LA VITA SBAGLIATA DI MARILYN CONCHITA
Romanzo
di Lucia Viglianti
Pubblicato da Pulp Edizioni in Smashwords
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© Pulp Edizioni di Andrea Spaziani – Via Brighindi 141 – 03100 Frosinone
www.pulpedizioni.it
1^ Edizione Febbraio 2014
Immagine di copertina: Renzo Viglianti
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Ai confini della realtà
e a Pierluigi Felli,
che mi ha dato l’idea per continuare a scrivere
a l’umano e l’inumano lo segue
Anna Maria Ortese, “Il porto di Toledo”
Indice
PROLOGO IN FUGA
LÀGRIMA. Resoconto 1.
MAMITA. Manoscritto 1.
LÀGRIMA. Resoconto 2.
IMPLACABILE.
MAMITA. Manoscritto 2.
DISPREZZO.
LÀGRIMA. Resoconto 3.
MAMITA. Manoscritto 3.
PIETÀ.
LÀGRIMA. Resoconto 4.
SCEGLIERE.
LÀGRIMA. Resoconto 5.
EMOZIONI.
ULTIMA LÀGRIMA. Resoconto 6.
EPILOGO
NOTE DELL’AUTRICE
AUTRICE
PROLOGO IN FUGA
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I corridoi bui del sotterraneo dell’Hotel Noche Estrellada si sono riempiti di fumo, mentre corro all’impazzata per guadagnare l’uscita: troverò la porta aperta, ho manomesso l’impianto di allarme. Sapevo che mi avrebbero scoperto, o meglio, avrebbero scoperto la mia Emozione, bandita dalla Legge Taurina. Tutto brucerà e anche il camion con l’intera troupe che ha iniziato il tour del grande toro Islero Duodécimo salterà in aria: sono riuscita a buttare un esplosivo col timer oltre il telone e non raggiungerà la prossima città. Quello che ho messo qui sta per brillare e i bidoni chimici dei laboratori faranno il resto, aumentandone l’effetto devastante. La prima esplosione erutta dai sotterranei. Faccio appena in tempo a rovesciarmi a terra nella hall e a mettermi in salvo. Alcune Guardie provano a rincorrermi, ma i Giovani della N.E.T., la Nuova Era Taurina, sono ben allenati e presto scompaio alla loro vista. Oggi mi unirò ai rivoltosi che hanno invaso le strade e la mia azione sarà il mio benservito alla dittatura. So che approverai, Marilyn Conchita, l’ho fatto per te, per la tua vita sbagliata. E per i sospiri di Làgrima, che non può vedermi. Oggi ho qualcosa in più: un cuore, che batte di ione. E il Ricordo, e la Storia che quello ha partorito e che proverò a trascrivere. Ma ora devo correre ancora più forte. Devo raggiungere Làgrima. Torna all’indice
LÀGRIMA. Resoconto 1. Torna all’indice
La piuma tremula sul cappellino nell’andatura veloce, i piccoli i frettolosi ticchettati sul pavimento lucido del grande corridoio dagli alti finestroni, i singhiozzi trattenuti nel respiro affannato sotto la blusa rosa e il vestito di raso, messi apposta per quel giorno atteso per anni, bastano per parlare della strana figurina in fuga. Lei obbedisce a quel richiamo tessuto nel tempo, a quella lontana attrazione che all’entrata nell’androne si era illuminata finalmente nel suo petto. Frutto del destino che, ora lo sa, non si sarebbe mai compiuto, rattrappito e congelato dal diniego a entrare nella stanza di Lui. L’autista l’ha attesa al bordo del marciapiede, le ha aperto immediatamente la portiera e lei è salita, ando inebetita attraverso la ridda di giornalisti dagli anonimi abiti grigi, incuranti di quella donnina minuta e schiva ma sinuosa, abbigliata con stravaganza, lo sguardo nascosto dai grandi occhiali scuri vintage anni settanta dello scorso millennio che affondano nelle ciocche biondo platino. I giornalisti invece vogliono entrare nell’ospedale di Santillana del Mar, per sapere qualcosa di più sulla sorte dell’uomo qualunque, non meglio identificato se non col nome d’arte Clark Manolete, che ha sfidato La Legge Taurina scegliendo la morte, ormai prossima: si è sostituito all’ultimo momento al suo Androide, che come vuole la Legge è l’unico a poter combattere contro la bestia, eternamente vincente secondo il Rispetto Animalista. Lui invece è andato incontro al toro Islero Duodécimo, che dopo una breve esitazione lo ha incornato, mentre l’uomo stranamente rideva e la gente urlava in delirio, prima attonita e poi eccitata dal sangue vero che fuoriusciva dalle sue ferite. A una certa distanza, alcuni drappelli di soldati tengono d’occhio nervosamente la piccola folla che aumenta sempre di più. La donnina invece ha fretta, per via del poco tempo che ha a disposizione, e non vede più le strade e le luminarie che cominciano ad accendersi sulla sera imminente. Tutto quello che l’aveva attratta nella prima uscita della sua vita è risucchiato dallo smarrimento che invade la città, per via di quell’eroe al contrario, il cui nome, nominato in cuor suo da sempre in solitudine, ora rimbalza di bocca in bocca, sui quotidiani, nei notiziari, nelle news annunciate dai bip sui palmari di ultima generazione. Seduta sul
sedile posteriore, pensa al rifiuto dell’assistente dell’uomo, piantatosi davanti la porta della sua stanza e ben deciso a non farla entrare. Ma pur nella delusione, non sa chiedersene il perché e tantomeno concepire una risposta: sa invece che ora deve tornare indietro, mentre avrebbe voluto incontrarlo finalmente, non nella polvere urlante dell’arena, ma nel silenzio a lei caro benché ultimo, gli occhi contro gli occhi, e finalmente sapere. Solo dopo aver fatto ritorno a Noche Estrellada, l’albergo più lussuoso di Santillana del Mar dell’anno 2047, si è accasciata sul divano della sua stanza, e nella penombra che le è familiare ha liberato il pianto, lacrime zitte sul viso minuto, una maschera di trucco sciolto. La borsetta di strass lasciata scivolare a terra, nel sonno che lentamente l’ha avvolta cullandone la malinconia, si è liberata facilmente delle scarpette di raso verde, che ancora le vanno un po’ grandi. È una fuga, almeno nel sonno umido. Diamole un nome, provvisorio almeno, che lei non sa, non ne ha bisogno, non lo chiede, ma noi sì, per narrare. Forse Figurina. O Scarpette Verdi. Ma ancor meglio, sì, Làgrima. Nell’acqua sta bene, benché stanotte strattonata da un’onda oscura di mare agitato, in cui lotta e si rivolta, infine vi si confonde e torna all’origine, allontanandosi. Da sé, da Clark Manolete. E da Lei, dalla Signora. Domani, solo domani, entrerà nella suite di Immaculada Lucrecia Ruiz, in arte Marilyn Conchita, in amore Mamita, così sa da sempre, per dirle che non è riuscita nel suo compito. Làgrima sembra sorridere appena nel sonno, poi le labbra disegnano una smorfia strana, quasi sgomenta, evocando la Signora nel sospiro notturno: Lei, beffarda come una maga, Lei, che non le mostrerà ancora una volta il suo volto e non le svelerà mai il suo segreto, mistero fatto di pareti buie, di gorgoglii inodori o sulfurei. Sa di non somigliarle affatto. Torna all’indice
MAMITA. Manoscritto 1. Torna all’indice
2017, Terra dell’Avvenire Il Sotterraneo
La mia città me la sono inventata. Se potessi darle un nome, la chiamerei Cangiante, come le persone che la abitano, ma sarebbe meglio dire che la attraversano. Non una lingua ufficiale, se non una congerie di suoni frullati, ogni cosa variabile, ora dopo ora, e ne comprendo la scansione non dagli orologi pubblici – tutti digitali e soprattutto rotti, le cifre sdentate, così come gli schermi video bruciati – ma dai volti addormentati del mattino, a quelli tristi e segreti della sera. E poi dagli odori, fruttati nelle prime ore e marci nelle tarde. E mentre i giorni non hanno colore, se non quello giallognolo delle luci perennemente accese e sospese nel cielo nero, mi accorgo del variare delle stagioni dal cambio di abiti, anche se a volte c’è chi indossa il cappotto e qualcuno, alta statura, capelli biondi, sandali grossi, sacco in spalla, si muove da una strada all’altra senza tradire un brivido. Allora capisco che la primavera è alle porte. O l’autunno, ormai non so distinguere. Anche le strade me le sono inventate, nomi compresi. Il Grande Corridoio è la principale, dove fiumi di persone a volte si affrettano con dei regali in mano, e lì capisco che è un giorno speciale; più spesso invece ano con grosse buste dai ridondanti nomi stampati, e lì capisco che la settimana è alla fine. I nomi stampati somigliano a quelli degli enormi manifesti sui muri, dove i Sempre Ridenti giganteggiano per qualcosa che loro hanno e gli altri no, o si affannano per avere qualcosa di cui non poter fare a meno. Fanno parte di un Mondo Superiore, imperioso, invincibile, sicuro di sé, di cui gli Umani hanno soggezione. Apertamente adoranti e sofferenti allo stesso tempo per quegli inviti pressanti, nascondono il volto nel bavero delle giacche o guardano in basso, il o frettoloso, consci che se vi posassero gli occhi sopra qualche secondo in più potrebbero essere costretti a portarsi le mani alle tempie, sentendosi disperati per non essere all’altezza. Sono effettivamente molto pochi quelli che
somigliano in vita ai Sempre Ridenti, per cui la maggior parte delle persone è evidentemente infelice, incedendo i loro i con aria frusta. Poi ci sono altre strade minori, un grande reticolo di gallerie, ognuna delle quali ho chiamato Canale Stretto, che so distinguere semplicemente da una certa curvatura, dal Signore Blu all’entrata, dagli Attraversanti che ritornano. Ogni Canale Stretto porta nelle periferie, gli arredi sventrati, le scritte scolorite e sdrucite sovrapposte le une alle altre, gli odori nauseabondi. Qui i volti degli abitanti del Mondo Superiore diventano più crudeli e siderale la distanza tra loro e gli Attraversanti. A volte le strade hanno un termine, come in tutte le città: lì sento che la temperatura si abbassa o si scalda, in prossimità delle scalinate e dei giranti. Ma oltre non vado, non so da quando e se da molti anni, non so se la misurazione del tempo che mi sono costruita ha ancora a che fare con la stessa idea che ne avevo una volta. Qui è semplicemente un Eterno Presente. Andare oltre sarebbe la morte, non posso. Gli Attraversanti non guidano. Si lasciano portare nella città di Cangiante da lunghi veicoli metallici, illuminati anche questi perennemente, che sfrecciano veloci da una strada all’altra, da un luogo all’altro, senza nessuno scorcio o veduta distante. Le porte dei lunghi veicoli si aprono da sole, vomitano gli Attraversanti e ne ingurgitano in certe ore bocconi enormi, i volti spezzati sui vetri che riprendono a correre fino a scomparire nel budello di Buio Impenetrabile, in cui è scomparsa la mia vita di prima. Di cui potrei dire di non aver memoria alcuna, ma so che non è proprio così. Ho solo smesso di essere, quell’ultimo addio lanciato nel labirinto di strade ferrate, da cui non voglio più uscire, il filo rotto o forse rimasto impigliato a qualche gancio di dolore lasciato più in là, e altro non voglio sapere. Tutto si è sfocato nel tempo e se dovessi dire il perché direi semplicemente: «Non ricordo.» Meglio così, qui posso stare in pace per sempre, e guardare di sottecchi gli altri, di cui rido dentro, beffarda, amara, non avendo bisogno della loro approvazione, ando al loro fianco come fantasma leggero e furbo nello schivarne gli sguardi.
C’è un’ora in cui le strade si svuotano, soltanto qualche gruppo di giovani o qualche ubriaco, poi il vuoto. Credo sia la notte, come in ogni città, quando
neanche un cane a. Sento da lontano chiudere i Grandi Cancelli e mi nascondo in una rientranza del muro, per non essere vista. Sono divenuta abile nell’ingannare gli Uomini Grigi delle Pulizie, che scambiano il mio brusio per un rosicchiare di topi, mentre continuano a spazzare i resti di umanità lasciati negli angoli o nei bagni piastrellati. Poi anche loro lasciano le Strade, guadagnando le scale che li riportano nell’Altro Mondo. Ora finalmente sarò sola, e dico sola, perché della donna ho ancora qualche fattezza e gli abiti, che rinnovo di tanto in tanto, cambiandoli con quelli dalle varie fogge che trovo dimenticati sui sedili dei veicoli; così come il cibo, che mi procuro allo stesso modo o, quando la fame morde, frugando nei secchi, sempre pieni di ogni leccornia. Potrò gironzolare nel quasi buio senza essere disturbata da nessun rumore, solo il gorgoglio dei cavi elettrici o gli scricchiolii dei muri gocciolanti. È questo il momento migliore per me. Giocando a camminare ad occhi chiusi, percorro lenta il Sentiero e so che, quando erò più in là caracollando leggermente, dovrò svoltare a destra, fidandomi degli odori di ruggine e muffa, riconoscendo qualche asperità del selciato, per fermarmi in mezzo alla Strada Principale. Resto così, immobile, per quel po’ che dura, quanto un battito del cuore, che finalmente odo scuotermi il petto, fino a placarsi in un ritmo regolare. Sono viva, penso. Inclino lentamente la testa, tolgo le mani dalle tasche di questo inutile copri pioggia stracciato. E comincio a cantare. Suoni senza parole. Prima lievemente, qualche nota appena accennata, che sento crescere sotto la cupola della Piazza Grande. Poi compongo melodie incerte, accompagnate da un gesto della mano, come a lanciarle nelle gallerie lontane, echi che divengono cavernosi, gutturali, orribili, e quello che ancora chiamo corpo, poggiandosi sulla nenia sgranata, disegna lentamente un movimento ruotante. Poi la melodia cresce e così il volume, il ritmo più incalzante nei piedi, fino a culminare in un acuto tenuto fino a sfumare, che sostengo aprendo le braccia al mondo. Come un’apparizione, credo di rivederlo per un attimo, con gli occhi chiusi, senza lacrime. Porto così i palmi delle mani in avanti, mentre distendo le braccia ai lati, a rilasciare l’emozione fredda, il respiro divenuto profondo. E solo allora mi appaiono i contorni di una figura maschile, di cui indovino a malapena i tratti, la postura molle e sorniona, avanzare verso di me. Io rido ribelle. È l’unica cosa che ricordo del mio Tempo Avanti che riesco a intravvedere in questo deserto buio. Le parole nascono da non so quale lingua cui poter ricondurre il suono cullante, riemergendo come una scrittura segreta sulla carta bruciata, prima incisa con il succo di limone.
De los cuatro muleros, de los cuatro muleros de los cuatro muleros, Mamita mia, que van al agua, que van al agua
El de la mula torda, el de la mula torda, el de la mula torda, Mamita mia, me roba el alma, me roba el alma.
Ma forse immagino soltanto frasi spezzate, forse non so emettere suoni, forse non ho voce, e ripeto la melodia e quelle parole stracciate solo nella mente, come moreno y alto, di cui non ricordo il senso, contro questo cielo di catrame.
