Lame Di Violenza Improvvisa 6h6ex

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e appoggiò con stizza il cellulare lontano da sé.

Il vezzo di leggere l'oroscopo gli era rimasto da sempre, per quella sorta di divertimento che provava nel leggere le previsioni di fantomatiche storie d'amore che mai arrivavano e che venivano sottintese immancabilmente anche questa volta, o in cui forse lui sperava. Non esisteva nulla al mondo che sbagliasse come il suo oroscopo, il divario tra quello che gli diceva e quello che in realtà finiva per vivere era sempre motivo di ilarità per C.V. .

Finalmente l'aroma del caffè iniziò a diffondersi forte ed imperiosa per tutta

stanza e il ribollire della caffettiera lo distolse dalle sue ruminazioni del mattino attirando la sua attenzione e costringendolo ad alzarsi per andare a versarsi la sua amata tazzina. Ora poteva sorbirsela in compagnia dei pensieri infestanti che potevano riprendere tranquillamente il loro corso.

Lentamente lo stordimento da primo mattino iniziava ad abbandonare la sua mente, che tuttavia rimaneva ancora un attimo inebetita e incapace di spiegare quanto fosse successo la sera precedente. Aveva ancora i capelli tutti impiastricciati di fango secco dopo essere caduto a terra nel vano tentativo di picchiarsi con quell'energumeno ubriaco e ancora non riusciva a capire come gli fosse venuto in mente di andare a provocare un bestione del genere che, non c'è nemmeno il bisogno di dirlo, gli aveva fatto un discreto ematoma attorno all'occhio sinistro. Qualcosa aveva dato ma in effetti non esisteva sfida tra i due. E dire che non c'era nessun motivo, l'armadio si stava facendo beatamente i suoi quando C.V. senza nemmeno la scusante di essere ubriaco, perché era totalmente sobrio, gli corse incontro gridando tutto il suo odio e rancore per... mah, non lo sapeva nemmeno lui, era solo molto nervoso e voleva sfogarsi in qualche modo. Fatto sta che questo ha reagito senza nemmeno pensarci assestandogli un diretto al volto, preciso preciso nell'occhio nonostante la narcosi alcolica.

Finito il caffè prese il suo pacchetto morbido di sigarette e iniziò a scuoterlo per estrarre una delle ultime due sopravvissute alla serata, adagiandola con un movimento fluido della mano all'angolo della bocca. Prese un fiammifero e accese la sua quotidiana tabaccata rimanendo avvolto nel fumo, con gli occhi semichiusi. Aspirò due o tre boccate con la sigaretta dondolante tra le labbra e poi buttò la cenere direttamente nella tazzina del caffè ormai vuota.

Decise che era il caso di fare una doccia e uscire per non stare in casa a deprimersi. C'erano i mercatini di Natale in una delle piazze centrali ed era una buona scusa per far finta di fare qualcosa. Le persone come lui non escono mai a girovagare senza meta ma hanno bisogno di un pretesto e di un posto verso cui dirigersi, per convincere sé stessi di essere impegnati e di non bighellonare a caso nella solitudine, come se agli altri interessasse o si accorgessero che una

persona continua a girare in tondo.

Arrivò a piedi alla fiera tanto per far are un po' di tempo e subito venne investito da un profumo intenso di dolciumi mescolato ai solventi dei vestiti e all'immancabile porchetta che non veniva mai cambiata : semplicemente si rigenerava da sé in base a quante persone la mangiavano.

Decise di immergersi in quel marasma umano e in quelle ventate di odori.

E' incredibile quanto ci si possa sentire soli anche quando si è circondati da una folla.

Gironzolava per le bancarelle in cerca di nulla di speciale, fingendo interesse un po' per dei bonghi, un po' per delle armi ad aria compressa, un po' per i vestiti, ma anche le presine al forma di maiale potevano essere di suo interesse. Non gli fregava veramente niente di tutto quello, ma qualcosa si sentiva in dovere di guardare. Intento a rimirare un orrendo soprammobile in ceramica che nemmeno in una discarica si sarebbe intonato con l'ambiente da quanto era brutto, si sentì chiamare.

Aveva già capito chi fosse e mentalmente tirò giù un rosario di cristi e madonne prima ancora che potesse vederne il volto.

< >

Cristo. E' proprio Arianna, la troia. Con lo stronzo.

< >

Disse lui lapidario e gelido come un cadavere, mentre lei continuava

< >.

In effetti tra le altre cose suo padre si era sentito male ed ora stava ricoverato in ospedale per un infarto, attualmente sorvegliato da sua madre. Niente di grave comunque, si sarebbe ripreso in fretta.

Come credi che possa sentirmi? Felice possiamo escluderlo con una certa sicurezza che dici, eh?

Ma riuscì solo a dire

< >

cercando di contenere lo sguardo sempre più contratto e ingrugnito nel vedere con la coda dell'occhio il viso dello stronzo che entrava nel suo campo visivo con la delicatezza di uno stupratore. Senza contare che pur di non dover sopportare la sua visione e quella di lei, avrebbe preferito correre la maratona di New York sulle ginocchia; definizione riduttiva e approssimata per difetto tuttavia. La spinta comunicativa di C.V. era pari a quella di una lapide in quel momento, e Arianna, la troia, non ebbe problemi a capirlo, anche perché non faceva il minimo sforzo per nascondere la sua profonda insofferenza per la

situazione e non celava in alcun modo la sua voglia di interrompere quella conversazione inutile per poter continuare nell'attività che lo stava occupando prima di quella sgradevole interruzione: guardare l'orrendo soprammobile in ceramica, che anzi gli fornì il giusto pretesto per sottrarsi a quella sevizia.

Cercò di attirare l'attenzione del venditore alzando leggermente il braccio con la mano aperta e cercando avidamente il suo sguardo.

<<Scusi! Quando viene questo?>>

E dopo averla ottenuta intavolò una lunga conversazione chiedendo ogni genere di informazione su qualunque oggetto fosse presente su quel banchetto sperando che sentendosi ignorati, i due indesiderati desistessero e si togliessero dal suo spazio vitale.

E da in mezzo ai suoi coglioni.

Arianna la troia, sapeva perfettamente di ferirlo solo con la sua presenza e di quella dello stronzo, ma non era sinceramente nelle sue intenzioni, si sentiva molto in colpa per averlo messo in quella situazione di imbarazzo di cui percepiva le vibrazioni dentro la pelle come una scossa umidiccia. Era realmente preoccupata per la sua salute; è vero, non esisteva più nulla di quello che li aveva legati, sentimenti, ioni, ma continuava a volergli bene come ad una persona cara e sperava che lui potesse risollevarsi da quella situazione di disagio in cui evidentemente sostava. Si sentiva una concausa della sua sofferenza a cui non sapeva come dare sollievo senza risultare ipocrita o senza infierire ulteriormente.

In effetti non era chiaro nemmeno a lei se avrebbe voluto intervenire perché gli

era ancora caro o semplicemente per togliersi un peso dalla coscienza dell'aver distrutto una persona che non meritava di vivere quel malessere.

Le cose però avevano smesso di funzionare, C.V. era sempre più distratto, totalmente assorto e chiuso in sé stesso, non le parlava più e le dedicava sempre meno tempo di quello che lei aveva bisogno. Semplicemente lui non c'era quasi mai. Lei si angosciava perché non riusciva a capire cosa lo stesse tormentando dentro, era come se fosse tutto tumulato e blindato in una qualche parte del suo cuore a cui lei non era consentito di accedere. Ogni suo sforzo per avvicinarsi otteneva solo l'effetto di allontanarlo sempre di più e farlo chiudere in quella sua preoccupazione di cui lei non era in grado di capire la natura. Desiderava aiutarlo più di ogni altra cosa e lui non gli permetteva di farlo e questo non faceva che renderla sempre più rabbiosa nei suoi confronti.

Stare con lui la faceva sentire sempre più sola.

Fu proprio dopo aver litigato furibondamente con lui che incontrò lo stronzo, Daniele. Quella sera lei si infuriò con C.V. perché aveva dimenticato di ritirarle un capo in lavanderia che a lei sarebbe servito il giorno seguente. Non era per il vestito in sé, era solo l'ultima di una sequenza di distrazioni che la facevano sentire come l'ultimo dei suoi pensieri.

Concluse che le cose non avrebbero proprio mai funzionato.

Se ne andò sbattendo la porta di casa, uscendo senza nemmeno mangiare la cena che lui le aveva preparato. Avrebbe preferito rimanere e discutere, chiarire, dirgli come si sentiva, ma le aveva intimato di sparire, furente di rabbia come non l'aveva mai visto e a lei non rimase che andarsene indignata, quella non era casa sua, altrimenti non gli avrebbe permesso di mandarla via. Quella sera non tornò dai suoi genitori, era meglio stare da un'amica, aveva bisogno di parlare. Simona

intuì tutto non appena ebbe modo di sentire la sua voce e visto che stava uscendo con un gruppo di amici, pensò che la cosa migliore fosse are quel che restava della notte senza stare da sola, ma in buona compagnia.

Arianna e Daniele si conobbero proprio in quell'occasione ma non scambiarono nemmeno una parola, intenta com'era lei a sfogarsi con Simona durante la cena.

La cosa tuttavia non impedì loro di rivedersi alcuni giorni dopo e iniziare a frequentarsi.

Il venditore, un uomo dall'aspetto piuttosto sudicio ma dallo sguardo penetrante e risoluto, se ne stava avvolto in un enorme giaccone verde ad osservare i potenziali clienti cercando un qualunque appiglio per sbarazzarsi di alcune cianfrusaglie che gli erano state rifilate da un maledetto truffatore: ovviamente un amico; chi più degli amici cerca di fregare gli altri quando ne ha l'occasione? Li aveva comprati quasi venti anni fa e tanti anni uguale gli erano serviti per riuscire a togliersi la maggior parte di essi. Erano una serie di oggetti di gusto veramente pessimo e temeva non sarebbe mai riuscito a sbolognarli a nessuno; immaginava che quelle cose lo avrebbero accompagnato fino all'inferno come una croce, insieme ai commenti sprezzanti e sarcastici di suo figlio per l'incauto acquisto.

Ma da quella volta imparò due costanti universali: mai comprare a scatola chiusa e mai fidarsi degli amici.

Ma si poteva consolare pensando che erano ormai più pochi i sopravvissuti di quella stupidaggine. Giusto una sola, a dire il vero.

Sentiva il freddo penetrargli attraverso il berretto di lana e battergli sulla testa calva con la stessa forza che immaginava usassero i fabbri per battere il ferro. Iniziò a sfregarsi le mani tra di loro, per scongiurare i colpi di martello che sentiva al capo, come se le due cose avessero un legame di tipo fisico.

Un po' come pretendere di spegnere la luce di una stanza sbattendo una porta.

Il figlio stava servendo un cliente quando l'uomo sentì una voce chiamarlo e vide davanti a sé un volto giovane, cupo e dall'espressione chiaramente infelice. Aveva la barba incolta e l'aria quasi più trasandata e trascurata della sua e gli chiedeva il prezzo proprio dell'ultima schifezza! Era un'occasione da non perdere; era evidente che non gli fregasse nulla di quell'aborto. Bastava guardargli accanto per capire che stava solo cercando di fuggire dalla conversazione e dopo anni di esperienza lui aveva occhio per capire quello che accadeva in chi stava dall'altra parte del suo banchetto.

Più di tutto sapeva come approfittarne.

C.V scelse una specie di gargoyle in ferro, mettendosi a contrattare il prezzo per prendere ulteriore tempo. Arianna, la troia, continuava a rimanere lì a fissarlo insieme allo stronzo sperando probabilmente di riprendere la conversazione. Cosa aspetti ad andartene? Sperava che sparissero prima di essere costretto a comprare qualcosa, in modo da non dover continuare a simulare una finta trattativa per qualcosa per qualcosa di cui non sapeva cosa farsene.

Arianna, la troia, era a disagio e terribilmente turbata dal fatto che le sue preoccupazioni nei confronti di C.V. venivano ignorate, allo stesso modo in cui aveva sempre ignorato lei come persona. Era inutile perdere tempo dietro ad un ragazzo così, il suo comportamento la offendeva e la feriva per essersi scoperta nuovamente senza che lui avesse la sensibilità di capirlo.

Prese per mano Daniele con delicatezza e disse

< >

ponendo un'enfasi chiara ma impercettibile sulla parola “noi” che colpì C.V. dritto al cuore come una stilettata.

Il venditore gestiva la trattativa inscenata dal ragazzo trasandato come se fosse un automatismo perché tutta la sua concentrazione era in realtà diretta al viso della ragazza e al momento in cui avrebbe detto qualcosa per congedarsi. Quello era il momento per intervenire. Il tizio trasandato aveva la chiara espressione di chi non sa nemmeno cosa sta dicendo. Ora che lo guardava più vicino si rese conto che aveva veramente il volto di uno sconvolto dall'esistenza e quel grosso livido che aveva sull'occhio non lo aiutava per nulla nel sembrare vagamente più normale.

Ecco! Sta per andarsene! Ora! Ora!

< >

C.V. rimase un attimo interdetto di fronte al sorriso del venditore. Ma lui quando li aveva offerti tutti quei soldi per una schifezza che non avrebbe messo nemmeno in casa di altri? Per tutto il tempo aveva parlato senza fare attenzione a quello che diceva, solo per togliersi dall'incombenza di continuare il discorso con lei e ora proprio non riusciva a ricordare come si fosse svolto il tutto, si era limitato solo a parlare a ripetizione fingendo interesse di fronte a quell'uomo che

sembrava assecondarlo.

100 euro per quel mostro? Ma figuriamoci!

Fece per dire qualcosa quando sentì le parole

< >

Poteva un plurale fare così male? Quel “Noi” ebbe su di lui l'effetto di una detonazione, che fece crollare dalle fondamenta la struttura su cui cercava di sorreggersi, fatta di indifferenza e dissimulazione di un dolore attanagliato nel suo animo. Sentì un colpo fortissimo all'addome che gli fece mancare per un attimo il respiro. Se fosse stato su di un ring quello sarebbe stato il pugno precedente quello del KO. Gli arrivò dritto al cuore mandando in subbuglio lo stomaco, smuovendo acidi gastrici e facendogli salire una incontenibile voglia di andare a vomitare. Si fece forte dentro di lui il ricordo di quando loro erano “noi”. Ora invece quel “noi” era riferito a qualcun altro. Lui non era più nulla, un ricordo, un'entità astratta e soffriva per orgoglio, in una solitudine da cui non era riuscito a liberarsi. Sapeva però di non poter fare più niente, le cose non erano andate come loro avrebbero voluto e ormai c'era più poco da fare che non fosse salvare un briciolo di dignità e rispetto per sé stessi.

Incassò il colpo cercando di attutire la botta il più possibile, stringendosi dentro le spalle senza accorgersene, come se quel colpo lo avesse ricevuto sul serio.

Indugiò alcuni attimi prima di risponderle, forse avrebbe voluto chiederle scusa, di ritornare insieme, di riprovarci, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu prendere il portafoglio pagare 100 euro e risponderle, senza nemmeno distogliere lo sguardo

dal venditore che continuava a sorridere,

< >.

C.V. rimase alcuni istanti ad osservare il volto soddisfatto del commerciante che aveva ormai incassato i soldi e gli stava già sporgendo il Gargoyle riposto in un sacchetto di plastica per alimentari, ed ebbe inconsciamente la lieve sensazione di essere stato fregato. Era però troppo assorto per poter tornare indietro su quell'acquisto, annebbiato al punto da non riuscire più a pensare fino a che non uscì dalla fiera, quando vicino a lui non c'erano più Arianna, la troia, lo stronzo e nemmeno il venditore, che intuiva essere uno stronzo anche lui.

Pensava invece al ato, a quello che era stato. Di tutti i ricordi e i momenti ati insieme gli rimaneva solo un'eredità di sofferenza e solitudine. Si sentiva veramente un derelitto. Rivederla era stato come se gli avessero aperto il torace con un colpo secco. Voleva solo ritornare nel buco in cui era vissuto in questi mesi per non uscirvi mai più. Pensava a quanto fosse difficile per lui parlarle di come si era sentito durante la loro storia.

Non riusciva a trovare un lavoro decente e quello che aveva lo stressava. Si vedeva inetto, avrebbe voluto darle tutto quello che aveva ma non riusciva a parlarne con lei, non voleva buttarle addosso il peso dei suoi problemi e delle sue ansie, cercava di sollevarla almeno da quello. Tenersi la sua sofferenza per sé, cercando di fare in modo che le cose andassero bene. Lei invece era ossessiva, non lo lasciava mai in pace con richieste su cosa ci fosse che non andava, convincendosi che dipendesse da lei, continuando a pretendere attenzioni assurde nei momenti più impensabili.

Se non ti rispondevo al cellulare non era per spregio, ma perché avevo da fare! Cazzo!

A dispetto del malessere che aveva provato fino a quel giorno, ebbe improvvisa la sensazione che forse non aveva perso nulla di veramente importante. Lo sconforto che aveva provato per l'interruzione violenta della loro storia, per mano di un suo scatto d'ira, iniziava a mutare forma. Diventava di nuovo rabbia e frustrazione rivolta a chi non aveva saputo sostenerlo con un solo gesto di comprensione, con un istante di silenzio condiviso, invece di riempire lo spazio tra loro con domande e parole. Il suo o iniziò a farsi sempre più deciso e spedito, lo sguardo afflitto diventava d'improvviso teso mentre le sopracciglia aggrottandosi al centro del naso parevano due vermi che si prendono a testate. La mascella rigida e i denti serrati lo rendevano sempre più simile ad un cane rabbioso; aveva voglia di fare a botte come la sera precedente; era l'unico modo che aveva per sbollire: andare a fare risse, ovviamente a fortune alterne, a volte le dava, ma più spesso le prendeva.

In cerca di qualcuno che gli desse un pretesto per attaccare briga ebbe modo di are davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento. La sua attenzione fu attirata da un vestito gessato scuro con camicia bianca e cravatta nera su di un manichino.

Ne aveva indossato uno uguale una sera che era uscito con Arianna.

Se lo ricordava benissimo.

Era andato a prenderla a casa con una rosa rossa tra le mani e quando lei aveva aperto la porta gli si era presentata con il suo meraviglioso sorriso, che le splendeva in volto come un raggio di luce pura, bianca, diffusa e avvolgente. Come se con quel sorriso potesse rischiarare la sua strada verso una direzione che lui altrimenti non avrebbe saputo scorgere. Si era sempre sentito circondato dalla tenebra e quel sorriso sembrava volesse accompagnarlo verso un posto luminoso, tutto per loro. Quella sera andarono insieme al ristorante e lei era

radiosa, fasciata in un vestito che le comprimeva il seno e le avvolgeva le linee sinuose e morbide del suo corpo.

Era tremendamente eccitante ed attraente con i suoi modi di fare eleganti e tuttavia ingenui nello stesso momento.

Si muoveva come se non volesse fare del male a nulla di quello che le stava intorno, sembrava volesse solo sfiorare le superfici con cui veniva in contatto. Uscirono dopo la cena riscaldati da un paio di bottiglie di vino con la frenesia di fare l'amore ma la voglia li prese prima ancora di riuscire a tornare a casa.

Adesso lei si faceva scopare da un altro.

Questo pensiero si fece largo e prese spazio alla dolcezza del ricordo, la vedeva nitidamente mentre mugolava di piacere tra le braccia dello stronzo che la possedeva e godeva ansimante dietro di lei.

Ogni scena era di una precisione pornografica: i dialoghi erano da film porno, le situazioni erano da film porno, gli atteggiamenti erano da film porno..era proprio un film porno!

Vedeva lui che le veniva in faccia e che infilava il suo maledetto cazzo in ogni parte della donna che amava. Gli stava risalendo la rabbia momentaneamente chetata, quando improvvisamente si rese conto di quanto fosse ridicolo.

Per la prima volta sorrise dei suoi pensieri.

Un sorriso strano, amaro ma che lo fece sentire stranamente sollevato.

Quanto tempo era ato ormai?

Sapeva che quello era un suo modo per tormentarsi, con il solito atteggiamento masochistico ed irreale, poteva anche essere tutto vero, come anche no. La realtà è che ora stava con un altro, si era innamorata di lui dopo che loro si erano lasciati e c'era poco da fare. Benché quelle immagini potessero anche essere accadute realmente, in fin dei conti era nel loro pieno diritto, a pensarci bene.

Si sentì anche un ipocrita, lui faceva l'amore e lo stronzo la scopava? Quel senso di ridicolo si fece sempre più forte, forse era veramente il momento di provare a ricominciare a vivere. Le cose non avevano funzionato e non era colpa di nessuno.

Non era colpa di Arianna e nemmeno di Daniele.

C.V. continuava a sorridere, guardandosi riflesso nella vetrina e decise che era il momento di riprendere a camminare.

Poteva finalmente togliere le riviste di Arianna dal bagno.

Girovagò a vuoto per un'oretta, sempre sorridendo in un intimo rapporto con la sua ritrovata pace interiore, quando realizzò finalmente di avere un sacchetto di plastica tra le mani, si fermò, tirò fuori il contenuto e iniziò ad osservarlo in

maniera fissa, insistente e meditabonda, stando fermo immobile in mezzo al marciapiede.

Adesso cosa cazzo se ne faceva di un Gargoyle in ferro battuto alto 50 cm?

LAMA IV R - UN FUTURO NON TROPPO ORIGINALE

“Revolution the only solution, the armed responce of an entire nation”

System of a Down

Anno ****, da qualche parte. Ovunque.

Una visione:

Futuro.

Ormai buona parte dell'umanità non è altro che un ingranaggio, inconsapevole, incosciente, dopato dalla televisione e privato da ogni tipo di relazione umana e contatto. Estraniato dalla realtà viene assegnato ad un compito per cui viene istruito fino dalla più giovane età. Gli uomini e le donne nascono non più concepiti dall'unione sessuale di due esseri tra cui esisteva un forte legame di attrazione e intimità ma tramite sperimentazioni genetiche al laboratorio. Gli strati più bassi della società, i poveri, hanno perso il diritto di procreare e trasmettere i propri geni nell'ambiente in cui prosperavano. Sono solo dei mezzi, delle risorse umane da sfruttare, da selezionare fino alla creazione dell'operaio perfetto: sottomesso, privo di creatività e fantasia, servile, senza spirito critico, slegato dal mondo relazionale e dagli affetti.

Non si può sapere come si sia arrivati a questo, ma la realtà è davanti agli occhi di chi vuole guardare, se si è in condizione di poterlo fare.

Anni di ingiustizie sociali hanno creato profonde voragini tra le classi dirigenti, abbienti, potenti, e le classi proletarie, povere, indigenti e sempre meno libere. Politici e industriali, poco per volta, riuscirono a trasferire su di sé la poca partecipazione che ancora rimaneva agli strati più bassi, rivendicando la loro natura dirigenziale di strato “eletto”: scordate la democrazia, scordate la carta dei diritti, la costituzione, i sindacati, scordate il sentimento, la famiglia, l'amore; in tre parole “scordate la libertà”. Il mondo è nelle loro mani, decidono tutto, prosperano nel lusso e sono gli unici autorizzati a riprodursi tramite rapporti sessuali, organizzano enormi orge tra di loro in cui possono disporre di chi vogliono e come vogliono. Possiedono case, piscine, auto, mezzi, potere e sono gli unici ad usufruirne. Solo loro possono uscire di casa, comprare beni, comandare, decidere. Sono gli eletti, investiti del loro potere direttamente dal Dio unificato, unico e globalizzato per tutti. In tutto il mondo si crede in un solo Dio. Quel Dio. Solo loro sono autorizzati a portare avanti la specie umana perché essi rappresentano il meglio, il concentrato delle migliori caratteristiche atte a portare l'evoluzione verso nuovi e fulgidi orizzonti di successo e sviluppo. Sono inferiori solo a Dio. Solo loro sono liberi, liberi di fare ciò che vogliono, sono loro a comandare.

Chi non fa parte degli eletti è un prodotto artificiale, che nasce in apposite scuole di istruzione in cui gli viene insegnato fin da piccolo a svolgere una unica funzione che varia in base alle necessità della grande industria al servizio dell'élite: avvitare un bullone, girare una vite, trasportare un carro, guidare, sparare, pulire un pavimento e che svolgeranno per tutta la vita, il loro motto è “sempre servire”. Ognuno di loro prospera in una specie di loculo in cui vengono nutriti tramite endovena con sostanze per mantenerli in vita; non hanno più stomaco, atrofizzato da anni di inattività, e hanno perso il piacere del cibo, privilegio sempre e solo degli eletti. Le deiezioni vengono forzate ad orari precisi. Il sonno viene indotto farmacologicamente attraverso uno stato di coma. I turni di riposo vengono decisi da piani prestabiliti e da rigidi orari scientifici, le persone vengono semplicemente spente come fossero un qualunque oggetto elettronico. Ognuno di loro a 6 ore di sospensione all'interno di questi loculi,

riuniti in palazzoni enormi, austeri, bianchi e asettici. Grattacieli enormi di cui non si può vedere la fine, grandi come piccole bare in cui queste persone vengono tumulate e ammassate una accanto all'altra in un enorme carnaio soffocante, alimentate durante il riposo e rese capaci di avere un'autonomia di lavoro di 18 ore senza sosta, a svolgere ciò per cui sono programmati da una vita. Questi palazzi enormi, in gergo ironico e macabro, sono conosciuti come “i cimiteri dei sepolti vivi”. Posizionati alla periferia della città, costituiscono una sorta di muro di cinta isolante dall'inquinamento, dall'immondizia e dalla degradazione, che regna fuori dai centri urbani.

All'esterno di questi deliri urbani non esiste più nulla, la natura è morta, gli animali sono stati annientati dal parassita umano e dal suo progresso sostenibile. Tutto è grigio, polveroso insozzato dalla lordura e dallo sporco; inquinato da fumi industriali oleosi e pesanti, che avviluppano come un'eterna e tetra tenebra soffocante. Il cielo è violentemente rosso, fiammeggiante e spugnoso, striato da pesanti e profondi solchi di giallo lavico. Le piogge costanti e perenni sono altrettanto rosse, grondanti il sangue delle ferite di un pianeta morente e divorato da un cancro incurabile e senza speranza. L'aspetto è desolante e sovrasta le rovine delle ere precedenti, case e costruzioni diroccate a ricordo di un tempo che fu.

Cataste di cadaveri delle classi operaie sparpagliate, prive di sepoltura, tra un elettrodomestico rotto e la carcassa di un'auto. Come gli oggetti quando si rompono o non servono più, vengono buttati; e così giacciono in mezzo a loro. Rotti. Esauriti. Non funzionanti. Sostituiti da un modello nuovo, creato dai servizi di controllo delle nascite, fedeli adepti degli eletti, specializzati nella selezione genetica dell'altra classe esistente oltre a quella insignita del potere assoluto: la classe operaia, la classe degli schiavi, i servi del potere. I fiumi non esistono più all'esterno delle città, al loro posto enormi corsi d'acqua nera, densa e schiumosa. Cadaveri di schiavi vengono trasportati dalla corrente, cianotici, gonfi, le labbra nere, gli occhi sbarrati e sporgenti fissano sul loro viso un'espressione di terrore, l'ultima e forse l'unica emozione provata nella loro esistenza. Nessuna forma di vita prospera all'infuori dei Presidi, le città governate dagli eletti, per le condizioni proibitive e perché ogni vita deve avere la previa autorizzazione dall'Autorità per la Selezione Salvifica. Nel mondo

esistono una quantità non precisata di Presidi, ognuno indipendente dall'altro e separato dall'ambiente ostile esterno.

Tutti sono costruiti seguendo lo stesso criterio architettonico concettuale. Il lato esterno, quello che separa la città dal resto del mondo, è costituito dal muro di cinta altissimo e altrettanto esteso per larghezza, è la dimora dei sepolti vivi, i “Cimiteri”. Ogni presidio è un dipartimento stagno a sé stante, l'aria pestilenziale e le piogge non vi possono penetrare. Le comunicazioni tra Presidi non esistono, non ci sono interferenze tra di loro, ogni classe di eletti pensa a prosperare nel proprio luogo. La zona successiva è quella dei campi e delle industrie dove gli schiavi obnubilati dalle droghe vengono impiegati come manodopera inconsapevole per la produzione del sostentamento delle classi privilegiate.

Gli spostamenti degli schiavi avvengono tramite nastri trasportatori che conducono direttamente il soggetto dal suo loculo di riposo fino al luogo di lavoro; apposite cinghie lo ancorano su tale o, impedendo e vincolando ogni forma di movimento. Gli schiavi sono solo un'escrescenza sopra al nastro trasportatore. Ogni forma di comunicazione interpersonale, affettiva ed emotiva è a loro impedita. Nel momento in cui escono dalla propria bara un congegno intracerebrale, innestatogli alla nascita nelle scuole di educazione, proietta direttamente sulle loro retine programmi televisivi registrati secoli prima, ma già allora usati per assoggettare le popolazioni alla mediocrità e alla superficialità intellettiva : Grande Fratello, finti Talk Show e falsi telegiornali di informazione manipolata.

Era la cerebrovisione.

Gli schiavi non vedono il mondo esterno e nemmeno lo sentono, ma vedono quello che viene detto loro di vedere e sentono quello che viene fatto loro sentire. La realtà non esiste e si confonde con le informazioni introdotte forzatamente nel loro cervello. Il pensiero viene appiattito, uniformato e privato della sua componente pensante. Non hanno più nemmeno coscienza di sé stessi.

Migliaia di schiavi si ritrovano a muoversi uno a fianco all'altro o in fila, a pochi centimetri di distanza senza esserne consapevoli, senza scambiarsi una parola, un gesto, senza potersi sfiorare, totalmente isolati l'uno dall'altro.

Le zone lavorative sono presidiate dalla Polizia di Sicurezza che effettua ronde e sostituzioni degli elementi deperiti, il suo ruolo è quello di mantenere in efficienza l'esteso apparato produttivo e terminare gli elementi devianti conducendoli direttamente nei congegni di espulsione verso l'esterno, da cui gli schiavi vengono sparati violentemente nella discarica. Qualcuno di loro si polverizza a contatto con il terreno, qualcuno viene corroso dalle piogge, altri sobbalzano sopra altri cumuli di carcasse, sopravvivendo per alcuni brevi momenti all'aria irrespirabile e vivendo i loro unici momenti di vita vera, straniata e smarrita, ma consapevole della realtà. I membri della Polizia di Sicurezza sono elementi coscienti e selezionati per non avere scrupoli o rimorsi, modificati per avere determinazione, decisione e forza fisica fuori dal comune, ma caratterizzati da una fedele e cieca sottomissione agli eletti. Un vecchio film aveva previsto qualcosa di simile, ma profetizzava la schiavitù di uomini assoggettati alle macchine, non la schiavitù di uomini assoggettati ad altri uomini.

Oltre le zone produttive, procedendo verso il centro dei presidi, si arriva al nucleo principale: i Nuovi Giardini di Babilonia. Questa è la zona in cui risiedono gli eletti, nell'agio e nelle comodità. Ognuno possiede una casa gigantesca e lussuosa. Le giornate trascorrono ormai nel sesso e nel mangiare. Nello studio della genetica, del condizionamento, nell'allenamento fisico e nella ricerca della perfezione assoluta che si addice ad una fiera vita votata al rispetto del Dio unico. Gestiscono tutto dall'alto tramite ordini ed imposizioni secondo ogni loro capriccio, privo di qualunque prospettiva orientata alla società e alla comunità: comandano l'egoismo e l'egocentrismo di una sola classe dirigente e privilegiata, priva di scrupoli, dominata dal cinismo della vita di un'umanità ormai corrotta e inesistente. Il lavoro non esiste e tutto viene delegato alla gestione della polizia, gli eletti vivono come dei nell'ozio, idolatrati e venerati dall'enorme opinione che hanno di loro stessi. Vivono nell'agio sacrificando il resto delle persone non elette, bruciandole come carbone nelle fornaci. Assorbono e sacrificano la loro vita sull'altare del loro potere.

La vita di chi non è eletto semplicemente non vale nulla.

Un mondo così strutturato non può che essere adagiato su sé stesso, rigido e suscettibile della sua stessa debolezza strutturale, violabile da una scintilla di imprevisto non programmato. Un dettaglio non pianificato, banale, che per una serie di eventi aleatori e a causa di coincidenze dovute al caso, può portare allo sgretolamento di un sistema tronfio ed imbelle, incapace di adattarsi a nuove dinamiche. Tutto ha origine dal caso, il caos creatore di ogni cosa, la variabile impazzita fuori da ogni controllo. L'universo ha avuto origine dal caso, è l'uomo che ha sentito la necessità di dare un ordine alle cose affinché potesse comprenderle e avere una lente interpretativa della realtà che gli permettesse di decifrare gli imperscrutabili legami dell'esistenza. La basi su cui si struttura la vita sono solo costrutti teorici a cui viene piegata la realtà; ma essa è qualcosa che prescinde i limiti di conoscenza dell'uomo. Qualunque cosa sia stabilita dall'uomo, può essere rovesciata e spazzata via in un solo attimo dal caso, dalla variabilità e dalla natura atavica delle cose che, anche se costretta in un spazio ristretto, sopita, messa a tacere, prima o poi trova uno spiraglio per esplodere.

L'evento:

Era una giornata qualunque, come qualunque era ogni giornata.

Il conteggio del tempo non esisteva più. Erano ati anni? Mesi? Millenni? Ma soprattutto, da che cosa era ato tutto quel tempo? C'era veramente un evento meritevole di fungere da spartiacque per il aggio da un periodo verso un altro? Quel giorno Numero 1, Numero 2, Numero 3 e Numero 4 erano stati prelevati dai propri loculi e condotti tramite il nastro trasportatore nei rispettivi luoghi di lavoro. Avvitare bulloni in una catena di produzione industriale per Numero 1, zappare la terra in un campo di patate per il Numero 2, raccogliere frutta dagli alberi sintetici per Numero 3 e pulire le fognature della Nuova

Babilonia per Numero 4.

Durante il trasporto assistevano via cerebrovisione alle eliminazioni del Grande Fratello 1984, quelle in cui il prete robotico dava dello “sporco religioso baciapile” all'asino cieco e monco, quest'ultimo scelto dal pubblico tramite televoto perché entrasse nella casa. L'eliminazione della nonna del fratello dello zio del presidente mondiale di allora fu un vero colpo di scena, ma a quei tempi non era concesso far vedere delle verruche in televisione e quando lei si abbassò il calzino destro, mostrandone una piuttosto evidente, dovette essere cacciata. Tutti erano inoltre in trepidante attesa di scoprire se veramente il cervello congelato di un vecchio presidente del consiglio maniaco sessuale sarebbe stato innestato in un sedano bianco modificato geneticamente (peraltro non si sarebbe notata alcuna differenza). Tutti sospettavano che la strabica Maslova, in attesa dell'operazione per cambiare definitivamente specie (sarebbe diventata una focena), avesse una storia con qualcuno della casa, ma con chi? Il prete robotico, l'asino monco o il sedano bianco? Più di tutto, chi aveva mangiato il pane lasciando le briciole sul tavolo?

Numero 1, Numero 2, Numero 3 e Numero 4 arrivarono loro malgrado sul loro posto di lavoro e, interrotte le trasmissioni delle onde della cerebrovisione, si ritrovarono ognuno di fronte al compito assegnatogli anni addietro; meccanicamente iniziarono a svolgere quello per cui erano stati programmati da una vita, senza pensare, ripetitivi e monotoni, incatenati nell'anima ad una forma di inesistenza eterna. Carne sacrificabile da macellare sotto i colpi del potere. I quattro automi, ridotti a residuati di umanità, dallo sguardo vitreo e inespressivo trascorsero la loro giornata come al solito, nella monotonia della ripetizione ossessiva: la ricetta inespressiva della quotidianità insignificante, fatta di giorni ognuno esattamente uguale al precedente e al successivo, in eterno. Nessuna distinzione, nessuna gioia, nessuna emozione, nessuna storia, nessun amore, nessuna lacrima, nessun lavoro, nessuna musica, nessuna noia, nessuna; solo ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, ripetizione, del nulla. La loro fortuna era quella di non avere nemmeno più la consapevolezza di vivere un orrore simile, di non sapere quanto vivessero allo stremo, sfruttati fino a consumarsi, privati della propria dignità, del proprio orgoglio, della più semplice

libertà di decidere.

Dopo le canoniche ore di lavoro Numero 1, Numero 2, Numero 3 e Numero 4 si trovarono tutti uno vicino all'altro in un incrocio del nastro trasportatore. E proprio mentre erano tutti allineati l'uno accanto all'altro, totalmente distolti dalla realtà perché immersi nell'isolamento sensoriale della cerebrovisione, che il caso mise in moto la variabile imprevedibile.

I quattro transitavano in un incrocio accanto ad un palazzo abitato da uno degli eletti più importanti dei presidio; erano obbligati a are da quella parte per poter essere ricondotti ognuno nel proprio loculo. In tale palazzo, erano stati fatti dei lavori in muratura sul lato esterno ed ovviamente erano stati usati un gruppo di automi per svolgere il lavoro. Quello che però uno schiavo non pensante non poteva avere, era l'elasticità e l'adattamento alla situazione; eseguiva solo un compito per come gli era stato impartito di farlo e non era in grado di osservare se qualcosa non funziona oltre a quello che gli competeva. Le impalcature erano quindi state costruite con alcuni difetti strutturali che rendevano il tutto estremamente instabile e fragile. Una pura coincidenza, la sovrapposizione di più errori da varie fonti che sommandosi tra di loro non potevano che portare a gravi conseguenze.

Nel momento in cui i quattro schiavi si trovavano ad essere trasportati nei pressi dell'impalcatura, qualcosa in essa si incrinò e cadde rovinosamente su sé stessa in un tonfo assordante e polveroso. Il terreno vicino tremò impetuosamente facendo sussultare con forza il nastro trasportatore. Il più vicino all'urto, Numero 1, scivolò fuori dalle cinghie che lo assicuravano, venendo sbalzato fuori dalle guide e nel fare questo investì Numero 2 e Numero 3 che perdendo l'equilibrio per il contraccolpo, portarono a terra con loro Numero 4.

L'aggancio alle guide segnalava il momento per attivare e disattivare la cerebrovisione e quindi si interruppero le trasmissioni televisive intracraniche; per la prima volta i quattro si ritrovarono a contatto con il vero mondo, con i loro

stessi occhi di fronte ad una realtà che li lasciò smarriti e terrorizzati.

Finalmente liberi del monopolio mentale videro questi enormi palazzi pieni di finestre che si perdevano a vista d'occhio, attorno a loro strade tutte uguali e nastri trasportatori con sopra persone come loro, immobili dallo sguardo perso nel vuoto e inespressivo, privo di ogni vitalità, morto. Erano lì, che scorrevano accanto a loro, ma era come se non fossero presenti. Gli schiavi avano accanto a loro senza rendersi conto di nulla, mentre i quattro cercavano ancora di decifrare quel mondo frenetico, in movimento ma spaventosamente chiuso in sé stesso, autistico. Luci fortissime provenienti da un punto indefinito sopra le loro teste li accecavano e chiudevano le loro pupille riducendole a piccole fessure. In uno strano gesto di indipendenza, una sorta di movimento istintivo sopravvissuto al condizionamento, portarono le mani a coprire il loro sguardo, con estrema fatica, perché mai avevano fatto qualcosa di simile. Rumori sconosciuti ovunque, colori, movimenti, odori, bombardavano improvvisamente la mente dei quattro liberati che pareva reagire inaspettatamente, sciogliendo l'intorpidimento che li aveva posseduti. L'incontrollata entrata di una grande quantità di informazioni mai esaminate pareva stimolare dal profondo le sinapsi e il loro cervello asfittico.

Dopo lunghe deprivazioni tuttavia non era possibile recuperare la totale funzionalità e nemmeno in poco tempo, ma forse in loro, qualcosa era rimasto sopito, covato e nascosto in attesa di un breve bagliore da cui poter trarre energia per poter esplodere, una sorta di rudimentale istinto di sopravvivenza e coscienza di sé mantenuto in stato di quiete. La fine delle trasmissioni aveva significato il termine del torpore e il risveglio graduale alla consapevolezza. Iniziarono a muoversi casualmente guardandosi intorno, esaminando quel mondo che li circondava con timore e paura. Ma allo stesso tempo c'era una sorta di curiosità, un'urgenza fisica a osservare quanto più fosse loro possibile, ad assorbire ogni fotogramma ed immagine, ogni minimo spostamento, ogni respiro, ogni riflesso di luce.

Numero 1, per primo, vide una persona che lo osservava da lontano. Lo guardò

smarrito, le occhiaie, le guance scavate dentro una carnagione bianca mortifera. Magrissimo e scheletrico, benché nascosto in abiti da lavoro, rimase lontano senza avvicinarsi, con uno sguardo atterrito. Si mosse per indietreggiare e vide che anche lui indietreggiava. Aveva un aspetto terribile, afflitto, di terrore. Però era la prima persona che vedeva nella sua rinascita alla vita. Sentì un forte impulso ad avvicinarsi e lo fece con diffidenza e attenzione. Quello sembrò capire e fece lo stesso. Un o per volta si fecero sempre più vicini, a volte inciampando perché ponevano maggior cautela nell'osservarsi piuttosto che a dove mettevano i piedi.

Si fecero sempre più vicini.

La paura era molta e per la prima volta Numero 1 sentiva il suo cuore accelerato rimbombargli nel petto in una serie di esplosioni fragorose; lo sentiva pulsare nelle vene, lo sentiva nelle orecchie, lo sentiva come se si muovesse per uscire dal suo torace, frenetico e incontenibile. Sentiva il respiro farsi affannoso per la paura; la paura, un'emozione mai provata prima, che ora sentiva dominargli le gambe tremolanti. Ma la curiosità era più forte, dopo aver ato anni di fronte alle stesse cose ogni giorno, la minima variazione costituiva fonte di forte interesse che andava ben oltre ogni tipo di istinto. Si faceva sempre più vicino, al punto da cogliere gli occhi sgranati dell'altro, poteva vedere il suo petto sollevarsi ansimante dentro ai suoi vestiti, scorgeva in lui la stessa paura che sentiva come sua.

Si allungò lentamente per sporgersi verso di lui.

Contemporaneamente anche l'altro lo imitò.

Quando le loro dita stavano per toccarsi, Numero 1 percepì una sensazione di liscio e freddo, appoggiò tutto il suo palmo sopra la mano di lui e capì di avere di

fronte a sé la propria immagine riflessa.

Rivolse il proprio palmo verso di sé togliendolo dallo specchio; era la prima volta che lo vedeva con la mente non intorpidita dall'influenza del nastro trasportatore.

Lo guardò come se fosse la cosa più bella al mondo.

Una lunghissima piega lo tagliava orizzontalmente in corrispondenza del punto in cui le dita si ripiegavano su sé stesse quando si chiudevano a pugno. A lato del pollice una lunga piega a parabola partiva dalla fine di quella precedente per circumnavigarlo e e giungere fino all'attaccatura del polso. Dal termine di quest'ultima si dipanavano altre due piccole pieghe che si diramavano poi all'interno del palmo. Una partiva dalla base dell'indice e scendeva lentamente per arrivare fino alla base del mignolo, sopra di essa una parallela che dal medio arrivava fino all'anulare.

Un piccolo neo al suo interno, sbiadito, assorbito e cancellato dai calli da lavoro.

Socchiuse leggermente le dita, provando per la prima volta coscienza di sé e del suo essere, una vaga intuizione ingenua nel caos della confusione. Si sentì liberato da un giogo che lo aveva oppresso da troppo tempo e provò una sensazione di sollievo, come di un elastico che si rompe, e una lacrima iniziò a rigargli il viso. Non capiva cosa gli stesse succedendo, ma quella sensazione gli causava quella reazione fisica e sentiva dentro di sé il bruciore di quelle lacrime salate come fossero frustate.

Si sentiva semplicemente liberato.

Numero 2 e Numero 3, ati per i medesimi stati di Numero 1, furono i primi ad accorgersi di non essere soli. Entrambi videro Numero 1 armeggiare vicino allo specchio e guardarsi le mani. Numero 2 perse l'equilibrio per seguire un rumore assordante che gli sfrecciava sopra la testa e cadde a terra grugnendo di dolore. Non riuscì ad articolare nulla che non fossero rantoli soffocati, gracchiando suoni privi di senso e di grazia. Si sforzò di capire la funzione di quella capacità ma, non avendo mai parlato in vita sua, non gli era possibile utilizzarla in nessun modo. Tuttavia la sensazione dell'aria compressa nei polmoni che, spinta fuori, faceva vibrare le corde vocali era estasiante. Allora provò ad emettere suoni salendo di tono, sempre più forti, fino a sentire il sapore di sangue in bocca. Numero 4 osservava Numero 1 e gli si avvicinò. Seguito da Numero 3 e poi Numero 2. Si fecero sempre più vicini, si riconobbero vicendevolmente una comunanza di cui però non riuscirono a identificare l'origine, c'era qualcosa che li rendeva affini, simili, una sofferenza evidente nell'apparenza.

Diffidenti, a distanze irregolari, si guardarono negli occhi, riconoscendo nell'altro la propria paura.

L'evoluzione:

<<Siamo chiamati nel settore F 451. Uno dei sepolti si è fracassato un braccio e dobbiamo buttarlo fuori. Andiamo.>>

Disse il poliziotto al collega. Erano entrambi con la testa rasata coperta dal cappello d'ordinanza, fisicamente ben piazzati, talmente simili da risultare indistinguibili; probabilmente erano addirittura cloni, viste le selezioni aberranti del progetto genetico. Una divisa stretta ed aderente conferiva loro un tono autoritario ed imperioso, nera come petrolio; alcune macchie di sangue sotto la suola degli scarponi e altre piccolissime, schizzi leggeri, all'altezza del torace

rivelavano la loro natura sadica e violenta. Entrambi procedevano sicuri e a o spedito, senza dire una parola, nella direzione del settore F 451.

I due poliziotti giunsero in brevissimo tempo nel luogo in cui erano stati inviati dal Sistema Centrale, che aveva segnalato una “rottura” da eliminare. Arrivarono accarezzando i manganelli e con l'espressione scocciata di chi non vuole avere noie e punta solo a liberarsi dei contrattempi il prima possibile. Individuarono subito il loro obiettivo: ad un angolo di strada uno schiavo si dimenava per terra con un braccio spezzato all'altezza del gomito che gli ciondolava ivo e privo di motilità. Lo sventurato si rigirava su sé stesso in preda al dolore e alla visione della realtà, che stava facendo riaffiorare lentamente la coscienza. L'espressione del viso non era più immobile come quella dei “sepolti” sotto cerebrovisione, era invece contorta e tirata dal dolore, mista allo sgomento di trovarsi in mezzo a qualcosa che non sapeva spiegare, una realtà mai vista, contratto da una sofferenza che non aveva mai provato, intensa, che scompagina il cervello. Si guardava intorno tormentato e disperato, mentre ad ogni sussulto il braccio lo faceva gridare sempre più forte, quando girandosi in direzione di una impalcatura crollata vide sbucare da un angolo vicino a lui due figure in nero.

Le sue smorfie di dolore fecero sghignazzare i due poliziotti che si avvicinavano a lui, potevano vedere la sua bocca sporca di terra mescolata alla saliva e i filamenti di bava che si estendevano dalle sue labbra aperte e tirate a dismisura.

< >

E così dicendo assestò un fortissimo colpo sul braccio contorto e nodoso del sepolto che non poté fare nulla di più che gridare con maggiore disperazione mentre le lacrime gli riempivano gli occhi. Cercava istintivamente una via di fuga da quella minaccia, si mise a pancia in giù cercando di trascinarsi con l'unico braccio sano e spingendo con le gambe.

<<Sono patetici! Non credo di aver mai visto forma di vita più bassa!>>

Disse con un tono pieno di disprezzo.

Lo colpì violentemente sulla schiena con il manganello, per poi far partire un tremendo calcio destro che rivoltò il disgraziato sulla pancia.

< >

< >

<<Ma questo va espulso o portato al Ristorante?>>

< >

<<Ma ci pensi mai a quello che fanno al ristorante? Cioè, prendono queste carcasse e le tritano per farci quelle porcherie che gli danno per endovena nei Cimiteri. Si mangiano tra di loro e nemmeno lo sanno. Del resto lo farebbero comunque vista la loro stupidità genetica.>>

< >

e rivolgendosi al disgraziato

< >

Lui di tutta risposta riuscì solo a rigirarsi sbavando per terra con le labbra tremanti, singhiozzando senza sosta e vomitando sangue. Un nuovo colpo dietro alla nuca gli fece perdere ogni forza e ogni impeto, era subentrata la rassegnazione e il senso di sopraffazione precedente la morte.

Il Ristorante era una struttura in cui venivano gestite tutte le derrate alimentari del presidio. In una sezione a parte si preparavano i sieri endovenosi, che venivano ottenuti dalla macellazione di sepolti “allevati” a quello scopo preciso; erano il risultato di infinite modificazioni genetiche per rendere le cavie ricche di nutrienti. A questi venivano spesso aggiunti esemplari giovani che si “rompevano” prematuramente: era il Programma di Riciclo dei Presidi.

Uno dei due aguzzini si avvicinò al sepolto e gli poggiò un piede sulla testa.

<<E ora un bel colpo secco e...>>

Non fece in tempo a finire la frase.

Ebbe solo il tempo di sentire un grido inespressivo e subito si sentì stringere il collo da un braccio piccolissimo, esile e ridicolo, ma che aveva una forza sovrumana. Lo stritolava come una tagliola e non riusciva a liberarsi da quella

morsa, tenace, disperata, non riusciva a staccarsi quella furia di dosso, lui che era il più forte della scuola di addestramento.

Aveva sopra di sé, ancorato con tutta l'ira che fomentava il suo corpo, Numero 1.

Non avevano avuto molto tempo per potersi osservare, Numero 1, Numero 2, Numero 3 e Numero 4. Subito vennero interrotti da grida di sofferenza disumana. Rimasero ad osservare tutta la scena prima di muoversi. Ad ogni colpo che il poliziotto dava, qualcosa dentro di loro cresceva, una rabbia feroce ed animale, un senso interiore indefinibile. Vedevano quella sofferenza e provavano qualcosa che non riuscivano a definire, pietà. Pietà per quel povero essere che rantolava impotente. Un senso atavico di empatia e di vicinanza, qualcosa che era stato seppellito e cancellato e che ora riaffiorava con una forza dirompente e devastante, sentivano quella sofferenza nella loro pelle, ricevevano ogni colpo che vedevano cadere sul sepolto. Nasceva in loro una sensazione stridente di ingiustizia, di sopruso, che incrementava ad ogni colpo, diveniva rabbia, ira, furia animalesca e primitiva, senza controllo. Qualcosa di inarrestabile si stava diffondendo nei loro muscoli consumati, un senso una ferocia disumana di fronte ad uno situazione che ormai di umano non aveva più nulla.

Erano diventati dei simulacri vuoti.

Ed ora tutto quello che era stato soffocato, compresso, stretto tra piccole pareti fino a farlo scomparire, stava prendendo spazio e si faceva sempre più grande il senso di giustizia e di riscossa.

Quando il crescendo fu intollerabile, quando l'impeto di agire e liberarsi di una vita iva presero il sopravvento, Numero 1 andò correndo verso il suo destino con tutta la rabbia accumulata negli ultimi anni. Gridando in maniera gutturale e

sconnessa si avventò contro uno dei due poliziotti e gli saltò addosso stringendogli con tutte le sue forze il collo muscoloso. L'uomo cadde a terra con Numero 1 sopra di sé che continuava a stringere; a nulla valsero gli sforzi del compare che con il manganello percuoteva violentemente Numero 1. Sembrava non sentire nulla, il compare infieriva con veemenza sul suo volto ma Numero 1 non desisteva, aveva appena fatto un'enorme conquista e non aveva intenzione di arretrate più nemmeno di un solo o. Il poliziotto era a terra, paonazzo e agonizzante, e provava a liberarsi dalla presa ma non riusciva, gli mancava il respiro e gli occhi fuori dalle orbite tradivano il terrore puro di quel momento.

L'esitazione degli altri tre non fu lunga, si avventarono sul compare che manganellava Numero 1 e riuscirono a sopraffarlo in poco, i loro occhi fiammeggiavano di rabbia, posseduti dal solo istinto. Numero 1 non aveva ancora smesso di stringere, benché il poliziotto avesse ormai smesso di opporre resistenza. Era morto. Prese il manganello caduto poco distante dal punto dove era avvenuta la loro colluttazione e andò verso gli altri che stavano linciando in maniera scomposta e disordinata il compare, gli si avvicinò e, con occhi privi di emozione, guardò il suo volto tumefatto e sanguinolento per poi iniziare a colpirlo ripetutamente alla testa fino a spaccargli il cranio, mentre gli altri lo tenevano fermo.

Numero 1 emise un grido forte ed impetuoso, seguito e alimentato da Numero 2, Numero 3 e Numero 4, le prime quattro persone che per un caso fortuito riuscirono a liberare la loro mente e iniziare la rivoluzione contro gli eletti. Furono i primi a svegliarsi e iniziarono trascinare fuori dai nastri altri loro fratelli: Numero 5, Numero 6, Numero 7,.. . Divennero un unico grande corpo che marciava all'unisono, al ritmo della propria rabbia, in direzione dei Nuovi Giardini di Babilonia e gridava, nel silenzio della propria intesa reciproca, parole ritrovate che erano andate perdute : giustizia, riscatto, rivoluzione..

“Il popolo si estingue, si è abituato alla propria lenta agonia, e si è formato dei modi di vita tipici dell'estinzione: muoiono i bambini, le donne che lavorano al di sopra delle loro forze, tutti sono denutriti, e sopratutto i vecchi. E il popolo è

arrivato così gradualmente a questa situazione, che non riesce nemmeno a vederne tutto l'orrore, e non se ne lagna. E per questo anche noi riteniamo naturale questa situazione, e che tale debba essere.”

