lei non rispondeva, e poi di solito quando dorme fa un fischio che non è proprio come se russasse ma quasi e infatti Beppe l'estate scorsa, quando stavamo al mare in quel bellissimo albergo che il papà aveva preso un piano tutto per noi un sacco di saloni grandissimi con la vista e la mamma stava sempre distesa al buio per via del mal di testa, Beppe l'estate scorsa dicevo la prendeva sempre in giro perché lì avevamo le stanze vicine e la notte lasciavamo la porta aperta per far are
l'aria, e lui la mattina a colazione non faceva altro che sghignazzare dicendo che la Monica russava e teneva svegli tutti, che naturalmente non era vero, ma lei si offendeva tantissimo. Le stanze lì erano bellissime tutte bianche con delle finestre altissime e le tende che svolazzavano e si vedeva il mare con le barche che avano piano piano all'orizzonte, e io certe volte mi mettevo in piedi su una sedia per arrivare al davanzale perché l'anno scorso ero ancora molto piccola, mi mettevo lì in piedi e stavo a guardare le barche e il mare che scintillava finché veniva sera, e poi arrivava la miss perché l'anno scorso avevamo una miss che adesso è andata via, e mi faceva scendere dalla sedia e mi portava dalla mamma che di solito era a letto con una pezzuola sulla fronte, e la mamma mi baciava e mi chiedeva se ero stata brava e io dicevo di sì, e poi la miss mi portava di là a mangiare insieme alla Monica e mi metteva a letto e la mamma mi veniva a salutare prima di uscire a cena con il papà, e quando usciva la mamma era bellissima non aveva più la pezzuola ma dei vestiti luccicanti con le frange d'argento e le perle, e i capelli tirati su e gli orecchini lunghi che quando ero proprio piccola glieli tiravo sempre, e allora lei rideva e scuoteva gli orecchini e una volta mentre rideva è entrato il papà e le ha dato un bacio sotto l'orecchio che a me è sembrato un posto strano, e lei ha riso di nuovo e ha detto non fare così davanti alla bambina. Questo però succedeva prima, voglio dire prima del mare. Al mare il papà quando usciva con la mamma si metteva sempre lo smoking e la sciarpa di seta bianca con grandissima invidia dei miei fratelli che di smoking non ne hanno neanche uno mentre il papà ne ha sei, lo so perché loro lo dicevano sempre, e una sera dopo che il papà era uscito Piero di soppiatto è entrato nel suo guardaroba e si è messo uno degli altri cinque smoking e anche una sciarpa sempre del papà e poi è venuto in camera nostra a farsi vedere, e noi abbiamo battuto le mani perché sembrava proprio uno di quei signori elegantissimi che vanno al casinò e aveva anche la pomata sui capelli, e lui si è pavoneggiato un po' davanti a noi e poi è uscito non si sa per dove, la Monica dice con una ragazza. A me il mare piaceva moltissimo soprattutto la mattina quando scendevamo in spiaggia con la miss e andavamo in capanna e la sabbia vicino alla capanna era così fresca dove c'era l'ombra e io mi mettevo lì con i piedi nella sabbia fresca e poi finalmente quando la miss ci dava il permesso di fare il bagno io e la Monica correvamo velocissime dove la sabbia scottava e ci tuffavamo in acqua di corsa facendo un sacco di spruzzi, io non sapevo ancora nuotare e allora restavo vicino alla riva in mezzo alle onde che mi sbattevano da tutte le parti, la Monica invece nuotava fino in diga e poi si metteva lì a prendere il sole, lei l'anno scorso aveva già il costume intero come una ragazza grande. Io a stare lì sul bagnasciuga da sola con la miss mi annoiavo da matti e non vedevo l'ora che arrivasse Piero che veniva in spiaggia molto più tardi di noi e neanche
sempre, però le volte che arrivava era bello perché mi prendeva in braccio e mi portava a nuoto fino alla boa, e io strillavo e bevevo e ci divertivamo tantissimo. Poi mi faceva salire sulla scaletta della diga e mi tirava su e ci sdraiavamo insieme sul pavimento della diga che era di legno e un po' ruvido, e io guardavo in su e cercavo di fissare il sole ma non ci riuscivo e vedevo tutte delle palle colorate e poi facevo un sacco di domande e Piero mi rispondeva perché lui è l'unico che mi risponde sempre. E un pomeriggio siamo andati in bicicletta io seduta sul manubrio e lui che pedalava velocissimo, e quella volta lì è venuto anche Beppe che pedalava dietro di noi, e poi abbiamo fatto tutto il viale in discesa con il vento e la bici che andava fortissimo e gli alberi ai due lati luce e ombra luce e ombra e ogni tanto si vedeva un pezzetto di mare, e io ridevo e avevo anche un po' di paura e poi siamo arrivati in fondo al viale là dove c'è l'imbarcadero grande e Piero ha frenato e mi ha fatto scendere e io mi sono messa a piangere perché era già finito, e allora lui mi ha comprato il gelato in quel bar grandissimo dove la mamma dice che lo fanno buono. E una volta siamo andati anche in motoscafo per i canali e c'erano gli oleandri e il cielo era azzurrissimo era quasi la fine della vacanza e la mamma diceva questo è il tempo di settembre questo è già il sole di settembre mi fa così tristezza che è finita l'estate diceva, anche se non sembrava che si divertisse tanto sempre con quella pezzuola sulla fronte e le persiane chiuse, comunque la mamma quel giorno in motoscafo non c'era siamo andate io e la Monica con degli amici di Piero che il motoscafo era loro e c'era anche una ragazza con i capelli neri molto lunghi e la Monica mi faceva degli occhi per farmi capire che era quella la ragazza, la ragazza però a noi non ci badava per niente parlava solo con Piero e rideva e faceva tintinnare i braccialetti che ne aveva tantissimi molto sottili e ogni tanto scuoteva all'indietro tutti quei capelli, e io la guardavo con gli occhi spalancati e a un certo punto la Monica mi ha dato uno strattone e mi ha detto a bassa voce di smettere di guardarla in quel modo, e quando siamo tornati il sole era basso e il motoscafo andava piano e si sentiva l'odore dei canali e i colori erano così forti e c'era il bianco e c'era l'azzurro e io guardavo tutto e non dicevo niente, e Piero si è messo a ridere e ha detto come mai oggi l'Ada sta così zitta, non ha fatto nemmeno una domanda. Comunque la Monica ieri notte non era in camera perché lei quando dorme fa quel fischio che sembra quasi come se russasse, e quel fischio ieri notte non si sentiva, e io ho cominciato a piangere come una disperata perché lei non rispondeva e alla fine sono scesa dal letto sempre singhiozzando e ci ho messo un sacco di tempo perché avevo paura e mi fermavo di continuo ma sono riuscita ad arrivare fino alla porta. Adesso un pochino ci vedevo anche se era sempre buio buio buio e non si sentiva nessunissimo rumore. Io ero a piedi nudi e il pavimento era freddo e a un certo
punto sono anche inciampata, però sono arrivata lo stesso al pianerottolo e lì mi sono fermata perché al piano di sotto ho sentito delle voci. Una mi sembrava la voce del papà ma non ero sicura perché era molto bassa, e allora non ho avuto il coraggio di chiamare e ho cominciato a scendere piano piano la scala aggrappandomi alla ringhiera e mentre scendevo ho visto un filo di luce che usciva da una porta, però non capivo che stanza fosse perché intorno era tutto buio, e le voci continuavano e adesso che ero più vicina ho sentito che era proprio la voce del papà, non riuscivo a capire cosa diceva ma sembrava molto arrabbiato anche se parlava pianissimo quasi bisbigliando, io ho continuato a strisciare giù per la scala finchè sono arrivata al pianterreno e allora ho sentito le parole ho sentito che diceva “con le nostre mani, è come se l'avessimo fatto con le nostre mani”, e siccome aveva un tono che mi faceva paura ho provato a chiamare, ho detto: “Papà?”, e la voce si è interrotta di colpo c'è stato un gran silenzio, e poi si è aperta la porta ed è uscito il papà con la sua giacca di cammello da casa tenendo in mano un sigaro mezzo spento e l'odore del sigaro era molto forte e il papà si è fermato e ha detto: “Ada sei tu?” e io ho detto sì sono io e il papà è venuto verso di me e mi ha preso in braccio e io sono scoppiata a piangere fortissimo, e dalla stanza è uscita la Mara in vestaglia e ha cominciato a dire cosa ci fa la bambina in piedi a quest'ora e mi sembra proprio che fosse una vestaglia della mamma una delle più belle quella con le rose gialle che a me è sempre piaciuta tantissimo, io la Mara con i capelli sciolti non l'avevo mai vista perché di solito ha sempre quella crocchia alta in cima alla testa, e dio com'era brutta con i capelli sciolti e senza rossetto e le usciva anche del sangue dalla bocca sembrava proprio una strega, allora mi sono messa a piangere ancora più forte e il papà mi ha stretto e ha detto alla Mara: “Tu togliti di mezzo” e aveva un tono cattivissimo e la Mara è sparita nella sua stanza e io mi sono aggrappata al papà che sapeva di sigaro e lui mi ha cullato dicendo la mia bambina la mia bambina adorata e sembrava che stesse per piangere anche lui.
A un certo punto, sotto la mia finestra, ho sentito un cane che abbaiava. All'inizio non ci ho fatto caso, anche perché ero già nel dormiveglia, ma il cane continuava a latrare e allora ho cominciato a stare attenta e mi è sembrato di riconoscere il latrato e poi ho avuto la certezza che era Pippo. Mi sono alzata senza far rumore per paura di svegliare l'Ada, e piano piano sono andata alla finestra. L'ho aperta e ho visto Pippo in piedi con le orecchie tese, che appena mi ha visto ha cominciato a saltare e a uggiolare dalla gioia, ma io gli ho fatto segno di star zitto e lui ha smesso perché non è mica un cane scemo. Pippo da quel
giorno che han portato via la mamma non era più tornato a casa. Quando noi siamo state trascinate via dal papà lui ha continuato a correre da solo dietro al carro, e da allora non l'abbiamo più visto. Io e l'Ada siamo andate tutti i giorni al cancello a chiamarlo e poi l'abbiamo cercato dappertutto in giro per il quartiere, ma non c'è stato verso di trovarlo da nessuna parte e io ci ho fatto quasi una malattia, ma non mi andava di parlarne con nessuno. Mi sono girata per controllare che l'Ada stesse ancora dormendo, e l'ho vista sdraiata beatamente che ronfava con la bocca un po' aperta, e con le labbra faceva un piccolo schiocco. Allora sono uscita dalla stanza lasciando la porta socchiusa, e ho sceso le scale a tentoni senza accendere la luce. In casa era tutto buio. Cercando di non sbattere contro qualcosa sono arrivata fino in cucina, e lì ho aperto la portafinestra e ho sentito Pippo che mi correva incontro sulla ghiaia. Mi sono inginocchiata e lui mi è saltato addosso e ha cominciato a leccarmi tutta quanta la faccia, e io l'ho accarezzato e mi sono accorta che era magro e tutto sporco e che aveva un orecchio morsicato, si vede che aveva fatto a botte con un cane più grosso. Pippo è un cane rissoso e non si rende conto che non può fare a botte perché è piccolo. Lui continuava a leccarmi e gli batteva il cuore dall'emozione e a me è venuto un groppo in gola perché Pippo è il mio cane, me l'hanno regalato quando avevo sei anni e lui era un affare grande così. Siamo stati lì per un po' a farci le feste, lui saltava e mi leccava e io dicevo “Pippo, Pippo”, quando in casa si è accesa una luce e io ho guardato e la luce era nella stanza della Mara. Ho fatto segno a Pippo e lui ha smesso di agitarsi, e ho visto che qualcuno spalancava la finestra, ma da dentro non veniva nessun rumore. Allora ho cominciato a strisciare lungo il muro lentamente e con grande cautela e nel frattempo mentre io mi avvicinavo nella stanza è iniziata una conversazione, potevo sentire un mormorio a bassissima voce. Dopo un po' che strisciavo ho raggiunto la finestra della Mara che era l'unica chiazza di luce in tutta la facciata buia, e mi sono accucciata lì sotto con Pippo al mio fianco, attentissimo e con la coda ritta. Era tardi e cominciava a far freddo, e mi sono pentita di non aver preso uno scialle. Tutto intorno c'era un gran silenzio. Dalla finestra mi è arrivata una zaffata di sigaro, e la voce del papà che diceva: “Con le nostre mani. È come se l'avessimo fatto con le nostre mani... “ Poi ho sentito la voce della Mara, più bassa: “Secondo me stai delirando” diceva. “Non sarà mica colpa nostra, adesso, se...” “Sono le cure che le fanno, lo capisci?” ha detto il papà, e si sentiva che era molto agitato. “Quei delinquenti... Me la stanno ammazzando, con quelle cure.
Non sa nemmeno più chi è...” “Avevi sempre detto che era una buona clinica” ha detto la Mara. “Dio solo sa quanto mi costa, quella clinica” ha detto il papà. Vedevo la sua ombra are e riare contro il muro. “Un occhio della testa, mi costa. E quelli me la stanno ammazzando...” “Lo vedi che non è colpa tua?” ha detto la Mara. “Tu hai fatto tutto quello che potevi...” Ho sentito una sedia scricchiolare, come se qualcuno si sedesse di schianto. “Siamo noi che ce l'abbiamo mandata” ha detto il papà. “Siamo noi che ce l'abbiamo mandata, in manicomio...” La Mara ha detto: “Ma non è un manicomio...” “Certo che è un manicomio” ha detto il papà, alzando un po' la voce. “Certo che è un manicomio, e sei stata tu, strega maledetta, a insistere perché chiamassi l'ambulanza...” Non mi ricordo bene quel che ho fatto dopo, credo di essermi alzata di scatto perché non volevo più sentire neanche una parola, so solo che nel giro di un secondo mi ero già voltata e avevo cominciato a correre a perdifiato. Sentivo Pippo ansare, e correre dietro di me come una freccia. Sempre correndo abbiamo attraversato il prato calpestando le aiuole, siamo arrivati al cancello che ho spalancato senza darmi la pena di richiuderlo, e a gran velocità ci siamo slanciati lungo il viale. La strada era deserta. C'era una grande luna quasi piena che appariva e spariva tra le nuvole, ma non faceva tantissima luce. Abbiamo corso all'impazzata fino alla fine del viale senza voltarci indietro nemmeno una volta, però siccome non sapevo da che parte andare arrivata all'incrocio mi sono fermata. Ansimavo e anche Pippo ansimava e mi guardava aspettando che mi decidessi. Mi sono accorta che ero in un bagno di sudore e avevo i piedi insanguinati perché ero uscita scalza e in camicia da notte, e per di più si era alzato un vento freddo e doveva essere veramente tardissimo, e allora ho cominciato a battere i denti e avevo i brividi e ho pensato ma dove vado a quest'ora in camicia da notte con un cane che non è neanche da guardia, e mi è venuto da piangere e ho preso Pippo in braccio e sono andata a sedermi sul ciglio della strada. Stavo seduta e piangevo e sentivo il muso umido di Pippo
sulle ginocchia, e intanto la luna appariva e spariva e io non pensavo più a niente speravo solo di morire congelata, cosa che in primavera è abbastanza difficile, e la notte ava e tutti dormivano e nessuno si accorgeva di niente, e anche se io non lo sapevo era già quasi l'alba e sarebbe stata una mattina d'aprile, e Pippo mi leccava le mani e almeno lui era contento perché comunque andasse noi due eravamo insieme.
Sta in piedi voltandomi le spalle, e fuma. Un sigaro. Pestilenziale. Dev'essere davvero sconvolto per fumare un sigaro nella mia stanza, di solito non lo fa mai perché ha paura che rimanga l'odore. Io me ne sto ben zitta sperando di evitare una scenata, anche se con l'aria che tira mi sa che ho pochissime speranze, a ogni buon conto me ne sto ben zitta in fondo al letto con le braccia intorno alle ginocchia, e tremo di freddo perché lui ha spalancato la finestra e non è affatto una serata calda. Oltretutto per colmo di disgrazia proprio stasera mi son messa una vestaglia di lei, quella di seta avorio con le rose gialle che sembra un chimono, l'ho presa stamattina dal suo armadio e per la verità non avevo intenzione di mettermela: poi me la son provata davanti allo specchio e fa una tale figura, non a caso era una delle sue vestaglie preferite, con quella addosso sembrava una regina, è come la vedessi in cima alle scale con quella cascata di capelli che le arrivavano in vita e la vestaglia che dietro le faceva come un piccolo strascico. Su di me devo dire che non fa per niente lo stesso effetto, però mi sta pur sempre meglio di quello straccio che uso di solito, che non ha neanche più colore da quanto è vecchio, è vero che lui in queste cose bada al sodo, però un qualcosina per la notte me lo poteva anche regalare mi son detta, insomma fatto sta che la vestaglia me la sono tenuta, e adesso vorrei solo scomparire e prego dio che lui non la noti, con l'umore che ha se se ne accorge me la fa mangiare la vestaglia giapponese, altro che storie. Che poi cos'è che gli sarà successo, dico io. Sembra che lo abbia punto un serpente velenoso. È piombato qui dentro nel cuore della notte che io stavo già dormendo da un pezzo, e da quando è arrivato non mi ha ancora rivolto la parola. Solo fumare il sigaro e voltarmi le spalle. Che tra parentesi non è neanche educazione. Io vorrei tanto che chiudesse la finestra ma non ho il coraggio di aprir bocca, e nel frattempo cerco di ricordarmi quello che ho fatto oggi, e se può esserci qualcosa che lo ha messo in questo stato, e un po' di paura mi viene perché in effetti qualcosa è successo, non oggi ma ieri mattina dopo la spesa, però è stata una cosa talmente veloce, e poi come farebbe a saperlo, l'abbiamo fatto in piedi in fretta e furia in un posto dove non può averci visto nessuno, e io sono stata attentissima che non
ci venissero dietro dal mercato, no no non è possibile è escluso che lo sappia, e allora cosa diavolo ha si può sapere, intanto se non chiude la finestra con quest'umido finisce che mi prendo un accidente. Poi tutt'a un tratto lui comincia a parlare sempre voltandomi le spalle, e dice che io e lui siamo colpevoli davanti a dio, lo dice due o tre volte, “colpevoli davanti a Dio”, ripete, e io penso che dev'essere ubriaco, oppure che è diventato completamente matto, del resto prima o poi c'era da aspettarselo. “Ma di che cosa stai parlando?” gli dico, anche se lo so benissimo di cosa sta parlando. “Dico che è peggio che se fosse morta” dice lui. “Mille volte peggio”, dice. “Be', adesso non esageriamo” dico io. “In fin dei conti è ben curata, e un giorno o l'altro...” Lui si volta a guardarmi. “Oggi non mi ha riconosciuto” dice. “Non ha riconosciuto me. Capisci?” Io per un attimo non so che cosa dire, perché questa in effetti non me l'aspettavo, e lui ne approfitta per andare avanti e dire che è come se l'avessimo ammazzata. “Con le nostre mani” dice. “È come se l'avessimo fatto con le nostre mani”. “Secondo me stai delirando” dico io. “Non sarà mica colpa nostra, adesso, se...” “Sono le cure che le fanno, lo capisci?” dice lui, gesticolando con il sigaro che ho paura che mi bruci le tende. “Quei delinquenti... Me la stanno ammazzando, con quelle cure. Non sa nemmeno più chi è...” “Avevi sempre detto che era una buona clinica” dico io. “Dio solo sa quanto mi costa, quella clinica” dice lui, camminando su e giù. “Un occhio della testa, mi costa. E quelli me la stanno ammazzando...” “Lo vedi che non è colpa tua?” dico. “Tu hai fatto tutto quello che potevi...” Lui piomba sulla sedia, e si prende la testa fra le mani. “Siamo noi che ce l'abbiamo mandata” dice. “Siamo noi che ce l'abbiamo mandata, in manicomio...” “Ma non è un manicomio...” dico io, però capisco subito che è la frase sbagliata,
perché lui salta su come se l'avessero morso: “Certo che è un manicomio” dice. “Certo che è un manicomio, e sei stata tu, strega maledetta, a insistere perché chiamassi l'ambulanza...” A questo punto perdo la pazienza, e dico: “Ma se stava dando di matto...”, e immediatamente mi arriva un manrovescio, secco, dato col taglio della mano, e fa male perché l'anello che ha sul mignolo mi spacca il labbro e comincia a uscire sangue. “Non ti permettere mai più di aprire quella bocca schifosa per insultarla” sibila. Si sente che vorrebbe urlare, ma non può, per paura di svegliare i figli. “Tu non la devi neanche nominare. Non sei degna neanche di pronunciarlo, il suo nome. Il nome di una santa come quella...” La voce gli si spezza. Io mi pulisco il sangue con la mano. Purché non mi abbia rotto un dente. “Se stava dando di matto, lo sai bene il perché” continua lui. “ E hai ancora il coraggio di aprir bocca...” Io tiro su col naso. Il sangue cola, e macchia la vestaglia giapponese. Lui si abbatte di nuovo sulla sedia. “Con le nostre mani” ripete. Sembra un disco rotto. “È come se l'avessimo fatto con le nostre mani...” In quel momento, nel silenzio della casa, mi sembra di sentire un rumore, una specie di fruscio, come dei piccoli i soffocati. Gli faccio segno di tacere, lui mi guarda, e all'improvviso, vicinissima, sentiamo la voce dell'Ada che chiama: “Papà?”