Sto bene così. Mentre non credo che gli Attraversanti siano felici. L’ho detto. Perlomeno non più di me, che qui ho trovato rifugio. Quando decido di cambiare quartiere, salgo sopra i veicoli luccicanti e non vista li osservo, mentre affiorano pensieri di cui non ricordo l’origine. Più che il loro aspetto, mi colpisce il loro modo di stare nella città di Cangiante, le posture sonnolente del mattino o quelle sfatte della sera. Oltre i Cancelli probabilmente sono diversi, ma qui è come se, seduti o stando in piedi, accalcati, toccandosi senza sentirsi, si lascino andare al rullio delle ruote. È quello sguardo vuoto che mi permette di seguirne i racconti. Anime di un Purgatorio sotterraneo, che vedo come in uno specchio dalla molatura antica, le figure rese liquide, distorte, imploranti qualcosa o qualcuno: la chiamano Rabbia, Odio, Dolore, Tristezza. Parole che sembrano divenute indicibili, come Amore. Me ne accorgo. Le donne sono quelle più trasparenti, non ho dubbi. Come quel tramutare dello sguardo leggendo un libro - ora non se ne trovano più lasciati sui sedili - o il rossore per uno sguardo maschile sui seni, o la sensualità non celata delle curve ancheggianti.
Chi guarda in modo smaccatamente sessuale sono in genere gli uomini, di cui leggo la cupidigia, o l’ammirazione e a volte la timidezza, o l’uggia di sedere accanto a qualcuna non particolarmente avvenente. Sembrano chiusi in se stessi, ma lo so, gli uomini spiano le donne, e loro inghirlandate a esasperare il proprio aspetto, la paura della vecchiaia in agguato tra le prime rughe e le ammaccature del tempo. E la propria storia unica spenta nei volti tutti uguali, l’espressione ebete, di cera, per via dei lunghi trattamenti per l’Eterna Giovinezza, come suggerito e incalzato dai manifesti dei Sempre Ridenti. Correggi una malformazione, uno scherzo della natura. O uno scherzo degli umani, una mutilazione, l’acido lanciato sul volto per punizione. O uno scherzo del fato, come un incidente. Ma del perché le donne cedano a questa vanità pensandola necessaria, questo potere sofferente sul proprio corpo non saprei dire. Mentre rido dentro, pezzi di memoria lontana si accavallano nel venire a galla, richiami in disordine, lampi di ato che rivedo negli Attraversanti, mentre io scarto accuratamente da qualsiasi superficie riflettente, prima che quel poco di luce rimandi l’orrore della verità del Tempo su di me. Ma a volte è solo uno sguardo, un movimento tenue della mano, un’intonazione della voce, un profumo, o una particolare sfrontatezza a far scoccare la scintilla amorosa e far sì che el toro sea picado y el matador matado, il toro infilzato e il matador ucciso, per sempre. A volte gli sguardi sono scambiati tra persone dello stesso sesso, o tra chi ha scelto trans-appartenenze o neo-appartenenze di genere. L’amore non vede. O forse vede molto di più prima, oltre. Ma del mio non ho ricordo.
All’apertura delle porte, i destini incrociati nel buio si confondono e si perdono fra le Strade, ingoiati dal nulla che tutto occulta. Quando gli Attraversanti scendono, li seguo per un po’, ma quando essi arrivano ai Grandi Cancelli mi blocco: un vuoto sale dallo stomaco, e li lascio scemare ai miei lati, come un sassolino che rimane sulla sabbia mentre l’onda ritorna al Grande Mare.
Mentre straparlo o strapenso, non ricordo il perché del mio vivere ripetuto qui, in questo Eterno Oggi. Nulla, tranne strane catene di parole, che mi suggeriscono il ato dei lascia stare, roba vecchia, non pensarci più, oppure il Futuro dei vedrai, tutto si scioglierà, tra qualche tempo, gli anni ano, amore che vieni, amore che vai... Il mio è un Tempo Unico, perfetto e senza lacrime. Che oggi però si è rotto, quando l’ho visto giganteggiare su una parete, così nitido da
sembrarmi vero: forte, imperioso, le bianche corna contro il nero pelo lucido, gli zoccoli a raspar arena, le froge fumanti dal muso scuro, gli occhi acquosi, indifferenti all’umano e pur minacciosi nell’ira animalesca. Sono rimasta paralizzata, un fulmine che squarcia la mente, i piedi ficcati nel pavimento, la bocca schiusa dal terrore, gli occhi sbarrati, il cuore fermo. Qualcosa ha però tremato dentro, un’antica paura, sangre y arena, e ho cacciato un grido. Disumano. «Isleeero!» Gli Uomini Grigi delle Pulizie si sono accorti di me e mi hanno trattenuta, ma io non ho reagito, del tutto indifferente alle loro strattonate, ai loro volti duri, ai freddi: «Ci risiamo, Immaculada... » Poi hanno avvisato gli Uomini dalle tute color kaki della Guardia Politica, che mi hanno presa e portata alla luce. Anche sui loro volti la noia rassegnata e incattivita per la mia fuga che evidentemente si ripete da tempo, e per l’inutile benigne monitus impartitomi ogni volta nella Grande Sala. Non si curano perciò di quello che ho urlato: «Fratello mio, dove sei? Via, ultimi fuochi della Spagna cattolica e franchista! Merda! Zapatero, dove sei? Dov’è il progresso del Terzo Millennio che avevi promesso? Dov’è il popolo? E tu, moreno y alto, baffi buffi, chi sei?»
Si accavallano nella mia mente pezzi di storie impazzite, strane figurine, come una vita a fumetti, e rido forte. Prima che m’impongano di nuovo il Grande Silenzio e mi riportino nel Lussuoso Buio. Ma niente lacrime, per carità, appartengo al Frente revolucionario de las Idiotas. Torna all’indice
LÀGRIMA. Resoconto 2. Torna all’indice
Làgrima non ha ricordi veri. Solo vaghi ritorni nella mente, che puntualmente si ripropongono, un’ossessione che si espande a spirale, ruotando sempre intorno a se stessa, ma ampliando ad ogni giro i dettagli e i connotati che riguardano la sua crescita. Lo stesso racconto che ogni volta prende un fotogramma in più, e sempre più a fuoco. E ora che è arrivata all’estremo giro, intorno a quel convolvolo di delusione amara, al richiamo potente che ha attraversato tutto il suo essere, ancora non ha risolto nulla, apparendole tutto ancor più confuso, niente che spieghi quel dolore che, appena sveglia, aleggia nella stanza in penombra. Dolore che sente trasformarsi in rabbia cupa, che lei avverte come un rumore oscuro che le rimugina dal profondo. Si solleva lentamente sul busto e sa che deve fare ordine, pena l’ira di Lei, La Signora, Mamita. Raccoglie le scarpe, le ripone nella scatola sdrucita dai numerosi traslochi per quelle città che chiamavano Spagna, ora appartenente alla Grande Terra dell’Avvenire. L’ha capito quando, oltre a muovere subito i primi i, ha imparato a parlare e a leggere, anche questo con modalità a spirale, nessuna lallazione di brevi suoni poi parole e poi piccole frasi; discorsi già composti invece, come il suo corpo, zoom da un’immagine puntiforme ingrandita nel tempo. Rimette a posto il cappellino nella scatola, così la borsetta di strass. Poi si sveste, appende gli abiti nell’armadio con estrema cura. Anche questi, come le scarpe, le vanno ancora un po’ larghi. Sono gli unici che possiede e ogni volta che li ha indossati li ha trovati sempre più a misura, quasi questi attendessero il suo sviluppo definitivo, mentre lei vi cresce dentro. In quella penombra, in quei giorni lenti è stata sempre, ora se ne rende conto dopo la sua prima dolorosa uscita, senza sapere fino ad allora della possibilità di un altrove, illuminato dalla luce che ha incontrato fuori, nella città sull’andar della sera. Perdersi in essa, anche se per un tempo breve, senza riuscire a vedere quella corrida, né a conoscere, benché morente, il suo eroe, l’ha quasi tramortita. Senso di svelamento che le è rimasto dentro, nonostante l’impossibilità di vedere Clark Manolete. Evaporato quasi il buio, che ora sente come una vecchia corteccia scollata da lei, finalmente pronta per vivere. Sa che ogni cosa avverrà e
che todo tiene su tiempo, come dice Mamita. In quel buio, dove ora si muove lentamente ridisegnando ogni cosa intorno a sé, ha ricostruito infine l’immagine totale del puzzle di cui essa stessa fa parte. Come un’archeologa che illumina con la torcia le viscere di una tomba millenaria, le ombre diventano oggetti ricollocati in una casella di perduta esistenza. È in quel buio che ha allenato la sua intelligenza e appreso tutto quello che sa, è in quel buio che è divenuta autonoma dalle cure pur amorose di Lei, divenendo a sua volta la sua assistente fedele, quasi il suo prolungamento, una sua protesi, per via dell’Indefinibile Cura, la condanna comminata alla Signora dal carattere oscuro, brusco, che pure lei chiama Mamita da sempre. Del perché fosse lì e non altrove quindi non si è mai fatta cruccio, non sapendo Làgrima operare fino ad allora distinzione alcuna tra un dentro e un fuori. Solo la stanza di Mamita, oscura, senza finestre, senza monitor, un lieve eterno ronzio proveniente dall’angolo in alto di ogni stanza, dove è collocato un occhio/orecchio ruotante. E per sé l’altra stanza, separata dalla prima da un piccolo vano di disimpegno, anch’essa senza finestre, con il divano, l’armadio e i molti oggetti che nel tempo ha esplorato curiosa e che le sono divenuti familiari.
È stata Lei la sua unica maestra. Che le ha insegnato a leggere e a scrivere, a conoscere lunghe storie, sfogliare album di figurine colorate dai disegni antichi, libri illustrati di corride e toreador, cronache tradotte dalle immagini e ripetute poi da sola a voce sommessa, quasi un sussurro nella Sera Eterna di quella stanza chiusa. La sua mente è allenata, vigile, chiara, anche se Mamita le ha insegnato senza parole e Làgrima ha imparato senza ascoltare, solo guardando i gesti di Lei, l’inclinazione della testa a dire sì e no, che lei si ripeteva e fissava dentro, sorta di codice binario, sequenze di 0 e 1, come gli uno o più colpi legnosi sferrati in basso, forse contro una gamba del tavolo. Altro non può fare quella figura sempre più avvolta dall’ombra, un panno nero a coprirne le fattezze. Solo quando Làgrima non resiste e interrompe il silenzio chiedendole: «Dov’ero prima?», immagina che lo sguardo di Mamita, di cui intravvede solo il luccichio, diventi assente, quasi una macchina spenta, un animale ucciso esposto in una macelleria. Pensa allora che potrebbe tornare indietro, su per quelle anse del suo vivere periodico, allo scatto iniziale di quella foto sempre identica che sembra essere la sua esistenza, per decriptare il segreto di cui lei appena intuisce l’origine, per trovare la radice di quella oscurità, penetrare il gorgo del tempo.
Deve fare luce. La luce che per la prima volta ha visto a Santillana del Mar. La luz scintillante delle arene. Torna all’indice
IMPLACABILE. Torna all’indice
Il mio turno di Giovane Guardia è di notte. È molto tempo che le prigioni restano vuote, solo il ronzio inutile delle telecamere. Faccio lo stesso il giro dei corridoi appena illuminati da deboli lampade: tutto è pulito, gli angoli di ogni cella visibili, le coperte sul letto piegate con cura geometrica, il piccolo tavolo e la sedia, il lavabo e il water in una risega sul fondo. Nella mia tuta color kaki, i piedi negli stivaloni neri con la para, silenziosissimi, vado con o cadenzato avanti e indietro. Nella mano destra ho il mio bastone d’ordinanza, che tamburello nel palmo della sinistra, mentre con lo sguardo vigile controllo ogni possibile variazione. Sono stata la migliore Allieva della Scuola della N. E. T., la Nuova Era Taurina, e ho l’onore di servire nella Casa di Rieducazione per i Non Allineati, i peggiori, si sa. A volte a molto tempo prima che ne arrivi uno, sono sempre più rari. Ormai molti di essi sono stati rintracciati, sottoposti al trattamento e resi innocui, mentre gli ultimi sono divenuti abili ad eludere i controlli. Perciò i miei occhi hanno un lampo quando sento un trambusto e vedo dal fondo le Guardie portare di peso quella figura femminile incosciente avvolta nel Mantello Nero, segno inequivocabile della condanna all’Indicibile Cura. Non dico nulla, ma mi avvicino, mentre la donna viene deposta sul letto. Mi riferiscono il suo nome, che riconosco tra quelli nominati più volte dai Dottori dell’Eterno Presente al mio Corso di Formazione: uno tra i più pericolosi. So che ne avrò per anni. Ed io ne ho soltanto dodici. È il mio compito. Torna all’indice
MAMITA. Manoscritto 2. Torna all’indice
2019, Terra dell’Avvenire Il Tribunale
Lungo il labirinto di corridoi del Palazzo Centrale, gli Uomini della Polizia mi trascinano senza tanti complimenti. Una teoria di porte aperte a calci e richiuse alle spalle con fragore, infine una grande tenda di velluto rosso, dove il silenzio non lascia intuire la presenza dei Giudici. Odore di incenso, credo. Qualcuno solleva il pesante drappeggio: nella stanza aleggia una luce anch’essa rossastra, carica di ombre semoventi, forse per via delle candele e dei lunghi ceri accesi. Da un lato la maestosa e alta tribuna di legno massiccio con gravi ornamenti barocchi, da cui vedo appena spuntare delle teste canute. Dal fondo buio, le Ombre del Popolo Giudicante. Due mani forti mi spingono a sedere sullo scranno, posto subito sotto la tribuna. «Immaculada Lucrecia Ruiz» dice la Voce Anziana che appena si solleva dalle altre, inaspettatamente suadente e informale, benché tremolante. Intanto qualcuno scribacchia ogni parola su una pergamena virtuale che viene proiettata sull’altra parete, affinché le Ombre astanti possano vedere e ripetere ogni parola in un’eterna giaculatoria, un’eco sospirata che, nonostante quelle siano alle mie spalle, so ripetuta anche nei gesti muti, come un’infinita teoria di specchi moltiplicatori. Nulla che lasci pensare ad un Tribunale, piuttosto ad una congrega di religiosi o di saggi, falsamente democratici, le sopracciglia sempre sollevate di chi sa più degli altri, retorici quel tanto che basta per assumere un aspetto autorevole con effetto autoritario invece sugli ignoranti, sul pueblo tenuto nell’ignoranza, mi dico. Vecchia storia. Non mi fregano, resto immobile, lo sguardo torvo, gli occhi asciutti. «Immaculada» ripete la voce, amplificata dal coro oscuro «Credi di sfuggirci, ma sono molti anni che ti riprendiamo: sul vecchio confine dei Pirenei, sull’estremità marittima del Nord, a San Sebàstian, o nascosta nelle
metropolitane di Barcellona, e te li nominiamo così perché altrimenti non comprenderesti» affetta magnanimo «la loro dicitura in uso qui, che presto diverrà ufficiale. Oggi ti abbiamo ritrovata a Valencia, dalle parti di Xàtiva, che ora chiamiamo Vendetta, mentre vagavi tra le tombe del cimitero. Ma come vedi, sei di nuovo qui. Rassegnati. Le tue idee, sciocche teorie romantiche, ingenuità idealistiche del secolo scorso, anzi, del Non Tempo, annullate dall’educazione all’Eterno Presente, sono definitivamente tramontate ed il Progresso, il Vero Progresso, è nelle nostre mani!» «Voi siete i traditori del Popolo, della Spagna e dell’Europa intera!» ho urlato, «La vostra presunta democrazia è solo Potere nelle mani di pochi, come tutta la Storia scritta dai Potenti ha sempre dettato!» e faccio per alzarmi nella foga, ricacciata subito sullo scranno dalle stesse mani forti. «Come osi!?» starnazza una voce femminile, resa roca dalla molte sigarette. La riconosco, la Compagna dal Caschetto Biondo, al secolo Matilda Grimèl, corpo grasso senza forme, che dalla fine degli anni settanta del secolo scorso aveva scalato tutti i gradi politici per l’ascesa alla Dirigenza del Partito. L’ho vista sui manifesti nelle strade delle città che ho attraversato. Ora, con le unghie laccate, le rughe stirate, gli abiti firmati, ne ha fatta di carriera, e rido dentro di me della sua aria decisamente borghese, anche se non è riuscita a migliorare il suo aspetto da Orco Maschio. La natura gioca brutti scherzi, anzi, spesso si cerca il potere proprio per colmare qualche manchevolezza della persona: troppo basso, troppo gobbo, impotente. O dello spirito: debole, vigliacco, opportunista, insipido, arrivista, stupido o narcisista tout court. «Il nostro è un Sistema assolutamente De-mo-cra-ti-co e il Po-po-lo è dalla nostra parte! Siamo per la difesa del Si-ste-ma Ter-ra, per l’Animalismo, per la difesa dei Diritti dei Lavoratori e delle Tradizioni, pur superando i limiti territoriali e culturali, nella ricerca però di un’unica Umanità, che abbracci intera ...» e mentre blatera a memoria il Manuale di Retorica del Progressista, ripetuto alle mie spalle come un ora pro nobis dalle voci delle Ombre, agita una mano ingioiellata e il busto si accartoccia sul piano dell’alta cattedra. Quasi rantola, poi si scuote e riprende: «... l’economia richiede molti sacrifici, una rinnovata moralità, che cerchi un dialogo, anche in senso enogastronomico, con tutte» e alza un dito rendendo al contempo acuta la voce da rospo «le Forze del Parlamento...»