Lev Nicolaevič Tolstoj

LAMA VIII R - LA COLAZIONE DI HERMILA

"La ruota deve essere rimessa in moto, anche se i suoi primi denti macineranno proprio noi."

Beppe Fenoglio

Non era un giorno come un altro.

Non è mai un giorno come un altro, ma spesso ci ritroviamo a fingere che sia così. Hermila Garcia aveva gli occhi leggermente socchiusi mentre la luce di una mattinata piuttosto calda, per essere il mese di Dicembre, stava entrando soffusamente dalla finestra disperdendosi in polvere per tutta la stanza. Aveva ato la notte a dormire supina e nuda; si era addormentata dopo aver fatto l'amore con il marito, che ora le giaceva accanto e respirava pesantemente. Inclinò la testa e iniziò a fissare i suoi occhi chiusi e la sua bocca semiaperta percorsa da lunghi respiri rilassati. Era girato verso di lei con le mani giunte a preghiera, nudo anche lui. La sua fronte spaziosa sembrava perdersi nella sua folta chioma di capelli riccioli e nerissimi.

Stette alcuni istanti ad osservarlo senza avere alcun pensiero preciso, era un'abitudine che ormai aveva preso da anni, si svegliava sempre prima di lui e stava alcuni minuti a guardarlo dormire combattuta tra la voglia di abbracciarlo forte e quella di non svegliarlo per non disturbare il suo riposo.

Non era mai capitato che avesse deciso di abbracciarlo, almeno non fino a quel

giorno.

Delicatamente fece are il suo braccio destro sotto il collo di lui, con il sinistro lo avvolse dietro la schiena e teneramente appoggiò la fronte sulla sua chiudendo gli occhi. Stringendolo a sé sentì il dorso della sua mano ferma, scivolare sotto uno dei suoi seni per poi rimanervi sotto intrappolata. Lui continuava a dormire come se niente esistesse oltre al suo sonno. In quel momento Hermila sentì di fare qualcosa di sottilmente altruistico: stava accudendo il suo uomo senza la pretesa che lui ricambiasse il gesto, stava facendo qualcosa per il puro piacere che il gesto le dava, non voleva dimostrare qualcosa a suo marito o agli altri, era solo una sincera espressione di quell'amore che da sempre la teneva legata a lui in ogni momento. Era un gesto che, nella sua privatezza e discrezione, racchiudeva in sé l'espressione del piacere che le dava il solo fatto di sentirsi vicina a lui. Non voleva nulla in cambio in quel momento, non voleva attenzioni, voleva solo fare uscire quell'amore che teneva dentro e che fino a quel giorno aveva conservato dietro ad un muro di distacco.

In miriadi di occasioni avrebbe voluto comportarsi diversamente, far trasparire un'emozione in più e tralasciare le esitazioni mediate dalla paura di sentirsi debole, dal farsi sopraffare dall'incombenza del dover apparire sempre forte, decisa e determinata. Due mesi prima aveva dimostrato un coraggio sconosciuto ad ogni uomo e per fare questo aveva dovuto dimenticare ancora più definitivamente il suo essere femminile e la sua voglia di concedersi attimi di fragilità e di delicatezza. Da due mesi il suo mondo non ammetteva più alcun tipo di esitazione o di debolezza e sarebbe stato così per molto tempo. Quel giorno però non le andava di soffocarsi, al contrario, le andava di concedersi una piccola eccezione prima di cominciare la giornata e raggiungere il suo ufficio.

Uscita di casa sarebbe ritornata quella che il suo ruolo le imponeva di essere.

Sorrise, prima di girarsi per dare le spalle al marito, affondando il volto dentro al guanciale morbido. Si scostò un poco da lui in modo da ricostruire quel distacco

dalla fragilità che tanto le serviva, in modo da rivestirsi con i panni che tanto le erano utili per lavorare. Guardò la luce del giorno penetrare dalla finestra e si accorse che il profumo di lui era in tutta la stanza, era come un velo trasparente che, sospeso nell'aria, nuotava tra i venti e cadeva sulle cose.

Era sulle sue mani, sul suo corpo, ma più di tutto era dentro di lei.

Lo amava quanto non aveva mai amato nessuno e non aveva mai avuto bisogno di conoscerlo, erano cresciuti insieme da piccoli. Lui era stato il bambino dispettoso che la pizzicava quando erano piccoli, che le aveva fatto mangiare del fango e che le rompeva le bambole, era il ragazzo che la prendeva in giro per i suoi fidanzati e che le aveva nascosto la bicicletta facendole fare 10 km a piedi. Si cresce, ed era diventato un uomo. Un uomo maturo che nemmeno riconosceva per quanto tempo era ato dall'ultima volta in cui si erano visti e che, come prima cosa, sentì l'esigenza di scusarsi per il suo comportamento di quando era adolescente e bambino. Hermila in quell'occasione si rese conto di non averne nemmeno più il ricordo, l'infanzia era una scatola sepolta dagli anni di studi e dal lavoro, aveva dimenticato tutta quella serie di antefatti che l'avevano fatta soffrire. Conservava una sottile ed inspiegabile antipatia per quel tizio che la fermò, trattenendola per un braccio, declamando assorto il suo nome. Antipatia che trovò giustificata non appena lo riconobbe e che svanì con le scuse e con gli incontri a seguire fino a quando non si ritrovarono a svegliarsi accanto, nello stesso letto, ogni giorno a venire.

Si rifugiava spesso nelle tappe della loro storia per trovare la sicurezza che, a volte, sentiva mancare sotto i piedi. Ripensava alla volta in cui si era fatto avanti baciandola e in quel preciso momento, ancora mezzo assopito, lui aderì con il suo petto alla schiena di lei e la cinse in un abbraccio forte appoggiando la sua guancia su quella di Hermila, ma solo dopo averla teneramente baciata.

Si era svegliato e come ogni mattina da quanto vivevano insieme, le dava il buongiorno in quel modo, pungendola puntualmente ogni volta con la sua barba

incolta.

< > le chiese.

<<Mmmm.. Credo di sì, non sono andata a vedere.>>

< >

Disse lui continuando a tenere gli occhi chiusi, masticando le parole e terminando il discorso con un acuto colpo di tosse.

< >

Disse lei in tono ironico e scherzoso.

< >

Disse lui in tono grave e serio, ignorando completamente la battuta giocosa di lei.

< >

Disse Hermila, con una velata tristezza nella voce, ma con la convinzione di chi non avrebbe mai cambiato idea.

< >

Rispose lui con rassegnazione e si accese una sigaretta prima di alzarsi dal letto per andare in bagno a farsi la barba. Non era mai riuscita a capire il senso di quel vizio. In realtà molte volte si era chiesta come potesse fare, all'atto pratico e fisico, a farsi la barba con la sigaretta in bocca; fatto sta che quell'operazione non solo gli riusciva perfettamente, senza tagliarsi, ma nel contempo canticchiava pure con una certa verve e con un trasporto di indefinibile ione. Forse la sigaretta fungeva solo da cronometro per lo svolgimento di tutta l'operazione, visto che era esattamente quello il tempo che gli serviva per sbarbarsi completamente. Alla fine di tutto, puntualmente spegneva la sigaretta sul bordo del lavandino e la buttava direttamente giù dal cesso insieme a tutti i residui di cenere che riusciva a raccogliere.

Mentre sentiva l'acqua scorrere dal lavandino del bagno, scrosciando in complementare accompagnamento al canticchiare profondo di suo marito, rimase a fissare ancora la luce del giorno, come se dovesse svelarle chissà quale verità, per poi soffermarsi sul pensiero che, qualunque essa sia, la verità è sempre troppo accecante per essere vista direttamente, esattamente come il sole di quel mattino.

E forse nel suo caso la verità sarebbe stato meglio non vederla per non farsi riprendere dalla paura.

Aveva ragione lui, sarebbe stato molto meglio lasciar perdere, ma ormai era si era presa quella responsabilità.

Lasciando il marito da solo con i suoi vocalizzi e le sue rischiose operazioni estetiche si avvicinò all'armadio e indossò una vestaglia leggera che non nascondeva quelle forme femminili tanto mortificate dagli abiti con cui ogni giorno entrava nel suo ufficio. Le arrivava alle caviglie e il colore tenue e le fattezze le conferivano il giusto candore materno, necessario per svegliare Fernando.

Prima di uscire dalla sua camera da letto si diede un'aggiustata con le mani, ai capelli scarmigliati dal sesso e dal sonno. I suoi lunghi capelli castani le cadevano sciolti sulle spalle incorniciandole un viso spigoloso, ma dai tratti delicati e dalle labbra carnose, sempre esaltate da un rossetto leggero, ora ancora più sbiadito nei tempi della notte appena trascorsa. I suoi occhi, scuri, profondi e bui completavano il suo viso incastonandosi sul volto come due abissi infiniti. Si ravvivò facendosi are le mani tra i capelli lateralmente alla testa, per poi scrollare tutto il capo fino a farsi ricadere la frangia sulla fronte.

Rimase a fissarsi allo specchio alcuni istanti, guardandosi attraverso la momentanea frangia cercando di scrutare nel proprio sguardo qualcosa che tradisse i suoi dubbi, il suo tormento profondo o, peggio ancora, la paura. Non vide nulla di tutto questo. Vide solo una donna determinata che sarebbe andata fino in fondo. Ancora vedeva la donna che voleva fermare quella mattanza e questo la inorgoglì; lei non era una vigliacca come tutti i suoi colleghi uomini. Non era come quelli che nei bar giocano a fare il macho, che sanno solo parlare o misurare chi ce l'ha più lungo e più duro. Tutti bravi a fare delle gran parole, i difensori degli oppressi, i migliori, gli ineccepibili. Nessuno che avesse avuto il coraggio di prendersi la responsabilità di affrontare una piaga come quella con la stessa forza con cui lei aveva abbracciato questa causa, la sua causa, quella di sempre, quella che gli era costata un fratello. Di fronte alla vile ritirata dei suoi colleghi uomini, si era proposta lei. Ed il suo esempio è stato seguito da altre tre donne, una addirittura di venti anni appena, indignate dalla meschinità maschile.

Si infilò le ciabatte e uscì dalla camera da letto dirigendosi verso la stanza di Fernando.

Aprì lentamente la porta facendo filtrare un solo foglio sottile di luce e rimase ad osservare il piccolo. Era l'altro rito del mattino. Era girato di schiena che dormiva beato nel suo letto. Aveva i capelli corti ed un volto dai lineamenti affusolati e delicati, quasi femminili, e, nonostante fosse sua madre, non poteva averli presi da lei. Tutto avvolto nelle coperte sembrava dormire beato ma con uno sguardo pensieroso, quasi assorto e vigile. Si avvicinò ai bordi del letto immergendosi nell'apnea del buio che dominava tutta la stanza per poter sussurrare all'orecchio di Fernando.

<<Sveglia piccolo mio..>>

<<...>>

<<Mi senti? Sveglia..>>

E lo guardò sorridendo, sembrava un pulcino arruffato.

<<Mmmm..>>

< >

Gli disse con infinita dolcezza.

Il bimbo osservò la madre con aria assonnata e chiuse gli occhi quando Hermila si chinò per baciargli la fronte. Voleva carezzargli la testa ma dovette reprimere l'impulso di farlo. “Il muro, ricorda il muro, ti protegge” si ripeté in testa per giustificare l'omissione di quel gesto. Abbandonò la camera del figlio per recarsi in cucina a preparare la colazione. A tavola preparata si sedette sulla sedia e attese che entrambi la raggiungessero. Iniziò a giocare con le posate e le venne in mente un episodio di quando ancora era giovane, un evento che forse non aveva mai nemmeno raccontato a suo marito.

Successe per le strade del centro quando ancora aveva 17 anni. Era uscita con altre due sue amiche per andare a bere in un pub, aveva intenzione di svagarsi dopo essere stata mollata da un idiota di cui si era invaghita, una storia molto breve per fortuna. La serata procedeva in maniera piuttosto divertente, con le amiche che cercavano di consolarla evidenziando tutti gli enormi difetti di quello che era un ex talmente trascurabile da non ricordare ormai più nemmeno il nome. Ma al momento, la situazione le sembrava più complicata e temeva veramente di aver perso qualcosa di importante.

Il locale era molto carino e gremito di persone. Era tutto in legno con una grande quantità di colori piuttosto scuri, ma allo stesso tempo dalle tinte morbide e accoglienti. I tavolini si estendevano a macchia per tutto lo spazio interno al cui centro capeggiava un bancone circolare con tutte le bottiglie esposte sopra la testa dei barman che gestivano il locale, due omoni ben piazzati, entrambi rasati a zero e così somiglianti da sembrare gemelli. Spesso vestiti persino allo stesso modo, totalmente di nero, risultavano ancora più difficilmente distinguibili. Ad aiutarli c'erano due cameriere molto giovani che si affannavano a fare spola dai tavoli ai banconi per servire gli avventori. Una delle due frequentava la stessa scuola di Hermila ma aveva un anno in più di lei.

Ricorda che durante la serata una delle sue due amiche fu abbordata da un turista straniero il quale si trasferì al loro tavolo accompagnato dai suoi tre amici, tutti turisti in visita per una settimana e quello era il loro ultimo giorno di vacanza. Uno di questi, Manuel, non ha mai dimenticato il suo nome, aveva dei modi di fare decisamente magnetici ed affascinanti, anche se forse un poco insistenti. La prese per sfinimento fino a convincerla a ballare insieme in una piccola pista da ballo all'angolo opposto dove si erano sedute a bere. Ballava molto bene e si sapeva muovere, i suoi muscoli erano piuttosto evidenti da sotto la camicia bianca, mentre i suoi lunghi capelli neri sembravano danzare al ritmo della musica, quanto il suo corpo sinuoso e apparentemente ben tornito. Aveva dei modi di fare molto gentili e premurosi benché allo stesso tempo desse l'impressione di avere un qualcosa di flautato all'eccesso, di finto, di predisposto.

Ballarono e parlarono tutta la sera fino a tardi, lui disse di studiare giurisprudenza al suo paese, ma che era ai primi anni. Lei, che dall'aspetto dimostrava di essere molto più grande, le parlò del suo sogno di diventare anche lei avvocato per difendere i più deboli, perché “se ad ogni angolo di strada c'è un disperato, all'angolo successivo c'è subito qualcuno pronto ad approfittarsi di lui”, della sua voglia di cambiare quel paese in qualcosa di migliore, in un luogo semplicemente più giusto.

Era piena di sogni.

Lui sembrava invece molto più disilluso ma allo stesso tempo ascoltava con attenzione ogni sua parola, senza mai distogliere lo sguardo da quello di lei, sorridendo incessantemente in amabile maniera. Trovando alcune cose in comune e alimentati da un paio di drink, arono tutta la sera insieme fino all'ora di chiusura del locale.

Trovatesi fuori le due compagnie decisero di salutarsi e di prendere ognuna la sua strada.

Hermila tornò a casa a piedi insieme alle sue amiche, gridando alticce per le strade della città mentre il cielo iniziava a schiarirsi per l'ora tarda ormai inoltrata. Non si vedeva anima viva, ava solo qualche sporadica macchina con i fari accesi e il silenzio faceva da padrone insieme al buio della notte, per le ultime ore prima che si ripresentasse il solito caos cittadino.

Hermila in quella sera aveva dimenticato la brutta rottura con il fidanzato e aveva avuto modo di conoscere una persona piacevole ed ora non poteva far altro che ridere con le sue amiche nei postumi di una sbronza decisamente meritata. Il gruppo di tre amiche dovette però separarsi perché, per ritornare a casa, dovevano percorrere strade diverse. Hermila prese la strada verso casa ando prima lungo un viale popolato da alberi su entrambi i lati e poi in un vicoletto sulla sinistra che le permetteva di risparmiare il giro che avrebbe dovuto fare proseguendo sulla strada principale.

Fu solo una volta entrata nel vicolo che fece caso ad un rumore di i dietro a sé, si girò di scatto e riconobbe Manuel.

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Turbata dalla sua presenza, doveva esserle stato dietro da parecchio, cercò di tagliare gentilmente ogni possibile suo appiglio

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E cercò di allontanarsi per mettere distanza tra loro perché, trovarsi sola in quel vicolo buio con un estraneo che l'aveva appena seguita per diversi isolati senza farsi vedere, si faceva piuttosto angosciante.

Ma lui allungò un braccio e, afferrandola per un polso, la trasse verso di sé cercando di baciarla irruentemente.

Hermila si girò prima che lui potesse farlo e premendo con tutta la sua forza sul petto di lui riuscì a divincolarsi e allontanarlo. Manuel continuava a tenerla per il polso e la ritirò a sé tentando nuovamente di baciarla e infilandole una mano tra le gambe. Hermila lo allontanò nuovamente e gli diede uno schiaffone al volto con il braccio libero, ma non ebbe nemmeno il tempo di gridare perché immediata fu la reazione di Manuel che la colpì con un pugno in viso facendola cadere a terra sulla pancia. Non le concesse nessun tempo di reazione e le si gettò subito addosso rigirandola e stringendole forte il collo con una mano, mentre con l'altra cercava di strapparle le mutandine. Hermila, stordita dal pugno, cercò di serrare le gambe per opporre resistenza ma lui vi si inserì con il bacino per poterle tenere aperte.

Manuel stava armeggiando con la biancheria e nel mentre allentò la stretta al collo per un attimo.

Hermila contemporaneamente stava smanacciando a terra in cerca di un appiglio qualunque, quando riuscì finalmente a ghermire con la mano una bottiglia di vetro e scagliarla forte sulla testa di Manuel. La bottiglia si infranse per l'urto e la testa del ragazzo iniziò a sanguinare mentre cadeva di lato mettendosi le mani al volto. Libera dalla morsa, Hermila si prese alcuni istanti per riprendere fiato e riacquistare la calma. Le tremavano le gambe e sentiva il bruciore dei graffi. La paura stava scemando per fare posto al senso di vergogna. Ma non per quello che poteva accaderle, bensì per l'esistenza di un uomo del genere. Altre donne sarebbero scappate, lei non lo fece, si sentiva indignata e stupida; indignata per la violenza e stupida perché Manuel le piaceva anche.

Si era fatta prendere in giro.

Decisa più che mai si alzò recuperando la bottiglia rotta. Manuel si stava rialzando, sempre con le mani sulla faccia, ma prima che potesse rimettersi in piedi lei gli assestò un calcio deciso ai genitali. Lo vide afflosciarsi immediatamente a terra come uno straccio sporco e nel mentre lo vide spostare le mani luride di sangue dal volto alla zona pubica. Paonazzo in volto e senza fiato, Manuel rantolava accasciato a terra quando lei gli si avvicinò e lo sfigurò al volto con la bottiglia rotta e sibilandogli in un orecchio tutta la rabbia che aveva

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Poi gettò la bottiglia contro un muro frantumandola in mille pezzi e si diresse verso casa, gonfia di vergogna e umiliazione. Fu la prima volta in cui dovette usare violenza per difendersi.

Quella stessa violenza che poi divenne compagna delle sue giornate.

<<Mamma è pronta la colazione?>>

<<E' tutto in tavola..>>

Rispose distolta dai suoi pensieri dalla voce del figlio che irruppe tra i suoi ricordi.

Anche il marito si era seduto con loro e lei sentì l'impulso di accarezzargli il volto con la mano e dirle quanto lo amava ma non riuscì a dire o fare nulla. Avrebbe voluto are la mano sulla testa del suo bambino ma non le riuscì di fare nemmeno quello.

Aveva davanti i suoi due uomini e rimaneva persistentemente chiusa.

Avrebbe dato la vita per loro.

Desiderava solo un mondo migliore e più sicuro per suo figlio. Era entrata in accademia con quella precisa intenzione. Dopo il fatto di Manuel aveva sentito l'esigenza di entrare in polizia per stare sul campo, dove la realtà era fatta di sangue e proiettili, dove si poteva intervenire in concreto, non nelle aule di tribunale, dove dominano la corruzione e dove solo il ricco veniva tutelato.

La lotta con la criminalità era un campo aperto e senza fine.

<<Mi i il miele?>>

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Disse Hermila con infinita dolcezza rispondendo alla richiesta di Fernando, che iniziò a prendere ampie cucchiaiate di miele direttamente dal barattolo.

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Disse lui con la bocca piena di miele.

<<E poi cosa hai fatto d'altro?>>

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Gli chiese e subito vide un cambiamento di espressione sul volto del piccolo, un malcelato imbarazzo, che ogni genitore sa riconoscere e classificare. Era accaduto qualcosa che non le voleva dire.

<<Si, ho battuto la testa con un mio compagno. Ci siamo scontrati cercando di prendere la palla.>>

Decise che non era il momento di approfondire la cosa, avrebbe indagato più tardi con calma. Temeva che qualche prepotente infastidisse suo figlio e in quel caso gli avrebbe insegnato come bisogna fare per difendersi, del resto, dopo anni ati a contatto diretto con la criminalità di ogni specie qualcosa doveva ben aver imparato su come tutelare la propria persona e su come avere la meglio su

individui più forti di lei.

Non voleva che suo figlio potesse farsi schiacciare o deridere da qualcuno. Non sarebbe intervenuta personalmente, ma avrebbe fatto in modo che potesse difendersi da solo. Bisogna imparare ad essere forti, duri e determinati. Sperava che questa lezione rimanesse a suo figlio.

Sperava di argli quella stessa determinazione che l'aveva spinta a prendere il comando della polizia nella guerra contro i narcotrafficanti. Nessuno dei suoi colleghi uomini aveva accettato l'incarico. Avevano rinunciato tutti terrorizzati dalle minacce di morte ricevute e dal destino dei predecessori. Inserirsi in quello che era ormai un panorama consolidato, con la precisa intenzione di limitare una guerra in corso e cancellare questi clan criminali, era come firmare la propria condanna a morte.

Non c'era nulla da fare, erano troppo potenti, controllavano tutto e tutti.

Se volevi sopravvivere due cose potevi fare: startene sulle tue e non andare a pestare i piedi a nessuno. In questo modo potevi conservare la vita, poi per mettere da parte una buona pensione bastava intascare qualche mazzetta e chiudere gli occhi ogni tanto.

Corruzione. Lasciarsi corrompere. Ogni volta che Hermila sentiva questa parola visualizzava l'immagine dell'acido che corrode i materiali, che li scioglie. Immaginava un piccolo soldatino giocattolo bello, lucido, splendente, in una parola: magnifico. Vedeva nitidamente che questo veniva calato in un calderone di acido il quale iniziava a corroderlo sciogliendo i colori della sua divisa, poi ne alterava gli arti facendovi nascere delle bolle, altre parti iniziavano a liquefarsi fino a che dell'oggetto originario non rimaneva più nulla se non un ammasso grumoso, amorfo, deforme e dall'odore nauseabondo.

Se l'uomo ha realmente un'anima come ci vogliono insegnare le religioni, sicuramente ha le sembianze di quel gioco.

Hermila quel gioco lo lucidava ogni giorno e lo proteggeva dalle alitate di acido, da chi voleva proporle di vendere quella cosa che in gioventù vedeva calpestata e voleva più di tutto difendere con il suo sogno dell'avvocatura: la dignità umana. Non era mai scesa a patti con la propria etica, con la propria morale, era integerrima e per questo credeva realmente nella giustizia.

Aveva visto troppo orrore per poter pensare di chiudere le palpebre e fare finta di nulla.

Rimaneva nei suoi occhi anche quando erano chiusi.

Aveva provato a chiudere gli occhi, ma così facendo l'orrore rimaneva sempre lì, non calava alcun tipo di tenebra. Sentì allora di dover fare qualcosa. E fu per questo che aveva accettato di condurre la polizia nella guerra contro i narcotrafficanti. Lo fece di slancio, come naturale conclusione delle scelte che l'avevano condotta fino a quel momento. Quando i giornalisti le chiesero il motivo di una scelta così pericolosa, la sua risposta fu solo “Qualcuno dovrà pur fermare questa mattanza.” (1) NOTE

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Disse al marito, il quale annuì senza alzare lo sguardo. Soffriva ogni mattina nel vederla uscire di casa perché temeva potesse essere l'ultima in cui si sarebbero

visti. Avevano litigato furiosamente quando venne a conoscenza della decisione di Hermila. Le aveva rimproverato di non aver pensato minimamente alle conseguenze, l'aveva accusata di non considerare né lui né Fernando, erano volate parole forti e si erano scavati forti dissapori tra loro, ma alla fine, aveva accettato la sua decisione. Tuttavia, nonostante questo, ogni mattina non poteva fare a meno di soffrire per questa separazione ed era ossessionato dalla paura di ricevere durante il giorno una telefonata che gli comunicasse la sua morte. Conosceva bene la sorte che era capitata a Herman, il predecessore di Hermila, e ogni giorno pregava che a lei non capitasse un orrore simile.

Accompagnata dal rumore dei propri i Hermila entrò nella sua camera da letto e si sfilò la vestaglia sollevandola verso la testa per poi gettarla sul letto ancora sfatto. Era in ritardo, lo avrebbe rifatto lui. Tirò fuori la sua pistola dal cassetto sotto al suo comodino e si vestì in fretta per andare in ufficio. Appena fu pronta ò a salutare Fernando e il marito, che ancora stavano finendo di fare la colazione in cucina, prese una valigia con della documentazione e uscì di casa. Appena aperta la porta d'ingresso blindata venne accecata da un sole insistente e insolitamente sempre più caldo per quella stagione. Rimase alcuni istanti interdetta dalla luce del giorno e si coprì istintivamente gli occhi con la mano, mentre il suo viso si contraeva in una smorfia disturbata.

Di solito teneva gli occhiali da sole nella giacca e iniziò a tastarsi per vedere se li trovava.

Indossava quegli occhiali lo stesso giorno in cui era stato trovato il cadavere di Herman, c'era un sole simile a quello di questa giornata. Frustava nella medesima maniera. Accecante allo stesso modo. Come la verità. Quando i colleghi di Hermila arrivarono sul luogo dove era stato ritrovato il cadavere, ancora non sapevano fosse il corpo di Herman. Ci vollero alcuni giorni prima che fosse riconosciuto. Non fu per nulla facile. Era stato decapitato. Il cadavere nudo era stato appeso con una corda legata ai piedi sotto il ponte monumentale della città, durante l'ora di punta. Nessuno aveva visto nulla. La testa fu recapitata direttamente negli uffici della polizia tramite pacco postale. Nessuno

aveva pensato potesse essere lui, si era preso alcuni giorni di ferie per stare con la compagna, di cui ancora non si hanno notizie.

Hermila non trovò gli occhiali e ritornò in casa a cercarli, li indossò, risalutò marito e figlio e uscì di casa indossando un paio di occhiali da sole dalla montatura ampia e scura, che copriva le sopracciglia e parte dello zigomo, evidenziato da un leggero rossore.

Rimase alcuni istanti a fissare il sole, protetta dalle lenti scure e pensò che, quando si è preparati, forse si può anche essere in grado di guardare direttamente la verità senza rischiare di rimanere abbagliati. Forse per cogliere la verità senza farsi male è necessario solo avere la lente giusta.

Quella che distoglie la luce e permette di definire i contorni dell'oggetto.

Era finalmente in grado di vedere la verità: aveva paura.

Sorrise.

Quella consapevolezza non l'avrebbe comunque distolta dalle sue decisioni e da quello che aveva deciso essere il suo destino e la sua missione. Chiuse dietro a sé la porta verde di casa, percorse il vialetto che tagliava in due perfette metà simmetriche il giardino di casa e giunse in strada dove si affiancò alla sua macchina. Entrò, mise in moto, guardò che non arrivasse nessuna macchina e partì.

Alcuni metri più indietro rispetto a dove era parcheggiata, stavano in sosta due auto nere che, non appena videro Hermila partire, uscirono dai loro rispettivi parcheggi e si misero a seguirla a sua insaputa.

Non era un giorno come un altro.

“Hermila Garcia, 38 anni, capo della sicurezza di *****, un paese a 100 chilometri da ********, capitale dello stato di ******* sconvolto dalla violenza dei trafficanti, non ha fatto in tempo a raggiungere il suo ufficio. Un gruppo di sicari, a bordo di due auto nere, l'hanno seguita mentre usciva di casa, bloccata nella frazione di **********, a 17 chilometri dal paese, circondata e costretta a scendere dalla macchina su cui viaggiava. Il suo corpo è stato trovato a pochi metri da essa, riverso per terra, in una pozza di sangue. I sicari hanno sparato al volto tre volte con proiettili di grosso calibro, usati al fine di sfigurare la vittima dell'agguato. Hermila Garcia era la prima donna che aveva accettato di guidare la polizia nella guerra contro i narcos, dopo la rinuncia di tanti uomini terrorizzati.”. (2) NOTE

No, non era un giorno come un altro.

LAMA III R – FRATELLI

"Osserva una cosa abbastanza a lungo, e comincerà a sembrarti qualcos'altro."

Joe R. Lansdale

Piove. Forte. Troppo forte. C'è ancora qualcuno e ormai è troppo tardi, domani devo lavorare. Questa sera sono costretto a rimandare i miei programmi, rimango ancora un istante a fissare la finestra illuminata, coperta da una sottile tenda arancione, e osservo la sagoma scura che si muove dietro di essa per tirare giù la persiana. Riesco a malapena a vedere la sua proporzionata figura in un abito succinto e sconcio, prima che il mio sguardo venga escluso dalla sua visione. La sua pancia leggermente scoperta mi dà i brividi mentre alzo leggermente lo sguardo in direzione del suo seno, compresso in un vestito di qualche taglia più piccolo rispetto al suo corpo, ma la persiana si frappone tra noi e non mi lascia vedere più nulla.

Non mi rimangono che ombre indistinguibili, flebili indizi di un qualche movimento inutile.

Il palazzo in cui si trova è fatiscente ed angusto. Le pareti esterne sono dipinte di un grigio sbiadito risalente agli anni 80', che si alterna a macchie estese di umido e muffa, quasi come se tutto il palazzo fosse infettato da una qualche malattia contagiosa della pelle. L'ingresso si trova direttamente sulla strada. La porta d'ingresso non ha l'aria di essere solida e pare avere nostalgia dei gloriosi momenti ati, quando ancora serviva alla funzione di impedire agli sconosciuti di entrare. Lo stesso vale per la serratura, apribile semplicemente

chiedendole di farlo, con un tono cortese e nemmeno troppo imperioso. La strada antistante non pare essere molto trafficata, anzi, fino a questo momento non è ato nessuno e nemmeno tra gli inquilini c'è chissà quale frenetico andirivieni. L'illuminazione è scarsa e mal funzionante: c'è solo un lampione all'incrocio successivo e funziona a fasi alterne. . Spento. . Spento.

Rimango alcuni istanti ad osservare la successione delle fasi di illuminazione per cercare di capire sei sia casuale o se ci sia una qualche sequenza precisa.

Mi guardo in giro e vedo un ante camminare riparato dal suo ombrello con tranquillità. Non sembra avere nessuna direzione particolare e alcuna fretta. Come fa a non avere paura in un quartiere come questo ad un'ora simile della notte? E' un signore insolitamente distinto per questo zona. Indossa scarpe nere lucide, dalla punta leggermente squadrata e con un leggero accenno di tacco. Non riesco a distinguere bene i pantaloni, ma sembrano essere molto eleganti, coperti da un lungo capotto grigio scuro, coordinato con un capello tipo borsalino. Mi sarei aspettato di vedere qualche barbone cencioso o qualche tossico. O magari qualche immigrato di merda, che nulla escludeva potesse rientrare in una delle due categorie precedenti. O magari entrambe. Negro, barbone e tossico, gli manca solo comunista e raggiunge il gradino più basso della scala sociale. Quanto li odio. Odio tutta quella feccia che ammorba le nostre strade con il loro puzzo nauseabondo e vomitevole.

Nel frattempo l'uomo giunge davanti all'ingresso. Chiude l'ombrello e inizia a scrollarlo con un gesto elegante del polso, lo avvolge in una specie di federa di copertura e rimane alcuni istanti di fronte al citofono in consultazione. Suona ad uno dei camli e subito gli viene aperto senza che lui dica niente. Si volta in direzione della porta ma quella non accenna ad aprirsi prima di aver assestato un paio di colpi secchi e decisi sulla maniglia. Lo vedo sparire all'interno e poi più nulla. Alzo ancora lo sguardo e mi soffermo sul cielo cupo e sulle nuvole pesanti che si vedono nell'oscurità di questa notte. Mi guardo intorno e continua a non esserci nessuno in giro. Solo qualche gatto che mangia qualcosa dai sacchetti di immondizia rotti accanto ai bidoni. Fuori continua a piovere così forte da coprire

ogni altro tipo di rumore, infatti non sento l'accendisigari che scatta e devo farlo ripartire una seconda volta.

Lo osservo fisso e appena lo vedo muoversi mi accendo una sigaretta.

E' inutile stare qui, tiro un paio di boccate brevi per farla accendere e poi una boccata più lunga che lascio sostare alcuni istanti nei miei polmoni prima di espirare tutto dal naso.

Accendo la macchina e me ne torno a casa, guidando con calma e tenendo la sigaretta in bocca, senza fare troppa attenzione alla strada.

Arrivo davanti a casa che sono le quattro, per questa sera è andata così, pazienza. Esco dalla macchina cercando di sbrigarmi, ma prima devo aprire il bagagliaio e portare in casa lo zaino. Mi bagno quasi completamente. Entro nel mio appartamento deluso per come sia finita la serata e sento che tutta l'eccitazione accumulata fino a quel momento inizia a sedimentare. Per prima cosa nascondo lo zaino nella nicchia dietro l'armadio di camera mia e poi non mi resta che andare a dormire, dopo essermi masturbato con una certa foga, tra il consolatorio e il frustrato.

La mattina non mi coglie impreparato e mi alzo dal letto senza tergiversare troppo. Rapida colazione senza doccia prima di andare al lavoro. Esco di casa e vedo una meravigliosa giornata, speriamo che il tempo regga fino a questa sera: se non è stato ieri, sarà oggi.

Prendo il furgoncino della ditta e mi presento alcuni minuti dopo le otto dal mio capo. Mi spiega tutti i lavori da svolgere durante quella mattinata. Prima di

partire prendo un caffè dalla macchinetta nell'ufficio degli impiegati e lo porto direttamente sul furgoncino. Lo bevo mentre guido.

Suono al camlo del primo indirizzo e mi risponde una voce rauca e gracchiante, sicuramente un uomo anziano, che senza aprire grida dall'altro lato della porta:

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<<Buongiorno! Sono l'idraulico, ha chiamato per un gabinetto intasato?>>

Non pare molto convinto ma apre ugualmente osservandomi bene alcuni istanti prima di farmi cenno di entrare. E' un uomo di statura media dai capelli radi e bianchi. Qualcosa nel suo portamento mi fa venire in mente un bizzarro mix tra braccio di ferro e un cow-boy. Cammina davanti a me con le gambe leggermente divaricate e con le robuste braccia da contadino, sempre staccate dal corpo e leggermente flesse, incastrate subito sotto al collo al punto da sembrare prive di ogni motilità articolare. Quello che pareva veramente strano era la sproporzione tra gli avambracci gonfi e pieni di vene e le spalle piccole e praticamente inesistenti. Emana un forte sapore di tabacco e sudore mentre in tutto il resto della casa domina odore di chiuso. Piuttosto rustica ed essenziale, aveva pochi mobili qua e là in puro stile contadino, con il più classico dei tavolini in metallo con la superficie laminata di un verde pisello sbiadito. Dopo avermi condotto fino al bagno si rivolge a me iniziando a spiegare il problema, trattenendo più che può le sue cadenze dialettali, che ogni tanto, prorompono nella conversazione.

Non ci vuole molto tempo e o al lavoro successivo: un rubinetto da sostituire.

Suono e questa volta mi risponde la voce di un bambino ma non faccio nemmeno in tempo a rispondere che già la stessa voce grida

<<Mammaaaaa!! C'è l'uomo dei tubi!!!>>

[E lui come fa a saperlo?]

<<Buongiorno..sarei l'idraulico, “l'uomo dei tubi”..>>

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Il bambino nel frattempo era corso in un'altra stanza e subito di ritorno mi si attacca ad una gamba tirandomi con entrambi le manine per attirare la mia attenzione e dirmi

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sventolandomi una specie di mostriciattolo a due teste sotto il naso.

[Maledetto rompicoglioni..]

Lo assecondo prima che faccia così tanto casino da non farmi nemmeno capire cosa devo fare.

<<Ma che bello!! Ne vorrei uno anche io.. me lo dai?>>

gli dico con la voce più dolce e falsa del mondo, ma quello ovviamente si ritrae per spostarsi in una delle altre stanze.

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La osservo con attenzione mentre mi fa strada, indossa un paio di scarpe tipo da ginnastica e un paio di jeans blu che evidenziano una certa abbondanza di sedere. Il suo viso è giovane ma in quella fase di età in cui iniziano a vedersi gli effetti dello scorrere del tempo, tipo qualche rughetta qua e là. Nel complesso non è una brutta donna, ma dà l'idea di essersi lasciata andare dopo il matrimonio. Riesco a vedere il marito in una foto appesa sul muro in corridoio. La classica foto con la coppia di sposini sorridente in una posa plastica e rigida quasi fossero due coni gelato. Lui sembra essere un bell'uomo, tradito da un'espressione facciale non tra le più gaudenti, lei era di una bellezza fresca e giovane che ora sembra essere sfiorita, perdendone però non più di alcuni petali.

Gli anni che le mancano deve averli succhiati via quella specie di macchinetta squillante di bambino, cristo, non ha ancora smesso di parlare un solo attimo.

Inizio a lavorare per sostituire il rubinetto, un lavoro abbastanza semplice, ma temo possa rivelarsi un'impresa titanica dovendo affrontare da una parte la madre, che inizia a subissarmi di lamentele e pettegolezzi sul vicinato, e dall'altra il temibile Luca, per cui ogni occasione è buona per darmi il suo maledetto giocattolo sulla testa o in qualche altra porzione del mio corpo.

Non va bene. Non va per nulla bene. Odio la gente che parla troppo. Odio anche i bambini. Strangolerei entrambi se solo potessi. Ma è indispensabile che io mantenga la calma.

Finisco in fretta il lavoro prima di perdere la pazienza, mi faccio pagare e me ne vado.

Terzo cliente : una caldaia da controllare perché non funziona, dicono non riesca a scaldare l'acqua per la doccia, più l'annuale controllo dei fumi. Il posto è molto lontano, in una villa fuori città e mi impegnerà il resto della mattinata.

A quel punto mi conviene mangiare in qualche posto lì vicino, una volta finito il lavoro.

Nel tragitto mi tiene compagnia la radio, non so nemmeno su quale stazione sia sintonizzata, tanto la musica è tutta uguale e poi nella realtà non gli presto molta attenzione. Preferisco concentrarmi su quello che devo fare questa sera, sono alcuni giorni che ci penso e non ho lasciato al caso nessun dettaglio. Se solo ieri notte non ci fosse già stato qualcuno ora mi sentirei molto meglio, soddisfatto e appagato; è strano, non ha mai ricevuto clienti dopo una certa ora. Spero di essere più fortunato stasera, quello di ieri sarà stato un caso eccezionale probabilmente.

Ormai manca poco per arrivare alla villa.

Bisogna attraversare un paese piuttosto piccolo e una volta uscito devo cercare un viale alberato di ippocastani.

Raggiungo il paese ed ha un aspetto desolante.

Pare che non viva nessuno in questa specie di agglomerato poltiglioso di case. Non ci sono macchine, non c'è nessuno per strada, si intuiscono solo delle presenze dalla luce accesa nel bar del paese.

Bar Sport, tanto per non peccare di eccessiva originalità.

La nota positiva è che in tale bar servono anche piatti freddi e caldi; almeno per il pranzo sono a posto. Una nebbia fine fine avvolge il paese in tutta la sua interezza quasi volesse preservarlo in una cappa atemporale, sospesa tra le pieghe di altre dimensioni parallele. Per un attimo, ho l'impressione di trovarmi in una specie di sobborgo inglese dell'epoca del carbone, tra le catapecchie dei poveracci e i muri delle case anneriti dal fumo.

Qualcuno ci deve essere in questo luogo, alcuni camini sbuffano come fornaci in piena attività.

Percorro la strada principale come se stessi risalendo un intestino umano per arrivare fino allo stomaco, la piazza centrale del paese, costituita da un piccolo parcheggio circondato da tutta una serie di case, tra cui il municipio, tutte

attaccatissime tra di loro; sembra quasi che si vogliano gettare fameliche sul parcheggio. Ogni loro mattone sembra permeato di una tensione vitale e di una spinta emotiva ad avanzare verso il centro della piazza, come se essa fosse la vittima innocente di un sopruso, avanzato a suo danno da un gruppo di carnefici. Il municipio è il leader, quello solitamente grosso e cattivo, che dà ordini ai suoi scagnozzi affinché circondino lo sventurato, per seviziarlo.

Al solo pensiero inizia a ribollirmi il sangue nelle vene.

o dallo stomaco all'esofago, incontrando altri indizi di vita durante la sua percorrenza, un panettiere, un tabacchino e un piccolo negozio di alimentari. Tuttavia continua a non esserci nessuno in giro, solo luci e fumi. Uscito dal paese la situazione sembra non più desolante, ma addirittura desertica; la nebbia si dirada progressivamente per aprirsi al paesaggio campagnolo, ma intorno non c'è nulla che non siano campi arati o lasciati a maggese. Non riesco a scorgere nessun tipo di centro abitato nel raggio di chilometri. Mi trovo in mezzo al niente. Nei film, in situazioni del genere, il protagonista prenderebbe in mano il cellulare per scoprire di essere misteriosamente senza campo oppure accenderebbe la radio per poi sentire solo un persistente fruscio inconcludente, facendo salire la tensione del momento e aprendo curiose ipotesi sull'imminenza di qualche avvenimento soprannaturale.

Io sto ascoltando la radio e il cellulare funziona, quindi va tutto bene, diversamente forse avrei fatto meglio a preoccuparmi.

Proseguo sulla strada ancora per una decina di minuti quando finalmente riesco a scorgere il viale alberato di ippocastani, spicca in mezzo al nulla come una pianta verde nel deserto; in questo caso, due file di piante. Inforco la via e mi sento sovrastato da questi alberi, che paiono giganti pronti a stritolarmi con le loro fronde, stranamente ancora verdi; i rami si sollevano per il vento e si inarcano verso l'alto facendosi più grandi e assumendo un'aria minacciosa e dall'espressione inequivocabilmente truce.

Mi aspetto di essere soverchiato e catturato da un momento all'altro, invece arrivo di fronte al cancello della via senza che sia accaduto niente.

Tutta la villa è delimitata da un muro di cinta spesso e alto un paio di metri; tutto quello che si può vedere a attraverso la selezione delle inferiate nere, unico spazio di comunicazione tra quel luogo e il resto del mondo. Scendo dal furgone e provo a guardare dal cancello senza riuscire a vedere nulla, c'è di nuovo una nebbia persistente che avvolge tutto l'edificio, inoltre pare ci sia una specie di boschetto antistante la villa, la quale risulta quindi abilmente nascosta e mimetizzata agli sguardi indiscreti.

Suono il camlo e mi viene aperto senza nemmeno che abbia il tempo di qualificarmi.

Si apre automaticamente il cancello e si accende una fila di piccoli lampioni per terra, sui lati di un aggio in pietra percorribile a macchina, di cui non riesco a scorgere la fine perché si perde tra il fogliame e la nebbia, che ormai è diventata quasi uno spesso muro in cemento armato.

Bianco e latteo.

Ancora l'onnipresente nulla.

In realtà il percorso per arrivare alla villa è piuttosto breve e in meno di 200 metri ci si trova davanti all'edificio. Sontuoso ed imponente. Due scalinate laterali partono da terra per congiungersi ad un esteso terrazzo centrale, in cui

pare sia posizionato l'ingresso. Le finestre sono tutte molto ampie e sul lato destro spicca una vetrata enorme e decisamente solare. L'aspetto generale è di estrema cura e attenzione al particolare, come anche nel resto del giardino, in cui abbondano fiori coloratissimi di ogni tipo e siepi definite con una precisione maniacale, quasi che il curatore avesse usato squadra e goniometro. Di fronte alla villa c'è una fontana piuttosto grande, disposta su tre piani con una scultura alla sommità, raggiunta da lunghi fiotti d'acqua provenienti dal bordo vasca più basso.

Mi fermo davanti alla villa e aspetto che qualcuno si faccia vedere.

Nell'attesa la mia attenzione viene attirata dalla scultura posta sopra alla fontana: si tratta di una specie di demone alato, tipo da cattedrale gotica. La sua posizione statuaria, immobile, tradiva però una forte sensazione di movimento in una posa di sopraffazione, scomposta da un peso che stava schiacciando quella figura deforme e mostruosa. L'espressione dello sguardo e del viso, rivolto verso l'alto, mal celava una sorta di ira soffocata da un potere enorme.

L'ultimo alito impotente di una figura misera e malvagia, pronta a lanciare l'ultimo disperato attacco a tradimento.

<<Buongiorno, signore. La stavamo aspettando. La prego gentilmente di seguirmi.>>

Disse un uomo elegantemente vestito con una blusa scura e che pareva essere il maggiordomo. Apro il furgone, prendo parte dell'attrezzatura che dovrebbe servirmi e inizio a seguire l'uomo. La casa è decisamente molto elegante e non lesina in manifestazioni di ricchezza di ogni tipo. Quadri appesi ad ogni parete, mobili sormontati da sculture, tutte piuttosto inquietanti. Le stanze sono ampie e spaziose, la luce filtra da ogni parte nonostante lunghissimi tendoni pendano ai

lati di tutte le altissime finestre.

Vengo condotto in un grande salone totalmente pieno di librerie colme di tomi antichi e rilegati in pelle.

Il salone si presenta diviso in due spazi, uno inferiore in cui si trova un tavolo molto lungo circondato da sedie foderate ed imbottite in velluto cremisi, con lo schienale in legno massiccio, foderato anch'esso. Attorno tre divani in pelle e una credenza possente. Lo spazio superiore è costituito da pareti coperte da enormi librerie e c'è un tavolo da studio molto antico rivolto dal lato del muro opposto alla porta d'ingresso. Seduto al tavolo, un uomo con il capo chino intento a leggere qualcosa.

<<Signore, è arrivato l'idraulico.>>

L'uomo alza la testa interrompendo la sua lettura. Si alza lentamente e viene verso di me. Indossa una vestaglia leggera dai toni ambrati, ricamata con strani motivi circolari in cui si mescolano tra loro, varie tonalità dei più disparati colori. Indossa un paio di pantofole che su qualunque altra persona sarebbero sembrate anacronistiche ma ai suoi piedi paiono trasudare solo distinzione. Ha un qualcosa di austero e rigidamente posato nel modo di muoversi, come se tuttavia fosse la cosa più naturale del mondo.

<<Buongiorno. Molto piacere di conoscerla, mi chiamo Louis Cifre. Non si faccia ingannare dalla curiosa assonanza, mia madre era se e mio padre di cognome faceva Cifre, le assicuro che del Lucifero vero non ho nulla. Lo preciso sempre perché in alcune persone crea uno strano senso di disagio. Fu solo una scelta poco elegante, ma mia madre ci teneva che potessi effigiarmi del nome del caro nonno. Ha avuto difficoltà a trovare questo luogo?>>

La sua voce è suadente e magnetica, sembra che attiri verso di se ogni oggetto o attenzione proveniente da quella stanza, se potessero anche i muri si girerebbero per rivolgere il proprio orecchio nella sua direzione. I suoi modi sono gentili come il suo tono di voce e la cordialità dei suoi gesti. Certo, il nome è alquanto bizzarro e tuttavia sembra un caso di nomen omen a guardarlo bene. Nemmeno troppo originale, credo di averlo già sentito in un qualche film, ma ora non ricordo quale (3 - NOTE). Il suo viso è una rappresentazione stereotipata dell'iconografia classica del Diavolo. Barba caprina leggermente a punta a coprire un mento piuttosto spigoloso e allungato, basette folte e chioma nerissima tirata indietro anche se in maniera leggermente voluminosa.

Persino le orecchie paiono essere appuntite.

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<<Mi permetta di accompagnarla di persona verso il locale caldaie, nel frattempo desidera qualcosa o ha bisogno di niente? Acqua, un bicchiere di vino, Amontillado magari.. o vuole un caffè?>>

< >

< >

Dice, rivolgendosi prima a me e poi al maggiordomo con estrema gentilezza, senza cambiare il tono di voce.

Inizia a farmi strada tra quel labirinto di stanze enormi fino a condurmi in una scala che scende ai piani inferiori e poi terminava nelle cantine. Il signor Cifre cammina alla giusta andatura affinché possa seguirlo anche se carico dei pesi dell'attrezzatura e devo anche rifiutare più di una volta le sue offerte ad aiutarmi a portare il tutto. Arrivati nel locale mi fa vedere dove sta la caldaia e inizio a lavorare.

Nel mentre si mette in disparte ad osservare in maniera curiosa e tutt'altro che invasiva, come se non ci fosse, o si trovasse altrove.

C'è un silenzio strano, quasi reverenziale, anche se non riesco a capire da parte di chi, tra noi due, e decido di iniziare io una conversazione. Non è cosa che faccio abitualmente.

Anzi, meno parlo e soprattutto meno mi parlano gli altri e meglio sto.

Comunque, gli chiedo

< >

<
possibile solo grazie ad una parte di queste sostanze, ma rimane il fatto che abbia smesso di farne uso. Mi occupo di commercio di oggetti rari, soprattutto libri come avrà potuto intuire dalla mia collezione personale, opere d'arte, arazzi..>>

< >

<<E' un'attività molto remunerativa, se ci si rivolge ad una clientela precisa. Nello specifico collezionisti.>>

< >

Curiosamente mi ritrovo a parlare molto più di quanto non faccia solitamente, mi sento stranamente a mio agio. L'episodio del test d'intelligenza l'avevo persino dimenticato. Continuo a lavorare e a conversare con quello strano individuo fino a che non finisco il lavoro. Lui mi parla in maniera amabile e pacata chiedendomi cose della mia vita e dicendomene altre della sua. Riesce persino a stupirmi, anche se nemmeno più di tanto se ripenso al suo aspetto, nel momento in cui mi rivela di essere un apionato di esoterismo, magia nera e cose simili. Insiste per mostrarmi una rarissima copia del “Malleus Maleficarum” risalente al Medioevo e alcuni cimeli di vario tipo sempre sullo stesso tema.

Finire il lavoro non mi richiede più tempo di quanto avessi previsto, la caldaia ora funziona perfettamente e non mi rimane che preparare i documenti per il controllo dei fumi.

Mi fa accomodare nella stanza dove ci siamo incontrati.

<<Mi sono permesso di farle preparare del tè, se avesse piacere di berlo in mia compagnia. Quello che prepara [Asmodeo] è semplicemente divino.>>

E' la prima volta che dice il nome del maggiordomo e ho avuto un brivido. Asmodeo è il nome del demone custode dei tesori infernali. Ricordo di aver letto qualcosa di sfuggita su alcuni siti di occultismo e altri argomenti, io andavo a leggere la sessione sui serial killer ma qualche volta ero finito anche nella sessione con le gerarchie infernali. Le coincidenze si fanno troppe e strane, penserei di stare parlando con il diavolo in persona se solo non fosse per i suoi modi affettati. E se stesse cercando di ingannarmi?

Un attimo basito e sorpreso chiedo:

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< >

< >

Mi affrettai a dire io, sentendo un lungo e gelido brivido percorrermi la schiena per tutta la sua lunghezza.

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[Via, Via! Scappa con una scusa qualunque!]

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Dissi immediatamente senza opporre resistenza, piuttosto stupito di me stesso, quasi ipnotizzato.

Entra Amedeo con un vassoio d'argento con sopra tazzine, zucchero e una grossa teiera fumante. Poggia tutto delicatamente sulla tavola ma prima che potesse iniziare a servirci il signor Cifre lo congeda e inizia servire di persona. Mentre parla, rimango rigido e teso sopra la sedia, osservandomi in giro come se qualcosa di terribile dovesse accadere da un momento all'altro.

Il signor Cifre continua a parlare di alcuni incunaboli trovati non so dove, mentre inizio ad essere impaziente di uscire di lì, perché inizio anche ad avere anche molta fame. Tuttavia conversiamo giusto il tempo di sorbirci il tè, o meglio, parla mentre io annuisco in silenzio. Infine mi lascia andare dopo avermi lautamente pagato più del dovuto.

Prima di uscire mi consegna in mano una specie di riproduzione stilizzata in

pietra nera della figura che svettava sulla sommità della fontana, con queste parole

<
[ in realtà mi ci avrebbero anche mandato, non è che io sia proprio venuto di mia spontanea volontà, pensai in quel frangente]

..e vorrei ringraziarla con questo piccolo regalo. E' una rappresentazione dello spirito guida della mia famiglia ed è sempre stato di buon auspicio nelle diverse generazioni e vorrei fargliene dono, se avesse la gentilezza di accettare. Non si lasci ingannare dall'aspetto, è uno spirito positivo che aiuta chi è in difficoltà. Non sono superstizioso ma rispetto le tradizioni tramandate. Nella nostra famiglia c'è quella di donare questo simbolo a chiunque ci aiuti, in un qualunque modo.>>

Prendo quella specie di feticcio e lo osservo con un certo turbamento, è veramente inquietante.