Sono in piedi davanti al cancello di casa che è socchiuso e sto cercando di aprirlo con una spinta, ma dev'essersi arrugginito e per riuscire ad entrare devo far forza con tutt'e due le mani. C'è una luce incerta e grigiastra di alba o di crepuscolo, e io procedo per il vialetto e man mano mi accorgo che è completamente invaso dalle erbacce e che tutto il giardino è inselvatichito, non ha più l'aspetto di un parco ben curato ma quello di una boscaglia intricata e
piena di sterpi, le aiuole sono scomparse e così i miei cespugli di rose, e nel complesso tutto l'insieme così com'è adesso è minaccioso e cupo e ha un'aria di rovina. Io mi guardo intorno e mi chiedo com'è che il giardiniere ha permesso che il parco si riducesse in questo stato, e provo anche a chiamarlo, “Teodoro!” chiamo, ma nessuno risponde, e io avanzo verso la casa che per qualche bizzarro effetto ottico mi sembra ancora molto lontana, e adesso noto che il portico è pieno di foglie cadute, un ammasso di foglie che nessuno ha raccolto, al punto che praticamente ostruiscono l'ingresso, e nel frattempo da un angolo del portico vedo i cani dirigersi verso di me: Pippo in testa, arzillo e festoso, e dietro la Lea, il nostro cane lupo, che è vecchia e grigia e si trascina a fatica come negli ultimi tempi prima che morisse. Io li accarezzo e Pippo salta di gioia e la Lea agita debolmente la coda, e poi i cani si girano all'unisono e mi fanno strada verso la casa. Li seguo e camminiamo insieme calpestando il tappeto di foglie rosso fuoco che scricchiolano sotto i nostri piedi, e davanti a me si spalanca la portafinestra di cucina e lì entro preceduta dai cani e all'improvviso vengo sopraffatta da un'enorme stanchezza, e mi lascio cadere sulla poltrona di vimini mentre i cani si accucciano ai miei piedi in silenzio. La cucina è deserta e abbandonata e anche la casa sembra disabitata, non si vede anima viva e non si sente il minimo rumore anche se gli oggetti sono tutti al loro posto, perfino il bricco del latte già pronto sul fornello e sul tavolo il pane affettato nel cestino. Penso che fare un viaggio così lungo per ritornare fin qui è stato inutile oltre che faticoso e tanto vale che io me ne vada, ma sono troppo esausta e non trovo la forza di alzarmi, e in quel momento sulla soglia appare mio marito. È vestito di tutto punto come quando va al circolo con la giacca e il foulard e il bastone da eggio, e io mi alzo per andargli incontro ma sembra proprio che lui non mi veda perché sento il suo sguardo armi attraverso, allora dico: “Toni?”, ma lui non dà segno di avermi sentita, ripeto “Toni” a voce più alta e faccio un gesto come per toccarlo, ma mi fermo a metà perché è palese che lui continua a non vedermi. Fa un fischio ai cani che si alzano e gli corrono incontro, si china ad allacciargli il guinzaglio, ed esce in fretta portandoseli dietro, come faceva sempre la mattina. Allora penso che devo cercare i miei figli e lascio la cucina di corsa e mi fermo irresoluta ai piedi delle scale perché non ho il coraggio di andare di sopra, e li chiamo a gran voce ma nessuno risponde, li chiamo uno per uno, e aspetto ai piedi delle scale e nessuno risponde e intanto il vento si alza e spinge nell'ingresso un po' di foglie attraverso la porta che è rimasta aperta. Chiamo ancora e nessuno risponde e il vento aumenta d'intensità e le foglie entrano a mulinelli, e allora capisco che il mio tempo è scaduto e non sono riuscita a spezzare l'incantesimo e dunque adesso dovrò affrettarmi a tornare, il vento si è alzato e io ho fallito e il tempo è ato e in questa luce grigiastra che
non è alba né crepuscolo, sospinta dal vento attraverso i viali coperti di erbacce, dovrò affrettarmi a tornare da dove sono venuta.
1 agosto 1959
Il giorno successivo alla notte in cui papà si è ficcato una pallottola in testa è un sabato di sole radioso. Non c'è un filo di vento. Il caldo è insopportabile. Per strada i anti sono rari, molta gente è già andata in vacanza. Nonostante la calura, nella cucina in penombra della nonna gli oggetti brillano quietamente in una luce da interno olandese, le casseruole sui fornelli, il vassoio d'argento con le tazzine semivuote, i bicchieri di cristallo sulla credenza. È quasi mezzogiorno. L'Angela è seduta al tavolo al centro della stanza; sta strofinando una grande pentola di rame che abitualmente è appesa alla cappa del camino. Addosso ha un grembiule nero lungo fino ai piedi, e sopra una traversina di pizzo legata strettamente in vita. L'Angela è molto vecchia, praticamente decrepita, anche se sarebbe arduo darle un'età precisa. Strofina la pentola con grandissima cura. Ogni tanto si ferma come per ascoltare, ma in cucina non arrivano rumori, gli unici suoni sono l'occasionale tubare dei piccioni sul davanzale di fronte e il borbottio delle pentole sul fuoco, perché cascasse il mondo all'una si va in tavola. Mentre strofina, l'Angela mormora fra sè degli spezzoni di frasi, snocciolandoli come grani di rosario, un'indistinta giaculatoria in cui ricorre il termine “poareti”, e “maria santa”, a cui si aggiunge a tratti “la povera putea”. Perché proprio questa mattina abbia deciso di lucidare i rami, senza che nessuno si sia sognato di chiederglielo, non lo saprebbe dire neanche lei. Strofina con movimenti automatici ma esatti, sempre uguali, come in cadenza. Non sta veramente pensando. O piuttosto, sta pensando da ore un unico pensiero circolare. La cucina, cosa non infrequente nella struttura irrazionale delle case antiche, si trova in fondo alla casa, alla fine di un corridoio semibuio che dall'altro lato affaccia sulla terrazza coperta. Oltre la cucina c'è solo la stanza dell'Angela, dove nessuno a parte lei mette mai piede, e poi una stanzetta oscura adibita a un uso imprecisato, in cui si accatastano vestiti vecchi, collane veneziane di corallo che per qualche motivo non vengono indossate, cappelli fuori uso. In queste viscere estreme della casa regna il silenzio, e una semioscurità quasi claustrale. Nessun visitatore maschio si avventura fino a questi recessi. Solo l'Angela e qualche sguattera avventizia, da lei trattata con disdegno. Qualche volta la sarta, quand'è chiamata per fare dei restauri. Raramente la nonna, il cui regno è piuttosto la zona dei salotti.
Dalle remote lontananze dell'ingresso arriva il suono del camlo, ma l'Angela non lo sente, negli ultimi anni il suo udito è peggiorato parecchio. Continua a strofinare. La scamlata si ripete, più violenta. Stavolta l'Angela la sente, e faticosamente comincia ad alzarsi. Posa la pentola sul piano di marmo del tavolo, si appoggia allo schienale della sedia con la mano nocchiuta dalle vene in rilevo, e zoppicando e strascicando i piedi lentamente si avvia attraverso il corridoio, ando per le porte a vetri colorati del tinello, oltre il salotto dai pavimenti di marmo bianco e nero, fino allo scuro, trionfale e gigantesco salone d'ingresso. Nel corso del suo lento tragitto il camlo squilla di nuovo. Lei borbotta fra sè: “quanta furia! so drio rivar”, e finalmente, con flemma esasperante, continuando a borbottare a intervalli, arriva al portone e lo apre. Si sente fuori campo una voce di donna, con un'intonazione interrogativa. L'Angela risponde “I xe tuti al piano de sora”. L'invisibile interlocutrice pronuncia qualche altra parola, l'Angela dice “sì, siora”, poi richiude la porta, e si appresta sospirando a rifare in senso inverso la sua traversata. In quell'istante, le campane del duomo cominciano a suonare mezzogiorno.
“La prima cosa da fare in un momento come questo” dice la nonna “la prima cosa da fare, Luisa, in un momento come questo...” ma non riesce a finire la frase. In effetti, di quale sia la prima cosa da fare in un momento come quello la nonna non ha la benché minima idea. Perlappunto il verificarsi di un momento come quello, nella sua vita finora abbastanza ordinata e priva di sorprese, costituisce un evento inconcepibile, che semplicemente non dovrebbe rientrare nell'orizzonte delle possibilità. Nel dire quella frase, ha soltanto obbedito al suo istinto radicato di madre e di padrona di casa, che le impone di mettere ordine in qualunque angolo minacciato dal caos. Questa mattina però ha la sgradevole impressione che le oscure acque del caos abbiano circondato la sua vita da tutti i lati, svelandone all'improvviso il fragile perimetro. Quello che lei credeva un territorio esteso e ben protetto si è rivelato un'isoletta minuscola, poco più di uno scoglio assediato dai flutti. La mamma non dice nulla. È seduta sul divano, nel salotto di quella che fino a stamattina era la sua casa coniugale. Qui la luce del sole estivo penetra senza pietà, siamo al piano superiore, e a nessuno è venuto in mente di chiudere le persiane. La mamma è ancora in vestaglia, una vestaglietta di cotone a fiori, che adesso è macchiata di caffé perché quando ha trovato papà aveva in mano il vassoio della colazione. Siede su quel divano da parecchio tempo. Ha gli occhi
aperti, ma sono aperti su una scena che non ha niente a che vedere con quello che ha di fronte. “Hai preso i tranquillanti che ti ha dato il dottor Valli?” chiede la nonna. “Sì” dice la mamma. Per un attimo sembra che si riscuota. “Dov'è la bambina?” dice. Io sono nella mia stanza, occupata a giocare con un cane nero di peluche che all'aspetto lungo e schiacciato si direbbe un bassotto. Ho due anni e mezzo. Non è un'età in cui si possa essere di grande aiuto, in un momento come quello. In camera con me – no, non mi hanno lasciata sola – c'è la sca, seduta sul letto, che si fuma una sigaretta in santa pace. La sca è la babysitter, anche se questo termine ancora non si usa. Ha lunghi capelli lisci color miele – tinti, si distingue chiaramente la ricrescita scura alla base – che le piovono sul viso lasciandole scoperta la bocca imbronciata. La sca è di pessimo umore. Fuori è una giornata stupenda, e lei aveva in programma di andare a Sottomarina con un suo fidanzato. La sca ha parecchi fidanzati. Viene da una famiglia contadina poverissima, ultima di molti fratelli. Sua madre è molto anziana. Lei non vuole fare la stessa vita di sua madre, per questo è venuta in città. Tra un paio d'anni, infatti, avrà una figlia da un aviatore americano di stanza a Vicenza, che la abbandonerà senza pensarci un secondo. Tutto questo al momento non possiamo saperlo, né io né lei. Io mi limito a giocare col cane di peluche, e lei ad essere di pessimo umore. Non che sia del tutto insensibile. Quel che è accaduto le provoca un misto di eccitazione e di spavento, e un po' le dispiace per mia madre, che ha solo pochi anni più di lei ed è già vedova. Non riesce proprio a figurarselo, cosa si provi ad esser vedova. Scrolla la cenere fuori dalla finestra, e si scosta dagli occhi l'onda dei capelli. Certo fa caldo. Speriamo che non le tocchi restar qui fino a stasera. Le campane hanno cominciato a suonare, dev'essere già mezzogiorno. Il nonno fa una timida comparsa in salotto. “Clara?” dice. “Sì?” dice la nonna, senza distogliere lo sguardo da sua figlia. “Io quasi quasi andrei di sotto” dice il nonno “se non avete bisogno di me”.
“Sì, caro” dice la nonna “tu vai, che tra poco scendiamo anche noi”. Il nonno sollevato si avvia verso l'uscita. In quel momento suonano alla porta. “Lascia stare, sca” dice la nonna ad alta voce “apro io”, e si dirige velocemente all'ingresso, sorando il nonno che sosta irresoluto non sapendo se può svignarsela o meno. La nonna apre la porta, e la signora Tancredi si precipita fra le sue braccia come un bolide, stringendola furiosamente al petto. “Povera Clara” dice, scoppiando in singhiozzi. “Cara Elda” dice la nonna, che finora era riuscita a non piangere, e tutt'a un tratto le si spezza la voce.
Madonna mia, pensa la signora Tancredi, correndo, per quel che la sua mole le consente, o meglio arrancando nella gran calura, madonna mia. Il sudore le scorre a rivoli giù per la faccia imbellettata, e lei ogni tanto si ferma per tamponarsi la fronte con un fazzoletto, che poi adopera per sventolarsi, del tutto vanamente. Il vasto petto della signora Tancredi si alza e si abbassa nell'affanno. Che disgrazia, pensa la signora Tancredi. Non si era mai sentita una disgrazia così. Non sono cose che succedono, queste, alle persone perbene. Per un attimo cerca di immaginarsi al posto della povera Clara – ormai definitivamente la povera Clara, per tutti gli anni a venire: se il marito della sua Paola, ad esempio... No, non si riesce nemmeno a pensarlo. Il marito della Paola, una cosa così non la farebbe mai. Certo, lui non è mica un intellettuale. Non è nemmeno laureato, se è per questo. Ma il marito della Paola non ne ha bisogno, della laurea, ha la fabbrica di biscotti del padre, lui. Che è molto meglio della laurea. Adesso, con questa smania di mandare le figlie all'università, guarda un po' qua che bei risultati. Le figlie della signora Tancredi non ci son mica andate, all'università. Già tanto che han finito la scuola. Invece la Luisa a scuola andava bene, la Clara ne era tanto orgogliosa, e tàcchete l'hanno mandata all'università, e adesso guarda un po' che razza di risultati. Alla fine era meglio se era asina. Così si trovava un marito come quello della Paola, uno che viene da una famiglia che si conosce, gente come si deve, solida, senza grilli per la testa, e che non riserva
delle brutte sorprese. Non che questa sia proprio una sorpresa. Gliel'avevano detto tutti, alla Clara. E lei ci aveva provato, a far ragionare la Luisa. Ma la Luisa figurarsi, diceva che erano tutte sciocchezze. Pregiudizi. Roba da ignoranti. La Luisa è una che vuol far di testa sua. Non c'era verso che ascoltasse nessuno. Anzi, più cercavano di convincerla, più lei s'intestardiva. E adesso guarda che razza... Arrivata finalmente in vista del duomo, la signora Tancredi si ferma ansimando sotto i portici. Manca poco, per fortuna. Che afa. Si deterge ampiamente il viso e la scollatura, emettendo un: “ah, povera me”, mentre alle sue spalle, dall'oreficeria all'angolo, esce grasso e scarmigliato il padrone. “Gala savesto?” proferisce con cautela. “Ho saputo” risponde solenne la signora Tancredi, ostentando l'uso dell'italiano, che in una simile circostanza le pare più indicato, e comunque non le va di dar confidenza all'orefice, un mezzo artista, un fanfarone, anche lui un intellettuale, con tutta probabilità. “Sto andando là proprio adesso”. “Gera un mio amigo” proclama l'orefice, in segno di preventiva polemica contro chiunque si sognasse di fare dei commenti malevoli. “Poareto” aggiunge, e gli scende una lacrima. “Un omo bon, se ghe ne gera uno”. “Ah, per buono era buono, poveretto” dice la signora Tancredi, e si fa il segno della croce. “Adesso devo andare” aggiunge, e prosegue maestosa la sua traversata, un po' rinfrancata dalla sosta, seminando una scia di forcine che le spuntano dalla crocchia biondo platino, da cui fuoriescono ciocche disordinate dandole un aspetto leggermente equivoco, del tutto in contrasto con i suoi rispettabilissimi costumi. Svolta a sinistra, ando davanti all'osteria del Capo, in quel momento abitata da tre vecchi che bevono tranquilli un'ombra al banco. In fondo alla strada, all'angolo, c'è il portone della Clara. Mentre percorre l'ultimo tratto, sotto un sole implacabile, le campane cominciano a suonare mezzogiorno.
La sera precedente, come ho saputo solo molti anni più tardi, il giovane e brillante assistente di filosofia stava uscendo di corsa dalla biblioteca dell'istituto. Brandiva un mucchio di fogli disordinati che contenevano gli appunti per un articolo, e si era reso conto all'improvviso di essere molto in ritardo per la cena. Mentre percorreva il grande corridoio della facoltà, a quell'ora deserto e pieno di echi, si era imbattuto in papà che usciva dalla sua
stanza proprio in quel momento. Il giovane assistente lo aveva salutato con calore, c'era stato un abbraccio, poi si erano fermati a chiacchierare, lì, in piedi, nel corridoio male illuminato. Il giovane assistente era affezionato a papà, perché era stato lui a seguire la sua tesi, e più tardi a chiamarlo in istituto, consentendogli di iniziare la carriera accademica. A quanto ricordava, era stata una chiacchierata assolutamente normale; si era parlato dell'articolo in questione, che il giovane assistente avrebbe pubblicato su una rivista, e di altre faccende relative alla facoltà. Niente di personale era stato detto. A un certo punto, il giovane assistente aveva domandato a papà se il giorno dopo si sarebbero visti al matrimonio di una comune amica. Papà aveva esitato, e poi aveva risposto “Non credo che sarà possibile”. C'era stata una pausa, in cui si era creata una strana sospensione. Il giovane assistente aveva provato un senso d'imbarazzo. Poi papà aveva continuato: “Domani mattina partiamo per il mare”. “Ah, partite” aveva detto il giovane assistente, e si era sentito in qualche modo sollevato, anche se non sapeva bene perché. C'era stato di nuovo un attimo di esitazione, come se papà volesse aggiungere qualcosa. Alla fine non aveva detto altro, e si era limitato a stringergli la mano. Lì per lì, il giovane assistente si era un po' sorpreso per quel saluto insolitamente formale, ma non ci aveva fatto caso più di tanto. Gli pareva che papà avesse detto “buone vacanze”, o una frase del genere, dopo tanti anni non gli riusciva di ricordare la frase esatta. “Altrettanto” aveva risposto gaiamente, e se n'era andato con i suoi fogli. Non si era più voltato, ma riteneva che papà si fosse fermato ancora un attimo per chiudere la porta a chiave. A posteriori, il giovane assistente, com'è ovvio, avrebbe interpretato quel saluto come un congedo. Si sarebbe anche sentito oscuramente colpevole, anche se non riusciva a stabilire di preciso in cosa consistesse la sua colpa – forse nel non aver capito. Ma capito che cosa, esattamente? E inoltre, come avrebbe potuto intervenire? Non avevano capito neanche amici più intimi. Per non parlare della moglie. Perché avrebbe dovuto farlo lui? Ciononostante, il fatto di essere stato probabilmente l'ultimo a vederlo, ad esclusione della moglie e della figlia, lo faceva sentire depositario di qualcosa, come un'estrema possibilità. Ad esempio, se quella sera non avesse avuto tanta fretta... Se avesse dato retta a quel vago senso di disagio, e senza perder tempo a chiedersi perché si fosse voltato e fosse ritornato indietro... ma con che scusa? Il disagio non era stato così esplicito,
semplicemente durante la conversazione era ata fra di loro come un'ombra, il tempo di una pausa, una manciata di secondi, un'esitazione appena percettibile... Troppo poco, senz'altro, per giustificare un intervento, anche in una situazione di intimità molto maggiore. In ogni caso, il giovane assistente, quando il giorno dopo aveva ricevuto la notizia – stava appunto tornando da quel matrimonio, e oltretutto era il suo compleanno, cosa di cui papà incontrandolo non si era ricordato – era rimasto completamente sconvolto. In qualche modo non riusciva a perdonarsi, per quanto si rendesse conto dell'irrazionalità della cosa. Era partito, solo, per una località balneare dei dintorni, dove per la prima volta in vita sua era andato con una prostituta. In una furia di autodegradazione, si era chiuso in albergo con lei per cinque giorni, senza dare notizie di sè né alla sua fidanzata né agli amici. Ricordava quest'episodio con orrore, come una specie di temporaneo oscuramento mentale. A distanza di anni, ancora non riusciva a spiegarsi l'entità della sua reazione. Un paio di settimane prima, verso la metà di luglio, i coniugi Pagnan stanno finendo di far colazione nella veranda dell'albergo “Smeraldo”. Davanti a loro si stende il panorama delle Dolomiti inondato dal sole, di quella spettacolarità convenzionale tipica dei paesaggi di montagna, in particolare di quelli dolomitici, che li fa assomigliare a dei fondali di teatro. Sono all'incirca le nove del mattino. Su una chaise longue davanti alla vetrata aperta sta sdraiato papà con un libro davanti, ma dal modo svogliato in cui lo tiene in mano non si direbbe che lo stia leggendo. Porta gli occhiali da sole, per cui non si capisce se abbia gli occhi aperti. Accanto a lui, per terra, c'è un posacenere con due o tre cicche spente, che sono state fumate solo per metà. Il signor Pagnan, masticando una fetta di pane e burro, chiede con la bocca piena: “La Luisa sta ancora dormendo?” Papà si riscuote dal suo supposto dormiveglia, e risponde che crede di sì. Il signor Pagnan, che è un robusto mangiatore, si imburra un'altra fetta e la cosparge di marmellata. “Giornata ideale per una eggiata” afferma, sempre con la bocca piena. “Bella tersa, e c'è anche un po' di brezza”.
La signora Pagnan lo guarda. È uno sguardo estremamente espressivo, ma lui per fortuna non lo nota. È troppo impegnato a nutrirsi. La signora Pagnan si versa una minuscola tazza di caffé. S'infila anche lei degli occhiali da sole. Guarda lontano, in direzione delle vette. Papà si mette a leggere, ma sembra che lo faccia più che altro per scoraggiare ulteriori tentativi di conversazione. Il signor Pagnan finisce la sua fetta di pane, la manda giù con due belle tazze di caffé, scosta la sedia e si alza con un sospiro di soddisfazione. “Che panorama” esclama pleonasticamente, indicando davanti a sè con ampio gesto. Lo dice tutte le mattine. Gli altri non parlano, ma lui non è certo il tipo da rinunciare a una conferma esplicita, per cui aggiunge, rivolto soprattutto alla moglie: “Eh?” “Sì, Giancarlo” dice la signora Pagnan, evitando accuratamente di dare alla sua voce la benché minima inflessione ironica. “È un panorama magnifico”. “Una buonissima scelta, questo albergo” dice il signor Pagnan con giusto orgoglio. L'albergo l'ha scelto lui. “Anche la colazione è di prim'ordine, non è vero cara?” “Sì, Giancarlo” dice la signora Pagnan, che ha bevuto soltanto il caffé. “Bene” dice il signor Pagnan, a cui non piace perdere le ore del mattino, e che considera qualunque attività sedentaria o di tipo contemplativo l'indizio di uno stato morboso. “Io vado a eggiare. Chi viene con me?” “Stamattina no, caro” dice la signora Pagnan. “Mi sento un po' stanca, stamattina”. “Io aspetto che scenda la Luisa” dice papà. “Certo che dorme parecchio, la Luisa” dice il signor Pagnan. Papà sbadiglia. “Starà vestendo la bambina” dice. “D'accordo. Allora io vado” dice il signor Pagnan tagliando corto, e si china a
baciare la moglie. “Ci vediamo a pranzo “ aggiunge, incamminandosi con o sportivo in direzione dell'incantevole panorama. Dopo la sua uscita di scena cala il silenzio. Papà rinuncia a fingere di leggere, e lascia cadere stancamente il libro. La signora Pagnan si accende una sigaretta. Fuma per qualche tempo senza parlare, rispettando la volontà inespressa di papà. Poi si alza in piedi. È una bella donna del tipo bruno e scultoreo, il tipo di donna con cui papà, prima del matrimonio, intratteneva relazioni spensierate di durata variabile, generalmente clandestine. La signora Pagnan fa parte del catalogo. La sua relazione con papà, iniziata poco dopo il matrimonio di lei e durata a intermittenza per parecchio tempo, è finita da anni senza traumi. Nessuno dei due ha ritenuto necessario informarne il rispettivo coniuge, lei per ragioni evidenti, papà perché aborre le confessioni inutili, e tutto si era già concluso molto prima della comparsa della mamma. Cercando di non far rumore, la signora Pagnan si va a sdraiare sulla chaise longue accanto a quella di papà. Lo conosce abbastanza per sapere quando desidera esser lasciato in pace, ma le loro occasioni per parlare in privato sono rare, e lei è decisissima a parlargli. Sono parecchi giorni che lo osserva, e c'è qualcosa che assolutamente non le torna. Di che cosa si tratti di preciso non è riuscita a capirlo, e questo rende molto più difficile affrontare l'argomento. Si volta a guardarlo. È sdraiato in atteggiamento di abbandono, con le braccia distese lungo i fianchi. Gli occhiali sono molto scuri, e gli nascondono metà del viso. All'arrivo sembrava molto affaticato, ora invece è abbronzato dal sole di montagna, l'aspetto nel complesso è decisamente più sano. Forse le sue preoccupazioni sono infondate, pensa la signora Pagnan. Nell'insieme, l'unica cosa che la sua postura lascia trapelare è una sensazione di estrema stanchezza, quasi di sfinimento. “Come ti senti?” attacca con cautela. “Stanco” risponde papà senza voltarsi. Guarda davanti a sè, o almeno così pare – la valle, le montagne illuminate dal sole. “Non hai dormito bene?” dice la signora Pagnan. “Non tanto” dice papà.