«Par – lamento, sembra pianto» penso. Infine l’Orco Maschio si accascia e si addormenta, ronfando con la fronte al suo orologio ipertecnologico, in platino massiccio. «Ma se avete abolito il Parlamento da almeno dieci anni!» ho urlato sarcastica, «e quello che ho visto in questi ultimi è il contrario di quello che dite, come la parola Popolo, di cui non conoscete più il significato!» Dentro di me, da non so quale anfratto di ricordo è spuntata una frase, che non esito a ripetere a voce alta, impulsivamente: «La Superbia è un mostro terribile e l’Avidità un orco onnivoro» «Cosa dici?» urla un’altra voce femminile, poi riprende con enfasi teatrale: «Il Popolo... il Popolo... è salvaguardato dal nostro Governo, ed ha la possibilità di urlare la sua opinione nelle grandi Arene, capolavoro di compromesso dei Diritti degli Animali – soprattutto del Toro, nostro simbolo storico – e della Tecnologia, frutto del nostro Senso Civico, della Cultura Naturista e delle nostre Industrie, nonché del bisogno di Spettacolo e di Cultura, senza i quali la condizione umana sarebbe ben triste. Nuove generazioni di giovani educati al rispetto dell’Ideale Taurino Pacifista, le armi definitivamente abolite, così come abbiamo abolito il Ricordo, inutile sentimentalismo in nome di un altrettanto inutile ato... » «Lasci stare il Toro» ho detto senza fiato, inaspettatamente. Poi l’ho ripetuto, con un urlo secco, senza vedere nulla nella mia mente che potesse spiegarne la ragione, solo un dolore cupo provenire da un lontano richiamo, balbettante ed incerto. Per questo fuggo, per ricordare, lontano dal Grande Buio. Mi hanno riportata al silenzio, chiudendomi la bocca con un fazzoletto, anch’esso rosso. «Bene» ha sentenziato scuotendosi dal sopore la Matilda, che mi è sembrata aver cambiato capigliatura, ora scura, lunga e riccia, su una faccia dal pallore efebico. Ritrovando il tono livido di chi non scherza, e aiutata dalle voci delle Ombre sempre più incalzanti e deliranti, ha continuato: «Non ci hai dimostrato di migliorare, né di ravvederti, e come vedi» ha sibilato
da serpente «te ne abbiamo dato occasione più volte. Forse potrei riportarti ad empio esempio» gongola della cacofonia «in uno dei mie saggi, gli unici ammessi alla formazione culturale dei giovani, come il mio ultimo Taurinide y la revolución maldita. Ma credo che ci sfigureresti, e potrei farti fare solo la parte della buona idealista, vale a dire una nullità. Tanto lo so, a te non piace mai niente di quello che fanno gli altri, non è vero?» Gorgoglia in una risatina grassa, poi il suo corpo prende a lievitare ad ogni battuta, dall’alta tribuna fino al soffitto, gli occhi infuocati, i capelli divenuti rosso fuoco e irsuti. «Ma ora, per la legge che è dalla nostra parte, per il Popolo che rappresentiamo, tu, Arianna al contrario dei miei stivali, fuggiasca nei labirinti della metropolitana, non riuscirai ad evitare il Minotauro, vale a dire l’Ira della Legge Taurina! E pertanto sarai punita come Pravita Eretica!» conclude con la risata tuonante che le soffoca in gola. Poi si riprende battendo un colpo secco sul legno della tribuna, in attesa. Ho sentito alzarsi un suono lieve di chitarra, i i incalzanti di flamenco battuti dai tacchi e il ritmo dalle mani delle Ombre, che inneggiano ad ogni sua sentenza parziale con degli ¡Olé! «Per esserti macchiata del peccato di alzare più e più volte la Voce contro il Sistema, sei condannata al Grande Silenzio, per sempre!» «Silenzio, per sempre, ¡Olé!» tirata di chitarra e giro di flamenco. «Per esserti macchiata del Peccato dell’incapacità di credere alla Religione Taurina, sei condannata all’Indicibile Cura!» «Indicibile Cura, ¡Olé! » Dlèn dlèn dlèn tàca tàca tatatatàca. Si è zittita di colpo, lo sguardo ormai invasato, mentre dal fondo si è alzato un coro soave di bambini cantare gli ¡Olé! intrecciati in un inno celestiale, per poi muoversi in processione lungo la sala, fino a armi davanti: solo allora ho potuto vedere che essi indossavano enormi maschere di Toro, piccoli Minotauri canterini. Un’immagine lontana mi ha spaccato la mente e l’urlo mi ha fatto accasciare. Ricordo solo che, mentre cadevo a terra, il bagliore dell’anello di Matilda mi ha lasciato intravedere il grande arazzo rosso alle spalle dei giudici: un enorme Toro nero, dominante le frecce di una Falange rossa, sormontato da
un Crocefisso bianco. «Segni del Regresso …» ho farfugliato prima di svenire.
Mi sono svegliata nella cella asettica, una luce blu da zanzariera al neon che disegna gli spigoli lividi intorno. Una luce acida, invece, si è svegliata dentro di me: devo sbrigarmi. So cosa mi aspetta dall’Indicibile Cura. L’ho sentito raccontare dai miei compagni del Frente Revolucionario de los Indignados che sono riusciti a scappare prima, e devo resistere. Perché poi si scompare, senza lasciar traccia alcuna. Il primo trattamento di cui sono certa, avendolo più volte subìto tra una fuga e l’altra, sono le scosse elettromagnetiche, al fine di creare uno choc Anti-Ricordo e annullare qualsiasi traccia del Tempo-Prima. Poi la Condanna al Silenzio Assoluto, esperienza peggiore che se venisse asportata con un taglio netto la lingua, pena l’appesantimento della dose di scosse. Poi i trattamenti medici; loro li chiamano cure, ma sono sperimentazioni, data l’assoluta gratuità delle vittime. Ma devo aver imparato nel tempo a registrare tutto, perché appena cala il buio e resta solo una lucina fioca dall’esterno della cella, estraggo automaticamente dalla tasca del mio cappottaccio un quadernetto e una matita. Devo scrivere quello che ho visto emergere dall’urlo, ora che le immagini si accalcano, ognuna carica di richiami. Devo fare ordine, anche se la febbre sale. Mentre arranco nel labirinto della mia memoria distorta e sulle sue crepe aperte, so che non perderò subito la ragione, ma so che grazie alla Cura perderò progressivamente l’uso completo delle mani e via via di tutto il corpo. Scrivere è stato considerato sempre pericoloso, per le donne poi diabolico, anche se penso che mi lascino fare per poi sequestrarmi tutto, per mano della kapò che viene ogni giorno a visitarmi. Avevo fatto appena in tempo invece a leggere il ritaglio di giornale che avevo con me, perché me lo hanno strappato di mano e bruciato. Così ora provo a ricordarlo per trascriverlo, benché in pezzi.
Xàtiva 13 agosto 2016 ISLERO SEGUNDO UCCIDE ANCORA
Tutto fa spettacolo, come l’assuefazione alla morte. Il videogioco o i film l’hanno resa irreale, incorporea, anestetizzando la paura del rischio, che qui si corre davanti ad una bestia di oltre mezza tonnellata … a Pamplona si corre ancora davanti e a fianco dei tori, solo nel 2014 ci sono stati tre morti e oltre cento feriti … Nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo la corrida si svolgeva a cavallo ed era riservata ai nobili; nel Settecento si toreava a piedi, con maggior pericolo, ma restava un’arte solo per iniziati … mentre oggi, nelle nuove forme di turismo in cerca di forti emozioni, in una sorta di democrazia instupidita, tutti si buttano in bermuda nelle arene, gestite secondo la Legge Taurina. Ma rischiare la vita davanti ad un toro, e ubriachi, resta una sciocchezza, lontano dal valore e dal coraggio, perché atto senza regole, solo scaltrezza improvvisata. Islero Segundo, chiamato così in “onore” del primo che uccise il grande toreador Manolete del secolo scorso, ha finora ucciso sette uomini …
Mentre si è celebrata nell’ormai lontano settembre del 2011 l’ultima sfida tra torero e toro al Plaza de Toros di Barcellona, e la definitiva abolizione delle corride dal gennaio 2012 … come gli ultimi famosi matador delle corride clandestine, Islero è a maggior ragione considerato una star. Non ha infatti bisogno di essere difeso dagli animalisti: il gigantesco toro entra nell’arena non per essere sacrificato, ma per uccidere, per riempire gli spalti e far traboccare i botteghini, oltre ad aumentare il suo budget … su Youtube impazzano i suoi video da anni, mentre incorna, dilania, calpesta, travolge, garantendo la sua vita lontano dal macello. Toro toreato, toro bruciato, era uso dire negli allevamenti, perché si credeva che i tori ricordassero i trucchi degli umani e dopo una festa o una corrida venivano uccisi …
Islero Segundo era considerato uno scarto e da vitellone partecipava solo alle fiere. Ma essendo agile e capace di infliggere ferite come pochi è approdato presto nelle arene e alla gloria, per cui viene pagato fino a diecimila euro ad esibizione ed è sempre più al rialzo … perché ha ucciso ancora. Questa volta è toccato ad un venticinquenne di Xàtiva (Valencia); il 13 agosto, come decine di compaesani, l’uomo è ato tra le sbarre della piccola arena e ha chiamato Islero Segundo. Ma non ha saputo eseguire finte, o cambiare improvvisamente direzione, e non è riuscito a fuggire in fretta. Era ubriaco ed è scivolato. Il toro
lo ha incornato, lanciato per aria, e una volta a terra ha continuato a dilaniarlo … Il proprietario Gaspar Vicente Muñoz, ormai ricchissimo, parlando ai giornalisti, ha dichiarato che se qualche scienziato lo aiutasse, farebbe sicuramente clonare Islero Segundo, dato che la bestia ha ormai sedici anni …
Rivedo la foto terribile del toro, in tutto simile a quella del manifesto nei sotterranei della metropolitana, con la scritta inneggiante la Grande Corrida Animalista. Rivedo la foto del giovane alla corsa della festa di paese, la bianca camicia verginale macchiata di rosso, la schiena curva per via dell’incornata che lo ha trafitto, la smorfia di stupore mortale sul viso prima della caduta, gli amici a soccorrerlo inutilmente. Quando sia successo di preciso, non lo so, ma ora lo so, nel cimitero di Xàtiva – ora Vendetta, ahimè! – ero andata a cercare la tomba di mio fratello Pedro, morto anni prima dilaniato da un toro, in una stupida corsa come questa del 2017 e che sconvolse le mie idee, portandomi in un limbo di solitudine disperata, travolta dal dolore. Xàtiva è anche la città dove sono nata, nella Valle del fiume Albaida, il profumo di mare lontano, la città di Valencia, l’infanzia tra i campi di grano e i vigneti, a correre tra le gonne delle donne eternamente vestite di nero e in preghiera, in bocca le parole Jesus y Maria a pranzo e cena. Quando finalmente la sera non venivano sostituite dalle risate forti e dal suono delle chitarre, le mani sensualmente roteanti delle donne, più composti i movimenti degli uomini fieri nella postura eretta, i piedi a battere il ritmo severo del flamenco, cantato da voci rudi e apionate nei cortili e nelle locande. A volte erano le compagnie delle delicate zarzuelas a are sulle piazze d’estate, e per queste io restavo incantata ad ascoltare.