Un po' come quell'uomo, anche se si tratta più che altro di una vaga sensazione indefinita; che in realtà non trova riscontro da nulla di concreto salvo forti suggestioni. Mi chiedo se non porti rogna e quasi avrei voluto chiederglielo ma lui, come se mi avesse letto nel pensiero, assume un tono molto serio, al limite del teatrale e dice

< >

Concentrato sulle sue parole e sull'inaspettato cambio di tono, sgrano gli occhi un attimo e rimango a fissarlo basito. Non ho il tempo di notare un sorriso sornione leggermente increspato sul suo viso che riesco a decifrare solo quando prosegue

<
[mi fa l'occhiolino e mi appoggia una mano sulla spalla, sorridendomi apertamente]

..si tratta solo di oggettistica particolare e nulla di più. Diciamo che ricopre un ruolo affettivo totemico. L'origine della mia tribù, intesa come famiglia. La ringrazio ancora per essere venuto, la accompagno alla sua macchina.>>

Io sorrido ischemico e annuisco.

Non so se sentirmi preso in giro o se prenderlo sul serio, ma mi lascio accompagnare fino al furgoncino, carico tutto, saluto educatamente e poi me ne vado prendendo la stessa strada che ho fatto per entrare nella villa. Il cancello si chiude finalmente dietro di me: non rimane che cercare un posto dove mangiare. Rifaccio il viale alberato con una certa fretta, dettata dai crampi allo stomaco e mi reinserisco nella strada che mi riporta al paese. Prima di entrare mi fermo ad una piazzola e lancio in un campo il feticcio nero in pietra.

Io di quelle robe non ne voglio avere, sarà anche stato gentile ma secondo me era parecchio suonato quel tipo. Senza contare che questo senso di disagio mi ha

scombussolato un po', forse è meglio che prima di andare a casa faccia un salto in chiesa a pregare.

Non vorrei che qualcosa non funzionasse stasera, preferisco essere tranquillo.

Sa molto di superstizione ma non si sa mai.

Ripercorro esofago, stomaco, intestino e mi fermo all'originalissimo Bar Sport. Parcheggio sulla strada ed entro. Il prototipo del bar di paese con i tavolinetti e sedie ormai consumati, scoloriti coperti solo dalle tovaglie lise e risalenti agli anni 70'.

Mi auguro è che anche il cibo non sia risalente agli anni 70'.

Finalmente posso dire di aver visto una persona vivente di questo paese: il barman. E' un tipo piuttosto rurale, ha l'aria del contadino più che del barista, uomo di corporatura molto grossa con una pancia enorme, sporgente sopra un paio di jeans che chiedono pietà per quanto si stanno sforzando a contenere quella mole di adipe a dir poco oltraggiosa nei confronti dell'anatomia umana. Ha il viso gonfio, decorato da un paio di folti baffi grigi, e il respiro ansimante e difficoltoso.

Se dovessi paragonarlo ad un animale non avrei dubbi a riconoscere in lui la fisionomia del cinghiale.

La sua voce è pesante e profonda. Quando gli chiedo cosa c'è da mangiare mi

dice solo:

<<Panini.>>

rimango ad osservarlo alcuni secondi in attesa di una risposta che non arriva. Lo guardo interrogativo sperando di incalzarlo e lui insiste, come se fossi sordo

< >

E continua

< >

pare ci sia poca scelta.

Ordino.

Finito di mangiare mi porta il caffè e aggiunge:

< >

<<Siamo stati chiamati dal signor Cifre..>>

< >

Dice ammiccante e improvvisamente sorridente, un compagnone quasi.

< >

Rimango sul diplomatico andante.

[Fuori come un balcone..]

< >

<<Ma in che modo?>>

[Ti prego non dire regalando talismani!!!]

<
quando ho avuto problemi finanziari e senza pretendere nulla in cambio, solo la restituzione della stessa cifra che mi aveva dato, senza interessi e con calma. Mi disse che andava bene così, che voleva condividere la sua fortuna con questo luogo.>>

< >

Evidentemente il pranzo non era ancora entrato in circolo. Spiega la mia lentezza a pensare.

< >

E con questa cesura se ne torna dietro al bancone lasciandomi pensare a quanto le apparenze e la suggestione ci possano fuorviare, alle volte; chissà cosa pensa la gente di me, avrà capito qualcosa di chi sono veramente?

Prendo il caffè e inizio a pensare con una certa eccitazione al programma della sera.

Ma ora devo tornare indietro negli uffici a portare tutti i documenti, pago e salgo sul furgone, dove mi accendo immediatamente una sigaretta e inizio a guidare in direzione della sede principale.

Prima ancora di incontrare il capo o direttamente dalla segretaria per consegnargli i documenti della giornata. Il capo mi dà subito il lavoro per il pomeriggio, nulla di particolarmente gravoso, c'era poco da fare e mi tocca andare in giro a fare consegne. Carico il furgoncino e inizio a girare per tutta la città e così trascorro il resto del pomeriggio.

Girando e fumando senza sosta.

Quando si è fatta ora di tornare a casa è già buio.

Guido con molta calma assaporando l'asfalto che scorre sotto le gomme e respirando profondamente la mia sigaretta. Tengo entrambe le mani sul volante, è un gesto che faccio sempre quando sono sovrappensiero, come se la cosa mi desse maggior sicurezza e mi permettesse di nuotare nelle mie rimuginazioni. Guardo dritto avanti a me, mentre i lampioni mi artigliano il volto con le loro luci ai neon. Immagino lunghe mani luminose che graffiano la mia faccia, con unghie lunghissime, incandescenti. Tra dita lunghe e affusolate, su esili braccia dai polsi delicati.

Un gatto attraversa rapidamente la strada mentre sto ando nelle sue vicinanze.

Accelero e sterzo leggermente per investirlo. Il leggero sobbalzo della macchina accompagnato da un tonfo soffocato conferma la buona riuscita.

Guardo subito nello specchietto retrovisore per osservare compiaciuto la mia

opera; vedo il suo corpicino steso in mezzo alla strada e sorrido soddisfatto. Aspiro una profonda boccata di fumo e lo lascio andare lentamente, molto lentamente, assaporando il suo scorrere nella gola e nelle narici. E inizio a fantasticare sul gatto spappolato, immerso in una pozza di sangue, con le ruote di altre macchine che gli ano sopra, fanno a pezzi le sue ossa, gli ano sul muso, fino a ridurre il tutto ad una chiazza grumosa di pelo irriconoscibile.

Continuo a respirare lentamente il fumo, ma sento di essere sempre più agitato e attivo per la serata che mi aspetta e che finalmente si fa sempre più vicina.

Sono così eccitato che faccio quasi fatica a cenare, non ho fame, ho solo un pensiero in testa. Devo resistere fino a notte fonda, devo essere l'ultimo cliente. Trascorro il tempo guardando la televisione e facendo zapping tra i canali. Potrei provare a dormire ma non credo riuscirei a prendere sonno, sarebbe solo tempo sprecato. Guardo un film ma non lo sto seguendo realmente, il mio cervello è altrove, proiettato al futuro.

L'antipasto non mi è bastato ora voglio la portata completa.

Mi masturbo guardando un porno, per rilassarmi, ma sono sempre più irrequieto. Mi stuzzico da solo fantasticando sulla serata e quasi non mi accorgo che si è fatta ora di andare.

Recupero lo zaino da dietro la nicchia dell'armadio, salgo in macchina e nel giro di poco tempo sono nuovamente di fronte al palazzo. Osservo la sua finestra e intanto aspetto che esca l'ultimo cliente che ho visto entrare. Lo vedo uscire finalmente; è un uomo grasso e dall'aspetto volgare, paonazzo in volto come se dovesse esplodere da un momento all'altro. Appena uscito dall'ingresso si adopera per allontanarsi il più presto possibile da quel luogo, tossendo in maniera persistente e malaticcia. Attendo ancora una ventina di minuti per

essere sicuro che non avesse nessun altro appuntamento e finalmente posso andare da lei. Scendo dalla macchina ma prima prendo lo zaino dal bagagliaio. Attraverso la strada mentre mi fa eco il rumore dei miei i.

Arrivo di fronte all'ingresso e suono il camlo

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<<Sono disposto a pagare il doppio..>>

<<…....>>

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<<Senti Angelo, stasera non ne ho più voglia. Torna domani, se vuoi puoi già dirmi adesso a che ora vuoi fare..>>

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<<Si... Di poco. Posso salire allora?>>

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<< l doppio.>>

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<<100 euro.>>

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<<Sali. Ma non entri se prima non mi hai dato i soldi, chiaro?>>

< >

E' stato facilissimo con questa. Convincere le altre a farmi entrare è stato più difficile.

Apro la porta e prima di entrare mi guardo un attimo intorno consapevole comunque che a quell'ora, in quella zona, non c'è mai nessuno in giro. Salgo le scale sempre più in preda all'eccitazione, il respiro inizia a farsi corto e veloce, mi sento pieno di adrenalina e smanioso. Arrivo finalmente davanti alla sia porta e do un paio di colpi con le nocche della mano destra per bussare. Dall'altra parte una voce ovattata dice telegrafica:

< >

Metto due banconote da 50 euro sotto la porta e attendo che la voce mi dica di entrare. Aspetto alcuni istanti e mi apre. Entro nella stanza e trovo subito la camera da letto, con il letto sfatto e le lenzuola scombinate, intorno mobili abbastanza spartani e persino un divano, sotto la finestra. La camera è abbastanza disordinata e separata dal resto dell'appartamento perché tutte le porte sono chiuse.

Certe persone cercano in tutti i modi di separare le varie aree che compongono la propria esistenza. Non va mai tutto bene, ma si può isolare in maniera stagna quello che non va, fingendo che non ci sia e concentrarsi su tutto il resto.

Lei fa la prostituta ma crede di essere una persona normale delimitando il suo mestiere a quella stanza e facendo finta, in tutto il resto della casa, di essere una persona come le altre, che conduce una vita comune, fatta di premure verso i propri figli, biscotti e colazione al mattino, televisione insieme sul divano.

Mamma perché tu non hai fatto così?

Mi dice di accomodarmi e si gira un attimo, dandomi le spalle, dirigendosi verso il letto. In quel breve lasso di tempo getto la mano dentro lo zaino ed estraggo un tubo in metallo con cui la colpisco alla testa così forte da farle perdere i sensi e da buttarla a terra.

Le prime volte ho rischiato di ammazzarle sul colpo da quanto colpivo forte, ma ora ho iniziato a dosare in maniera giusta la mia forza, faccio perdere loro i sensi quel tanto che basta per immobilizzarla.

E' stesa a terra sulla pancia con il braccio destro sotto il suo corpo e il volto coperto dai suoi capelli. Dietro la testa spicca la ferita, sanguina senza esagerare. La spoglio immediatamente di tutti i suoi vestiti e tiro fuori le corde dallo zaino. La sollevo di peso e la getto nel letto, dove mi applico per assicurarla in modo che non si possa più muovere, legata per braccia e gambe. Prendo un lembo del lenzuolo e lo strappo, lo appallottolo, le apro la bocca e faccio in modo che non possa gridare. Torno allo zaino. Tiro fuori un rotolo di nastro adesivo e le do un paio di giri intorno alla testa in modo da sigillarle la bocca.

Non voglio mai sentire i loro piagnistei patetici.

Mi accendo una sigaretta ammirandola in quella posa di impotenza e di

sottomissione.

Ora comando io. Sei la mia schiava. Il mio giocattolino.

Prendo una sedia e mi metto ai piedi del letto, con i gomiti appoggiati allo schienale, fumando tranquillamente una sigaretta e la osservo. Ha una pelle bianchissima, due gambe dalle linee dolci ed armoniose, piene, con due ginocchia morbide e dalle forme arrotondate. Il mio sguardo indugia sul suo pube per poi scorrere sulla sua pancia piatta, sull'ombelico che impreziosisce il suo corpo come solo un diamante saprebbe fare. I suoi seni sono sodi, con due capezzoli come rubini, incorniciati da due spalle proporzionate, semicoperte dai lunghi capelli neri sciolti su di esse. Aspiro ampie boccate di fumo, poi mi accorgo della finestra con la persiana tirata su e mi avvicino per chiudere tutto. Torno in prossimità del letto e della sigaretta ormai è rimasto solo il fondo, prendo la macchina fotografica dallo zaino; è arrivato il momento di svegliarla.

L'ultima boccata di fumo e le spengo la cicca vicino al collo, in prossimità di quello stupendo osso che delimita il suo torace, immortalando il suo risveglio con un bel flash. Il suo grido non è nemmeno troppo disperato, solo molto dolorante, non ha ancora avuto il tempo di capire cosa le sia successo e figuriamoci se sa cosa l'aspetta! La vena sul collo si gonfia mentre il suo grido rimane soffocato dal lenzuolo e tutti i suoi nervi si tendono in uno spasmo costretto.

Ci divertiremo io e te, come ho fatto con tutte le altre.

Gira la testa per guardare cosa le impedisca i movimenti e prova a strattonare il tutto per liberarsi. Non ci riuscirai mai. Finalmente mi vede e realizza in che situazione si trova; vedo un principio di sguardo che mi piace, quello impaurito. Inizia vanamente a gridare per chiedere aiuto; come le altre non si è accorta di

avere un cappio attorno al collo, che a dietro lo schienale del letto e scorre sotto di esso per arrivare fino a me.

Come potrebbe del resto?

Tiro l'altra estremità della corda in modo da strangolarla, senza soffocarla, per farle capire che comando io e, ovviamente, per farla smettere di gridare. La sua faccia diventa rossa, le si gonfia una grossa vena in fronte, gli occhi iniziano a lacrimarle, la respirazione le si fa sempre più difficoltosa ed impacciata.

Il cappio è stretto al punto giusto e non mi rimane che assicurarlo alla gamba del letto.

Osservo compiaciuto la mia vittima, il suo sguardo pietoso e smarrito aumenta la mia eccitazione.

Le faccio alcune foto.

L'aspetto prima e dopo è fondamentale in questi lavori. Dopo che avrò sparpagliato le sue budella per la stanza inchiodandole ai muri, dopo averla smembrata, cavato i suoi occhi, strappato unghie, dita, dopo averla resa ad una venere senza gambe, non sarà più la stessa di prima. Sarà migliore. Io ti sto migliorando. E' per purificarti. Voi donne dovete pagare il dolore che mi avete inflitto. Tu. Mia madre. Non dimenticherò mai che mi costringeva a guardare mentre scopava con i suoi clienti.

Troppo coinvolto in questi pensieri non mi rendo conto che la mia mano si sta facendo pesante mentre sto tagliuzzando la sua pancia. No, tu non devi morire, devi vedere fino in fondo quello che ti sto facendo, hai capito? Questi sono solo i preliminari, il bello deve ancora venire, per me almeno, tu purtroppo non potrai assistervi. Ma dovresti essere felice, diventerai famosa! I giornali e i telegiornali parleranno di te come la mia nuova vittima! Il serial Killer delle prostitute, il Killer di Cuori! Non sei felice?

Sto facendo di te la sublimazione della mia d'arte.

Ti odio, puttana. Ti odio, mamma.

Osservo i suoi occhi che implorano pietà e non provo nessuna comione, hai sbagliato anche tu come mia madre, e ora devi pagare. Quando ti avrò smembrata, con il tuo sangue disegnerò un cuore sulla sulla tua fronte.

Il gioco dei preliminari è durato a sufficienza, solo ferite superficiali, mi piace giocare al gatto con il topo. E' bello vedere come le troie si attacchino alle più flebili speranze di sopravvivere, basta guardarle negli occhi per capirlo, credono che uno si possa accontentare, ma non è possibile, in queste cose bisogna andare fino in fondo! Fino in fondo! Fino in fondo. Capisci? iamo a qualcosa di più forte.

Apro lo zaino e guardo cosa usare.

Cesoie? Cutter? Coltello? Seghetto? Pinze?

<<Mamma..>>

Mi giro di scatto e dall'altra parte della stanza vedo un bambino che mi osserva con le lacrime agli occhi tenendo stretto a sé un piccolo peluche a forma di coniglio. Osserva alternativamente me e la donna stesa sul letto.

Maledetta, avevo ragione, anche tu sei come mia madre.

E credo che inizierò dandoti il dolore più grande, uccidendo tuo figlio davanti ai tuoi occhi. Non posso permettermi di farmi scoprire. Cerco di tranquillizzare il bambino e mi avvicino a lui tenendo il coltello dietro la schiena.

Non ha ancora gridato e devo impedirgli di farlo.

< >

Lei inizia a dimenarsi sempre più forte e disperatamente. Ha capito. Ma ogni suo grido è soffocato dal lenzuolo che le preme in gola e trattenuto dal cappio attorno al collo.

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Prima che possa avvicinarmi, tra me e il piccolo si antepone un ragazzino più grande che lo afferra per le spalle e lo mette dietro di sé. Erano in due in quella stanza. Avrà almeno una decina di anni, l'altro non sembra averne più di quattro.

Il piccolo si stringe al fratello affondando la testa dentro la sua schiena, stringendolo forte e coprendosi gli occhi con il peluche.

< >

Ripete. Lo vedo davanti a me. Dritto sulla schiena con una T shirt rossa con delle scritte gialle. Gli occhi sono spaventati a morte, ma sono determinati. Non mi sta sfidando, mi sta facendo capire che darebbe la vita per difendere suo fratello. Con le braccia sporte all'indietro cerca di proteggerlo mentre quello singhiozza disperato.

Quello non è un ragazzino. E' un gigante. E' un uomo.

Abbasso entrambe le braccia e rimango un attimo interdetto. Così facendo, scoprono il coltello che avevo in mano. Ma lui non arretra e mi guarda deciso negli occhi. Reggo lo sguardo e vedo una patina lucida di paura. Ma non è nulla di più che un leggero tremolio, una leggere brezza di vento che non può smuovere un colosso di pietra.

Non sento più la rabbia che mi aveva bruciato fino a quel momento. Osservo con un'espressione molto seria quella scena. Il fratello più grande che protegge quello più piccolo. E qualcosa si placa. E' bastato un piccolo ricordo, una sensazione seppellita nella memoria per ricostruire qualcosa che si era rotto.

Riesco solo a sussurrare

<<… mio fratello...>>

E ricordo. Ricordo mio fratello maggiore. Ricordo le volte in cui mi difendeva dai ragazzi che mi picchiavano a scuola perché piangevo sempre. Ricordo il fango mescolato al sapore delle lacrime. Quando mi calciavano a terra. Ricordo mio fratello, mi voleva bene anche se non eravamo figli dello stesso padre. Finché ha potuto, finché c'è stato, fino a che un'auto pirata non se l'è portato via, lasciandomi solo, senza l'unico sostegno che avevo, senza l'unico scudo dietro cui potevo lanciare le mie debolezze, senza il sollievo di un luogo sicuro.

<<… mio... f-ratello...>>

Ripeto ancora, con la voce fratturata.

Qualcosa è cambiato. Vengo invaso da una tristezza infinita e da un senso di abbandono incommensurabile. Ho perso le forze. Qualcosa ha smesso di gridare dentro di me, messo a tacere da una lieve carezza. Un senso di commozione strano mi sta mandando in pezzi, i cocci di una vita distrutta dall'odio. E il ricordo della gentilezza, del tenero calore, di qualcosa di seppellito, mi fanno sentire come se nulla di tutto questo avesse mai avuto senso.

La violenza, l'orrore, il sadismo.

Cosa sono diventato?

Riguardo i due fratelli, immobili di fronte a me. Non si sono mai mossi. E lui è

lì, che continua a fissarmi. Dietro il fratellino, io. Mi avvicino e lui rimane fermo; il piccolo chiude gli occhi sempre più forte come se così facendo potesse farmi sparire, stringendosi sempre più intensamente al maggiore e tirando a sé il suo braccio. Sono davanti a loro, mi abbasso e arrivo con il mio viso alla stessa altezza del suo.

Ha molta paura, lo vedo, ma non retrocede.

Mi guarda deciso mentre dei leggeri tremolii irrompono sulle sue guance, sulle sue labbra; il suo volto vorrebbe deformarsi in un pianto disperato. Non ho più rabbia dentro, la mia espressione è cambiata sicuramente, credo lo intuisca, ma l'orrore che ho creato è troppo intenso perché basti un sorriso a cancellare tutto. Vorrei dirgli di prendersi cura del suo fratellino, vorrei fargli una carezza sulla testa, un gesto qualunque di gentilezza, ma mi rendo conto di dover affrontare tutto da solo; non mi posso sollevare e nemmeno riscattare, è arrivato il momento di pagare.

Mi rialzo in piedi e vado verso il letto. Il ragazzo fa un o avanti per venire in soccorso della madre ma qualcosa lo ferma, una leggera esitazione, forse un residuo di paura. Osservo gli occhi della donna, gonfi, rigati dalle lacrime e dal dolore. Sciolgo il nodo alla gamba del letto e le allento il cappio, sfilandoglielo dalla testa. Sta tremando tutta per la paura che possa finirla in quel momento.

Mi avvicino a lei con il coltello e si irrigidisce tutta chiudendo gli occhi. Taglio la corda che lega il braccio destro e le sussurro all'orecchio

< >

A liberarsi il resto ci penserà da sola. Appoggio il coltello lontano, in modo che non possa prenderlo subito, saranno i due fratelli a portaglielo.

La copro sollevando sopra di lei la coperta, un gesto insolito per un mostro.

Non mi rimane che tornare a casa e aspettare di essere identificato e arrestato.

Forse ho ancora tempo per un'ultima sigaretta.

LAMA FANTASMA – IL VIAGGIATORE

“Noi oggi sappiamo che l'importante non era Itaca, ma il viaggio.”

Antonio Tabucchi

Un uomo stanco di sentirsi solo, benché circondato da molte persone che peraltro gli volevano bene, decise di intraprendere un viaggio nel deserto per trovare sé stesso. Il totale silenzio amplificava quel mondo che esigeva di esplodere da dentro. Il fragore dell'urlo pervadeva la natura e feriva l'uomo che però non smetteva di ridere. Il riso amaro della consapevolezza; ma liberatorio nello stesso momento.

Al calar del sole tutto si fece buio. Non esistevano riferimenti e la tenebra avvolgeva tutto; eppure lo sconforto non lo fece suo. L'uomo sapeva che avrebbe trovato ugualmente una strada verso cui rivolgersi. Non vedendo nulla aveva molte più alternative di quante avrebbe potuto scorgere se la luce avesse illuminato a giorno. In tal caso sarebbero state visibili solo le strade già fatte e non quelle che voleva costruire senza saperlo.

LAMA VII R – ELZEVJER

"Esistono certe bizzarre occasioni in questa strana mistura che chiamiamo vita in cui un uomo prende l'intero universo per un'immensa burla, sebbene l'arguzia di ciò non riesca a percepirla che indistintamente, e nutra più di un sospetto che la burla non sia alle spalle di altri bensì alle sue."

Herman Melville

Nessuno era in grado di capire cosa stesse gridando in quel momento Igor Pasculi.

Stava discutendo dell'immigrazione in Italia con suo padre, Romano Pasculi, mentre camminava per le vie del centro, in mezzo a negozi e alla gente che affollava il corso principale, quando si ritrovò a dire cose prive di alcun senso.

Per la precisione, una sola cosa.

Si erano soffermati davanti ad un negozio di antiquariato in cui Igor voleva comprare alcune cartoline storiche statunitensi e un paio di reliquie della Seconda Guerra Mondiale da aggiungere alla sua collezione. Era una giornata fredda, il sole filtrava indifeso da nuvole spesse come piumoni e sembrava giungere a terra con i suoi raggi, al costo di fatica colossale ed enormi sforzi fisici; la luce arrancava fino ad illuminare debolmente le teste delle persone che agitavano il corso principale. Andavano tutti avanti e indietro senza meta per occupare una noiosa domenica pomeriggio in attesa del lavoro o di una svolta

vitale che, puntuale, non arrivava. Lungo la strada si incontravano accattoni con cartelli sgrammaticati che chiedevano l'elemosina per tornare a casa, accompagnati perlopiù da un cane con un'espressione desolatamente triste e da un capello a terra per le offerte. La vista di persone di varia etnia e provenienza, spesso riconoscibile solo per il colore della pelle, irritava Igor che da parte sua non aveva mai brillato per apertura mentale.

Anche E.T. era “extracomunitario” per lui.

<<..possibile che queste persone debbano per forza venire da noi? Non possono starsene a casa loro? Sono una spesa per lo stato e noi dobbiamo pagare le loro cure mediche! Lo sapevi? Come se non bastasse mandano anche a casa loro i soldi che guadagnano qui, così da noi non circola più denaro e l'economia ristagna. E fanno anche quello che vogliono, tanto la polizia non gli fa nulla, al massimo arrestano me o te alla prima belinata che facciamo!>>

Disse Igor pieno di animosità al padre che annuiva con partecipazione aggiungendo la sua al discorso del figlio

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Disse rivolto al figlio indicando una vetrina.

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Rispose Romano, secco e in maniera talmente capricciosa da alterare subito Igor.

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Disse Igor stizzito.

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Disse lui controvoglia mentre il figlio rincarava

<<Sei sempre il solito pidocchioso.. la mamma aveva ragione, ma ti costa così tanto prendere qualcosa fuori casa una volta tanto?>>

Gli rinfacciò lui.

La madre di Igor era morta pochi anni prima dopo una vita impiegata a fare la casalinga, al massimo aveva fatto qualche pulizia in casa d'altri per racimolare qualcosa da spendere per sé, perché tutti i soldi avano dalle mani del marito. Da sempre lo pregava di spendere almeno ogni tanto qualcosa del denaro che avevano da parte. Anche solo per prendere una qualche sciocchezza, ma lui era

avaro in maniera morbosa. Lo era da giovane e non aveva smesso di esserlo nemmeno da vecchio quando avrebbe tranquillamente potuto scialacquare tutto. Ma di questo non sembrava rendersene conto, come non sembrava rendersi conto di avere da parte una quantità di soldi piuttosto cospicua, infatti subito dopo disse

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Agitando l'indice verso il cielo

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Ribatté lesto Igor.

<<E' perché ho lavorato tanto... sono stato in miniera!>>

Disse falsamente lui.

<<Ma quale miniera, non l'hai vista manco in foto una miniera! Non hai mai fatto una mazza, su! Lavoravi in ferrovia e non hai mai fatto nulla, non vorrai mica dirmi che ti sei ammazzato di fatica?>>

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Si arrese alla fine, Igor, che non aveva più voglia di continuare a discutere inutilmente.

Colto dalla rabbia si dimenticò di guardare la vetrina indicatagli dal padre e camminarono ancora un po' affiancati, rimanendo in rigoroso silenzio, ognuno guardando per la sua direzione verso i negozi. Proseguirono eggiando sul selciato della via gettando sguardi furtivi da una parte e dall'altra, sopra un oggetto e un altro.

Era solo per dare l'impressione che se non parlavano, non era perché erano arrabbiati, ma solo perché entrambi avevano di meglio da fare.

Nessuno dei due voleva ammettere di essere in collera, benché chiaramente lo fosse.

Proseguirono sulla via e arono un negozio di scarpe, una macelleria, una libreria, un paio di banche e assicurazioni. Igor si mise a pensare e si sentì in colpa per come si era comportato, in fin dei conti ormai gli rimaneva solo suo padre, ed era anche un povero vecchio.

Si girò a guardarlo, non era più l'uomo alto e robusto che ricordava quando era piccolo. Era diventato sempre più curvo e magro e ora non era nemmeno l'ombra di quello che era stato. La pelle rugosa e molle gli cadeva da sotto il mento e disegnava pesanti solchi sul suo volto che quasi pareva ritirarsi su sé stesso. I capelli erano incanutiti ed erano solo rimanenze di una chioma che ormai non c'era più. L'unica cosa che conservava erano le sue mani. Aveva mani

gigantesche, sembravano due badili, continuavano a spaventarlo anche ora benché non lo avesse più schiaffeggiato da quando era piccolo. Le dita erano lunghe e aguzze e ormai piene di macchie su tutto il dorso.

A guardarlo bene era sempre più convinto di aver esagerato.

Era stato comunque un bravo uomo nonostante i suoi difetti e non si meritava quel trattamento, in fin dei conti gli rimaneva probabilmente poco da vivere quindi sarebbe stato meglio cercare di arseli bene insieme. Tra l'altro si rese conto di non avergli mai detto un ti voglio bene. Nemmeno a sua madre l'aveva detto, non aveva fatto in tempo e ora non poteva recuperare.

I suoi genitori sono sempre stati gente piuttosto semplice, la comunicazione affettiva era sempre stata piuttosto povera. Era stato educato in maniera severa ma giusta, senza slanci affettivi o incoraggiamenti. C'è anche chi è fatto così e non riesce ad esprimere quello che prova e in questo, doveva prenderne amaramente atto, era uguale a suo padre.

Del resto non era una sua colpa, era fatto così, si ripeté.

Lo guardò di nuovo, Romano era visibilmente mortificato. Stava ricordando la moglie e si sentiva in colpa per tutta una vita ata ad essere arido. Avrebbe dovuto regalarle una rosa almeno una volta e lei aveva ragione, quando era in vita, a rimproverargli quei suoi comportamenti.

Igor guardò l'uomo e non vide più quel padre che fino a quel momento gli era parso così terribile, vide solo un vecchio stanco, e decise che era venuto il momento di rompere quel silenzio e dire finalmente qualcosa.

<<Elzevjer..>>

Disse guardando Romano, il quale rimase un attimo interdetto e lo fissò interrogativo invitandolo a ripetere, semplicemente esibendo lo sguardo di chi non ha capito bene.

<<Elzevjer..>>

Ripeté lui un po' meno convinto e piuttosto stupito.

<<…. Come hai detto scusa? Guarda che non ho mica capito..>>

Incalzò il padre, chiedendo spiegazioni.

<<Elzevjer..>>

Riuscì solo a ripetere Igor, dubbioso e perplesso.

<<El Zeiviel? E chi è? Un amico tuo? E' uno di quei delinquenti là? Uno di quegli arabi? Tipo quello là, come si chiama? ... Ah, ecco! OBAMA BIN LADEN?!>>

Disse lui trascendendo i toni.

<<Elzevjer!>>

Ripeté nuovamente Igor, sempre più dubbioso e perplesso.

<<Ma cos' ti dis' ?? ? Té gniu scemu?>>

Disse Romano ad alta voce in dialetto. Perdeva il controllo dell'italiano ogni volta che si arrabbiava o agiva d'impulso senza pensare. Parlare in italiano era per lui uno sforzo e doveva controllarsi per farlo. Quindi ogni volta in cui perdeva la calma virava automaticamente in dialetto.

<<Elzevjer!>>

Ripeté lui iniziando a preoccuparsi.

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Disse lui arrabbiato come non mai, andandosene per la sua strada e lasciando il figlio da solo nel corso centrale.

Igor era troppo smarrito in quel momento per fermare il padre, stava accadendo qualcosa di strano, ogni volta che apriva bocca per parlare, qualunque frase pensasse o intendesse dire, riusciva a dire solo quella parola che, peraltro, non aveva mai sentito pronunciare, non sapeva cosa volesse dire e non aveva nemmeno idea di quale lingua si trattasse.

Non era in grado nemmeno di pensare ad alcun tipo di spiegazione razionale.

Un dramma.

E se avesse un ictus in corso?

Potrebbe ritrovarsi steso a terra da un momento all'altro. Però Igor si sentiva bene. E aveva persino fatto una visita approfondita il giorno precedente da cui era emerso il suo perfetto stato di salute. Non poteva essere quello.

Forse era una reazione psicologica al padre, forse era solo con lui che non riusciva a parlare, forse si era realizzata in maniera concreta quell'incomunicabilità che aveva da sempre caratterizzato il loro rapporto e aveva fatto trascorrere loro anni e anni senza sapere in pratica nulla l'uno dell'altro, senza l'esigenza di dirsi nulla che non fossero normali frasi quali potevano essere “ami il sale”.

Si.

Doveva trattarsi di questo.

Che fantasia.

Il suo cervello aveva reagito e aveva concretizzato un qualche suo desiderio inconscio di allontanarsi dal padre di prenderne le distanze. Aveva messo in atto il risentimento che provava per Romano e aveva deciso di rendere la pariglia a quell'uomo da cui sentiva sempre di aver ricevuto qualcosa di incomprensibile. Doveva essere quello. Aveva avuto modo di sfogliare qualche rivista di psicologia del nipote e gli sembrava di aver capito che nei sogni tutto seguiva un filo di significati legati alla natura simbolica di essi, quindi era probabile che anche la realtà potesse funzionare alla stessa maniera. Tuttavia non sapeva nulla di psicologia che non fossero letture di sfuggita. Era convinto che le conclusioni a cui arrivano gli psicologi fossero solo due: o sei omosessuale oppure vuoi scoparti tua madre. Di conseguenza non aveva mai valutato neanche lontanamente l'ipotesi di andare da quei ciarlatani, per 10 euro poteva dire anche lui le stesse cose.

Tuttavia anche se non credi in qualcosa, nel momento in cui essa ti fornisce una spiegazione ad un evento, ti attacchi ad ogni possibile speranza.

Psicologo o mago, per lui uno valeva l'altro.

Se la causa era veramente suo padre allora con un estraneo avrebbe dovuto riuscire a parlare.

Decise quindi di fare una prova.

Si preparò mentalmente la frase da dire, qualcosa di banale e poco impegnativo; anche un “ciao” sarebbe bastato ma preferì optare per un “scusi, mi può dire che ore sono?” e iniziò a ripetersela a mente per essere sicuro di non sbagliare.

Vide arrivare verso di sé una signora sulla quarantina, ben tenuta, tutta avvolta in una costosissima pelliccia. Indossava un paio di scarpe nere con il tacco ed un profumo così pesante da arrivare a lui prima che le potesse avvicinarsi. Come una ventata di solvente urticante salì per le narici e fece sussultare la sua testa da quanto era forte. La cosa avrebbe potuto causare seri danni cerebrali in una qualunque persona normale, ma per Igor la cosa potenzialmente non rappresentava un forte disagio. Il cervello non lo usava. Lo aveva usato per studiare, forse, ma poi basta. Anche la donna probabilmente non aveva nulla da temere a proposito degli effetti di quel profumo, visto che ci conviveva da tutta la mattina almeno.

Due immuni senza cervello.

Igor si diresse verso la signora preparandosi a dire la frase scelta, le si avvicinò e disse

<<Elzevjer?>>

Lei per tutta risposta si limitò a tirare dritto senza nemmeno degnarsi di guardarlo, anzi, fingendo indifferenza, si girò dall'altra parte sdegnata, come se lui non esistesse. Igor dal canto suo decise di non arrendersi e scegliere un'altra persona, andando incontro questa volta ad un uomo con la barba bianca e due grossi occhiali da vista, vestito in maniera piuttosto formale e composta.

Il risultato non fu diverso, stessa parola pronunciata e stessa reazione della persona.

Igor per ancora un paio di tentativi decise di scegliere a chi rivolgersi, ma visto il modo con cui veniva ignorato iniziò a fermare in maniera indiscriminata chiunque gli asse accanto, sperando che finalmente gli uscissero dalla bocca le famigerate parole pensate e non quello che ormai pareva essere il suo univo vocabolo.

Si sentiva come un bambino che deve imparare a parlare e non sa dire nulla che non siano vocalizzi senza senso.

Nel frattempo, stazionario in mezzo al corso, si girava in ogni direzione fermando persone di ogni tipo, di ogni età o provenienza, nella vana speranza di dire qualcosa nella sua lingua madre o che qualcuno, al limite, lo capisse e gli rispondesse in un qualunque modo.

Ogni tentativo sembrava vano.

La gente lo evitava come si faceva con gli appestati e iniziava a mal tollerare la sua presenza, sgradevole perché troppo insistente. Ricercava ossessivamente una risposta. Si avvicinò disperato ad una signora con occhi talmente supplichevoli che ella si intenerì e sentì salirle il magone.

Chissà attraverso quali guerre e sventure era ato quel povero disgraziato, pensò. Si sentì male al pensiero della sofferenza di quell'uomo, lo immaginava arrancare ogni giorno nella miseria, mendicare per un tozzo di pane, maltrattato da tutto e da tutti, lo vedeva distintamente raccogliere il cibo da terra. Una buona

cristiana, quale lei si riteneva, non poteva tollerare quello spettacolo indecoroso e incivile! Era necessario reagire e fare qualcosa, aiutare questo povero derelitto sfortunato perché ci sono momenti in cui è necessario prendere una posizione netta, decisa, determinata! Quando le si presentò gesticolando e parlando in quella sua lingua barbara da sottosviluppato del terzo mondo, fu presa dalla santa comione che le avevano insegnato in chiesa e subito seppe cosa fare.

Lo guardò dritto negli occhi con uno sguardo languido e comprensivo, gli prese la mano e vi depositò venti centesimi dicendo

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Da parte sua Igor era un attimo smarrito visto che era stata lei a cercarlo, guardò la moneta nella sua mano e come al solito disse, ma questa volta in tono interrogativo

<<Elzevjer?>>

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Replicò quella in tono caritatevole e convinto di aver fatto la cosa giusta e, senza dire altro, sparì tra la folla.

Rapidamente come era venuta, altrettanto rapidamente se n'era andata nel nulla, mescolandosi alla fiumana che scorreva.

Peccato perché Igor avrebbe voluto fargliela mangiare quella moneta di merda.

Pidocchiosa e stupida.

Le persone intanto iniziarono ad evitarlo preventivamente non appena lo avvistavano da lontano, lanciandosi ai bordi della strada o dal lato opposto rispetto a quello in cui stava lui.

Un po' come fanno tutti quelli che s'imbattono nei i soliti truffatori che prima ti chiedono se hai pregiudizi verso i tossici e poi ti rivelano di essere stati in centri di recupero in modo da indurti a far vedere che tu non hai pregiudizi e saresti disposto a dimostrarlo comprando una qualunque cianfrusaglia a caro prezzo. Al tempo Igor aveva risolto il problema ammettendo bellamente i suoi pregiudizi davanti a loro e aggiungendo una serie di insulti qualora si fero troppo insistenti. Forse era indelicato ma di sicuro non veniva truffato e nessuno faceva leva sulle sue buone intenzioni; del resto quelle le teneva per donare, senza farlo sapere a nessuno, alle missioni in Africa o alla ricerca: gli immigrati non gli piacevano, ma i bambini di qualunque etnia e i malati, lo avevano sempre fatto soffrire.

Il metodo però non funzionava con quelli di lotta comunista, erano maledettamente insistenti e non si scoraggiavano nemmeno quando pur di toglierseli dai piedi dichiarava, in maniera teatrale e falsa, una cieca “fede alla destra fascista del glorioso duce” , lui che era comunque di una destra moderata di stampo cattolico del versante ipocrita e non praticante. Anche in quel caso non si scomponevano e lo invitavano al confronto in una delle loro riunioni. L'unico modo per liberarsi dall'insistenza che li contraddistingueva era quello di assecondarli, evitare il confronto e non appena arrivava il momento in cui avrebbero chiesto il numero di telefono per comunicare luogo e ora delle riunioni, bastava rifilargliene uno sbagliato.

Sarebbe stati cazzi dell'intestatario di quel numero.

Era diventato un vero artista nello sbarazzarsi di piazzisti e simili utilizzando un misto di cinismo e scortesia. L'ultima risorsa di Igor era diventata evitarli tutti dal principio, esattamente come iniziavano a fare i frequentatori del corso centrale per schivare la sua presenza.

Iniziò a farsi prendere dal panico e i suoi modi irruenti iniziarono ad attirare l'attenzione. Principiò a afferrare le persone alle braccia per fermarle mentre queste ovviamente se ne andavano sdegnate e infastidite, qualcuna anche piuttosto spaventata. Iniziò a sentirsi perduto e solo, non sapeva come uscire da quella situazione terribile, la bocca gli si asciugò allappandosi in un unico pastone rinsecchito che gli incollò la lingua al palato. Era come essere perso in un bosco senza riferimenti, tutto è uguale e non si sa dove appigliarsi; si può solo girare a caso senza meta sperando di incappare in qualcuno o in un sentiero.

La cosa peggiore era che, non solo era sopra qualcosa di paragonabile ad un sentiero, ma vi circolavano pure una marea di persone e nonostante questo non riusciva a fare nulla!

La sua insistenza lo portò tuttavia ad essere notato finalmente da un ragazzo con i capelli lunghi raccolti a coda di cavallo.

Ma non con le modalità che Igor sperava.

Infatti andogli accanto gli disse sprezzante

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Igor rimase un attimo interdetto.

Sentire quelle parole dette dall'alto in basso, proferite proprio nei suoi confronti, come se fosse uno straniero qualunque, lo distolsero per alcuni attimi dallo stato di panico in cui versava e lo fecero arrabbiare e risentire al punto da rispondere ai toni supponenti dell'uomo nell'unico modo che ormai conosceva, usando lo stesso inconfondibile tono di quando si dà dello stronzo a chi ci taglia la strada in macchina rischiando di farci fare un'incidente, e infatti, esasperato da tutta la situazione, gridò

<<ELZEVJER!>>

Rivolto al ragazzo, paonazzo in volto, muovendo collo e testa lentamente in avanti come a sottolineare la forza della sua affermazione. La vena giugulare quasi gli scoppiava sotto la pelle, tesa come il tendone del circo, da quanto vibrava forte; i suoi occhi erano spalancati e puntavano diretti sulla schiena del giovane, pugnalandolo alle spalle. Il ragazzo si girò immediatamente incontrando lo sguardo di Igor e andando a i decisi in suo direzione gridando a sua volta

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Arrivatogli davanti, prima lo spinse così forte da farlo cadere lungo a terra, poi

gli si avvicinò ancora e attese una sua reazione. Igor si alzò di scatto e preso dalla rabbia assestò un diretto destro al volto del ragazzo che perse l'equilibrio e cadde a terra. Rimase intontito per un solo attimo ma con la ferrea intenzione di rialzarsi per pestare il suo aggressore. Igor non permise che tutto questo potesse accadere perché, accortosi della chiara intenzione di linciarlo da parte della folla, decise di correre e fuggire via da quel luogo.

Dietro di sé solo le grida del ragazzo e qualche ingiuria razzista da parte della folla che non ebbe comunque il tempo di prenderlo.

Inaudito!

Lo avevano scambiato per un immigrato!

Giunse alla macchina senza fiato e in uno stato di agitazione tale che riuscì ad inserire la chiave nello sportello solo dopo svariati tentativi che, tra l'altro gli costarono, anche qualche riga sulla carrozzeria. Si gettò sul sedile e accese rapidamente l'auto per allontanarsi prima possibile da quel luogo. Qualcuno avrebbe potuto pensare di seguirlo. Si fermò in uno spiazzo alcuni chilometri fuori dalla città, in un posto dove non circolavano macchine. Rimase seduto all'interno e cercò di calmarsi.

Si sarebbe scolato una bottiglia di whisky e fumato una stecca intera di sigarette se le avesse avute, ma dubitava fortemente che di entrambe esistesse la marca “Elzevjer” da andare a comprare in negozio.

Era ormai appurato che sapeva o poteva dire solo quello.

Che fare?

Accese la radio sperando che la musica lo rilassasse ma a quanto pare stavano trasmettendo “Surprise! You're dead!” dei Faith No More e, per quel poco che sapeva di inglese, la cosa non appariva proprio come una frase ben augurante quindi ci ripensò subito e spense lo stereo. Quando riuscì a riprendere il controllo di sé aveva ormai constatato che due cose poteva fare, tornarsene a casa a dormire e sperare che tutto andasse a posto da solo o andare al pronto soccorso.

Andò a casa a dormire.

La speranza che con il sonno potesse ristabilirsi, allo stesso modo di come fa l'utente medio di un computer che spera di aggiustarlo “spegnendo e riaccendendo”, andò ovviamente in frantumi alla mattina seguente.

Svegliato dal telefono che squillava insistentemente, si alzò dal divano su cui, stremato, si era addormentato la sera prima e andò a rispondere

<<...elzevjer..?>>

Disse assonnato mentre dall'altra parte del microfono rispose la voce delicata di Irina, una collega di lavoro con cui avrebbe voluto uscire da tempo ma che in quelle circostanze molto probabilmente chiamava solo per sapere a cosa fosse dovuta la sua assenza di oggi dall'ufficio e non, come sperava lui ogni volta, per avere un appuntamento. Si sentiva attratto da lei da quando era arrivata a

lavorare da loro ma non aveva mai avuto occasione di poterle offrire nemmeno un caffè.

Irina, sentendo una risposta diversa dal consono “pronto” detta in una lingua sconosciuta, a senso, non poté dire altro che

<<Mi scusi per il disturbo, devo aver sbagliato numero..>>

e buttò giù.

Per tutta risposta Igor guardò verso il cielo, sconsolato, dopodiché prima staccò il telefono strappando direttamente il filo dalla parete e poi diede una testata al muro così forte da perdere immediatamente i sensi.

Si risvegliò parecchio confuso ma con la certezza ormai che nulla sarebbe cambiato e lo scatto d'ira al massimo poteva aver peggiorato le cose. Non volle nemmeno provare a dire qualcosa ad alta voce nella solitudine del suo appartamento. Si sedette sul divano su cui aveva ato la notte e rimase a fissare il muro pensieroso. Doveva avere qualcosa di grave e a quel punto non rimaneva che andare al pronto soccorso, forse nel suo cervello si era rotta una vena e il coagulo era andato ad intaccare le sue facoltà linguistiche. Magari il grumo di sangue gli stava danneggiando il cervello in maniera irreparabile e, più lasciava are tempo, più la situazione sarebbe stata irrecuperabile. Un tumore! Poteva essere un tumore al cervello, una qualche infezione virulenta, oppure gli si stava inondando il cervello di pus e si sarebbe ridotto ad un vegetale!

Ma perché non era andato prima al pronto soccorso?

Aveva una voglia terribile di piangere mentre si vedeva già sopra di una carrozzina, con in capo reclinato e lo sguardo vacuo, a sbavare mentre una badante moldava lo imboccava lasciando che il cibo gli si accumulasse su tutto il volto e che di nascosto avrebbe iniziato a rubargli i soldi dal portafoglio.

Oppure, peggio, poteva finire in una casa di cura per malati! Da solo! A farsi cambiare il pannolone mentre si riempiva di merda fino al collo! A farsi lavare il culo da altri!

Voleva vomitare.

E cosa avrebbe potuto fare per protestare? Ora che al massimo avrebbe potuto dire un “elzevjer” per il si e due “elzevjer” per il no? Ammesso che qualcuno capisse lo stratagemma. A chi chiedere aiuto? Amici non ne aveva e suo padre era inferocito con lui. Se veramente “Nessun uomo è un'isola” come diceva John Donne (4 – NOTE ) per lui poteva valere la variante “Alcuni uomini sono penisole” visto che l'unico suo legame con il mondo era Romano.

Il pronto soccorso si dipanava come l'unica soluzione e anche con una certa fretta. Ma come spiegare? Ma certo! Si poteva provare a scrivere! Magari non riusciva a parlare ma a scrivere poteva essere ancora in grado!

Si alzò dal divano di corsa e iniziò a frugare tra i cassetti di casa in cerca di un foglio bianco su cui scrivere tutto quello che era successo in modo da presentarlo direttamente al medico senza dover dire nulla. Aprì ogni anta e sportello e non riuscì a trovare un maledetto foglio intonso che fosse uno! Iniziò a rovesciare il contenuto dei cassetti capovolgendoli e ispezionandone febbrilmente i contenuti caduti a terra ma senza risultati.

Ritrovò ogni genere di cosa, libri di cucina, fumetti, le pagelle delle elementari, medie, e superiori (ma guarda un po', non ricordava di avere una media così bassa), zampironi, articoli di cancelleria (beh, una penna blu comunque serve, meglio metterla da parte prima che sparisca come solitamente fanno le bic), una foto con sua madre (ma quanto era cotonata?), un nastro di scotch, giornali vecchi, un marsupio, videocassette porno e all'improvviso l'illuminazione: stanco di cercare un foglio qualunque, decise di usare il retro di una lettera di comunicazione ricevuta dalla banca, tanto non sarebbe importato a nessuno.

Ovviamente non trovava più la penna, seppellita dal casino che si stava accumulando per tutta la stanza e impiegò venti minuti di tribolazioni prima di ritrovarla. Finalmente la rinvenne dentro un astuccio blu, sottile e lungo oltre che pieno di penne di ogni genere e colore (ma ce l'aveva messa lui per tenerla da parte?).

Si mise al tavolo seduto e pensò a cosa scrivere:

Buongiorno

Mi chiamo Igor Pasculi. Da ieri pomeriggio non riesco più a parlare normalmente e continuo a ripetere parole senza senso. Ho altri sintomi: mi brucia lo stomaco e ho mal di testa. A volte ho anche un forte senso di vertigine (beh, a chi non verrebbe al mio posto?). Prima che mi succedesse ho mangiato del formaggio leggermente ammuffito. Può essere quello? La prego mi aiuti!

Ma la penna non scriveva.

Iniziò a scarabocchiare sopra un giornale ma continuava a non scrivere. Provò a calcare di più e insistere con più forza ma non cambiava niente, eppure l'inchiostro c'era! In compenso a furia di sfregare aveva scavato il giornale stracciandolo tutto con la punta. Pieno di rabbia la lanciò contro il muro, si alzò di scatto e recuperò l'astuccio. Iniziò a prendere le penne una per volta e a provarle tutte.

Blu: non va. Cazzo.

Nera: non va. Ri-cazzo.

Nera di nuovo: non va. Ma porca Puttana.

Ancora nera: nemmeno questa. Cristo.

Blu: niente.

Nera: ah, no questa è quella di prima.

Rossa!! ... niente anche questa. Possibile che non ci sia una penna funzionante in questa casa?

Blu: niente. Ma devo piantarmi una penna d'oca nelle vene e scrivere con il sangue?

Blu: ancora niente.

Penna multicolori: non sapevo nemmeno di averla..a quando risale?

Giallo: non va.

Blu: non va.

Rosso: non va.

Verde:non va.

Viola: va!!! va bene, meglio di niente! Finalmente!

Fece mente locale cercando di ricordare quello che voleva scrivere in modo da evitare cancellature, righe o simili (certe abitudini prese a scuola ti rimangono anche da adulto), si sedette comodo e prese in mano la penna pieno di speranza. Per un breve istante lo sfiorò l'idea di quanto fosse ridicolo scrivere una richiesta d'aiuto in viola ma non ci fece caso. La provò un'ultima volta sugli stracci del giornale per essere sicuro che funzionasse ancora e poi iniziò a scrivere sul foglio che aveva recuperato:

Elzevjer (NO..)

Elzevjer elzevjer elzevjer elzevjer. (NO!) Elzevjer elzevj... (Cazzo! No! No! No! NOOOOO!)

Appallottolò il foglio, lo lanciò mollemente contro la credenza e rimase a fissare sconfortato la superficie del tavolo. Avrebbe sbattuto volentieri di nuovo la testa contro il muro. Per un breve istante pensò anche di farlo ma concluse che piangere disperatamente fosse, ormai, più consono e adeguato.

Lottò con la disperazione e la voglia di ubriacarsi e vinse schienandole entrambe dopo un estenuante scontro stracolmo di colpi bassi.

Decise di uscire di casa e provare ad andare in ospedale, in qualche modo sarebbe riuscito a far capire il suo problema al dottore.

Si fece coraggio, intascò le chiavi della macchina e partì.

Il Policlinico non era lontano, gli sarebbero occorsi non più di venti minuti per arrivare al pronto soccorso, se solo fosse riuscito ad arrivarci. Igor stava guidando la sua utilitaria per le vie cittadine quando, una volta entrato nella rotonda e intento a svoltare alla seconda uscita, un tizio alla guida di un Suv grigio entrò di prepotenza tagliandogli la strada e di conseguenza facendosi centrare un fianco.

Igor stava andando piano apposta per evitare contrattempi come questo, cercava di non dover parlare con nessuno. Pensò che per fare un incidente in questa maniera tanto valeva fare i duecento all'ora, almeno sarebbe arrivato prima.

Invece ora doveva pensare a come sbrogliarsela.

Appena sceso iniziò a gesticolare senza emettere suoni sperando di riuscire a risultare un sordomuto convincente, aggiungendo giusto qualche grugnito sconnesso per dare più enfasi alla cosa. Non poteva essere così sfortunato da trovare un altro sordomuto e soprattutto cosa avrebbe detto nel linguaggio dei segni, sempre “elzevjer”?

Non voleva nemmeno pensarci, ebbe i brividi per un attimo che durò un'infinità, corredato da una serie di timori e tachicardie da angoscia.

Dal Suv scese un ometto basso di statura, con una pancia piuttosto pronunciata e con una barba bianca e folta dai modi molto gentili che, non solo si scusò per avergli tagliato la strada ma vista la situazione, compilò anche di sua spontanea volontà la constatazione amichevole senza battere ciglio. Quando ebbero finito il signore mise in moto e se ne andò, Igor invece accostò un attimo lungo la strada per rimettere a posto i documenti dell'auto.

Le cose per fortuna non devono sempre necessariamente andare per il verso sbagliato.

Stava aprendo il portadocumenti quando una mano aprì la portiera, lo afferrò da dentro l'abitacolo e lo scaraventò fuori facendo cadere tutto a terra sull'asfalto. Fu immobilizzato da due forti mani contro il fianco della macchina e circondato da quattro figure.

Prima di capire cosa stesse succedendo riuscì solo a sentire una voce che diceva

<<Sei sicuro che sia questo qui?>>

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Rispose una seconda voce che invece gli pareva di aver sentito in quelle ultime ore; si girò verso di essa e riconobbe il ragazzo con la coda di cavallo.

Con in più un occhio vistosamente nero.

Questa volta non era solo; insieme a lui c'erano tre ragazzi piuttosto ben piazzati, corredati da una espressione facciale indiscutibilmente poco sveglia ma decisamente molto alterata e pericolosa.