La signora Pagnan lo osserva. Ha di nuovo quell'espressione assente, per lui inusuale, che gli ha visto più volte in questi giorni. All'inizio non ci ha dato peso. Ha pensato che fosse un fatto transitorio, sovraffaticamento, malumore. Poi, quando la cosa si è ripetuta, ha cominciato a chiedersi quale fosse il problema, perché era chiaro che di un problema si trattava. Troppo forte il contrasto con la sua abituale vitalità, con la normale intensità della sua attenzione. Naturalmente, la prima cosa che si è chiesta è se qualcosa non funzioni nel suo rapporto con la mamma, argomento sul quale lui si guarda bene dal fornirle ragguagli. La signora Pagnan ha sempre pensato, anche se non si è mai sognata di dirlo, che la differenza di età fra i due fosse eccessiva: non tanto in assoluto, dodici anni non sono poi troppi – a quel tempo i parametri patriarcali non sono ancora entrati in crisi – quanto per un uomo come papà, abituato a donne ben più esperte. Lei stessa è praticamente sua coetanea. Potrebbe darsi, si è detta, che una volta esaurito l'incantamento degli inizi l'inesperienza della giovane moglie abbia finito con l'annoiarlo. Inoltre, per la prima volta, la signora Pagnan ha avuto occasione di osservare la mamma da vicino, e ha notato in lei una certa perentorietà, un certo modo di essere esortativa, diciamo pure assillante, che, in un primo momento mascherato dalla giovane età e dall'aspetto fragile e grazioso, alla lunga potrebbe risultare insopportabile, soprattutto per un uomo tendenzialmente indipendente. Però non le è sembrato che papà ne sia stanco: alle ripetute esortazioni della moglie reagisce con un sorriso teneramente ironico e paziente, schivandone gli assalti, ma in sostanza assecondandola, ed evitando scrupolosamente di entrare in conflitto. Quindi, probabilmente, ne è ancora innamorato, ne ha dedotto la signora Pagnan. Può darsi che non duri in eterno, certamente, ma per ora è così. Scartata a malincuore questa soluzione, che aveva il duplice vantaggio di essere verosimile e non del tutto sgradita all'osservatrice, si aprono scenari molto più sfumati e complessi, in cui la signora Pagnan non osa avventurarsi. Le manca totalmente la chiave d'accesso. Si rende conto adesso che papà, uomo all'apparenza socievole e facile all'amicizia, sempre felice di uscire e di incontrare gente, sempre il primo ad organizzare cene e gite – stavolta no, stavolta è stato stranamente ivo e fin dall'inizio tacitamente riluttante – è in realtà un essere estremamente elusivo, lo è sempre stato, anche nei rapporti più stretti. Lei può ben dire, ragiona la signora Pagnan, di aver avuto con lui una relazione intima: eppure, cosa sa veramente? che cosa ha mai saputo, anche in ato, dei suoi stati d'animo? ripensandoci ora, le sembra che ogni volta che il discorso tendeva a prendere una piega più profonda, lui sorridendo scivolasse
via: agilmente, con leggerezza, con una specie di balzo di lato, prendendosi gioco dolcemente dei suoi tentativi di indagare, di andare a fondo, in fin dei conti di conoscerlo, cioè in definitiva di afferrarlo e definirlo. Questa sua leggerezza, questo scarto di lato, che pure ai tempi dell'amore l'hanno fatta soffrire, le sono sempre apparsi come la fonte sotterranea del suo fascino, e nella vita in genere la sua arma principale. Ecco, pensa all'improvviso, forse si tratta proprio di questo: è la sua leggerezza che gli è venuta a mancare. Non è più in grado di spiccare il salto. Qualcosa, un qualche peso misterioso, lo schiaccia a terra e gli impedisce di rialzarsi: quell'andatura lieve e quasi danzante che lo ha sempre caratterizzato, quel o, quella capacità di schivare i colpi tipica dello schermidore o del ballerino, tutto ad un tratto lo hanno abbandonato. Lo hanno lasciato lì, inerte. Senza difese, si direbbe, se non quel suo prolungato mutismo, quel ritrarsi, quei momenti di assenza. La signora Pagnan esita. Detesta essere invadente. Per di più, sa quanto papà apprezzi la sua discrezione. Eppure, qualcosa la costringe a continuare. “Hai delle preoccupazioni?” chiede. C'è un breve silenzio. “Chi non ne ha” dice papà, sempre senza voltarsi. “Il lavoro?” insiste la signora Pagnan. “Certo, anche il lavoro” sospira papà. Le risponde come scaccerebbe una mosca, automaticamente. Lei non demorde. “Perché non me ne parli?” chiede. C'è una pausa. “Ti vedo così assente, in questi giorni” aggiunge, pentendosene subito, temendo di essere andata troppo oltre. Papà si volta a guardarla. Negli occhi ha un guizzo del suo vecchio sorriso ironico, e per un attimo è di nuovo lui. La signora Pagnan respira di sollievo, come se le avessero tolto un macigno dal cuore. “Che sciocca sono” pensa con gratitudine. “Mi sono immaginata tutto”. “Hai perfettamente ragione, Loredana” dice papà. “Non ti ho nemmeno fatto i complimenti per il tuo nuovo completo da montagna. Non ho scuse. Ti sta
meravigliosamente, comunque. Il bianco ti ha sempre donato.” Si china a farle un baciamano con galanteria esagerata. Si sorridono, complici. “Su” dice papà “alzati e fai un giro, fammi vedere come ti sta”. La signora Pagnan si alza. Fa qualche o – slanciata, elegante, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle – e poi un giro su se stessa, con grazia, come un'indossatrice. Inchinandosi lo guarda allusiva. È un loro vecchio numero, questo. Papà applaude. “Bellissima” dice. Lei torna a sedersi. Allora è tutto come prima, pensa confusamente. Lui è sempre lo stesso. Si era semplicemente sbagliata. Eppure, perché si sente a disagio? C'è stato qualcosa di innaturale, in quella scena. Qualcosa di forzato. È una sensazione che non riesce a spiegarsi. È sempre la loro vecchia scena, in fondo. Papà la prende in giro per la sua vanità, lei lo asseconda esibendosi, applausi ironici di lui. Ai tempi della loro relazione, dopo questa scenetta spesso finivano a letto. Ma adesso non è la stessa cosa. L'ha usata come diversivo. È come se stesse recitando, pensa la signora Pagnan. Sì, è proprio così, sta recitando la parte di se stesso, e questo è atroce, è molto peggio di quando stava zitto, e sono stata io, pensa la signora Pagnan con angoscia, sono stata io, con la mia maledetta insistenza, a costringerlo ad arrivare a questo. La porta della sala delle colazioni si apre, e finalmente entra la mamma, trafelata, tenendomi per mano. È spettinata come al solito, pensa la signora Pagnan con un certo fastidio, ma non si può negare che sia molto graziosa. Così minuta, bionda, luminosa – praticamente il mio opposto, pensa la signora Pagnan, non per la prima volta. “Scusate il ritardo” dice, “ma la bambina ha dormito fino adesso”. Papà, nota la signora Pagnan, ha cambiato completamente espressione. Si alza sollecito per venirci incontro, la sua stanchezza sembra scomparsa all'improvviso. Si china a prendermi in braccio, dicendo le sciocchezze che si dicono ai bambini. La mamma gli sorride radiosa, l'immagine della felicità.
“Lei non ha visto niente” pensa la signora Pagnan. O forse sì? Forse sta recitando anche lei la parte della mogliettina felice? Forse, dietro a quel suo sorriso c'è uno sforzo mostruoso, lo sforzo disperato di non far trapelare nulla... No, è impossibile, decide la signora Pagnan continuando a guardarla. Nessuno potrebbe fingere così. Lei è davvero felice: una ragazza giovane e carina, che ha sposato l'uomo che ama, e sta giocando a fare la mamma – il tutto in un incantevole scenario, e con addosso una graziosa camicetta azzurra, nuova, che richiama il colore dei suoi occhi... Niente potrebbe essere più perfetto. La bambina – io – è vestita di rosa, e sta dicendo qualcosa su un orso. Forse sono pazza, pensa la signora Pagnan. Sì, devo essere pazza. Oppure sono obnubilata dalla gelosia: banalmente, non riesco a rassegnarmi all'idea che il loro matrimonio funzioni, e immagino chissà quali malesseri, chissà quali pensieri dolorosi, quando invece c'è solo una serena quotidianità... È così, senza dubbio. Quanto a quei suoi momenti strani, la spiegazione è senz'altro nel lavoro: sta scrivendo il libro per il concorso di docenza, è sotto pressione, c'è poco tempo, anche ieri l'hanno chiamato dall'università – quel suo vecchio professore, così incalzante, che non lo molla un secondo... La signora Pagnan si versa un'altra tazza di caffè, sforzandosi di cambiare il corso dei suoi pensieri. Mi osserva mentre mi arrampico sulle ginocchia di papà, sgualcendogli completamente i pantaloni. Mi osserva mentre finisco di raccontargli la faccenda dell'orso, che alla signora Pagnan resta abbastanza oscura. Io non ho ancora un eloquio molto fluido. La signora Pagnan non capisce se l'orso l'ho sognato, oppure se mi è apparso alla finestra dell'albergo. Mi osserva mentre mi aggrappo alla spalla di papà nel tentativo di rimettermi in piedi; ci osserva mentre ci guardiamo, entrambi di profilo. Nota che abbiamo un'espressione quasi identica, che in questo momento è molto seria, perché la storia dell'orso esige una certa dose di concentrazione. Somiglia esclusivamente a suo padre, pensa la signora Pagnan. Si direbbe che dalla madre non abbia preso nulla. Lo sguardo, il colore degli occhi, i capelli, perfino il modo di tenere la testa – tutto viene dal padre. La madre è stata cancellata, pensa la signora Pagnan. Questo pensiero le procura una tortuosa forma di consolazione. In quel momento, dall'altro lato della veranda, entra rumorosamente una famiglia con vari bambini. Io abbandono all'istante le ginocchia di papà, e parto in esplorazione alla ricerca di nuove amicizie. La mamma m'insegue, cercando vanamente di trattenermi. Papà approfitta della distrazione generale per battere in ritirata verso la sua
sdraio. Dal suo angolo la signora Pagnan, unica testimone, assiste non vista a quella traversata. Il viso di papà, che in quel momento si crede inosservato, allentate ad un tratto le difese, abbandona il controllo sulla propria espressione: la signora Pagnan, presa da un senso di orrore e di vergogna, come se lo avesse sorpreso involontariamente a compiere un'azione inconfessabile, di colpo e senza il minimo preavviso vede tutto. Vede la fatica terribile della dissimulazione che giorno dopo giorno lui s'impone, vede lo sforzo spaventoso per mantenersi all'altezza. Vede, con chiarezza assoluta, la vanità della lotta. Per un attimo di mutuo sgomento, i loro sguardi s'incrociano. Nessun dubbio è possibile. Papà si rende conto subito che lei ha visto: irrimediabilmente, al di là di ogni smentita. Non cerca più nemmeno di nascondersi. Sostiene il suo sguardo per un interminabile istante, completamente allo scoperto, nella totale nudità della sua angoscia. La signora Pagnan prova un dolore intollerabile. Finalmente lui distoglie il viso, voltandosi verso le montagne. Dopo qualche minuto, ato in convenevoli con gli altri genitori, la mamma torna dalla sua spedizione trascinandomi per un braccio, mentre recalcitrante continuo a girarmi in direzione dei nuovi bambini. Papà è ancora voltato verso la vetrata. La mamma gli sopraggiunge alle spalle. “Perché, invece di pranzare qui in albergo” dice festosa, avvicinandosi “non ci facciamo preparare dei cestini, così possiamo salire fino in cima?” Papà lentamente si gira. Ha avuto il tempo di ricomporsi, pensa sollevata la signora Pagnan. Ora la sua è un'espressione affabile, improntata a un'allegra disponibilità – è l'espressione di un uomo in vacanza, senza un pensiero al mondo, il cui unico scopo è divertirsi. Sulle labbra ha il sorriso tenero con cui sempre si rivolge alla moglie. “Mi sembra un'idea meravigliosa” dice.
È un pomeriggio di fine aprile, o forse è l'inizio di maggio – quando gliel'ho chiesto, Raul non era più sicuro delle date. Si ricordava solo che era primavera, e stava camminando pigramente nel sole pomeridiano, guardandosi intorno senza fretta – le vetrine, le ragazze, la città – sostanzialmente oziando, soffermandosi a tratti, senza pensare a nulla. Era tornato da poco da un soggiorno all'estero, e tutto gli sembrava diverso da come se lo ricordava – così piccolo, polveroso,
provinciale – molto più brutto, in verità, ma nonostante questo infinitamente promettente, in quel giorno di primo caldo che stordiva, con la testa leggera e i pensieri che si smarrivano dolcemente, rincorrendo avventure – ad esempio, seguire questa bionda dalla lunga treccia che ha visto solo da dietro, e a cui attribuisce nella fantasia un viso tondo e pieno di fossette e occhi color fiordaliso, un viso da montanara d'altri tempi, degno di essere incorniciato da una bianca cuffia – salvo poi esserne disingannato amaramente quando, dopo averla tallonata per l'intero corso, la vede finalmente voltarsi di profilo, rivelando un naso a becco d'uccello e delle guance smunte. Ma non importa, è pronto a riprendere il vagabondaggio, inseguendo altre tracce come un cane che rincorre un odore, intermittente ma riconoscibile, continuamente sfuggente – che s'incarna stavolta in una nuca bruna piegata sotto il peso di una crocchia scura e lucente come una corona, sopra una figuretta sottile quasi da adolescente: questa non avrà le fossette, ma alti zigomi e una bocca morbida e imperiosa, come una regina gitana. Purtroppo la gitana cammina veloce, fende la folla del eggio con i suoi fianchi giovanili, ha fretta – o forse questa è la sua andatura normale, un'andatura da puledra, in tono con il paesaggio che evoca: in ogni caso la perde, e dalla prateria in cui la stava inseguendo si ritrova di colpo all'angolo del caffé Pedrocchi, incerto sul da farsi. Non sono ancora le cinque. Cosa si fa, alle cinque di un pomeriggio primaverile, in una città come questa? Cosa faceva lui, quando stava qui? Il suo periodo all'estero, pure non così lungo, lo è stato abbastanza da farlo sentire straniero. Pensa agli amici che non vede da tanto, e con cui non ha ancora ripreso i contatti. Si chiede cosa lo abbia trattenuto, in questi primi tempi dopo il suo ritorno, dal farsi vivo subito con tutti: forse pigrizia, o una strana timidezza, come se gli riuscisse difficile o penoso rispuntare così all'improvviso, dopo più di tre anni, nella loro vita che suppone sempre uguale, con il suo carico di cose da raccontare e domande a cui rispondere, aspettative da soddisfare, ruolo da interpretare – è lui quello che torna, a lui l'onere del racconto; sta a lui fornire romanzo, novità e meraviglie, a quelli che sono rimasti, e presumibilmente ne sono privi. Non che il racconto gli pesi, né tantomeno che il suo soggiorno all'estero sia stato un fallimento, tutt'altro. Solo, per qualche tempo – il tempo di una breve sosta ariosa in una stazione intermedia – ha avuto bisogno di starsene nascosto, di vivere come in incognito, senza legami, senza una storia riconoscibile, sospeso, quasi fosse ancora in viaggio, fra due vite diverse, fra due luoghi – prima di rientrare definitivamente nella sua biografia. Gli viene in mente che mio padre potrebbe essere nella sua stanza all'università,
che in fin dei conti è a due i da qui. Decide che prima gli telefonerà da una cabina, non gli piace fare improvvisate. Tra tutti i suoi amici, pensa avviandosi a telefonare, è quello che gli pesa di meno affrontare: sa che non gli farà troppe domande, e che non si aspetta nessuna meraviglia. Sa che starà ad ascoltarlo quando avrà voglia di parlare. Sa che farà commenti solo se richiesto. Si conoscono dai tempi del liceo. Hanno fatto tante cose insieme, anche la resistenza, facevano parte dello stesso gruppo. Gli torna alla memoria quell'aria tollerante e leggermente divertita, mai censoria, con cui era in grado di ascoltare qualunque confessione, anche la più incredibile o la più imbarazzante. Improvvisamente, anche se negli ultimi tempi ha pensato a lui molto di rado, gli viene una gran voglia di vederlo. Il centralino dell'università gli a la sua stanza, ma il telefono squilla a lungo senza dare risposta. Strano, pensa Raul, di solito a quest'ora è sempre lì a lavorare. A meno che non sia a qualche convegno. Si chiede se chiamarlo a casa, e decide di sì, perlomeno sua moglie saprà dirgli dov'è. Si rende conto che non sa il numero a memoria, è il numero della sua casa da sposato – la casa nuova, per Raul, che è partito poco dopo il matrimonio. È costretto a guardare sull'elenco, e gli fa effetto vedere il nome dell'amico accanto a quell'indirizzo così poco familiare. Si prepara a sentire la voce della moglie, con la quale non è in confidenza, e invece, dopo parecchi squilli, è papà che risponde. La voce è un po' velata, come se l'avesse sorpreso nel sonno. “Sono Raul” dice. Non aveva previsto di sentirsi a disagio. “Oh, Raul” dice papà. La voce è leggermente più animata. “Quando sei tornato?” Lui esita un secondo, incerto se mentire; poi decide di essere sincero. “Da qualche settimana” dice. “E ti fai vivo solo ora?” Papà ride. Adesso ha la sua voce normale. Anche Raul ride. Si sente un po' meglio. Non c'è bisogno di giustificarsi, pensa con sollievo. “Ho voglia di vederti” dice, ed è la pura verità.
Mentre cammina diretto a casa sua – papà gli ha detto “vieni a prendere un tè”, cosa che gli è sembrata quantomeno strana, hanno sempre e soltanto bevuto aperitivi, di preferenza dei martini dry, è anche vero che non è l'ora giusta – una parte della sua mente registra in modo automatico i cambiamenti nelle strade che attraversa, non molti in fondo, nuovi negozi, qualche bar coi tavolini all'aperto – le vecchie piazze medievali sono sempre le stesse, ma adesso che ha lo sguardo di un estraneo si ferma ad ammirarle, proprio come farebbe un turista. La casa è nella parte vecchia della città, l'antico ghetto. Arrivandoci ricorda per un attimo, con una fitta di nostalgia, l'altra casa, dove papà viveva prima di sposarsi, quella dove hanno ato tanto tempo da ragazzi. Ci vivrà il vecchio padre, adesso, pensa. ando, nota con piacere che l'insegna dell'osteria all'angolo non è cambiata, e neanche la clientela si direbbe, a giudicare dagli anziani giocatori di briscola che fumano in silenzio, concentrati. I tavoli hanno ancora le tovaglie di carta. Papà viene ad aprirgli con addosso un vecchio maglione. Ha l'aria intirizzita, come se fosse stato fermo molto a lungo. Si abbracciano, con un po' di emozione. Poi papà lo scosta da sè per guardarlo. “Sei abbronzato” dice. “Hai un ottimo aspetto. Ti ha fatto bene, il Sudamerica”. Raul lo guarda a sua volta, e si rende conto di non poter ricambiare il complimento. Papà è pallido, ha gli occhi cerchiati. La calvizie si è leggermente accentuata. In più, lui sempre così attento all'eleganza, ha un'aria trasandata – ma questo può essere dovuto al pomeriggio casalingo, pensa Raul. “Cosa ci fai a casa?” chiede. “Pensavo di trovarti all'università”. Papà gli ha voltato le spalle precedendolo verso il salotto. “Sto lavorando a casa, ultimamente” dice senza voltarsi. “Come mai?” chiede Raul, stupito. “Il libro, sai...”, papà fa un gesto vago. “Mi sembra di concentrarmi meglio, a casa”. Che strano, pensa Raul, ma non gli va di insistere. Nel frattempo sono arrivati in salotto. Papà lo fa accomodare su un immenso
divano dalla tappezzeria a ramages. Si muove goffamente, un po' smarrito, come se in quella stanza non fosse a proprio agio, e nemmeno nel ruolo di padrone di casa. In effetti, pensa Raul guardandosi intorno, l'arredamento del salotto è lontanissimo dai gusti di papà, per quel che li conosce. È zeppo di mobili antichi dall'aspetto massiccio, tra cui una terrorizzante console sormontata da uno specchio enorme. Raul sospetta una forte ingerenza della suocera, che ha visto soltanto al matrimonio, e che ricorda come un'imponente matrona molto rispettabile, per niente somigliante alla povera Luisa, il cui aspetto gli sembra in perfetta armonia con lo stile del mobilio. “E la Luisa?” chiede, rendendosi conto che non l'ha ancora menzionata. “È fuori con la bambina” dice papà “ma dovrebbe tornare fra poco”. Già, la bambina, pensa Raul. Quanto avrà, si chiede vagamente, forse due anni? Raul non è affatto interessato ai bambini, ma gli sembra doveroso domandare qualcosa, in fin dei conti il suo amico è diventato padre, è una di quelle cose a cui di solito si dà molta importanza, ignorarla sarebbe imperdonabile – anche se l'unico suo desiderio è ritrovare la loro vecchia confidenza, il loro vecchio tono, che viene molto prima di tutto questo, del salotto, del matrimonio, della bambina, di tutte le infinite complicazioni della vita adulta a cui il suo amico si è esposto senza rimedio. Chissà perché l'ha fatto, si chiede Raul. Aveva tutte le donne che voleva. C'era bisogno di impantanarsi qua dentro, sotto la console della suocera? Non gli fa affatto bene, pensa Raul. Ha un'aria poco sana. È come spento. Tra tutti gli amici di papà, Raul è uno dei meno sensibili al fascino della mamma. Non che non le riconosca una certa grazia, ma da qui a perderci la testa... Eppure, lui deve averla persa, pensa Raul. Gli sorride, come per farsi perdonare i propri pensieri. “Quanto ha la bambina?” chiede. “Due anni e quattro mesi” dice papà, visibilmente ravvivandosi. Dunque ne va fiero, pensa Raul. Tutto normale, quindi. Non c'è motivo di preoccuparsi. “Sarai contento” dice. “Oh, sì. Moltissimo” dice papà, e ha tutta l'aria di essere sincero. Cala un breve silenzio. Poi papà sembra ricordarsi i suoi doveri di ospite, e gli propone nuovamente il tè. Raul rifiuta garbatamente. Inizia fra di loro una strana
conversazione, artificiosa, estremamente formale, che segue dei binari tacitamente prestabiliti, dove nessuno dei due interlocutori corre il minimo rischio di esporsi o di dire qualcosa di intimo. Raul, che sperava di poter parlare di una sua complicata e per certi versi dolorosa vicenda sentimentale, su cui finora non si è confidato con nessuno, si ritrova a rispondere in modo convenzionale a domande sul suo lavoro e sul paese dove ha vissuto, mentre papà annuisce gentilmente, mostrando un interessamento cortese, da conoscente. Per tutto il tempo, Raul si chiede cosa stia succedendo. Quella conversazione lo spossa. È faticosa, tortuosamente cerimoniale. Si rende conto che papà sta mettendo ogni cura nell'evitare territori pericolosamente emotivi. Al tempo stesso, avverte una tensione sotterranea molto forte – come se percepisse nel suo interlocutore un'attesa che non riesce a definire. A un certo punto, dopo l'ennesima domanda di rito, seguita dall'ennesima risposta prevedibile, il silenzio cala nuovamente. Raul coglie distintamente il cambiamento di atmosfera. È subitaneo, come il clic di un interruttore. Capisce che papà, sfinito quanto lui da quell'inutile scambio verbale, ha deciso di lasciar cadere la finzione, e di permettere che fra di loro si apra un varco – un varco nel quale qualcosa, forse, può finalmente venir nominato. Sa di dover essere lui a parlare. Papà si è limitato a lasciargli uno spazio. Chiede semplicemente: “Cosa c'è che non va?” La domanda era lì, nella stanza, fin dall'inizio, aspettava soltanto di essere formulata. Gli è venuta alle labbra senza il tempo di pensarci, né di chiedersi se sia inopportuna. Papà è seduto in poltrona di fronte a lui. Tiene le spalle leggermente incurvate. Dalla finestra, in quel momento, si vede il cielo tingersi di rosa – un meraviglioso crepuscolo primaverile, pensa Raul. “Niente” dice papà, incorniciato dal roseo crepuscolo. “Va tutto bene” dice. “Tutto perfettamente bene. Non c'è assolutamente niente che non vada.” Tace, guardando fuori. Per un attimo sembra esitare. Poi evidentemente prende una decisione, perché aggiunge, sempre senza guardarlo: “Solo, a volte ho l'impressione di non essere... “ si ferma, cercando la parola “... adatto, ecco”. “Adatto a cosa?” dice Raul.