La mia lotta contro le corride aveva una radice antica, da una scelta vegetariana nata non per caso. Gli animali, da sempre, mi incutevano timore: mi sembrava quasi di sentirne i pensieri e una volta, per prendere un uccellino rimasto intrappolato dietro una pila di libri, ho pianto mentre lo afferravo con un asciugamano per riportarlo fuori in giardino, mentre il suo cuore e il mio battevano all’impazzata. Poi ho aspettato in pena dietro la finestra che la madre tornasse a prenderlo. Così come, pur avendo avuto persino la febbre per lo spavento quella volta che ero stata circondata da una muta di cani, avevo pur chiesto scusa ad un meticcio nero e zoppicante che si era sdraiato sullo zerbino di un negozio, perché io uscendo gli avevo sferrato un calcio sul muso senza
volerlo. Riuscivo a mangiare appena delle uova e del formaggio, che consideravo come doni naturali degli animali, mentre raramente ingurgitavo pesce, sempre che non ne vedessi lo stupore affranto delle bocche o le viscere collose, pena il mio rifiuto totale di divorare qualsiasi cosa avesse due occhi. Mi prendevano in giro perché mangiavo solo gazpacho, e crema catalana, mentre scappavo atterrita di fronte alla paella valenciana, al pollo, alle costolette di maiale alla madrilena. Benché conditi e saporiti, li vedevo come brandelli di carne in putrefazione, dopo quel giorno in cui, mentre mia madre faceva la spesa nella macelleria, ero rimasta ferma, affascinata e terrorizzata insieme, davanti ad un agnello dondolante da un gancio a cui era stato appeso per le zampe posteriori: gli occhi azzurrognoli e velati, la lingua rosea pendula, il corpo scuoiato. Nessuno vide il pallore che affiorava sul mio viso, mentre lo sguardo cominciò a roteare, posandosi sulle zampe giallastre dei polli, sulla testa di un vitello, sui cervelli a fette, sui ghigni dei conigli spellati, sui cuori rossastri, da cui l’odore di sangre y muerte saliva dolciastro. Mentre nasceva lo spasmo dallo stomaco, posai lo sguardo su due rotondi pezzi rosacei posati in bella mostra sul marmo grigio e che scambiai per rognone. Chiesi però con voce flebile a mia madre cosa fossero e lei serafica rispose: «Palle di toro, no? Fanno diventar forti!», mentre le vomitavo addosso quel delirio. Ma il terrore e la definitiva scelta di non mangiare carne, e l’orrore poi delle arene, come un destino segreto che si faceva strada – ora lo leggo chiaramente tra le maglie di ato – avvenne quando mia madre mi disse di andare a chiamare mio fratello Pedro, che si era fissato con la scuola di tauromachia. Ero entrata titubante nel cortile, dove sentivo impartire ordini ai molti giovani che si alternavano nei ruoli di picadores e quello, più ambito, di matador, mentre a turno dei ragazzini mimavano il movimento del toro, aiutati da una grande maschera infilata sulla testa. Fu proprio con la sua aria terribile che una di queste mi si parò davanti, simulacro carnevalesco di morte, lo sguardo cattivo di cartapesta, le froge larghe che mi sfioravano il volto, gli occhi di vetro incombenti su di me e fuggii urlando disperata, mentre quella peste di Pedro si liberava dal testone taurino, ridendo a crepapelle. Fu qui che probabilmente mi cadde addosso il destino di Arianna al contrario, perché il filo si era rotto, senza possibilità di ritorno. Gli adulti però non mi prendevano in giro, specialmente mio padre, brusco quando era ubriaco e tenero nel dopo sbronza. Quando mi chiedevano di cantare le zarzuelas nei cortili, tutti si commuovevano fino alle lacrime per la mia voce sottile e tremante. Allora facevo dei sospiri profondi di soddisfazione e fuggivo
in un angolo della casa, a sognare di andare via, e avere una compagnia tutta mia, vestiti sgargianti, mantiglie e pettinini, senza più rifare i letti dei fratelli prima di andare a giocare, senza lavare enormi pile di piatti, o stendere la biancheria, stirare, portare le borse pesanti della spesa, andare in processione vestita di bianco e quant’altro era considerato naturale per una femmina. Come aspettare l’uomo giusto della tua vita, per un altro carcere chiamato matrimonio.
La luce azzurrognola è sempre più fioca, ma resisto per scrivere, non devo dormire.
Tutto questo durò fin quasi alla fine del millennio scorso, quando mi ribellai, divenuta appena adolescente e bella di giovinezza, gli ideali politici di giustizia sociale e di lotta nutriti dalle figure leggendarie come Dolores Ibarruri, detta La Pasionaria, o dalle letture febbrili di Federico Garcìa Lorca, ucciso dai Falangisti, di cui cantavo sulle note di chitarra le canzoni. E quelle nate anni prima dalle piazze liberate dal franchismo alla morte del Caudillo nel 1975 e poi alla caduta del Movimiento Nacional e della dittatura. Per poi tirare fino a tardi, danzando e bevendo sangria, a ridere e scherzare, e gli occhi dei compagni, giovani, belli e innamorati, da amare poi in qualche angolo di strada. Negli anni dopo il liceo la vita mi prese. Alla laurea ci avevo rinunciato, forse perché sognavo di cantare e basta. Avevo trovato perciò lavoro in una fabbrica di espadrillas, di cui possedevo diverse paia molto colorate, mentre sognavo scarpe di cuoio e in questo contraddicevo la mia scelta di non mangiar carne. Quando ebbi i miei primi sandali verdi, il mio colore preferito, dato che il rosso mi incuteva soggezione e allo stesso tempo rabbia per via del sangue delle macellerie e poi per via di Pedro, li portai fino a consumarne la tomaia. Partecipavo a riunioni apionate, dove si parlava di grandi riforme. Ma fu lì nella fabbrica in realtà, con l’arrivo della crisi economica gestita dalle grandi multinazionali, che gli ideali nostri lentamente stemperarono e i lunghi anni che seguirono, benché di resistenza contro una vecchia cultura che tardava a morire nonostante le numerose lotte sindacali, furono un susseguirsi di delusioni. Alcuni compagni si erano seduti in giacca e cravatta sulle sedie del potere, chi si faceva gli affari suoi che lui ci aveva famiglia, chi aveva rinunciato del tutto, e quando ci si incontrava nelle sempre più rare e pigre riunioni si era ati dal giovanile
Di che partito sei? al triste Di che segno sei?. Solo Matilda Grimel, non ancora Orco, era riuscita ad entrare nella scuola di Partito, e quando incontrava gli altri parlava già come un manuale stantio, che nulla aveva a che fare con la forza dei grandi ideali e dei movimenti popolari. Lo capii definitivamente quando ero entrata nell’ufficio del sindacato dove lei ormai lavorava – la sua pur viva intelligenza, adeguatasi al linguaggio del potere maschile, le aveva permesso comunque di farsi strada – e lei, per non rovinarsi le lunghe unghie laccate, infilava una matita nei cerchietti del telefono, uno di quelli col disco rotondo e i buchi, ora venduti come costosissimi oggetti vintage. Mi aveva rivolto appena lo sguardo mentre le chiedevo perché non avanzassi mai di categoria, nonostante i molti anni in fabbrica, e lei mi aveva risposto: «Se tu stessi più calma, otterresti molto, molto di più, Lucrecia.» Cosa improbabile di sicuro, per via della mia impulsività, come quella volta al consiglio comunale, tutti uomini e io sola a urlare: «Se voi siete qui e non c’è nessun’altra donna oltre me, è perché voi venite a parlare di rivoluzione e loro sono a casa a preparare le vostre cene, a stirare le vostre camicie!» Dopo i terribili attentati sui treni a Madrid, gli anni di Zapatero avevano portato una ventata di aria fresca, che conduceva la Spagna a livelli di notevole progresso dopo il lungo oscurantismo franchista. Leggevo febbrilmente sui quotidiani di molte donne al governo, del ritiro dell’esercito spagnolo dall’Iraq, delle grandi riforme sociali: la legalizzazione dei matrimoni omosessuali e i diritti dei transgenders, l’assistenza agli immigrati clandestini, la fecondazione assistita, la sperimentazione terapeutica con la clonazione delle cellule staminali e il primo acceleratore di particelle ai fini della ricerca scientifica, la depenalizzazione dell’eutanasia per una morte dignitosa, lo stato laicizzato. Ma Zapatero aveva ricevuto contestazioni da parte della Chiesa cattolica, che aveva accusato il governo di voler attaccare la famiglia e di preferire le scimmie all’embrione, per via del riconoscimento dei diritti civili nel Progetto Grandi Scimmie Antropomorfe. Così aveva cercato di placare le polemiche con inviti ufficiali alla Santa Sede a visitare la Spagna. Aveva inoltre fatto rimuovere ogni statua o immagine di Franco e risarcito i figli delle vittime della dittatura. Aveva promulgato il risarcimento totale del biglietto ferroviario, anche per il ritardo di soli cinque minuti e contro l’anoressia e l’obesità aveva vietato le sfilate alle modelle sotto la taglia 38, e le pubblicità inneggianti al cibo ipercalorico come il panino King XXL, pari a dieci uova fritte.
Quando è arrivata la grande crisi del primo decennio del secolo, su forti pressioni dei mercati internazionali, è stato proprio Rodriguez Zapatero ad annunciare la notizia del voto. Poi di lui non si è saputo più niente, o almeno per me, nella mia memoria contorta, perché è qui che si fermano i miei ricordi, perdendosi nella nebbia della mia solitudine la ricerca di qualche Terra Promessa, già allora tradita dagli eventi e fuggita dal mio spirito. Così che quando arrivò quell’omaggio postale con le figurine de la revolución, io ne risi debolmente mentre le guardavo, pur belle nei loro disegni antichi, dai colori pastello, i volti ingenui e carichi di ideali: ¡Campesinos, la tierra es vuestra!, Oficina de Información y propaganda, Tierra y libertad contro Franco el generalisimo, l’immagine de La Pasionaria col fucile e la scritta ¡Y no pasaran!, poi Marx e Engels su una copertina color marroncino de O Manifesto e quella del Che d’oltre America, e allora non potei non pensare alla fine stereotipata di quelle immagini, ormai stampate sulle magliette. Ma chi fu a spedirmele? Cerco ancora nella mente, poi il respiro si sospende e per un attimo intravvedo, ancora sfocata, quell’alta figura maschile, avanzare ciondolante...
Devo cercare di non dormire, i sonniferi che mi hanno iniettato sono potenti. A vincere però è il Grande Buio dei Penitenti. Torna all’indice
DISPREZZO. Torna all’indice
La donna non sembra avere reazioni: oltre al Silenzio che le è stato imposto, non alza mai lo sguardo dal tavolo, dove rimane immobile per ore. Solo quando riceve i necessari trattamenti Anti-Ricordo, come le scosse, resta a lungo inerme sdraiata sul letto. Appena un mugolio nel sonno, niente più. Io o davanti l’inferriata ogni quindici minuti esatti, il tempo che impiego per percorrere il corridoio in tutta la sua lunghezza, per poi tornare indietro. Nessun movimento. Se non ci fosse il rischio di una qualche forma di ammirazione che, come ogni altro sentimento, è bandito dalla N.E.T., direi che il suo comportamento è impeccabile. Ma essendo stata una fuggitiva recidiva per anni, è troppo tardi ormai, e l’Indicibile Cura necessaria. Sono entrata nella sua cella, ho controllato ogni angolo, come faccio a fine turno. Poi mi sono avvicinata a lei: è di corporatura minuta, di carnagione ambrata, i capelli neri, le mani affusolate, tenute ferme sopra i fogli che ha appena finito di scrivere. Ma sono quegli occhi, piccoli e brillanti, che mi fissano quasi parlando, che disprezzo sopra ogni altra cosa. Ha l’aria stanca, ma non fa nessuna resistenza quando afferro i suoi manoscritti con freddezza e, senza degnarli di uno sguardo, li piego con cura, come faccio ogni giorno, per affidarli all’uscita al Sistema di Controllo. Nel movimento brusco, la sua matita cade a terra: un lampo in quegli occhi, quegli occhi piccoli e lucidi, in contrasto con la bocca serrata. Chiudo quasi i miei in una stretta fessura, quasi a difendermi dalla luce che quegli altri emettono e provo ancor più disprezzo per l’Impenitente. Sentimento che ho ricacciato subito in una zona fredda del cervello. Mi sono piegata e ho raccolto la matita appoggiandola lentamente sul tavolo, per farle capire che lei è nelle mie mani, sotto il mio controllo assiduo e puntuale, e che ogni minimo disturbo sarà riferito più in alto. Chiudo la porta ferrata dietro di me, mentre sento tremare quei fogli sotto il braccio, sicuramente pericolosi. Sì, sento il dovere di leggerli prima di riporli nell’Archivio Segreto del Ricordo. Torna all’indice
LÀGRIMA. Resoconto 3. Torna all’indice
Dell’infanzia, anche se si sforza, Làgrima non ricorda niente. Vetro, forse. Odore di ammoniaca. E buio. Una piccola scatolina, e il silenzio di Lei, qualche grugnito soltanto, animalesco, i grandi occhi scuri, espressivi, quasi parlanti, l’unica cosa che riesce a vedere del suo corpo, che le sembra sempre più imponente, di cui però non intravvede null’altro, nascosto com’è dal grande panno nero. Teme i suoi modi bruschi, anche se sa di essere molto amata. Da diversi giorni però Lei le si nega, facendole capire che non deve entrare, che non può. Ma Làgrima deve dirglielo che non è riuscita nel suo compito, che qualcosa è andato storto, anche se teme di ricevere un rimprovero, espresso con un rumore secco di duro legno battuto a terra. Si distoglie dall’accarezzare la stoffa dell’abito di raso, i cui volants pendono fuori dall’armadio. Oggi non eseguirà il suo Rito della Serva, la pièce de la bonne, davanti allo specchio, dove si è portata ora a controllare le sue forme minute: i seni alti a coppa, la vita stretta, i fianchi rotondi, i piedini piccoli, la bocca di rosa, gli occhi scuri segnati da un’espressione ridente, ma malinconica, lontana, la pelle setosa, la capigliatura a corte ciocche mosse color biondo platino. È sempre identica in ogni parte, solo più cresciuta rispetto a qualche tempo fa, tempo che controlla sul terminale sul comodino: sono ati ventisei anni. Ma se ne sarebbe accorta lo stesso dagli abiti e delle scarpe di raso verde, dentro i quali ha misurato il lento ingrandimento del suo corpo, dalla prima volta che, di nascosto da Mamita, era riuscita a raggiungere la chiave dei bauli della camera di albergo di allora. Ogni sera, se di sera si poteva parlare in quel susseguirsi di stanze inondate d’ombra, Làgrima aveva indossato con gesti lenti la mise rosa, che nei primi anni le cadeva fino a terra. Camminando incerta sulle scarpe allora grandissime, trascinava l’abito come uno strascico e nel suo ancheggiare buffo ed inesperto raggiungeva lo specchio, davanti al quale eseguiva volteggi goffi, ma già sensuali, lasciando cadere la testa indietro con una risata piccola e argentina, che suonava come un camlino, date le sue dimensioni ridotte. Ritornata in equilibrio, portava le mani sui fianchi in modo elegante, quasi a segnare un inizio del suo spettacolo, poi le faceva volteggiare ancora, commentando il significato delle brevi frasi di zanzuelas che cantava con