<<E' questo che ti ha picchiato? Adesso lo sistemiamo noi. E' stata una fortuna assistere all'incidente mentre eravamo al bar di fronte.>>

Disse uno degli altri due, mentre il terzo aggiunse rivolto al ragazzo con la coda di cavallo disse

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<<Mi ha preso alla sprovvista, altrimenti lo avrei gonfiato!>>

Si giustificò quello, stizzito e ferito nell'orgoglio. Nel frattempo il tizio che lo stava trattenendo gli diede un paio di scrolloni contro la macchina a cui aggiunse uno schiaffone che gli girò il volto.

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Gridò ad Igor che, dopo la notte precedente aveva tutti i capelli arruffati e la barba lunga di due o tre giorni e che, da parte sua, non poté far altro che dire

<<Elzevjer..>>

Il tizio replicò lo schiaffone e gridò

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<<E-Elzevjer..>>

Mentre Igor pronunciava l'unica parola a lui concessa qualcuno del gruppetto sussurrò “Non capisce una parola d'italiano” e in quel momento, un pugno di una forza poderosa gli arrivò diretto alla bocca dello stomaco piegandolo in due.

Il fiato gli morì sulle labbra insieme alla forza di respirare.

Si riversò in avanti di riflesso e incassò di conseguenza una ginocchiata al volto che lo rispedì così indietro da picchiare la testa nuovamente contro la macchina. Lesti i tipi lo tennero in piedi schiacciandolo contro l'auto mentre quello che lo aveva tirato fuori assestava un ulteriore pugno allo stomaco, seguito subito da una testata al volto.

Questa volta nessuno riuscì a trattenere Igor che cadde a terra rantolante.

L'unica cosa che ora poteva vedere ora erano le scarpe dei suoi aggressori i quali, nel frattempo, iniziarono ad armeggiare toccandolo ovunque. Cercavano il suo portafoglio. Il ragazzo con la coda disse ad alta voce, rivolto ai compari

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Disse, andoli nelle mani di uno dei tre, mentre rivolgendosi a Igor sibilò

<<.. potevi almeno scegliere un mestiere più credibile per uno zingaro come te!>>

E gli diede un calcio sul fianco.

< > suggerì qualcuno.

E così fecero.

Ovviamente dopo avergli preso tutti i soldi che aveva.

Anche le monetine e i centesimi.

Pezzenti.

Quando mezzora dopo la polizia arrivò i quattro si erano trastullati nell'attesa picchiando Igor che ormai aveva il volto completamente tumefatto e lordo di sangue, con i vestiti strappati e sporchi.

Se avessero continuato ancora, sarebbe finalmente riuscito ad andare al pronto soccorso, ma non per il motivo iniziale che stava alla base delle sue necessità.

Era ormai irriconoscibile.

Non si era più alzato da terra, era dolorante e sofferente. Sperava che la polizia arrestasse quei biechi figuri con facce da delinquenti. Dovevano essere criminali o ex carcerati come minimo.

Bastava controllare le fedine penali di tutti e cinque per capire chi fosse l'innocente di quel gruppo!

Quando arrivarono Igor cercò di lanciare un “elzevjer” di sdegno e protesta ma il tipo con la coda lo zittì con un pesante calcio allo stomaco, di fronte ad una insolita indifferenza degli uomini in divisa.

Ma non dovrebbero proteggere i più deboli?

Non è difficile capire quale sia la parte debole in una disputa tra un uomo contro quattro.

Perplesso aspettò la loro reazione.

Ma non arrivò.

I quattro spiegarono ai due uomini della volante che facevano parte della ronda cittadina aderente all'iniziativa di un partito al governo (peraltro lo stesso sostenuto da Igor) e che avevano riconosciuto questo sospetto come un molestatore, già individuato in attività di accattonaggio nel corso principale il pomeriggio precedente; attività svolta in maniera piuttosto insistente e con chiare intenzioni di borseggiare qualche ante. Inoltre la sera prima si erano verificati alcuni furti in case di privati, guarda caso proprio dove era stato precedentemente avvistato. Non poteva essere una coincidenza, sicuramente si trattava di un giro di ricognizione, era coinvolto e conveniva controllare.

Riferirono anche le dinamiche della cattura: avevano svolto il servizio di ronda volontaria la notte precedente e mentre si trovavano a fare colazione in un bar a fronte della strada, sono stati attirati fuori dal rumore di un incidente. Accorsi per cercare di fornire aiuto e sostegno, uno di loro ha riconosciuto l'aggressore del giorno precedente che, sentendosi scoperto e alle strette, si sarebbe nuovamente avventato su di lui. Difeso dai compagni sarebbe caduto da solo durante la colluttazione. Ripetutamente. Riferirono che era anche sprovvisto di documenti validi e quindi non identificabile.

Sicuramente non era italiano.

I poliziotti ammanettarono e presero in consegna Igor ignorando bellamente le sue condizioni di salute, tanto era straniero, non conosceva e non parlava la lingua e quindi non avrebbe protestato con nessuno; in più con le norme vigenti potevano rimandarlo al suo paese senza troppe trafile burocratiche, anzi, non solo nessuno si sarebbe accorto di nulla ma dopo quello che gli era successo ci avrebbe pensato due volte prima di ritornare o di dire a qualcun altro di venire qua.

Restava solo da capire da che paese venisse per poterlo rispedire da dove era arrivato.

Igor appena si sedette sul sedile posteriore della volante svenne accompagnato dal sapore ferroso del sangue che gli riempiva la bocca.

Era la giornata dei pessimi risvegli.

Venne svegliato dagli schiaffoni di un poliziotto.

Si trovava in una caserma alla periferia della città.

Così gli dissero.

Igor era seduto sopra una panchetta di legno piuttosto traballante che pareva sul punto di rompersi di fronte ad uno sguardo un attimo più pesante e insistente. Era in un lungo corridoio con pareti color menta sbiadita da dove non poteva scorgere nulla. Sembrava non ci fosse niente altro, solo la panchetta, lui e il poliziotto schiaffeggiatore (chissà se era un ruolo specifico di gerarchia?). Nessuna porta, nessun ufficio, nessuna persona a parte loro.

Era come trovarsi in mezzo ad un corridoio infinito.

Non c'erano nemmeno finestre perché la luce scendeva dal soffitto da lunghi neon che, in un posto come quello, davano colore all'asetticità che si respirava; giusto per rendere l'idea di quanto si sentisse la necessità di qualcosa in più che non fosse, in quel caso, addirittura meno dell'essenziale. Igor aveva la reverenza marziale che si prova di fronte ad entità superiori che si teme di contaminare con la propria presenza. Sembrava un luogo talmente etereo e improbabile che, il solo fatto di tossire, avrebbe potuto portare virus o batteri sconosciuti fino a quel momento in quei meandri irraggiungibili della terra.

Il poliziotto schiaffeggiatore sparì andando verso il lato sinistro del corridoio. Era un uomo robusto con un pizzetto sottile intorno alla bocca. Aveva il volto ben tenuto e sbarbato. In questo quadro di perfezione e cura stonava la divisa che pareva essergli leggermente abbondante, benché in maniera quasi impercettibile. Igor venne lasciato lì da solo per un tempo di cui non era nemmeno in grado di valutare l'entità. Non sapeva nulla e continuava a non vedere nessuno che gli

spiegasse qualcosa.

L'attesa iniziò a diventare snervante.

Tuttavia sperava puerilmente che quel momento durasse in eterno perché qualora avesse dovuto parlare, la situazione non avrebbe potuto fare altro che peggiorare viste le sue attuali capacità comunicative.

Cercò di distrarsi pensando al dolore che lo affliggeva. Gli doleva la testa, i fianchi e anche lo stomaco a causa delle percosse ricevute.

No, forse il dolore allo stomaco era solo fame. Non era in grado di stabilire nulla nel crogiolo di sofferenza che ormai era diventato il suo corpo.

L'unica cosa a cui non aveva male era il sedere, ma la scomodità della panca stava ormai provvedendo in tempi celeri a sanare questa lacuna.

Era ato un tempo infinito e Igor continuava ad essere solo e incustodito. Decise allora di farsi coraggio e provò a dire qualcosa, timidamente, a voce alta

<<ELZEVJER..?>>

Senza ottenere la seppur minima risposta.

Si guardò in entrambe le direzioni ma nulla si muoveva. Il nulla da una parte e dall'altra. Fece are un po' di tempo prima di decidersi a chiamare nuovamente, questa volta con voce più forte e decisa

<<ELZEVJEEEEEEEER!>>

Si guardò nuovamente ai due lati.

Prima a destra e poi a sinistra.

Nessuno.

Guardò di nuovo a destra ma vide ancora il niente circondato dal nulla.

Si girò verso sinistra e si trovò davanti il poliziotto schiaffeggiatore che senza dire una parola mise la mano sinistra dietro la nuca di Igor e con la destra entrò di prepotenza sul suo stomaco con un pugno che avrebbe fatto svenire chiunque.

Di sicuro ora non avrebbe più sentito la fame tra i tanti dolori che reclamavano la sua attenzione.

Igor si contorse in una smorfia tirata mentre la testa gli capicollava tra le ginocchia.

Quando si rialzò era di nuovo solo e ben predisposto ad aspettare in silenzio.

Anche anni se fosse stato necessario.

Invece non ò molto tempo e venne il solito poliziotto schiaffeggiatore a prelevarlo. Lo sollevò di peso dalla panchetta prendendolo sotto l'ascella, lo mise in piedi e lo invitò con un pugno sullo stomaco a seguirlo gentilmente.

Venne portato in uno studio medico e messo di fronte ad un uomo dall'aria piuttosto severa e marziale che sedeva dietro ad una scrivania solida e massiccia, ordinata e pulita in ogni minimo particolare. Nella stanza c'era un lettino da ospedale e varie tavole medico anatomiche appese alle pareti, benché in generale fosse un ambiente piuttosto spoglio ed essenziale.

Il poliziotto schiaffeggiatore era ritto in piedi alle sue spalle. Non gli toglieva mai gli occhi di dosso. Igor si girò una sola volta per assicurarsi della sua presenza e poi decise di guardare concentrato di fronte a sé per evitare gli inviti gentili del suo angelo custode; quelli a non fare rumore e a seguirlo erano già stati sufficientemente chiari e ben espressi.

L'uomo dietro la scrivania, evidentemente un medico, indossava un lungo camice bianco senza alcun nome. Il volto era pieno, con uno sguardo serio e severo. Il corpo sembrava tonico e muscoloso. Igor sperava proprio di non dover ricevere inviti gentili da quell'uomo perché sarebbe stato come are al tritacarne.

Il medico aveva davanti a sé un foglio già compilato e stava scrivendo a mano con una penna nera verso il fondo di esso.

Senza alzare lo sguardo dal foglio disse

< >

Igor intuì cosa gli sarebbe successo.

<<Elzevjer..>>

Rispose.

L'altro proseguì

< >

<<E-Elzevjer..>>

Da dietro gli arrivò un pesante schiaffone che lo fece cadere dalla sedia, mentre una voce profonda e decisa si spandeva per la stanza rimbalzando sui muri e cadendogli addosso come una pesante colpa delle dimensioni di un ergastolo.

< >

Indicò a Igor la sedia e attese che vi si risistemasse, terrorizzato e con le lacrime agli occhi; ma ancora non piangeva.

< >

Si girò guardando il poliziotto schiaffeggiatore, con la certezza di non poter fare altrimenti dal dire la stessa parola e di non poter spiegare nulla il che era la sicura condanna a ricevere una serie di inviti gentili. Lo guardò supplichevole, coprendosi il volto con le mani. Titubante ripeté nuovamente l'unica parola che sapeva dire. L'altro allora fece il gesto di colpirlo e Igor iniziò a ripetere in rapida sequenza, in preda al terrore e al pianto scomposto e convulso

<<Elzevjerelzevjerelzevjerelzvjer!!!>>

Da parte sua il poliziotto venne fermato dal medico poco prima che potesse mettere in atto le sue intenzioni

< >

< >

< >

I pessimi risvegli iniziavano ad essere piuttosto frequenti negli ultimi giorni.

Non solo, divennero anche l'ultimo dei problemi di Igor ora che si ritrovò in un commissariato di polizia straniero e nella scomoda posizione, non solo di non poter farsi capire, ma fondamentalmente di non capire nemmeno nulla di quello che dicevano questi nuovi uomini in divisa. L'uso della gentilezza era tuttavia molto simile, quasi uguale. Tutte le polizie del mondo sono paese. Non sapeva come l'avessero portato lì, ricordava solo che il poliziotto schiaffeggiatore lo aveva addormentato con una iniezione al braccio e poi si era svegliato in quell'ufficio. Ripensando a quanto accaduto si rese conto che era piuttosto bizzarra come procedura di rimpatrio di un clandestino.

Nei giorni a seguire non ebbe modo di poterci riflettere più di tanto: la gentilezza mise a dura prova la sua psiche e la sua carne venne battuta e frollata come solo nei ristoranti di una volta si sapeva fare. Si sentì solo di ipotizzare che potessero averlo venduto a qualche stato straniero spacciandolo per una qualche spia doppiogiochista in cambio di chissà quale agente del servizio segreto tenuto in ostaggio da anni.

Trama degna di uno dei peggiori thriller di cui era accanito lettore. Approfittando del suo stato babelico lo avevano venduto.

Bella merda.

Tutto ciò era desolante.

Solo di questo fu in grado di fantasticare poiché una forte ività si era ormai presa una grande parte del suo stato d'animo.

Aveva smesso di parlare, era tutto inutile, si lasciava picchiare e trasportare senza opporre alcun tipo di resistenza. Ormai era inerme, giaceva dietro una sorta di paratia rassegnata all'evidente scherzo del destino a cui era sottoposto.

Quello che accadde successivamente Igor fu in grado solo di intuirlo.

Ogni volta che finiva negli uffici governativi di qualche stato estero veniva picchiato, riconosciuto come straniero rispetto allo stato in cui si trovava e di conseguenza spedito in un altro stato di cui si sospettava fosse cittadino. Una volta giunto qui, la storia si ripeteva tale e quale a come aveva avuto inizio in Italia.

Il suo pellegrinaggio durò mesi, all'interno dei quali girò per uffici governativi e carceri, di una ventina di paesi.

Igor era un clandestino nel mondo.

E' ato quasi un anno da quando è partito dall'Italia e ora Igor è nuovamente seduto su una sedia.

Scomoda.

Molto scomoda.

Ha la barba folta e lunga, l'ultima doccia risale ad una ventina di giorni prima in una prigione di chissà quale parte del mondo. Anche i capelli sono cresciuti molto e sono tutti arruffati e appiccicosi per la scarsa igiene. Il suo viso è sporco ed emaciato, scavato da occhiaie profonde come abissi di carne. I denti si sono ingialliti, la faccia è ormai una macchia di lividi mentre gli occhi sono rossi e gonfi, dal pianto, dalla deprivazione del sonno, dalle percosse. I suoi vestiti sono consunti e strappati, macchiati e trasudanti ogni genere di lordura. Il suo odore è acre e forte, un misto di sudore e sporcizia.

Il poliziotto che entrò nella stanza venne immediatamente colpito dall'odore rivoltante che impestava l'aria e ammorbava tutto quello circondava quell'uomo barbuto. Trattenne a stento i conati di vomito e si tappò immediatamente il naso in una smorfia disgustata. Igor da parte sua sembrava non accorgersi di nulla, rimaneva con la bocca aperta e lo sguardo vitreo fisso sul soffitto.

In quel corpo non c'era più vita. Era una specie di soprammobile, veniva spostato da una parte all'altra senza che dimostrasse alcuna preferenza, come si diceva in un saggio a proposito delle aragoste ( 5 - NOTE ).

Dove veniva messo lui stava.

Se qualcuno voleva picchiarlo ormai non si lamentava nemmeno più. Non parlava e mangiava solo quando qualcuno lo imboccava. Fissava il vuoto e basta. Si cagava e si pisciava addosso. Se l'anima esiste realmente la sua doveva aver lasciato il suo corpo e doveva essere volata altrove.

Era un involucro vuoto e un soffio sarebbe bastato a sgretolarlo.

Si sarebbe ridotto in polvere al minimo tocco di un essere umano.

La porta si aprì nuovamente e fece il suo ingresso un altro poliziotto più anziano del collega. Si scambiarono un paio di battute nella loro lingua e poi osservarono Igor che, da parte sua, continuava a fissare il soffitto respirando flebilmente.

Lo sollevarono prendendolo da sotto le ascelle, uno da una parte e uno dall'altra, e lo sorressero cercando di farlo camminare con le sue gambe. Lo accompagnarono fuori da quella stanza e gli fecero percorrere un lungo corridoio. Ogni tanto Igor perdeva l'equilibrio e cadeva, ma i due lo trattenevano e lo aiutavano a ristabilirsi. ando attraverso stanze e corridoi arrivarono fino ad un cancello sorvegliato da un guardiano il quale, vedendoli, inserì subito la chiave nella toppa per aprire loro la porta. Varcata quella soglia lo sguardo perso di Igor venne colpito da un sole caldo e accecante che lo obbligò a chiudere le palpebre per abituare le sue pupille alla luce naturale.

Era un anno che non la rivedeva più.

Grugnì un attimo e nulla più.

I due poliziotti proseguirono la camminata trovandosi in un ampio cortile, delimitato da una recinzione in ferro sorvegliata da guardie armate, in cui stavano un centinaio di persone. Erano tutti evidentemente trattenuti lì contro la loro volontà. Erano prigionieri. Attorno al cortile pareva esserci il nulla, un deserto rosso inghiottiva la struttura da cui erano usciti, spoglia, squadrata e spigolosa.

I due poliziotti depositarono delicatamente Igor su di una panchina in pietra, facendolo sedere e lasciandogli appoggiare la schiena al muro. Se ne andarono senza guardarlo e nessuno osò avvicinarsi, primariamente per la puzza insostenibile e in secondo luogo perché aveva l'aspetto di chi aveva ancora poco da vivere e a cui era consigliabile concedere gli ultimi attimi in solenne raccoglimento con sé stesso.

Gli altri prigionieri lo lasciarono solo nei suoi ultimi giorni.

La pietà dimora anche nei luoghi da cui è stata cacciata.

Igor fissava ora il cielo.

La luce gli stava scaldando il volto e stava levando strati di umidità accumulata nei mesi ati in celle sotterranee di chissà quale luogo della terra. Il suo viso, con le guance cadenti coperte di folta barba, stava reclinato all'indietro, appoggiato al muro, privo di espressione e con un'impercettibile patina malinconica che copriva il suo sguardo vitreo.

Per la prima volta pensò a suo padre. Cosa aveva fatto in quel tempo? Lo aveva cercato? Era ancora vivo? Sentiva la sua mancanza Era il suo unico legame saldo con il mondo, per quanto conflittuale. Si ritrovò a pensare che in tutto quel tempo ato a girare tra prigioni, sevizie e torture, non avrebbe avuto nulla da raccontargli se non una trafila di orrori e di giornate identiche, fatte di soprusi e di totale mancanza di senso.

Interrogatori e domande incomprensibili. Risposte sempre uguali, incomunicabilità. Da tutti era visto come uno straniero e da tutti veniva scaricato come fosse una specie di pattume, un'immondizia, o al peggio, una cancrena. Come se il solo fatto di vivere potesse danneggiare gli altri con il peso di un respiro. Gli erano state attribuite centinaia di nazionalità senza che gli fosse riconosciuta una effettiva appartenenza. Nessuno lo voleva. Nemmeno il paese in cui era nato lo riconosceva più, le sue radici e la sua cittadinanza erano scomparsi. Ammesso e non concesso che fossero realmente esistiti. Eppure non siamo tutti cittadini del mondo? Che male aveva fatto oltre a quello di parlare una lingua incomprensibile non solo agli altri, ma anche a sé stesso? Avevamo veramente perso la capacità di comunicare tra di noi esseri umani e anche con noi stessi? Le differenze di lingua erano veramente un limite invalicabile?

Ripensò a tutti gli interrogatori che aveva subito.

Gli ultimi erano stati così violenti che quasi provò nostalgia del poliziotto schiaffeggiatore. Ripensò a suo padre. E le due cose si fo in una sola immagine, un ricordo che lentamente iniziò a prendere forma.

Quando era più piccolo un giorno trovò nella libreria del corridoio adiacente la cucina, nella casa in cui aveva ato la sua infanzia e da cui poi avevano dovuto traslocare per motivi economici, un fumetto umoristico chiamato “Crock il legionario”. Da adulto apprezzò quel fumetto perché gli diede modo di capire come quel padre austero e severo in realtà celasse dentro di sé tratti molto giocosi, che forse erano sempre emersi in sfumature e in piccoli atteggiamenti, ma verso cui lui non aveva mai indirizzato sufficiente attenzione.

Romano regalò al figlio quell'albo sbiadito e spiegazzato ed entrò a pieni titoli nell'alveo di giochi di Igor.

La storia era fondamentalmente quella di un cinico e spietato comandante di un avamposto della legione straniera circondato da collaboratori incompetenti. C'era la pattuglia sperduta, il tenente incapace, i prigionieri eterni, la spia paracarro e una serie di personaggi uno più stupido dell'altro. In una vignetta erano stati catturati due nemici che, nonostante fossero stati sottoposti ad atroci torture, non avevano confessato nulla. Il comandante Crock, notoriamente un sanguinario, chiese se avessero provato ad usare gentilezza. Al che il suo tenente lo schernì facendogli notare con quale coraggio proprio lui, il sadismo in persona, potesse suggerire di usare gentilezza. Nell'ultima vignetta si vedeva infine il comandante gridare “fate entrare gentilezza!”, che si scopriva essere un cane con l'aspetto di una belva terribile e feroce.

Ripensò a tutti i suoi interrogatori e pensò che al prossimo avrebbe potuto anche aspettarsi qualcosa del genere, ormai l'assurdo si era realizzato, mancava quello e poi si sarebbe ati all'ovvio.

Alzò la testa e iniziò a sorridere.

Avrebbe voluto gridare “FATE ENTRARE GENTILEZZA” ma sapeva che sarebbe stato squisitamente inutile. Il sorriso iniziò a spandersi sul suo volto e si allargò sempre di più, fino allo spasmo. Iniziò a ridere con una serie di singulti contenuti. Tutto il suo corpo, contratto e riverso su sé stesso, sussultava mentre le spalle altalenavano dal basso verso l'alto per contenere il riso crescente.

Le risa aumentarono di frequenza e volume fino a diventare sguaiate e rumorose. Tutti le notarono e nessuno di loro poté fare a meno di pensare che fosse impazzito. Il suo riso ormai saliva fino alle torrette di guardia, dove i militari interdetti iniziarono ad osservarlo smarriti e privi di iniziativa.

Igor rideva sempre più forte e sempre più di gusto, “fate entrare gentilezza, fate

entrare gentilezza” si ripeteva mentalmente.

E rideva ancora più forte.

Nel mentre tutti lo osservavano stupiti e qualcuno si chiedeva quale fosse la cosa migliore da fare: sparargli? Portarlo in infermeria? Aspettare qualche sviluppo? Igor continuava a ridere fuori da ogni controllo con il viso sempre più deformato dal riso convulso ma da cui sembrava totalmente coinvolto.

Era spontaneo e sincero, non solo: era un riso malinconicamente rassegnato.

Igor si mise in piedi e, senza mai smettere di ridere, iniziò a camminare in direzione della recinzione in ferro che stava di fronte a lui. ò in mezzo agli altri prigionieri che si fecero largo per permettergli di proseguire la camminata.

Le guardie lo osservavano perplesse da lontano.

Lui continuava a ridere.

Arrivò di fronte all'alta recinzione e rimasto alcuni secondi di fronte ad essa, assorto e imbambolato mentre tutti gli occhi erano rivolti a lui, spiccò improvvisamente un salto agilissimo e si arrampicò su per la rete, arrivando sulla cima in brevissimo tempo. I prigionieri non fecero nulla. Se non rimanere a guardare. Le guardie basite imbracciarono lentamente il fucile quando lo videro gettarsi a terra oltre la recinzione e proseguire camminando verso il deserto accompagnato dalle sue risa. Non erano allarmate per la fuga, erano piuttosto

smarrite dal comportamento del prigioniero e iniziarono a guardarsi l'una all'altra sperando di leggere sul volto del vicino un qualche indizio che suggerisse quale comportamento tenere in circostanze del genere.

Esitanti e perplessi i guardiani sulle torri prendono la mira con il fucile puntando alla schiena di quel bizzarro e lento fuggitivo.

Un urlo proveniente dall'interno del cortile attirò la loro attenzione.

Una delle guardie era stata accoltellata e giaceva a terra sanguinante.

Tutti i cecchini furono distratti e si rivolsero verso l'interno del cortile dove si stava creando un polveroso marasma. C'era un gran fermento, tutti i prigionieri si muovevano impazziti verso ogni direzione mentre le guardie venivano sopraffatte da gruppi organizzati che le accoltellavano con lame improvvisate e poi le lasciavano a terra in un lago di sangue.

Era in atto una rivolta.

I cecchini tralasciarono Igor, ormai divenuto una postilla trascurabile, e iniziarono a sparare sulla folla di prigionieri fino a che i rivoltosi non iniziarono a ritirarsi rientrando dentro l'edificio e lasciando dietro di sé tutte le guardie morte e alcuni di loro bocconi a terra trafitti dai proiettili. Dalle torri rimasero con i fucili puntati all'interno del cortile. Solo uno, approfittando di un attimo di calma, si girò a cercare Igor. Fece in tempo solo a vedere la sua testa sparire dietro una duna mentre camminava tranquillo, ridendo felice e inconsapevole di quanto era accaduto.

Non sarebbe sopravvissuto al caldo o alla pazzia.

Il fuggitivo invece si fermò per un solo attimo di fronte alla distesa infinita di sabbia verso cui il suo sguardo era rivolto. Si fece cupo e pensieroso, si perse in ogni granello di sabbia visibile, avvolto da uno spettacolo unico al mondo, la catarsi dell'anima.

“Fate entrare gentilezza” pensò.

E rise di nuovo.

Igor camminava sotto un caldo cocente che non veniva solo dall'alto, dal sole, ma anche dal basso, dalla sabbia incandescente. Camminava da quando era fuggito, senza sosta. Non aveva mai nemmeno pensato di fermarsi.

Dove e per quale motivo avrebbe dovuto fermarsi?

Aveva ormai smesso di ridere perché il caldo iniziò a fargli vedere ciò che non voleva vedere.

Visioni, o forse solo ricordi rimossi e tumulati nei rimpianti. Il silenzio lo stava circondando, metteva palizzate attorno a lui per separarlo da ogni sorta di vitalità, da ogni sospiro o fruscio di movimento. Era un uomo in mezzo al nulla che andava verso nessuna direzione. Bruciato dal caldo, pieno di bolle, sporco e stanco. Stanco della vita, della solitudine, della colpa.

Stanco e basta.

Aveva deciso di camminare fino alla morte, voleva porre fine a quell'incubo in cui ormai era calato da troppo tempo per la sua sopportazione e quella di qualunque altro essere umano. Fece i suoi ultimi due i e poi si accasciò sfinito sollevando una piccola nuvola di polvere che, mossa da un leggero vento, si disperse nel nulla mentre il tonfo del suo corpo svaniva tra le pieghe del silenzio.

Giunse la sera dopo poco, il caldo principiò a diminuire. La morte concedeva a Igor un attimo di sollievo. Esanime e privo di sensi il suo corpo giaceva immobile e sfibrato, mentre un'oleosa tenebra avvolgeva il silenzio e raffreddava il deserto. Gli occhi di Igor ridotti a fessure secche piene di sabbia non vedevano nulla, avvolti come da una patina offuscante e gelatinosa. Incosciente e immoto vide la figura di un gigante stagliarsi dalla luna per scendere giù a raccoglierlo. Fece in tempo solo a dire debolmente, sussurrando forse più a sé stesso che al gigante lunare

<<..elzevjer..>>

e poi perse i sensi.

Igor aprì gli occhi.

Quello che vedeva non poteva essere il paradiso.

Con un soffitto così sporco poteva essere al massimo l'inferno.

Era adagiato sopra un letto piuttosto spartano ma comunque molto confortevole. Attorno a lui un arredamento essenziale ridotto al minimo, quasi al nulla ad essere sinceri. Mobili fatiscenti in legno divorati dal tempo. Niente altro in più. Era solo in quella stanza, non sapeva come poteva esserci arrivato. Che fosse stato il gigante? E iniziò a dare credito alle sue ultime visioni. Fame e sete si fecero sentire con prepotenza quando le sue narici furono invase da un profumo inebriante di formaggio. Si guardò intorno e lo trovò vicino al suo guanciale insieme ad una brocca d'acqua e ad una mezza pagnotta.

Erano sicuramente per lui.

Divorò avidamente la forma di formaggio e il pane, alternando il cibo con lunghi sorsi per mandare giù il pastone denso e indeglutibile che si era formato nella sua bocca, arsa e priva di saliva. Al termine del suo frugale banchetto si lasciò cadere nuovamente sopra il letto, sazio e soddisfatto.

Ancora debilitato e senza forze si riaddormentò nuovamente.

Il sonno profondo alternato a pasti proseguirono il tempo necessario affinché Igor si rimettesse in forze. Non aveva mai avuto modo di incontrare il suo benefattore, non era mai riuscito ad alzarsi dal letto e fino a quel momento si era limitato a consumare il cibo che gli veniva gentilmente offerto. Quando finalmente sentì di avere le capacità per muoversi, si alzò dal letto e uscì dalla stanza. Da qui si dipanava un corridoio che andava verso altri due locali e si congiungeva ad una rampa di scale che scendeva verso il basso. Decise di are ai piani inferiori, facendo lentamente i gradini uno alla volta. Si guardò

intorno e, probabilmente accortosi del rumore fatto sulla scala, vide arrivare verso di sé un uomo con una lunga tunica bianca e una barba folta ma curata. La sua carnagione era scura e aveva un vistoso neo sullo zigomo destro, all'altezza del naso. I suoi occhi erano neri ma accoglienti, come l'amabile sorriso che sfoggiò nel vederlo.

Lo prese delicatamente sottobraccio e lo accompagnò verso la cucina dove gli offrì una bevanda in un bicchiere rotto, decorato con motivi leggeri ed eleganti. Bevve di gusto e rimase a fissare quel l'uomo che lo guardava sorridendo e che, non appena ebbe finito di sorbire il liquido offertogli, prese a comunicare con lui a gesti. Da quello che Igor fu in grado di capire quell'uomo faceva il pastore, lo aveva trovato nel deserto alcuni giorni prima, lo aveva portato a casa sua e se n'era preso cura fino a che non si era ristabilito.

A gesti riuscirono ad intendersi senza troppe difficoltà.

Conversarono amabilmente per alcune ore, mimando l'uno all'altro la propria vita.

Rinato e sollevato per la prima volta da quanto lo aveva angustiato fino a quel momento, improvvisamente nei pensieri di Igor si fece avanti l'idea che ormai tutto questo non era altro che il prolungamento inutile di quella che sarebbe stata una lunga e interminabile agonia di incomunicabilità. Non era più grado di fare nulla in quelle condizioni. Con la consapevolezza dell'essere ormai alla fine si mise il volto tra le mani e, affranto, iniziò a piangere di fronte allo sconosciuto che, interdetto, cercava di consolarlo con parole che a lui giungevano incomprensibili ma che avevano un suono caloroso e così affettuoso da sembrare quasi famigliari.

Senza che Igor potesse avere modo di accorgersene iniziò a singhiozzare e per

cercare di spiegarsi cercò di usare la voce, in automatico, dimenticando che tutto quello che poteva uscirgli era

<<Elzevjer....>>

ma quello che lo stupì fu sentire il tizio rispondergli meccanicamente

<<Elzevjer metoh', jumen..>>

Igor alzò la testa di scatto e guardò con immenso stupore l'uomo che, pensando non avesse sentito, ripeté in tono affettuoso

<<Elzvjer metoh', jumen..>>

e sorrise nuovamente senza aggiungere altro.

Tra persone che si capiscono e che parlano la stessa lingua non c'è mai bisogno di aggiungere altro.

Peccato che Igor non avesse capito niente.

Romano Pasculi iniziò a salire pigramente le scale di casa affardellandosi con le pesanti buste della spesa. Ogni tanto si fermava per prendere aria e poi ripartiva

con tutto il suo carico in spalla.

Sei piani di scale.

Erano parecchi per la sua età ma ormai si era abituato. Prima almeno c'era suo figlio ad aiutarlo, almeno quello lo faceva.

Poi era sparito nel nulla, scomparso.

Arrivò davanti all'uscio di casa, mollò a terra le buste della spesa, si aprì la porta ed entrò. Gettò le chiavi di casa sul davanzale del termosifone all'ingresso e poi andò verso la sala per accendere la televisione a vedere il suo programma Tv preferito. Si sedette sul divano e solo allora si rese conto di aver dimenticato sul pianerottolo le buste della spesa quindi tornò indietro per recuperarle e lasciarle in cucina. Mentre la televisione era accesa in sala Romano si stava preparando un caffè in cucina.

Era ato davanti a tre bar tornando a casa ma piuttosto che pagare non l'avrebbe preso.

Le persone non cambiano mai. Al massimo regrediscono se proprio devono farlo.

Armeggiava con caffettiera e pacco di caffè mentre negli studi televisivi il concorrente si stava battendo per vincere 10.000 euro che con la crisi sarebbero stati piuttosto utili anche se, a sentire parlare certi politici, la crisi non esisteva.

< >

<<Si..>>

<
A : Aiuto!

B : Ti voglio bene

C : Pace a te

D : Buongiorno

E : Lode al signore

Via con il tempo!!>>

Romano nel frattempo aveva preparato la caffettiera e l'aveva già messa sul fuoco con la fiamma altissima, voleva bere in caffè in tempo prima del gran finale del Quiz a premi della TV.

In sovrimpressione sullo schermo una gigantesca clessidra di sabbia aveva iniziato a scandire lo scorrere del tempo mentre la signora Rita, agitatissima, valutava le varie alternative sperando di individuare quella corretta. Palesemente senza minima cognizione o idea di cosa si stesse parlando nella domanda, la donna allo scadere dell'ultimo secondo gridò

< >

GONG!!!

<<Appena in tempo signora Rita!>>

Disse il presentatore mentre sorrideva alla donna visibilmente eccitata e ansiosa di sapere la risposta.

<<Signora Rita, mi ha risposto C, “Pace a te”, come mai questa scelta?>>

Chiese in tono cortese

<<E' come usano gli arabi, SALAME, dicono così loro per salutarsi.>>

Disse la signora boriosa e piena di sé

< >

Cercò di correggerla venendo interrotto dalla squillante e prepotente voce della signora che precisò in maniera spocchiosa e saccente

<<Salame! E io cosa ho detto?!>>

Il presentatore allibito decise di non insistere, l'ignoranza della signora era senza cura e il destino aveva già pensato a punirla infatti

<<...torniamo alla domanda... Signora Rita, per 10.000 euro noi le abbiamo chiesto cosa significa la parola “Elzevjer” in lingua Jumen...>>

Fece are alcuni secondi.

<<Signora, sa chi sono gli Jumen?>>

Chiese il presentatore temporeggiando e giocando sulla suspance del momento.

Nel frattempo Romano era in cucina ad armeggiare con la caffettiera.

<<Si, sono i Juden, i Giudei..>>

<<JUMEN Signora.. Jumen. Sono un popolo remoto e antico che pare vivesse in Europa Mediterranea e Africa Settentrionale prima degli antichi Egizi e dei popoli della Mesopotamia. Pensi un po' quanto erano precedenti alla più note popolazioni conosciute.>>

Guardò il pubblico sorridendo mentre la signora esibiva una faccia impaziente e scocciata.

E proseguì

<<..Jumen significa “uomini” ed era anche l'appellativo che usavano per rivolgersi tra di loro, che aveva il significato di “fratello”. Pare che fossero un popolo basato sull'uguaglianza totale dei membri appartenenti, su cui gravava una sorta di legame di sangue con qualunque Jumen, anche se non dello stesso ceppo famigliare. Pensi che questo legame era sentito e vissuto in maniera talmente profonda che usavano salutarsi tra loro con una particolare forma che sottolineava la fratellanza e il senso di unità del gruppo. Era appunto la parola “Elzevjer”, pronunciata quando due Jumen si incontravano. La buona educazione imponeva ovviamente di ricambiare ripetendo la stessa formula ma seguita da un “metoh'” che significa “anche io”. Ora ha capito? “Elzevjer” significa proprio “TI VOGLIO BENE!” LA RISPOSTA GIUSTA ERA LA B!!!>>

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Romano Pasculi accese il gas sotto il caffè e andò in sala dove sprofondò sul divano davanti alla televisione in un tonfo pesante.

Guardò lo schermo e si chiese

Qual era la domanda della concorrente di prima?

LAMA VI R - UN'ESISTENZA IMPOSSIBILE

“Ma è giunta, ormai, l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne il dio.”

Socrate

Qui giace Jackob Tod.

Il destino racchiuso nella semplicità di una parola sola. Quel destino scritto sulla sua pelle, dalla tela delle parche, lo avvolgeva come il guscio di una noce da quando era nato. Lui stesso era consapevole di trovarsi chiuso in un fragile involucro e non fu mai in grado di uscirvi, rimase isolato fino alla fine dei suoi giorni, solitario e schivo, pochi amici ed un carattere irruento con sulle spalle il peso di un mondo angoscioso e ingestibile.

Jackob Tod, il suo ultimo atto violenza fu rivolto verso colui che più odiava: sé stesso.

Infanzia

Visse i suoi primi anni in un piccolo paesino sulle montagne austriache dove aveva ato la maggior parte della sua infanzia, turbolenta e fuori controllo. Un bambino difficile e solitario. Durante le elementari non parlava con gli altri

ragazzini, ava la maggior parte del tempo in solitudine, immerso in un suo mondo immaginario. I suoi contatti con i coetanei erano infrequenti e nella maggior parte dei casi ferocemente conflittuali.

Nei primi anni delle elementari un bambino più grande di lui di alcuni anni, Victor, figlio dei due negozianti del paese, gli si avvicinò mentre stava disegnando e gli strappò il foglio su cui stava scarabocchiando. Lo fece per puro dispetto e per esercitare la sua cara prepotenza nei confronti di quel gracile bambino, che se ne stava seduto sopra un tavolino di pietra ricoperto di muschio, a disegnare sopra dei fogli ingialliti e sporchi di colori. Benché prevalentemente costituito da una massa molliccia di adipe, la mole del piccolo bullo in erba era decisamente maggiore di quella della sua vittima. Non era il primo bambino che prendeva di mira con le sue cattiverie e tutti ne avevano un certo timore: si aggirava sempre per i corridoi nell'ora di intervallo spadroneggiando come un piccolo tiranno obesotto, con quelle sue guance gonfie e i suoi riccioli neri.

Fino a quel momento, nessuno aveva mai messo in dubbio il suo ruolo consolidato di piccolo leader della scuola.

Quando Jackob vide Victor strappare il foglio su cui aveva appena finito di disegnare l'albero di noce che vedeva fuori dalla finestra di casa sua, ebbe un'improvvisa esplosione di rabbia incontrollata. Il volto gli divenne rosso e tremolante alcuni istanti prima di saltare sopra il tavolo che si frapponeva tra loro.

Si avventò sul bullo facendolo cadere a terra.

Questi dapprima iniziò a dibattersi fendendo pugni in aria, cercando di sopraffare quella che pensava fosse una gracile vittima; quando vide i suoi tentativi andare a vuoto, cercò di rimettersi in piedi per difendersi meglio e

organizzare subitaneamente una controffensiva efficace. Non ci riuscì e fu costretto a rigirarsi sulla schiena per fuggire. Jackob balzò su di lui e iniziò a picchiare ripetutamente e in maniera scomposta sulle sue spalle e sulla nuca. Victor cercò di ancorarsi al terreno con le mani per trascinarsi in avanti, lontano da quella furia. Jackob gli stava seduto sulla base della schiena e lo teneva fermo, usando i pugni chiusi per colpirlo.

Si rese conto di non fargli gran male ma di averlo più che altro spaventato per la sua reazione e realizzò immediatamente che le parti potevano invertirsi a breve se non avesse fatto qualcosa di più incisivo dei pugnetti che gli stava dando.

Decise pertanto di chiudere quella disputa in maniera definitiva.

Raccolse da terra la matita con cui stava disegnando, afferrò con tutta la sua forza il flaccido polso destro di Victor e tenendolo saldamente fermo, brandì la matita come un coltello e con veemenza la piantò sul dorso della mano del bullo. Subito il bambino si mise a gridare, la bocca aperta e tesa, le labbra unite da una stringa di saliva, gli occhi si inondarono di lacrime, mentre la mano diventava subito rossa di sangue.

La maestra accorse immediatamente, allarmata dalle grida disperate mentre Jackob osservava la scena attonito, stupito della sua stessa reazione ormai completamente dimessa. Le lacrime scorrevano copiose da quegli occhi, arcigni solo fino a qualche momento prima, che ora parevano solo patetici; a vedere quella scena non riuscì nemmeno a sentirsi in colpa, era solo stupito di sé stesso e della sua perdita di controllo improvvisa. Era come se mille fiumi avessero simultaneamente rotto gli argini in un solo enorme boato e lo avessero trascinato in una valle oscura, fiammeggiante, incandescente, rabbiosa di lava atavica e di bile limacciosa. Sentiva un grido intessuto d'ira esplodergli dentro, irto di tensione.

Aveva esitato per alcuni attimi ed era sopraggiunta la maestra, altrimenti avrebbe piantato la matita nell'occhio di Victor.

Fu solo la prima di tante esplosioni.

Questo episodio gli sarebbe costato l'espulsione dalla scuola se i suoi genitori non fossero riusciti ad insabbiare l'episodio con una consistente donazione per nuove attrezzature scolastiche.

I genitori di Jackob erano benestanti e possedevano una fabbrica tessile in città, per loro non fu difficile trovare una cifra sufficiente a far dimenticare l'episodio, sia alla scuola che ai genitori di Victor, che a loro volta si ritrovarono con il portafoglio rinverdito da un sostanzioso risarcimento. Avevano deciso di metterlo in quel posto sperduto proprio per tenerlo lontano dal clamore della città, dove episodi simili avrebbero avuto risonanza in tutta la società bene di cui loro erano membri stimati e conosciuti. Credevano che crescendo sarebbe cambiato e per aiutarlo pensarono di lasciarlo in quel paesino, dove loro possedevano una residenza estiva, in compagnia di un tutore e della servitù che doveva prendersi cura della casa. Tornavano i fine settimana da Vienna per andare a stare con lui, ma per il resto del tempo era sempre solo. Almeno una volta al mese gli portavano alcuni regali, come se con quelli potessero riparare alle loro assenze.

Aveva la cameretta invasa di giocattoli che però finiva per non usare più di un paio di giorni.

La sua attenzione era invece totalmente assorbita da blocchi di fogli, ormai vecchi e ingialliti, che aveva ritrovato dentro alla soffitta della casa e che portava sempre con sé per potervi disegnare. Appartenevano al fratello di suo nonno, Ernst, che era stato pittore di una certa fama in alcuni ambienti culturali anche se

legato a correnti artistiche marginali. Jackob crebbe all'ombra di questa eredità, che gli veniva dal lato paterno, e l'impulso a disegnare era irresistibilmente legato a quei quaderni, come se dovesse continuare l'operato del suo stesso sangue. Ricordava di averli trovati nella soffitta dentro ad un grosso baule polveroso in cui erano contenute alcune opere incompiute ed inedite dello zio, i suoi diari personali e alcuni studi vari per opere mai realizzate. I suoi genitori avevano ereditato tutta quella roba dal nonno, ma non furono mai in grado di apprezzarne il reale valore bollandola come “inutile cianfrusaglia” e relegandola nella soffitta fino a che non fu Jackob a riportarla alla luce. Quando sollevò il coperchio del baule per prima cosa vide una vecchissima coperta di lana di colore porpora a coprire il tutto e poi, in bella vista, c'erano i blocchi.

Erano subito lì, intonsi.

Sussurravano alle sue orecchie di essere completati e portati avanti.

Scelse di cominciare con uno già iniziato dallo zio, contenente studi di una mano, voleva riprendere da dove l'operato precedente era stato interrotto.

Sentiva scorrere tra le due dita una sorta di tensione impellente verso quei vuoti fogli bianchi senza significato che chiedevano di essere riempiti. Ma allo stesso tempo percepiva anche un nitido timore reverenziale verso quello spazio lindo e perfetto su cui una sola linea tracciata avrebbe avuto l'effetto di una ferita e che avrebbe infranto la sua iniziale compostezza formale. Una volta inferto il primo taglio, recisa la pagina con la prima traccia del disegno, era assolutamente necessario riparare a quel danno componendo qualcosa che potesse cicatrizzarne il dolore: una maestosità degna della sofferenza imposta a quella superficie.

Una cauterizzazione sublime.

All'inizio i suoi disegni erano incerti, come del resto non potrebbe essere diversamente per un bambino della sua età, ma il talento nel tratto deciso e nella distribuzione del colore non tardarono ad uscire. Non poté ovviamente usare i quaderni del nonno per potervi imprimere una sua traccia indelebile, con un'opera affettivamente inestimabile, perché quando iniziò ad esercitare concretamente la professione del pittore, ormai le pagine erano andate esaurite dagli schizzi d'infanzia.

Conservò solo l'ultima pagina dell'ultimo quaderno completamente intonsa, con l'intento di riempirla prima o poi in un secondo tempo, quando si sarebbe sentito di poter finalmente creare l'opera della sua vita, quella che lo avrebbe reso celebre, portato nei libri di storia dell'arte, nelle gallerie private di mezzo mondo, tra fama e notorietà.

La sua vita.

Quando ebbe l'età per frequentare finalmente un istituto superiore andò a stare in un appartamento del grande palazzo in cui abitavano anche i suoi genitori, situato al centro di Vienna. Vivevano in due piani separati, benché i pasti fossero da svolgersi obbligatoriamente in comune. Pranzi e cene erano un evento terribilmente noioso per Jackob, per nulla interessato alle aspirazioni economiche medio borghesi del padre e nemmeno alla superficiale vanità della madre, che di per sé partecipava al capitale comune al solo scopo di dilapidarlo in lussi inutili. Per lui denaro, potere e oggetti avevano poco interesse, puntava alla realizzazione di nuove forme espressive che sentiva di essere sul punto di ideare. Aveva un senso di sé e delle proprie capacità ipertrofico, sentiva dentro di sé il fuoco di chi vorrebbe cambiare il mondo, il nuovo prometeo che dona la conoscenza agli uomini, o il nuovo lucifero, portatore di luce.

Dio non sarebbe stato niente se paragonato alle sue future opere, qualora fossero

riuscite a prendere forma.

Adolescenza

Nel periodo liceale arrivò anche il primo amore: Beatrice, una radiosa ragazza di origini italiane.

La vide per la prima volta davanti alla scuola in una giornata fredda ma insolitamente molto luminosa. I gelidi raggi del sole erano impotenti nell'intaccare tutte le superfici ghiacciate dei muri, dei marciapiedi, delle panchine in legno, che ricoperte da coltri di galaverna sembravano avere uno strato di deliziosa glassa lucida ed invitante, quasi fosse un'enorme torta ricoperta. Nonostante il freddo tagliente ed agguerrito, la città aveva un aspetto molle e dolce, dagli angoli morbidi, avvolta da un fitto alone luminescente in cui facevano da contrasto i respiri caldi dei viennesi, che come nuvole leggiadre si espandevano tra i raggi del sole, per poi sparire tra le spire di una folata di vento nordico.

Jackob stava fuori dal cancello della scuola, da solo come sempre, ad osservare i locali circostanti e la struttura del paesaggio mentre all'interno del cortile gli schiamazzi degli altri ragazzi rimanevano ignorati dal suo senso di superiorità. Davanti a sé c'era un Pub dall'insegna colorata in rosso, con la scritta “Il sole”. Le pareti che lo delimitavano erano ricoperte da tavole di noce dipinte di verde smeraldo, sagomate e squadrate, che lasciavano spazio solo ad ampie finestre da cui era possibile scorgere l'interno. Era arredato con una sovrabbondanza di legno, panche, tavoli, pareti, bancone, lampade, bottiglie, bicchieri, ante, quasi fosse stato ricavato da un unico pezzo intagliato.

Veniva quasi la voglia di vedere se anche il proprietario fosse fatto dello stesso materiale, magari incidendogli un qualche stupido messaggino osceno sul culo.

Il Pub si trovava all'angolo della via che scendeva perpendicolare in direzione della scuola, da dove di solito si inerpicavano la maggior parte degli studenti. Beatrice non veniva da quella direzione ma stava percorrendo il marciapiede in cui Jackob sostava nell'apnea personale delle sue elaborazioni di realtà. Per questo non riuscì a vederla se non all'ultimo momento, quando lei dovette per forza argli davanti per poi svoltare dentro il cortile della scuola.

Fu un'apparizione fugace che strappava la tela su cui stava visivamente dipingendo con il suo sguardo.

Ebbe solo il tempo di vedere quel suo bellissimo profilo armonioso e compatto, leggermente celato da soffici capelli biondi ricci che le arrivavano all'altezza del mento. Se ne stava raccolta nel suo cappotto tenendo stretti al petto alcuni libri foderati di fresco. Jackob non ebbe tempo di notare nulla di tutto questo perché ormai aveva già svoltato oltre la sua visuale. Si sporse rapidamente verso l'interno per poterla osservare ancora, ma fu in grado di vedere appena le spalle di lei, con il capo leggermente chino in avanti, come a contare i i che stava facendo, mentre una borsa viola le dondolava ritmicamente sui fianchi seguendo la cadenza della sua andatura vellutata e vagamente titubante. Sparì dalla sua vista in mezzo alla folla lasciando sui suoi i una scia colorata che permaneva aleggiante in mezzo a quel marasma di studenti parlottanti. Era come se il color crema del suo giaccone e i fiocchi rossi che l'adornavano fossero rimasti sospesi nell'aria diffondendo un fantasma iridescente con le sue fattezze.

Così l'aveva vista, eterea e splendida, una visione magnifica di bellezza trasfigurata nella brezza del nord.

Le ore di lezione scorrevano inutili e noiose quel giorno ma aveva nuovi obiettivi e prospettive a riempire l'attesa della ricreazione. La possibilità di rivederla ormai monopolizzava la sua concentrazione mentre ossessivamente

cercava di ridisegnare il suo volto sulla prima pagina del libro di filosofia.

Un docente incapace ripeteva la lezione su Aristotele senza la minima ione, senza alcuna convinzione.

Come poteva pretendere che qualcuno lo ascoltasse se nemmeno lui era interessato a quello che stava dicendo?

Il suo compagno di banco lo ignorava come al solito, avrebbe potuto strapparsi un braccio e scagliarlo contro un muro senza che lui si scomponesse minimamente quindi poteva disegnare qualunque cosa volesse senza che la cosa sortisse alcun tipo di interesse. A meno che non disegnasse qualche donna nuda. In quel caso l'occhio lungo di Karl coglieva subito le sinuosità di qualche seno o le curve di qualche bel sedere. A volte Jackob li disegnava di proposito solo per scatenare gli ormoni di quell'erotomane affamato.

Si mise a guardare il limpido cielo fuori dalla finestra, interrompendo il suo lavoro a matita per cercare l'ispirazione di un dettaglio che non riusciva a focalizzare e che sperava di trovare nell'aspetto cristallino delle nuvole che si muovevano rapide, intente a rincorrere il nuvolone più grande che le precedeva.

Momentaneamente distratto, venne immediatamente ripreso dal docente

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Aspettando alcuni istanti prima di girarsi, rapito da qualcosa di più importante,

come se in quelle nuvole stesse per scorgere il suo futuro, si rabbuiò immediatamente assunse un'aria truce e di sfida

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E sorrise malefico. Quello lo interruppe sbraitando

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<<… serve ione anche per pensare..>>

Riuscì a sussurrare prima che il professore gli intimasse di recarsi nell'ufficio del preside.

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Gridò sempre più furioso il professore che ormai stava raggiungendo i livelli di guardia per grave inquinamento acustico. Se la sua voce fosse stata sulla lunghezza d'onda degli ultrasuoni avrebbe provocato l'arenamento di branchi interi di balene che, confuse da quel suono, sarebbero finite a spiaggiarsi su qualche scogliera totalmente smarrite e prive di orientamento.

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E lo guardò dritto negli occhi, deciso e serio, teso a scattare da un momento all'altro come un animale aggredito. Il docente esitò quel tanto che bastava perché potesse aggiungere

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Ormai i compagni di classe non si stupivano nemmeno più delle sue sparate improvvise che solitamente finivano in una bolla di sapone, seguita dalla solita donazione dei genitori e dalle solite finte scuse da parte di Jackob.

Tutti assistevano attenti al confronto.

Forse più annoiati che attenti.

In fin dei conti era una cosa che capitava così di frequente che ormai non era più nulla di nuovo.

In quel momento preciso suonò la camla che decretava l'intervallo.

Jackob subito uscì spedito dall'aula mentre il docente gli intimava di tornare indietro gridando così forte da far rimbombare la sua voce per tutti i corridoi e giungere fino alla presidenza dove la situazione era ormai già nota e chiara.

Il tutto mentre branchi di balene si accatastavano lungo le spiagge di tutto il mediterraneo.

Arrivò nel cortile che lentamente si stava riempiendo di una fiumana di persone e iniziò a guardarsi intorno sperando di scorgere quel viso intravisto la mattina. E finalmente la vide muoversi sorridente accanto ad una compagna più alta di lei e con dei lunghissimi capelli lisci che le cadevano dietro la schiena come una cascata.

Rimase a fissarla mentre lei eggiava parlottando con l'amica. Le si avvicinò, la guardò e non appena ebbe ricambiato lo sguardo le porse la sua mano per dirle cordialmente

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Gridò il professore furente sopraggiungendo nel cortile mentre le balene degli oceani perdevano momentaneamente l'orientamento.