Papà non risponde. “Adatto a cosa?” Raul insiste. Papà continua a tacere. Raul si fa coraggio, e prosegue: “Alla vita matrimoniale, intendi?” Aspetta una risposta che non arriva. “È alla vita matrimoniale che non ti senti adatto? è questo che vuoi dire?” “No, non è questo” dice papà. Il suo sguardo vaga oltre il muro di mattoni del cinema di fronte, oltre le nuvole rosate del tramonto, verso un indefinito orizzonte, più lontano. “Non è precisamente questo” dice. Raul aspetta. Pensa che se rimane in silenzio, senza incalzarlo, forse l'altro riuscirà a continuare. Fuori, il cielo sta virando verso il viola. Nella stanza comincia a far buio. Dopo un tempo che sembra molto lungo, papà finalmente si volta a guardarlo. Raul gli restituisce lo sguardo, un muto sguardo interrogativo. Non è affatto sicuro di sapere cosa voglia. Teme di dire troppo, o troppo poco. Teme di non aver capito, e di sbagliare, quindi continua a tacere. Quando il silenzio si è fatto insostenibile, papà all'improvviso sorride. “Non devi farci caso” dice, in tono leggero. “Probabilmente non è niente. Solo un po' di stanchezza. Il lavoro, il libro, il concorso. Le aspettative degli altri. Sai... quando ti senti un po' sopraffatto. Un po' spossato. Un lieve esaurimento, tutto qui”. Il sorriso si è spento, ma la voce rimane disinvolta. “È senz'altro una cosa eggera”. Il momento è ato. Raul lo sa con chiarezza, e prova una fitta di rimorso. Quello che poteva esser detto non è stato pronunciato. Ormai l'occasione è sfumata, il varco si è richiuso, e la conversazione riprenderà fatalmente il suo andamento di prima, quell'inflessione sforzata, innaturale, il tono di un colloquio fra estranei. Raul sente confusamente che papà riponeva in lui qualche speranza, anche se non ha capito esattamente quale. Sa di essergli venuto meno. Avverte un senso doloroso d'impotenza. “Perché non usciamo?” dice impulsivamente. “Fuori è una serata bellissima. Fa caldo. È primavera. Perché te ne stai lì tutto infagottato? Vestiti, su. Mettiti una giacca, qualcosa di elegante. Andiamocene fuori, ci beviamo una cosa, ti va? e poi andiamo in giro, come ai vecchi tempi...”
Papà scuote la testa, gentilmente. È tornato distante, un ospite beneducato. “No, be', non credo” dice. “La Luisa potrebbe tornare a minuti”. “Che vuol dire? puoi lasciarle un biglietto” dice Raul. “Non torno mica tutti i giorni, dal Sudamerica. In fin dei conti, dobbiamo festeggiare, no?” “Ad essere sincero, sono un po' infreddolito” dice papà. “Forse un inizio di influenza. Devo aver preso freddo ieri sera. Non sono tanto in forma, mi dispiace”. “Ma fuori è caldo” dice Raul. Lo sta quasi supplicando. Al tempo stesso, sa benissimo che è inutile. “Uscire ti farebbe bene”. “No, be', non credo” dice papà. Raul ha un'espressione desolata. Lui gli sorride affettuosamente, come per rincuorarlo. “Non stasera. Un'altra volta, forse”. Dev'essere successo all'incirca un mese prima, verso la fine di marzo, ma è unicamente una mia deduzione perché il diretto interessato non me ne ha mai fatto parola, ho saputo del loro incontro solamente da terzi. Quel giorno di fine marzo, dunque, Giorgio B. era seduto a un tavolino d'angolo di un bar nei pressi dell'università. Stava consumando un pasto solitario a base di tramezzini e latte freddo, nella pausa fra una lezione e l'altra. Cercando di far are il tempo, guardava fuori attraverso le grandi vetrate del bar, affacciate su una piazzetta che a quell'ora, più o meno le due del pomeriggio, ospitava quasi esclusivamente una colonia di piccioni. Giorgio B. veniva da un'altra città, e durante la settimana, nei giorni in cui faceva lezione, alloggiava in una camera ammobiliata in periferia, perché col suo stipendio di assistente non poteva permettersi un appartamento. Finora non aveva fatto grandi conoscenze, e con i colleghi aveva rapporti del tutto formali, perché pur essendo un uomo socievole, e in generale ben disposto verso il prossimo, la timidezza lo rendeva a volte cerimonioso fino alla goffaggine, cosa che in un ambiente come quello universitario non gli aveva certo facilitato i contatti. Stava quindi finendo il suo bicchiere di latte, e contemporaneamente consultando i suoi appunti, quando la porta del bar si era aperta e frettolosamente era entrato papà. Era una giornata ventosa, ancora fredda. Papà portava un impermeabile bianco e una sciarpa di lana grigia, in testa aveva un cappello che all'epoca metteva sempre, forse per coprire l'incipiente calvizie. Vedendolo,
Giorgio B. si era alzato cerimoniosamente per salutarlo. Si incrociavano quasi tutti i giorni, ma non avevano praticamente mai parlato, se non a qualche consiglio di facoltà. Papà si era avvicinato, si erano dati la mano. Giorgio B. provava nei suoi confronti una certa soggezione, in quanto allievo preferito del professor O., e destinato, a detta di tutti, a una brillante carriera. Gli aveva proposto di sedersi insieme a lui, e con sua sorpresa papà aveva accettato. Si era lasciato cadere su una sedia al suo fianco, si era una sigaretta, e nonostante le reiterate insistenze di Giorgio B., che avrebbe voluto offrirgli qualunque genere alimentare a disposizione, aveva ordinato soltanto un caffé. “Mi siedo solo un attimo, poi devo correre a casa” aveva detto, come giustificandosi con se stesso per quella sosta imprevista. Per un po' avevano parlato del più e del meno, in modo impersonale, neutro, da colleghi. Papà sembrava distratto, o preoccupato da qualcosa – giocherellava con il cucchiaino, si guardava intorno, e un paio di volte, aveva notato Giorgio B., non era riuscito a rispondergli a tono. A un certo punto, non tanto per curiosità, quanto per dimostrarsi cordiale e interessato, Giorgio B. si era deciso a chiedergli del suo famoso libro. “Ho saputo che stai scrivendo una cosa importante” gli aveva detto gioviale, in tono incoraggiante. “Uno studio nuovo, originale. C'è molta aspettativa, mi è sembrato...” “Dio mio” papà aveva emesso una specie di lamento. “Allora ne parlano tutti...” Giorgio B. lo aveva guardato con stupore. “Ma certo” aveva detto. Dopo una pausa aveva aggiunto: “Non pensavo che ti dispie...” Papà lo aveva guardato fisso per un attimo, come chiedendosi se poteva fidarsi. Qualcosa nell'aspetto di Giorgio B., quell'aria da persona perbene, riservata, quell'espressione timida, intelligente, piena di buone intenzioni, doveva aver deciso in suo favore, perché gli aveva detto, brutalmente: “Non sto scrivendo nulla”. “Come?” aveva detto Giorgio B. educatamente incredulo, non capendo. “Non sto scrivendo” aveva ripetuto papà. “Ovvero, ho scritto un'ottima scaletta. Molto dettagliata. Un sommario pressoché perfetto. Due o tre mesi fa.” Aveva sorriso brevemente, amaro. “Poi non ho più scritto una riga”.
“Mio dio” aveva detto Giorgio B., impressionato. Istintivamente, gli aveva posato una mano sulla spalla. “Sono bloccato” aveva detto papà. “Completamente bloccato”. Giorgio B., benché molto turbato, aveva provato a confortarlo: “Succede, a volte” aveva detto. “Poi ad un tratto riprende. Senza un motivo. Da un momento all'altro. Non devi preoccuparti”. “Sembrava tutto così chiaro” aveva continuato papà senza ascoltarlo. “Una visione così ampia. Completa. Era tutto chiarissimo, come mi era capitato di rado, tutto concatenato alla perfezione...” Si era interrotto, guardando fuori. “Poi è successo qualcosa”. Aveva fatto una pausa, come valutando se entrare nei dettagli. “Qualcosa di personale” aveva detto infine, semplicemente. Si era un'altra sigaretta. “Da allora non sono più riuscito a continuare”. C'era stato un breve silenzio. Poi Giorgio B. aveva detto, sommessamente: “Vedrai, si sbloccherà tutto, da un giorno all'altro. Un buon sommario, lo dico sempre ai miei studenti, è già la maggior parte del lavoro. Tu l'idea l'hai avuta... hai le capacità... il talento...” Papà lo aveva interrotto: “Sono uscito adesso dallo studio di O.” aveva detto. “Lui, naturalmente, vuol vedere qualcosa di scritto, è chiaro. Per ora la sto tirando in lungo. Gli dico che non è ancora una stesura leggibile, che si tratta in gran parte di appunti, che devo riordinarli. Gli dico delle cose a voce, l'impostazione generale, le idee che avevo, in effetti. Insomma, in qualche modo me la cavo. Ma poi?” Giorgio B. gli aveva stretto il braccio, affettuosamente. Aveva detto: “Ti angosci, lo so, ti capisco... sei sotto pressione... non è un ambiente facile... a volte anch'io, cosa credi...” Papà non lo ascoltava. Fumava guardando fuori, la piazzetta, i piccioni. A un tratto aveva detto: “Sono disperato”. Giorgio B. lo aveva guardato, e aveva capito che era la verità. Aveva taciuto per un attimo, sgomento. In quel momento non sapeva, e forse intuiva a malapena, che la disperazione di papà aveva cause assai più ampie del problema professionale, che ne costituiva solo un epifenomeno.
Aveva cominciato a parlare, generosamente, con impeto, esprimendo la sua stupefazione: ma come, lui così bravo, così dotato, un pensatore – che proprio lui si disperasse, era impossibile – lui che aveva già pubblicato due lavori, lodatissimi entrambi – lui, l'allievo favorito, il prediletto, l'erede – quello a cui tutti predicevano un grande avvenire – e gli altri, allora, cosa dovevano fare... “Io ad esempio, che sono così lento... mi perdo nelle note, nei rimandi... rimugino, correggo... mi faccio prendere dai dubbi... in sostanza, spreco un sacco di tempo. Tu, invece, hai già fatto tanta strada. Tutti gli altri ti ammirano, in facoltà. Ti invidiano, anche, suppongo. Io stesso non so cosa darei, per essere al tuo posto” aveva ammesso candidamente. Papà lo aveva guardato, un po' smarrito. “Grazie” gli aveva detto. Si era alzato, riavvolgendosi la sciarpa intorno al collo. Il caffé era rimasto intatto nella tazza. Accanto, il piattino con le due cicche spente. Giorgio B. si era alzato a sua volta, e lo aveva accompagnato all'uscita. Sulla porta si erano fermati. Giorgio B. gli aveva preso le mani fra le sue, stringendogliele forte, a lungo, con calore, come se non volesse più lasciarle andare: gesto caratteristico in lui, che denotava un'emozione soverchiante, e l'incapacità di esprimerla a parole. A papà erano venute le lacrime agli occhi. Giorgio B. le aveva viste chiaramente. Non le avrebbe più dimenticate. “Adesso devo andare” aveva detto papà, sottraendosi dolcemente alla sua stretta. Giorgio B. era rimasto fermo a guardarlo, sistemandosi dignitosamente la sciarpina sul petto, scozzese la sua, e leggermente logora ai bordi. Lo aveva visto allontanarsi nella piazza, un po' curvo per proteggersi dalle folate. Gli era sembrato molto piccolo, così, in lontananza, una figurina sballottata dal vento. Il sole appariva e spariva tra nuvole veloci. Giorgio B. aveva alzato lo sguardo per accertarsi che non piovesse. Quando aveva riabbassato gli occhi, papà era già scomparso sotto i portici.
La sera del 31 luglio, dopo cena, la mamma aveva appena finito di preparare i bagagli, e stava cercando di farmi addormentare. Era una serata particolarmente afosa. Papà era in terrazza, dove avevamo cenato, e stava finendo di bere il caffé. Guardava, dall'altra parte della strada, le finestre del palazzo del vescovado, che
conservavano ancora un bagliore di tramonto. Intorno, il cielo era pieno di rondini. Quando la mamma lo aveva raggiunto, per un po' erano rimasti in silenzio. “Lì, una volta, c'era un giardino di magnolie” aveva detto la mamma finalmente, indicando un punto sotto di loro. “Lì, dove adesso ci sono i magazzini. Un bellissimo giardino di magnolie, molto vecchie. Te l'avevo mai detto?” “Non mi pare” aveva detto papà. “O almeno, non me lo ricordo”. Aveva fatto una pausa, come se stesse pensando ad altro. Poi aveva aggiunto: “Perché le hanno abbattute?” “Papà aveva bisogno di spazio. Per i magazzini” aveva risposto la mamma. “A me è dispiaciuto tantissimo. Ero ancora bambina, allora”. “Che peccato” aveva detto papà distrattamente. “Doveva essere bello. Le magnolie, e tutto il resto”. “A cosa stai pensando?” aveva detto la mamma. “Niente di particolare” aveva detto papà. “Anzi, a dire il vero, pensavo che domani dovrò guidare. È meglio che dorma in mansarda, stanotte. Se la bambina si sveglia... “ “Sì, certo” aveva detto la mamma. “Devi dormire bene, stanotte”. Papà aveva alzato lo sguardo verso la finestra della mansarda, visibile dalla terrazza, alla loro sinistra. I vetri erano aperti sulla stanza buia. “Sì” aveva detto. C'era stata una pausa. Intorno a loro, la grande vecchia casa era scura e silenziosa, eccettuata una luce nell'appartamento dei nonni, al piano di sotto. Papà aveva guardato in quella direzione. Poi aveva detto: “In ogni caso, voi avrete tutto questo”. “Voi chi?” aveva detto la mamma. “Tu, e la bambina” aveva detto papà. Aveva fatto un gesto che comprendeva la casa, e poco più in là le sagome dei magazzini, appena visibili nell'oscurità ormai completa. “Avrete tutto questo. In ogni caso”.
“Non capisco” aveva detto la mamma. “Cosa vuoi dire?” “Non importa” aveva risposto papà. “Dicevo così. Per ogni evenienza”. “Non capisco” aveva ripetuto la mamma. Papà aveva taciuto. Per un attimo, alla mamma era balenata l'idea che papà volesse lasciarla, ma le era sembrato un pensiero pazzesco, per cui lo aveva immediatamente accantonato. Andava tutto benissimo, si era detta. Sì, è vero, all'inizio dell'estate lui sembrava un po' stanco, ed era insolitamente taciturno – a dire il vero, ora che ci pensava, in principio non voleva affatto partire – ma poi in montagna si era proprio ripreso. Si erano così divertiti, in montagna. A lui piaceva tanto. E al mare sarebbe andata anche meglio. Pensò alla casa che avevano preso in affitto, una piccola casa vicino alla pineta, più giù, sulla riviera romagnola. C'erano stati anche l'anno precedente. Per la bambina era l'ideale. Certo, avrebbero potuto prendere qualcosa di più grande, ma lui ci teneva moltissimo a usare esclusivamente il suo stipendio. Era molto suscettibile, su questo punto. Anche troppo, pensava lei. Già era stato difficile fargli accettare di trasferirsi in quell'appartamento, che apparteneva ai genitori di lei. Ma sembrava ridicolo rifiutare un appartamento in pieno centro, così comodo. I primi tempi del loro matrimonio, per più di un anno, avevano abitato in una villetta col giardino, un po' in periferia. Non che a lei dispie, anzi. Sorrise con tenerezza, pensando ai primi tempi, e alla villetta di via Gustavo Modena. Era stato un periodo felice, pensò. Perché, questo non lo era? La sua mente sostò per un attimo sul limitare di questo pensiero, poi si scostò bruscamente. Certo che lo era. Erano una coppia felice. E adesso c'era anche la bambina. E domani si partiva per il mare, che bellezza. Gli avrebbe fatto così bene, sia a lui che alla bambina. Riscuotendosi dai suoi pensieri, si era voltata a guardare il marito, temendo di aver taciuto troppo a lungo. Lui sembrava assorto nei propri. Lei gli aveva sorriso: “Vuoi dell'altro caffé?” aveva chiesto. “No, grazie” aveva detto lui, ricambiando il sorriso – con un certo sforzo, le era parso. “Penso che adesso andrò a dormire” aveva detto. “Domani mattina devo alzarmi presto”. “Non preoccuparti per la sveglia, ti chiamo io” aveva detto la mamma. “Ti porto su la colazione”. Papà si era alzato. Si era chinato a baciarla sulle labbra, lievemente, con
delicatezza. “Buonanotte” aveva detto. “Buonanotte” aveva risposto lei. “Dormi bene”. Lo aveva sentito rientrare, e andare in bagno. Lei si era messa sulla sdraio a godersi l'aria della notte, finalmente più fresca. Si era accesa una sigaretta, una Turmac rossa, la marca che fumava allora. Dalla stanza della bambina non veniva nessun rumore. Alla fine della giornata, almeno un momento di pace, si era detta. Aveva sentito la porta del bagno che si apriva, e i i del marito sulla scala di legno che portava alla mansarda. Aveva visto la luce che si accendeva nella stanza, una luce bassa, quella del lume piccolo sul comodino. La lampada centrale non era stata accesa, forse per via delle zanzare. Pensò che era bello da vedere, quel rettangolo di luce dorata sulla parete buia. Faceva casa. Calore. Intimità. Sono circondata dai miei cari, aveva pensato. Aveva sbadigliato, e si era resa conto di aver sonno. Che ora poteva essere? Non tanto tardi, pensò, saranno al massimo le dieci. Pigramente, aveva spento la sigaretta. Quando si era alzata, si era accorta di aver lasciato un costume da bagno – il suo preferito, un costume bianco, intero, con delle piccole ruches intorno ai fianchi – appeso al filo della biancheria. L'aveva tastato. Non era ancora asciutto. “Domani dovrò ricordarmi di metterlo in valigia” aveva pensato distrattamente, entrando in casa.
“Povera Clara” dice la signora Tancredi, posando la tazzina vuota del caffé. La nonna si soffia il naso rumorosamente. Sono al piano di sotto, nel salottino della nonna. È quasi ora di pranzo. La mamma è stata messa a letto nella sua stanza da ragazza, con le persiane sbarrate per tener fuori la canicola. La signora Tancredi abbassa la voce in quello che vorrebbe essere un sussurro, ma le esce fuori come un roco gracchiare: “La Luisa si sarà addormentata?” “Spero di sì” dice la nonna. “Con tutti i tranquillanti che ha preso...” “Nico è venuto?” chiede la signora Tancredi. Nico è il dottor Valli. Ha sposato l'altra figlia della signora Tancredi, Giulia, di
gran lunga la più bella delle due. La signora Tancredi, per quanto sia affezionata al dottor Valli, pensa che la Giulia, bella com'è, avrebbe potuto fare un matrimonio ben migliore. Guarda la Paola, che razza di partito. E sì che non è bella neanche la metà. In ogni caso, si consola la signora Tancredi, un medico non è poi da buttare, come marito. Può sempre fare una buona carriera, diventare per esempio primario, e poi venir chiamato professore, così lo riveriscono tutti – anche se la signora Tancredi in cuor suo è convinta che per questo progetto il povero Nico non sia abbastanza ambizioso. “Sì, l'ho chiamato subito” dice la nonna. “È venuto stamattina presto, appena...” s'interrompe. “È stato lui a darglieli, i tranquillanti. Dice che la cosa migliore è che dorma tutta la giornata, fino a domani, se possibile. Non c'è altro da fare, dice”. “Certo, certo. Povera Luisa” dice la signora Tancredi. “Con uno choc così...” dice la nonna, e riprende a singhiozzare. “Povera Clara” dice la signora Tancredi. La nonna singhiozza. “Su, su” dice la signora Tancredi. “Devi tenerti su. In fin dei conti, la Luisa è molto giovane. È una disgrazia tremenda, ma si riprenderà, vedrai”. La nonna singhiozza. La signora Tancredi si sventola col fazzoletto. L'Angela, piccolissima e curva, emerge dal suo antro strascicando i piedi. “La ga da calmarse, benedeta” dice alla nonna. L'Angela ha una vocina sottile, praticamente un falsetto, la cui dizione già approssimativa è resa più confusa dalla mancanza dei denti, e dal fatto che si rifiuta di portare la dentiera. “Non la pol miga andar vanti cussì” spiega alla signora Tancredi. “Ghe vien mal. Se la se mette in letto, stemo freschi tuti quanti”. La nonna si soffia il naso. “Ah, poveri noi” esala. La signora Tancredi si sventola. “Angela, perché non le porti un po' d'acqua?” dice. “Si muore dal caldo” aggiunge, rivolta alla nonna. L'Angela scompare lentamente in direzione della cucina. “Maria santa benedeta” la si sente invocare in lontananza, in una ripresa della sua giaculatoria. “Il fratello si è visto?” chiede la signora Tancredi, tamponandosi la scollatura con il fazzoletto ormai zuppo.