voce intonatissima. Le aveva imparate da alcuni dischi di vinile che ancora poteva far suonare da un vecchio apparecchio, anche quello portato sempre con tutto il resto, nei traslochi che ormai da anni eseguivano da una città all’altra della Spagna, ma di cui ancora non sapeva il motivo. Si muoveva come se conoscesse da sempre quei gesti. Poi lasciava lo specchio e si voltava verso la stanza in penombra. Immaginando il pubblico davanti a sé e quel locale di confine chiamato Coast Manero, eseguiva un profondo inchino e ritornava diritta, sussurrando le grida immaginarie di applauso: «Marilyn, Marilyn Conchita, canta ancora, canta ancora per noi!» Lei alzava le mani riconoscente e rideva ancora con quel gorgoglio fresco, suadente, poi quasi si scusava, compiaciuta però per quel desiderio oscuro proveniente dalle ombre immaginate intorno, e dichiarava che avrebbe recitato. Così iniziava a declamare: «Io lo amavo, ormai. Non avevo più dubbi. Seduta al bancone del bar di confine Coast Manero, con questi miei occhi scuri, piccoli, brillanti e tristi sotto il cappello frou frou che sembrava uscito da un quadro di Toulouse Lautrec, il vestito di lamé aderente alle mie curve, guardavo indifferente gli altri uomini, molti dei quali forse mi avevano avuta per una notte, ma mai posseduta. Come invece accadeva con lui...» e si dirigeva verso una tenda, che immaginava come una quinta da film muto, e vi si aggrappava, sussurrando ancora al buio intorno, prendendo spunto da chi sa quale memoria: «Lui, Clark Manolete, torero di professione, non doveva fare molto in realtà, ché già io, al vederlo arrivare, mi liquefacevo in un piacere indefinibile, le gambe divenivano molli, il petto palpitava, facendo schizzare il seno fuori dalla scollatura, mentre la bocca si dischiudeva, erotica, succosa. Solo al sentire la sua voce provenire dall’ingresso del locale, la stanza cominciava a ruotarmi intorno e non per l’ennesimo drink-pepita che avevo bevuto. La gola mi gorgogliava e gli occhi cercavano nella sua direzione, mentre il suo profumo, profumo di maschio, mi faceva dilatare aritmicamente le narici. Le mani si protendevano per toccarlo e l’ultimo senso, quello del gusto, si imponeva sugli altri nella voglia spasmodica di assaggiare la sua pelle, quella bocca carnosa, ferma in un ghigno sottolineato dai baffetti fini sui denti bianchissimi. Oh, Clark! Clark Manolete! Quello sguardo di sbieco che ruotava lento intorno, incurante del fumo della sigaretta, rigorosamente senza filtro e perennemente accesa, le sopracciglia tenute alte per l’ostentazione dell’aria scettica da duro, le spalle ampie sotto il
corpetto perfetto, le mani nelle tasche dei pantaloni. In questa posizione avanzava verso di me, concludendo il tragitto con un lieve dondolio dei piedi, una mano ora a prendere la sigaretta, per lanciare la boccata di fumo a lato, senza staccare gli occhi da me, che reclinavo il collo all’indietro e sorridevo … i miei dentini, la voce tintinnante come i miei orecchini … la pelle di seta scura, i capelli biondi ossigenati e ondulati intorno al volto piccolo che finiva con un nasino impertinente... ¡Oh, Marilyn Conchita! Te quiero … mi diceva. ¡Mi hombre! rispondevo. E non serviva altro. Lui mi cingeva i fianchi, giocando in superiorità, io giocavo a far la piccina, poggiando le manine sul suo petto, poi lui mi teneva stretta e alzandomi da terra mi portava nella sua stanza, mentre lanciavo dei gridolini, scalciando coi piedi che perdevano un sandalo di raso verde …» Làgrima rideva forte e solo allora tornava in sé. Dopo un lungo sospiro, lentamente rimetteva ogni cosa in ordine, nella stanza tornata solitaria. Come una serva, che vuole somigliare alla sua padrona. E come una serva del destino di Mamita, anche la sua vita si è svolta sempre uguale, se non in quella crescita impercettibile e perfettamente geometrica, destino che da quella sera aveva preso la sua strada finale, lo sapeva, ma che lei eseguiva e basta, anche se non se ne chiedeva il perché, ché avrebbe compreso tutto, di lì a poco. Dovrà invece entrare nella stanza di Lei, anche se Mamita, se lo ripete timorosa, da alcuni giorni non vuole, e deve trovare il coraggio di dirle che non è riuscita a vedere il suo adorabile cialtrone picador travestito da matador, il suo paladino della Tradizione, della Corrida dell’Uomo contro il Toro. E che forse ormai volava verso i cieli della Spagna del Cid Campeador, del sognante Re Sigismondo e di don Quixote de la Mancha, sognatore povero e poeta. E chissà perché, le viene in mente una battuta di Mamita: «L'amore è il contrario di una caramella: prima si assaggia e poi eventualmente si scarta.» Sommessamente ride, della sua risata brillante, con gli occhi invece umidi e tristi. Come avrebbe fatto Mamita, vestita da Marilyn Conchita. Torna all’indice
MAMITA. Manoscritto 3. Torna all’indice
2021, Terra dell’Avvenire Il Grande Buio
È l’ora della pappa. La mia kapò è puntuale e rigida, anche se quando posa il piatto su questo tavolo metallico, in questa stanza tetra, mi sembra che tremi un poco. Stasera brodo transgenico, credo. Così lo chiamo, nella mia totale ignoranza di cose chimiche o fisiche. Lo capisco però dall’odore sulfureo e dolciastro, su cui galleggiano pillole azzurrognole e chicchi traslucidi. Una volta ingeriti non sarò più io e dovrò sbrigarmi a scrivere tutto, perché è oltre un anno che mi costringono a berne. Già da tempo ne percepisco le conseguenze, come i gonfiori delle gambe e delle mani, i dolori nelle ossa e i movimenti sempre più lenti, oltre al sonno che può durare giorni. E capisco anche che quella di oggi è una dose fortissima, forse l’ultima. L’Indicibile Cura, la chiamano loro, con un sorriso affettato. Dicono che è per il mio bene, che avrò una nuova vita. Lo fanno però senza l’esaltazione religiosa del Tribunale, ma più come qualcuno che in realtà medita e prevede un buon affare, per cui penso che mi abbiano venduta a qualche faccendiere dell’industria farmaceutica, razza di cinici mercanti che, come i ricostruttori, da sempre si insidiano nelle rivoluzioni e nelle guerre, e spesso le provocano, e sono quelli che ci guadagnano veramente. Lo capisco dal lusso degli edifici, dove, nonostante la mia condizione, vengo portata di volta in volta. Lo capisco dal loro sguardo obliquo, la laidezza segnata sulle labbra, le mani strofinate una contro l’altra, i modi così vomitevoli che quasi rimpiango quelli autoritari e ideologici del Tribunale, gratuiti almeno nella follia della loro idea.
Già dalla prima volta mi hanno fregata. Credevo fosse un provino per cantori di zanzuelas, dato che ne ero diventata una discreta interprete. Mi ci ero presentata da sola, avendo ricevuto una raccomandata postale che mi invitava alla
selezione, dopo avermi sentito cantare in un locale. A me non era sembrato vero, finalmente avrei coronato il mio sogno e avrei potuto lasciare la fabbrica. Ma il vero mandante era il Tribunale del Grande Buio, dopo la Irrimediabile Crisi e la Riforma Taurina. Così si esprimono, con un buffo linguaggio di fumetti, ma forse è a me, giullare di periferia, a sembrare ridicoli, come tutti quelli che credono eccessivamente nel proprio potere, che in quegli anni però, basandosi su una ben costruita credulità popolare, attraverso la disinformazione e i trattamenti Anti-Ricordo, era cresciuto fino a diventare potere assoluto e aveva indagato su di me, che avevo militato nel Frente revolucionario, ma poi ero tornata ad essere un cane sciolto e forse per questo ritenuta ancora più pericolosa, capace di colpi di testa imprevedibili. Ho cominciato a cantare davanti a quei volti che rimasero senza espressione durante tutta l’esecuzione e così pensai di non essere all’altezza. Ci misi un po’ a capire che le cuffie indossate dai Giudici, che mi erano sembrati strumenti naturali per chi ascoltava musica, erano utilizzate invece per non ascoltarla, pena l’emozione che avrei suscitato e il conseguente vacillare delle loro convinzioni bigotte. L’arte è bandita dalle dittature, per il suo potere sognante, per le sue visioni realizzabili e pertanto destabilizzanti. Oppure viene umiliata e costretta ad essere una marionetta di maniera, utile all’esaltazione dell’Idea. Alla fine della mia prova, si sono tolti le cuffie e mi hanno sorriso, ripetendo l’eterno: «Chiameremo noi.» Ma mentre percorrevo il corridoio per andarmene, mani forti mi hanno afferrata e legata e poi portata qui, in stanze grigie e anonime come questa. Non ho mai subito violenze, come lo stupro, oggi credo per il loro presunto purismo ideologico, o semplicemente per gli ideali pseudo animalisti: cos’è una donna, benché sensibile, se non una bestia in fondo? Hanno però praticato sul mio corpo ogni sorta di sperimentazioni elettrochimiche, trattamenti elettromagnetici, credo, oltre a cicli di chemio, forse per asportare il tumore del Pensiero. Da allora sono fuggita almeno tre volte, dopo i trattamenti AntiRicordo, ogni volta alla ricerca di un pezzo di me. Da quella volta perciò ho diffidato di lettere e pacchi postali. Penso fumosamente ad altre lettere mai aperte e intravvedo quella figura maschile, come un sogno speditomi dal fondo della mia coscienza oscurata,
avanzare verso di me e sorridere, con quel modo sghembo che so di amare. E temere. Ma oggi, frugando nelle tasche della mia divisa di carcerata, con sorpresa ho trovato un pacchetto ammaccato, l’ho aperto a fatica, le mani tremanti, la mente vagante e pur curiosa. Dentro c’era un piccolo album, con delle figurine. Quando ho trovato quell’immagine sdrucita della Pasionaria, con il fucile imbracciato contro i Franchisti e la scritta rossa !Y no pasaran!, finalmente da quel sogno, in un singhiozzo di memoria, ho ritrovato il tuo nome: Clark! E altre parole, e altre immagini si sono incatenate, per liberare il Ricordo. Clark, Clark Manolete. Finto matador, vero picador. Del mio cuore. Ora il tuo volto compare più nitido, anche se con i movimenti veloci di un film muto, dal montaggio stracciato. Ma ho ancora tutta la notte per ritrovarti, e faticosamente riesco a ricostruire un prima e un dopo in sequenza logica, sempre che l’Amore possa restarne ingabbiato, se pur per qualche attimo.
Venivamo da vite diverse, ma ti amai subito, per quella tua idea infantile e candida della vita, come queste figurine sull’album che tu hai raccolto per me, anche se non credevi a quelle idee rivoluzionarie, mentre tu eri un romantico solitario e disilluso. Quando arrivarono ero già in fuga e solo per caso ero ata di notte nella casa dei miei, che avevo salutato in fretta e che, abbracciandomi per quella che sarebbe stata l’ultima volta, mi consegnarono qualche tua lettera e il pacchetto. Il cellulare, dopo un po’ di tempo in cui non potevo dare altre risposte se non generiche a chi mi inviava messaggi, lo avevo buttato in un tombino, per non essere più rintracciabile. Quel primo giorno in cui ti ho visto, Clark, nei primi anni del nuovo millennio, avevo cantato sul piccolo palco allestito nella sala per la manifestazione contro la tauromachia, sotto l’egida del Movimento Anti Corrida. Ora mi dedicavo alle cause, più che a discorsi troppo generici sulla politica, che mi sembrava ormai stantia e pedante, amore puro e colloso per il profumo delle poltrone. Poi tra gli applausi mi aveva raggiunto Valério, il Capo dell’organizzazione, che aveva declamato i motivi di quella manifestazione: «Dobbiamo porre fine a questa incredibile crudeltà, ed eccone i motivi: noi non siamo migliori delle bestie, e se non possiamo fare a meno di mangiare carne nel nostro paese mediterraneo, peraltro ricco di frutta e di verdure, non c’è motivo di
maltrattare con riti primitivi animali come il toro, che è un animale erbivoro, allevato nei pascoli fino all’età di quattro anni, per essere poi portato nelle arene. Prima di entrarvi viene tenuto al buio, drogato e purgato, poi percosso sulle reni con sacchi di sabbia, per indebolirlo. Gli viene quindi cosparsa trementina sulle zampe, per impedirgli di stare fermo e applicata vasellina sugli occhi per impedirgli una buona vista. Gli viene infilata stoppa nelle narici e nella gola per impedirgli di respirare e conficcati aghi nelle carni. Una volta nell’arena, viene martoriato con picas, banderillas e spada, che danno dolore ed emorragie. Quando esce dall’arena viene trascinato via e spesso, ancora vivo, gli vengono tagliate coda e orecchie per averli come trofei. Dite voi se la corrida è una forma civile di festa, signori!» e Valério si era fatto tutto rosso per il fervore, mentre io gli avevo stampato un bacio sulla bocca e poi avevo ripreso a cantare sugli applausi della folla. Più tardi, scemati i gruppi più numerosi, mi avvicinai al bancone del bar e vidi con la coda dell’occhio quella figura sbilenca. Veniva verso di me. Alzai lo sguardo e non fui più io. A Valério, che non era affatto stupido e mi amava in modo sincero, non era sfuggita la mia reazione e si era allontanato scuro in volto, già sconfitto come un matador inesperto. Pensai subito che l’altro fosse una sorta di infiltrato, ma subito dopo capii che non era di nessuna squadra, e che la sua presenza lì era il frutto della sua sfrontatezza solitaria. Stava davanti a me, un po’ curvo per via dell’altezza, con quell’aria antica, con quella faccia insolente, i capelli tirati indietro con il gel, i baffetti fini e buffi disegnati sul labbro arricciato del sorriso sghembo, per via della sigaretta senza filtro che teneva in bocca, pur sapendo che nella stanza era vietato fumare, e lo sguardo ancora più sfrontato, mentre mi chiedeva: «Ma non ci siamo già visti a Venezia?» La mia fu una risposta da scettica dura, ma il cuore iniziò a tremarmi per quel suo fare spudorato. «Ingenuo e gentile» mi dissi, nonostante il dispetto che provavo. Ma a ventisei anni ne avevo fatta di strada, e il femminismo giovanile che una
volta mi avrebbe fatto fremere di rabbia per quel maschio impertinente, aveva però liberato la sessualità repressa dall’educazione cattolica dell’infanzia, e ora respiravo finalmente come una donna sensuale, catturata o no, non mi importava, fa parte del gioco amoroso. Ma ancora avevo paura degli uomini, non certo perché temessi che potessero catturare la mia libertà, ma perché li immaginavo tutti come mio padre, autoritario, maschilista, brusco anche se buono, e che andavo a riprendere nelle osterie, ubriaco di malinconia canterina mentre lo riportavo a casa. La stessa malinconia, più allegra nei modi e perduta nello sguardo, che aveva mio fratello Pedro, forse una cognizione segreta della sua fine prossima, col suo romanticismo da paese, gli occhi brillanti sulla camicia eternamente bianca, quella della purezza degli eroi inutili. Ecco perché non avevo avuto ancora una storia d’amore vera: me ne privavo o mi punivo per qualche strana legge del contrapo che non sapevo spiegarmi del tutto. Oppure mi infatuavo solo per gli uomini come lui, poco raccomandabili e canaglie già a prima vista, forse pensando che avrei dovuto sfidarli o salvarli. Lui, col sopracciglio sempre alzato e il ghigno della bocca, aveva qualcosa in più nella sua aria ironica e tragica insieme, come uno che non aveva nulla da perdere, dato il suo aspetto di uomo maturo, forse oltre i trentacinque. Allungò la mano verso di me, mentre con voce da film esordiva con un: «Manolete» e fu chiaro il riferimento sfacciato al grande toreador degli anni quaranta del secolo scorso, in quella situazione in cui lui proprio non c’entrava niente. Lo scetticismo e la rabbia crebbero in me in egual misura a quella provocazione e risposi: «Conchita», ma avrei potuto dire Maria o Ines, mentre tendevo a mia volta la mano tremante, impacciata per via della timidezza che maledissi dentro di me, sapendo bene cosa significasse in realtà. Solo qualche tempo dopo compresi la scelta inconsapevole di quel nome: era la protagonista, impersonata contemporaneamente da due attrici, del film Ese oscuro objeto del deseo, Quell’oscuro oggetto del desiderio, di Luis Buñuel, dove Conchita fa impazzire il suo innamorato senza concedersi e dove probabilmente il doppio femmineo era il simbolo della natura inafferrabile della donna da parte di un uomo. Lui non fece altro, sorrise, si riportò alla sua statura, dato il mio corpo minuto, tirò una boccata di fumo, poi si avviò verso la porta con il suo incedere altalenante, tipico degli uomini alti, ma in quel caso volutamente esasperato, lento, per prendermi
in giro, el moreno y alto... Mentre guadagnava l’uscita si voltò e ancora verso di me: «Sabato sera, al cinema Splendor.» Poi sillabò: «D’es-sai», chiaramente riferendosi alla mia aria intellettuale con la puzza sotto il naso. Infine ruotò su se stesso, mimando la mossa finale del toreador, e prima che gli lanciassi qualcosa contro, sparì nella strada. Fu in quel momento che mi tornò in mente la canzone di Garcia Lorca, la stessa che avrei cantato immemore nei cunicoli della metropolitana. Fu un ritorno alle origini che avevo negato fino ad allora, anche se cantavo le popolari zanzuelas: potente eco d’amore, accompagnata dai suoni eleganti della chitarra, e cantata da tutte le donne spagnole in coro nei cortili della mia infanzia, i movimenti dolci dei fianchi, gli occhi innamorati e colmi di ione.