<<Appunto..il resto l'ha detto lui.. e temo di essere richiesto altrove!>>

Disse sorridendole dolcemente mentre il docente di filosofia sbraitava alle sue spalle. Prima che fosse trascinato via riuscì a chiederle come si chiamava, avendo solo il tempo di sentire la sua voce interdetta e perplessa sussurrare

<<.. Beatrice..>>

La presidenza ormai era il posto dove ava più tempo durante le sue lunghe permanenze a scuola e il preside Kirchner era una persona tutto sommato ragionevole e persino amichevole. A differenza degli altri insegnanti, ostinatamente mediocri, il preside prima di tutti aveva capito che Jackob era una persona sicuramente ingestibile, ma contemporaneamente dotata di un vero talento artistico.

Gli si era rivelato un giorno in cui si erano ritrovati nello stesso posto sulle rive del Danubio, dove Jackob si era posizionato per dipingere un paesaggio cittadino a tempera, puri esercizi stilistici fino a quel momento ma che già contenevano il germe dell'estro artistico. Arrivò alle sue spalle senza che si accorgesse di nulla. Si ricordava bene di quel ragazzo perché puntualmente veniva trascinato nel suo ufficio per ricevere punizioni: perché non ascoltava, perché si picchiava con i compagni, perché disturbava, o altro; una volta aveva persino scardinato la porta della classe. Riusciva a rimanere in quell'istituto solo perché i suoi genitori continuavano a rimpinguare le casse con gettiti di denaro non indifferenti, affinché potesse diplomarsi in quello che era uno dei licei più prestigiosi della città. Non eccelleva in nessuna materia, anzi arrancava a fare il minimo indispensabile, spesso senza nemmeno riuscirci. Tuttavia i genitori si erano anche prodigati affinché venisse regolarmente promosso ogni anno. Aveva sempre avuto l'idea che non fosse nulla di più che un futuro delinquente ignorante anche se in alcuni episodi aveva dimostrato di essere fatto di tutt'altra

pasta. Alle volte infatti le circostanze facevano trapelare un qualche dettaglio inspiegabile nel modo di atteggiarsi che lasciava intendere una sua natura molto più intelligente e sensibile di quanto volesse far vedere.

Quella volta in cui lo vide sulle rive del fiume, rimase alle sue spalle ad osservare mentre dipingeva; in quel momento non era più il ragazzino ribelle che faceva lo strafottente nel suo ufficio, era una persona con una ione trascinante, riusciva a leggerlo nella sua totale assenza dal mondo, era immerso esclusivamente nel movimento delle sue pennellate, pulite, sapienti e consapevoli. Pareva che mettesse colore proprio lì dove andava messo, non stava sbagliando, faceva quello che andava fatto, come se un'entità superiore gli suggerisse di farlo. Come se delle miriadi di alternative estetiche possibili, solo una fosse quella giusta e lui fosse in grado di scegliere proprio quella tra le tante. Il preside ricordava di aver goduto anche lui della stessa ione per l'insegnamento e ora non ricordava nemmeno più quando avesse esaurito quella forza trascinante che era il motore dei suoi giorni.

Trascorse alcuni minuti ad osservare l'opera in corso prima di decidersi a parlare

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Jackob si girò verso la voce rivelando un'espressione lontana dalla strafottenza che gli era usuale, il suo sguardo era al contrario, cupo, angosciato, oppresso da un peso enorme, come se tutti i problemi del mondo gravassero sulla sua esistenza nel preciso frangente in cui prendeva in mano pennello e matita. Infatti non traspariva arroganza o autocompiacimento dalla sua risposta che, per quanto banale, risultava stranamente umile e con un sentore di disagio, come quando si fa un complimento a qualcuno che crede di non meritarlo.

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<<E' da tanto che ci lavori?>>

Proseguì con curiosità il preside Kirchner

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Rispondeva alle domande senza nascondersi, si stava rendendo vulnerabile di fronte a quella persona che si occupava delle sue punizione con una tale naturalezza da non creare alcun disagio, nessuno dei due era immerso nel suo ruolo, erano solo due persone che parlavano di sé.

Nude una di fronte all'altra.

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<<E perché ha smesso?>>

<<E' morta..>>

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In quel momento era sinceramente dispiaciuto, perché ad osservarlo c'era qualcuno che per la prima volta non vedeva come un membro della barricata opposta alla sua, ma come un uomo con i suoi stessi dolori. Il preside capì la sua sincerità e rimase in silenzio ad osservarlo mentre dipingeva. Ricordava la moglie e quando la assisteva nel dipingere, il pensiero gli tenne compagnia per il resto della giornata, intriso di malinconia ma anche del tepore di quella presenza che, nonostante l'accaduto, continuava a sentire accanto a sé con un calore mai raffreddato dal tempo.

Da quel giorno iniziò a vedere Jackob sotto una luce diversa e gli fornì il suo appoggio per continuare a dipingere, cercando di incoraggiarlo nelle sue spinte creative e di limitare al contrario i suoi impulsi distruttivi e ribelli. Quando seppe il motivo per cui il docente di filosofia, un uomo alto e secco, con due occhiali rotondi e l'aria più del ratto che dell'uomo, lo aveva portato in presidenza, dovette controllarsi dal ridere.

Quell'uomo era veramente un imbecille senza cervello. Era il ritratto della mediocrità, era noioso persino ora che sbraitava ed inveiva inferocito contro Tod. Sospirò penosamente mentre ascoltava le lamentele dell'insegnante chiedendosi quando la categoria fosse caduta così in basso e soprattutto come avesse potuto permettere a sé stesso di farsi circondare da simili vermi senza ioni.. Sarà stato anche uno dei più preparati e competenti del suo corso, ma rimaneva un perfetto idiota. E nemmeno gli altri suoi colleghi erano da meno. Avrebbe dovuto dare un premio a Tod per aver risvegliato in quel cretino un po' di amor proprio, invece dovette punire lo studente con la solita sospensione, che poi i genitori avrebbero prontamente pensato a tamponare una volta avvertiti.

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con disegni senza senso, ma non ti vergogni? Alla tua età ero il migliore del mio corso!>>

La voce rimbombava per tutta la casa dei Tod, Jackob ascoltava in silenzio il padre che gridava fuori di sé dalla collera. L'episodio non era nemmeno dei più gravi, ma era decisamente l'ultimo di una serie infinita che ormai aveva portato all'esasperazione i suoi genitori. Ascoltava in silenzio, frustrato dall'idea di sentirsi ogni giorno sempre più incompreso, isolato dalle altre persone. Suo padre viveva per il lavoro, per quello aveva sacrificato il suo unico figlio, negandogli attenzioni, tempo, spazio.

Non riuscivano a capirsi.

Jackob non ambiva ad una vita di agio, di denaro, asservita all'accumulo di ricchezze; voleva semplicemente vivere e accumulare esperienze, emozioni, vissuti e ricordi schiumanti sull'onda di un ato trascorso nell'adrenalina dell'esistenza. Voleva lasciare nella memoria collettiva degli uomini un ricordo del suo aggio e non un edificio di mattoni abbandonato all'incuria del susseguirsi delle stagioni e destinato a scomparire tra le scaglie del tempo.

Il tempo non è a granelli, ma a scaglie, frazioni più grosse che ricoprono gli uomini e scompaiono in blocchi, intere ere vengono dimenticate, e ci ritroviamo a pensare che nulla sia accaduto una volta che la scaglia ricopre un periodo con la distanza cronologica. E così ci facciamo convincere che siano esistite guerre giuste, che alcuni massacri andrebbero ridimensionati e finiamo per dimenticare le ingiustizie ate, nascoste sotto un sottile strato rigido e traslucido, sotto cui nulla è avvenuto.

<<Jackob, mi stai ascoltando?!>>

Urlò sgraziato il padre

<<Si.>>

Rispose cupo e lapidario Jackob.

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Disse prendendo in mano uno dei suoi dipinti, proprio quello che anche il preside Kirchner aveva visto tempo addietro e che ora era ormai completato.

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E nel dire questo afferrò il dipinto a due mani e iniziò a sbatterlo ripetutamente contro lo spigolo di una pesante credenza in ebano che si trovava nel salone centrale. La tela si strappò e la cornice in legno si spezzò in diversi pezzi.

Jackob trattenne la rabbia che gli stava annebbiando la vista, avrebbe voluto saltargli al collo.

Ma riuscì a rimanere fermo.

<<Spero che ti serva di lezione, non voglio più vederti perdere tempo dietro a questa roba? MI HAI CAPITO?>>

Gli disse e poi rivolgendosi alla moglie

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Uscirono di casa praticamente subito, tutti vestiti da grande cerimonia per poter presenziare ad uno dei ricevimenti più in vista della città, pieno di buffoni boriosi impellicciati e intenti a vantare l'estensione delle proprie ricchezze o la gloria dei propri successi. Jackob, lasciato solo in casa, rimase fermo nella posizione in cui l'avevano lasciato i suoi genitori. Era pietrificato, non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo dipinto fatto a pezzi. Era sconfortato e pieno di collera allo stesso momento, nessuno riusciva a capire i suoi sforzi, il suo impegno, quel suo essere.

Era solo.

Impotente davanti allo sfacelo della sua anima, della sua arte ridotta a brandelli. La tela strappata e lacera pareva sanguinasse, come se quelle ferite fossero fatte direttamente sulla sua pelle. Come se suo padre avesse preso lui per sbatterlo fino a scalfire quella sottile superficie di velina che avvolgeva l'essenza della sua persona, infranta e distrutta. Qualcosa dentro di lui si era incrinato e ora stava in piedi, ghiacciato dal dolore e dallo sgomento di vedersi a pezzi accanto ad una credenza.

Una maledetta credenza in ebano.

Lucida e ben tornita.

Jackob rimase immobile davanti allo scempio della sua persona senza rendersi conto del tempo che scorreva.

Lo sguardo fisso reclinato del vuoto.

Il suo stallo emotivo non era destinato a durare molto a lungo, il controllo che aveva sulle proprie emozioni stava scemando e la collera stava crescendo.

Strinse i pugni e sferrò un calcio alla credenza con la pianta del piede destro sfondando l'anta centrale in due pezzi che, frantumandosi, gettarono per la stanza alcune schegge sottilissime. Si avvicinò ai bordi per tentare di ribaltarla ma l'unico risultato fu quello di diventare paonazzo senza ottenere risultato alcuno. La vista si annebbiò per lo sforzo perché era troppo massiccia e pesante. Dietro la credenza c'era un grande specchio di forma ovale con la cornice in ottone tutta intarsiata e bombata da forme astratte arrotondate che lo facevano sembrare avvolto dalle fiamme. Lo staccò dalla parete con una foga tale da far saltare il sostegno che lo reggeva al muro, lo sollevò sopra la testa per poi farlo ricadere violentemente contro il bordo della credenza.

Al primo colpo non successe nulla.

Nemmeno al secondo e al terzo.

Lo scagliò sulla parete alle sue spalle contro un quadro che rovinò a terra e la cui tela si staccò dalla cornice svelando un'inaspettata fragilità. Neanche allora lo specchio si ruppe. Jackob allora rovesciò ogni cosa fosse presente sopra quella credenza, soprammobili, piatti ornamentali e una fruttiera d'argento. Raccolse quest'ultima da terra e la lanciò fuori dalla finestra rompendo il vetro e facendola cadere in strada.

Lasciò la stanza camminando a o spedito per scendere negli scantinati del palazzo a cercare l'unica cosa che potesse essergli utile in quel momento : un'ascia. Risalì le scale correndo e per questo inciampò sul tappeto che le ricopriva perché questi aveva fatto una leggera ansa su cui andò a battere il suo piede. Si alzò e iniziò a colpire il corrimano fino a staccarne buona parte dalla parete.

Ma non era quello il suo obiettivo, voleva la credenza.

Usò tutta la sua forza per farla a pezzi e poi gettarla dentro il fuoco. Stesso trattamento subirono tutti i mobili di quella stanza, il divano, il tavolo, le sedie, la cristalliera, tutto venne spaccato dalla sua furia distruttrice per poi essere bruciato dentro al camino. Finalmente arrivò anche il turno dello specchio, vi si avvicinò e gli diede un solo colpo con cui lo frantumò in una miriade di pezzi e di polvere di vetro.

Si girò ad osservare il suo operato.

Nella stanza non esisteva più nulla di integro. Tutto era ato sotto le armi della sua vendetta. Una desolazione devastante riempiva quella stanza, un mondo che crolla su sé stesso implodendo, senza fiato, tra valanghe di macerie

senza vita. Questo vedeva Jackob e temeva sempre di più che il suo futuro fosse già deciso e condannato ad una vita in schiavitù dalla società. Non voleva diventare come suo padre, uno spaventaeri incatenato al suo ruolo, senza una vita da vivere; arido e senza sentimenti. Voleva essere diverso. Diverso dalla massa di mediocri che appestano le strade ammorbando l'aria con i loro fiati flatulenti colmi di imbecillità. Non voleva vivere con una catena al collo e una palla al piede, condannato per l'eternità a guardare la schiena di chi gli sta davanti.

Non riusciva a trovare il suo posto nella società, non sapeva come avrebbe fatto per trovarlo e per la prima volta si rese conto che non lo avrebbe mai trovato, semplicemente perché non poteva trovarlo: non c'era un posto per lui nella società.

Decise di uscire da quello spazio che lo angustiava e si precipitò in strada, dove ormai tutto si stava lentamente ricoprendo di una sottile coltre bianca di neve. Osservò i fiocchi che volteggiavano limpidi e leggiadri, sembravano tante ballerine impegnate in un'armoniosa danza con un compagno distante, a cui dedicavano i loro soffici movimenti estatici. Riusciva a vederle chiaramente, sulle punte e con le lunghe gambe scoperte leggermente flesse mentre con le braccia pitturavano l'aria con movimenti sinuosi ed eleganti, accompagnando il tutto con il busto che si sporgeva ritmicamente in avanti, seguito dallo svolazzare del vestito morbido e setoso.

Iniziò a camminare sotto la neve che cadeva con impetuosa delicatezza, osservando gli sguardi dei anti che incrociava. Si sentiva smarrito nel riconoscere in loro i colori di anime che non gli appartenevano, che non erano come i suoi. Erano tutti sguardi di pedine piene di solitudine, che vagavano senza senso sopra una gigantesca scacchiera manovrata da un pessimo scacchista. Non riuscivano a cogliere la realtà dell'esistenza ma si limitavano a muoversi come unica dimostrazione di essere veramente vivi, senza meta, senza direzioni. Ragazze dagli sguardi maliziosi e provocanti, uomini dallo sguardo disilluso, bimbi avidi di attenzione; in tutti vi era un solo tratto comune,

l'ingenuità e l'inconsapevolezza che nessuno di loro stesse andando verso una direzione precisa e cosciente.

<<Jackob, giusto?>>

Una voce che chiamava il suo nome lo fece trasalire e cadere dal terrazzo trincerato dei suoi pensieri.

La prima cosa che vide fu un meraviglioso sorriso.

Il suo sorriso.

Beatrice era davanti a lui con le mani conserte e i piedi uniti intenta a cercare il suo sguardo.

Sorrise anche lui.

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Disse lui scimmiottando la voce del professore e alzando leggermente il tono di voce, concludendo il tutto con una leggera increspatura ammiccante delle sue labbra.

Non credeva che lei avrebbe mai potuto rivolgergli la parola dopo il suo approccio di oggi.

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Disse lei senza aver alcun tipo di impostazione nella voce o nei gesti delle mani, quelle belle mani con cui accompagnava ogni singola parola, come se le appoggiasse sul proprio palmo per poi portarla all'orecchio del suo ascoltatore.

Jackob rimase per alcuni istanti a fissare i suoi occhi chiarissimi, pareva avesse nello sguardo due luminosi anelli di cielo a circondare la pupilla. Si limitò a sorridere in risposta alla sua affermazione. Stava pensando a cosa dire ma la sua mente stava biascicando incapace di suggerire nulla di sensato ma fu lei a dargli un appiglio

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Riuscì solo a dire.

E le si mise a fianco, muto, mentre camminavano per la via principale del centro, carezzati al volto dai fiocchi di neve. Si sentiva stranamente vulnerabile di fronte

a quella persona, come non si era mai sentito. Tutto quello che aveva fatto a casa era come se non fosse mai accaduto, il quadro, suo padre, la sua rabbia, era tutto pacificato dall'incontro con Beatrice che aveva dato un colpo di spugna a tutta la sporcizia che affliggeva la sua schiena. Con ogni sua parola lei toglieva uno strato di lordura che opprimeva la pelle di Jackob, si sentiva bene accanto a lei, si sentiva una persona migliore.

Continuava amabilmente a parlare di sé, di quando si era trasferita in città con i suoi genitori, di quanto le pie la musica da camera, dei compagni nuovi e di altre cose, mentre Jackob non faceva altro che ascoltarla con attenzione, inserendosi ogni tanto negli anfratti del discorso con qualche battuta spiritosa. Nel silenzio della propria voce, Jackob osservava il profilo snello e la figura slanciata della ragazza, concentrandosi su quelle piccole pieghe che la pelle faceva ai lati della bocca ogni volta che lei sorrideva.

Quelle piccole pieghe gli ricordavano le lenzuola del suo letto nella casa in campagna, portavano con sé una sensazione di tepore e di protezione, la stessa che i bambini provano quando credono di essere al sicuro dal buio quando si nascondono sotto le coperte.

eggiarono mano nella mano mentre attorno a loro taceva ogni rumore.

L'ottundimento dei suoni di quando tutto viene ricoperto dalla coltre nevosa. Ogni volta l'uomo viene cancellato dalla terra, svanisce in un irreale silenzio. I fiocchi non coprono solo le cose, ma nascondono le tracce degli uomini, per lasciare al loro posto solo una patina bianca. Il candore e l'innocenza seppelliscono la malvagità del mondo in un alito di leggerezza. La neve sulle strade suscita lo stesso effetto del foglio bianco per il pittore. C'è sempre un certo timore nello sporcare con le proprie suole infangate o nell'infrangere quella superficie soffice con il proprio o perché si è coscienti di procurare un danno a cui non si potrà più riparare.

E' come violare la propria infanzia.

Lo spettacolo della neve nera e sporca ai lati delle strade è quando di più doloroso possa capitare di vedere. Accade qualcosa di simile con il sopraggiungere dell'età adulta, quando si finisce per lordare i propri ideali venendo a patti con sé stessi. Crescendo si getta nel fango tutto ciò in cui si credeva. Ma a volte è necessario doversi sporcare ulteriormente le mani. Non per fare qualcosa di ancora peggiore, bensì per andare a recuperare nel fango ciò che vi avevamo incautamente gettato.

Beatrice e Jackob erano immersi nel silenzio della neve mentre entravano e uscivano continuamente dai negozi inseguendosi beatamente; lui le dava consigli su quello che doveva comprare e lei sorrideva adagiata sul senso di intimità che sentiva per quel ragazzo che considerava alquanto bizzarro, ma molto interessante. Decisi a prendere una cioccolata calda insieme, seduti ad un tavolino, entrambi pregustavano l'atmosfera della chiacchierata calorosa che li aspettava e iniziarono a cercare un locale adatto ai loro gusti.

In quel frangente Jackob si sentì afferrare alle spalle.

Un uomo molto più grande e forte di lui lo stava tenendo stretto tra le sue braccia mentre un altro gli arrivò accanto con una siringa in mano. Assestò un calcio alla pancia dell'uomo che si stava avvicinando, cercando solo dopo di colpire con una testata all'indietro quello che lo stava trattenendo. Beatrice fece cadere tutte le borse a terra e rimase interdetta per alcuni istanti prima di gridare disperata

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L'uomo con la siringa riprese un attimo fiato per poi avventarsi nuovamente su Jackob, l'altro ebbe solo il tempo di dire stentatamente

<<Siamo infermieri!>>

Prima di essere raggiunto dalla testata sferrata da Jackob, che gli ruppe il setto nasale e che fece mollare la presa. Nella concitazione del momento, non appena fu lasciato andare, Jackob cadde bruscamente sul marciapiede e scivolò sulla neve ritrovandosi pancia a terra. L'uomo con la siringa gli fu subito sopra alla schiena per bloccarlo mentre l'altro, che ormai sanguinava copiosamente e aveva tutta la maglia imbrattata, rimase alcuni attimi a toccarsi il naso prima di gettarsi sulle gambe scalcianti. Senza esitare l'uomo iniettò il contenuto della siringa nel sedere di Jackob, continuando a tenerlo fino a che non smise completamente di muoversi.

Beatrice aveva lo sguardo terrorizzato e si gettò sopra l'infermiere con il naso rotto, che non si fece sorprendere e le afferrò entrambe i polsi prima che lei potesse colpirlo.

<<Signorina si calmi. Siamo infermieri.>>

Disse lui con una voce calda e comprensiva.

<<Mi ascolti la prego. Siamo due infermieri. Il padre di questo ragazzo ci ha chiamati per farlo ricoverare d'urgenza per evitare che potesse fare del male a qualcuno. E' una persona molto aggressiva e potenzialmente pericolosa.

Lavoriamo per una clinica privata e siamo stati pagati per portarlo lì. Quello che gli abbiamo dato era solo un sedativo. Mi capisce?>>

Lei aveva gli occhi inondati dalle lacrime e dalla paura per la situazione di cui ancora non riusciva a capacitarsi. Riuscì solo a dire

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<<Si..>>

<<Sicura?>>

<<Si.>>

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In un attimo di lucidità Beatrice riuscì ad impuntarsi per ergersi a difensore di Jackob

<<Ma voi non potete trattenerlo contro la sua volontà! Non ha fatto niente!>>

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Spiazzata dalla domanda fuori luogo rispose senza opporre resistenza

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E l'infermiere riprese a parlare con un tono calmo e comprensivo che sembrava alludere ad essere un consiglio ed una lezione di vita

<<Mi ascolti Beatrice. Non importa quello che possiamo o non possiamo fare. I genitori di questo ragazzo sono molto potenti. Ci hanno pagato tanto per ricoverarlo e faranno altrettanto per nascondere tutto.>>

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Maturità

Jackob chiuse la porta del suo studio prima di uscire in strada ed immergersi nella folla viennese che stranamente trabordava dalle vie in quel glaciale giorno d'inverno. Il freddo era veramente qualcosa di terrificante, ma la maggior parte delle persone sembrava non curarsene, e nemmeno il pittore parve farsene un problema. Sostò alcuni istanti sull'uscio che dava direttamente sulla strada, tirando alcune alitate verso l'alto e rimanendo ad osservare le nuvole di vapore caldo che si contorcevano sotto i colpi del gelo fino a sparire nel nulla. Indossava una camicia bianca senza colletto, alla coreana, coperta sapientemente da una pesante giacca in velluto scuro. I pantaloni erano molto più larghi della sua taglia reale e gli penzolavano bracaloni ai lati delle gambe. Alcuni schizzi di colore facevano capolino in qualche angolo remoto del vestito e sulla punta delle scarpe, aveva ato tutta la mattina a dipingere uno dei pochi quadri che aveva deciso di accettare su commissione.

Era finalmente riuscito ad avere uno studio in cui esercitare l'unico mestiere verso cui avesse mai nutrito un qualche interesse e a volte riusciva anche a guadagnarci qualcosa, vendendo alcune sue opere personali o qualche squallido ritratto fatto su commissione a dei borghesotti di provincia che credevano di darsi un tono esibendoli nel proprio salotto di casa.

In realtà la maggior parte del suo sostentamento veniva dai genitori che, dopo avergli pagato anche l'accademia d'arte per i soli tre anni frequentati prima che venisse espulso a causa dei soliti contrasti violenti con un compagno, pur di non vederlo più decisero di argli una consistente cifra mensile con cui potesse sopravvivere. I rapporti tra loro erano ormai inesistenti, non si vedevano da quasi cinque anni, semplicemente ogni primo del mese gli veniva recapitata una busta con dentro la cifra in contanti che doveva bastargli fino al successivo. In sostanza lo pagavano per non dare troppe notizie di sé e per evitare ad ogni costo clamori deleteri al buon nome della famiglia.

Si tuffò nella folla eggiando senza meta precisa, aveva bisogno di prendere aria e staccarsi un attimo dal ritratto che stava facendo. Era per la moglie di Schoenberg, il compositore che viveva alcune traverse verso est rispetto al suo studio. Il maestro voleva fare un regalo alla moglie, Matilde, la quale aveva più volte manifestato un e vivace apprezzamento per le opere di Jackob e, pensando di farle cosa gradita, commissionò al pittore un ritratto della donna.

Quello che Schoenberg non immaginava era che i due fossero amanti da quasi un anno.

Camminava con le mani in tasca scansando abilmente all'ultimo istante tutte le persone che gli venivano incontro, era una specie di gioco, procedeva dritto e deciso per la sua strada e poi alcuni istanti prima di scontrarsi con qualcuno lo evitava all'ultimo momento, scivolando lateralmente o ruotando su sé stesso per poi scorrere di lato.

L'idea era che i problemi si potessero affrontare più o meno allo stesso modo, semplicemente scansandoli, ed era veramente quello che credeva di fare comportandosi così. Non solo, forse era proprio il contatto umano a provocargli una certa repulsione; disprezzava profondamente tutti gli uomini, il genere umano nella sua totalità. Non era necessario cercare grandi motivazioni a sostegno di questa sua scelta, gli uomini sono fondamentalmente esseri privi di etica e morale, senza coscienza e coinvolgimento ionale verso nulla che non sia l'estetica vanità del denaro e del materialismo. Jackob disprezzava le logiche che governavano la società, quelle stesse dinamiche a cui il padre era totalmente asservito senza possibilità di fuga. Non esisteva alcun tipo di riscatto dallo schiavismo e dalla vacuità moderna, semplicemente ci si doveva aspettare che la pelle della propria schiena formasse un callo sufficientemente spesso per proteggere dalle frustate del padrone.

Non si cerca umanità, ma solo profitto.

Proseguiva per la via principale del centro, intento nei suo i personali, quando, il suo sguardo si imbatté in un corteo che avanzava compatto verso di lui. Erano studenti in protesta contro la politica di governo. Avevano lunghissimi striscioni che scorrevano tra le loro fila invase da bandiere colorate sventolate senza sosta da alcuni di loro. In testa al corteo una bellissima ragazza bionda con i capelli sciolti dietro alla schiena che camminava accanto a quello che sembrava essere il leader della protesta, ed insieme scandivano gli slogan d'incitamento, ripetuti all'unisono dal resto della massa. Rimase alcuno istanti ad osservare quella corpo unico che gli si muoveva contro come fosse la carica di un qualche branco selvaggio, solo più composta e ordinata; era l'impeto a proseguire che le accomunava. Attese al centro della strada senza muoversi, impettito e con lo sguardo rivolto all'orizzonte, quasi a guardare altrove.

La massa di persone continuò ad avanzare e, giunta in prossimità di Jackob, proseguì il suo cammino senza che accadesse nulla di particolare.

Uomini e donne del corteo iniziarono a scansare il pittore mano a mano che gli andavano incontro. Jackob era come uno di quei sassi sul letto del fiume che infrangono la superficie dell'acqua deviando la corrente e creando onde bombate di schiuma. Era fermo, immobile, con lo sguardo nella direzione opposta a quella dei membri del corteo. Reclinò la testa indietro e chiuse gli occhi inspirando profondamente, concentrandosi sulle persone quasi fossero realmente l'acqua di un fiume in piena pronto a travolgere tutto.

In tutto questo lui era lì.

Fermo.

Era sempre stato fermo.

Una strana malinconia lo prese come un pugno allo stomaco. Circondato da tutte quelle persone si rese conto di essere fondamentalmente solo. I suoi genitori lo avevano rinnegato e disconosciuto, lo pagavano per non farsi nemmeno vedere, per proteggere il buon nome della famiglia secondo la meravigliosa etica borghese. Non aveva amici. In tutto questo tempo non era mai riuscito a legare con nessuno. Si sentiva superiore alle persone con cui conversava e allo stesso tempo incompreso. Tanti compagni di sbronze, quelli si; ma del resto non era poi così difficile raccogliere qualcuno per farsi accompagnare a bere in qualche bar e dormire in strada in attesa di un nuovo giorno. Non aveva una compagna di vita, Matilde non contava, era solo una questione di sesso. Con lei non poteva esserci alcun futuro. Era la moglie di un altro e si era incapricciata più che altro di quello che Jackob rappresentava: nulla di più che una semplice trasgressione e di questo lui ne era piuttosto cosciente. Eppure supponeva l'esistenza palpabile di legame con quella donna, c'era qualcosa che li univa e che li teneva insieme, un tenero sentimento di calore che faceva da ponte tra la sua solitudine interiore ed il resto del mondo.

O forse il legame era veramente inconsistente e vacuo come gli sembrava dopo aver fatto l'amore, quando lei pareva un oggetto privo di ogni interesse?

Non era in grado di capire se stava con lei per sentimento o molto più semplicemente per convenienza, per non essere solo e per continuare a godere di quel corpo che tanto lo faceva impazzire.

Era veramente così o era qualcosa di più?

Come era cominciata con Matilde?

A pensarci bene nemmeno riusciva a ricordarlo. Certe cose accadono e basta, iniziano per caso e ci travolgono dirompenti come un'alluvione. Era stato in un qualche locale? Era stato lui ad avvicinarla, oppure lei? Era veramente importante tutto questo?

Jackob non era in grado di dare risposta a nessuna delle domande che da sempre affollavano la sua mente affogata in una salamoia torbida di pensieri e istinti primordiali, da sempre era in balia di sé stesso.

Il corteo era ormai ato oltre e Jackob, ancora fermo in mezzo alla strada.

Riprese a camminare senza meta per le vie di Vienna.

Decise di fermarsi presso “Le Cafè des Artistes” per andare a provocare quei quattro palloni gonfiati di letterati e pittori che erano soliti frequentarlo, bevendo impettiti e discutendo tronfi dei propri successi. Si davano arie come se fossero gli unici detentori del sacro fuoco dell'arte ma avevano tutti una sensibilità costruita dall'apparenza e dal desiderio di sembrare superiori, non avevano la minima idea di cosa significasse essere travolti dall'emozione del vivere. Erano dei simulatori, cercavano di convincere sé stessi e gli altri di quello che provavano, quando in realtà il loro mondo interiore era vuoto e sterile, un banale succedaneo dell'esistenza. Gente che riempiva di paroloni i loro discorsi per darsi arie da intellettuali oppure convinte che are tanto tempo ad osservare un'opera equivalesse a capirla e interiorizzarla. Nessuna opinione personale, dicevano che una cosa era bella o di valore solo perché qualcuno lo aveva detto prima di loro.

Nessun senso critico.

Cazzo, anche il più grande artista può fare qualcosa di oggettivamente brutto o che, per proprio gusto, può non dire niente; non si è costretti a dire che una cosa è bella solo perché l'ha fatto qualcuno di acclamato. Si chiama libertà di pensiero, critico eventualmente. Eppure erano così convinti della loro stessa ipocrisia da risultare convincenti anche agli occhi dei profani e quindi godevano di fama e prestigio.

Mediocri e commerciali, avevano svenduto la loro essenza crocifiggendola sull'altare della popolarità.

Jackob non era mai riuscito a venire a patti con sé stesso. In lui era ferma l'idea che rinunciare a parti del proprio essere fosse come sacrificarsi. La sua arte era da sempre indipendente, provocatoria, bruciante, priva di filtri e per questo incompresa. Anche quando gli venivano commissionate delle opere lo faceva al solo scopo di schernire chi gli ordinava dei dipinti. Spesso aggiungeva dettagli che riferissero a qualche vizio privato o alla debolezza umana dei soggetti o li ritraeva in pose poco dignitose riuscendo sempre a giustificare la cosa in modo che i soggetti credessero fosse per loro motivo di vanto. Li scherniva con ironia e con un sarcasmo sottile che, si sa, sono sempre fuori dalla portata degli imbecilli.

Infatti nessuno aveva mai protestato e tutti erano felici.

Nel ritratto commissionato da Schoenberg per esempio, Matilde indossa gli stessi abiti e si trova nello stesso luogo dove aveva fatto l'amore con lui per la prima volta e dove da tempo ormai, avvenivano i loro incontri segreti. Conscio dell'ignoranza del maestro (anche lui assiduo frequentatore e spesso ospite d'onore al “Le Cafè des Artistes”), che tuttavia godeva di un innato talento musicale e dell'orecchio assoluto, Jackob avrebbe inserito nella composizione una lonza, simbolo della lussuria usato da un magnifico poeta italiano (6 - NOTE

) e uno scorpione, simbolo del tradimento, attribuito tradizionalmente a Giuda. Avrebbe pensato in seguito come giustificare la cosa in modo che gli risultasse motivo d'orgoglio per rendersi ridicolo a sua insaputa con gli amici.

Era la sua rivincita con i potenti e chi pensava di comprarlo, lui non era in vendita.

I contrasti con il padre e con le persone, il senso di incomunicabilità e alienazione che viveva nella distanza con i propri simili, lo avevano sempre convinto che vivere nella società fosse come gettare un'esca in mezzo ad un branco di pesci. Più l'esca era grande e più veniva spolpata all'osso. Se vuoi prendere il pesce grosso, tuttavia, devi cercare di tenerla il più integra possibile, altrimenti non rimane nulla e nessuno può abboccare. Gli uomini sono come esche, si lasciano scarnificare e privare della propria essenza fino a che non ne rimane più nulla. Gli avventori de “Le Cafè des Artistes” erano ormai solo ossa e niente più che simulacri di uomini. Jackob non aveva mai permesso che qualcuno lo spogliasse del proprio essere, era intatto, immobile nelle sue idee e nelle sue convinzioni, conscio del prezzo che avrebbe pagato e che stava pagando.

Jackob entrò nel locale, ordinò da bere e si mise all'ascolto dei discorsi, riconoscendo immediatamente la querula e fastidiosa voce dell'odiosissimo Preston che si pavoneggiava saccente.

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Si beava delle sue stesse parole, tale Arthur Preston, pittore viennese di origini londinesi, molto conosciuto in tutta la città e apprezzato per le sue note capacità pittoriche. Era riuscito ad allestire una galleria d'arte e a vendere molte delle sue opere a stranieri e a metà della borghesia viennese. Una piccola folla di presunti artisti discuteva con lui di pittura annuendo pedissequamente ad ogni sua affermazione.

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Gli facevano coro i suoi uditori, ebeti oligofrenici i quali si limitavano ad accettare quanto veniva detto loro dal pittore.

Jackob non perse occasione per seguire il motivo che lo aveva condotto fino a quel luogo e gridò:

<<Ma quale esteta melanconico! Strausberg è un gorilla! Non ha nemmeno il pollice opponibile per tenere in mano un pennello! E' la mediocrità artistica, l'unica emozione che traspare dalla sua opera è lo sbadiglio! Ma del resto, anche lei caro Preston, non è molto distante dal suo amico germanico..>>

Tutti interdetti si girarono verso la voce, mentre Jackob, immobile al suo tavolo fissava insistentemente Arthur negli occhi.

Voleva farlo reagire.

E ci sarebbe riuscito.

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Sottolineò venefico Arthur mentre sosteneva lo sguardo dell'altro con fermezza.

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Disse Tod per nulla scomposto. Dando leggermente le spalle al crocchio di persone, con un tono di voce più basso ma sufficiente affinché l'avversario e tutta la sua schiera potessero ugualmente sentire aggiunse

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Arthur iniziava ad essere visibilmente irritato. I loro scontri verbali erano sempre piuttosto frequenti ed intrattenevano tutti i frequentatori del locale ma questi iniziava ad essere piuttosto esasperato dalla situazione. Cercò di mantenere il controllo e proseguì con una forzata accondiscendenza

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a vendere saltuariamente, probabile che vadano ad alimentare qualche camino. Anche perché è difficile vederne un utilizzo migliore, salvo forse come oggetti contundenti adibiti alla difesa personale.>>

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Rispose lapidario Jackob alzando il bicchiere da cui stava bevendo per tracannarne in un solo colpo tutto il contenuto. Ma subito Preston incalzò

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Jackob sapeva di aver subito pesanti stroncature, ma era anche cosciente che tutti i veri grandi non vengono mai accettati facilmente, l'avveniristico viene sempre rifiutato, specialmente quando è la tradizione a fare da padrona. La sua opera sarebbe sicuramente stata rivalutata come quella di molti altri artisti, o almeno lo sperava. Tuttavia il clima culturale gli era completamente avverso e per giunta la sua rissa stava procedendo a rilento nonostante Preston fosse ato a dargli del tu per nervosismo. Decise di velocizzare i progressi della situazione, giocando subito il suo asso nella manica per fargli perdere le staffe.

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Ah, beati cornuti.

Bastò questo per tagliare i freni ad ogni attrito. Era fatto noto a tutti, e anche allo

stesso Preston, che la moglie lo avesse tradito ripetutamente con studenti dell'accademia, dove lei lavorava negli uffici amministrativi. Jackob rimase compiaciuto ad osservare l'effetto della sua frase il tempo necessario per vedere il volto di Arthur trasfigurarsi in una smorfia di rabbia incontrollata. Questi infatti scattò immediatamente e colpì Jackob al volto con un destro così pesante da farlo cadere all'indietro con le spalle contro il bancone. La sua reazione non si fece attendere e gli frantumò sul volto il bicchiere che stava tenendo in mano, sporgendosi in avanti di contraccolpo. Arthur cadde a terra con una guancia sfregiata ed il volto insanguinato mentre Jackob stava in piedi d'innanzi a lui.

Ma non ebbe più tempo di fare nulla perché il barista lo prese alle spalle con una legnata alla testa che gli fece perdere i sensi.

Si risvegliò per via del colpo sordo che prese sul marciapiede. Lo avevano sollevato di peso e lanciato fuori. Si guardò intorno stordito. Poi la rabbia iniziò a farsi sentire. Prese un bidone dell'immondizia poco lontano, lo sollevò e lo lanciò contro la vetrata esterna del locale che andò in mille pezzi. Immediatamente uscì il proprietario mulinando il bastone e lanciando fendenti in aria in preda ad un'ira cieca. Jackob riuscì a schivare il colpo diretto a lui e a fermare il braccio che brandiva il bastone. Ma non riuscì a fermare il pugno diretto al volto che gli arrivò dall'altro braccio. Cadde a terra ed ebbe solo il tempo di rigirarsi prima di ricevere due bastonate secche e un calcio alla pancia. Il proprietario venne immediatamente fermato dai clienti, altrimenti lo avrebbe ammazzato.

Se la cavò con qualche livido e una denuncia. Di certo non si sarebbe preoccupato di come ripagare ai danni a quel cesso di locale pretenzioso. “Le Cafè des Artistes”, si chiamava.

Ma dove stavano gli artisti in quel posto?

Fuori, forse.

Erano ati alcuni giorni dalla sua rissa con Arthut Preston e Jackob vedeva guarire i lividi lasciati dai calci e dalla bastonate. Stava rincasando dalla sua eggiata meditativa con cui soleva cercare ispirazione, quando vide una figura stagliarsi davanti all'ingresso del suo appartamento.

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disse Matilde prima di gettarsi piangendo tra le sue braccia. Rimasero alcuni istanti avvinghiati sul pianerottolo. Jackob la baciò delicatamente sulle labbra, lei rispose con ione e con insistenza, quasi volesse mangiarlo e inglobarlo a sé. La foga crescente dei due, unita al sollievo per la rottura con il marito e all'euforia della sensazione di libertà, li condusse rapidamente a letto a fare l'amore senza freni, remore o sensi di colpa.

Ormai erano solo l'uno dell'altra.

Matilde ora era finalmente diventata qualcosa di più, anche dopo aver fatto l'amore.

E questa era una piacevole novità.

Trascorsero tre settimane insieme, vivendo nell'appartamento di lui, vivendo delle loro chiacchiere, del loro amore, dei loro scherzi e dei loro corpi, sudati e ansanti ad ogni angolo della casa. Dei sorrisi lievi e delle carezze, delle macchie

di colore e di quelle di rossetto. La vita sembrava avesse preso delle tinte più luminose per Jackob, ogni giornata era limpida e sgombra, fino al giorno in cui si alzò una mattina e cercando Matilde a lato del letto non la trovò.

Al suo posto una lettera.

Capì subito di cosa si trattava ma non volle aprirla subito. Cercò di attaccarsi ad una speranza e si alzò dal letto cercandola per tutto l'appartamento.

Non era da nessuna parte.

Tornato nella stanza da letto decise di ricoricarsi e fissare la lettera appoggiata sul cuscino dove fino a quella notte stavano posati i capelli odorosi di Matilde.

Aprì la lettera e ne lesse il contenuto.

Caro Jackob,

scusami se non ho trovato il coraggio di parlartene di persona ma non avrei potuto reggere al tuo sguardo e alla sofferenza che so di causarti. Inizialmente credevo che tra di noi non fosse nulla più che una questione di attrazione, di letto. Ma in questo anno qualcosa è cresciuto dentro di me. Ho sentito di amarti. Ero gelosa delle tue avventure, delle dicerie sul tuo conto, perché volevo che tu fossi completamente mio. Volevo possederti fin dentro la tua anima e ti volevo completamente dentro la mia. Dove tu sei ben presente. Sei lì e proprio non riesco a farti andare via. Per questo avevo lasciato mio marito, io volevo, voglio

te. Ma la realtà ha bussato alla mia porta. Ho dei figli e ho un marito. Herbert mi ha cercata per tutto questo tempo e mi ha implorata di tornare con lui, per il bene della famiglia, per i miei figli. E' un uomo distrutto e umiliato. Con lui avevamo iniziato a costruire qualcosa e proprio non me la sento di gettare tutto, per il bene dei miei figli. Mi dispiace dovertelo dire così, ma ho deciso di ritornare con mio marito e riprendere il mio posto. Perché è lì che devo stare, accanto a loro. Anche se questo significa perdere te.

Spero che tu non me ne voglia per questo.

Non cercarmi, te ne prego, non rendere tutto più difficile.

Matilde

La felicità non dura veramente più di alcuni istanti.

Jackob rimase coricato a letto a fissare il soffitto con la busta appoggiata al suo torace e la lettera di lato nella mano. Rovistò nel cassetto del comodino e trovò una sigaretta lasciata da lei, se la accese e rimase a fissare le pareti della sua stanza. Gli sbuffi di fumo uscivano dalle sue narici e dalla sua bocca lentamente e salivano verso l'alto impregnando tutto l'ambiente.

Il silenzio era una presenza ingombrante, il vuoto era un salto incolmabile.

Per la prima volta nella sua vita il suo cervello si era spento, era come morto.

Non riusciva a fare altro che inspirare ed espirare meccanicamente il fumo. Non aveva nemmeno tossito. Buttava tranquillamente la cenere sul pavimento e rimase lì, fermo sul suo letto, fino alla fine della sua prima ed ultima sigaretta. Prima che raggiungesse il filtro se la portò davanti agli occhi. Rimase rapito dai disegni che la cenere lasciava trasparire da sotto il tabacco incandescente. Sbuffò l'ultima nuvola di fumo e poi senza alcun motivo si spense la sigaretta sull'avambraccio sinistro. Spinse dentro la carne, schiacciando e premendola fino a piegare il filtro. Sentì uno sfrigolare leggero unitamente ad una fragranza di peli bruciati. Buttò il mozzicone sul pavimento e guardò la sua opera. Sul suo braccio si era formata una piccola cunetta circolare e rossa. Toccandola si sentiva il buco. Era vicinissima all'incrocio di due vene. Faceva male, ma non sentiva dolore. Si carezzò i bordi della bruciatura e lasciò andare un lungo sospiro in cui ristagnava il retrogusto di tabacco e poi si alzò dal letto.

D'improvviso arrivò una rabbia strana, un rancore profondo e acidulo, come se avesse un pallone dentro lo sterno che iniziava a gonfiarsi e a premere sui polmoni e sullo stomaco. Il cuore iniziò a pompare mentre le vene pulsavano nella sua testa. Andò verso la credenza nel piccolo salottino e prese una bottiglia di whisky appena iniziata e ne bevve metà tracannandola direttamente senza usare il bicchiere. Rovesciò il mobile a terra, si pulì la bocca e uscì di casa sbattendo la porta dell'ingresso.

Scese in strada, barcollando leggermente in preda ai giramenti di testa dovuti all'alcool. Decise di andare al parco con l'intenzione di cercare qualche spacciatore. Aveva bisogno di sedarsi e di soffocare quella vampa che sentiva salire in maniera prorompente. L'andatura peggiorò con il trascorrere del tempo, si fece sempre più ondeggiante e molle, obnubilata dalla mancanza di riflessi e dall'appannamento dei sensi, al punto che la prima cosa che fece appena entrato al parco fu di stramazzare al suolo inciampando in uno zoccolo all'ingresso. Scivolando a terra si provocò brutte abrasioni ed escoriazioni alle mani, che cercò di pulire dal sangue sfregandole sul giaccone, come fanno i bambini.

Si rialzò e si trascinò fino ad una panchina dove rimase a guardarsi intorno in

preda ai giramenti di testa e al senso di nausea.

I bambini giocavano a pallone nei prati sotto l'egida dei genitori, gli anziani leggevano il giornale sulle panchine; poco più in là una giovane coppia amoreggiava apionatamente, sfiorandosi appena con le mani. Lui aveva capelli corti e rasi, una mascella squadrata coperta di barba incolta, mentre lei aveva nei suoi capelli color paglia tutta la luminosità dell'oro che andava ad avvolgere due profondi occhi verde smeraldo.

Era la metafora di un gioiello, della bellezza eterea ed angelica.

Le ricordava Beatrice. Aveva lo stesso sorriso immerso nella vita. Incredibile. Erano anni che non pensava più a quell'episodio. Il suo primo appuntamento rovinato. Non l'aveva mai più incontrata, uscito dal ricovero seppe che si era trasferita con tutta la famiglia e non trovò mai il coraggio di andarla a cercare, o forse semplicemente non volle. Chissà se era felice e se sarebbero stati felici insieme. Magari avrebbero goduto della reciproca presenza solo per alcuni mesi, prima che uno dei due non tradisse l'altro, oppure avrebbero condiviso tutto fino alla fine. Più banalmente non sarebbe accaduto nulla. Ricordava quella ragazza con enorme rimpianto, come l'unica occasione vera che gli fosse capitata nella vita, il resto era solo circostanza.

E Matilde cosa era?

Jackob si lasciò appoggiare allo schienale della panchina e reclinò indietro la testa, chiuse gli occhi, ma subito dovette riaprirli e riprendere una posizione migliore perché immediatamente fu preso dalle vertigini come se tutto girasse vorticosamente. Il punto limite della sbornia. Quello in cui, di solito, non si è più in grado di pianificare e si finisce per dimenticare intenzioni o quello che si voleva fare; cancellò la ricerca di droga dalle sue priorità e decise che per lui

sarebbe stato meglio proseguire la eggiata per la città, magari nella speranza di recuperare il senso dell'equilibrio. Si rialzò a fatica e ricadde subito a terra sulle ginocchia. I anti lo osservavano con un misto di pietà e diffidenza, cercando di evitare ogni tipo di contatto con lui, persino oculare. Si poggiò sulle mani, riuscì a rialzarsi e prese a camminare barcollando in direzione dei giovani innamorati. andogli accanto, il suo stomaco invaso dall'alcool e da nessun cibo solido decise di dare un segnale della sua insofferenza e fece salire una tale sensazione di nausea che Jackob non seppe più trattenersi: vomitò accanto alla coppia che si ritrasse inorridita e schifata, prima di scappare lontano per cercare un luogo più appartato.

Avrebbe voluto tranquillizzarli ma seppe solo dire

< >

riprendendo a vomitare anche l'anima.

Stravolto, si addormentò accanto alla sua chiazza di vomito.

Edmund era molto orgoglioso di essere entrato in polizia.

Da quando era piccolo non aveva desiderato altro che fare il poliziotto, in parte per il fascino e il prestigio dell'uniforme ma perché sentiva la vocazione e la spinta alla necessità dell'ordine e della disciplina che gli venivano dal padre, militare di alto grado dell'esercito. Era ancora nel periodo di gavetta e quindi era stato assegnato al presidio e alla ronda delle strade. Non era nulla di particolarmente impegnativo e faticoso, in realtà ci si annoiava anche parecchio, ma da qualche parte bisogna pur cominciare e quello era un inizio come

potevano essere tanti altri. Spesso si trattava di girare per delle ore a vuoto, sanzionando qualcuno o mettendo paura a qualche imbecille e lui aveva tutte le carte per poterlo fare. Alto e robusto, ben addestrato, sportivo e sempre in allenamento. Era scattante ed incisivo. A breve doveva essere trasferito a mansioni molto più impegnative e d'azione, più consone alla sua persona, ma per ora si doveva accontentare.

eggiava per il parco quando vide un uomo riverso al suolo.

<<Starà dormendo..>>

Pensò, ma decise di avvicinarsi con calma per verificare che stesse bene; la sua postura aveva un qualcosa di poco naturale. I bambini facevano schiamazzi spensierati, Edmund li osservò con interesse mentre lentamente si avvicinava all'uomo. Arrivato nelle sue vicinanze stette fermo con gli occhi puntati su quel corpo sudicio cercando di valutare la situazione e il da farsi. Si inginocchiò accanto all'uomo e subito venne investito da un puzzo intollerabile di alcool. Visto il luogo, rappresentava un potenziale pericolo ed era meglio andare cauti nel risvegliarlo.

Con la mano scosse gentilmente il signore per farlo riprendere, chiamandolo in maniera pacata ma decisa, in modo da non creare scompiglio

<<Signore... signore... si svegli...>>

<<...mmmmm...>>

< >

E cercò di scuoterlo con maggiore intensità. L'ubriaco dopo una serie di ripetuti tentativi andati a vuoto aprì finalmente gli occhi e biascicò con la bocca impastata una serie di parole incomprensibili. Edmund molto gentilmente gli mise un braccio sotto l'ascella e lo aiutò a sollevarsi, questi perse immediatamente l'equilibrio e subito il poliziotto lo trattenne a sé con forza.

<<Si sente bene?>>

Chiese gentilmente e questi bofonchiò ancora in maniera incomprensibile.

< >

L'ubriaco a quel punto iniziò a gridare, probabilmente non troppo consapevole di avere di fronte un tutore dell'ordine, e iniziò ad agitarsi smanacciando a caso nel tentativo di divincolarsi dalla salda presa di Edmund a cui fece cadere il cappello in terra.

< >

Un pugno piuttosto scomposto ma comunque incisivo impattò contro la mascella di Edmund, che lasciò momentaneamente la presa da sotto l'ascella, rimanendo un attimo sorpreso e sbilanciandosi all'indietro. Immediata fu la sua reazione: si protese in avanti ben serrato e impostato, un pugno allo stomaco con il sinistro,

un gancio destro al volto e un diretto sinistro nuovamente al volto, fecero cappottare l'ubriaco a terra, che si afflosciò su se stesso e cadde a terra finalmente svenuto e inoffensivo.

< >

Pensò.

Lo mise agli arresti e lo condusse in caserma dove rimase fino al giorno successivo.

Edmund aveva davanti a sé l'ubriaco seduto sulla sedia. Erano nella stanza normalmente usata per gli interrogatori e intanto leggeva il dossier riguardante l'individuo che gli stava davanti. Era schedato e i suoi precedenti erano pure piuttosto numerosi: carattere irascibile e violento, frequenti ricoveri ospedalieri, risse, danni ad esercizi pubblici, condotta antisociale, ubriachezza molesta, uso di sostanze stupefacenti, vandalismo, furto e incendio doloso.. Ed è sempre riuscito a cavarsela. Alcuni colleghi gli riferirono che era sempre stato aiutato dai genitori che, essendo una famiglia potente, coprirono i suoi danni, almeno fino a quando non presero le distanze da lui. Fa il pittore. Teppa sociale.

<<Buongiorno Signor Tod, ha dormito bene?>>

Disse con un tono profondamente sarcastico mentre l'altro sbadigliava vistosamente.

< >

Rispose a tono Jackob. Edmund lasciò correre, concedeva sempre una possibilità a chiunque e iniziò a spiegare la situazione

< >

Rispose Edmund senza cambiare tono.

< >

Disse Jackob.

Terminata la frase, si ritrovò di nuovo a terra a causa di un poderoso schiaffone che lo fece cadere dalla sedia. Si rialzò assumendo un'espressione di sufficienza e strafottenza e si rimise a sedere, fissando dritto negli occhi Edmund con aria di sfida.

< > pensò Edmund imibile, < >.

Fu in quel momento che entrò un uomo in divisa a comunicare con buona sorpresa di entrambi che Jackob Tod doveva essere rilasciato immediatamente. Il

colloquio era finito poco dopo essere iniziato e in una curiosa comunanza di pensieri, per queste due persone che si trovavano momentaneamente agli antipodi, erano entrambi basiti e nessuno dei due riusciva a capacitarsi della cosa.

Fuori dalla caserma Matilde stava aspettando.

Non si dissero nulla. Jackob le si avvicinò e reclinò lo sguardo, umiliato. Fu lei a cominciare a parlare.

<<Sei un idiota. Per farti uscire ho dovuto usare le conoscenze di mio marito facendo tutto a suo nome e a sua insaputa.>>

Lui la guardò interrogativo come a chiedergli come fe a sapere di quanto era accaduto e lei proseguì

< >

Jackob sospirò e accennò ad un sorriso, senza smettere di fissare a terra.

Matilde, irritata chiese

< >

Disse rimproverandolo, ma lui rispose con tono rassegnato, come se la voce venisse da un altro “lui”, da una parte seppellita nei meandri della sua personalità, recuperata in chissà quale anfratto temporale

< >

Rimase alcuni istanti in silenzio e poi aggiunse

<<Solo chi ti ama può cogliere lo stacco di malessere in un sorriso triste.>>

Alzò lo sguardo fino ad incrociare il suo e la guardò con gli occhi lucidi. Era ormai rassegnato a tutto. L'abbracciò per gratitudine in maniera meccanica e prese la strada verso casa senza darle modo di riprendere il discorso.