“Certo. È venuto con gli altri, stamattina. Piangeva come una fontana” dice la nonna. “Il fratello?” chiede la signora Tancredi, incredula. “Sì” dice la nonna. “Ma se non si potevano vedere” dice la signora Tancredi. “Cosa vuoi che ne sappia, io” dice la nonna. “Piangeva come una fontana, ti dico. Ho dovuto fargli una camomilla”. “Tu?” dice la signora Tancredi, scandalizzata. “In un momento del genere?” “Be', cosa dovevo fare...” dice la nonna. “Povera Clara” sentenzia la signora Tancredi. Tacciono per un po'. La signora Tancredi si sventola. “Gesù che caldo” sospira. La nonna tira su col naso. “Certo, chi l'avrebbe mai detto” dice la signora Tancredi. “A parte i precedenti, voglio dire. Lui, in fin dei conti, sembrava un tipo tanto a posto”. La nonna scoppia in singhiozzi disperati. L'Angela, con un bicchiere d'acqua in mano, esce dalla cucina a i lentissimi. Ciabattando, si dirige verso la signora Tancredi. Quando le arriva davanti, benché le sfiori a malapena la spalla, si drizza bellicosamente in tutta la sua esigua statura. “La tasa, ela” dice minacciosa, alzando fieramente la sua vocina. “No la vede come che la sta?”
Verso le dieci di quella stessa mattina, il padre di mio padre scendeva lentamente le scale che dalla mansarda portavano in ingresso. Da un lato si appoggiava al bastone, dall'altro era sorretto dalla figlia Ada, completamente in nero, con i capelli rossi sciolti sulle spalle. Monica, l'altra figlia, li aspettava in silenzio ai
piedi delle scale. Lei non aveva voluto salire. A dire il vero, aveva fatto il possibile per dissuadere anche suo padre, ma lui era stato irremovibile. Anzi, aveva insistito per salire da solo, ma l'Ada glielo aveva impedito, incollandosi al suo fianco. Avevo ragione a cercare di fermarlo, pensava la zia Monica, guardandolo mentre scendeva. Improvvisamente è un vecchio, pensò. Il viso del nonno era impietrito, non aveva ancora versato una lacrima. Tastava i gradini col bastone come un cieco. Sua figlia Ada, con la faccia inondata di un pianto silenzioso che le scioglieva il bistro nero intorno agli occhi, lo sorreggeva con tutte le sue forze, a tratti barcollando, come se lui le si fosse appoggiato a corpo morto. La sorella istintivamente aveva indietreggiato, quasi temendo di venire travolta. Arrivati in fondo alle scale, il nonno e la zia Ada si erano fermati, esausti, ansimanti, come dopo uno sforzo gigantesco. Il nonno aveva lasciato cadere il bastone, portandosi la mano libera al viso. La figlia maggiore aveva teso le braccia verso di lui, in un gesto che sembrava di supplica. Per un attimo, così immobilizzati, avevano formato un perfetto gruppo di dolenti, il vecchio con il viso tra le mani, la figlia minore quasi schiantata sotto il suo peso, l'altra leggermente discosta, ma protesa verso i primi due, come una figura orante in una pala d'altare. Pippo, il cane del nonno, che era stato legato in ingresso perché non lo seguisse, guaiva disperato e faceva piccoli saltelli, cercando di liberarsi per corrergli incontro. Pippo era un bastardino fulvo, con le zampe corte e le orecchie a punta. Era l'ultimo di una serie di cani. Tutti i cani del nonno, quando non erano di razza, venivano chiamati Pippo, ed erano più o meno della stessa taglia. “Zitto, Pippo” lo aveva ammonito la Mara a bassa voce. La Mara era seduta accanto alla porta, in disparte dal gruppo familiare. Non aveva nemmeno tentato di far valere i suoi diritti nei confronti del morto. Quando aveva accennato a seguirlo su per le scale, il nonno l'aveva fermata con un gesto iroso, quasi di maledizione. Con un sospiro, la Mara sistemò meglio uno spillone che sosteneva la sua crocchia grigio ferro, striata elegantemente di bianco. La Mara andava fiera di quelle striature. Trovava che le dessero un'aria molto chic. Cogli anni, il suo viso irregolare dagli zigomi sporgenti, già magro, si era come prosciugato; la cipria bianchissima, su cui spiccava il rosso fuoco delle labbra sempre accuratamente dipinte, l'acconciatura torreggiante dei capelli, la magrezza, le davano un aspetto
di crudeltà estremamente stilizzata, simile a certe maschere del teatro giapponese. Come per un effetto di contrappunto, lei d'altro canto aveva invece accentuato la mellifluità dei modi, cosa che creava nei suoi interlocutori una curiosa sensazione di spiazzamento. “Qua, Pippo” disse, tirando il guinzaglio del cane, che si stava praticamente strozzando nel tentativo di raggiungere il padrone. Il nonno era scosso in tutto il corpo da un tremito prolungato, che chiaramente preludeva al pianto. Adesso entrambe le sorelle si erano strette a lui, come a proteggerlo dall'esplosione di dolore che sarebbe seguita. “Papà” aveva detto la zia Monica, con la voce che le tremava. Il nonno aveva emesso un suono sordo, strozzato, che ricordava il gemito di un animale. In quel momento la porta si era aperta, ed era entrato Beppe, il figlio maggiore. “Papà” aveva gridato, slanciandosi verso di lui. Senza togliere la mano dal viso, il nonno aveva steso l'altra verso il figlio, a tentoni. Lui l'aveva presa, ed era caduto in ginocchio ai suoi piedi. Entrambi, simultaneamente, erano scoppiati in un pianto dirotto.
Sei mesi prima, alla fine di gennaio, i miei stanno rientrando da una cena. È ata da poco mezzanotte; io dormo già da un pezzo, affidata alle cure della nonna, che dal canto suo russa serenamente sulla poltrona accanto al letto, con la testa rovesciata all'indietro e la bocca leggermente aperta. Il rumore della chiave nella toppa la sveglia di soprassalto: per un momento non ricorda dov'è, poi sentendo la voce della mamma che la chiama si ricompone velocemente, sistemandosi in fretta i capelli e recuperando le insegne della sua dignità – la stola di volpe caduta vergognosamente a terra, la borsetta marrone, rigida, a due manici, da cui non si separa mai, il cappellino nero a calotta – e con queste indosso compare sulla soglia, impeccabile, pronta, si direbbe, a fare il suo ingresso in un salotto. “Tutto bene?” le chiede la mamma. “Tutto benissimo” dice la nonna, prendendo silenziosamente nota del fatto che la mamma è spettinata e ha il rossetto un po' sbavato, e papà ha la cravatta di traverso, come se prima di entrare avessero indugiato in qualche fugace attività amorosa, forse sulle scale. Quest'abitudine all'ispezione le è rimasta da prima del fidanzamento, quando papà non aveva ancora il permesso di venire in casa, e la
nonna sospettava che tra i due intercorressero convegni illeciti, ad esempio sotto i portici di via Soncin. Cosa si potesse fare sotto quei portici non era chiaro, ma la nonna possedeva una fantasia inesauribile per tutto ciò che riguardava il peccato, segnatamente, s'intende, il peccato della carne, con il quale personalmente aveva pochissima familiarità. Che adesso fossero sposati, faceva certamente una bella differenza, ma la nonna in cuor suo disapprovava comunque le effusioni impreviste e incontrollabili, soprattutto se si svolgevano fuori dal luogo e dagli orari deputati, sui quali possedeva un codice rigidissimo. “La bambina si è addormentata subito. Non ha fatto nemmeno un capriccio” li informa, incedendo maestosamente verso l'uscita. “Ma si può sapere perché si è vestita di tutto punto?” chiede mio padre, cercando di reprimere l'ilarità. Normalmente non si permetterebbe mai una battuta così irrispettosa nei confronti della suocera, ma la cena è stata allegra, e sia lui che la mamma sono leggermente brilli. “Deve fare solo un piano di scale...” La nonna lo fulmina con lo sguardo: “Le scale sono molto fredde” dice lapidaria, dirigendosi all'uscita a vele spiegate. La mamma la segue con aria colpevole. “Mamma, grazie, sei stata gentilissima” dice, sforzandosi di rimediare. “Spero che la bambina non sia stata un disturbo...” “Certo che no. Mi auguro che abbiate ato una buona serata” risponde la nonna, in un tono carico di sottintesi, tutti malevoli – dal giudizio sui loro ospiti, che peraltro non conosce, a quello sul loro tasso alcolico, all'innominabile episodio sulle scale, o dovunque si sia verificato. “Buonissima, grazie. Ci siamo proprio divertiti” dice papà allegramente. “Ancora mille grazie, mammina, e scusaci tanto per l'incomodo” dice la mamma, sempre più servile. “Buonanotte” aggiunge flebilmente, aprendole la porta. La nonna varca la soglia senza voltarsi indietro. “Buonanotte” dice. La mamma richiude la porta. Lei e papà si guardano. “Tua madre” dice papà in tono moderatamente esclamativo.
“Certo, Piero, che a volte veramente...” dice la mamma. “Su, su” dice lui. “Ho visto benissimo che ti veniva da ridere.” “Non è vero” ribatte lei virtuosamente. “La povera mamma. Ci fa un grosso favore, in fin dei conti. Pensa se ogni volta ci toccasse chiamare la sca...” “Sì, sì, lo so, hai ragione” dice papà, cingendola da dietro con le braccia. “Non lo farò più, giuro. Però, la stola di volpe in casa, devi ammettere...” La mamma scoppia a ridere. Ridono entrambi. “Shhh” dice lei. “Svegliamo la bambina”. “Ultima sigaretta?” chiede papà. “Ma sì” risponde lei, sedendosi sul divano dell'ingresso. Lui si siede al suo fianco, e le porge il pacchetto. La fa accendere. Fumano per un po' senza parlare, rilassati. “È diventata carina, la sorella di Cesare” dice papà, in tono riflessivo. “Da ragazzina non prometteva un granché. Invece adesso, devo dire...” “Ah, sì, si è visto bene, che ti piaceva” dice la mamma vivacemente. “Ci hai parlato per tutta la sera. In fin dei conti c'ero anch'io, lì dentro, se non te n'eri accorto. Mancava solo...” “Ah, che bello” dice papà. “Finalmente. Una scenata di gelosia”. “Non sto affatto facendo una scenata” dice la mamma. “Peccato” dice papà. “Ci speravo tanto”. Sorridono. Lui la bacia. “Smettila” dice la mamma, svincolandosi. Papà sbuffa. In quel momento suona il telefono. “Oh dio” dice la mamma “chi potrà essere, a quest'ora...” “Saranno loro” dice papà, sbadigliando. “Vedrai che ci siamo dimenticati
qualcosa”. Il telefono è in salotto, su un tavolino. È la mamma ad alzarsi per rispondere. “Pronto?” dice. “Sei tu, Luisa?” è la voce del nonno. Rauca, velata, quasi irriconoscibile. “Oh, Toni” dice la mamma, lievemente allarmata. “Come mai a quest'ora? È successo qualcosa?” Dall'altra parte c'è una pausa. Poi il nonno dice: “ami Piero”. “È tuo padre” dice la mamma, tornando di là. “Mio padre?” dice papà, stupito. “Vuol parlare con te” dice la mamma. Papà si alza. La mamma lo sente prendere il ricevitore. Lo sente dire: “Papà? Cosa succede?” C'è una pausa abbastanza lunga. Poi papà dice, con voce mutata: “Quando?” C'è un'altra pausa, più breve. Mio padre dice: “Calmati, papà. Calmati, per favore.” Un'altra breve pausa, poi: “Sì, lo so, eravamo fuori a cena. Siamo tornati adesso. La Monica è da te?”. Ascolta, poi: “amela un secondo” dice. C'è un'attesa, poi la voce di papà, molto seria: “Monica?” chiede. “Com'è la situazione?” Una pausa. L'interlocutrice parla a lungo. “Vuoi che venga lì?” chiede lui alla fine. Riceve evidentemente una risposta negativa, perché conclude: “Va bene. Se hai bisogno di me, chiamami a qualunque ora”. Il telefono viene riattaccato. Segue un silenzio che la mamma non riesce a interpretare. “Piero?” chiama. “Cosa succede?” Papà riemerge con lentezza dal salotto. Torna a sedersi accanto a lei. Per un po' resta zitto. Poi, senza guardarla, dice in tono piatto: “È morta mia madre”. “Oh, mio dio” dice la mamma. Istintivamente fa per toccarlo, ma papà si ritrae. “Com'è successo?” gli chiede.
“No, niente di...” dice papà. “Una polmonite. Semplicemente”. “Quando?” chiede la mamma. “All'ora di cena” dice papà. “Hanno provato a chiamarci, ma eravamo già usciti”. La mamma esita: “È successo... lì?” chiede. “Sì, certo, lì” risponde papà, brusco. “Dove, se no? È lì che stava”. “Oh, povera donna” dice la mamma, e le viene da piangere, ma si controlla. “Non vai da tuo padre?” gli domanda. “Non c'è bisogno, adesso” dice papà. “C'è già la Monica con suo marito. E l'Ada, naturalmente”. “Beppe?” chiede la mamma. “Figurarsi” dice papà. C'è un silenzio. Papà si accende un'altra sigaretta. Dice, più che altro a se stesso: “Andrò là domattina, a vedere cosa c'è da fare. Adesso è totalmente inutile”. “Quando sarà il funerale, te l'hanno detto?” chiede la mamma. “Dopodomani, penso” dice papà. “Vuoi che ti accompagni?” “Ma sei matta” dice papà. “Non ci vado neanch'io”. “Come, non ci vai?” dice la mamma. “Non ci andranno nemmeno i miei fratelli” dice papà. “Non la vedevamo da anni. Nessuno di noi. Solamente papà andava a trovarla.” Fa una pausa. “Ci andrà lui, al funerale, insieme con... “ s'interrompe. “Per noi era un'estranea, capisci. Non avrebbe senso”.
“Come non avrebbe senso?” dice la mamma. “Dall'ultima volta che è venuta a casa” dice papà “saranno ati più di dieci anni. Quindici, forse. E anche quella volta, non è stata una buona idea, farla tornare. Papà ha dovuto rispedirla lì.” Fa una pausa. “In realtà, per noi era già morta. Da tanto tempo”. “Ma è terribile” dice la mamma. “Devi andarci” dice. “Mi sembra che tu non capisca” dice papà. “Non puoi lasciare che al suo funerale ci siano solo tuo padre e la Mara” dice la mamma. “È terribile. Lo capisci anche tu, questo. Si tratta di tua madre, in fin dei conti”. Papà tace. “Che almeno tu...” riprende la mamma “che almeno uno dei suoi figli...” Papà la interrompe bruscamente: “Piantala, adesso” dice. “Forse hai ragione tu. Può darsi. Può darsi anche che ci vada, alla fin fine. Ma adesso non ho voglia di parlarne. Voglio soltanto andarmene a dormire”.
Due giorni dopo, la mamma sta preparando la tavola in cucina. Fuori fa freddo, è una giornata orribile. Dal cielo bianco e livido cade una pioggia fitta mista a nevischio. È l'una e mezza ata, quasi le due, e papà non è ancora tornato. La mamma è inquieta, il funerale era alle dieci. Si chiede se chiamare a casa del nonno. Io sono seduta sul seggiolone, col bavaglino spiegato, in assetto di guerra, e batto incessantemente il cucchiaio contro la tazza, dimostrando un'assoluta assenza di senso del ritmo. “Pappa” dico, con un certo vigore. “Smettila” dice la mamma, brusca, togliendomi il cucchiaio di mano. Quel rumore continuo la fa impazzire, e come se non bastasse è una giornata così brutta... Io scoppio a piangere, sentendo minacciato il mio sacrosanto diritto ad essere nutrita. “Pappa” balbetto fra le lacrime.
“Sì, amore, sì” dice la mamma, vinta. “Adesso mangiamo”. Si siede al mio fianco e comincia a imboccarmi. Io smetto istantaneamente di piangere. La pioggia batte forte sulla tettoia di lamiera del terrazzo. “Dio che angoscia” dice la mamma, rivolta alla stanza vuota. Io non mi pronuncio. Mangio la pappa a gran velocità. “Più piano, amore” dice la mamma. “Così ti viene il singhiozzo”. Mentre sta finendo la frase, dall'ingresso arrivano due brevi squilli di camlo. “Ecco il papà” dice la mamma, alzandosi. Io scoppio a piangere di nuovo, la pappa non è ancora finita. La mamma non mi bada. Va ad aprire. “Sei tu?” dice, spalancando la porta. Papà prima di entrare si pulisce accuratamente le scarpe infangate sullo zerbino. Il cappotto e il cappello sono zuppi di pioggia. “Sono tutto bagnato” dice, evitando l'abbraccio della mamma. La mamma lo aiuta a togliersi il cappotto. “Lo metto ad asciugare” dice, andando di là. Papà si toglie il cappello e la sciarpa. Si slaccia le scarpe bagnate e se le sfila. Scalzo, si ferma per un attimo a guardare fuori dalla grande finestra dell'ingresso. La pioggia continua a cadere senza sosta. Per terra c'è un sottile strato bianco, che lentamente si va sciogliendo. “Che stai facendo?” dice la mamma, tornando sui suoi i. “Vieni a mangiare, così ti scaldi. Devi aver preso un sacco di freddo. E non stare così a piedi nudi.” “Non ho una gran fame” dice papà. La mamma lo guarda. “Com'è andata?” chiede. “Ti dispiace se non ne parliamo?” dice papà.
“C'eravate solo voi tre?” chiede la mamma. “Sì” dice papà, laconico. “Su, vieni a sederti” dice la mamma. “In cucina fa più caldo.” Papà la segue. Io sto continuando a frignare. “Che cos'ha la bambina?” chiede papà. “Protesta perché ho smesso di darle da mangiare” dice la mamma. “Su, amore, su” dice, riprendendo in mano il cucchiaio. Io spalanco la bocca. “Ammm” dice la mamma. Io inghiotto. “Non si può dire che abbia problemi di appetito” dice papà. “Finisco solo un attimo con lei, e poi metto subito in tavola” dice la mamma. “Non preoccuparti” dice lui. “Tanto non ho fame”. C'è un breve silenzio. La mamma mi imbocca. Papà si accende una sigaretta. Io mangio facendo un sacco di rumore. “L'hanno fatto lì?” chiede la mamma dopo un po', tornando alla carica. “Voglio dire, nel... “ “Sì” dice papà, in tono neutro. “Nella cappella della clinica”. “Ah” dice la mamma, impressionata. “Povero caro” aggiunge. “Chissà che tristezza”. Papà non commenta. “Ecco fatto” dice la mamma, deponendo il cucchiaio. “Ammm” dico io, speranzosa. “No, no. Adesso basta. Hai mangiato anche troppo” dice lei. “ Ti faccio un po' di pasta?” chiede a papà.
“Per me no, grazie” risponde lui. “Qualcosa dovrai pur mangiare” dice la mamma. Papà alza le spalle. “Non ti va proprio niente?” chiede lei. Lui scuote la testa: “Per adesso no” dice. La mamma si siede di fronte a lui. “Poverino” dice. “Dev'essere stato terribile”. Papà spegne la sigaretta. “Tu non mangi?” chiede. La mamma non è il tipo che demorde facilmente. “Quindi, tu non c'eri mai stato” dice, in tono interrogativo. “Una volta sola” dice papà di malavoglia. “Tanti anni fa”. “Ah” dice la mamma. “Mi sembrava di aver capito...” Papà si alza: “Se non ti spiace, vorrei andare a stendermi un pochino” dice. Lei lo guarda stupita. Papà non va mai a dormire di giorno. È lei, di solito, quella che fa il riposino dopo pranzo, abitudine che papà normalmente depreca. “Come vuoi tu” dice. “Però mi pare che a stomaco vuoto...” Di fronte alla sua insistenza, peraltro abituale, sul viso di papà a l'ombra di un sorriso, che si spegne quasi immediatamente. Di solito in quei casi lui la chiama con un soprannome, il nome del personaggio di un film inglese che hanno visto, un personaggio di moglie asfissiante. È il suo modo gentile per fermarla. Adesso invece si limita ad accarezzarle una spalla, in un generico gesto di saluto. Poi si volta in silenzio ed esce dalla cucina. “E non andare in giro a piedi nudi!” gli grida dietro lei. “Con questo freddo, ti...” S'interrompe, sentendo la porta della stanza da letto che si chiude.
“Non sembrava più lei” dice la zia Monica. “Non sembrava più nessuno”.
La zia Ada scuote la cenere della sigaretta nel piattino del caffé, e si scosta dal viso una ciocca di capelli. “Prenditi un posacenere” le dice sua sorella, automaticamente. La zia Ada alza le spalle. “Tanto è tutto in disordine” dice. “Potreste anche tenerla un po' meglio, questa casa” dice la zia Monica, guardandosi intorno. “La cucina sembra un porcile”. “Figurarsi” dice la zia Ada. “La Mara non pulisce niente. Già puliva poco anche prima, figuriamoci adesso”. “Le mani ce le hai anche tu” dice la zia Monica. “Non ci penso nemmeno” dice la zia Ada, spegnendo la sigaretta direttamente nella tazza. “Tanto, prima o poi me ne vado, da 'sto posto”. “Che razza di ragionamento” dice la zia Monica. “Se è per questo, tra poco ve ne andrete tutti, da qui” dice mio padre. “Adesso come adesso, papà non può più permetterselo, di mantenere una casa così grande.” “Papà ci è attaccatissimo, a questa casa” dice la zia Monica. “Preferirebbe morire, piuttosto che venderla”. “Comunque dovrà venderla lo stesso” dice papà. “Sai quanto me ne frega” dice la zia Ada. “Vivere qui con lui e la Mara. Vorrei proprio vedervi, al mio posto. Sai quanto me ne frega, se la vende”. “In ogni caso, non c'era affatto bisogno che tu fossi così sgarbata con la Mara” dice la zia Monica. “Lo sai com'è fatta. Adesso terrà il muso per una settimana”. “Sai quanto me ne frega, di lei e del suo pranzo” dice la zia Ada. “Non ho proprio nessunissima voglia di vedermi intorno la sua faccia, in una giornata come questa. Così almeno se ne sta per conto suo, invece di venirci continuamente fra i piedi “.
“C'è ancora un po' di caffé?” chiede papà. “Certo” dice la zia Monica. “ami la tazzina”. “Che tempo” dice la zia Ada, sbadigliando. “Io quasi quasi me ne torno a letto”. “Che ore saranno?” chiede la zia Monica. “Ho lasciato i bambini alla sorella di Enzo, non vorrei che...” “Le undici e mezza” dice papà guardando l'orologio. “Solo?” dice la zia Monica. “Non è durato tanto” aggiunge, rivolta a papà. “No, infatti. È stato molto breve” risponde lui, asciutto. “Grazie al cielo” commenta la zia Monica. Papà non dice niente. “Mi spiace che tu ti sia sacrificato” dice lei, sulle difensive. “Potevi benissimo fare a meno di andare”. “Praticamente sta nevicando” dice la zia Ada, che nel frattempo si è alzata, guardando dalla portafinestra del giardino. “Per terra è tutto bianco”. “Beppe ha chiamato, almeno?” chiede papà. “Sì, ha telefonato prima. Mentre eravate lì” risponde la zia Monica. “Ha detto che sarebbero ati”. “Lui e la Betti?” chiede papà. “Sì” dice la zia Monica. “Così mi ha detto”. “Vuoi scommettere?” dice papà. La zia Monica ride. “Con questo tempo, poi” dice papà. “La Betti avrà paura di rovinarsi la piega”. “Che ci vuoi fare” dice la zia Monica. “Basta non aspettarsi niente” dice. “Ah, questo è poco ma sicuro” dice papà.