De los cuatro muleros, de los cuatro muleros de los cuatros muleros, Mamita mia, que van al campo, que van al campo
el de la mula torda, el de la mula torda el de la mula torda, Mamita mia, moreno y alto, moreno y alto
Poi mi guardai intorno, temendo il giudizio degli altri, sia per l’estraneità dell’uomo, ma soprattutto per il mio rossore, per cui mia madre, mia nonna e ancora tutte le donne del mondo mi avrebbero presa in giro, perché, legge universale dell’amore, lo avevano provato, e perciò capivano che è inutile
cercare il fuoco per la strada, se a bruciare è il tuo volto
¿A qué buscas la lumbre? ¿A qué buscas la lumbre? ¿A qué buscas la lumbre? Mamita mia la calle arriba, la calle arriba
si de tu cara sale, si de tu cara sale si de tu cara sale, Mamita mia la brasa viva, la brasa viva?
Al cinema, come si vedeva una volta al buio, oggi assolutamente proibito dato che tutto deve avvenire alla Luce delle Arene, pena la carcerazione, lui già mi teneva la mano e io pian piano avevo poggiato la testa sulla sua spalla. Il film d’essai era The Mistfits del 1961 di John Huston, in bianco e nero, il cui titolo in spagnolo era stato tradotto in Vidas rebeldes, in America Latina in Los Inadaptados, in Francia Les Désaxés, in Italia Gli spostati, con Clark Gable e Marilyn Monroe. Ridemmo di quell’abitudine delle case di distribuzione cinematografica, abitudine soprattutto italiana in verità, di cambiare i titoli non mantenendo quello originale, spesso con scarti comici nella traduzione o non congrui all’essenza stessa della storia narrata, e magari uno spettatore a cui era venuta la voglia improvvisa di andare al cinema, ando davanti ad una sala si era fatto prendere dalla promessa del titolo, uscendone poi perplesso o deluso. Ma quel film, in qualsiasi lingua, mostrava due personaggi così perduti, che sentimmo subito di amarli, perché anche tu, Clark, e anch’io, e lo sapevamo, eravamo dei disadattati, sperduti, e nonostante tutto, ribelli. E questo, in qualsiasi lingua, apparve subito come un paradigma delle nostre vite, date le differenze tra di noi e la storia del film, che vale la pena raccontare: in un piccolo gruppo di personaggi che pensano di essere dei ribelli senza padrone, Roslyn (Marilyn) inizia una relazione con Gay (Clark), un cow boy che prende parte ad un rodeo, mostrandole però una sua parte cinica, rozza e violenta. Ma quando lui, in
omaggio a lei, libererà un cavallo selvaggio appena catturato con gran fatica, conquisterà definitivamente il suo cuore. Nell’androne c’era una foto in cartolina, che poi ho tenuto con me per anni, dove sia Marilyn che Clark, lui con un bicchiere in mano, sono seduti vicini, e sorridono appena, malinconici. Guardano in basso verso il vuoto, verso una propria solitudine, nonostante l’amore nato tra l’uomo e la donna. E anche le vicende della vita vera dei due attori, lette sul dépliant, entrambi al loro ultimo film, sembrarono toccare qualche essenza profonda di noi due, che allora non sapemmo spiegarci: durante le riprese, Marilyn arrivava sul set esausta dal lungo uso di alcolici e droghe e morirà mesi dopo, e mi vennero in mente i Décollages di Mimmo Rotella, le icone straziate che di lei aveva fatto l’artista italiano, la sua figura della diva emergere da strati di manifesti stracciati. Mentre Clark Gable morirà di infarto subito dopo la fine del film. Ma quella sorta di disperazione solitaria e scanzonata e spaventata, nel mio accompagnatore già evidente, in me in costruzione, ci portò uno nelle braccia dell’altra. Il cinema ci piaceva moltissimo ed è quando siamo andati a vedere il film che narrava la storia del toreador Manolete, di Menno Meyjes, con Penelope Cruz e Adrien Brody, lui convinto e io recalcitrante in verità, qualcosa di più profondo si è rivelato tra di noi: lo vidi al buio che piangeva sommessamente sulle ultime scene, in cui si vede la sconfitta e la ferita mortale del toro Islero su Manolete e poi lei, Mamita, bandita dalla vita ufficiale in quanto amante e non sposa legittima, nascosta tra la folla ai suoi funerali. All’uscita, camminammo a lungo vicini, commossi per quello che avevamo visto. Poi, tra le lenzuola, giocammo io a fare il toro, anche se femmina, e lui a fare il torero anche se picador e lo sapevo: me lo avevano detto di lasciarlo perdere, me lo avevano detto al Centro Culturale che lui era un bugiardo matricolato, ma a me era piaciuta proprio la sua aria cialtrona, dietro cui nascondeva la timidezza. Timidezza che ho sempre amato molto in un uomo, specialmente quando è mascherata da tragico giullare, come a dire: «Sono qui, signore e signori, anche se ho paura.» Io ero per il Toro, per via delle macellerie, Clark era per il torero, per via del coraggio. E ancora lui a sostenere che l’amore è come una corrida, ione e abilità, amore e morte, io a ripetere le battute di lei: «Per voi uomini niente è reale finché non sanguina» e:
«Sei il più bel mostro che abbia mai visto», mentre lui mi sussurrava e infine urlava: «Mamita, Mamita!» Fu così che, per gioco, iniziammo a chiamarci lui Clark Manolete e io Marilyn Conchita, detta Mamita, e furono i nomi che quasi si sostituirono ai nostri veri nel tempo. Già dal primo film, lui, che mi era sembrato più sarcastico e insensibile, dimostrò invece di essere curioso e amante dell’arte, dove entrambi ci eravamo rifugiati per sfuggire al male di vivere. Fu così, e sempre per gioco, che decidemmo di scrivere delle storie, che avremmo anche potuto spedire uno all’altro, se non ci fossimo visti per qualche tempo. Al nuovo appuntamento, lui ne portò una tragicomica su un gorilla esiliato dal nome Titus e del suo successore Kong e capii che anche lui, a modo suo, era in difesa degli animali: «Oggi che alcuni di quei gorilla abitano i mortiferi terreni che furono del boss, ed ora che in Ruanda c’è uno Stato fondato nel sangue, viene da pensare che forse i detrattori di Darwin hanno proprio ragione: l’uomo non deriva dalla scimmia. Ma è la scimmia, di gran lunga più evoluta dell’uomo, a derivare da quest’ultimo.» Io ne avevo inventata una, romantica e sensuale, mescolando i personaggi dei film, di cui mi torna in mente solo: «¡Oh, Marilyn Conchita! Te quiero …» mi diceva. «¡Mi hombre!» rispondevo. Ma ricordo che anche lui aveva riso di me, avendo intuito sin dall’inizio che non ero la donna dura e superba che mostravo di essere. Devo cercare di non dormire. I medicinali stanno facendo il loro effetto e questa brodaglia transgenica sarà la fine, lo so. Le mani tremano più forte, ma devo finire, per me e per te, Clark. Perché sono fuggita, ho provato a spiegarmelo. In te avevo trovato una soluzione alla mia vita problematica, che forse non volevo risolvere in verità. Non ci ero abituata. La felicità quasi mi uccideva. Eppure, il giorno che ho inchiodato con la macchina, nonostante il mio orgoglio, urlandoti per scherzo di venire a casa con i figli che ti aspettavano, avevo simulato, pur nella sfida, quello che avrei
voluto per me e per te: una famiglia, un tetto sotto cui vivere insieme. Ma ne avevo paura. Così che quando sono ripartita e mi sono fermata alla fine della strada, aspettando che tu mi rincorressi - fuggivo per essere rincorsa, stupido, come in tutte le specie animali nel tempo dell’amore - ti ho visto invece restare lì imbambolato, con il sorriso da cretino. L’ho scambiato allora per un’esitazione e sono corsa via, così come non ho risposto per lungo tempo ai tuoi messaggi, alle tue lettere. E chissà che io non mi sia gettata nell’azione rivoluzionaria clandestina anche per evitarti, perché nell’infelicità ci sguazzavo benissimo. Ho cominciato a negarmi, alzando muri altissimi, difficili da abbattere. Ora so che vorrei che tu mi leggessi, perché quello che sostenevo con durezza non era vero e ti ho portato nel sogno con me, in questi lunghi anni, dove ti ho cercato senza memoria. Eppure hai scavato nel mio vuoto, perché eri l’unica mia forma di vita che non era stata mai sopita. Il Potere non può uccidere l’amore, non può scovarlo, per la semplice ragione che non lo conosce. E forse anch’io, fuggendo, ho preferito il senso del potere che mi dava la lotta, fatta di azioni pacifiche dimostrative in verità, all’amore per te. Una lotta che, alla morte di Pedro, avvenuta subito dopo il nostro incontro, ha vacillato per sempre, e ha messo in confusione il mio credo animalista, rendendomi un cane sciolto, legato solo al dolore che mi ha sfigurata. O forse ero divenuta matura finalmente, libera da idee fisse e uniche, mentre la Grande Riforma Taurina avanzava con la sua misera idea che, ahimè, come tutte le assuefazioni al potere, aveva dimenticato la spinta iniziale di ritorno alla natura, dello sviluppo ecocompatibile, della non violenza, del rispetto degli animali, esplorazione dell’umano verso il non umano, in dialogo con le cose intorno. Aveva invece esaltato sempre di più l’aspetto ideologico e, chiudendo di nuovo il cielo sopra di sé, si era trasformata in dittatura. La sofferenza, se inutile ormai nella lotta, trasformò me, rendendomi solitaria e disperata. La donna incorna più del toro, Clark. Ma cosa sono i ricordi? Un mistero chiuso come il mio ora, uno sproloquio per non riuscire a dire altro, come mi sembrò il tuo allora? Ricordi che forse aggiustiamo nella mente, per mentire a noi stessi, per consolarci di qualche grave mancanza, per lenire un vecchio dolore, o ricostruire una perduta felicità. E poi, qual è il tuo vero nome, Clark Manolete?
«Sono prigioniero in una torre incantata, a causa di quel che so; che mi faranno per ciò che ignoro, se mi hanno ammazzato per ciò che so?» dice il buffone Clarino in La vida es sueño di Caldéron de la Barca. Gli occhi, benché gonfi, si sono velati e mi hanno donato finalmente una lacrima, dopo molti anni. Una sola lacrima, che scorrendo dalle gote è precipitata nel brodo proteico, creando densi cerchi concentrici. L’ho vista poi sfrigolare. Qualcosa si è mosso, forse un piccolo animale agitarsi come in un brulichio di bolle di un’antica aspirina, poi un ribollio. Ho atteso, non so per quanto tempo: una minuscola figurina femminile, nuda, gracile, ma sinuosa e proporzionata, i capelli biondi, è emersa dal liquido verdognolo e ha scavalcato il bordo del piatto, andando a nascondersi dietro un angolo del tovagliolo. Da lì mi ha lanciato una risata argentina, come un camlino di cristallo, prima che le Guardie arrivassero ad intimarmi di bere. Col volto duro, mi hanno iniettato altro liquido con una siringa, questa volta rosso, ultimo stadio dell’Indicibile Cura, comminatami come rimedio pietoso per il mio atto rivoluzionario di ricordare. Ma io sono stranamente felice, finalmente, dopo una vita sbagliata, anche se non potrò più scriverti, Clark, né provare a spedirti i miei racconti folli. Ora so che qualcosa, o qualcuno, vestito di struggente rimpianto, verrà da te. Sarai il mio ultimo segreto, mia piccola Marilyn Conchita. Torna all’indice
PIETÀ. Torna all’indice
Pur essendo sicura della fiducia riservatami dalle Guardie, so bene che non posso leggere le carte sequestrate ogni giorno alla Penitente, che spio da anni, dovendo riferire ogni cosa alla Guardia Capo del Settore Femminile del Grande Buio. Controllo le entrate e le uscite degli infermieri e i loro trattamenti, pulisco la cella, le o il pranzo, che diventa sempre più liquido o più colloso, a volte dall’odore nauseabondo, a volte dal colore improbabile. Controllo quando lei scrive, la lasciano fare, forse per studiare bene come scardinare il Ricordo anche negli altri prigionieri, dato il suo caso speciale di Impenitente fuggitiva. Ma quando entro, evito di guardarla. Qualcosa in lei mi turba: quegli occhi piccoli, ridenti e malinconici insieme, quasi senza età, nonostante io sappia che ne aveva poco più di trenta quando è stata definitivamente condannata. E quel corpo minuto, che sembra non c’entri nulla con il carattere forte della sua persona, che ho imparato a conoscere nel tempo. Quel corpo ormai quasi del tutto impotente per gli effetti della Cura, che si è arreso all’evidenza dell’Inevitabile Destino. Ma sono ancora quegli occhi, ancora ribelli, ogni volta che entro per pulire la sua stanza o per somministrarle i farmaci, a crearmi disagio, rendendo i miei movimenti impacciati. Ora lo so, è per quegli occhi che, senza capirne il motivo, ogni sera leggo di nascosto le sue carte, pensando di doverle controllare più approfonditamente ed eventualmente agire con solerzia, sapendo quegli scritti pericolosi. E poi li mando a memoria. Una memoria lucida e veloce, di breve durata in realtà, come ho imparato nelle lezioni di Eterno Presente. Giusto in tempo però per riscrivere tutto di notte, quando torno nella mia stanza in caserma, pensando che potrei tirar fuori i miei fogli per accusarla, in caso di una grave mancanza commessa e comminarle una pena ancor più efficace. Ma ora so che queste sono solo giustificazioni apparenti e che mento a me stessa. Vi sono nelle sue carte, pur scritte nella stessa lingua della N.E.T., parole o espressioni che non conosco affatto, di cui ancora non afferro bene il senso, con cui prendo lentamente familiarità, crescendo in me la curiosità, mista al senso di tradimento. È stato quando, meno ideologicamente direi, ha cominciato a narrare della sua infanzia – io che non ricordo nulla della mia, solo collegi grigi e uniformi kaki da sempre, l’infanzia di lei così diversa dalle Palestre dove sono stata addestrata
– che un laser invisibile ha iniziato a scavare nel mio cervello, e sempre nascosta, provo quasi un senso di peccato, perché la mia mente, anche se non voglio, ridisegna poi quei canti, quei cortili, di cui vedo i colori e quasi ne sento gli odori forti. È stato come un velo grigio caduto, lasciando are la luce, che mi stordisce. Ma oggi ho capito che la Penitente presto non scriverà più, perché non potrà, perché le sue mani, o quello che ne è rimasto, sono ormai inabili. E che queste parole saranno le ultime. Non ne avevo avuto cognizione fin qui. Né del Dolore, né dell’Amore. Nessuno mi aveva avvertito sui pericoli di contaminazione coi Penitenti. E del senso di vertigine e smarrimento e di attrazione per qualcosa di sconosciuto. Solo dopo aver letto la sua ultima memoria, ho finalmente afferrato il senso di quello sguardo, e quello che avevo interpretato come impenitenza e inganno, lo vedo ora chiaramente come una richiesta disperata di aiuto. È la luce di quegli occhi a illuminare per me il senso di quelle parole, dipingendo un’altra vita, mentre ha già incrinato le certezze della mia giovinezza arrogante. Non lo avevo previsto, ma so che non potrò più tornare indietro. Non potrò fare più nulla per salvarla, ma spedirò le sue lettere, e cercherò di Clark. So come entrare nei bunker dell’Archivio Generale, che nasconde la Memoria del Tempo Avanti. Dovrò imparare a fingere per non creare sospetti. Lo farò per la Penitente, di cui ancora fatico a dire il nome. Torna all’indice
LÀGRIMA. Resoconto 4. Torna all’indice
2047, Santillana del Mar Hotel Noche Estrellada
I robot sono sempre più umani: vengono ricoperti da speciali fibre e tessuti da sembrare veri, vivi: gli angoli della bocca si increspano in un sorriso schivo, battono le palpebre, si voltano verso chi li osserva, eseguono azioni complesse. Ma un fremito, un sibilo del loro muoversi, benché reso sempre più fluido dalle nuove tecnologie, tradisce la digitazione di un comando di qualcuno su un computer a distanza, quando non è programmato all’interno del corpo meccanico. E l’uso del robot crea un altro genere di isolamento: pur essendo macchine sofisticatissime, non potranno mai colmare la differenza con la vita umana, sapere che gli altri hanno pensieri come noi e sentimenti, in base ai quali decidere come comportarci. Un automa non può che mettere in pratica quello che noi abbiamo premeditato e costruito in esso, e questi non può restituirci nulla che non ci aspettiamo che faccia, senza quindi quella sorpresa, lo stupore, lo sconcerto che un umano, magari folle, può suscitare. Come ribellarsi al silenzio, per esempio, o ridere sfidando la morte.