Poteva sembrare che non stesse dando importanza a quello che era accaduto, non solo in quel momento ma durante tutta la sua vita, mentre in realtà stava morendo dentro, si sentiva infinitamente solo, di nuovo, ancora. Sorrise rassegnato, come chi non ha nulla da perdere. Non era disperato. Era solo consapevole della sua solitudine e di un mondo in cui non riusciva a vivere, con cui non era in grado di rapportarsi e che lo stava schiacciando. Quella

sensazione che più volte gli si ripresentava ciclicamente.

Arrivato nel suo appartamento accese il camino e si sedette ad osservare il fuoco. Prese un libro dalla libreria e ne lesse una riga a caso sussurrandola e facendo capitolare le parole tra le sue labbra come pesanti macigni

< >

Recitava. Jackob aggiunse

<<E io nemmeno riesco ad essere un uomo.>>

La desolazione si era calcificata all'interno del suo cuore e lo attanagliava come un branco di cani rabbiosi. Era immobile fermo, invaso dalle lacrime e dalla solitudine. Si sentiva incompreso, non riusciva a trovare nulla di buono e di meritevole nella sua vita corrosa dagli anni. Entrò nel suo studio e provò disgusto per i suoi quadri, per le sue opere, per i suoi studi; ma più di tutto per sé stesso riflesso allo specchio. Distrusse tutto in preda alla rabbia. Spaccò mobili, cavalletti, buttò a terra colori, tavolozze, pennelli. Con un coltello prese a sfregiare i suoi quadri, a martoriare le tele e con esse sé stesso. Si fermò solo di fronte al suo autoritratto. Lo fece molti anni fa e solo ora notava l'espressione infelice che si era dato. Tesa, inquieta, con un sorriso beffardo e ipocrita, che cercava di nascondere un carico di dolore incolmabile.

Era il suo lavoro migliore, non era un caso che avesse fatto lo schizzo sull'ultima pagina del quaderno di Ernst.

Tutte le sue opere finirono in cenere dentro al camino. Eliminò e fece sparire ogni cosa con calma e meticolosità. Si scaldò al fuoco usato per immolare sé stesso. Vide una vita intera sparire, mutare forma e purificarsi nelle fiamme. Eppure continuava a sentire freddo. Il gelo aveva accompagnato tutti i momenti più importanti della sua esistenza, si guardò le mani, bianche e raggrinzite e si chiese

< >

Non rimase più nulla.

Di un'esistenza impossibile erano rimasti solo lui e il suo autoritratto ed entrambi si guardavano uno di fronte all'altro in un ritrovato dialogo.

Non aveva più nulla da lasciare.

Nulla per cui combattere.

Non aveva più voglia di niente.

Nulla e niente.

Un senso di vuoto soverchiante.

Appese il quadro sopra il camino e si impiccò di fronte ad esso in modo che fosse l'ultima cosa che i suoi occhi potessero vedere: forse in questo modo avrebbe infine capito chi era veramente.

Qui giace Jackob Tod.

Il destino racchiuso nella semplicità di una parola sola. ( 8 - NOTE)

LAMA COMICA – LE MERAVIGLIOSE AVVENTURE NEL MONDO DELL'EDITORIA DI UN ASPIRANTE ESORDIENTE

“Alla domanda chi è uno scrittore, rispondo: il venditore di libri di un autore solo.”

Erri de Luca

Scrivere mi piace tanto, parecchio. Mi ha sempre dato grandi soddisfazioni personali. Si, solo quelle, perché di riconoscimenti non se ne parla ancora. In compenso in questo tempo sono riuscito a dare corpo a due raccolte, una di poesie e una di racconti. Non ho smesso di scrivere ma nella noia della ricerca spasmodica di un lavoro (che ancora non arriva) ho deciso che, per tenerle lì, tanto valeva provare a mandarle a qualche editore e vedere se poteva venirne fuori qualcosa di buono.

Era Settembre.

E qualcosa di buono ne sarebbe venuto fuori.

Ma per un racconto comico.

Prima casa editrice

Mi manda una mail dopo poco. Il testo è LETTERALMENTE questo (in evidenza le parole interessanti):

Gentile Davide Tarozzi,

abbiamo appena ricevuto la sua proposta di narrativa; lo staff redazionale ha tutavia letto con attenzione il suo lavoro, che dimostra più spunti interessanti e qualità letterarie. La soluzione che le proponiamo è quella di una prima plaquette (completa o parziale), fuori commercio ma composta con gli stessi criteri editoriali e tipografici di XXXXXXXXX, che apparirebbe come XXXXXXXXX Servizi Editoriali. Il costo sarebbe molto basso, ma soprattutto una tiratura ad hoc permetterebbe di valutare i riscontri critici senzxa eccessivi impegni, lasciando praticabile ogni soluzione futuram, tra cui appunto un futuro volume in commercio (dotato quindi di codice isbn e prezzo di copertina).

Ci dia un riscontro, sulla cui base potremo ragionare nei termini di una proposta concreta.

XXXX XXXXXXXXX

Segreteria

Un attimo sgrammaticata per essere una casa editrice. Mancano le doppie. E c'è qualche lettera in più qua e là. Comunque a chi non capita nella fretta di sbagliare qualche lettera? Mi dico,”Vabbè, sentiamo cosa hanno da proporre.”

E rispondo così:

Pregiatissimo Sig. XXXXXXXXX,

La proposta potrebbe anche essere interessante però preferirei ci trovassimo un momento per discutere vis a vis i dettagli e il funzionamento di questa soluzione.

La ringrazio e la saluto.

Davide Tarozzi

E mi arriva questa risposta TESTUALE. Anche nei caratteri di formattazione. Non ho cambiato nulla.

gENTILE TAROZZI, POSSAIMO INCONTRACI DIRETTAMENTE NOI; MI FACCIA SAPERE QUANDO POSSAIMO VEDERCI. Un sabato matino sarebbe opttimale.

XXXXX XXXXXX

Oddio.

Rimango basito. Possaimo? Incontraci? OPTTIMALE?? 5 errori in due righe iniziano a diventare tanti da giustificare con la sola fretta. Per non parlare dell'alternarsi di grassetto e normale. Forse ho scritto ad una casa editrice straniera e non me ne sono accorto. Dall'altra parte c'è un grande magnate rumeno o russo con il pallino dei libri italiani.

A questo punto voglio vedere dove andiamo a parare.

E rispondo

Gentile Sig. XXXXXX,

Sabato mattino potrebbe andare bene anche a me. Mi dica luogo e ora e vedo di organizzarmi.

Davide Tarozzi

La risposta arriva la settimana successiva. Quindi, per ovvi motivi, non ci siamo visti. Questa è la risposta:

Mi scusi ma sono rimasti bloccato da un feroce mal di schiena. Sabato prossimo non ci sarò, causa evento a XXXXXXXX. Un'altra data?

XX

Sono rimasti? Ma Chi? Parla di sé usando il plurale majestatis (manie di grandezza) o si riferisce a tutta la redazione (personalità diffusa, nel senso che c'è un po' di lui in ognuno di loro)? Un'epidemia di mal di schiena ha bloccati tutti? Vabbè, errori che capitano.

Seppur con una regolarità inquietante.

Rispondiamo

Nessun problema. Per me può andare bene un altro sabato mattina in cui lei non abbia impegni.

Saluti.

Davide Tarozzi

E alcuni giorni dopo mi arriva questa risposta, di nuovo testuale

Gentile Tarozzi,

abbiamo avviato un progetto editotiale, come ramo di XXXXXXX, che vedrei come collocazione ideale del suo volume; che potrebbe essere una raccolta minuta fuori commercio, o un volume vero e proprio. Credo, data la vicinanza,

che valga la pena parlkare direttamente con lo staff, "capitanato" da XXXXXX XXXXX. Intanto, domenica 7 saremo (non io) al XXXXX XX XXXX, dove ci sarà un bello spazio per la casa editrice (presentazione dell'antologia della poesia in Piemonte e una lettura, dalle 16,30-17. Lì potrà conoscere XXXXX (che non avrà però letto il suo lavoro, temo, nonostante glielo abbia apedito adesso.

Prossima settimana direi che potrebnbe andare bene. Inutile dire che c'è un problema di costi (che non sraanno elevati, ma che dipenderanno dal tipo di operazione e dalla foliazione.

Può intanto mandare un file word, per vedere anche questo aspetto?

X

Gesù..

E pensare che nelle lettere di presentazione non mi posso permettere nemmeno una virgola fuori posto..

Comunque avevo fatto tutto questo solo per sapere la spesa e, ad oggi, non so ancora nulla. Andiamo avanti e scriviamo. Ovviamente non allego nessun file. Benedetti pdf non li possono toccare. Forse. Chissà?

Gentile Sig. XXXXXX,

Per motivi personali non ho potuto presenziare alla giornata al XXXXXXX. Il problema dei costi credo sia da valutare. Vorrei avere una cifra indicativa di quanto potrebbe venirmi a costare, se fosse possibile. In questi giorni ho ricevuto un'offerta da un'altra casa editrice che mi ha indicato chiaramente i costi di stampa ma mi ha però proposto in più rispetto a voi la pubblicazione con isnb e vendita online su amazon e feltrinelli.

Attendo un suo riscontro e la saluto cordialmente.

Davide Tarozzi

Mail mandata alle 15:26. (per l'offerta a cui mi riferisco vedi Seconda casa Editrice, a seguire.)

Risposta ricevuta alle 17:59

accompagnata da una chiamata della moglie dell'editore [ci metto un po' a capire chi cazzo sia. Escludo subito sapientemente Scarlett Johansson. Ho il terrore che sia di nuovo quella spaccapalle di Flora dell'Eni che ha chiamato mezzora prima. Poi penso sia per un colloquio. Ma mi parla come se io e il marito fossimo amiconi e allora tutto si fa buio. E mi sento stronzo perché odio non riconoscere le persone. Non capisco chi sia lei e nemmeno il marito. Poi parla di libro. E m'illumino dalle risate. D'immenso, no. Proprio no. Magari. Tu pensa cosa fanno gli squali per disputarsi il pesciolino. Avevi paura che qualcuno ti fregasse il pollo, eh?] alle ore 18:30.

Fantastico! Prima mi fanno aspettare settimane per le risposte e ora non aspettano nemmeno che abbia letto la mail.

Leggiamola allora.

Salve, ma tutti i nostri libri hanno isbn. Servizi editoriali in questi giorni si è "evoluta" in Collezione letteraria, ramo di azienda del tutto inserito in XXXXXXXX, con uno staff specifico ma inserito nel nostro organico. Il suo titolo è fra i cinque approvati.

E Amazon, feltrinelli (e tutti gli altri) sono distributori per TUTTI i libri in vendita... ma noi abbiamo Casalini, che è il maggiore in Europa.

Per i costi: premesso che occorre avere un word, e che il file richiede un editing attento e professionale, siamo sulle 144 pagine. Qui dipende da quante copie le servirebbero. Un'idea standard potrebbe essere - stante le 144 pagine - 15001600 euro per 140 copie.

XXXXX XXXXXXX

Finalmente una mail scritta bene.

Un piccolo o per l'uomo, un grande o per la letteratura o presunta tale.

Dunque.

Non sono pratico dell'editoria ma se mi dici “fuori commercio” non penso che abbia l'isbn. La mia tesi è fuori commercio (grazie a dio) e non ha l'isbn. Ma potrei anche sbagliarmi, anche perché, io e te, non abbiamo ancora parlato di persona ed io sono un profano. Il mio titolo è fra i cinque approvati e lo scopro solo ora? Sono una rivelazione letteraria e non lo sapevo.

Casalini il comico? Ah no, quello era Casalino.. errore mio. Sarà il più grande d'Europa ma io non l'ho mai sentito. Però controllo.

Esiste.

Detta come la dice lui suona un po' come dire “Gli altri hanno Superman e l'uomo ragno, ma noi abbiamo Gargamella che è il maggiore a Puffolandia.”. Però, in effetti è una lacuna mia.

Vabbè, proseguiamo.

Leggo il prezzo

…..........................

ahahhahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahaha

….......................................................................

ahahahahahhshahahahahahahahahahahahahahahahahhaha

….....

….....

ah.

Basta.

Cioè... sono stato scelto per sborsare 1600 euro che, per inciso, non ho?

CHE CULO RAGAZZI!

Seconda casa editrice.

Mi scrive dopo un mese.

Gentile Davide,

abbiamo letto e apprezzato la sua silloge, quindi ci farebbe piacere pubblicarla.

Abbiamo una distribuzione nazionale e siamo presenti anche nelle Feltrinelli, come potrà controllare. Per la promozione abbiamo anche una pagina Facebook con oltre 2.500 iscritti:

Ci occuperemo della correzione di bozze, di realizzare una copertina, dell'impaginazione e di tutto ciò che concerne la pubblicazione, inserendo il suo libro su tutte le librerie online (IBS, Amazon ecc.) e rendendolo ordinabile nelle librerie. Chiediamo solo che l’autore prenoti le prime 60 copie, ovviamente a prezzo scontato, mentre altre venti le daremo omaggio. Copie che potrà, volendo, anche liberamente rivendere ad amici e conoscenti oppure utilizzare per fare delle presentazioni in librerie della sua zona.

Inoltre avrà una regolare percentuale sul diritto d'autore, più alta rispetto alla media.

Poi non dovrà pagare assolutamente nulla e tutte le altre spese saranno come detto a nostro carico, pertanto lei semplicemente aiuterà a spingere le vendite della sua opera acquistando le prime 60 copie.

Da contratto sarà poi interamente a nostro carico l'eventuale ristampa, e ovviamente non avrà obbligo di acquisto in questo caso, perché se il libro andrà bene, lo ristamperemo volentieri in ogni caso.

Le allego la bozza di contratto via email. Attendo sue e rimango a disposizione per ogni chiarimento.

Grazie e a presto.

firma

Subito rimango tranquillizzato dalla forma corretta e scorrevole. E' quasi un sollievo. Sono in una botte di ferro. Quel ladro di Abramovich non è interessato al mio lavoro. Questi non sono sgrammaticati. E sembrano anche piuttosto seri. Hanno un isbn, stampano loro, correggono, impaginano, vendono su internet. Fico. E poi il lavoro è piaciuto. Certo devo comprare 60 copie, ma venti me le regalano. E poi quanto costeranno 60 copie? Andiamo a vedere.

800 Euro.

Cristo.

Beh, però mi fanno il 15% di sconto. Mah, sarà. Vabbè, venti me le regalano.

In fin dei conti se ci credo devo essere il primo a promuovere la mia opera, no? Insomma..

Leggiamo il contratto.

…................

Vediamo se ho capito bene.

Voi stampate 100 copie, 60 le vendete a me (ma con lo sconto, grazie, eh!), 20 me le regalate e 20 le mettete in commercio?

Questo si che si chiama lancio promozionale! Dalla finestra, direttamente nel cestino, suppongo.

Se avessi avuto bisogno di un servizio stampa l'avrei fatto con Feltrinelli, in copia unica, a 8 euro, Cazzo! Oppure andavo in copisteria e vaffanculo! Andavo a spacciare il mio scritto da solo davanti alle scuole.

Magari qualche tossico di letture c'è ancora tra i tanti di Hashish, Marijuana e simili.

Terza casa editrice

Mail inviata alle 15:33

Proposta editoriale ricevuta alle ore 16:56

Caspita, rapidi e sicuramente molto selettivi. Questo il testo.

Per una vera e propria editoria libera e contro la piaga dell’editoria a pagamento.

Oltre 1000 autori del catalogo della XXXXXXXXXX hanno condiviso la nostra visione editoriale, tranne alcuni, ma hanno dovuto ricredersi di fronte alla farsa delle commissioni di lettura o, pseudo tali,

le cui scelte, più delle volte, sono dettate da interessi personali che altro. Riteniamo che gli autori devono giudicati solo ed esclusivamente dai lettori e dal mercato.

I successi editoriali sono costruiti in laboratorio con autori fantasmi o clonati, realizzati in provetta per appartenenze familiari e politiche.

Per questo motivo si è deciso che tutte le opere che ci invierete potranno essere da noi pubblicate, corredato da un corredo promozionale per le librerie composto da locandine, cartoline e altro secondo accordi,

senza alcun contributo da parte dell’autore.

Questi sono meglio di Flash. Gli uomini hanno l'eiaculazione precoce, questi hanno la pubblicazione precoce. Non gli frega niente di cosa hai scritto. Non lo guardano nemmeno. Per carità, tutto quello che c'è scritto è condivisibile, ammirabile. A tratti anche bizzarro e schizofrenico. Hanno ragione. Però, almeno un poco di selezione non guasterebbe. Altrimenti si finisce in un calderone senza uscita in cui qualcosa di valore finisce deprezzato tra stronzate illeggibili. Come

trovare su uno scaffale “L'uomo che ride” in mezzo a Novella 2000 e a libri di Moccia. Viene da pensare in automatico che sia una cagata oppure una raccolta di barzellette su Totti.

Leggiamo almeno il contratto. Beh, bello. Non pago niente e mi porto a casa due copie.

Quarta casa Editrice

Questa la faccio breve. Invio il manoscritto a Novembre e a Febbraio mi rispondono che mi vogliono pubblicare. Segue uno scambio di mail. Cerco di ricontattarli ma poi nessuno mi risponde più.

Mah.

Dopo tutto, forse se li metto online da solo è meglio.

LAMA XXI R – LA PREDA

"Tutte le notti ho un incubo orrendo. Mi trasformo in me stesso."

Bucchi

Flavio lasciò la macchina nel solito spiazzo all'ombra della quercia.

La strada asfaltata proseguiva e scollinava oltre, ma dal punto in cui si era fermato partiva una strada sterrata che attraversava per intero un fitto bosco fino a sboccare di nuovo su un'altra strada asfaltata. Il tragitto era di circa 7 km completamente immersi nell'oscuro del bosco. Le fronde l'avvolgevano e lo coprivano quasi volessero artigliare il sentiero che a sua volta pareva un tratto d'interiora nel ventre di una bestia selvaggia. Impossibile vedervi attraverso. L'oscurità mangiava la luce come il conte Ugolino il suo orrido pasto, mentre un verde insolitamente tetro dilagava su tutta la campagna come una malattia.

Flavio chiuse l'auto, si guardò intorno.

Era inverno e i campi erano completamente nudi dalle colture. La terra arata e capovolta, dissodata e scavata, era appena coperta da un sottile manto di nebbia non più alto dell'altezza di un ginocchio.

Si allacciò bene le scarpe. Si mise il cappuccio in testa chiudendolo bene con i

laccetti e fece partire il cronometro. Doveva tenere conto dei tempi per cercare di migliorarsi.

Era il suo giorno libero e, come sempre, all'imbrunire andava a correre per sciogliere la tensione e per tenersi in forma. Il silenzio e il solo rumore dei suoi i erano un meritato riposo dal mondo e da sé stesso. Aveva anche le cuffie alle orecchie ma per ora il lettore era spento, lo avrebbe solo a metà percorso. Prima voleva sprofondare nel silenzio per poi sprofondare sulle note di “Hard lines, sunken cheeks” dei Pantera. L'assolo di chitarra tra il minuto 3:30 e il minuto 4:30 era un vero orgasmo. Gli faceva montare la rabbia al punto da dargli spasmi e contrazioni al volto che accompagnava con movimenti ossessivi della testa; ogni volta che l'ascoltava, ovunque fosse non aveva alcuna importanza, l'effetto era quello. Quando partiva quell'assolo riusciva ad incrementare la velocità di corsa e portarsi al limite.

Quel giorno voleva esclusivamente sfinirsi. Arrivare a fine corsa con il fiatone, morto, grondante sudore; semplicemente sconvolto di fatica. Si doveva sfogare ma come ogni volta in cui andava a correre c'era il debito al silenzio e ai pensieri. Solo al ritorno lasciava fluire la rabbia.

Era già a corto di ossigeno.

L'aria fredda, affilata, scorreva sulla sua faccia mentre ogni respiro aveva tutta la pesantezza glaciale dell'inverno. Il ritmo di corsa era però regolare e serrato, sapeva che una volta rotto il fiato le sue gambe si sarebbero sciolte e sarebbe partito rapido. Voleva correre fino a vomitare. Fino a rimettere tutto quello che aveva dentro.

Quella vita schifosa da cui si sentiva braccato come una preda.

Il lavoro era una vera merda. are le giornate in ufficio a farsi scassare le palle dal capo, dai clienti e da ogni anima che varcasse quella maledetta porta lo faceva sentire neanche in una prigione, ma tumulato in una tomba, incatenato all'inferno. Dove era finita la libertà che sperava quando era giovane? I sogni li aveva seppelliti nel cassetto? E dove cazzo era finito quel maledetto cassetto? Avrebbe voluto salvare il mondo, cambiare qualcosa e invece era finito a cambiare le intestazioni a delle scartoffie o inserire dei numeri insignificanti.

Che giornate del cazzo. Avrebbe fatto meglio a mollare tutto ed andarsene a vivere con gli aborigeni in mezzo al nulla.

Era una civiltà quella in cui viveva?

Vedeva paranoicamente il mondo come un covo di malvagità e ingiustizia.

Calpestò una pozzanghera e alcuni schizzi di fango gli arrivarono fino al volto. Socchiuse gli occhi per un attimo e iniziò a correre più forte. Oltreò alcune panchine ai lati del sentiero, a cui faceva seguito una piccola zona sosta per le famiglie con tanto di spazio per fare il barbecue, tutta recintata e completamente sprofondata tra gli alberi. Si trovava all'incirca a metà del sentiero. Scavalcò con un balzo la recinzione. Raggiunse una tavola e si mise a fare piegamenti sopra di essa. Il sudore colava copioso lungo il naso e gocciolava mescolandosi alla rugiada, mentre Flavio diventava rosso per lo sforzo. Terminato l'esercizio, ripartì e riprese a correre con maggiore convinzione.

La solitudine gli pesava.

Aveva pochi amici, i suoi genitori non c'erano più e con le donne non era mai stato quello che poteva definirsi un abile seduttore. Non aveva coltivato grandi ioni e aveva finito per perdere tutte quelle che aveva. La politica non aveva più alcun interesse, i giornali erano guazzabugli di immondizia, le relazioni erano troppo pesanti e impegnative. Con chiunque. Si ritrovò a concludere di essere fondamentalmente uno spocchioso e per questo, lentamente, era scivolato lungo un crinale che l'aveva portato all'isolamento. Si era richiuso in sé stesso e nell'incapacità di comunicare con le altre persone. Tutti gli venivano a noia dopo poco. Viveva in una turris eburnea senza alcuno slancio intellettuale. Era ormai ato tanto tempo dall'ultima volta che aveva fatto l'amore e aveva perso anche l'interesse per quello. L'unico modo che aveva per tenersi in vita era cercare di ingannare il suo cervello con lo sport. Corsa e nuoto erano le due attività che svolgeva con regolarità. Ad uso esclusivo di contrastare la sua depressione e lo stato di apatia in cui si trovava.

Non aveva bisogno di strizzacervelli.

Due erano le scoperte che in qualche modo gli permettevano di rimanere sul filo della stabilità emotiva.

Una era l'endorfina per l'autostima.

Fare sport produce endorfina e di conseguenza il suo umore migliorava notevolmente, riusciva ad ingannare il cervello e la depressione con lo sport compulsivo e con la soddisfazione del vedere il proprio corpo perfettamente modellato.

Riusciva a porsi dei limiti per impedirsi di scivolare.

La seconda scoperta erano le docce ghiacciate.

Alcuni anni prima era capitato per caso ad un congresso di psicologi svoltosi in un piccolo teatro di provincia. L'ingresso era libero e quella mattinata di sabato non aveva nulla da fare. Si parlava di come alcuni pazienti, di cui non ricordava bene il disturbo, riuscissero a controllare i propri stati emotivi mettendo la testa dentro l'acqua ghiacciata. In qualche modo il freddo agiva su una qualche ghiandola cerebrale che andava a produrre sostanze che sedavano e permettevano di controllare le crisi.

Flavio ormai lo faceva regolarmente ogni giorno perché le crisi erano sempre più frequenti. Sicuramente riusciva a controllarsi ma, di contro, conviveva ormai con un quasi quotidiano mal di testa che gli si presentava a giorni alterni. Mettere la testa nel ghiaccio aveva le sue controindicazioni come ogni buon medicinale che si rispetti. Tuttavia, gli bastava leggere gli effetti indesiderati di una semplice pastiglia per la cefalea (eruzioni cutanee, reazioni bollose, nausea vomito, diarrea, flatulenza ecc.) e subito conveniva con sé stesso che era meglio tenersi tutto e che, alla fine, come controindicazione non era nemmeno poi così male.

Quel giorno era in tregua sia con il mal di testa che con quello di vivere.

Continuava a correre a ritmo sostenuto ed era ormai arrivato alla fine del sentiero. C'era un'altra zona di sosta ma più piccola della precedente e corredata di una fontanella. Non sentiva sete. Si avvicinò al cartello stradale che dava il nome alla via e con un balzo vi si aggrappò e iniziò a fare trazioni sollevandosi con le braccia. Non sapeva dove altro farle e in qualche modo il tutto si prestava bene.

Riprese a correre tornando verso la macchina e, in una regressione infantile, decise di mettere i piedi dentro a tutte le pozzanghere dei successivi cento metri.

A volte si concedeva puerili libertà e stupidi piaceri. Tanto il tempo pareva volgersi in pioggia e di lì a breve si sarebbe comunque inzuppato tutto.

Il cielo stava diventando nero e le nuvole incombevano cupe. Accese il lettore 3:30 – 4:30 della canzone per incrementare la velocità. Voleva fare il ritorno a bomba e fracassarci le gambe di stanchezza. Aveva ancora da fare l'ultimo esercizio di addominali a metà percorso, sulla prima piazzola che aveva incontrato.

Vide qualcosa agitarsi tra i cespugli. Le fronde si mossero impazzite. Un rumore di movimento pesante arrivò alle sue orecchie nonostante la musica. Rami spezzati e scricchiolii sinistri di una corsa avventata. Flavio vide sbucare dal bosco alla sua sinistra un cinghiale enorme che cavalcava verso di lui a testa bassa, in carica.

Rimase fermo e immobile.

Ero un fascio di terrore.

Vide la bestia che sbuffava e grugniva, gettarsi all'impazzata contro di lui puntando le sue gambe. Flavio, all'ultimo istante, girò su stesso ruotando il busto e scansò per poco il cinghiale con un movimento simile a quello dei toreri. Percepì lo spostamento d'aria e l'odore selvatico dell'animale, il quale proseguì la sua corsa nel bosco sparendo nella selva.

Non si mosse.

Le gambe gli erano andate in pappa e tremavano senza sosta. Rimase fermo a guardare il punto dove era sparita la bestia mentre Phil Anselmo gridava a squarciagola nelle sue orecchie.

Spense il lettore.

Ansimava, ma non capiva se per la corsa o per lo spavento.

Impiegò alcuni minuti prima di riprendere controllo di sé. Iniziò camminando piano. Le ginocchia cedevano molli, ad ogni o. Al diavolo gli addominali, pensò, voglio solo tornare a casa, sedermi e stare tranquillo.

Ci manca solo la pioggia, pensò osservando il cielo.

Ma un rumore lo distolse dai pensieri. La stessa corsa forsennata che aveva sentito poc'anzi si stava ripresentando alle sue orecchie. Rami rotti, scricchiolii ed un galoppo pesante e greve si stava avvicinando a lui.

Alla sua destra, dal buio della selva, arrivò nuovamente il cinghiale. Il pelo ritto. Sembrava ancora più grosso e cattivo e di nuovo lo puntava come se volesse caricarlo. Flavio sbiancò. Il cervello aveva perso il controllo del corpo che, a sua volta, decise di appoggiarsi all'istinto di sopravvivenza con il quale si era salvato dal primo attacco. Si preparò muscolarmente ad eseguire lo stesso gesto provvidenziale. Il cinghiale caricava furioso verso di lui, dritto verso le sue gambe. All'ultimo secondo l'istinto fece ruotare Flavio per scansarsi. Lo stesso trucco non riesce mai due volte. Il cinghiale corresse la traiettoria subitaneamente e, ruotando a sua volta la testa, investì la gamba destra di Flavio rimasta in avanti rispetto alla sinistra.

Poi sparì nel nulla.

Flavio venne sbalzato in aria e finì a terra, fortunatamente sul morbido.

Si guardò immediatamente la gamba colpita.

Una vistosa ferita sanguinava copiosamente all'altezza del quadricipite. Una zanna doveva averlo toccato. E “toccato” era un delicato eufemismo. Non sembrava aver reciso l'arteria, ma il sangue scorreva abbondantemente. Strappò la manica della maglia e si fece una fasciatura d'emergenza. Provò ad alzarsi. La gamba si muoveva comunque bene, l'unico inconveniente era il dolore e una zoppia appena accennata.

Dovette aspettare alcuni minuti prima di rialzarsi. Tremava ed era spaventato. In giro non c'era nessuno che potesse aiutarlo e quel maledetto cinghiale pareva avercela proprio con lui, quindi iniziò a temere che potesse ritornare di nuovo.

Flavio si guardava intorno guardingo e immobilizzato da un senso di vulnerabilità accecante. Con una mano strinse la terra tra le dita scavando dei piccoli solchi. Sentiva che il terreno andava a depositarsi sotto le sue unghie riempiendole di sporco.

Intorno a lui solo il silenzio.

Mancavano almeno ancora 4 km prima di arrivare alla macchina.

Riprese il cammino ma questa volta a o sostenuto perché non poteva permettersi di correre in maniera spedita. Era in uno stato di allerta generalizzato in cui ogni minimo respiro lo faceva trasalire.

Anche il suo.

Cercò di non perdere la calma e mantenere la lucidità. Se si fosse fatto prendere dal panico sarebbe stata la fine. Doveva ritornare alla macchina risparmiando energie. Sentiva che il cinghiale sarebbe ritornato. Si guardò intorno. Era in mezzo al nulla, circondato dall'indifferenza del bosco. Non c'era nessuno che potesse aiutarlo e non capiva cosa stesse accadendo. Ma cercò di non pensarci e focalizzarsi solo sull'obiettivo “sopravvivere” e tornare indietro.

Riuscì a percorrere 1 km intero.

Da lontano vedeva dei paesini dislocati sulle colline, luci accese e camini fumanti. Irraggiungibili persino a voce. La salvezza era vicina e non si stava muovendo nulla.

Riuscì a percorrere ancora un altro km indisturbato.

Poi quel rumore.

Una cavalcata pesante. Faceva quasi tremare il terreno per la sua imponenza, più di tutto era Flavio a tremare.

Non aveva scampo.

Era braccato.

Il cielo si tinse di rosso in una breccia delle nuvole, come se dio avesse deciso di trafiggere con una lancia la volta celeste e da questa ferita fosse fuoriuscito un fiume di sangue.

Il rumore si avvicinava travolgendo alberi ed arbusti in una sinfonia di rumori sordi che sembravano lo spezzarsi di ossa. Il cinghiale uscì nuovamente dal bosco diretto a tutta velocità verso Flavio. Pareva ancora più feroce, gli occhi sembravano iniettati di sangue e dalla bocca sembra uscire una specie di denso alito sulfureo che volteggiava accanto alle zanne. Flavio non ebbe tempo di capire se fosse una sua suggestione o se veramente l'animale avesse questo aspetto perché iniziò a correre nella direzione opposta a quella della bestia. Questa volta non si fece sorprendere e si diresse verso l'interno del bosco, santiando ad ogni o per il dolore. Raggiunse un albero e vi si arrampicò a stento salendo fino in alto. Il cinghiale quasi lo raggiunse ma proseguì la sua corsa dentro al bosco senza fermarsi, scansando il tronco dell'albero.

Non lo vide nemmeno allontanarsi.

Semplicemente all'improvviso non c'era più.

Sparito.

La gamba pulsava dolorante per la ferita mentre sopraggiungevano i crampi e la mancanza di ossigeno per la corsa convulsa. Cercò di riprendersi e di controllare la situazione. Da quel punto poteva vedere tutto ed era al sicuro, ma non poteva permettersi di sostare tanto. Era vestito in maniera pesante ma non sufficiente da permettersi una notte ata all'addiaccio che, in mezzo ad un bosco da solo e senza niente, era sconsigliata a chiunque.

Si stava facendo scuro, stava venendo ormai sera, quindi per Flavio tornare in fretta alla macchina divenne sempre più un'urgenza. Con il buio la situazione visiva sarebbe peggiorata e non avrebbe più potuto contare sul margine di intervento che lo aveva salvato fino a questo momento. Scese dall'albero, ritornò sul sentiero e iniziò a correre per quanto gli concedevano i dolori.

Mancava veramente poco. La notte stava calando in fretta ma Flavio macinava metri rapidamente con la sua andatura zoppa. Mentalmente cercava di convincersi che la sua non fosse una zoppia ma, al contrario, una nuova e rivoluzionaria tecnica di corsa di quelle che ti fanno andare come una scheggia. Non era lento come un bradipo, era veloce come Usain Bolt. L'opera di persuasione doveva servire a non fargli mollare la presa, a tenere duro. Sei Bolt, forza! Ma nemmeno, sei Bolt, Greene e Mennea in una persona sola. Vai! Aumentò il ritmo incurante del dolore.

Stava entrando in una lunga curva a gomito quando sentì sbuffare. Frenò istintivamente la corsa, scivolando leggermente con la suola delle scarpe sulla ghiaia e nel farlo non poté trattenere una smorfia di dolore.

Era davanti a lui.

A pochi metri.

Gli alberi erano lontani.

Merda.

Se l'adrenalina non lo avesse costipato, si sarebbe cagato addosso.

E ora che fare?

Non ebbe tempo di pensare più a nulla che il cinghiale subito cercò di caricarlo. Flavio miracolosamente riuscì a scansarlo lanciandosi di lato. Si rimise subito in piedi e senza esitare corse verso il fitto del bosco. Ormai il dolore era anestetizzato dalla paura. Il cinghiale cambiò subito direzione dopo il fallito attacco e iniziò a rincorrerlo. Non ci volle molto per raggiungerlo ma Flavio svoltò all'improvviso guadagnando qualche metro e lasciando un attimo smarrito il suo inseguitore che tuttavia non mollava la presa e non permetteva di farsi distanziare. Quando il cinghiale fu ancora vicino, Flavio ripeté il trucco nuovamente ma riuscì a recuperare poco margine di vantaggio.

La bestia non si lasciò sorprendere.

Stava per essere travolto quando un poderoso “CRACK” giunse alle sue orecchie di inseguito. Flavio non metabolizzò quel suono e continuò a correre. Proseguì scartando a destra e a sinistra in mezzo alle foglie e agli alberi e non si fermò se non quando giunse in prossimità della macchina, dove finalmente

realizzò di non essere più inseguito.

Si guardò intorno e non vide nulla.

Nessun animale, nessun rumore, nessuna traccia.

Solo la nebbiolina che lo aveva accolto al suo arrivo e l'umidità.

Si era sognato tutto?

Si guardò la gamba.

Era fasciata e macchiata.

No, non aveva sognato.

Salì in macchina e si chiuse dentro.

Era al sicuro.

Per quale motivo aveva mollato la presa ora che l'aveva quasi raggiunto?

Accese la macchina e guidò nel sentiero. Fece scattare gli abbaglianti. Guardava a destra e a sinistra in cerca di indizi, tanto non poteva più accadergli nulla. All'improvviso scorse del movimento alla sua destra. Girò la macchina per illuminare bene con i fari e lo vide.

Si dimenava con una foga tremenda ma sembrava che qualcosa lo stesse trattenendo. Scese dalla macchina per vedere meglio. Il cinghiale era immobilizzato per la zampa anteriore. Aprì il bagagliaio, prese in mano una lunga e pesante sbarra di ferro e si avvicinò alla bestia.

Era finito in una tagliola. Flavio aveva avuto fortuna a non farla scattare. Non pensava che nei dintorni qualcuno potesse usarle.

Il cinghiale si dimenava furente e grugniva di dolore e di rabbia.

Lo guardò mentre si dibatteva. Poi alzò la testa e si guardò in giro.

Guardò il cinghiale e disse

< >

E poi aggiunse compiaciuto

<<..potrei..>>

Sollevò la sbarra di ferro con due mani e iniziò a colpire l'animale fino a che questi non si mosse più. ò due dita sulla sbarra imbrattata di rosso e si disegnò due strisce sotto gli occhi.

Risalì in macchina e tornò a casa.

Era scivolato.

LAMA RIPIDA – CADUTA LIBERA

"A chi precipita non è permesso di accorgersi ne di sentirsi quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipitare giù."

J.D. Salinger

La cravatta gli stritolava il collo.

Si stava dirigendo verso il suo ufficio, situato in un enorme palazzo moderno con vetrate a specchio. Era un grattacielo a pianta quadrata i cui piani si perdevano a vista d'occhio verso l'infinito. L'apice pare fosse perennemente avvolto dalle nubi al punto da far dichiarare al presidente, con profondo orgoglio, che quello era “un dito nel culo del cielo”. Pare che usasse vantarsene con gli amici al golf club tra un bicchiere di vino e una battuta maschilista sulle donne.

Lavorava per un cretino.

Inevitabilmente, più si sale nelle scale gerarchiche e più l'idiozia viene distribuita con generose palate ai dirigenti. Lo sapeva, ma ormai non ci poteva fare nulla.

Arrivò nei pressi dell'ingresso e si mise ad osservare il grattacielo. Si sentiva piccolissimo. Quando andava in città si sentiva lillipuziano di fronte a questi palazzi altissimi, si sentiva schiacciato da quelle presenze ingombranti.

Era una caccola nell'immenso, pensò.

Che poesia.

Si avvicinò alle pareti a specchio, guardò la propria immagine riflessa, si sistemò i capelli e si fissò negli occhi per un lungo attimo.

ò le porte girevoli e si diresse verso le scale laterali, per salire ai piani superiori. Alla reception una ragazza carina, bionda, truccata oltre l'inverosimile, intenta a limarsi le unghie priva di ogni interesse verso il mondo esterno, stava contemporaneamente guardando video su youtube allo schermo del monitor e guardando un po' di cazzi degli altri su facebook. Non si accorse nemmeno del suo ingresso, tanto era distratta dalle luci dello schermo e dalla manicure.

Del resto, ovunque fosse andato nella sua vita era sempre ato piuttosto inosservato.

Iniziò a salire le scale. La giornata si prospettava una schifezza.

Numeri, numeri, numeri e ancora numeri.

Già.

E ancora numeri.

Se quella doveva essere la prospettiva della sua vita forse sarebbe stato meglio non averla nemmeno una prospettiva. Anzi, era preferibile un bel disegno piatto e bidimensionale, senza illusione di spazi infiniti inesistenti. Almeno si poteva evitare di perdere del tempo sperando in un cambiamento potenziale che in realtà sarebbe stato solo profondamente fittizio. Più o meno come credere nella vita eterna. Lui non aveva mai creduto nell'aldilà. Già l'aldiqua non era il massimo, pensa andare avanti così in eterno, si diceva.

Meglio arsi bene il qua e ora, magari godendosi di più i vari momenti trascorsi.

Valorizzarli, ecco.

I gradini si susseguivano uno dietro l'altro insieme ad un insolito senso di pesantezza che tuttavia non sembrava dovuto ad una colazione sostanziosa (uova, salsiccia, prosciutto e formaggio) e nemmeno alla mancanza di allenamento. Era piuttosto come se tutto il mondo gli gravasse sulle spalle. Era qualcosa di poco chiaro. Sentiva una mano che lo pressava a terra e gli rendeva ogni o sempre più difficile del precedente, sensazione piuttosto comune per tutti quelli che devono andare a lavorare.

Aveva la camminata patibolare di un condannato a morte.

All'altezza del quarto piano accadde qualcosa di insolito.

Portava la sua valigetta nella mano destra. Sentì che il suo braccio stava facendo uno fatica enorme per sorreggerla perché iniziò a camminare tutto storto, pendente da una parte. Si sforzava di tirarla su, dando dei colpi di reni con la schiena o usando due mani, ma i suoi tentativi proseguirono inutilmente fino a che non gli scivolò e cadde a terra.

Sembrava incollata al pavimento. Cercò di sollevarla alcune volte ma tutto si rivelò vano e rinunciò. Fece alcuni gradini come per salire ancora, ma poi ritornò indietro ad insistere ulteriormente. Pensava che magari prendendo il tutto alla sprovvista qualcosa potesse cambiare. Le speranze degli illusi. Fece un paio di finte con altrettanti tentativi di sollevamento ma poi decise di proseguire, ci avrebbe pensato dopo.

Andò oltre e continuò a salire le scale.

o dopo o si stava ormai avvicinando al pianerottolo del nono piano. La sensazione di pesantezza non era svanita. Gli rotolava nell'animo e si faceva più pressante ad ogni scalino.

I piedi divennero grevi e impastati. Non riusciva più a sollevare le ginocchia. A malapena era in grado di are al gradino successivo. Le suole aderivano incollate al granito delle scale. Si portò le mani all'altezza del ginocchio e riuscì, facendo forza e tirando verso l'alto, a fare ancora un paio di scalini.

Poi si fermò.

Sembrava portasse scarpe di cemento e non riusciva più a proseguire. Si guardò intorno. Nessuno saliva e nessuno scendeva, nessuna finestra. Era esattamente a

metà tra l'ottavo e il nono piano. Le scale erano insonorizzate e ogni piano aveva una porta blindata che avrebbe attutito qualunque accenno di grida.

Attese alcuni minuti ma vedendo che nessuno arrivava decise di fare un ultimo tentativo e iniziò a tirare con forza la gamba destra.

Tira.

Tira.

Tira più forte.

Si attaccò al corrimano per aiutarsi.

Una vena enorme si fece in rilievo sulla sua fronte mentre un'altra si rigonfiava sul collo per lo sforzo. Divenne paonazzo. Digrignò i denti e strinse gli occhi.

Tira, tira e finalmente il piede si staccò dal gradino ma, per il contraccolpo, cadde a terra di pancia slanciandosi in avanti.

Si ritrovò lungo sulle scale.

Si girò e vide che si era liberato il piede destro semplicemente perché la scarpa si

era sfilata. L'altro piede era saldamente ancorato allo scalino. Cercò di rigirarsi su sé stesso, ma l'anatomia del suo corpo non gli permise di fare nulla: o si disarticolava la caviglia sinistra per sedersi o, più semplicemente, gli sarebbe bastato spingersi con le mani fino a rimettersi in piedi.

La seconda opzione era decisamente più consona.

Gli spigoli dei gradini, cadendovi sopra, lo avevano ferito a varie altezze del corpo. Dove c'era più carne sentiva solo un dolore sordo, che presto avrebbe preso vita in qualche livido, invece dove c'erano ossa e pelle, aveva qualche escoriazione; senza dubbio si era incrinato qualche costola.

Si accucciò e si slacciò la scarpa sinistra. Scoprì che a piedi nudi poteva proseguire a camminare. Cercò di staccare le scarpe dal gradino infilando le dita nella fessura che rimaneva tra il tacco e il resto della suola ma tutto fu vano.

Proseguì a camminare a piedi scalzi.

Arrivò finalmente al nono piano e andò oltre.

Quindicesimo piano: le piante dei piedi erano freddissime ma continuava a camminare. Realizzò che la cravatta stava stringendo come quando era all'ingresso, lo stava strangolando. Insieme sentiva un insistente senso di oppressione ai polmoni. Si sentiva compresso, schiacciato, la giacca e la camicia iniziavano a stargli strette come se fossero di tre, quattro, dieci misure in meno. Aveva l'impressione che diventassero sempre più aderenti, che la tela si tirasse e gli restringesse le carni in uno spazio vitale sempre più angusto.

Si sfilò la cravatta sciogliendo il nodo.

Giacca e camicia sembrava avessero aderito alla pelle. Stavano diventando la sua stessa pelle. Quando cercò di are le dita sotto il tessuto per un attimo ebbe l'impressione di infilarsi una mano dentro le carni.

Non riuscì a sbottonare la giacca.

Finì per strapparla a pezzi per potersela sfilare.

Stessa cosa accade alla camicia che tuttavia si rivelò essere molto più tenace. Dovette usare i denti per lacerare la stoffa e riuscire finalmente a togliersi anche quella.

Proseguì a camminare, i piani si susseguivano uno dopo l'altro in una salita sempre più somigliante ad un calvario.

Eterna e senza fine.

Nei pressi del ventiquattresimo piano le gambe gli si fecero rigide. Sembrava un burattino senza articolazioni.

Due stecche immobili al posto degli arti inferiori.

Proseguì le scale facendo ampie arcate laterali con le gambe, ancheggiando e posando la pianta sul gradino. Dopodiché tirava su tutto il corpo fino a portare a pari livello i due piedi. Arrivò in queste condizioni fino al venticinquesimo piano poi sentì che gli indumenti intimi iniziarono a stritolargli i testicoli togliendogli il fiato. Si accasciò scompostamente a terra e scivolò in giù lungo le scale. Si fermò solo puntandosi a terra e girandosi a pancia in giù.

Le gambe erano immobili e senza articolazioni.

Affannato e in difficoltà, si tolse rapidamente pantaloni e boxer.

Rimase nudo.

Il freddo delle scale gli gelò immediatamente le chiappe.

Finalmente si rialzò e proseguì a camminare coprendosi il pube con le mani. Aveva freddo ovunque. I peli erano irti sulla pelle e insistenti tremolii gli scuotevano il corpo.

Giunge infine a destinazione.

Trentesimo piano.

L'ultimo.

Arrivò davanti alla porta, ma invece di inserire il codice d'entrata proseguì e andò sul tetto.

Il suo ufficio in realtà era al terzo piano.

Nemmeno lui riuscì a capire perché fosse arrivato fino a quel punto.

Arrivò sull'enorme terrazza che sovrastava tutto il palazzo ed uscì all'aria aperta completamente nudo. Forti correnti d'aria fredda sbattevano contro il suo corpo e gli avano nella fessura del sedere con una gradevole sensazione di solletico.

C'erano vasi con piante ovunque ma nessun essere umano. Si guardò intorno: il panorama era magnifico e l'orizzonte si perdeva ovunque a dismisura. Non c'erano limiti, era come trovarsi sul trono del mondo. Distese di palazzi si perdevano ovunque nell'immediato, mentre in lontananza luccicava una brillante massa limpida bluastra : l'oceano. Talmente lindo da perdersi nel cielo e viceversa. Non si capiva dove cominciasse uno e dove finisse l'altro. Forse erano solo due universi che collassavano.

Una sensazione sgradevole lo distolse dalla contemplazione.

Aveva pestato un chewingum.

Si tolse quella schifezza filamentosa e la appiccicò sulla foglia di una pianta.

Si diresse verso il parapetto della terrazza a i molto lenti.

Un piccolo bagliore a terra attirò la sua attenzione.

Un mozzicone di sigaretta ancora .

Lo raccolse e si fece due tiri di quel che rimaneva, disperdendo le boccate ai venti forti che facevano fischiare l'aria.

Lo gettò a terra e lo spense con il piedi con un gesto automatico, bruciandosi la pelle e soffrendone di conseguenza con una smorfia irritata.

Salì sul parapetto e si lanciò giù dal palazzo.

Il corpo nudo giaceva a faccia in giù. Fermo immobile. Sembrava si fosse adagiato delicatamente dopo quel volo perché non c'era traccia di sangue ed era sorprendentemente integro. Alcune persone si avvicinarono e la più temeraria di esse lo girò a pancia in su.

Inorridì nel vedere il volto.

Non aveva pelle o carne.

Era un teschio fatto di sole ossa.

La bocca spalancata. Non aveva naso e nemmeno occhi, al cui posto c'era una placca ossea liscia che sembrava la continuazione dell'osso frontale e proseguiva fino ai denti. Non aveva alcuna fisionomia ma solo una facciata piatta, anonima e ben levigata.

Una lunga fronte senza pelle che arrivava ai denti.

L'apparenza di un morto da decenni senza più lineamenti umani.

LAMA XXIII R – FERITE

"Là dove un coltello una volta ha tagliato la carne in profondità, il tocco di una piuma fa male."

Christa Wolf

Sveglia alle prime luci del mattino.

Dopo anni ati a convivere con le proprie abitudini, Fausto aveva ormai imparato ad alzarsi ogni mattina nelle ore che precedeva le prime luci dell'alba: alla quattro era già in piedi. Il rito quotidiano era scandito con la precisione e i ritmi di un metronomo. Si alzava dal letto e subito si dirigeva nudo all'angolo opposto della sua stanza dove lo aspettava il lavabo con sostegno a treppiede in ferro battuto, fatto con le sue stesse mani. Prendeva la brocca d'acqua posta sotto il bacile e iniziava a versarne il contenuto dentro quest'ultimo con una lentezza rigida e calcolata. Osservava attraverso i suoi lunghi capelli la cascatella di acqua con un'espressione assorta e ancora assonnata, prima di artigliare il piccolo lago artificiale con le sue enormi mani callose poi lavarsi con decisione la faccia.

Si guardava nello specchio attaccato al treppiede, fermo, a scrutare le piccole goccioline d'acqua che gli percorrevano il volto cadendo dai capelli, dalle sopracciglia, e che dalla sua folta barba saltavano sul pavimento. I suoi profondi occhi azzurri non perdevano un solo movimento di tutte quelle piccole perle di rugiada trasparente che adornavano il suo viso come diamanti. Prendeva l'asciugamano alla sua sinistra, accanto alla finestra, e se lo premeva contro senza strofinare, immergendosi nel tessuto bianco con gli occhi chiusi, raccolto

in una solitaria preghiera.

Vestito con gli abiti da lavoro scendeva al piano inferiore e usciva di casa, dove il buio ancora faceva da padrone, per andare a governare le bestie nella stalla. Ritornava dopo una mezzora, apriva tutte le finestre e si preparava a fare colazione sull'ampio terrazzo al piano superiore.

Ogni mattina disponeva sulla tavola tutto il necessario con precisione millimetrica. Il pane sfornato la sera precedente con il barattolo di marmellata a fianco. Davanti, un piccolo piattino sbeccato con, ben allineati, forchetta e coltello, dietro cui poteva trovare il pentolino con il latte delle sue mucche. Alla destra, un barattolo di miele delle sue api, tazza, bicchiere e brocca d'acqua presa dalla fontana mentre tornava dalla stalla. Predisponeva tutto con la stessa sacralità del prete che prepara l'altare per la messa e si sedeva in attesa che la caffettiera iniziasse a rumoreggiare.

Versato il caffè iniziava la sua colazione al cui termine fumava l'unica sigaretta di ogni sua giornata.

Solo a quel punto alzava lo sguardo dalla tavola per vedere ogni mattina l'emanazione in terra della pura essenza dello splendore, l'alba del mondo.

La luce si diffondeva vaporosa nelle calde colorazioni dei raggi solari, rimbalzando tra le fronde smeraldo degli alberi nodosi per giungere fino al cielo, dove la patina scura della notte morente, diviene lentamente afflato di vita di un nuovo giorno, limpido e trasparente. Dal suo terrazzo si vedeva tutta la vallata, chiusa tra due archi di montagne che lasciavano spazio solo al fiume e ad una stradina sterrata, piccola e maltenuta. Verde di alberi ovunque, lontani dal grigio della civiltà e dalla presenza umana, Fausto viveva in un'oasi disabitata, immerso nel silenzio di una natura incontaminata e selvaggia.

Seduto sulla sua panca se ne stava meditabondo ad ammirare quello spettacolo inspirando con i polmoni e con gli occhi.

Si alzava, lasciando tutto sulla tavola, e usciva di casa. Foraggiava ancora un poco le bestie della stalla e a quel punto la sua giornata si scandiva seguendo i ritmi della terra, dell'allevamento e della sopravvivenza.

Fausto era riuscito a rendersi indipendente dal mondo e viveva completamente solo.

Per giungere fino alla sua casa, da lui battezzata “Meridiana”, bisognava arrivare fino alla fine della strada che percorreva la valle e seguire l'unico sentiero disponibile per quasi tre ore, prendendo un'apposita deviazione. Proseguendo sulla direzione principale, si finiva sulla vetta del monte Ars, che troneggia per tutta la vallata ma era una meta scarsamente battuta e quindi nessuno transitava per quei luoghi.

La casa era piccola e confortevole composta da una cucina ampia, una camera da letto, un bagno e un ampio salone da lui adibito a biblioteca : la stanza rossa. Il camino posto in essa bastava a riscaldare tutti gli altri ambienti. Il piano inferiore aveva funzione di grande dispensa e di magazzino. Qui infatti venivano accatastate e conservate le riserve per svernare, dai cibi alla legna da ardere.

Non aveva elettricità ed era isolato dal mondo. Attingeva alla fonte che sgorgava a pochi metri da casa sua per l'acqua. Per quello che non era in grado di produrre con i suo animali e i suoi frutteti era il bosco a provvedere.

L'unica sua compagnia era Loki, un magnifico cane lupo cecoslovacco.

Dalla colazione fino a metà pomeriggio, il resto della sua giornata si divideva tra l'accudimento degli animali e il lavoro nei campi, interrotti solo da un rapido pranzo. Nel resto del tempo che gli rimaneva, Fausto preparava conserve, marmellate, formaggio, pane o spaccava la legna per l'inverno. La vita era scandita stagionalmente da attività diverse, nei periodi caldi si preoccupava solo ed esclusivamente di prepararsi per l'inverno, mentre nei periodi freddi, si dedicava alla caccia e all'utilizzo di quanto accantonato.

Diversamente ava giornate intere chiuso nella stanza rossa a leggere i libri che stava accumulando ormai da parecchi anni.