Cala un breve silenzio. Si sente solo lo scroscio incessante della pioggia. “Mi sa che non rimane, la neve” dice la zia Ada. “Che peccato. Tra poco sarà tutta una fanghiglia”. “Sì, saranno ati almeno quindic'anni” dice la zia Monica, rivolta a papà. “Io mi sono sposata pochi mesi dopo”. “Già” dice papà. “Pare un'eternità” dice. “Non sembrava più lei” dice la zia Monica. Papà non dice niente. Si accende una sigaretta. “Era brutta” dice la zia Monica. “Era sciatta. Non parlava con nessuno. E poi, non voleva lavarsi.” Papà non dice niente. “Ti ricordi com'era elegante, prima?” dice la zia Monica. Papà non risponde. Continua a fumare in silenzio. “Io la odiavo, quando è tornata” dice la zia Monica. “Non parlare così della mamma” dice la zia Ada, voltandosi a guardarla. “Non ti permetto di parlarne così”. “Che ne sai, tu” dice la zia Monica. “Eri ancora una bambina”. “Io me la ricordo, la mamma” dice la zia Ada. “Me la ricordo benissimo”. “Te la ricordi anche prima che si ammalasse?” chiede la zia Monica. “Certo che sì” dice la zia Ada. “Non è possibile” dice la zia Monica “eri troppo piccola”. “Io me la ricordo benissimo” dice la zia Ada. “E cos'è che ti ricordi?” chiede la zia Monica.
“Mi ricordo i capelli” dice la zia Ada. “Aveva dei capelli così neri”. “Già” dice la zia Monica. “Erano bellissimi, i suoi capelli.” “E mi ricordo un giorno che eravamo qui in cucina e lei aveva una vestaglia con delle rose gialle...” “La vestaglia giapponese” dice la zia Monica. “Se la metteva sempre. Dopo che se n'è andata, la Mara ci ha messo subito le mani sopra. In men che non si dica l'ha ridotta uno straccio, da quella zozzona che è. Chissà perché papà gliel'ha permesso”. “Dubito fortemente che lei glielo abbia chiesto” dice papà. “Una vestaglia con le rose gialle” dice la zia Ada. “Me la ricordo benissimo”. “Forse dovremmo andare a vedere come sta” dice la zia Monica. “Papà, voglio dire. Era stravolto, quando siete tornati”. “Credo che si sia chiuso in camera” dice papà. “Ada, vai tu?” chiede la zia Monica. “Non ci penso nemmeno” dice la zia Ada. “Non essere così cattiva” dice la zia Monica. “Papà avrà i suoi difetti, non dico di no, ha fatto i suoi errori, ma in fin dei conti...” “È da ieri che lo sento ripetere che lei è una santa, e finalmente adesso è in paradiso” dice la zia Ada. “Non ho voglia di sentirlo di nuovo”. “Non essere così cattiva” dice la zia Monica. “Tu non sei qui tutto il santo giorno” dice la zia Ada. “Non sei tu che devi sopportarlo”. “Se ti sposavi con quel povero Riccardo” dice la zia Monica “invece di mandare a monte il matrimonio, a quest'ora te n'eri andata anche tu”. “Non voglio mica fare la tua fine” dice la zia Ada. “Sposarsi a vent'anni, e fare subito due figli. No, grazie. Non è roba per me.”
“Certo” dice la zia Monica. “Sei troppo fine, tu, per questo genere di cose. Troppo superiore. Chissà cosa ti credi. Intanto, però, a ventisei anni suonati, non hai neanche uno straccio di...” “Per favore” dice papà. “Vi pare questo il momento...” “Hai ragione” dice la zia Monica. “Scusa”. C'è un breve silenzio. La zia Monica guarda papà con attenzione. “Hai l'aria un po' tirata” dice. “È stato tanto brutto?” Papà fa un gesto d'insofferenza. La zia Monica distoglie lo sguardo. “Me lo ricordo come fosse adesso” dice la zia Ada. “Noi eravamo qui a fare colazione, e poi è entrata lei, con la vestaglia giapponese. C'era il sole. A un certo punto Pippo è saltato sul tavolo, e ha rubato la ciambella di Beppe. Lei è scoppiata a ridere. Stava lì, in piedi” indica un punto davanti a sè. “Ha buttato indietro la testa, con i capelli sciolti che le arrivavano in vita, e si è messa a ridere come una bambina. Aveva una risata così allegra...” “Non è possibile che te lo ricordi” dice la zia Monica. “Eri troppo piccola”. “Me lo ricordo come fosse adesso” dice la zia Ada. Papà si alza in piedi. “Ho bisogno d'aria” dice. “Te ne vai?” chiede la zia Monica, spaventata. “Ho solo voglia di camminare un po'” dice papà, infilandosi il cappotto. “Aspetta. Fuori c'è il diluvio” dice la zia Monica, alzandosi a sua volta come per trattenerlo. Lui si mette il cappello. “Dite a papà che lo chiamo più tardi” dice, aprendo la portafinestra. Una folata di pioggia gelida si riversa nella stanza. Papà, alzando il bavero del cappotto per difendersi dalle raffiche, s'incammina velocemente lungo il vialetto. Le sorelle,
in piedi fianco a fianco, lo guardano in silenzio mentre si allontana.
“Era la sua pistola da partigiano” dice il dottor Valli. Il suo uditorio è composto dalla moglie e dalla suocera, sedute sul divano del soggiorno, entrambe morbosamente attente. Sono circa le tre del pomeriggio, le persiane della stanza sono abbassate. A differenza delle due donne, il dottor Valli non riesce a sedersi. Misura il soggiorno a grandi i, con le mani incrociate dietro la schiena. È un uomo alto e corpulento, con folte sopracciglia a cespuglio, e orecchie eccezionalmente carnose. In questo momento è estremamente agitato. Non si era mai trovato alle prese con un suicidio, e men che meno di una persona di sua conoscenza. La stessa parola “suicida” sembra quasi indecente, riflette, applicata a qualcuno che si conosce. Il dottor Valli non riesce a capacitarsi. Soprattutto, e questa è la cosa che ha meno voglia di ammettere, non riesce a cancellare dalla mente la scena che si è trovato davanti quel mattino. “Dio mio” dice sua moglie. “Che cosa terribile”. “Già” dice il dottor Valli. “Oggi dovevano partire per il mare” aggiunge, come se questo particolare rendesse l'accaduto ancora più inspiegabile. “E quella povera Luisa?” chiede sua moglie. “Ah, ti puoi figurare!” interviene la signora Tancredi. “Non l'ho nemmeno vista, la Luisa. E per non farsi vedere da me, che la conosco da quando è nata, te lo puoi immaginare, come sta”. La crocchia ossigenata si è completamente disfatta, rivoli di sudore le scorrono sulle guance sciogliendo gli ultimi rimasugli di trucco – tracce nere di rimmel, resti di ombretto azzurro, chiazze rossastre di belletto. Appollaiata sul divano con espressione tragica, il fazzoletto in mano, ha più che mai l'aspetto di una maitresse in disarmo, con un tocco ispirato, oracolare, di pizia dolente, di pitonessa che predice sventure. “Ho dovuto imbottirla di tranquillanti” dice il dottor Valli, rivolto a sua moglie. Esita, poi prosegue: “È stata lei a trovarlo, capisci”. “Che disgrazia” dice la signora Tancredi.
“Chissà che gli è ato per la mente” dice sua figlia. “Senza alcun dubbio, un momento di follia” dice il dottor Valli, grattandosi cautamente un orecchio. “Non c'è nessun'altra spiegazione”. “In un modo o nell'altro” sentenzia la signora Tancredi “le tare ereditarie prima o poi vengono fuori, non c'è niente da fare. Quando glielo dicevamo, io e sua mamma, la Luisa a momenti ci rideva in faccia. Diceva che eravamo due ignoranti. E adesso guarda cosa le è toccato...” “Poveretta” dice la signora Valli, con sincera partecipazione. “Anche la sorella più piccola di lui, mi sa che non è mica tanto a posto” dice la signora Tancredi. “L'Ada?” chiede sua figlia, incredula. “Non so come si chiama. La sorella minore. Anche lei, non è mica tanto a posto, mi sa” dice la signora Tancredi. “Ma va là” dice sua figlia. “La conosco benissimo, l'Ada. Era a scuola con noi al Sacro Cuore. Non nella stessa classe, lei era un po' più piccola. La conosco benissimo. È una ragazza normale, normalissima, proprio. Casomai un po' chiusa, ma certamente non...” “E allora mi devi spiegare” dice la signora Tancredi in tono di trionfo “com'è che per due volte sembrava sul punto di sposarsi, tutti i preparativi fatti, praticamente era già sull'altare, e poi all'ultimo momento, patatrac, il matrimonio è andato a monte. Così, senza motivo. Il secondo, poi, era anche di ottima famiglia. Erano fidanzati in casa, i genitori contenti, tutto in perfetta regola. Un bravissimo ragazzo. Conosco sua madre. Di sicuro non è colpa di lui. E poi, per due volte di seguito... Ti dico che non è mica apposto con la testa, neanche lei”. “Ma va là” dice sua figlia. “E allora no” dice la signora Tancredi. “Tanto, alla fine ci vedo sempre giusto, in queste cose”. “Ma se ti dico che era normalissima. Tenuta molto in casa, questo sì. I fratelli la guardavano a vista.”
“E perché?” chiede la signora Tancredi, con l'aria di fiutare una traccia. “Probabilmente, avevano paura che scape anche lei. La maggiore è scappata per sposarsi, lo sai, no? Non aveva ancora vent'anni. Pare che il padre fosse contrarissimo alle nozze.” “Lo credo bene” dice la signora Tancredi. “Si è sposata con un morto di fame. Lo credo bene, che il padre era contrario”. “Quanti pettegolezzi” dice il dottor Valli, con una certa rudezza. “Mi pare che potreste avere un po' più di riguardo, dopo una disgrazia del genere”. “A me lo dice” la signora Tancredi è indignata. “Figurarsi se io non ho riguardo. La Clara è la mia migliore amica, per sua norma. Che poveretta non si riprenderà mai più, dopo un colpo così. Si può immaginare se io non ho riguardo. Non c'è proprio bisogno che me lo venga a dire”. “Io penso, mamma, con tutto il rispetto” dice fermamente il dottor Valli “che certe volte farebbe meglio a tenere la lingua un po' più a freno”. Fieramente, la signora Tancredi si alza. “È ora che me ne vada a casa” dichiara, piazzandosi davanti allo specchio, nel tentativo, vano, di sistemare la sua precaria acconciatura. “In fin dei conti” farfuglia, con la bocca piena di forcine “è da questa mattina che sono in giro, con un caldo così. E non certo per mio divertimento”. Si guarda allo specchio con corruccio. La situazione non è migliorata di molto. Sospirando, si tampona la fronte e il naso con il piumino della cipria, e si a il rossetto sulle labbra. Poi afferra la borsa, e sbatacchiandola con malagrazia si avvia verso l'uscita. Sua figlia accenna ad alzarsi. La signora Tancredi la blocca, con gesto degno di una grande attrice. “Non scomodarti” dice in tono sprezzante. “Conosco la strada”. Mentre percorre il corridoio, si sentono i suoi i ticchettare in lontananza, accompagnati da un irato borbottio di cui arrivano frasi staccate: “Venire a far lezione a me... pulirsi la bocca prima di rivolgermi la parola... dopo che l'ho
trattato sempre come un figlio... neanche un briciolo di riconoscenza... per quel che me ne faccio della sua opinione...” La porta sbatte con violenza alle sue spalle. Dopo la sua uscita di scena, tra i due coniugi cala il silenzio. La signora Valli sospira. “Lo sai com'è la mamma” dice conciliante. “Non lo fa mica per cattiveria”. “Lo so, lo so” dice il dottor Valli. “ Alla Clara è davvero affezionata. E anche alla Luisa, sai. L'ha vista nascere, praticamente” dice la signora Valli. “Lo so” dice il dottor Valli. “È che in certi momenti, tutto 'sto taglia e cuci...” La signora Valli sorride leggermente. “È fatta così” dice. Il marito la guarda mentre gli sorride, remota e rassicurante al tempo stesso. Com'è bella, pensa il dottor Valli, guardando i suoi strani occhi azzurro cupo, e l'onda di capelli scuri che le incornicia la fronte bianchissima. Una combinazione di colori piuttosto rara, pensa il dottor Valli con orgoglio. Per l'ennesima volta si chiede, con stupore misto a devozione, com'è possibile che abbia scelto proprio lui. Per l'ennesima volta, si sente umile, grato e pieno di reverenza, e soprattutto spropositatamente inadeguato. “Come sei bella” dice, quasi senza respiro. La signora Valli sorride nuovamente. Con un gesto tranquillo, con lentezza, comincia a sciogliersi i capelli che abitualmente tiene legati dietro la nuca. Di solito, lui lo sa bene, questo gesto da parte sua è un segnale di disponibilità sessuale: ma in pieno giorno, con i domestici in casa, è mai possibile...? Il dottor Valli non riesce a credere ai suoi occhi. E se il bambino per caso si svegliasse? E se per caso qualcuno li sentisse? È mai possibile che lei non ci pensi? La moglie si volta a guardarlo, con i capelli sciolti sulle spalle. Eppure... Il dottor Valli, con infinita precauzione, allunga una mano verso di lei, e leggermente, con
delicatezza, le sfiora i capelli con la punta delle dita. Lei continua a guardarlo imperscrutabile, chinandosi impercettibilmente nella sua direzione. Il dottor Valli sente il suo cuore accelerare i battiti. Allora non mi ero sbagliato, pensa, e trattenendo il fiato, con le mani che gli tremano, fa scivolare lentamente le dita sul suo seno.
Una sera d'autunno di cinque anni prima, la mamma veniva condotta per la prima volta a conoscere la famiglia del futuro sposo. Era una serata umida e deprimente di fine ottobre, piovigginava. Papà era venuto a prenderla in macchina, e per tutto il tragitto aveva parlato d'altro, mentre lei continuava nervosamente a controllarsi il viso nello specchietto del portacipria. Avrebbe tanto voluto chiedergli se la trovava presentabile, ma non ne aveva avuto il coraggio. Nei giorni precedenti, era stata occupata principalmente a scegliere il vestito da mettersi, perché, anche se dopo la guerra la sartoria del nonno aveva subito un pesante tracollo, e i maestosi ateliers dei tempi d'oro si erano ridotti a tre misere stanzette, con la Mara come unica lavorante, la mamma temeva ugualmente moltissimo il giudizio del futuro suocero, la cui antica reputazione di gran maestro di eleganza, seppur sbiadita, aleggiava ancora nei racconti di alcune signore. Alla fine si era decisa per un tailleur grigio e marrone della Belguardi, la sarta che al momento in città andava per la maggiore. Di solito la mamma, a differenza della nonna, non prestava grande attenzione a quello che indossava, ma stavolta ce l'aveva messa tutta. Purtroppo non sapeva che il nonno disprezzava profondamente la Belguardi, la quale in ato era stata apprendista da lui, e oltretutto la considerava una traditrice della peggior specie, perché man mano gli aveva sottratto tutte le clienti. Quindi, in perfetta innocenza, aveva scelto quel tailleur che le era parso sobrio e molto adatto alla stagione, e che a suo avviso le dava l'aria di una ragazza estremamente ammodo, il tipo di ragazza che tutti vorrebbero per nuora. Per tutta la strada aveva risposto a papà in modo meccanico; non avrebbe saputo dire nel modo più assoluto di che cosa avessero parlato. Il tragitto, attraverso una sfilata di viali alberati, le era sembrato enormemente lungo. Alla fine papà aveva parcheggiato davanti a un pesante cancello di ferro battuto. L'aveva fatta scendere, aveva aperto il cancello che cigolava come se non venisse oliato da secoli, e le aveva fatto strada lungo quello che originariamente doveva essere un
vialetto. Al momento era talmente cosparso di foglie fradicie – “Attenta a non scivolare” le aveva detto papà sorreggendola per il gomito – e ingombro di erbacce di ogni tipo, che si faticava non poco a distinguerne il tracciato. La mamma avanzava con esitazione, appoggiandosi a papà, timorosa di sporcare di fango le scarpette nuove, anche quelle acquistate per l'occasione. Per quel poco che riusciva a intuire nella semioscurità, il giardino, gigantesco, sembrava in uno stato di totale abbandono. Nessuna luce lo rischiarava – né un lampioncino, né un faretto, né qualsiasi cosa si usi generalmente per illuminare un giardino. Le piante apparivano enormi e inselvatichite. Dal buio, al suono dei loro i, erano partiti una serie di latrati – alcuni più profondi, altri più acuti. La mamma aveva avuto paura. Non riusciva a capire da dove venissero i latrati: sembrava che i cani fossero parecchi, e si muovessero nelle tenebre tutto intorno a loro. Poi, all'improvviso, due sagome oscure erano balzate sul vialetto a gran velocità, schizzando fango da tutte le parti. “Buono, Max” aveva gridato papà, rivolto a un grosso pastore tedesco, che procedeva verso di lui a gran falcate. “Buono” aveva ripetuto, mentre il cane cercava di appoggiargli le zampe sulle spalle. “Giù” aveva detto. “Non aver paura” diceva intanto alla mamma, continuando a sorreggerla. “È grosso, ma non fa male a nessuno”. La mamma gli aveva sorriso coraggiosamente. Temeva soprattutto che il cane saltandole addosso imbrattasse di fango il costosissimo tailleur della Belguardi, rovinando definitivamente il suo ingresso. Aveva fatto un piccolo involontario gesto di ripulsa con la mano, inteso a scoraggiare le avances dell'animale. Nel frattempo erano stati raggiunti dal secondo cane, una bestiola piccola e storta con le orecchie a punta, che abbaiava come un disperato saltando ripetutamente, nel tentativo, palesemente impraticabile, di leccare la faccia a papà. “Questo è Pippo” aveva detto papà, a mo' di presentazione. “Su, su” aveva gridato, rivolto ai cani, che avevano invertito la rotta precedendoli di corsa verso la casa, sempre con grande accompagnamento di latrati. “È un po' buio qui” aveva detto la mamma con una risatina nervosa, mentre papà continuava a sostenerla nella sua faticosa avanzata. “Sì, be', il giardino non è molto curato, ultimamente” aveva detto papà scrollando le spalle. “Sai, una volta c'era un giardiniere. Forse dovremmo mettere dei lampioncini”.
La mamma non aveva replicato. Finalmente erano arrivati a qualcosa che sembrava un portico, anche questo ricoperto di foglie marcite, che evidentemente nessuno si sognava di spazzare. Papà l'aveva aiutata a percorrere gli ultimi metri senza sprofondare nel tappeto di foglie bagnate, poi aveva aperto una portafinestra, dicendo: “Scusa se entriamo dalla cucina”, e finalmente aveva una luce. La mamma aveva respirato di sollievo. Dalla cucina, grande e disordinata, erano ati in un ingresso gelido, su cui si apriva la porta illuminata del soggiorno. I cani li avevano preceduti. Giacevano ansanti ai piedi di un signore vestito di scuro, dai capelli grigi accuratamente pettinati all'indietro, seduto in una grande poltrona damascata dalla tappezzeria piuttosto logora. Il signore si era alzato in piedi per accoglierli. Teneva nella mano destra un bastone dall'impugnatura d'argento, che sembrava più un vezzo che una necessità. Nella stanza c'era anche qualcun altro, ma la mamma in quel momento aveva occhi solo per il nonno. Papà l'aveva spinta avanti, sempre sorreggendola leggermente per il gomito. “Papà” aveva esordito “questa... “ “Quello è un tailleur della Belguardi!” aveva ruggito il nonno interrompendolo, puntando un dito accusatore in direzione della mamma. Per un attimo, la mamma aveva sperato che la terra le si spalancasse sotto i piedi. Con aria profondamente oltraggiata, il nonno si era diretto verso di lei a grandi i, fermandosi a una distanza sufficiente per esaminare il tailleur nei particolari. “Quella donna non sa fare i revers” aveva esclamato infine, in tono di amaro trionfo, come davanti alla conferma di una legge universale. “Li riconosco subito, io, i revers della Belguardi. Li riconoscerei fra mille. Guarda” aveva detto, prendendo fra due dita l'oggetto incriminato, rivolto a una donna che stava sopraggiungendo alle sue spalle. La mamma, troppo confusa per osservarla attentamente, aveva intravisto una bocca dipinta di scarlatto, e un viso spigoloso dall'espressione dura. La donna si era infilata gli occhiali, che portava appesi al collo con una catenella. Aveva scosso la testa con una smorfia di riprovazione: “E questo sarebbe un tailleur di sartoria” aveva detto. La sua dizione era leggermente artefatta, come se dovesse continuamente sorvegliarsi per mascherare l'accento dialettale. “Hai visto?” aveva detto il nonno, continuando a brandire gli orli della giacca.
“Fossero solo i revers” aveva detto la donna. “È tutta la giacca che non funziona. Guarda le pinces, come cadono male”. Il nonno aveva fatto un gesto, il suo antico gesto da mago, evocando dal nulla le pinces che sarebbero cadute nel punto giusto. Aveva afferrato la giacca della mamma al disopra del seno, arricciandola leggermente, per dare una dimostrazione esatta di quel che intendeva. “Così” aveva detto. “Sì” aveva annuito la donna solennemente. “Così dovrebbe essere”. La mamma tratteneva il fiato, sperando di scomparire. Personalmente non riusciva a vedere la differenza – certamente enorme – tra il suo sbagliatissimo tailleur, e il tailleur ideale che il nonno andava tratteggiando. La donna, in piedi di fronte a lei con una mano sul fianco, la fissava – anzi, fissava il tailleur – con freddo occhio professionale. Aveva una pettinatura veramente strana, pensò la mamma. Anche il viso era strano. La mamma si augurò che prima o poi smettessero di guardarla. Doveva avere un'aria infelicissima, perché mio padre a quel punto aveva ritenuto necessario intervenire: “Papà” aveva detto, in tono di contenuta impazienza “se riesci a lasciar perdere un minuto quella giacca, vorrei presentarti la mia fidanzata”. “Ah, sì” aveva detto il nonno, abbandonando finalmente la presa. “Certamente. Siamo qui per questo, no?” Le aveva teso la mano. “Come ti chiami?” aveva chiesto, improvvisamente affabile. “Luisa” aveva balbettato la mamma. “Benvenuta, Luisa” aveva detto il nonno, inchinandosi leggermente. La mamma aveva pensato che aveva una figura davvero elegante. La donna, che lui non si era nemmeno sognato di presentarle, si era fatta avanti di sua iniziativa. “Io mi chiamo Mara” aveva detto, tendendole la mano con un sorriso adulatore. Questa, dunque, doveva essere la vecchia lavorante, pensò vagamente la mamma. Le sorrise a sua volta, incerta sul livello di confidenza da darle. Doveva trattarla come una persona di famiglia? In fin dei conti, se aveva capito bene, era una specie di donna di servizio, però evidentemente, essendo lì da tanti anni...