Làgrima, sdraiata nuda sul divano, ripensa a quel manifesto che annunciava la corrida di Santillana del Mar, a quel biglietto omaggio che era spuntato sotto la porta per andare a vederla, al ritardo del taxi che si era perduto nel traffico della città, quasi impazzito per l’incontro previsto dell’Automa B7 contro il grande Toro Islero Duodécimo.
Questi tori sono cloni del primo, nato agli inizi del secolo e sono noti per essere dei terribili distruttori, per la forza dei muscoli, dall’antenato diretto ereditata
come DNA, e per la cattiveria, coltivata invece dagli umani, che, come quelli di anni prima, pur avendo tolto la possibilità di morire, sia per il toro che per il torero, non avevano rinunciato ad una forma di spettacolo crudele, benché a favore del toro. Simbolicamente, se nelle prime forme di corrida “nobile” il senso della sfida era un modo di esorcizzare la morte da parte degli umani, in tempi in cui essi, organizzati in società semplici, non dominavano di certo la natura, nelle corride con gli automi, in questa società complessa e tecnologica, e dopo la Grande Riforma Taurina del 2017, gli umani appaiono ora ridicoli e vili, nascosti dietro gli spalti dell’arena, protetti dal gioco virtuale della macchina sotto forma di androide, e dove il toro infine viene maltrattato lo stesso, utilizzato come schiavo di un divertimento perverso, invece di esser lasciato tranquillo a mangiar erba o in altre faccende affaccendato con belle giovenche. A fronte del marcato ideologismo, non è cambiato il gusto di vedere una vittima sacrificale nella lotta, benché meccanica. Per quanto riguarda la Morte e la Natura, così come è sempre piaciuto agli umani personificarle, loro sì che se ne stanno lo stesso ad aspettare bell’e pronte in fondo alle vite di questi poveri bipedi presuntuosi, la prima per finire, l’altra per riciclare.
Così legge Làgrima tra le carte che erano spuntate da un cassetto dell’armadio anni addietro. Scritti di Mamita, da cui aveva imparato tutto del suo mondo, prima della sua esistenza. La sua vita si è nutrita della vita di Lei, dei suoi racconti, e per questo quando aveva raccolto il biglietto per la corrida non si era chiesta chi e perché glielo avesse mandato, ma aveva sentito che doveva andare, quasi un presentimento, un ordine senza appello nella sua testa, che la conduceva per mano, ché doveva farlo. Per Lei. Si era vestita così degli unici abiti da sempre conosciuti, poi si era guardata allo specchio, come nel suo eterno gioco: i vestiti quasi le calzavano, ma non ancora perfettamente, così come il cappello e le scarpe. Poi si era avvicinata alla stanza di Mamita, aveva bussato, ma aveva avuto in risposta un silenzio di stanza vuota, e ora cominciava a chiedersi del perché dei tramestii che aveva udito provenire da lì il giorno precedente. Ma come allora non aveva osato entrare senza il permesso di Lei. Era tornata indietro, aveva esitato ancora. Ma poi aveva varcato la soglia dell’appartamento, timorosa aveva fatto le scale, e quando era arrivata nella hall dell’albergo, di cui incantata guardava gli arredi di velluto rosso e i lampadari luccicanti, aveva visto la grande porta a vetri ed era uscita. Davanti l’entrata era pronto il taxi, che lei non aveva chiamato, lo sportello posteriore già aperto e anche di questo non si era chiesta il perché, era salita e basta.
Quando era arrivata davanti ai cancelli dell’arena, aveva visto subito il grande cartellone dai colori pastello, con l’immagine terribile del Toro Islero Duodécimo in primo piano, le froge inarcate, lo sguardo torvo, le bianche corna puntute; appena in secondo piano l’Androide B7, che lo avrebbe sfidato. Ma non aveva fatto in tempo a scendere, che altre voci urlanti di piacere e allo stesso tempo di terrore, crescevano da dietro ai cancelli, che si aprirono di colpo: alcuni uomini portavano a braccio una barella, su cui giaceva un uomo sanguinante e stranamente sorridente. Le voci divennero persone che seguivano il gruppo correndo, mentre urlavano ancora: «Non era un B7 contro il toro! Era il suo impresario!» «Perché lo avrà fatto?» «Che coraggio!» «Ma no, forse voleva farla finita!» «Qualcuno dice per dimenticare una donna, da lui molto amata!» «È andato incontro al toro urlando di essere un uomo! Meglio che un computer umanoide, non trovate?» «Già, che spettacolo! Finalmente un uomo vero nell’arena!» «Ma è contro la Legge Taurina!» «E lui invece ha osato sfidarla!» «È un eroe! E ora forse morirà …» «Ma come si chiama?» «Clark, Clark Manolete!» Al sentire quel nome, il suo nome, in quel gran tumulto, a Làgrima era sembrato improvvisamente che il fuori, che dai finestrini dell’auto l’aveva spaventata, ora mostrasse un appiglio a cui aggrapparsi, come un bambino perduto in un parco
dei divertimenti si sente riconfortato dalla vista di una gelateria che vende il suo cremino preferito e forse pensa che la mamma sia lì. Ma quelle emozioni di stupore e gioia per quella scoperta inattesa, avevano in pochi attimi subito l’evoluzione verso il dolore e lo sgomento, e Làgrima aveva ordinato al tassista di seguire il lamento straziato dell’ambulanza fino all’ospedale. Era perciò salita fino alla sua stanza e aveva trovato quell’ uomo davanti la porta d’entrata. Implorante gli si era avvicinata: «Sono qui per lui ...mi chiamo Marilyn Conchita ...sono Mamita! E debbo vederlo ...ma come sta? É ancora vivo, sì? … perché se è morto ...io... io... sono qui per lui, lo ripeto... ditegli che sono arrivata e vi dirà di farmi entrare...vi prego ...diteglielo!» Lui l’aveva guardata dritto negli occhi e poi le aveva piazzato una mano davanti la faccia, senza tanti complimenti. Era così entrato nella stanza, per uscirne quasi subito e dirle, questa volta laconico: «Mi spiace, señorita, ma il mio maestro mi ha detto che non conosce nessuna Marilyn Conchita e che l’unica mamita della sua vita è stata la mamma … mi spiace.» Ma a lei sembrò che stesse mentendo. Torna all’indice
SCEGLIERE. Torna all’indice
Sono molti anni che sono qui, ormai. E che servo la Penitente. Sono penetrata furtivamente nell’Archivio Generale, a cercare il Settore del Tempo Avanti. Lunghissimi corridoi e librerie altissime custodiscono faldoni e faldoni ben accatastati. Del perché una dittatura, ormai la chiamo così dentro di me, ben votata all’educazione all’Anti-Ricordo, conservi questa mole di vecchie carte non so spiegarmelo. Forse per dare senso alla sua colpa. Ho cercato a lungo il nome di Clark Manolete, pur sapendo che non è il suo vero nome, ma non sono riuscita a trovarne traccia e ho temuto che fosse solo il frutto dell’immaginazione della donna. Mi sono diretta allora verso il Settore dei Processi e ho cercato gli atti di quello di Mamita, così ho scelto di chiamarla. Con un pretesto mi sono recata a Vendetta, l’antica Xàtiva, e ho rintracciato Valério, il suo primo fidanzato, vecchio e curvo su un bicchiere di vino, seduto al tavolo della sua modesta casa. Quando gli ho fatto il nome di Mamita, Immaculada Lucrecia Ruiz, la sua faccia si è come ravvivata e subito dopo oscurata. «Ha preferito lui a me, quello scapestrato senza un vero mestiere, che si vantava di essere un matador, ma è stato in realtà solo un picador da quattro soldi. Del nome che lei mi dice però non so nulla, ma posso dirle della casa di lei … e Immaculada, dov’è?» «È morta … circa un mese fa» ho finto, «ed io sono una sua nipote.» Ho trovato così l’abitazione di Mamita, cadente e abbandonata, e mi sono stupita che nella Nuova Era Taurina fosse rimasta ancora in piedi. I suoi vecchi genitori però vi avevano abitato fino a qualche anno prima, aspettando invano il ritorno di quella figlia ribelle e fuorilegge. Sono entrata facilmente e, dopo aver rovistato nei cassetti dei mobili dell’altro millennio, ho trovato un pacchetto di lettere ben legate da un nastro, tutte indirizzate a Mamita. Erano tutte lettere di Clark, scritte con estrema cura, lungo un arco di tempo lunghissimo, e che lei non aveva mai ricevuto, essendo fuggiasca. Quando ho finito di leggerle era ormai buio. Ma qualcosa simile all’emozione provata per quelle di Mamita mi aveva preso la gola, non sapendo comprendere quell’amore reciproco – nonostante il reciproco mancato recapito – durato oltre quarant’anni, secondo la
loro vecchia Linea del Tempo. E su questa linea ideale sono riuscita a ricostruire tutti i movimenti di Clark Manolete, come si faceva chiamare. Ex picador, improvvisatosi manager di corride secondo la Legge Taurina, aveva percorso in quegli anni tutte le città della Terra dell’Avvenire, l’antica Spagna, in compagnia di un Androide chiamato Acciaio e un suo allievo/assistente, di cui non era indicato il nome. Solo quando sono tornata indietro, ho potuto ridisegnare esattamente il suo itinerario secondo i vecchi nomi delle molte città a cui nel frattempo ne era stato dato un altro, come la N.E.T. prevede, come l’antica Cadice in Andalusia, Granada, Toledo, secondo l’occasione. Riscontrando tutti i dati raccolti sarei riuscita a trovare sia lui che l’indirizzo della sua casa prima o poi, ma penso che lui e il suo trio strampalato e malandato si esibiscano soprattutto in corride di piccoli centri, e poche volte in città importanti, cosa che rende la ricerca più difficile.
Quando sono tornata in carcere da Mamita, non l’ho trovata, e ho dovuto faticare non poco per non tradire l’angoscia che inaspettatamente si è impadronita di me, e fingere indifferenza. Sono riuscita a sapere che è stata trasferita. In gergo so benissimo che significa venduta ad un nuovo gruppo farmaceutico. Mi sono presentata allora alle Guardie dell’albergo di lusso dove l’hanno portata, e con il mio curriculum da perfetta kapò sono riuscita a farmi assumere ancora come serva di Mamita. Da allora seguo tutti i suoi spostamenti, giustificati dai aggi da una società all’altra, per via dei costi elevati della sperimentazione o dalla necessità di non creare sospetti nella popolazione. Potrò continuare a vederla tutti i giorni e a cercare per lei quel Clark che le ha scritto da ogni luogo senza mai raggiungerla. Torna all’indice
LÀGRIMA. Resoconto 5. Torna all’indice
Muovendosi ansiosa per la stanza, in attesa di un segno di Mamita, tre colpi battuti sulla parete di confine, Làgrima accende la piccola radio ancora miracolosamente funzionante, che ascolta da sempre, rannicchiata nelle lunghe sere di solitudine.
«Cittadini della gloriosa Epoca del Toro! Il nostro corrispondente per la Cultura dello Sport e della Natura, dall’arena di Santillana del Mar, ci segnala il grave incidente occorso ad un folle, il cui nome resta sconosciuto, non risultando negli Elenchi Biologici dei Cittadini della Terra dell’Avvenire, se non quello d’arte Clark Manolete. Il folle ha osato sfidare la Grande Riforma Taurina, spacciandosi per l’Androide B7 come annunciato dagli organizzatori, immediatamente arrestati, mentre il suo aiutante, ancora senza nome, è riuscito a fuggire. Clark Manolete è spirato da qualche minuto nell’ospedale della città, dove sarà seppellito. Decadono purtroppo le indagini contro di lui per sostituzione di androide, falso in atto pubblico, truffa. Nelle strade da alcune ore sono scoppiati inauditi disordini e tafferugli contro il Sistema, che saranno immediatamente sopiti, anche con la violenza, necessaria in questi casi! Gli abitanti di Santillana, finora dimostratisi in sommo grado rispettosi della Legge, sono perciò pregati di restare serrati nelle loro case, pena l’iscrizione nel Registro dei Sottomessi!»
La scena del rifiuto dell’assistente di Clark in ospedale si ripete all’infinito nella mente di Làgrima, perché un seguito non ce l’ha. E lei non saprebbe come continuare, perché, se esiste il Ricordo, non esiste la possibilità di clonare il DNA degli atti umani e Làgrima conosce solo il ato. E quel Presente che avrebbe dovuto raccontare le appare un mondo ignoto in cui galleggia malamente, e si chiede ancora una volta come dirlo a Lei, la Signora terribile eppure l’unica che Làgrima conosca, e ami, pur non avendo in cuor suo nessun concetto di madre o padre o altra idea di legame terreno. Sarebbe più semplice,
se Làgrima fosse umana. Invece, come avrete capito, non lo è mai stata. Umana fu chi la concepì, ultimo atto d’amore e di rimpianto di Mamita per il suo Clark.