Erano quasi trent'anni che viveva in questa maniera, senza contatti con nessuno. L'unica persona con cui si relazionava era Saverio, il proprietario dell'emporio del paese sito all'inizio della valle. Si erano visti di persona una sola volta per prendere accordi e da quel momento le loro comunicazioni si erano ridotte a fogli di carta. Tra di loro lo scambio era semplice, Fausto forniva formaggio e cacciagione al negoziante che, in cambio, lo riforniva delle uniche cose che non poteva farsi da solo: le sigarette, il caffè, i fiammiferi e i libri. Lo scambio di merci tra i due avveniva tramite teleferica che dalla casa di Fausto arrivava fino all'inizio del sentiero e avveniva ogni primo del mese.

L'accordo aveva sempre funzionato.

Era appunto il giorno convenuto, ed era l'orario prestabilito, poteva vederlo dalla meridiana che svettava sulla facciata della casa che dava sulla valle. Fausto prese il pacchetto di formaggi e carne che aveva preparato il giorno precedente, si recò dalla teleferica e lasciò cadere il carico fino a valle. Attese alcuni minuti e iniziò a riavvolgere il cavo. Arrivato il suo pacco lo portò in casa senza nemmeno

aprirlo e proseguì nei suoi lavori fino ad ora tarda.

Alla sera, sfinito dalla giornata di lavoro, lo vide sul tavolo ancora avvolto nella sua carta marrone e nello spago con il fiocco, ma si limitò a spostarlo altrove semplicemente perché sapeva di avere ancora tre sigarette e quindi decise che lo avrebbe aperto con comodo quando ne avrebbe avuto bisogno.

In quel momento la priorità era un bel bagno con cui togliere il sudore e lo sporco ma, più di tutto, la stanchezza.

Immerso nell'acqua, Fausto fissava il vuoto con le braccia a penzoloni dai bordi, mentre la mente divagava verso lidi sconosciuti e ricordi inesistenti. Pensava ad un futuro normale, con una donna accanto, una famiglia per sé, alla forma della felicità. Ogni cosa per lui aveva una forma, la dignità, la tristezza, la gioia, la vita. Tutto era racchiuso tra pareti di perimetri astratti che ne delimitavano la consistenza e l'apparenza. La dignità aveva la forma della foto, di un istante in cui si riesce a cogliere l'intima essenza di una persona. La tristezza aveva la forma dell'albero, quello solitario sulla vetta dell'Ars. Sulla cima del mondo, di fronte ad uno spettacolo meraviglioso quale può essere solo l'esistenza, eppure così infinitamente desolante nella sua solitudine. La gioia aveva la forma del confetto. Tornito, delicato, dolce. La celebrazione di ogni festa. La vita aveva la forma della mano, quella mano che scrive il proprio destino, che insegue la sorte e approfitta delle buone occasioni.

Ogni cosa aveva la sua forma.

Ma la felicità no.

La felicità, quindi, che forma aveva?

Il rumore della porta che si apriva lo distolse dai suoi pensieri. In bagno entrò il fiero lupo cecoslovacco.

<< Loki.. >>

Disse Fausto mentre la bestia si avvicinava alla vasca fissandolo dritto negli occhi. Diede una leccatina delicata alla mano del padrone e si sedette accanto a lui, sempre guardandolo negli occhi. Fausto sollevò una mano e gli accarezzò la testa. A quel punto il cane si accasciò a terra. Rimasero accanto, ognuno immerso nel proprio mondo solitario, diverso e condiviso nel selvaggio vivere.

Fausto sentiva uno strano senso di oppressione. Era una sensazione frequente per lui. are così tanto tempo senza parlare con nessuno aveva le sue controindicazioni, anche se nel suo caso erano sicuramente peggiori le conseguenze del contatto umano. A volte sentiva tutti i suoi pensieri e tutte le parole, che non riusciva e non poteva dire a nessuno, gonfiarsi dentro la sua gola fino a soffocarlo.

Stare con le persone spesso serve ad alleviarci dai nostri turbamenti interiori. Si tirano fuori i grevi fardelli ed essi svaniscono quando arrivano ad orecchio ricettivo, che sappia capire ed accogliere. E l'anima si fa più leggera. Svuotarsi e condividere, aiuta a rendere la vita più leggera. Era questa la sensazione che aveva provato la prima volta in cui si era confessato. Ma non era il fatto di rimettere qualcosa a dio, quanto di aver condiviso con qualcuno e non essere stato giudicato per questo. Di aver ricevuto il perdono incondizionato.

Per cosa poi?

Cosa potrà mai aver fatto di così terribile un bambino piccolo?

Fausto invece portava sulla schiena tutto il peso dei suoi pensieri, del suo abisso di solitudine inevitabile, il suo corpo era forte e tonico quanto la sua anima era curva ed afflitta.

Dopo il bagno consumava una cena leggera al solito tavolo sul terrazzo. Al buio, rischiarato da una candela, oppure contemplando il tramonto quando la stagione lo consentiva. Dava da mangiare Loki che, nel frattempo, aveva atteso pazientemente accanto a lui e poi si recava nella stanza rossa con un bicchiere pieno di vino ito.

Le sue giornate erano così da sempre.

Il camino stava scoppiettando calorosamente mentre una luce arancione tenue carezzava tutta la stanza. Una scrivania piena di manoscritti era posta di fronte alla piccola finestra da cui faceva capolino una luna tonda e materna. Le pareti erano nascoste da massicce librerie gonfie di tomi di ogni dimensione e colore. Alcuni libri non avevano collocazione ed erano andati a creare alte pile adagiate sul pavimento occupando ulteriore spazio. Tutto in quella stanza era monopolizzato dalla presenza della carta. Al centro di essa solo una vecchia poltrona cremisi, consunta e dall'alto schienale con accanto un piccolo tavolino rustico sommerso a sua volta da tre pile di libri.

Fausto entrò nella stanza rossa, lasciò la candela sul tavolino e si diresse verso la finestra, bevve un sorso di vino e si fece illuminare dalla luna. Rimase ritto in

piedi ad osservare la luce che emanava, intento a costruire profili immaginari e ricordi sulla superficie del satellite splendente. Si sentiva profondamente solo. Il fio dell'indipendenza era la solitudine. Non si trattava fino in fondo di una libera scelta ma di un percorso in parte inevitabile ed obbligato; non poteva vivere in mezzo alla folla.

La vita ascetica da una parte rappresentava un sollievo, dall'altro era desolante.

Aveva ripreso in mano “I miserabili” di Victor Hugo. Lo riportava alle sue radici, possedeva l'edizione del nonno che non aveva mai avuto modo di conoscere. Fausto non poteva fare a meno di adorarlo, aveva un legame famigliare ed era un narratore eccezionale. Si immergeva nella lettura come se nuotasse in un mare travolgente di emozioni. La vita descritta da Hugo era pregna e profonda, anche se idealizzata. I suoi personaggi erano sfortunati ma avevano la magnificenza dignitosa che solo i grandi uomini potevano avere. Jean Valjean era un uomo caduto nel fango che aveva saputo risollevarsi dalla melma, aveva sopportato tutte le avversità immolando la sua vita a fare il giusto. Si emozionava ogni volta che leggeva i suoi romanzi. “Notre Dame de Paris” per lui era il romanzo dell'amore in tutte le sue forme. Quello di Quasimodo, puro, incondizionato, pronto al sacrificio di sé stesso per il bene dell'altro e che vive l'inadeguatezza del proprio amore come una condizione per amare ancora di più; quello di Frollo, amore possessivo, egoistico, malvagio ma disperato allo stesso tempo perché non corrisposto; quello di Phoebus, vanesio e superficiale, asettico e senza sentimenti mediato solo dall'avvenenza e quello di Esmeralda, sincero ed ingenuo, inevitabilmente rivolto alla persona sbagliata.

Fausto riteneva che queste fossero le categorie dell'amore, perché nelle realtà le cose vanno veramente così. Ognuno di noi rientra in una di queste categorie. Non poteva fare a meno di commuoversi ogni volta che leggeva il aggio in cui Quasimodo si nascondeva nell'ombra per non ferire con la sua bruttezza lo sguardo di Esmeralda.

La lettura di certi romanzi particolarmente pregni non si limitava a creargli un pesante turbamento interiore ma spesso dava origine anche a qualche conseguenza fisica, ma solo raramente.

Stanco per l'ora tarda in cui si era inoltrato navigando sui mari di inchiostro, decise di andare a dormire. Svuotò il bicchiere di vino in un sorso solo e si diresse verso la camera da letto. La candela per un attimo illuminò qualcosa di diverso, un oggetto che non doveva essere sul mobile all'ingresso. Dopo anni ati a disporre tutto sempre nello stesso modo e nelle stesse identiche posizioni, un pagliuzza fuori posto spiccava come un grattacielo in una valle selvaggia.

Il pacco.

Indugiò un attimo ricordandosi di aver rimandato l'apertura, ma fu la forma insolita ad attirare la sua attenzione. Sulla superficie della carta che avvolgeva tutto, si stagliava in rilievo il profilo di una lettera. Era qualcosa di insolito ed inusitato. Non era mai successo prima. Poggiò la candela sul mobile e lo aprì. Trovò le solite cose che gli mandava Saverio, l'usuale libro mensile, che questa volta era “Il conte di Montecristo”, e una lettera. Rimase alcuni istanti titubante tenendola in mano mentre si faceva largo il pensiero che si trattasse di qualcosa di grave. Si decisa ad aprirla. Era un telegramma.

MAMMA STA MOLTO MALE. TORNA A CASA PRIMA POSSIBILE. CHIAMA 028 00 558

ROBERTA

Era di sua sorella. Sapeva che prima o poi sarebbe successo: doveva ritornare in mezzo alle persone.

Sarebbe partito la mattina seguente senza indugi. Tuttavia non poteva fare a meno di sentirsi turbato. Erano trent'anni che non stava in mezzo alle persone e sapeva le conseguenze che poteva avere questa cosa su di lui, sulla sua mente, sul suo corpo. La malattia lo aveva costretto all'isolamento e alla solitudine. Fino a quel momento non aveva più avuto nessun tipo di sintomi. Possibile che nel frattempo fosse guarito? O questo ritorno forzato avrebbe fatto riesplodere tutto il suo malessere?

Quella notte non riuscì a dormire.

La stanza era ampia e buia.

Le pareti erano ricoperte con carta da parati verde alleggerita da decorazioni arzigogolate in tonalità ocra. Permeava un'oscurità greve e impenetrabile, appesantita ulteriormente dai mobili massicci che, imponenti, circondavano il letto e toglievano respiro. L'odore era di chiuso e l'aria stagnava nella stanza obnubilata dalla tenebra. Un pesante armadio in mogano alto fin sopra il soffitto, con tutte le ante a specchio, svettava fin sopra il soffitto ai piedi del letto. Accanto ad esso un cassettone con specchiera, ricoperto in superficie da ogni genere di soprammobile e da cinque cornici con foto. Una grande poltrona all'angolo ed ampi tappeti a coprire il pavimento. Anche il letto era grande, in pesante ottone smerigliato e levigato. A fianco, due comodini : quello a destra era completamente spoglio mentre su quello a sinistra, oltre alla lampada antica, c'erano un bicchiere, una sveglia, un libro e una decina di scatole di medicinali.

Riposava sotto le coperte una donna anziana, lunghi capelli bianchi, occhi verdissimi leggermente opachi ai lati dell'iride e il volto segnato dalle rughe.

Ognuna di esse era come una carezza sul suo volto che additava il suo ato come le pieghe di una mano, era la gentilezza del ricordo. Respirava con affanno e sentiva tutta la fatica dello sforzo che le comportava. Il piumone pesava come una lastra di marmo sopra il suo corpo gracile da scricciolo. Era lucida ma sentiva di essere prossima alla sua fine; la naturalezza dell'evento la portò a nuotare nella sua stessa vita, a camminare sulle rughe e sul ricordo del ato.

L'infanzia.

La madre che l'aveva portata dal medico in quel freddissimo giorno d'inverno affrontando una bufera e tenendola al caldo del suo corpo per farla visitare, aveva corso un rischio tremendo, ma l'aveva salvata. Quante cose sono decise da scelte avventate? Quel giorno aveva una febbre tremenda e se sua madre avesse aspettato a portarla sarebbe morta, così le aveva detto il medico.

La povertà, mangiare zucchine tutti i giorni, arrivare a stento a fine mese, la guerra, il lavoro come operaia in una fabbrica di schiavisti per tutta la vita mentre l'artrite deformava le mani e l'osteoporosi intaccava le ossa. I ritmi serrati del lavoro alienante, ripetitivi e monotoni, in convivenza con dolori sempre più forti.

La vedovanza e la solitudine.

Ma c'erano anche i ricordi belli.

Roberta e Fausto che giocano insieme in giardino. Tutti sporchi di erba e di fango, che ridevano insieme sguaiatamente rincorrendosi per il campo, mentre lei li guardava dall'alto del terrazzo. Era uscita per innaffiare i gerani e si

appoggiò al parapetto per osservarli. Quanto li amava. Erano quanto di più bello avesse mai fatto nella vita.

Il suo matrimonio.

Il marito era stato un uomo introverso e silenzioso, ma amorevole ed affettuoso, presente. Aveva poche parole ma tanti gesti con cui esprimere quello che non riusciva a dire, quando si faceva sopraffare dall'imbarazzo. Si erano conosciuti grazie ad un ballo. Lui l'aveva invitata durante la festa del paese e qualcosa nel suo tocco, nel suo sguardo pensieroso, nelle sue movenze l'avevano inebriata. La sua pelle aveva vibrato quando l'aveva stretta a sé. Era qualcosa di indefinibile, una sensazione mai provata e diversa, concessa dal solo tocco. Sapeva esprimersi solo in quel modo, con il corpo, perché le parole gli morivano in bocca dietro ad un muro scostante di rudezza difensiva.

Quanto le mancava.

I suoi modi di fare sbrigativi, che prima la irritavano, ora li ricordava con affetto. Aveva sempre saputo che il marito fosse una persona sensibile, semplicemente si limitava ad occultare questi aspetti del suo carattere per non essere oggetto di scherno degli amici.

Quanti ricordi le si potevano leggere in volto.

Un telefono iniziò a squillare in un'altra stanza della casa.

Una voce pacata rispose al terzo richiamo.

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<<Si, ti aggiorno su tutto, ci sentiamo. Ciao.>>

Roberta appoggiò il telefono sul tavolo. Aveva tagliato corto perché sentiva che la voce aveva iniziato a tremarle. Non avrebbe mai voluto vedere sua madre soffrire così tanto. Se la ricordava ancora come una donna forte e vederla ora gracile nel letto era un colpo troppo duro per lei. L'aria funerea che respirava era quella dell'inevitabile destino di cui cominciava ad intravedere come sarebbe andata a finire. Non era difficile da intuire. Prima o poi avrebbe dovuto accadere,

ma forse siamo sempre troppo distratti da altro e crediamo che a noi non debba mai succedere nulla. Ci illudiamo che il fato non vada mai a toccare chi ci sta accanto e per questo ci stupiamo quando qualcuno dei nostri cari viene colpito.

Fece un lungo sospiro rassegnato e si preparò un caffè. Sua madre stava riposando e decise di non andare a disturbarla. Accese la televisione della cucina e si sedette a tavola per guardarla.

Non c'era niente.

Fausto si alzò con i soliti ritmi, fece colazione e diede da mangiare alle bestie.

Predispose tutto in modo che potessero sopravvivere per almeno cinque giorni. Aveva creato un sistema meccanico con il quale potevano ricevere il cibo in sua assenza, ma comunque limitato a brevi periodi. Lo aveva studiato per questa eventualità. Alla guardia ci avrebbe pensato Loki, che aveva intuito qualcosa e non andò a fare il suo solito giro, ma rimase nei possedimenti, dopo aver salutato Fausto con una leccata sul dorso della mano ed essere rimasto seduto ad osservarlo mentre si allontanava con il suo zaino in spalla.

Dopo tre ore di cammino Fausto arrivò alla fine del sentiero, il quale terminava in un paesino disabitato chiamato Pianessa. Era costituito da una manciata di case con i muri in pietra e con i tetti in arenaria grigia. La piazza centrale era molto piccola e spoglia. L'unica presenza era una specie di crogiolo, situato in un incavo della roccia, che raccoglieva l'acqua di fonte direttamente dalla montagna. A disposizione dei anti, un mestolo in rame per abbeverarsi, nonostante sovrastasse la scoraggiante scritta in giallo “NON POTABILE”, anche se realtà si poteva bere tranquillamente, tutti lo avevano sempre fatto.

Alcune case erano diroccate o completamente invase dall'edera, dalle piante e dagli erbaccioni infestanti, conferendo all'antico complesso urbano un aspetto lugubre di abbandono ma allo stesso tempo di rivincita. Quella della natura sull'uomo che si stava lentamente riappropriando dei suoi spazi e dei suoi territori. Era un paese sospeso nel tempo, dall'aspetto sembrava di transitare presso una remota civiltà precolombiana, come se potesse esserci un villaggio Azteco in quel luogo agli antipodi del Messico, all'interno dell'unica valle selvaggia ancora non contaminata dalla modernità e dalla società occidentale.

Era il ponte tra la vita solitaria di Fausto e il ritorno all'umanità.

Pianessa era infatti il paese in cui finiva la strada che percorreva la valle.

Giunse al piccolo ponte di pietra risalente al XI secolo, unico accesso a Pianessa, e alla torre dell'avamposto. Era una costruzione alta e nera che fungeva da vedetta di controllo per il feudatario che governava quei possedimenti in epoca medioevale. Aveva una presenza cupa ed una mesta alterigia nello svettare imponente e superba in mezzo a tutte quelle case. Ad uno dei lati della torre pendeva ancora una di quelle pesanti gabbie di contenimento che venivano usate per imprigionare e torturare i ribelli e in cui venivano lasciati morire al sole, di fame e di sete, in modo da fungere da monito sia per la popolazione, sia per gli invasori.

Si vociferava che nei sotterranei della torre ci fosse un singolare attrezzo di tortura usato dal vecchio capitano di avamposto per vendicarsi del tradimento di sua moglie con un sotto-ufficiale. Pare che di ritorno da una battuta di caccia avesse scoperto la tresca tra i due, colti in flagrante sul talamo nuziale. Invocarono la sua pietà, erano giovani entrambi e il capitano era sempre stato un uomo buono e giusto, quindi speravano di essere perdonati e di cavarsela con una umiliazione pubblica. Il capitano era sconvolto e ferito nel profondo, li fece rinchiudere dentro la torre in celle separate e pianse lacrime amare.

Alcuni giorni dopo si recò durante la notte nelle celle dei due amanti e fece con loro un patto. Disse che li avrebbe liberati, li avrebbe fatti fuggire lungo un cunicolo che partiva dai sotterranei della torre e che sbucava nei boschi circostanti. Dovevano sparire e non farsi più vedere, in questo modo lui avrebbe lasciato intendere al popolo di averli uccisi ed essersi vendicato, salvando il proprio onore e la propria autorità, mentre loro sarebbero sopravvissuti altrove. Fu lui a condurli fino all'imboccatura del aggio e a chiudere la porta alle loro spalle. La moglie lo abbracciò commossa e lo salutò. Quando i due iniziarono a camminare lo spazio disponibile subito iniziò a farsi angusto e sempre più stretto, fino a che le pareti non iniziarono ad aderire alle spalle dei due al punto da non permettere nemmeno di girarsi ma, al limite, di camminare all'indietro. Il giovane uomo, che era entrato per primo, iniziò a sentire delle fortissime fitte lancinanti alle braccia. Sanguinava copiosamente e in quel momento realizzò che nelle pareti erano incastrate centinaia di lame che, proseguendo a camminare, lo avrebbero dilaniato e ucciso brutalmente. Tentarono di indietreggiare ma da quel momento il capitano iniziò a bersagliarli con le frecce di una balestra scagliate da un piccolo pertugio sulla porta.

Non ebbero scampo.

Con il tempo divenne la “Torre degli Innamorati”, in ricordo di questa tragedia. Alla morte del capitano quella trappola non venne mai più usata; l'ingresso fu murato e mai ritrovato. Si diceva che i due corpi fossero rimasti nel cunicolo e che i loro fantasmi svettassero tutte le notti sulla cima della torre, rivolti verso bosco dove speravano di trovare salvezza.

Fausto ebbe un fremito ed un brivido, dovuto non tanto al ripensare a questo fatto di sangue quanto a realizzare che quella costruzione era l'ultima cosa che si lasciava alle spalle prima di dover rientrare nel mondo. Avrebbe preferito prendere un caffè con i due fantasmi piuttosto che dover parlare con degli essere vivi. Sapeva cosa rischiava e poteva solo sperare che in quel tempo le cose fossero cambiate.

Oltreò la torre, << Il dado è tratto>> si disse.

Subito pensò < >

E sospirò.

<<Si, ti aggiorno su tutto, ci sentiamo. Ciao.>>

< >

Angelica poggiò il telefono sul bancone del negozio e subito le si presentò di fronte una cliente che chiedeva di essere servita. Era una donna piuttosto sciapa e mal vestita, di quelle che a dispetto di questa palese evidenza credono al contrario di essere grandi intenditrici di moda. Si atteggiava a padrona del mondo e trattava Angelica come una serva piuttosto che una commessa e questo si era già capito quando insistentemente la osservava stizzita mentre stava parlando con Roberta, benché fosse piuttosto evidente la natura infelice di quella conversazione.

Le persone non hanno mai rispetto per il dolore altrui quando hanno fretta.

La donna ovviamente le fece tirare fuori mezzo negozio senza comprare nulla, esibendo un campionario odioso di facce schifate ogni volta che le veniva presentato un vestito, sottolineando le sue espressioni con sequele di commenti sprezzanti, “dozzinale”, “ 'no straccetto”, “non avete di meglio?”, “mi ci vede

con una robetta del genere?”, “ma dove vi rifornite, alla mensa dei poveri?” e così via.

Il risultato ovvio fu che non comprò nulla, fece perdere un sacco di tempo e tanta pazienza ad Angelica.

Dopo anni in quel settore aveva imparato che non tutti vengono per comprare, ma alcuni solo per provare il piacere di essere serviti e di umiliare un'altra persona.

A volte rispondeva come meritavano, a volte no.

Non si sentiva proprio di attaccare briga, era una di quelle giornate in cui tutto le scorreva addosso come l'acqua sul dorso di un'anatra, recitava un proverbio inglese.

Appena la cliente uscì, rimase sola in negozio. La sua responsabile non c'era e gli altri commessi avevano giorno libero. Con la crisi che c'era i turni erano diminuiti di pari o con il personale. E di vendere non se ne parlava. Troppa poca gente, pochi soldi.

Il consumismo si basa sul fatto che le merci debbano girare insieme al denaro. Ma se una persona ha già tutto e non ha nemmeno ancora finito di pagarlo, cosa si deve comprare ancora, a maggior ragione in un momento in cui i soldi sono pochi e valgono niente?

Nella solitudine del negozio Angelica decise di mettere in ordine i vestiti, piegarli e poggiarli bene sulle mensoline. Poi sarebbe ata alla vetrina. Andava allestita diversamente. In qualche modo doveva pur trascorrere il tempo, altrimenti la giornata sarebbe stata la morte e non sarebbe più giunta al termine.

Forse aveva sbagliato con Roberta.

In un momento così delicato non avrebbe dovuto chiederle di suo fratello. Avrebbe dovuto starle più vicina, era la sua migliore amica. Invece il suo pensiero era andato a lui, prima che al dolore di Roberta. Non lo vedeva da quando aveva deciso di andarsene. Era partito senza dare notizie, sparito nel nulla. Solo sua sorella e la sua famiglia sapevano dove fosse. Roberta non le rivelò mai il posto in cui era andato. Le disse solo che lui non voleva più vederla, Fausto non le permise nemmeno di entrare in ospedale dopo che fu ricoverato.

Un infarto.

Si sentiva responsabile ancora adesso di quanto gli era accaduto.

E probabilmente lo era.

Fausto e Angelica erano stati fidanzati per cinque anni. Si erano conosciuti al liceo e si erano messi insieme, avevano trascorso gli anni universitari in spensieratezza ed affiatamento. Erano diventati una di quelle coppie solide, quelle in cui tutti vedono quelle forme di amore che trovano il loro naturale traguardo nel matrimonio, nei figli, nella casa coniugale con giardino con un cane che scagazza ovunque. Avevano convissuto e affrontato tutte le esperienze più importanti, sempre insieme, mano nella mano. Fausto aveva un solo anno in

più di lei, l'aveva conosciuto perché andava spesso a casa di Roberta, la sua compagna di classe e miglior amica, fino a che qualcosa non era scattato all'improvviso, per caso, come tutte le cose. Volevano vedere lo stesso film al cinema e decisero di andarci insieme. Si divertirono e a quella prima serata ne seguirono altre e altre ancora, fino a che un bacio non li portò a qualcosa di superiore.

Non riusciva a capacitarsi che fosse ato così tanto tempo da quando era finita tra di loro. Avevano tutti superato i cinquant'anni ormai. Roberta si era sposata, aveva avuto un figlio, Giulio, e poi aveva divorziato, ma con il suo lavoro in banca riusciva tranquillamente ad arrivare a fine mese per entrambi. Giulio aveva ormai più di vent'anni ed era un ragazzo molto difficile. Angelica invece non si era mai sposata, aveva avuto tante storie di poco conto, ma non era mai riuscita a dimenticare quello che aveva fatto, quando aveva fatto male all'uomo che amava.

Non si era mai perdonata quell'errore, quella debolezza e le sue conseguenze.

Nemmeno lui l'aveva mai perdonata.

E forse aveva ragione.

Fausto stava camminando sulla strada asfaltata quando finalmente sentì il rumore di una macchina che arrivava alle sue spalle, non aveva tempo da perdere, quindi dovette fare un cenno sperando che questi si fermasse. Il ragazzo alla guida inchiodò facendo fischiare le gomme accanto a lui e sfiorandolo con lo specchietto laterale. Dall'abitacolo veniva una musica assordante, ripetitiva e monotona. La cantante sembrava perfino balbuziente da quanto insisteva a ripetere sempre le stesse sillabe in maniera ossessiva.

I due si guardarono per un attimo come solo due alieni avrebbero potuto fare.

Il ragazzo aveva i capelli pieni di gel e brillantini, la faccia curatissima con delle sopracciglia invisibili per quanto erano sottili e dei vestiti viranti in tonalità fluorescenti. Fausto lo osservò con la stessa perplessità che leggeva negli occhi del ragazzo, nel vederlo con la barba e i capelli lunghi, con vestiti mezzi strappati e sporchi.

Aveva l'aspetto di un cavernicolo nerboruto.

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Disse il giovane con voce squillante cercando si coprire la musica.

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Rispose secco e al limite della scortesia. Sentiva la lingua impastata in bocca e con la saliva secca. Non capiva se fosse la mancata abitudine a parlare o se dipendesse dal disagio di riconfrontarsi dopo tanto tempo con un simile.

Beh, pressapoco simile, a guardarlo bene.

<<Salta su che tanto la strada è una sola!>>

Replicò invece con estrema gentilezza il ragazzo.

Si sedette sull'auto e per tutto il viaggio non aprì bocca mentre, dal canto suo, il ragazzo parlava a raffica, senza sosta alcuna e senza prendere fiato, di qualunque cosa, alternando alla conversazione momenti in cui si dimenava a ritmo di musica o cantava a squarciagola i ritornelli della cantante balbuziente. Non si fermava nemmeno di fronte ai gelidi sguardi che Fausto lanciava all'apice della sua irritazione. Era un gigante enorme ed inquietante mentre il ragazzo era mingherlino, magro e secchissimo, eppure questi non sembrava per nulla intimorito, anzi, pareva noncurante dell'aspetto del suo eggero.

<<Ti faccio scendere qui, va bene? Sei a fondo valle..>>

Disse all'improvviso, fermando la macchina a lato della strada con un'inchiodata pazzesca che, oltre a far suonare il clacson alle tre auto che seguivano, fece quasi sbattere Fausto con la testa sul cruscotto.

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Riuscì solo a spiccicare prima di scendere.

Quello partì sgommando lasciando dietro a sé una scia di musica udibile ancora per alcuni minuti portando con sé tutta la perplessità di Fausto.

Raggiunse il negozio di Saverio, ricordava esattamente dove si trovasse, era

l'unico a cui poteva chiedere di fare una telefonata, c'era una cabina telefonica nel suo spaccio alimentare. Il proprietario non sembrò riconoscerlo subito, del resto il suo aspetto doveva essere cambiato non poco dall'ultima volta in cui si erano visti per i loro accordi commerciali.

Quando lo vide entrare, Saverio pensò che lo yeti si fosse trasferito dall'Himalaya.

Non lo riconobbe subito e, anzi, essendo un viso poco noto diffidò immediatamente poiché nei paesi in cui ci si conosce tutti si ha sempre tema degli stranieri e dei visi nuovi. Fausto si sforzò di essere cordiale, almeno vocalmente, visto che il suo aspetto lasciava trasparire un'apparenza selvaggia e inattaccabile.

<<Buongiorno. Sono Fausto.>>

Pensando che quello si ricordasse.

Saverio che era un omino basso, calvo, con la faccia rotonda e gonfia che sorreggeva due occhiali grandi e rotondi a loro volta, si pulì le mani sul grembiule bianco e iniziò a squadrarlo dal bancone, guardandolo dal basso in attesa che proseguisse.

Non capiva assolutamente chi fosse.

Fausto dal canto suo pensava di essere facilmente riconosciuto quindi rimaneva

in attesa. Il silenzio durò interminabili istanti in cui i due si lanciavano occhiate indagatrici a vicenda.

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Aggiunse Fausto, senza vedere nessuna reazione nell'altro uomo che invece assunse un'espressione come per dire “ Bello mio, che minchia ne so di chi sei tu?”

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In quel momento si sciolse ogni diffidenza e Saverio si rivelò per la persona accogliente quale era.

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Disse pieno di entusiasmo e di sorpresa.

Saverio era esattamente così, diffidente ma allo stesso tempo un'entusiasta della vita e delle persone. Appena entrava in confidenza o capiva con chi stava parlando, subito si allargava e si diffondeva affettuosamente come se fosse amico da sempre con chiunque. In effetti i rapporti con Fausto, pur se

commerciali e silenziosi, si protraevano ormai da parecchio tempo ed era subentrata la sensazione di conoscersi bene. Sapeva di potersi fidare di quella persona taciturna che gli forniva sempre ottime formaggette e cacciagione con regolare puntualità senza mai sgarrare.

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Disse laconico lui.

Si guardarono in imbarazzo per alcuni istanti.

Saverio avrebbe voluto proseguire, chiedere, parlare ancora un poco per la curiosità che quell'uomo gli provocava, ma subito si rese conto di non sapere cosa dire, dove cominciare. Nei suo occhi vedeva una tristezza di quelle trincerate e irraggiungibili, di quelli che di fronte al dolore sanno dire solo “niente” se interrogati.

Era a disagio ma venne tolto dall'incombenza del dialogo perché Fausto proseguì dicendo

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Il negoziante lo squadrò perplesso e interrogativo

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Rispose candidamente Fausto.

<<Mi sa che sono cambiate parecchie cose da quanto sei partito. Le cabine ormai non esistono nemmeno più. E per telefonare tutti abbiamo ormai questo.>>

E gli fece vedere un cellulare ultimo modello di quelli con il touchscreen e lo porse a Fausto che lo prese in mano senza tuttavia avere un'idea precisa di cosa farsene. Lo rigirò su di sé cercando di capire come funzionasse. E dire che era pure ingegnere, si sentiva un perfetto imbecille in quel momento. Non vedeva nemmeno i numeri. “Come cavolo funziona quest'aggeggio?” si chiese, nell'intimo dei suoi pensieri. Ma Saverio non gli diede il tempo, si riprese il cellulare e disse pacatamente

<<'spetta, ti aiuto io. Hai il numero che devi chiamare?>>

Fausto gli porse il telegramma e questi compose il numero e gli riò il cellulare, spiegando

<<Tienilo in questo modo e parla qui, è come se fosse la cornetta del telefono ma senza fili..>>

Gli disse, e poi aggiunse

<<..mi spiace per tua madre...>> avendo letto, suo malgrado, anche la prima parte del messaggio.

Fausto annuì e si mise in ascolto del segnale di libero.

Almeno quello non era cambiato.

Giulio entrò in casa della nonna sbattendo la porta, più per sbadataggine dovuta allo stato in cui si trovava, che per una forma di mancanza di rispetto per l'ottuagenaria. La differenza non fu colta dalla madre che si precipitò all'ingresso inveendo con la voce soffocata per non svegliare la nonna

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Disse ciancicando le parole con la bocca impastata.

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Incalzò Roberta con la voce al culmine della sua irritazione

<<Siamo usciti prima, non c'era la professoressa di Algebra. Volevo vedere la nonna.>>

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Chiuse il discorso sgarbatamente e lo guardò meglio.

Trascinava le parole, aveva gli occhi gonfi e rossi, l'espressione inebetita. Si era fatto le canne. Non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare il discorso. Tra il divorzio e la nonna sapeva che per lui era un momento difficile, ma era seriamente preoccupata. Arrivava a casa sempre più tardi, dormiva poco, si trascurava e andava in giro vestito come un barbone con i vestiti tutti strappati. A volte tornava a casa ubriaco e ava la notte a vomitare. Lei lo sentiva dalla sua stanza ma non sapeva cosa fare. Non voleva mettergli pressioni ma non sapeva come riprenderlo, era inavvicinabile e chiuso in se stesso. Non le raccontava più nulla, non c'era mai. Vedeva la sua espressione infelice e non sapeva come aiutarlo. Voleva abbracciarlo ma non poteva fare a meno di sentirsi sempre più rancorosa.

In quel momento cercò di essere più accomodante, senza riuscirci troppo bene, dicendo solo

< >

Giulio accettò annuendo con una smorfia della bocca.

Erano due anni ormai che tornava a casa in condizioni pietose e ancora non si capacitava di come fe sua madre a non accorgersene. Si ammazzava di canne prima ancora di entrare in classe, era completamente inebetito dall'hashish, puzzava di fumo lontano un miglio e lei non gli diceva mai nulla. A scuola aveva iniziato a fare schifo, ma quello non dipendeva tanto dalle canne, quanto dal fatto che stava male. Sentiva sempre un peso dentro da cui non riusciva a liberarsi. Pensava di continuo e per evitare di farlo preferiva sedare il suo cervello con droghe e alcol. Ormai giocava all'autodistruzione. C'era un nonsoché di figo in tutto questo. Bere fino a sboccare, fumare fino a stordirsi e far diventare entrambe le cose motivo di vanto con gli amici. Se non sbocchi vuol dire che non ti sei divertito, se non sei fuso stai ando una brutta serata. Farsi del male, vedersi ridotto ad una larva e rantolare di tosse lo faceva sentire accettato dai coetanei e apprezzato. Si rideva tutti insieme del tizio che aveva rimesso tutta la sera o di quello che si era calato un acido e diceva di parlare con la mamma di Bambi, di quello che non aveva dormito per due giorni sotto ecstasy o di quello che era svenuto in classe perché fatto come un cammello e così via.

Si sentiva un sopravvissuto della sofferenza.

Si vedeva come una specie di eroe, di quelli che subiscono ogni sorta di avversità ma continuano a resistere. Perché lui non faceva parte del sistema. Gli adulti non potevano capire, lui era un ribelle, un trasgressivo, non faceva quello che facevano gli altri.

Lui non si adeguava.

O forse era l'esatto contrario visto che, nella sua classe, erano veramente pochi quelli che non fumavano e non bevevano. Forse era più conformista di quanto pensasse. In fin dei conti anche il conformismo è relativo al gruppo di riferimento della persona. Si tende a vedere come composto da individui eterogenei il gruppo a cui si appartiene, mentre i membri di gruppi esterni si

percepiscono come tutti uguali e omologati, privi di personalità.

Le magie della psicologia.

Giulio era perfettamente omologato con i suoi coetanei.

Andarono insieme in cucina. arono davanti alla stanza da letto e Giulio ebbe un momento di profonda tristezza nel sentire il respiro pesante e gracchiante della nonna. Roberta versò il caffè in due tazzine che poggiò sul tavolo. Giulio maldestramente prese una sedia e per poco non la fece cadere, con l'evidente biasimo della madre.

Si sedettero l'uno accanto all'altro fissando imbarazzati la televisione.

Giulio interruppe il silenzio

<<Sta tanto male?>>

<<Si..>>

< >

< >

Giulio si chiese che aspetto potesse avere suo zio, non lo aveva mai visto se non in qualche vecchia foto che aveva trovato in casa, dentro ad un cassetto, un giorno che cercava della carta per fare un filtro. In una era ritratto insieme all'amica bionda della mamma; erano abbracciati e sorridenti e si guardavano negli occhi come innamorati. Sembrava si volessero molto bene. E in quel momento desiderò che qualche ragazza gli riservasse lo stesso sguardo che Angelica aveva avuto per lo zio.

Il cellulare di Roberta iniziò a suonare, dava un numero sconosciuto.

< >

[..]

< >

[..]

< >

[..]

< >

[..]

< >

[..]

<<Ti aspettiamo, a dopo, Ciao..>>

Fausto restituì il cellulare a Saverio senza chiudere la chiamata e si congedò, camminando in direzione della stazione.

Stava percorrendo un lungo viale alberato, quello che tagliava a metà il paese per tutta la sua lunghezza e terminava esattamente dirimpetto alla stazione, quando principiò a piovere. Quella piccola pioggerellina fine simile ad una nebbia leggera, sufficientemente fastidiosa da bagnare ed inumidire tutto ma non abbastanza per giustificare l'apertura dell'ombrello che Fausto, in ogni caso, non aveva con sé. Il cielo era grigio e basso, l'aria era umida e pesante. Si fermò di fronte ad un'edicola per leggere le prime pagine dei giornali e constatare che nulla era cambiato da quando aveva deciso di lasciare il mondo, guerre, fame, povertà, violenza, corruzione.

Il disprezzo per l'umanità l'aveva spinto all'isolamento, insieme ad un certo

istinto di sopravvivenza vista la sua peculiarità che lo aveva portato quasi al punto di morire.

Per ora nessun sintomo.

Nella solitudine sentiva solo il rumore dei suoi i ma osservava i anti con stupore e curiosità. Le mode erano cambiate ma non era quello a far sembrare le persone diverse da come le ricordava lui. Era un misto tra indifferenza, smarrimento e rassegnazione a colpirlo negli sguardi che incrociava.

Ma non c'era solo quello, per fortuna.

In alcuni si poteva scorgere la speranza, un barlume battagliero in un brivido di voglia di cambiare.

Erano pochi ma si vedevano bene. Erano luminescenze in una via oscura. Lucciole estinte in campo infinito e deserto.

Giunto in stazione si mise ad aspettare il treno seduto su di una panchina accanto ai binari. Il freddo era leggero e penetrante. Una giovane ragazza si mise al suo fianco. Aveva dei lunghi capelli castani lisci e lucidi. Profondi occhi scuri color nocciola e lineamenti delicati, accentuati da un trucco leggero. Avvolta in una sciarpa lanosa di color rosa, vi affondò il volto dentro fino a farvi scomparire la bocca carnosa. Indossava un giaccone nero di lana, jeans aderenti alle sue lunghe gambe affusolate ed un paio di stivali che arrivavano sopra la caviglia.

Ed era bellissima.

Si infilò un paio di cuffie e rimase a fissare davanti a sé, canticchiando

<<..don't forgive me..>>

Fausto sentì un improvviso bruciore sull'avambraccio destro. Era come se stesse andando a fuoco, insieme ad una sensazione sottile di dolore. Una lama che tagliava la pelle, separava la carne e arrivava in profondo. Si portò la mano sinistra al braccio e subito percepì una forte sensazione di calore. Guardò lo sguardo triste della ragazza, capì subito tutto, e senza esitare corse via verso i bagni della stazione.

Non era guarito.

Erano dei veri cessi.

Le peggiori latrine di tutta la Scozia, se fosse stato in Trainspotting. Incrostazioni ovunque, sporco, carte per terra, scritte, odore di piscio e di vomito. Entrò in quello apparentemente meno disastrato e si chiuse immediatamente la porta alle spalle. Sollevò lentamente la manica del maglione e scoprì un avambraccio deturpato e sanguinolento. La piaga purulenta lo copriva quasi completamente, aveva perso i peli e un taglio lo percorreva in tutta la sua lunghezza. Non usciva sangue in maniera copiosa, ma sufficiente per sporcare il vestito. Non aveva soldi con sé per comprarsi delle garze e comunque non aveva tempo per andare in una farmacia perché il treno sarebbe arrivato dopo poco.

Di usare la carta igienica dei bagni non se ne parlava nemmeno. Il vaiolo non era ancora stato debellata in quel luogo dimenticato dal sapone e c'era il rischio di non are nemmeno la mattinata prima di trovarsi sottoterra.

Si sfilò lo zaino e lo aprì.

L'unica cosa che poteva usare erano le pagine del libro che aveva portato con sé. “Il tamburo di latta”. Strappò la prima pagina, quella bianca con l'intestazione, e ci pulì la ferita. Poi ò alle pagine iniziali e ci avvolse il braccio facendo un bello strato. Le fermò con degli elastici trovati fortuitamente nello zaino. Non sapeva come mai li avesse, ma l'importante era che ci fossero. Riavvolse la manica ed uscì dal bagno senza pagare all'uscita, dileguandosi rapidamente e concedendo il tempo alla custode di lanciargli solo uno sguardo sdegnoso prima che lo perdesse di vista.

Ritornò sul binario stando molto lontano dalla ragazza.

L'arrivo del treno venne annunciato dopo cinque minuti. Quando lo vide arrivare non poté trattenere un moto di stupore: i treni erano ancora gli stessi di trent'anni prima!

E dire che già allora erano vecchi e malridotti!

La ragazza salì sul treno e Fausto dopo di lei, tenendo sempre una certa distanza. Per un attimo ebbe l'impressione di essere rientrato nei gabinetti della stazione dallo sporco che c'era. Si accomodò verso la fine dello scompartimento, Fausto si mise tre sedili più indietro. Il treno partì dopo una serie di scossoni tremolanti e incoraggianti quanto un invito a cena da Jack lo squartatore. Fausto era ateo

ma trattenne a stento un pensiero di raccomandarsi a dio per arrivare sano e salvo a destinazione. Accanto a lui non c'era nessuno. Aprì il libro menomato delle prime pagine e si immerse nella lettura. Lo guardò con vergogna ed imbarazzo e sperò che l'autore non venisse mai a saperlo.

Come se da qualche parte potesse averlo visto.

Era quasi un'ora che viaggiava quando finalmente, nel chiasso dello scompartimento, riuscì a distinguere la voce della ragazza. Stava parlando al telefono, incurante di tutti, la voce incrinata arrivava al suo orecchio come un sussurro.

<<.. perché mi manchi da morire..>>

[..]

<<..sto male senza di te.. io non volevo che finisse tra di noi.. tu non puoi capire quanto io stia soffrendo..>>

Fausto trovò le conferme che cercava.

Angelica, nella solitudine del negozio deserto, senza clienti, metteva in ordine i vestiti e ripensava al ato.

Aveva tradito Fausto.

Era andata a letto con un altro.

Provava ancora vergogna.

Non le era mai capitato di amare così tanto una persona e nonostante questo, lo aveva tradito. Era stato un momento di debolezza, lusingata dalle attenzioni di un ragazzo, complice l'alcol, l'intraprendenza di lui e forse la paura di non poter più fare altre esperienze, la voglia di essere trasgressiva per una volta, si lasciò andare.

E le conseguenze furono catastrofiche.

Gli errori si pagano sempre a caro prezzo e purtroppo fa parte dell'essere adulti assumersi le proprie responsabilità.

Lo evitò per alcuni giorni, non si sentiva di poterlo guardare negli occhi. Fino a quando non decise di parlargli di quello che era successo. Non voleva mentire, non voleva nascondere la verità. Sapeva che lo avrebbe perso, ma nel profondo sperava che potesse perdonarla, cullava un piccolo barlume di speranza.

L'illusione di chi si lancia da un grattacielo e crede che la caduta duri un'eternità e che mai si arriverà a toccare terra.

Era stata una cosa senza importanza, in un momento di smarrimento, stupido e temporaneo. Decise di affrontare finalmente il discorso, un Venerdì.

Era il 12, lo ricordava benissimo.

Fausto quel giorno non disse nulla. Non parlò. La sua sofferenza era palpabile, era come se gli avessero dilaniato il cuore. Si fece cupo e muto. Erano seduti sopra una panchina. Come era arrivato sorridendo, se ne andò in silenzio.

Non la volle più vedere e da quel giorno si chiuse sempre più in sé stesso.

Seppe del suo infarto alcuni giorni dopo.

Le notizie che riusciva ad avere le arrivavano da Roberta che aveva continuato ad essere sua amica. Le impedì di vedere Fausto e solo alcuni anni dopo venne a sapere quanto era accaduto. Qualcosa di poco chiaro in realtà, pare che dopo quel giorno Fausto cambiò, divenne schivo e tenebroso, introverso fino ad essere inavvicinabile. Indirettamente venne a sapere che dovette andare da psicologi e psichiatri per un disturbo inspiegabile ma di cui non riuscì a capire la natura. Pensò ad una forte depressione dovuta al suo tradimento ma pare che fosse qualcosa di più grave e incontrollabile.

Le venne da piangere al solo pensiero.

Non riuscì mai ad avere alcuna spiegazione e da quel Venerdì 12 non riuscì più a vederlo. Venne solo a sapere che se n'era andato. Roberta non le disse mai più nulla di suo fratello, era il tacito prezzo per la sua amicizia.

Iniziò a piovere.

Le persone che circolavano diminuirono e con esse anche le possibilità di vedere altri clienti. In una giornata in cui erano entrate appena tre persone, le prospettive erano lontanissime dall'essere anche solo vagamente incoraggianti per una vendita di qualunque entità.

Giulio era in stazione ad attendere lo zio.

Si era portato un cartoncino su cui aveva scritto a grossi caratteri “ZIO FAUSTO”, in modo da farsi riconoscere.

I anti appena scesi dal treno lo osservavano con una certa curiosità e sbigottimento.

La prima impressione era quella di vedere un tizio poco raccomandabile con una bestemmia scritta sopra un cartone, dettata dalla superficialità di lettura delle persone e dalla pessima grafia del ragazzo. Vedere uno squilibrato con un cartello delirante, tutto sommato, non sarebbe stata nemmeno una cosa poi così inusuale in una delle stazioni centrali più grandi del paese.

Ancora rintronato da quello che si era fumato, Giulio era inconsapevole di tutto questo.

Nulla poteva farlo vergognare agli occhi degli altri. Tranne forse le ragazze, quelle lo mettevano sempre in difficoltà, non c'era sbornia che reggesse il

confronto.

Un tizio alto e piazzato, una specie di barbone cencioso appena sceso dal treno si diresse verso di lui in maniera decisa e spedita e quando gli arrivò dirimpetto Giulio timidamente chiese

< >

Questi nemmeno lo ascoltò e iniziò ad inveirgli contro. Come si permetteva a presentarsi in un luogo pubblico con una bestemmia che potevano leggere anche i bambini? Ma chi gli aveva insegnato l'educazione? Drogato! Drogato! Incivile! Il signore lo avrebbe punito! Empio!

Giulio era piuttosto confuso e intontito, quindi subiva ivamente la rabbia di quell'uomo che, evidentemente, non era suo zio.

Un altro barbone cencioso, attirato dalle grida, si avvicinò e prese le difese del povero Giulio ormai annichilito, mandando via con decisione l'uomo che sbraitava. Dopodiché si volse verso di lui e gli disse con un sorriso appena accennato

< >

Giulio pensò di aver semplicemente sbagliato barbone cencioso e lo guardò con i

suoi occhi vacui.

Contemporaneamente una nuova fitta colpì Fausto al fianco sinistro. Sorda e lacerante. Dolorosa e fittissima. Cercò di dissimulare le smorfie di fronte al nipote con alcuni forzati sorrisi, mentre si allontanò leggermente dal ragazzo sperando che la sofferenza diminuisse. Non accennando a scemare, con una scusa si fece accompagnare in bagno per cercare di coprire la nuova piaga con altre pagine di libro. Quella sul braccio stava già migliorando, mentre quella sul fianco era tumefatta e pulsante. Rossa e piena di grumi di sangue. Partiva dalla gamba ad altezza inguine e saliva in obliquo sul fianco fino alla schiena, in prossimità dell'ascella.

Cosa mai poteva avere suo nipote?

Roberta era nel silenzio della cucina.

Aveva spento la televisione e guardava il tavolo, immersa nei suoi pensieri.

Solo il respiro pesante di sua madre proveniva dalla camera da letto. In un certo senso la faceva sentire meno sola. Quel rumore le scrollava dalle spalle il senso di solitudine e di fallimento. Sua madre stava per morire. L'unica presenza positiva, il pilastro della sua esistenza stava per venire a mancare e non credeva sarebbe stata in grado di reggersi più da sola. Non sapeva comunicare con suo figlio, suo fratello era lontano, il suo matrimonio era fallito e ora questo.

Le mancava l'aria dai polmoni e non sapeva come avrebbe reagito al lutto.

Sentì la porta aprirsi, e vide entrare Giulio insieme a Fausto. Nonostante l'apparenza non era cambiato. Quando la vide le sorrise e le si avvicinò per abbracciarla. Roberta lo strinse a sé commossa e con le lacrime agli occhi.

Fausto in quel momento sentì le braccia della sorella farsi improvvisamente incandescenti. Sentì la sua pelle friggere sotto le dita di Roberta. Non volle allontanarla perché capì quanto lei ne avesse bisogno e sopportò in silenzio. Sulla sua pelle iniziarono ad aprirsi ferite profonde, si rattrappiva e si rigirava, ricoprendosi di pustole e bolle come un fuoco di Sant'Antonio, mentre lievi fiotti di sangue iniziavano ad uscire.

Roberta lo strinse ancora più forte a sé da tanto era il bisogno che aveva di essere consolata. Lo allontanò solo quando si rese conto delle conseguenze che aveva il suo abbraccio su Fausto.

< >

Disse Giulio improvvisamente, inorridendo di fronte alle macchie di sangue sul vestito.

Roberta lo guardò mortificata ma non ebbe il tempo di parlare che Fausto dolcemente le disse

<<Shhhhh... non ti preoccupare. Mi ha fatto piacere e non è successo nulla. Ora andiamo in bagno e dammi una mano a medicarmi. Prendi delle bende per favore..>>

In bagno, mentre lo aiutava a medicarsi e avvolgere le piaghe nelle bende, rimanendo pur sempre ad una certa distanza, gli disse

< >

< >

Disse ironico lui

<<Stare nella stessa stanza con mamma cosa ti può fare?>>

< >

Le disse mentre si sciacquava le mani nel lavandino.

< >

< >

E le mostrò l'avambraccio per poi ritornare a lavarsi le mani

<<..in compenso sono riuscito a venire fin qui senza soldi, senza biglietto e senza incontrare nemmeno un controllore..>>

< >

Asserì lei.

< >

Le disse lui con affetto. E aggiunse

< >

Quando entrò la donna stava sognando mentre un pacifico sorriso le disegnava il volto. Fausto ebbe un fremito temendo che fosse morta. Le si avvicinò ma si accorse che ancora respirava. Si sedette a lato del letto e rimase ad osservarla. Era tanto che non la vedeva e decise di trascorrere del tempo con lei senza muoversi da lì, in silenzio. Sua sorella e suo nipote lo avevano lasciato da solo. Percepiva in sua madre serenità. Il senso di spossatezza gli veniva dal clima lugubre e funereo della casa. Del resto il presagio di quello che sarebbe accaduto era piuttosto palpabile, altrimenti non lo avrebbero richiamato per tornare al suo capezzale.

Si sentì sfinito, stanco e debilitato, tanta fatica, tante emozioni e tanto dolore per quel giorno.

Le ferite pulsavano.

Finì per addormentarsi a fianco di sua madre.

Giulio decise di uscire di casa.

Era piuttosto turbato dall'arrivo dello zio. Un uomo con un fare tenebroso ma ironico, sembrava sofferente e probabilmente era molto malato.

Giulio non aveva bisogno di altri carichi, ne aveva già abbastanza di suoi.

A scuola stava andando male, i professori lo trattavano come un povero coglione, incrementando la convinzione di esserlo che già coltivava da solo nell'intimo dei suoi pensieri e le canne lo stavano rimbambendo, ma almeno con quelle la realtà sembrava più morbida.

Aveva una gran voglia di fumare una sigaretta e prendersi una bella sbronza, forse era il caso di raggiungere gli altri.

L'ultima sera in cui si era ubriacato era finita con una bella dormita tra i bidoni dell'immondizia. In prossimità del coma etilico qualcuno gli aveva pure preso il portafogli. I suoi amici lo avevano lasciato lì da solo quindi non aveva idea di cosa fosse successo. In compenso l'aneddoto gli aveva fatto scalare la classifica di popolarità nel liceo. Ora aveva la fama di sbandato. O derelitto. Quella che piace tanto alle ragazze. Quando lo facevano gli altri sembrava che la cosa

avesse molta presa, tutti riuscivano ad andare con qualche tipa.

A lui non andava mai bene. Non riusciva a concludere.

Si sentiva sempre in imbarazzo con loro. Sapeva di non essere poi così stupido, ma ogni volta che aveva la possibilità di parlare veniva prevaricato da qualcun altro più intrepido oppure, stritolato dalla timidezza e finiva per dire qualche cazzata e fare la figura del focomelico. Si sentiva fuori luogo ovunque e non riusciva a farsi notare. E dio solo sa quanto avrebbe voluto uno sguardo di Carlotta. Uno solo sarebbe bastato per farlo sentire in cima al mondo.

Quando durante le lezioni qualche professoressa lasciava la porta aperta della classe, Giulio rimaneva con gli occhi incollato sul corridoio sperando di vederla are, sperando che almeno gli sorridesse, che lo notasse. Durante l'intervallo la seguiva da lontano, dissimulando tutto. Anzi, si metteva impettito nel cortile a fumare in una qualche ridicola posa grunge per sembrare sicuro di sé.