“Bene. Adesso vado a prepararvi un caffé” aveva detto la donna. “Falla accomodare” aveva ingiunto al nonno, spiccia “non vorrai lasciarla in piedi in eterno”. Poi era uscita dalla stanza, lanciando alla mamma un sorriso più segreto, come una specie di sorriso fra donne, che sottintendeva “possibile che devo dirgli sempre tutto...”. La mamma era rimasta un po' perplessa, ma non aveva avuto il tempo di pensarci, perché il nonno le aveva indicato una poltrona di fronte a lui. Si erano seduti. Papà, aveva notato la mamma, aveva un'aria annoiata e vagamente ironica, come se fosse alle prese con una formalità inutile e ridicola, in definitiva una perdita di tempo. Si rese conto, e fu una constatazione alquanto deprimente, di non conoscerlo ancora a sufficienza per sapere cosa provasse davvero. A uno sguardo più attento, rimarcò, l'impeccabile completo scuro del nonno rivelava qualche segno di usura, e le scarpe, ora che le vedeva a pochissima distanza, non potevano certo dirsi nuove. Doveva essere terribile, pensò, per un uomo così esigente, e che ai suoi tempi, a quanto si narrava, possedeva un guardaroba principesco. Si chiese come ci si sentisse ad andare in rovina: perché questo era il termine, no? andare in rovina, per una condizione come quella del nonno. Papà si era una sigaretta, e si era messo ad accarezzare i cani, come per distanziarsi dalla situazione. La mamma si era rannicchiata nella poltrona, a disagio, mentre il nonno la fissava con espressione vacua, evidentemente alla ricerca di qualcosa da dire. Benché nella stanza non fe affatto caldo, si era levata rapidamente la giacca, per eliminare almeno una parte, peraltro la più contestata, dell'ignominioso tailleur. Sperò che il nonno non trovasse niente da ridire sul golfino che portava sotto. Si trattava in effetti di un semplicissimo golfino grigio, che difficilmente, pensò, poteva incorrere in gravi motivi di biasimo. La sua mossa si rivelò indovinata, perché il nonno spostò finalmente lo sguardo dall'abbigliamento al viso della mamma, che esaminò con una certa attenzione. Sembrò trovarlo di suo gusto, perché disse, rivolto a suo figlio: “Comunque, una graziosa figliola”. Le sorrise. Un lampo dell'antico fascino balenò per un attimo sul suo volto segnato, un volto dai lineamenti forti che, alla luce di quel lampo rivelatore, la mamma trovò improvvisamente molto bello. Un po' riconfortata, ricambiò timidamente il sorriso.
“Quanti anni hai?” chiese il nonno. “Ventidue” rispose la mamma. “Molto bene” disse lui. Lanciò a suo figlio uno sguardo di approvazione, che papà finse di non vedere. “L'età giusta per sposarsi. Per una donna, naturalmente” si era affrettato ad aggiungere. La mamma, che stava ancora finendo l'università, e a cui non sarebbe dispiaciuto continuare a lavorare, si era ben guardata dal fare obiezioni. Era scontato che la nuora ideale non avrebbe fatto obiezioni, su quel punto. A dire il vero, non era del tutto certa che papà non la pensasse allo stesso modo. In quel momento, la donna di nome Mara era rientrata portando un vassoio con caffé e pasticcini, che aveva deposto davanti alla mamma. Era evidente, dato il tenore generale della casa, che i pasticcini erano stati comprati apposta per lei, cosa che invece di metterla a suo agio la faceva sentire ancor più in imbarazzo. La donna aveva versato il caffé e distribuito le tazzine, poi si era seduta accanto alla mamma guardandola con aria incoraggiante e incitandola a servirsi, cosa che lei aveva fatto con una certa esitazione, prendendo una pasta dall'aspetto sobrio invece del bigné al cioccolato che avrebbe preferito. “Mangia, cara” le aveva detto la donna. “Non fare complimenti. Ci fa piacere che la gente mangi volentieri”. “Adesso non cominciare a ingozzarla come il tuo solito” le aveva detto il nonno bruscamente. “Deve sempre trovar da criticare” aveva detto la donna alla mamma, con aria confidenziale. “Non la sto affatto ingozzando” aveva proseguito, rivolta al nonno. “Le ho solo detto di non fare complimenti. Non lo vedi com'è timida?” Benché la mamma fosse ancora molto ingenua, tuttavia nell'atmosfera fra i due, un'atmosfera di rancorosa intimità malcelata, perfino lei avvertiva qualcosa che non quadrava con la versione fornitale da papà. Tutt'a un tratto le sembrò molto strano che la donna si comportasse in quel modo, quasi, sì, quasi come una padrona di casa. Da quel poco che papà le aveva detto, le era sembrato di capire che le sue funzioni fossero essenzialmente quelle di una governante. Del resto, pensò la mamma, il cui razzismo era completamente inconsapevole, non c'era dubbio sul fatto che la poveretta, anche se faceva di tutto per nasconderlo, fosse
una donna, come dire? di basso ceto, ecco. La voce della nonna si levò dentro di lei, emettendo un mormorio di disapprovazione. Sembrava proprio una di quelle situazioni, pensò la mamma, che sua madre avrebbe definito alquanto irregolari, anzi, decisamente sconvenienti. Adesso si ricordava vagamente che in effetti la nonna le aveva accennato a qualcosa del genere, ma solo oscuramente, in forma estremamente ellittica, come sempre del resto quando si trattava di questioni che attenevano al sesso – peggio ancora se attenevano al sesso e alla differenza di classe. Sull'onda di questi pensieri, e allo scopo di dimostrarle che non la disprezzava, sorrise angelicamente alla Mara, e prese scrupolosamente un secondo pasticcino. La Mara ne fu contenta. Cominciò a chiacchierare senza sosta e in maniera incoerente, raccontando alla mamma una serie di aneddoti sui “ragazzi”, come chiamava papà e i suoi fratelli. La mamma notò che nei racconti, al contrario di quanto segnalava nel comportamento, aveva cura di dipingersi sempre come subalterna, pur senza menzionare esplicitamente il proprio ruolo. Gli aneddoti, riferiti con intento umoristico, riguardavano soprattutto l'adolescenza dei “ragazzi”, e si capiva che la narratrice li aveva ripetuti molte volte, adattandoli a diversi uditori. Papà, che in questi resoconti veniva menzionato di continuo, cominciava a mostrare un fastidio crescente. A un certo punto si era addirittura alzato in piedi, e si era avvicinato alla finestra per guardare fuori. Il nonno, seduto in poltrona con espressione assente, fumava lentamente un sigaro in assoluto silenzio. Sembrava che non ascoltasse affatto. Al mignolo, notò la mamma, portava un anello d'argento con una pietra nera dalla montatura quadrata, al centro della quale era inciso qualcosa, forse uno stemma. Quando la Mara si era fermata per riprendere fiato, papà si era voltato e aveva chiesto bruscamente: “L'Ada dov'è?” “Ah, lo sai tu?” aveva risposto la Mara, garrula. “Ci ha detto che andava al cinema con quel ragazzo, quello con cui si vede ultimamente, come si chiama?” “Paolo” aveva detto il nonno, togliendosi per un attimo il sigaro di bocca. “Paolo” aveva confermato la Mara. “Un suo compagno di corso, che negli ultimi tempi...”
“Io non capisco” l'aveva interrotta papà. “Da quando in qua la fate uscire sola con degli sconosciuti?” La mamma non aveva potuto impedirsi di pensare che papà era davvero troppo protettivo, con la sorella più piccola. La povera Ada – la mamma se la ricordava ai tempi del liceo, quando lei e papà non si conoscevano ancora. Con le compagne non usciva quasi mai, la famiglia la teneva praticamente sotto chiave. Non c'era da stupirsene, pensò, se aveva cominciato a ribellarsi. “Ma non è affatto uno sconosciuto” aveva protestato la Mara. “È venuto qui un sacco di volte. Tu non c'eri. Ma ti assicuro che è uno perbenissimo, sennò tuo padre non l'avrebbe lasciata...” “Non sono da soli” aveva detto il nonno, soffiando fuori una boccata di fumo. Puzzolentissimo, pensava la mamma, alla quale stava venendo un accesso di tosse, che tratteneva per non sembrare maleducata. “C'è anche una sua amica”. “In ogni caso, non sono ancora le sei e mezza” aveva detto la Mara. “Vedrai che per le sette sarà qui. Le farà piacere vederti” aveva aggiunto, rivolta alla mamma. “Se non sbaglio, vi conoscete dalla scuola...” La mamma stava per rispondere affermativamente, ma papà le aveva troncato le parole in bocca: “Per quell'ora, la Luisa dev'essere già a casa, non è vero?” aveva detto, guardandola con intenzione. “Anzi, forse sarebbe meglio che ci muovessimo subito, non credi?” “Quando vuoi” aveva detto la mamma, spaventata. Papà sapeva benissimo che i suoi orari erano abbastanza flessibili. Non ricordava come si fossero congedati. Papà l'aveva letteralmente trascinata via, come se non potesse reggere la situazione un minuto di più. I cani li avevano seguiti fino al cancello, abbaiando a distesa sotto la pioggia che cadeva sempre più fitta. In macchina erano rimasti in silenzio per un pezzo, finché la mamma non aveva arrischiato: “Tuo padre è ancora un uomo affascinante. Da giovane doveva essere bellissimo”. Non c'era stata nessuna risposta. La mamma aveva considerato l'ipotesi di dire qualcosa di gentile sulla Mara – anche se le riusciva difficile immaginare cosa –
ma il terreno le era sembrato troppo scivoloso, e aveva preferito continuare a tacere. Per la prima volta da quando usciva con papà, vedere le luci di casa le aveva procurato un senso di sollievo. La pioggia adesso stava cadendo a scrosci. Papà aveva fermato la macchina davanti al portone: di solito, quello per loro era il momento delle effusioni, ma quella sera non c'era stato niente, neanche l'accenno di un bacio. Lui si era limitato a dirle: “Corri dentro, altrimenti ti bagni”. La mamma gli aveva ubbidito. Mentre saliva le scale, non era riuscita a trattenere le lacrime.
Quando finalmente ne abbiamo parlato, ho capito che per lui quel lontano pomeriggio d'estate era vivo e presente quanto può esserlo un rimorso – presente come una persona amata e perduta, una persona a cui pensiamo ogni giorno. Sembrava stranamente sollevato, e in qualche modo grato della mia visita, come se gli venisse offerta un'occasione a lungo attesa, l'occasione di spiegare e discolparsi, disponendo in bell'ordine le sue attenuanti, e forse di venire assolto una volta per tutte. Era sera quando ci siamo incontrati, una sera di settembre già autunnale, con un leggero brivido nell'aria. L'oscurità non era ancora scesa. Nel cielo si attardavano lunghe strisce rosate; era il momento in cui il colore si fa più , poco prima di venir inghiottito dal buio. Lui mi aveva accolto nel suo studio, le cui finestre spalancate davano su un silenzioso giardino interno, da cui arrivava il mormorio di una fontana. Dopo la morte della moglie viveva solo, accudito da una governante. Allora era già molto anziano, anche se gli occhi azzurri erano ancora sorprendentemente limpidi, e la stretta di mano veloce, fresca, asciutta, una stretta di mano giovanile. Era stato il suo migliore amico – o almeno, così riteneva, disse. Certamente erano stati molto uniti, fin dai tempi del loro primo incontro, che era avvenuto all'università. Erano tempi di grandi ioni, disse. Loro le avevano condivise. Erano rimasti amici anche dopo, attraverso le rispettive carriere e matrimoni; avevano continuato a frequentarsi, sempre. Tutto questo io più o meno lo sapevo. Mentre sedeva al suo scrittoio, con la luce del giorno morente alle spalle, i capelli ormai bianchi che scintillavano
quietamente e il viso completamente in penombra – non aveva ancora la lampada, forse per prolungare quel lento crepuscolo – io lo osservavo in silenzio, aspettando che venisse al punto. Non sapevo quale fosse, ma sentivo che sarebbe arrivato. Lo si intuiva da quel suo tortuoso avvicinarsi. A un certo punto si era imbarcato in una spiegazione faticosa, interrompendosi più volte, guardandomi come in cerca d'aiuto. L'esposizione era piuttosto confusa, ma capii che la questione ruotava intorno a un biglietto, che papà a quanto pare gli aveva lasciato il giorno prima di uccidersi. Sembrava convinto che io ne fossi a conoscenza. Quando vide che non sapevo nulla, sospirò profondamente, e tacque. Nella stanza ò qualcosa – un'emozione lungamente trattenuta, il sentore di lacrime represse. Poi l'uomo – Sergio, così si chiamava – cominciò a raccontare. Quel giorno, il pomeriggio del trentun luglio, lui si trovava in un appartamento nei pressi di Prato della Valle: in realtà, poco più di una soffitta. L'unico pregio della casa era una grande finestra da cui si vedevano le cupole del Santo. Non che a lui interessasse. In quel momento, era disteso sul letto davanti alla finestra aperta, con la testa sorretta dai cuscini, mentre al suo fianco la ragazza dormiva di un sonno profondo, infantile. La ragazza si chiamava Ester. I suoi capelli, come una soffice cortina di seta nera, le coprivano metà del viso, sollevandosi leggermente al ritmo del respiro. Nel sonno aveva allungato un braccio, appoggiandolo mollemente sul suo petto. Lui stava immobile per non svegliarla, osservando il candore di quel braccio, la grana sottile della pelle, la peluria leggerissima che lo copriva. Avrebbe potuto restare in quella posizione per ore. Aveva perso il senso del tempo, insieme a svariate altre cose – gli scrupoli nei confronti di sua moglie, i timori per la sua reputazione, qualunque elementare forma di prudenza. Stava semplicemente lì, pago di quel respiro, del peso di quel braccio sul suo petto, aspettando che lei si svegliasse. La relazione con la ragazza durava da pochi mesi, non più di quattro o cinque. All'inizio, prima di soccombere, lui aveva resistito: questo mio padre avrebbe potuto testimoniarlo, se fosse stato ancora in grado di testimoniare qualcosa. Sergio ricordava perfettamente, e nei particolari, una lunghissima nottata alcolica (alcolica per lui, papà aveva bevuto pochissimo) in cui gli aveva rovesciato addosso tutto il suo dilemma. A quel tempo la storia non era ancora iniziata. Doveva essere più o meno la fine di dicembre, si ricordava che faceva molto freddo. Quella notte, gli aveva parlato della tentazione, irresistibile per lui in quel momento, di farsi risucchiare da quel vortice di vitalità che lei era, a vent'anni – sì, aveva vent'anni. Ester a vent'anni: l'anziano uomo nello studio in
penombra si era interrotto per un istante, permettendo a quel fantasma di materializzarsi. Io stessa lo avevo visto chiaramente. Era un fantasma intensamente carnale, quello di una ragazza scura dalla pelle bianchissima, con un magnifico naso semita, e grandi occhi neri sotto le sopracciglia arcuate. A distanza di più di quarant'anni, il suo magnetismo era ancora così forte che la stanza ne era stata invasa. Dopo un momento in cui entrambi eravamo rimasti immobili, in ascolto, Sergio aveva riso sommessamente. “L'hai sentita anche tu, non è vero?” aveva detto. Poi aveva ripreso il suo racconto. Papà era stato paziente con lui, quella notte. Lo aveva sopportato fino a tardi, quando ormai era molto ubriaco, e straparlava. Lo aveva sorretto mentre vomitava, in una stradina dietro Piazza delle Erbe. Lo aveva aiutato a ritornare a casa. In realtà, all'inizio della serata Sergio aveva dichiarato, con assoluta convinzione, che a quella tentazione lui intendeva resistere. Papà aveva finto di credergli. Entrambi, molto assennatamente, avevano concordato sul fatto che quella era senz'altro la cosa più saggia da fare. Sergio a un certo punto aveva addirittura affermato con enfasi – era già un po' ubriaco – che non avrebbe sfiorato la ragazza nemmeno con un dito. Che avrebbe troncato del tutto i rapporti con lei. Che l'avrebbe sacrificata al suo matrimonio – ricordava di aver usato questo termine. Papà si era astenuto dai commenti. Alla moglie di Sergio era molto legato: si conoscevano tutti da tantissimo tempo. Aveva quindi accuratamente evitato di dire cose che potessero irritarlo. Gli aveva risparmiato tutte le prevedibili obiezioni – tipo la differenza di età, o il fatto che la ragazza fosse una sua studentessa. All'inizio, probabilmente, aveva sperato di riuscire a farlo ragionare. Poi, man mano che la notte avanzava e le affermazioni di Sergio, complice l'ubriachezza che aumentava, cambiavano radicalmente di segno, doveva aver concluso che l'amico era ormai ben al di là di ogni ragionamento, e si era semplicemente limitato ad ascoltare. Quando tentava di ricostruire la fine della serata, i ricordi di Sergio si facevano molto più vaghi. Ricordava distintamente l'androne in cui si era fermato a vomitare. Ricordava lo squallido bar illuminato da un neon verdastro in cui papà lo aveva trascinato, costringendolo a bere un caffé. Quel che non ricordava più con esattezza, invece, era che cosa avesse detto. Temeva di aver detto che sarebbe morto, se non avesse avuto la ragazza, o qualcosa del genere. Che per lui era questione di vita o di morte. Era stato melodrammatico, senz'altro. Credeva di ricordare che papà avesse annuito – non sapeva se ironico o rassegnato, forse entrambe le cose.
Dopo quella notte, l'argomento fra loro non era più stato sfiorato, come per un tacito accordo. Quando, non molto tempo dopo, in un soleggiato pomeriggio di febbraio, gli eventi erano precipitati – su un divano della facoltà di giurisprudenza! a ripensarci gli sembrava incredibile – Sergio si era ben guardato dal farglielo sapere. Da quel momento, anzi, aveva evitato il più possibile di trovarsi da solo con lui. La sua intuibile disapprovazione, anche se non espressa, gli pesava, e sapeva che papà avrebbe preferito non essere costretto ad esprimerla. Era convinto, disse, che papà avesse capito benissimo a che punto stavano le cose, e che a sua volta evitasse di parlarne. Questo silenzio prolungato, che non aveva precedenti nella loro amicizia, aveva creato fra loro un imbarazzo. Li aveva allontanati. E questo proprio nel momento, si era rimproverato poi amaramente, in cui papà avrebbe avuto più bisogno di lui. Il raffreddamento nei loro rapporti gli aveva impedito, in quei mesi cruciali, di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Del resto, disse, da quando la sua storia con Ester era iniziata davvero, lui si era allontanato da tutti. Il suo segreto lo aveva isolato. Apparentemente continuava la sua vita di sempre, il lavoro, le cene con gli amici, la quotidianità con Marina – ma il centro della sua esistenza era altrove. Era completamente assorto, concentrato, perduto, nella contemplazione di un'unica cosa, quel continente pieno di meraviglie che era il corpo di Ester. ava i pomeriggi ad esplorarne i confini. Dopo quella prima volta sul divano (la faccenda del divano era stata tipica di Ester, un esempio della sua caratteristica sfrontatezza. Lui non avrebbe mai osato, in un posto pressoché pubblico, con un rischio così alto di venire scoperti), c'erano stati una serie di appuntamenti fugaci in luoghi precari, clandestini, un po' loschi, alberghetti malfamati, stanze fatiscenti che davano su cortili invasi dalle ortiche, luoghi da cui si usciva separandosi in fretta, furtivi, come dei malviventi. Ester si divertiva. Lui non poteva sopportarlo. Oltretutto, quei rendez-vous così affannosi non placavano neanche lontanamente la sua fame. Dopo un paio di mesi aveva preso in affitto l'appartamento di Prato della Valle, un appartamento che in genere veniva affittato agli studenti. La proprietaria aveva fatto delle storie, ma lui le aveva offerto una cifra scandalosamente alta. Da allora, ogni pomeriggio alle tre in punto lui evadeva dalla sua stanza all'università, cercando di are inosservato, accampando fantasiosi pretesti con chiunque tentasse di intercettarlo, studente o collega che fosse, e percorreva a o spedito le strade che lo separavano dal luogo dell'appuntamento, completamente cieco a tutto ciò che aveva intorno. Alle tre e un quarto, sudato, ansante, con il fiato corto, infilava la chiave nella toppa del portoncino, e faceva di volata i tre piani di scale, con il cuore che batteva
pazzamente. A volte, insperatamente, lei era già lì. In questi casi, di solito si era già tolta i vestiti – a Ester piaceva molto stare nuda – e il suo grande corpo bianco risplendeva dal letto, riempiendo la casa con il suo fulgore. La saturava al punto che sembrava non ci fosse più posto per nient'altro. C'erano giorni in cui si alzava e gli veniva incontro, con i capelli che le ondeggiavano sontuosi sulle spalle, la macchia scura del pube che spiccava in tutto quel candore, i seni grandi, già un po' pesanti, dai capezzoli eretti, che si offrivano spontaneamente alle sue mani. Altre volte lo aspettava sdraiata, in silenzio. Lui per un attimo si fermava a guardarla dalla soglia della stanza da letto, mentre, girata su un fianco, lo osservava: poi le si inginocchiava ai piedi, iniziando i suoi quotidiani esercizi di adorazione. La maggior parte delle volte, però, era lui ad arrivare per primo. Entrando e non trovandola, provava sempre una piccola fitta di delusione. Nell'attesa diventava frenetico: camminava su e giù per la casa, sporgendosi dalla finestra a spiare il suo arrivo come se questo gesto avesse il potere di evocarla. Era raro che lei si fe aspettare molto a lungo. Di solito arrivava poco dopo di lui, affannata, radiosa, porgendogli le labbra da baciare e trascinandolo di furia verso il letto. Non aveva pazienza, Ester. Non conosceva limiti. A virtù come la moderazione o la prudenza non riconosceva il minimo diritto di cittadinanza. Era questo a renderla grandiosa, disse Sergio, nello studio ormai invaso dall'oscurità, e sorrise brevemente, ricordando. Arrivavo a malapena a intravedere il suo sorriso. “Ti spiace se non accendo la luce?” mi chiese poi. “Al buio mi è più facile parlare”. Io assentii. Adesso, nel riquadro della finestra il cielo era blu scuro, compatto, con un'ultima striscia più chiara all'orizzonte. Dal giardino, a intervalli, arrivava il richiamo di un uccello notturno. I primi tempi, proseguì, lui si era imposto dei rigidi orari di rientro: doveva essere a casa per la cena, comunque non più tardi delle sette e mezza. Ester naturalmente non ne capiva la necessità, e lo prendeva in giro per questo, ma si sottometteva docilmente a questa regola per lei incomprensibile. Più avanti però, man mano che le giornate si allungavano e la primavera scivolava nell'estate, in quel languore dei crepuscoli che non finivano, staccarsi da lei gli diventava sempre più difficile. Tornava a casa alle otto, poi alle otto e un quarto. Una volta addirittura alle nove. Non ricordava cos'avesse detto per scusarsi. Marina non diceva niente: si limitava a riaccendere il fuoco che aveva spento, lo faceva
sedere alla tavola apparecchiata già da un pezzo, e serviva la cena diffondendosi in dettagli minuziosi sulla propria giornata, senza chiedergli nulla della sua. Sergio le era grato di questo. Naturalmente, quella piccola parte di lui ancora lucida si rendeva conto che l'acquiescenza di lei non poteva durare molto a lungo; che il suo comportamento era dettato dalla speranza che la cosa, qualunque cosa fosse, si esaurisse da sè. Nessuno meglio di lui sapeva quanto fosse ingannevole quella speranza. Ma la parte di lui che in quel periodo era preponderante, quella che non vedeva nulla all'infuori di Ester, preferiva accantonare il problema. Per il momento, Marina lo stava assecondando, e lui non chiedeva di meglio. Quel giorno, quando Ester aveva riaperto gli occhi, il torrido pomeriggio si avviava lentamente alla fine. Sergio, che nel frattempo si era assopito a sua volta, si era svegliato sentendola muoversi al suo fianco. Lei gli aveva sorriso, ancora semiaddormentata. I lunghi capelli neri si aprivano a ventaglio sul cuscino. “Ho dormito tanto?” gli aveva chiesto. “Un po'” aveva risposto lui, chinandosi a baciarla. Ester gli aveva restituito il bacio; poi si era alzata dal letto, sottraendosi rapidamente alle sue braccia. Era andata alla finestra, come per ristabilire una distanza – perlomeno, così gli era sembrato – e si era appoggiata con calma al davanzale, voltandogli le spalle. Sergio era rimasto disteso a contemplare la sua schiena, per metà nascosta dai capelli. Non voleva apparirle pressante. Quando finalmente si era deciso a raggiungerla, lei non si era voltata. Fianco a fianco, avevano contemplato in silenzio il panorama dei tetti, illuminati dal sole radente delle sei. “Sarebbe bello, una volta” aveva detto Ester dopo un po' “andare in una di quelle trattorie vicino al fiume – sai, uno di quei posti che hanno i tavoli fuori, sotto una pergola, e il campo di bocce vicino, quei posti dove si trovano i vecchi per giocare.” Non era affatto una richiesta. Era semplicemente l'evocazione di un'immagine. Ma in un attimo Sergio aveva deciso. “Ci andremo” aveva detto.
Lei si era girata a guardarlo. “Stasera?” aveva chiesto, stupita. “Sì” aveva detto lui, sentendosi molto temerario. “Sei sicuro?” aveva chiesto lei. Nei suoi liquidi occhi orientali era apparso un lieve guizzo di ironia. “Sicurissimo” aveva detto Sergio, in tono di sfida. La trattoria dove l'aveva portata, un paio d'ore dopo, aveva il nome di un'indimenticata ostessa dei tempi andati, famosa per la generosità con la quale elargiva le sue grazie, quasi sicuramente un personaggio leggendario. Il luogo era perfettamente rispondente ai desideri di Ester: c'era la pergola con i tavoli sotto, e c'era il fiume. Quanto al campo di bocce, nell'oscurità non si vedeva, ma lui non aveva dubbi che ci fosse. C'era anche un discreto numero di vecchi che parlavano fra di loro in dialetto, bestemmiando di frequente. L'insieme era piaciuto molto a Ester. Avevano mangiato soppressa e bevuto vino, il vino rosso dei colli, aspro e forte. Ester rideva, con la sua bocca grande, leggermente violacea, e i denti scintillanti, rovesciando la testa all'indietro e mostrando la bianca, morbida gola. La notte era calda e buia, senza luna, in sottofondo si sentiva il mormorio del fiume. Quando Ester si era alzata in piedi – quella sera portava un vestito verde acqua a piccoli disegni, con la cintura stretta in vita e la gonna molto ampia, Sergio lo ricordava ancora molto bene – i vecchi avevano commentato a bassa voce. Sergio poteva facilmente intuire il tenore dei commenti. Si era sentito assurdamente fiero. Quella notte avevano dormito insieme per la prima volta, nell'appartamento di Prato della Valle. Sergio era posseduto da una strana euforia. Si sentiva un fuggiasco, un fuorilegge. Quell'euforia, insieme al potente richiamo erotico di Ester, non gli aveva permesso di avvertire la sgradevole sensazione di allarme sottostante, come una specie di segnale intermittente di pericolo. Comunque, era questa sensazione che gli aveva impedito di continuare a dormire, e alle sette del mattino lo aveva costretto a sgattaiolare giù dal letto e fuori dall'appartamento, lasciando Ester beatamente addormentata. Era rientrato in casa sua di soppiatto, come un ladro. Coltivava la vaga speranza che, essendo sabato, Marina stesse ancora dormendo. Non che pensasse davvero
di farla franca. Comunque, la sua speranza era del tutto infondata, perché Marina lo aveva accolto in piedi, nel salotto. Era in vestaglia, col viso tirato di chi non ha dormito affatto. C'era stata una scena – Sergio non aveva voglia di parlarne. Da entrambe le parti erano state dette cose orribili, che non desiderava ricordare. Era sicuro di essere stato ingiusto; dal canto suo, Marina era stata spietata. La spietatezza, disse, era una sua specialità. La cosa era durata molto a lungo, non avrebbe saputo dire esattamente quanto. Sapeva solo che, quando il telefono aveva suonato, erano ancora nel pieno della lite. Era andato lui a rispondere: Marina si era rifiutata. In quel momento era impegnata a demolire una parte delle loro stoviglie, accanendosi in modo particolare contro quei pezzi – i migliori – che avevano fatto parte dei regali di nozze. Quando aveva sollevato il ricevitore, aveva sentito la voce di Beppe, il fratello di papà. Beppe singhiozzava senza freno, tanto che all'inizio non aveva capito quello che gli stava dicendo. Non ricordava le parole esatte con cui gli aveva dato la notizia. Non ricordava nemmeno cos'avesse risposto. Ricordava invece con precisione quello che era successo quando era tornato in cucina, dove Marina stava proseguendo la sua opera di distruzione. Si era fermato sulla soglia, e aveva detto con voce inespressiva: “Piero si è suicidato”. Marina si era bloccata a metà di un gesto. Aveva in mano un qualche oggetto di cristallo, che stava per scagliare contro l'acquaio. “Cosa?” aveva detto. “Si è sparato. Questa notte. L'hanno trovato stamattina” aveva risposto lui, sempre nello stesso tono. Marina era caduta a sedere di schianto. C'era stato un silenzio, piuttosto lungo. Poi Marina aveva sussurrato: “Il biglietto”. “Che biglietto?” aveva chiesto lui. “Ieri pomeriggio era ato di qui” aveva detto lei. “Ti cercava. Ti ha lasciato
un biglietto.” “Dov'è?” aveva chiesto Sergio. Improvvisamente aveva cominciato a tremare. “L'ho messo sulla tua scrivania” aveva risposto lei. “Pensavo che l'avessi visto, rientrando”. Sergio si era precipitato nello studio. Il biglietto era lì, in bella vista, dentro una busta senza intestazione. Era un biglietto molto breve. C'era scritto soltanto: “Per favore vieni. Ho bisogno di parlarti.” A questo punto, Sergio aveva interrotto il suo racconto. L'avevo sentito deglutire più volte, nel tentativo di dominare l'emozione. Io tacevo. In giardino volavano dei pipistrelli. Per fortuna la luce non è accesa, avevo pensato meccanicamente. Quando era stato sicuro di poter controllare la voce, Sergio aveva ripreso a parlare. I giorni successivi, disse, erano trascorsi in una nebbia angosciosa. Era caduto in uno stato di completa prostrazione. Si sentiva la creatura più abietta sulla faccia della terra, un traditore. Come aveva potuto essere così cieco? Le parole del biglietto continuavano a tornargli in mente, come un'ossessione. Per favore vieni, ho bisogno di parlarti. Quella laconicità estrema, disse, era la cosa che trovava più straziante. Aveva chiesto aiuto solo all'ultimo. E lui non aveva risposto. In quei giorni aveva deciso di rompere con Ester, e l'aveva anche fatto, mandandole una lettera d'addio – salvo poi ritornare sulla sua decisione, naturalmente, ma solo dopo varie settimane, e una vana lotta con se stesso. Adesso ricordava – purtroppo per lui con abbondanza di dettagli, perché questo ricordo era destinato a tormentarlo molto a lungo – un episodio a cui non aveva più pensato, una serata in cui papà era stato a cena da loro con la mamma. Quand'era stato? forse all'inizio di giugno, gli sembrava. Doveva esserci anche qualcun altro, altri ospiti, qualche coppia di amici, più o meno il gruppo abituale. Papà nel corso della cena aveva parlato molto poco: non che di solito monopolizzasse la conversazione, ma in occasioni come quelle, soprattutto fra intimi, normalmente era assai più brillante. Quando gli ospiti se n'erano andati – era questo il ricordo che lo tormentava – Marina, che stava sparecchiando, nei suoi andirivieni tra salotto e cucina aveva commentato: “Piero mi è sembrato molto giù di corda”. Sergio era ancora seduto a tavola. Stava fumando la pipa, abitudine che aveva
preso di recente, e che gli richiedeva una certa attenzione. “Io non l'ho notato” aveva risposto. “Non ha quasi aperto bocca” aveva detto Marina, sparendo in cucina con la ciotola dell'insalata. “Sarà stato stanco” aveva replicato Sergio. “Sta lavorando molto, in questi giorni”. “Non sembrava stanchezza” aveva insistito Marina, rientrando in salotto. “”Ti dico che qualcosa non va. Qualcosa nello sguardo, non lo so. Non mi sento tranquilla. Perché non provi a parlargli?” “Secondo me stai sognando” aveva detto Sergio. Ricordava perfettamente il senso di benessere di quel momento. Era piacevolmente assonnato, il vino era ottimo, la cena era stata gradevole – per non parlare della sua giornata con Ester. Tutto andava nel migliore dei modi. Le preoccupazioni di Marina gli sembravano completamente fuori luogo. “Comunque” aveva continuato “se ci tieni gliene parlerò. Anche se veramente non so che cosa dirgli. Marina ha l'impressione che tu sia giù di corda? Suonerebbe un po' strano, non ti pare? Per di più” aveva aggiunto “se qualcosa non andasse me l'avrebbe già detto”. Su questo punto, a dire il vero, non si sentiva del tutto sicuro: ma in quel periodo non era molto incline a soffermarsi sulle verità sgradevoli. In ogni caso, se aveva dei dubbi sulla tenuta della loro amicizia, Marina era l'ultima persona a cui fosse disposto a confessarli. Sergio fece una pausa. Nel buio, lo sentii sospirare. “Inutile dire” concluse “che con tuo padre poi non ho parlato. Anzi, questa scena mi era completamente ata di mente, fino a quando non ho ricevuto la notizia.” Sospirò nuovamente. Poi finalmente accese la luce. Entrambi sbattemmo le palpebre, abbagliati, come animali notturni sorpresi dai fari di una macchina. Il suo racconto era terminato. Era ora di andare.
“E con Ester?” chiesi. “Com'è andata a finire?” “Oh, Ester” disse lui. “Alla fine è stata lei a lasciarmi, naturalmente”. All'inizio di ottobre, mi spiegò, lui se n'era andato di casa, trasferendosi in un appartamento con Ester – non la soffitta di Prato della Valle, ma un vero e proprio appartamento, con la terrazza e tutto. All'epoca la cosa aveva fatto scandalo, mettendo a repentaglio il suo lavoro – in fin dei conti, lei era una sua studentessa – e facendogli praticamente il vuoto intorno. Molti amici avevano smesso di frequentarlo, schierandosi apertamente con sua moglie. In quel momento, a lui non importava affatto. Ma un paio di anni dopo, Ester si era innamorata di un altro: un suo coetaneo stavolta, conosciuto per caso ad una festa. Se n'era andata così, da un giorno all'altro, senza nemmeno prendersi la briga di portare con sè le sue cose: che erano rimaste sparpagliate alle sue spalle, come le piume di un grande uccello del paradiso. Da allora non l'aveva più rivista. Era fatta così, disse Sergio – con una certa nostalgia, mi parve. Non c'era acredine nella sua voce. Qualche tempo dopo, quando lui era completamente a terra, Marina se lo era ripreso. Per lei, disse, non si trattava tanto di perdonare – non credeva che ne fosse capace – quanto di cancellare completamente l'accaduto, dalla conversazione e dalle loro vite – anche se, ovviamente, non dalla loro memoria, per quanto fosse questo l'obiettivo di Marina. Si era accinta a questo compito con fermezza austroungarica: non per niente il suo bisnonno materno era un ufficiale dell'esercito asburgico. L'inflessibilità, disse Sergio, doveva averla presa da lui. A questo punto il narratore si era interrotto per un attimo. Aveva detto: “Non vorrei dare l'impressione di avere del risentimento nei confronti di Marina. È stata un'ottima moglie per me, in tutti questi anni.” Aveva fatto una pausa, poi aveva aggiunto: “Era una gran donna. Lo penso veramente”. Io non avevo commentato. Per un istante, avevo avuto la vertiginosa sensazione di trovarmi nella stessa posizione di mio padre, quella notte di tanti anni prima. Di trovarmi al suo posto, in un certo senso. Seduta lì, in silenzio, ad ascoltare le confessioni di quell'uomo, che continuava imperterrito a mentire a se stesso. Mi alzai per congedarmi. Lui mi fece strada verso l'uscita, accendendo le luci al suo aggio. La casa era molto silenziosa. Probabilmente, molte stanze non
venivano più usate, pensai. Arrivati in ingresso, si fermò, trattenendomi per un braccio. C'era ancora qualcosa che doveva dirmi. “Pensi che sarebbe andata diversamente?” mi chiese. “Se io fossi tornato in tempo, quella sera. Se lui fosse riuscito a parlarmi.” Esitò. “Pensi che sarebbe cambiato qualcosa?” Era una domanda a cui era impossibile rispondere, e Sergio naturalmente lo sapeva benissimo. Quello che lui voleva era un'assoluzione: e la voleva da me, dalla figlia – l'unica persona a questo mondo che avesse qualche titolo per dargliela. Lo guardai. Gli occhi azzurri non erano più tanto limpidi, adesso. Sembrava esausto; parlare così a lungo del ato lo aveva sfinito. Mi guardava, in attesa. Il viso era contratto da uno spasmo angoscioso. Decisi di graziarlo. Non ero affatto certa che se lo meritasse. “No” risposi. “Non sarebbe cambiato assolutamente nulla”.
La sveglia suona alle otto meno venti. La mamma ha un piccolo sobbalzo, poi istintivamente richiude gli occhi e torna a girarsi dall'altra parte. Sta per sprofondare nuovamente nel sonno, ma una parte della sua mente ha la fastidiosa consapevolezza che stamattina non si può continuare a dormire, bisogna alzarsi per forza. Perché, in questo momento ancora non lo sa. Si rigira nel letto, inquieta. Detesta svegliarsi. Il suo corpo le dice che è prestissimo. Poi, all'improvviso ricorda: certo, si parte per il mare. Con un sospiro si mette supina, sfregandosi gli occhi. Anche senza aprirli, sente la luce del sole filtrare dalle imposte. Dev'essere una bellissima giornata, registra automaticamente, e qualcosa dentro di lei balza di gioia. Per un attimo resta così, con gli occhi chiusi, a godersi la sensazione del mattino – quel senso di assoluta purezza e freschezza e nuovo inizio che sprigiona da certi mattini d'estate. Poi finalmente si decide, e apre gli occhi.
Strisce di sole tappezzano la stanza immersa in una luce da acquario, la luce verdeazzura delle veneziane. I vetri sono aperti, c'è una leggera brezza, dalla strada un silenzio assoluto. Sono partiti tutti, pensa. Si mette lentamente a sedere, sbadigliando. Nel lettino al suo fianco, io continuo a dormire abbracciata al cane di peluche, in quel momento il mio pupazzo preferito. Di tanto in tanto faccio un piccolo schiocco con la lingua, come se stessi sognando di cavalcare. La mamma scende dal letto senza far rumore. Si china brevemente a controllare il mio sonno, nota che ho la fronte bagnata di sudore, e fa un gesto per scostarmi i capelli. Senza svegliarmi, io emetto un suono di protesta, e mi sottraggo nascondendomi sotto il cuscino. Questa stanza d'estate è troppo calda, pensa lei aprendo cautamente la porta e dirigendosi a piedi scalzi verso il bagno. ando, si ferma davanti alla finestra spalancata del terrazzo. Il rosso dei gerani illuminati dal sole spicca nitido contro il verde smagliante delle foglie. Il cielo è perfettamente limpido, non fa ancora caldo. Luce miracolosa, pensa lei, e sorride. In bagno, s'infila una vestaglietta di cotone, la sua vecchia vestaglia con i fiori azzurri, e si sciacqua la faccia con vigore. Guardandosi allo specchio, con il viso bagnato e i capelli scomposti, fa una smorfietta compiaciuta: quel colore le dona. Mentalmente si congratula con se stessa per non aver buttato via quella vestaglia, retaggio di un tempo precedente al matrimonio. Le piace usare le cose molto a lungo. Le dà un senso di continuità. Dalla mansarda non viene alcun rumore. Strano che non sia ancora sveglio, pensa. Ultimamente si sveglia sempre presto. Quanto presto, questo non è in grado di dirlo, visto che lei, bambina permettendo, rimane a letto il più a lungo possibile. Ma di sicuro molto prima di lei, dato che quando si alza lo trova quasi sempre in piedi, già vestito, con l'aria di uno che ha fatto colazione da un pezzo, anche se poi per gentilezza finge di non aver mangiato ancora niente, e stoicamente si siede a riprendere il caffé insieme a lei. Poi invece, ci sono certe mattine in cui svegliandosi lo trova seduto nel letto al suo fianco, immobile, con gli occhi aperti e fissi. Lei lo chiama, e allora lui si riscuote e le sorride, chinandosi a baciarla. “Sei sveglio da tanto?” gli chiede, e lui dice sempre di no, ma lei sa benissimo che mente.
Pensandoci prova una fitta di malessere, che si affretta a scacciar via. Non vuole pensieri molesti in una mattina così bella. Quando a in cucina nota con disappunto che nel lavello ci sono ancora i piatti della cena, ieri sera non ha avuto la forza di lavarli. Pazienza, lo farà dopo colazione. Mette il caffé sul fuoco, e intanto pensa al viaggio. Forse sarà meglio preparare dei panini: arriveranno verso mezzogiorno, e la bambina di sicuro avrà fame. Si chiede se sia il caso di mettere a bollire delle uova. Senza dubbio, sua madre, perfetta casalinga, avrebbe già organizzato tutto il giorno prima. Sbuffa, ricordando a se stessa la propria superiorità. Lei non è una perfetta casalinga. Piero non l'ha sposata per quello. Certe volte, però, vorrebbe essere un po' meno inesperta, questo sì. Sono talmente tante, le cose che non sa fare... Sorride, ricordando i primi tempi, quando non sapeva nemmeno cuocere la pasta. Perfino Piero, solitamente ironico, era rimasto un po' sgomento, di fronte all'estensione della sua ignoranza. Del resto, in casa era sua madre che faceva tutto – insieme alle domestiche, s'intende. Prima di sposarsi, lei in cucina non aveva mai messo piede. In famiglia si riteneva più importante che si dedicasse a finire gli studi – la laurea, qualcosa per cui sua madre, praticamente illetterata, provava una sconfinata reverenza. La sua bambina non doveva occuparsi della casa. Lei doveva studiare. E adesso, per qualche ragione, queste cose che ha sempre disprezzato – le cosiddette cose di tutti i giorni, cose banali, apparentemente semplici, come preparare la colazione, rifare i letti, cambiare la bambina – sembrano in effetti costituire la vita, e occupare interamente l'orizzonte. Lascia cadere questa constatazione, che potrebbe aprire la strada a un'altra serie di riflessioni moleste – il tema delle sue aspirazioni professionali accantonate – momentaneamente? non ne è troppo sicura – ed esce in terrazza ad annaffiare le piante. Le ortensie hanno un'aria abbacchiata. Dirige su di loro il getto dell'acqua, perdendosi in una silenziosa contemplazione, quasi del tutto priva di pensiero. Il sole scotta già. Ne avverte il calore sulle braccia e sul collo. Istintivamente, alza il viso a riceverne i raggi. Da questo stato di torpore e di semibeatitudine la riscuote il rumore della caffettiera che gorgoglia. Rientra in cucina, e mentre sta spegnendo il fuoco dalla stanza da letto arriva un urlo – mam-ma! – insieme a un inizio di pianto. “Arrivo subito, amore!” grida in risposta. Si precipita alla mia volta, onde prevenire un'esplosione di lacrime. Come madre, è sempre terribilmente preoccupata di non essere all'altezza, e più lo è più fa sfoggio di zelo, non sempre con i risultati
previsti. Io sono seduta sul lettino, coi capelli estremamente arruffati, e la faccia già rossa di pianto. “Mam-ma!” ribadisco in tono di rimprovero. Lei mi prende in braccio. “Su, su” dice. “La mamma è qui, hai visto? Adesso facciamo colazione”. Questo, lo sa bene, è un argomento di sicuro effetto, io infatti ammutolisco e mi faccio portare docilmente in cucina, dove vengo piazzata sul seggiolone e munita di tazza e cucchiaio. “Arriva il lattino” mi informa la mamma. “Lattino” ripeto. La mamma mette il latte a scaldare. Io la osservo. Poi seguo interessata il volo di una mosca che entra dalla portafinestra. “Mosca” affermo. La mosca ronza. C'è silenzio. Sono già le otto, pensa la mamma guardando l'orologio di cucina. Lui dorme ancora, che strano. Si ricorda che la sera prima gli ha promesso che gli avrebbe portato su la colazione. Forse è per questo che non scende. Mi versa il latte, badando a fare suoni di delizia – “mmm, il lattino!” – intesi a dimostrare che il latte è una cosa buonissima, valutazione sulla quale io non concordo del tutto. “Biscotti?” indago. “Sì, amore, sì” dice lei, e mi mette due biscotti nel piattino. “Adesso mangiali piano, senza sporcare” mi ammonisce. Mi lega saldamente il bavaglino intorno al collo. Io tuffo i biscotti nel latte. “Ciaf” dico. “Brava” dice la mamma. Tira fuori il vassoio, vi dispone con cura due tazzine – quelle del servizio bello, con le rose smaltate: in fin dei conti è un giorno di vacanza! – il bricco del latte, la zuccheriera, e un piattino d'argento con i biscotti. Versa il caffé nelle tazzine e contempla la sua opera. Si è dimenticata qualcosa? No, tutto a posto, le pare. “Bevi il tuo latte finché è caldo” mi dice. “Io vado di sopra a svegliare papà”. Reggendo il vassoio con due mani, si avvia su per le scale che portano in mansarda. Dio quanto scricchiolano questi scalini, pensa. Dal lucernario piove una luce dorata, o piuttosto un pulviscolo, che le incornicia il profilo sublimandolo, come in certi ritratti di sante. C'è un odore stantio di polvere e di mobili vecchi, un odore di soffitta. Bisognerà spolverare prima o poi, si ripromette vagamente.
Si ferma davanti alla camera da letto, bussando leggermente. Non c'è risposta. Apre la porta con cautela, un po' impacciata per via del vassoio. Le imposte sono chiuse, la stanza è quasi completamente al buio, tranne per il piccolo lume sopra il comodino. Si è addormentato lasciandolo , pensa. Mentre i suoi occhi si abituano alla semioscurità, comincia lentamente a distinguere gli oggetti – la toilette, l'armadio, la testata del letto, il corpo di papà sotto il lenzuolo. È sdraiato su un fianco e le volta le spalle. Si direbbe che dorma molto profondamente. “Piero?” chiama. Non c'è risposta. Lei aspetta per un po' sulla soglia, incerta sul da farsi. Poi avanza con i esitanti. “Piero?” chiama di nuovo. Ora nella sua voce si è insinuata suo malgrado una percettibile sfumatura di ansietà. “Piero, svegliati, è tardi. Sono le otto ate”.