Carlotta invece era una ragazza realmente molto sicura di sé, lunghi capelli castani, lineamenti dolci ed un corpo atletico e formoso. Indossava spesso jeans e maglioni attillati girocollo che le facevano risaltare la pancia piatta e il morbido seno. Sorrideva sempre anche se, quando eggiava da sola per tornare a casa, assumeva spesso un'espressione assorta. Giulio lo aveva notato incrociandola mentre lui era sull'autobus.

Spesso la sognava.

O fantasticava ad occhi aperti di come poteva cominciare qualcosa tra loro.

Aveva persino scritto una paginetta pensando a lei, l'aveva chiamata “Sogno”. Recitava questo:

“Ti vedo con altri ragazzi senza rispetto per la tua persona, ti umiliano, si prendono gioco di te. Io ti sono accanto.

Solo tempo dopo mi confidi che non avresti voluto farti vedere da me in quelle circostanze. Reclini lo sguardo ferita dal ricordo. Non sapevamo chi fossimo ma già ci conoscevamo perfettamente.

Mi perdo nei tuoi occhi e finalmente sento quello che cercavo da una vita. In quel preciso istante capisco quello che voglio. Avvicino le labbra al tuo orecchio e le mie parole sono solo per chiederti se ti va di darmi un poco del tuo tempo per stare insieme a me.

Questa sera o quando vuoi, mi piaci.

Il tuo si è l'arcobaleno che colora la mia vita. Le ore d'attesa paiono secoli. Trascorro il tempo pensando a te, al momento in cui ti vedrò, alla mia voglia di abbracciarti e di baciarti. Mi immagino l'istante in cui ti vedrò venire verso di me; sorridente e meravigliosa come sei. Ti sento già tra le mie braccia, sento l'odore dei tuoi capelli e il calore della tua pelle sotto la mia. Sono trepidante ed euforico anche se il tempo non a mai. Immagino e vivo ogni istante del nostro incontro centinaia di volte. Finalmente saremo io e te. Finalmente posso cominciare ad amare.

Il tempo clemente dopo millenni termina la mia attesa tramutando l'azzurro in crepuscolo. Sei di fronte a me, sei l'anima del mio cuore, la linfa del mio spirito. Ci stringiamo e ci teniamo per mano. Sto volando sopra ogni cosa perché da questo momento tutto è talmente piccolo da non darmi problemi, ci sei tu con me. Ci sediamo e io ti scosto i capelli per baciarti la fronte.

Mi sveglio. Mi sveglio. Sono sveglio. Mi sono svegliato. Capisco che nella mia vita manca qualcuno. Solo. Di nuovo solo.

Manchi tu, Carlotta.”

L'aveva scritta sopra un foglio svolazzante finito nel cassetto della sua scrivania. Ogni tanto se lo rileggeva con nostalgia.

Non c'era nulla di grunge in tutto questo.

Ma anche quello era lui.

Camminando giunse al solito ritrovo della compagnia. Gli amici avevano già cominciato a rollare.

Si prospettava una giornata impegnativa.

Obiettivo: fondersi.

All'improvviso una carezza tra i capelli.

Fausto aprì gli occhi e si svegliò. La mano era quella di sua madre che lo guardava sorridendo.

Gli disse solo

<<Sei tornato? Sei sempre il mio bambino.>>

Sorrise ancora di più e poi spirò reclinando la testa di lato.

Fausto non poté fare altro che piangere.

Rimase ospite dalla sorella e i giorni successivi alla morte della madre si incentrarono sull'organizzazione delle esequie.

Il funerale fu una vera tortura.

Al lutto si aggiungeva la sofferenza fisica. Ormai tutto il busto era ricoperto di piaghe doloranti e purulente. A breve si sarebbero diffuse anche agli arti inferiori. Sopportò tutto senza far trapelare nulla. Sotto il vestito era ormai per metà avvolto da garze e imbrattato da creme per ritardare la necrosi. Il dolore era acuto ma Fausto era forte. Trovarsi riunito con tutte quelle persone, in quella

specifica situazione, poteva essere letale per lui. Invece riuscì a resistere senza fiatare.

Sentiva le piaghe diffondersi sempre più, scorticandogli la pelle, ma non se ne andò fino alla tumulazione della madre. Spesso meno della metà delle persone soffre realmente tanto quanto fa vedere in occasioni come funerali. Capita di vedere gente inondata di lacrime, disperata a livelli delle care prefiche, ma che in realtà mentalmente si chiede “Quando finisce questo strazio? Devo andare a casa a guardare la Tv!”. Per contro, ci sono persone chiuse in mutismo granitico, che sforzano sorrisi di circostanza, la cui sofferenza e il senso di lutto sono indicibili.

Cercò di salvaguardare se stesso rimanendo defilato rispetto al folto del gruppo di commemorazione. Non molto lontano da lui, un altro uomo sembrava nascondersi dietro ad una cappella. Stava fermo ad osservare il funerale. Non diede molto peso alla cosa e quello non sembrò nemmeno vederlo.

Fausto rimase a guardare mentre il prete pronunciava le solite parole di circostanza, la corona di fiori, i capi chini e la giornata di nebbia umida; tutto si fissava nella sua mente. Sentì la commozione farsi strada lungo la gola, tra le labbra per salire fin sopra gli occhi, dove le lacrime volevano uscire. Ma si tenne tutto dentro. E poi un ricordo. Quando era piccolo, ogni volta che piangeva perché il padre lo sgridava, perché litigava con gli altri ragazzini, o quando qualcosa gli andava storto, sua madre gli dava una caramella che faceva uscire dalla tasca del suo inseparabile grembiule. Qualche volta aveva provato a frugare nel grembiule quando lei non lo aveva, ma non aveva mai trovato nulla e aveva finito per convincersi che fosse una magia della mamma.

Ancora adesso non aveva scoperto come fe.

Dopo la caramella gli dava una carezza sulla testa che faceva scorrere fin sotto la guancia e diceva sorridendo

< >

E non aggiungeva niente. Non c'è bisogno di grandi frasi d'effetto, di parole roboanti e stupefacenti. A volte basta dire una cosa semplice, banale forse, accompagnata da un sorriso sincero. E tutto a veramente.

Si mise le mani in tasca.

Trovò una caramella.

Sorrise e nulla più.

Giulio era strafatto come al solito.

La morte della nonna aveva condotto i suoi pensieri lungo meandri oscuri e il miglior sedativo non poteva che essere una bella dose di canne mista ad una bella bottiglia di birra. Poco importa che fossero appena le otto del mattino. Il funerale lo giustificava a fare pazzie. In realtà era la quotidianità, ma in qualche modo bisogna sempre trovare dei pretesti ragionevoli per quello che si fa. In fin dei conti quel giorno c'era assemblea cinematografica e si sa che certe sostanze predispongono alla sensibilità e all'estro. I grandi artisti non hanno sempre fatto così? Baudelaire non era sempre ubriaco? Che poi chissà perché chi si vuole darsi un tono poetico scomoda sempre Baudelaire. O Hemingway se si parla di

prosa.

Anche Faulkner e Chandler erano alcolizzati ma nessuno dice mai che vorrebbe essere come loro.

Sentiva nostalgia di quella donna, che non aveva mai conosciuto poi così bene, e della cui presenza ora si sentiva amputato. Aveva sprecato tempo che avrebbe potuto usare per stare con lei. Più che altro si sentì parecchio turbato all'idea della morte e del trascorre della vita. Gli pareva che tutto procedesse lento, ma l'intuizione che la rapidità degli eventi fosse inevitabile si fece manifesta nella sua testa. Tutto si muoveva in realtà con una velocità sconcertante, la vita, la scuola, le ragazze, il lavoro; e in men che non si dica si sarebbe ritrovato vecchio, con la panza seduto davanti alla televisione con il telecomando in mano, con ricordi in tasca e con la sensazione di aver sprecato tempo prezioso senza avere concluso un cazzo di nulla.

Dio, che tristezza.

Forse era per anestetizzare questa immagine che si sfondava di canne.

Non voleva diventare una larva.

Essere adulti era spaventoso.

Ma nemmeno adolescenti era una eggiata.

Quella mattina li avrebbero fatti uscire dalla classe alle nove e poi li avrebbero portati al Cinema Cristallo per l'assemblea cinematografica. Il nome del cinema non era incoraggiante visto che è il classico usato dai cinema porno. Mai sentiti cinema porno con nomi diversi. A dire il vero nemmeno la scelta del film era delle migliori, la pletora intrisa di cattolicesimo che comandava la scuola aveva spinto per l'ennesima trasposizione cinematografica della vita di Cristo. Giulio aveva già letto alcune recensione in cui veniva descritta come una fantozziana cagata pazzesca, ma nel vero senso del termine, ma era osannata dalla comunità religiosa perché “metteva in evidenza la crudele sofferenza a cui era stato sottoposto Gesù Cristo nostro salvatore dell'umanità” che, per le persone di buon senso, andava tradotto in “una crudele e inutile spettacolarizzazione sanguinolenta delle sofferenze di un pover'uomo.” La gente usciva sconvolta dalla visione e i più labili mentalmente sostenevano di aver ritrovato la fede in deliranti turbe mistico religiose, perché quel film ti toccava nel profondo. I

l che la dice lunga su quanto ormai siamo capaci a sentirci toccati dalla sofferenza piuttosto che dai buoni sentimenti e dalle buone intenzioni.

Quello che ai più sfuggiva, evidentemente, era la totale mancanza di quello che era il messaggio positivo di Gesù, sempre che ce ne fosse ancora uno.

In sostanza era una specie di film horror mascherato da opera pia con la scusante del realismo. Quasi come prendere a calci nei coglioni una persona e ripetergli “lo faccio per il tuo bene: ciò che non uccide rafforza!”.

La visione non si rivelò ovviamente diversa dalle aspettative.

Visi attoniti si guardavano in giro smarriti come se avessero visioni, come se l'intuizione di un nuovo piano esistenziale avesse fatto breccia nelle loro anime vuote e senza principi. Anche le persone più disinteressate, quelle che di solito

fanno battute idiote ad alta voce durante le proiezioni al cinema, e che i cinefili vorrebbero lapidare immediatamente, erano ridotte al silenzio dalla truculenza di quello spettacolo.

Forse almeno questa era una riconoscibile nota positiva: finalmente un film in grado di zittire anche quei maledetti corvacci del cinema.

Giulio aveva la nausea per quella violenza, per quel senso di morte che già aveva dovuto affrontare il giorno prima con il funerale della nonna. In compenso viveva quel momento con uno stato di disinteresse e distacco per il mondo, che gli permise per una volta di essere veramente sé stesso senza impostazioni e personaggi e così nella discussione post-film con i suoi compagni all'uscita del cinema si impose nell'esternare per la prima volta la sua opinione.

Accanto a sé sentiva un insieme di voci tutte uguali

<<Ti è piaciuto?>>

<<Stupendo. Ti fa veramente capire un sacco di cose..>>

<<Sconvolgente, ma vero..>>

< >

< >

< >

< >

< >

E fu in quel vociare che Giulio esasperato decise di inserirsi con un

< >

Secco, semplice, coinciso.

Seguirono i primi blandi commenti tipici di chi pensa di essere superiore

< >

A cui non si poteva che ribattere con

<
nessun messaggio di alcun tipo..>>

Ma chi pensa di saperla lunga non si arrende mai.

< >

Classica frase da far imbestialire un cinefilo o aspirante tale.

< >

A cui viene contrapposta l'estrema difesa di chi, oggettivamente, non capisce nulla.

< >

Rinuncio. E' inutile.

Pensò Giulio in un misto di rabbia e rassegnazione.

Avrebbe voluto sottolineare innanzitutto quanti e quali film avesse visto il suo compagno e in che modo il fatto che fosse piaciuto a tutti lo rendesse di conseguenza un'opera di valore. Da qualche parte aveva letto “Mangiate merda. Milioni di mosche non possono essersi tutte sbagliate.” (9 - NOTE) E sarebbe stata la risposta ideale per quello scemo, ma in quel momento non gli venne in mente e nemmeno si sentiva dell'umore di litigare quindi lasciò stare.

Si allontanò dal gruppo, con le mani in tasca, la cartella sulle spalle, eggiando da solo, distante da tutti, immerso nei suoi pensieri.

<<Sono d'accordo con te..>>

Si sentì dire da una voce che gli giunse a fianco.

<<Era veramente un film orrendo.>>

Proseguì la voce prima che lui potesse girarsi.

Era Carlotta.

Solitamente avrebbe bofonchiato qualcosa di stupido, stritolato dall'imbarazzo. Quel giorno invece, complici gli ultimi avvenimenti, era troppo turbato per riuscire a vergognarsi di sé stesso. Era questo il suo problema. Si vergognava di ciò che era. Era questo suo nascondersi a renderlo impacciato.

La guardò con indifferenza e rispose sorridendo

< >

< >

Fu così che cominciarono a parlare di cinema, di libri, di musica e di tutte le cose che gli piacevano. Si ritrovarono a camminare insieme lungo il viale, fianco a fianco. Senza mai smettere di parlare. E fu da questa conversazione che Giulio trovò il pretesto per invitarla a vedere un film in casa sua nel pomeriggio.

E non fu il fatto che avesse avuto il coraggio di farle questa richiesta la cosa eclatante, quanto che lei accettò.

Fausto e Roberta erano seduti a tavola per il pranzo.

Lui aveva la faccia di chi è pesantemente debilitato dalla vita, lei di chi la vita deve ancora viverla. Avevano cucinato insieme senza troppa fantasia, pasta alla norma e scaloppine. Aspettavano Giulio insieme, discorrendo del più e del

meno.

Roberta reclinò la testa e fissò il piatto vuoto giocherellando con una forchetta. Stava pensando se fosse il caso di parlare. Aveva un pensiero che le girava per la testa. Poi lo disse

<<Sai, mi ha chiamato Angelica.. mi ha chiesto di te..>>

Fausto rimase in silenzio.

< >

Fausto divenne tenebroso e cupo. Il volto gli si fece scuro ma non poté dire nulla perché in quel momento entrò Giulio. Aveva una strana espressione in volto, diversa dal broncio che portava di solito, sembrava contento.

Si misero tutti a mangiare in silenzio, ognuno sprofondato in sé stesso.

A fine pasto Roberta se ne andò per riposarsi.

Fausto e Giulio rimasero da soli insieme.

Entrambi guardavano la tazzina del caffè. Fu il ragazzo a rompere il silenzio.

< >

Fausto annuì senza parlare.

< >

Lo zio sorrise. Poi iniziò a parlare

<<Se ha accettato può essere che le interessi. La risposta è banale. Devi essere te stesso, è un lusso che ti puoi concedere solo ora. Non serve piacere a tutti i costi alle persone. La spontaneità e la naturalezza colpiscono più di qualunque frase d'effetto. O almeno, dipende a chi ti vuoi rivolgere.>>

Giulio non sembrò molto convinto e aggiunse con una certa rassegnazione

< >

Fausto proseguì

<
alla fine dei tuoi giorni e forse è il caso che inizi ad andarci d'accordo, non credi? >>

Giulio guardò lo zio perplesso. Chi cazzo gli aveva detto di come si sentiva lui?

Lo zio proseguì

< >

Giulio si sentiva turbato. E anche piuttosto sotto pressione. Tra poco sarebbe arrivata Carlotta e già si sentiva lo stomaco stritolato in una morsa. Gli sembrava di sentire il suo profumo. Lo aveva avuto sotto il naso per tutta la mattina mentre parlavano di cinema e ora era convinto che avesse inondato la stanza, all'improvviso.

Decise di cambiare discorso

< >

Fausto si incupì un attimo e poi sorrise.

< >

<<E lei dov'è?>>

Incalzò Giulio.

< >

Ammise senza ulteriori domande

<<E' morta...?>>

Chiese Giulio un attimo perplesso e mortificato per aver tirato fuori il discorso

<<Ma no! Ci siamo lasciati tanti anni fa.. Cioè, l'ho lasciata..>>

<<...e la ami ancora?! …. dopo tutto questo tempo?>>

Disse Giulio sottolineando con enfasi questa sua affermazione con un tono tra il sarcastico e il basito. Quello che avrebbe voluto realmente dire era “Che minchia stai ancora qui a fare allora?”

Lo zio proseguì

< >

Giulio si fece un attimo pensieroso e poi gli disse

< >

<<Mi ha tradito con un altro uomo.>>

Chiosò Fausto

< >

<<Si.>>

< >

Disse sardonico.

Carlotta era puntualissima.

E irrimediabilmente stupenda.

Quando Giulio aprì la porta venne letteralmente travolto dal suo profumo dolce e penetrante che andò incontro alle sue narici carezzando i suoi sensi e risvegliando anche il suo basso ventre. I suoi lineamenti sottili e levigati declinavano dolcemente sul suo sguardo, profondo e nero; i capelli le coprivano il lato destro del volto mentre la sua pelle risplendeva sotto la luce dell'ingresso.

Si salutarono e dopo i convenevoli si misero sul divano a guardare un vecchio film in bianco e nero.

Erano da soli in casa.

Mamma e lo zio erano usciti insieme prima che arrivasse Carlotta e non sarebbero arrivati prima della sera tardi. Giulio sentiva una certa pressione ma non era agitato. Moriva dalla voglia di abbracciarla ma non poteva fare altro che starsene sprofondato nel suo angolo di divano, fantasticando su come avrebbe potuto proseguire quel pomeriggio. Lei si sarebbe avvicinata, gli avrebbe poggiato la testa sul torace e lo avrebbe abbracciato con la scusa del freddo, coprendosi con la copertina; si sarebbero girati l'uno verso l'altra nello stesso momento, entrambi sensibili a quella sorta di elettricità palpabile di intesa che possiedono solo gli innamorati; le loro labbra sarebbero state a pochi centimetri di distanza, si sarebbero guardati negli occhi, ebbri di quella scossa che li faceva fremere alterando il respiro e facendoli sentire in equilibrio sopra un baratro. Entrambi avrebbero guardato le labbra dell'altro e poi uno dei due avrebbe rotto gli indugi.

Giulio fantasticava e non capiva niente del film.

Era immerso nella visione di un film molto più bello e in tutti i possibili risvolti che lo avrebbero portato a baciare Carlotta. Tutti uguali tra di loro. In uno cambiava una posizione della mano, in uno quella del corpo; ma per lui erano tutti emozionanti. Era ancora demoralizzato da quanto successo alla nonna, però la cosa aveva generato un semplice ottundimento dei sensi, un rallentamento del pensieri ed un distacco dalla realtà a cui Carlotta lo aveva riportato.

Nelle persone possono convivere contemporaneamente sentimenti a volte contrastanti. Non vengono cancellati, semplicemente si pone momentaneamente sotto l'attenzione qualcos'altro.

Giulio soffriva per la nonna, ma in quel momento non poteva fare a meno di essere pienamente dentro a quanto stava vivendo.

Carlotta si sistemò per sedersi meglio sul divano e gli sfiorò un fianco. Esternamente non si mosse nemmeno. Dentro invece, sentiva una specie di tempesta che lo sballottava agli angoli del suo corpo. Un naufrago alla deriva in un mare di schiuma e di onde altissime. Si sentiva leggero. Bastava un tocco di quella ragazza per scatenare cataclismi interiori. Quello che veramente lo smuoveva era lo stacco esistente tra la tensione che lo spingeva verso di lei e quello che in realtà riusciva a fare: assolutamente niente.

Una maschera di cera.

Un manichino imbellettato.

Assumeva sempre la sua ormai storica espressione da pesce lesso mentre interiormente era tormentato da una serie di sensazioni stupende ma difficili. Sentiva il profumo di Carlotta che riempiva tutta la stanza, che impregnava i mobili, i tessuti, i fiori, la sua anima. Avrebbe sentito quel profumo per diversi giorni anche quando lei se ne sarebbe andata e sapeva già che gli avrebbe impedito di dormire. Avrebbe sognato quel momento nel sonno e nella veglia, rivivendo ogni singola movenza, espressione, sguardo, accompagnato con la stessa sensazione di stritolamento viscerale che gli attorcigliava l'esofago e gli faceva sentire i polmoni come se dovessero esplodere.

Carlotta poco per volta si spostò, andando più vicina a Giulio. Si sistemava, cambiava posizione ed incombeva accanto a Giulio che, dal canto suo, era rigido come una statua. Sentiva una tensione palpabile, di quelle ricambiate, ma aveva il terrore a buttarsi.

Il film proseguiva e Giulio non riusciva a seguire.

Doveva solo sperare che non gli chiedesse niente.

Carlotta, ormai vicinissima a Giulio, si lasciò andare leggermente e con molta naturalezza appoggiò la testa sulla spalla del ragazzo e una mano sul suo addome.

Le reazioni furono molteplici.

Mentalmente era ormai completamente perso e non era in grado di sincronizzare i pensieri con la lingua, il senso di espansione al torace lo stava portando quasi ad esplodere. Ovviamente anche qualcosa nel basso ventre si stava muovendo e lo stava mettendo in imbarazzo. Cercò di cambiare posizione delle gambe in modo da nascondere l'erezione che stava avendo, pregando iddio che lei non capitasse per sbaglio da quelle parti.

Con la scusa di mettersi più comodo l'abbracciò a sua volta e, già che c'era, si mise un cuscino sulla pancia sostenendo di farlo per il freddo, in realtà cercava di nascondere la sua eccitazione. Lei si rimise nella stessa posizione e, ogni tanto, sottolineava la sua presenza con movimenti appena accennati che avevano l'effetto di un terremoto in lui.

Quando il film finì rimasero ancora alcuni minuti abbracciati a guardare i titoli di coda senza muoversi. Lei era appoggiata a lui e respirava lentamente.

Giulio invece era in apnea.

Non gli arrivava aria nei polmoni e sangue al cervello. Al contrario da altre parti il sangue arrivava a fiumi. La osservava in attesa del momento in cui avrebbe girato il volto verso di lui e lo avrebbe guardato negli occhi.

Solo allora si sarebbe sporto verso di lei e l'avrebbe baciata.

Era tutto in subbuglio e in attesa di quel preciso momento, quando suonò il cellulare di Carlotta.

NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!

Pensò Giulio, insieme ad una serie di bestemmie irripetibili, mentre vedeva il momento propizio sfumargli davanti come niente.

Non poté fare a meno di farsi prendere dallo sconforto.

Poteva andare peggio di così?

Il cellulare intanto suonava insistentemente e Carlotta era andata a recuperarlo nella sua giacca che Giulio aveva portato nella camera da letto, visto che l'attaccapanni era pieno della roba di suo zio.

Sentì Carlotta parlottare e quando capì che aveva chiuso la telefonata, senza muoversi dal divano, le gridò

< >

E lei rispose gridando a sua volta

<<Si, è solo mia madre. Vuole che torni a casa! Mi vesto e poi vado..>>

Si, poteva andare ancora peggio.

Aveva perso un'occasione e non ne avrebbe avuta un'altra. Era troppo deluso dalla cosa per rendersi conto di quanto fosse stupido che si urlassero da una stanza all'altra. Avrebbe potuto andare dall'altra parte e fare un ultimo tentativo ma il momento era sfumato. Realizzò dopo alcuni minuti che Carlotta si stava attardando a tornare dalla sua camera.

Si alzò e andò a vedere.

La trovò con in mano il foglio che aveva scritto su di lei. Oddio, pensò, doveva averlo dimenticato fuori.

Non solo le cose potevano andare peggio, ma evidentemente il limite del peggio era solo un concetto astratto, un piccolo orizzonte lontano lontano.

Era al culmine dell'imbarazzato e non sapeva come districarsi. Ci mancava solo che si accorgesse anche della sua persistente erezione e poi avrebbe solo voluto sparire dalla faccia della terra. Cosa si può dire ad una persona che legge i tuoi pensieri più intimi? E per giunta rivolti a lei?

Carlotta lo guardò e disse solo

<<Scusami.. l'ho trovato fuori e ho intravisto il mio nome.. non volevo leggere..>>

Giulio optò per un dignitoso e imbarazzato silenzio. Carlotta proseguì con tono

leggermente ironico

< >

Giulio abbassò lo sguardo imbarazzato. Avrebbe voluto sprofondare a terra.

Si sentiva un vero coglione.

<<...ma il resto è comunque la cosa più carina che qualcuno mi abbia mai detto..>>

E lo baciò.

Roberta e Fausto erano insieme in un bar del centro.

Roberta aveva capito dall'atteggiamento nervoso del figlio che continuava a chiedere “quando uscite?” e “quanto state fuori?” che probabilmente si doveva vedere con qualche ragazza, quindi decise di lasciargli un po' di tempo per stare da soli, al massimo lo avrebbe chiamato con una scusa per fargli sapere che stava per tornare. Aveva un modo tutto diverso di comportarsi quando il motivo era una ragazza, lui non se ne rendeva conto, ma era evidente e questa cosa la faceva sorridere.

Si sedettero ad un tavolo vicino alla vetrina, da cui erano potevano vedere la

strada, e all'arrivo del cameriere ordinarono.

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Disse Fausto comato

<<..voglio essere a casa in serata, sarebbe il quinto giorno e rischio che succeda qualche casino..>>

Roberta lo guardò senza espressione, poi fissò un enorme quadro coloratissimo dietro il bancone del bar.

< >

< >

Disse lui con un cenno d'intesa e un vago sorriso malinconico.

Roberta annuì senza dire nulla.

Fausto sentiva la pelle tirare sotto i bendaggi e decise di ritirarsi un attimo in

bagno per andare a vedere lo stato delle sue ferite e, nel mentre, liberarsi la vescica. Si alzò e ando accanto ad un uomo seduto da solo ad un tavolino percepì un dolore acuto alla gamba.

Fortuna che aveva con sé altre garze.

Roberta era rimasta da sola al tavolo.

Il cameriere aveva portato le ordinazioni e lei stava giocando con una bustina dello zucchero quando un uomo si sedette al suo tavolo. Alzò lo sguardo e sgranò gli occhi con terrore.

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Le disse guardandola in maniera torva e minacciosa. Lei lo riconobbe e si guardò in giro smarrita alla ricerca di qualcuno che la potesse aiutare. Cercò di temporeggiare e aspettare che suo fratello tornasse, nella speranza che non ci mettesse molto.

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<<Ti ho vista ando in strada e ho pensato di fermarmi a salutarti. Come stai? >>

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<<E' mio fratello..>>

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<<Mi hai sempre raccontato un sacco di balle.. al funerale non l'ho visto.. >>

< >

Fausto era in bagno a medicarsi.

Aveva ormai finito di ricoprire tutte le sue ferite, quando sotto le bende le fitte si fecero molto forti e intense. Il dolore lo fece rantolare a terra sul pavimento, rannicchiato in sé stesso. Lo colpì in tutto il corpo. Era insopportabile e sentiva che gli stava contorcendo le ossa. La pelle era ormai quasi tutta in stato di necrosi. Il volto e le mani erano sempre risparmiati, il resto era deturpato e devastato. Sentiva i conati salirgli dal profondo del suo stomaco, smosso da uragani di acidi mentre le interiora si stringevano contorcendosi in spasmi atroci.

Era a terra, in ginocchio sulle piastrelle arancioni del bagno, tenendosi il ventre con entrambe le mani mentre digrignava i denti e strizzava gli occhi fino alle lacrime.

Da dove veniva? Che origine aveva? si chiese, quasi sul punto di svenire.

< >

Disse lui mentre Roberta era sul punto di piangere.

<<...e non permetterò a nessun altro di averti..>>

Disse estraendo un coltello e avventandosi su di lei. Roberta riuscì a scansare l'attacco dell'uomo buttandosi di lato e cadendo a terra, facendo scivolare la sedia sul pavimento. Il primo fendente andò a vuoto e l'uomo rimase appoggiato al tavolo. Subito si spostò verso di lei per salirle addosso. Gli avventori del bar erano attoniti e non avevano avuto nemmeno il tempo per capire cosa stesse succedendo.

<<Stronza!!>>

Sibilò mentre il suo braccio calava rapido sulla sfortunata donna.

Prima che il colpo potesse raggiungerla l'aggressore fu preso alle spalle e fatto balzare all'indietro.

Fausto lo aveva preso e allontanato dalla sorella. L'uomo ora era steso sul pavimento ma si rialzò immediatamente dirigendosi verso di lui brandendo il coltello. Riuscì a fermargli il braccio e a disarmarlo facendogli sbattere ripetutamente la mano contro il muro. Allontanò il coltello caduto sul pavimento con un calcio e poi strinse il collo dell'uomo sollevandolo da terra e inchiodandolo al muro. Lo stava strangolando con forza mentre l'altro cercava di liberarsi dalla presa, paonazzo in volto e con gli occhi rossi e con i capillari pronti ad esplodere.

I palmi di Fausto iniziarono a fumare come se li avesse messi sopra una piastra incandescente.

Roberta era paralizzata e incapace di intervenire. L'uomo era evidentemente sul punto di perdere i sensi mentre sbavava dalla bocca. L'espressione di Fausto era colma d'ira e di determinazione, fuori controllo. Le sue mani stavano stringendo in una morsa il collo dell'uomo, avrebbe potuto spezzarglielo, ma si fermò.

Lasciò la presa.

L'uomo cadde a terra tirando un lungo respiro stentato, seguito da altri brevi e rapidi. Fausto andò dalla sorella per accertarsi che stesse bene.

La abbracciò e le chiese

< >

Roberta lasciò finalmente andare le lacrime e strinse a sé forte il fratello, sentendosi ormai al sicuro.

Singhiozzò e disse

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Nel frattempo il contatto tra loro stava accentuando ulteriormente la sofferenza di Fausto, che sopportava in silenzio, mentre le sue carni friggevano come se fosse stato messo a rosolare sopra di un braciere.

Appena si riebbe, Roberta aggiunse

< >

< >

Disse Fausto stringendola a sé.

Giulio era coricato sul divano.

Da solo.

Carlotta era andata via.

Guardava il soffitto e ancora non poteva credere a quanto era appena accaduto.

Lo aveva baciato.

Era stata una cosa meravigliosa. Per un attimo era come se la sua anima si fosse staccata dal corpo per guardare tutto da fuori. Si sentiva leggero. Non era più con lui e già non vedeva l'ora di rivederla. L'aveva lasciata andare con rammarico, avrebbe voluto trattenerla ancora e prendersi ancora un poco della morbidezza di quelle labbra e della luce di quel sorriso. Lei aveva voluto tenere la pagina e gli aveva detto che si sarebbero sentiti in serata. Non vedeva l'ora. Gli mandò subito dopo essere uscita da casa sua un messaggio con scritto solo “Mi piaci.. sei tanto carino.. :)” e lui gongolò felice per il resto della giornata con un sorriso ebete nel cuore.

Si aprì la porta d'ingresso ed entrarono la mamma e lo zio. Roberta era ancora turbata da quanto era successo e Fausto la seguiva portando le borse della spesa con aria stanca e sfatta più del solito. Se per determinare il peso della spesa bisognava basarsi sull'espressione del suo volto, quelli erano macigni pesanti come il mondo. Infatti dopo aver poggiato tutto a terra crollò sul divano a fianco del nipote. Giulio però si alzò subito per andare nella sua stanza crogiolandosi nell'ebrezza della giornata e negli strascichi di sensazioni elettriche.

Roberta portò le buste in cucina e iniziò a sistemare le cose al loro posto poi chiese al fratello se volesse qualcosa da mangiare.

Non ebbe risposta.

Lo richiamò.

Nessuna risposta.

Provò ad alzare la voce.

Non ebbe nuovamente risposta.

Andò nell'altra stanza per vedere se avesse sentito.

Lo vide sul divano in una posizione innaturale.

Si avvicinò lentamente a lui.

Fausto era immobile.

Con gli occhi chiusi.

Non respirava?

Roberta avvicinò l'orecchio al naso del fratello e....

SGRUNT!

Sentì che aveva iniziato a russare fragorosamente.

Lo lasciò riposare per il resto del pomeriggio.

Una musica leggera riempiva il salotto mentre le prime luci della luna facevano capolino sul davanzale della finestra, senza poter proseguire oltre a causa del neon della lampada che, con la sua luminescenza, bloccava l'avanzata argentea del radioso satellite in cielo.

Seduta sul divano, davanti alla televisione, Angelica stava cambiando rapidamente canali. Da quando avevano voluto mettere a tutti i costi quel maledetto digitale terrestre non c'era più nulla che fosse anche solo vagamente guardabile. In più, ogni giorno bisognava risintonizzare tutto perché si vedeva sgranato, saltava la trasmissione e gracchiava. Ma l'importante era che le persone giuste avessero guadagnato a sufficienza sulle spalle del popolo stupido con una tecnologia morta e inutile. In sostanza avevano obbligato tutti a comprare una cosa che nessuno aveva chiesto. L'apoteosi della presa in giro e della schiavitù. Per cosa poi? Per quattro programmi di merda inguardabili. Per riempire serate in solitudine, per credere di avere informazione, per non annoiarsi, per non dover uscire e guardare in faccia la realtà ma per continuare ad osservarla al riparo tra quattro mura dietro ad uno schermo edulcorato

O peggio ancora lordo di sangue per tenere le redini della paura.

Angelica si stava mordicchiando un ciuffo dei suoi lunghi capelli mentre la luce del televisore le illuminava il volto.

Si sentiva stanca e sola.

Due colpi leggeri alla porta la distolsero dai pensieri. Qualcuno stava bussando delicatamente usando il dorso delle dita.

Si alzò. Si guardò un attimo come era vestita. Aveva una maglia larghissima e un paio di pantaloni felpati, con ai piedi un paio di babbucce pelose. Si sentiva la donna meno sexy del mondo e questo nonostante fosse invece realmente attraente e sensuale in ogni sua movenza. Con qualunque vestito avrebbe attirato a sé gli occhi affascinati di qualunque uomo. Solitamente curava molto il suo aspetto fisico e la sua apparenza elegante ma, come ogni persona, al riparo dagli sguardi si concedeva tenute molto più rilassate.

Decise di andare ad aprire ugualmente, probabilmente era la sua vecchia vicina che aveva bisogno di qualcosa.

Aprì la porta e rimase in silenzio.

Davanti a lei stava Fausto che disse solo

< >

Angelica si scansò per farlo are e chiuse dietro a sé la porta mentre l'uomo entrava camminando lentamente e con le spalle ricurve. Non riuscì a guardarlo negli occhi e attese che lui dicesse qualcosa tenendo le braccia conserte.

Lui guardava fuori dalla finestra senza dire nulla. La trovava sempre bellissima. Anche vestita con quegli abiti larghi da casa era stupenda. La maggior parte delle donne credono di doversi truccare e vestirsi bene, attillate, scollate o provocanti, per risultare attraenti ma è dalla grazia con cui si muovono nella quotidianità che si intuisce l'essenza del loro splendore. Quella che traspare dai sorrisi, dal calore della pelle e, banalmente, dagli sguardi profondi e colmi di significati che solo alcune donne sanno portare con la naturalezza di una goccia di rugiada sopra un filo d'erba. Vivido si fece il ricordo delle spalle nude di Angelica e di quanto lui adorasse indugiare su di esse baciandole la pelle con dei soffici schiocchi delle labbra mentre lei girava appena la testa per guardarlo, mescolando il suo respiro a quello di Fausto. Cercò di distogliere il pensiero dal suo corpo e dal profilo del suo seno sotto il maglione, cercando di focalizzare il motivo che lo aveva portato fino lì.

Se veramente ce n'era uno.

Angelica stava aspettando che lui dicesse qualcosa ma decise di rompere gli indugi e iniziare lei la conversazione.

<<Erano anni che non ci vedevamo. Ho ato tanto tempo a cercare di ritrovarti e ora vieni tu da me. Perché?>>

Abbozzò un sorriso e disse solo

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Angelica continuò a fissarlo in attesa di una risposta migliore.

< >

Forse era il caso di aspettare ancora un poco. Magari la terza sarebbe stata quella buona.

< >

Disse lei.

< >

Risposta migliore.

< >

Lei si vergognò e reclinò lo sguardo, mentre le lacrime salivano dal ventre fin sopra agli occhi.

Fausto sentì una scossa straziante in tutto il corpo che tese ogni muscolo del suo corpo mentre percepiva la pelle sfibrarsi a brandelli di carne.

Prese una sedia e si sedette senza chiedere il permesso.

Lei lo guardò preoccupata e si avvicinò posandogli una mano sulla spalla. Il dolore per Fausto fu qualcosa di mai sperimentato prima. Si alzò di scatto facendo cadere la sedia e allontanandosi da lei rapidamente, tenendosi la spalla.

Sbigottita Angelica non riusciva a capire.

< >

Disse preoccupata. E dentro di sé covava la paura che lui stesse per morire, che versasse in condizioni gravissime e fosse ad un o dal termine. Non aveva mai visto nessuno cacciare un urlo così disumano e non poteva fare a meno di pensare a qualcosa di seriamente grave per giustificare una simile esternazione.

Lui non disse nulla.

Si tolse il maglione pesante e iniziò a sbottonarsi la camicia. Una volta sfilata, si tolse tutte le bende fino a rimanere a petto nudo di fronte a lei.

Quello che Angelica vide era uno spettacolo raccapricciante.

La pelle era necrotica, come carbonizzata su tutto il suo corpo. Si salvava solo il collo e le mani, i cui palmi, ci faceva caso solo ora, erano ustionati. Brandelli si staccavano sopra il capezzolo destro, a fianco dell'ombelico e sotto l'ascella sinistra. Ovunque c'erano eruzioni cutanee purulente oppure la pelle sembrava grattata via con una grattugia e trasudava sangue. Nei punti meno colpiti, in cui qualcosa di sano sembrava rimanere, spiccavano vene violacee, gonfie e pulsanti. Posò lo sguardo sulla spalla che prima aveva toccato e le sembrò di vedere la sagoma di una mano.

Fausto iniziò a parlare.

< >

Si interruppe e fece una pausa accompagnata da un lungo sospiro mentre

Angelica fissava alternativamente il suo viso e il suo ampio torace nero.

< >

Disse con un filo di malinconia prima di concludere

<<Sono oltre il mio limite fisico, non potrei stare qui oltre. Quando, anni fa, capii che era questa l'origine non potei fare a meno di isolarmi e di evitare il contatto con chiunque.>>

Angelica si sentì immensamente colpevole. Allora chiese

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< >

< >

<<Si.>>

< >

< >

<<Appunto..>>

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Angelica rimase un attimo stupita. Ma sentì in un qualche modo di essere stata compresa.

Fausto proseguì.

< >

E aggiunse

< >

Angelica si avvicinò, gli baciò il torace e lo guardò con uno sguardo indefinibile, un misto tra senso di colpa e remota speranza che sparì con queste parole

< >

Disse Fausto con tono triste e rassegnato.

Angelica scoppiò in lacrime.

Loki accompagnava Fausto scodinzolandogli accanto in maniera impercettibile.

Il suo padrone si stava avvicinando alla teleferica per prendere il pacco mensile mandatogli da Saverio. Solito libro e solite cose di sempre. In più, una lettera. L'ultima volta che ne aveva ricevuta una, alcuni mesi prima, non erano arrivate buone notizie. Decise di aprirla subito questa volta.

Era di Roberta.

Voleva sapere come stava e se sarebbe andato a trovarli anche se per poco. Loro stavano bene. Giulio non era più cupo e tenebroso da quando frequentava una ragazza di nome Carlotta, spigliata e solare. Parlavano molto di più ultimamente e sembrava felice, il che le toglieva molte apprensioni e problemi. Il suo ex compagno non si è più fatto vedere e lei ha trovato un poco di pace. Ha iniziato a guardarsi di nuovo intorno e ha trovato un uomo gentile che le interessa e con cui vorrebbe uscire. Pare la cosa sia ricambiata nonostante non siano ancora usciti insieme.

Lo abbracciava forte e sperava di rivederlo presto.

Fausto accarezzò il cane e tornarono insieme verso casa. All'improvviso Loki alzò il pelo ed iniziò a ringhiare verso una figura che si stagliava davanti all'uscio.

Alzò lo sguardo e vide Angelica.

Comandò al cane di stare in silenzio e quello si acquietò subito andando a girare per i fatti suoi.

Fausto si avvicinò a lei fino a starle davanti.

Erano entrambi in piedi, uno di fronte all'altra. Non dissero nulla. Si guardavano negli occhi senza parlare, mentre nell'aria sembrava che risuonassero una miriade di frasi non dette, strangolate da un silenzio imbarazzato e dal peso di decisioni immani di fronte ad un bivio.

Erano loro due soli nel silenzio della loro anime, interrotto dal lontano abbaiare di Loki, si ritrovavano una nello sguardo dell'altro.

Separati da un abisso, uniti da un sottile filo lungo una vita.

Rimasero in silenzio a guardarsi e nulla più.

LAMA XVII R – MAKE UP

"L'uomo non può far nulla per la sua bellezza, ma può far molto per rendersi brutto."

Victor Hugo

Dismorfofobia.

Secondo loro io avrei una "visione distorta del mio aspetto esteriore" e questo perché sarei "eccessivamente preoccupato della mia immagine corporea".

Maledetti psicologi.

Ho solo 17 anni e non sono Vitangelo Moscarda (10 - NOTE ).

Il mio naso è veramente troppo lungo e c'è qualcosa nei miei lineamenti, nel loro insieme, che ha qualcosa di deforme, di non umano, di alieno.

Perché ogni volta che mi guardo allo specchio ho la netta sensazione di non fare parte di questa umanità?

Quando guardo le altre persone mi sembrano tutte simili, con dei tratti in comune, tutte belle.

Io non mi vedo come loro.

Il mio mento è pronunciato, la mascella sporgente, la fronte spaziosa e poi ho questo naso enorme che svetta in mezzo ai miei occhi come una torre! Prese singolarmente non sono caratteristiche mostruose, ma è l'averle accostate l'una all'altra sul mio volto che produce, nell'insieme, un effetto, come dire, “cubista” con tratti di angoscia espressionista. Vedo il mio volto destrutturato e privo delle linee armoniose che caratterizzano i volti delle altre persone.

A volte o le mattinate intere durante le lezioni ad osservare i miei compagni di scuola. Sono tutti così belli, così simili l'uno all'altro.

E poi vedo me.

Sono diverso.

Non mi sento come loro.

Spicco come una merda sopra una tavola imbandita.

Come faccio ad essere così diverso? Ricordo ancora la prima foto di classe. Ad osservare il mio volto in mezzo a quelli di tutti i miei compagni fui colto

dall'orrore. Forse avrei potuto gridare “L'orrore! L'orrore!” come Kurtz (11 NOTE )dopo averla vista, se solo non fossi stato in compagnia dei miei genitori.

Mi chiedo come facciano loro a non vedere la mia bruttezza.

Anche se credo che pure gli altri la vedano, per quello non ho mai avuto una ragazza.

Sono così diverso, strano, bizzarro, inusuale.

Non sembro nemmeno umano.

Non c'è nulla che mi accomuni con i miei coetanei. A volte mi capitava di are pomeriggi interi davanti allo specchio ad osservarmi con disprezzo senza trovare una spiegazione a queste mie abissali differenze dalla media della gente comune.

Sono brutto.

E soffro al pensiero di dover sentire i miei genitori mentre cercano di consolarmi dicendomi che non è vero, che sono come gli altri, perché sento che stanno mentendo. Non potrebbero fare diversamente, in fin dei conti, sono figlio loro.

Ma lo sono veramente?

Perché non sono slanciato come mio padre o bello come mia madre, bionda, occhi azzurri.. io sono goffo, impacciato, mi vedo sempre in basso, sovrastato dall'aulica bellezza delle ragazze.

Queste creature che si aggirano nei corridoi della scuola, belle, tutte belle. Piene di sorrisi, con quei lineamenti geometrici e perfetti, che morbidamente disegnano dei volti dipinti sul velluto di una pelle fresca e soffice.

Mi sento un freak accanto a loro.

La vicinanza di questa bellezza mi ingobbisce, mi rende piccolo, deforme, infimo. Vorrei comunicare con loro ma la mia voce diventa un gracchiare sconnesso, soffocato e imbelle; tra di noi un aratro chiamato incomunicabilità scava solchi di separazione profondi come abissi. Avrei i versi di mille poeti per loro, le ioni di ogni battito del mio cuore, se solo riuscissi a parlare, se solo ogni pensiero non trovasse sepoltura nell'antro della mia bocca, dove solo interminabili silenzi si fanno spazio nel muto buio della mia gola. Il loro sguardi luminosi mi feriscono nella mia inadeguatezza, loro vedono la mia diversità.

Non so come nasconderla.

Non so dove nascondermi in questi corridoi senza angoli.

Le ammiro da lontano e piango la mia solitudine senza nido, la mia differenza, chiuso dentro di me in una barriera di distacco e diffidenza. Sono vulnerabile: scoprirmi, rivelarmi, significherebbe espormi alle ferite e alla sofferenza.

Ed è per questo che ora sono qui.

In casa da solo.

Ho già preparato tutto.

Mi siedo davanti al tavolo e sistemo il pacchetto di sigarette con accanto i fiammiferi.

Infilo il lettore mp3 alla ricerca della canzone giusta. Di quelle che dovrebbero consolare, farmi sentire un'eroe sopravvissuto alle ferite della vita. Quelle che mi ricordano che nonostante tutte loro io sono ancora qui, sono vivo; la sofferenza non mi ha preso. Ma che allo stesso tempo mi ricordano quanto sto male e mi fanno rivivere quella stessa sofferenza da cui voglio fuggire.

Dai miei pensieri.

Da me stesso.

Mi spoglio e rimango a petto nudo.

Appoggio sul tavolo un piccolo specchietto e inizio a guardarmi.

La mia bruttezza.

Provo a guardarmi di profilo ed è ancora peggio. La fronte pronunciata indietreggia, mentre il naso cade ricurvo in avanti e il mento sale verso l'alto.

Ho il doppio mento.

Ed è pure storto.

Il mento.

Perché non sono bello come gli altri? Perché sono così diverso?

Mi guardo e mi sembra di essere alieno. Possibile che nessuno se ne sia mai accorto? Dio, è così evidente.. Guardati! Cazzo! Guardati!!

Mi metto a piangere.

Seduto sulla sedia, piango e mi guardo piangere.

Vedo la deformazione patetica del mio volto, la mia bocca contorta e miei occhi

rossi di lacrime e mi trovo sempre più mostruoso e disumano.

Un impeto di repulsione mi fa guardare altrove per un attimo, quando noto un filo di saliva sulla mia bocca impastata.

Non sei nessuno, guardati!

Singhiozzo a lungo.

Mi appoggio sul tavolo sorreggendomi con una mano e continuo a guardarmi allo specchio senza sosta.

< >

mi dico tristemente, compatendomi da solo.

Guardo le sigarette e decido di accendermene una. La tolgo dal pacchetto e me la infilo all'angolo della bocca.

La guardo allo specchio mentre penzola a lato. Ora mi sento come tutti quelli che fumano.

Grande. Fiero.

Sfrego il fiammifero e l'accendo. Inspiro una prima boccata e chiudo gli occhi mentre il fumo si spande nella stanza.

La sigaretta a penzoloni, tengo il fiammifero tra le mani.

Aspetto che si sia consumato a metà e poi lo capovolgo per farlo bruciare tutto. L'estremità è ancora calda e mi strina i polpastrelli ma resisto mentre vedo la fiamma riprendere vita e carbonizzare il fiammifero in tutta la sua interezza.

Osservo, inspiro fumo senza mai toccare la sigaretta.

Lancio il fiammifero nel posacenere e mi guardo allo specchio mentre lo faccio.

<<Ti odio, lo sai?>>

Mi dico con disprezzo.

< >

Poi esplodo, e grido allo specchio

<<SI PUO' SAPERE CHI CAZZO SEI?>>

E poi

<<EH?>>

Aggiungo tra le lacrime.

Prendo la lametta di quelle che uso per ripulire le tavole di disegno.

E mi recido un orecchio.

Poi l'altro.

Mi amputo il naso.

E mi taglio via le palpebre.

Tutte e due.

Poi mi faccio un lungo taglio che dalla fronte scende lungo la guancia fino alla

bocca.

Le cicatrici di questo tipo fanno figo, molto film.

Mi guardo allo specchio.

Finalmente posso uscire sentendomi a mio agio.

Le cicatrici fanno bello e vissuto.

Ora sono come voi.

NOTE

1) Frase detta dalla Hermila Garcia realmente esistita e alle cui vicende il racconto è ispirato. Vedi Nota 2 2) Articolo tratto e ispirato a http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/12/01/messicouccisa-investigatrice-anti-narcos.html 3) “Angel Heart - ascensore per l'inferno”, Louis Chypre, era il nome di Robert de Niro che interpretava il diavolo.

4) John Donne – Meditation XVII 5) “Considera l'aragosta” di David Foster Wallace. 6) Dante Alighieri 7) La risposta di Jackob Tod è in realtà una citazione di Jean-Michel Basquiat, a cui ho voluto rendere omaggio. 8) “Tod” in tedesco vuol dire “Morte” 9) Frase la cui paternità è piuttosto evanescente. Non avendo fonti dirette ho fatto qualche brevissima ricerca su internet e l'ho trovata attribuita: A) Marcello Marchesi, comico italiano (1912 – 1978) B) Waldemar Łysiak (1944 - vivente), giornalista e scrittore polacco C) Scritta sul muro di un’università americana, 1968 nella variante “Eat shit. One billion flies can’t be wrong” D) Anonimo, nel libro di Gino & Michele “Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano” E) Pubblicità immaginaria, secondo Umberto Eco in un articolo dal titolo “Il lupo e l'agnello” trovato su internet. A quel punto ho abbandonato gli approfondimenti.

10) Protagonista di “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello che va in crisi d'identità proprio perché la moglie gli dice che il suo naso è leggermente storto.

11) Ultima frase pronunciata appunto da Kurtz, protagonista di “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad, prima di morire.

I racconti e i loro protagonisti sono frutto della mia fantasia e in nessun modo fanno riferimento a fatti o avvenimenti realmente accaduti o a persone esistenti, a meno che non sia esplicitamente indicato. L'unica eccezione è “La colazione di Hermila” il cui spunto di partenza è un fatto di cronaca realmente avvenuto, ma il cui svolgimento è frutto della mia fantasia. Anche per “Un'esistenza impossibile” ho preso vago spunto dalla vita di Richard Gerstl, di cui ho volutamente messo alcuni riferimenti, ma ogni avvenimento è frutto della mia immaginazione.

Tranne la “Lama comica”.

Quella è tristemente vera.

In nessun modo le idee dei personaggi sono da attribuirsi all'autore visto che sono entità ben lontane e distinte.

Mi sono divertito ad inserire citazioni esplicite, omaggi o riferimenti vari a cose che mi piacciono, che ho letto o simili. Spero che per voi sia stato altrettanto divertente riuscire a trovare il tutto. La numerazione romana delle "lame", per chi se lo fosse chiesto, indica semplicemente l'ordine in cui ho avuto l'idea del racconto e ho pensato di mantenerla anche se non rispecchia quello con cui sono stati presentati in questa raccolta.

Ognuno interpreti pure liberamente i contenuti e ci veda un po' quello che vuole, ma per sapere cosa intendevo dire io e il perché di alcune scelte, beh, per quello invece bisogna chiedere a me.

Concludo ringraziando tutti coloro che mi hanno ato, sostenuto o aiutato. In particolare nella minuziosa e continua opera di revisione delle bozze che anche dopo pubblicazione non ritengo sufficiente a causa della mia ossessività.

Ma questo è un altro discorso.

D.T.

SULL'AUTORE

© 2012 Photo by D.Tarozzi

Nasco con il sogno di diventare meccanico. Ignoro il motivo ma, durante l'infanzia, avere le mani sporche di grasso mi affascinava al punto da are le ore fingendo di aggiustare la bicicletta da qualche guasto.

La scelta di conseguire il diploma scientifico-tecnologico non fu dettata tanto da velleità ingegneristiche quanto dal fatto che non avevo la minima intenzione di fare latino. Grazie ad alcuni insegnanti incapaci e alla poca voglia di fare che contraddistingue l'adolescente medio scoprii che fondamentalmente non mi fregava niente della maggior parte delle materie che mi venivano spiegate. O meglio, fatte in altri modi e in altri tempi le avrei sicuramente apprezzate di più, e forse non avrei alcune lacune che ancora oggi cerco di colmare.

Quando ci penso cerco di consolarmi con la frase di Tolstoj: “Gli uomini di genio sono incapaci di studiare in gioventù perché sentono inconsciamente che bisogna imparare tutto in modo diverso da come lo impara la massa.”(Nell'introduzione curata da Serena Vitale a Resurrezione di Lev Nikolaevič Tolstoj, Ed. Garzanti.).

Certo, non sono un genio ma fa lo stesso.

Nei confronti della matematica e della fisica, peraltro basilari del corso, ho maturato la convinzione che l'unica legge la cui previsione sia prossima al 100% è la Legge di Murphy. Terminati a fatica gli studi, approdai all'Università di Genova alla Facoltà di Scienze della Formazione, corso di Psicologia, dove i risultati furono decisamente più incoraggianti e soddisfacenti. Fu proprio qui che, grazie a docenti preparati e competenti, imparai ad apprezzare l'importanza

del metodo scientifico, del metodo e delle fonti, forse perché per la mia formazione ero comunque poco incline alla psicoanalisi e più alla ricerca.

Questo non mi impedì di non riuscire comunque a are l'esame di dottorato.

Almeno con l'Esame di Stato per l'abilitazione alla professione mi è andata meglio. Il che, in luce delle Leggi di Murphy, è piuttosto ovvio visto che volevo fare il ricercatore in Università. Momentaneamente mi barcameno tra brevi lavoretti di vario tipo, quando non sono disoccupato, cosa piuttosto comune di questi tempi.

In copertina: © 2012 Photo by D.Tarozzi

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