Làgrima non ha reazioni, se non quella sospesa di un destino che sta per compiersi, la sua storia giunta alla conclusione. Ma non può non dire a Mamita di quello che è accaduto, anche senza il suo segnale. Quasi in trance, va verso l’armadio e indossa il cappello, l’abito rosa e le scarpe, che ora le stanno a pennello. Poi mette le scarpe verdi, che ora calza perfettamente. Si guarda a lungo allo specchio, il volto consapevole dell’avvenuta compiutezza della sua esistenza. Ride della sua risata argentina, come Marilyn Conchita, e sa che è l’ultima volta. Infine prende la borsetta di strass. Poi, senza bussare, apre lentamente la pesante porta che la separa da Lei, supera il vano di disimpegno, al buio. Dall’altra stanza arrivano ovattate le voci di diverse persone, si avvicina: ora sono più distinte e lei ne coglie i toni trionfanti, insieme a colpi che intuisce essere pacche di congratulazioni sulle spalle. Poi ode stappare una bottiglia e il tintinnio dei bicchieri. Làgrima vede il chiarore proveniente dalla porta socchiusa della stanza di Mamita. Entra leggera, in silenzio, si nasconde dietro una tenda, in ascolto, prima di decidere se mostrarsi. Le voci sono soprattutto maschili. «Che affare, signori! Non era mai andata così bene! Auguri a tutti voi!» «Quel pazzo scatenato! Con quel nome irriverente da cinema retrò, che ha scelto di morire in modo così plateale, non ha fatto che darci ancor più una mano! A lui il cielo, a noi il denaro!» «¡Olé! Alla grande meraviglia della scienza, alla nostra nuova avventura commerciale! Islero è stato un vero campione!» «Furente!» «Selvaggio!» «Quasi come una donna impazzita di dolore!» «Già, la donna! Ah, ah, ah!» «E anche le nostre industrie farmaceutiche, avendo dimostrato il potere immenso
dei propri prodotti, ne riceveranno onori, e guadagni spropositati... » «All’Ecologia, ah, ah, ah!» «E un grazie a mio padre, Gaspar Vicente Muñoz, che volle la clonazione transgenico-ibrida di Islero Segundo!» «E alle nostre sperimentazioni … sì, ci voleva un corpo di donna, per di più così in là con gli anni da renderla inutile, per testare il cambio di genere e di specie, ah, ah, ah!» «Sembra proprio quel gioco da bambini: nomi, cose, fiori, frutta, città! Chi dice che la scienza non è divertente? Ah, ah, ah!» «E poi per lei, quale punizione più esemplare, del tutto casuale invero, non potevamo sapere, di dover uccidere il suo antico amore …». «La donna incorna più del toro, non abbiamo letto questo tra le sue carte?» «Anche il Grande Tribunale riconoscerà i nostri meriti!» «Onore a Islero Duodécimo, allora! E ai suoi prossimi incontri di corrida! ¡Olé!» Làgrima è apparsa di scatto da dietro la tenda, ma nessuno si è accorto di lei sotto la luce azzurrognola. Solo quel gigantesco toro ha avuto un sussulto, lo stesso toro che lei ha visto sui manifesti della corrida di Santillana del Mar, Islero Duodécimo, coricato in posa eroica sul drappo nero, lo stesso drappo nero che ha coperto Mamita per anni. Il toro si è sollevato, preso da una furia disperata, gli altri lo hanno trattenuto a forza, cercando di capire l’origine di quella reazione improvvisa. Qualcuno è accorso con una siringa, gli ha iniettato del liquido e la bestia si è lentamente accasciata sul drappo. Làgrima cerca intorno lo sguardo della sua Mamita, ma raccoglie solo quello ormai malinconico dell’animale stanco e rassegnato, pur nella sua potenza tragica, prima che chiuda gli occhi. Torna all’indice
EMOZIONI. Torna all’indice
Sono ati molti anni, credo ventisei se oggi siamo nel 2047, ho perso il conto, da quel giorno in cui Mamita ha smesso di scrivere. Io credo, in questo Eterno Presente senza Storia (parole imparate da lei) di averne circa trentotto. Ma solo adesso posso raccontare quello che vidi – sì, ora uso anch’io il ato, senza il quale raccontare sarebbe stato impossibile – alla fine di quel giorno e del suo scrivere. I trattamenti erano divenuti più pesanti e arrivò quel giorno, nel suo strano modo di indicare il Tempo e lo Spazio, del 2021, Terra dell’Avvenire, l’ultimo per le sue mani ormai quasi paralizzate da una forma che io credevo di sclerosi, che le rendevano sempre più somiglianti ad uno zoccolo, che avrebbero potuto reggere a malapena una matita. Un giorno fui malaccorta e il panno nero cadde dalle sue spalle: Lei mi riconobbe, emettendo un suono debole, cosa che ormai faceva ogni volta che entravo da lei. Ma io faticai a riconoscere lei: i tratti del volto deformati, la mascella e i denti ingrossati, la fronte prominente, il naso largo, i capelli perduti, le spalle allargate, la pelle scurita, la peluria nera sparsa in tutto il corpo. Allora lei mi sorrise, se di sorriso si poteva parlare, più un ghigno tragico, quasi scusandosi di quell’aspetto, che poi mi chiese di nascondere di nuovo con la coperta nera. Provai vergogna, una vergogna infinita per quello che le avevano fatto e le avevo fatto anch’io. Capii che neanche a me avevano detto tutto quello che sarebbe successo. Mi chiesi infine come nonostante tutto Mamita fosse riuscita ancora a scrivere. Io le avevo portato ogni giorno carta e matita, avevo continuato a redigere verbali di comportamento e a consegnare tutto ai suoi nuovi carcerieri, che di quel materiale ne facevano oggetto di ricerca per tesi di laurea sulle nuove tecnologie paramediche. Così come continuavo ad imparare a memoria i suoi scritti e a trascriverli. E a cercare Clark. Quel giorno invece, dal terminale da cui la osservavo dopo essere uscita dalla sua stanza, vidi che esitava a prendere il cibo. La sentii sospirare profondamente, poi quasi un singhiozzo. Infine vidi un’unica lacrima cadere nel piatto. Lo imputai al fatto che si rendesse conto del trattamento di trasformazione definitiva. Ma quando entrai nella stanza, scorsi qualcosa muoversi dai piedi del tavolo verso un angolo buio. Il giorno dopo la cosa si ripeté. Infine la vidi: una figurina minuscola, che
somigliava moltissimo a lei prima del trattamento. Capii che qualche speciale effetto secondario si era verificato, una sorta di clonazione. Ma quando lessi quell’ultima lettera di commiato capii finalmente: l’emozione dell’Amore, il Ricordo affiorante, il Richiamo potente, a me sconosciuti, furono gli speciali effetti che nessun elemento chimico avrebbe potuto ricostruire e a mia volta piansi, quasi stupita per quello che sentivo senza conoscere. Nascosi poi gli occhi rossi alle Guardie alla fine del servizio, e quando tornai per la resa degli scritti, feci cadere apposta del disinfettante liquido sull’ultima pagina della lettera, scusandomi per averla rovinata, così da evitare indagini nella stanza ed una scoperta che sarebbe stata altrettanto allettante economicamente. Poi scrissi di nuovo a casa e restai sveglia tutta la notte per pensare al da farsi. Proposi allora ai nuovi proprietari di Mamita di arredare una suite, per non dare troppo nell’occhio e lasciar credere agli estranei che lì vivesse una vecchia e ricca signora in pensione, evitando ulteriori spostamenti. A loro l’idea piacque e così cominciai a riempire una stanza attigua a quella di Mamita con oggetti che ho reperito dai Musei della Memoria d’oltreoceano, data la disponibilità economica della casa farmaceutica e la relativa disinvoltura illegale, e dato l’affare in gioco. Il resto l’ho tenuto nascosto con cura, come le figurine del Partito che ho fatto al computer con un programma grafico, invecchiando poi la carta. Ogni oggetto doveva somigliare il più possibile ai suoi racconti, soprattutto la mise di quella nuova Marilyn Conchita, la nostra Làgrima. Mamita, che rivedeva un po’ incredula rinascere ogni cosa intorno a sé, quasi apparizioni della sua memoria indomita, ha potuto allevare così la sua creatura, inventando un modo di comunicare tutto suo, che la figurina capiva assistendo alle goffe danze di lei, eseguite con la percussione delle sue mani ormai divenuti moncherini.
Ora sono giorni che non mi fanno entrare da lei. Forse sospettano di me. Temendo soprattutto per Làgrima, ho provato ad insistere, ma mi hanno risposto che il mio Tempo era finito e che potevo andarmene. Duttilità mentale degli affaristi, per cui, tranne il Denaro, gli ideali, neanche quelli tragicamente strampalati della N.E.T., non hanno mai avuto interesse alcuno. Non so cosa ho provato in quei giorni, lucida disperazione forse. Ho continuato a cercare Clark, anche se già da tempo avevo mantenuto la promessa fatta a Mamita di spedire le sue lettere. Ho simulato perciò date e timbri di città postali
sempre diversi e una consegna tardiva, tutte all’indirizzo di Clark Manolete, che sono riuscita a trovare, perché in quella piccola cittadina dove aveva la sua casa usava ormai quel nome come fosse quello civile. Di lui, del suo vecchio Androide e del suo eterno scudiero senza nome, ogni tanto trovavo tracce in giro, ma è stato difficile indagare sulla vera identità di Clark, soprattutto perché, tranne le descrizioni di Mamita, non avevo mai visto una sua foto. Ma quando vidi i manifesti della corrida a Santillana del Mar e l’incontro del B7 contro Islero Duodécimo mi chiesi chi mai fosse l’impresario dell’androide e sono giunta così a sapere di lui. Il resto l’ho raccontato. Ma non la fine di quel giorno tragico, che ancora non riesco a ricordare senza piangere. Quando ho saputo della corrida a Santillana del Mar, mi sono intrufolata nell’arena. Ho sentito dal camerino le voci di due uomini discutere animatamente, poi un uomo ancora giovane che usciva, lo sguardo torvo a terra. Dall’interno una voce quasi delirante che recitava solennemente un’assurda preparazione da antico matador: «Una buona morte onora qualsiasi vita sbagliata. E ora per te, Clark Manolete, il momento è giunto. Addio Acciaio, amico vero proprio perché inumano. E addio a te, bella e indifferente Mamita.» Non sono riuscita a vederlo in volto, ma ho sperato che Làgrima arrivasse in tempo, dopo che avevo furtivamente lasciato are un biglietto per la corrida sotto la sua porta, perché potesse conoscere Clark, e perché finalmente anche Mamita sapesse. Io avrei seguito lo spettacolo di nascosto.
La cronaca di quell’incontro riporta solo quello che vuole far credere, ma i fatti, la verità qual è? Quando sono arrivata la gente calcava gli spalti in modo incredibile. L’androide è entrato nell’arena con fare stranamente spavaldo, con un tale lampo negli occhi da sembrare vero. Il toro, che a me è sembrato avere qualcosa di familiare, è avanzato verso di lui, che ha iniziato a sfidarlo in modo buffamente fuori dalle regole della corrida, senza mai usare la spada che portava al fianco, giocando solo con il drappo. Il toro ha esitato, poi si è eccitato davanti al rosso della muleta e al B7 che gli urlava una serie di improperi, tra cui mi è sembrato sentire un: «Perché mi hai lasciato!» e altri ancora, di cui ho colto però la disperazione di un uomo solo. Da quella voce la gente ha capito presto che il B7 non era un androide, ma un essere umano, e ha iniziato a delirare di piacere,
inespresso e inconfessato per anni. Il toro lo ha caricato più volte, sempre più furioso, ma lui ha evitato l’incornata ogni volta, e ogni volta lanciando frasi urlate e incomprensibili nel delirio del pubblico. Solo alla fine l’ho visto ridere e urlare ancora, tenendo le spalle al toro, mentre avanzava a braccia aperte verso il suo scudiero: «Ho dimenticato, ho dimenticato perché sono qui! L’ho dimenticato!» Il toro a quelle parole è sembrato fermarsi, poi ho visto un lampo feroce e disperato nei suoi occhi. Quegli occhi. E allora ho compreso tutto: Mamita, la mia Mamita/Islero Duodécimo, si è lanciata contro il B7 e il sangue è sgorgato da quella figura dal trucco androide, che altri non era che lo stesso Clark.
È solo qui che ho preso la mia fuga. Non avevo capito le vere intenzioni di quei ceffi dell’Industria farmaceutica, o forse me lo hanno nascosto, avendo subodorato qualcosa nel mio comportamento. Questione di qualche lampo nello sguardo, o qualche trasalimento del respiro, ma per chi non è abituato ai sentimenti può bastare per comprendere che l’imibilità tanto elargita nei Programmi Educativi dell’Era Taurina si erano in me incrinati. Sono tornata all’albergo, ma ci son volute alcune ore prima di riuscire ad entrare nella stanza di Mamita, proprio al momento dell’infausto brindisi, quando lei – Islero Duodécimo, ormai – ha iniziato a grugnire e a scalciare furibondo, dopo che un colpo di vento aveva spostato la tenda rossa vicino la porta, così hanno pensato quei mercanti. Lo hanno sedato, quindi legato con grande cura e trasportato con le corde su un camion parcheggiato nel cortile interno dell’hotel. Sui teloni neri, un’enorme scritta pubblicitaria della ditta farmaceutica, il nome e la foto gigantesca di Islero, con l’elenco del tour miliardario delle corride dei tori contro gli androidi, programmate in ogni città della Terra dell’Avvenire. È in quel momento che ho conosciuto il sentimento della Rabbia, e quello definitivo della Ribellione. Sono stata negli anni l’imibile kapò di Immaculada Lucrecia Ruiz, in arte Marilyn Conchita, in amore Mamita, condannata all’Indicibile Cura. E perciò dovrei dire da tempo ormai anche la stalliera di Islero Duodécimo, senza saperlo.
Ecco perché ho piazzato gli esplosivi nei sotterranei dell’hotel. E sul camion, per dare fine anche a quella che ormai non era più la tua vita, Mamita. Era quello che dovevo fare, ora che conosco la ione, che tu mi hai regalato. L’ho capito dai tuoi occhi ormai bovini, che a me sono sembrati ancora teneramente imploranti. Torna all’indice
ULTIMA LÀGRIMA. Resoconto 6. Torna all’indice
Làgrima è fuggita senza portare nulla con sé, camminando indenne e non più timorosa nelle strade della città, frastornata dai disordini scoppiati per la morte di Clark Manolete, tra i fumi dei manifestanti che hanno oscurato il sole cocente di Santillana del Mar, e le grida: «Basta con le corride e gli androidi! Gli umani umiliati, i tori esaltati! Terra dell’Avvenire, presto dovrai perire! Legge Taurina, sei la nostra rovina!» I lacrimogeni, lanciati dalle Guardie della Polizia dell’Avvenire, li hanno dispersi, ma altri focolai di rivoluzione si sono accesi e c’è da sperare che ritornino a lottare contro la tirannia, più che per le corride. Sì, ora dico c'è da sperare. Il resto lo sapete. Ho seguito Làgrima, che, quasi conoscesse da sempre il luogo, ha raggiunto il cimitero e trovato la tomba di Clark, facile da individuare fra i molti tumuli, perché coperta di fiori colorati, di biglietti e di oggetti, forse nascosti in vecchie cantine mai svuotate, piene del Tempo di Ieri. I biglietti delle donne recitavano apionati: «Mi mantilla y mi corazon» e «Te quiero, toreador de mi alma …» e altri inneggianti: «Sea la hora de la verdad!». Sul marmo il nome appena segnato con un gesso per indicare il luogo ai becchini, dato che dei defunti non lo si può segnare in ottone o in bronzo, sarebbe un legame indelebile col ato. Quando Làgrima si è avvicinata, io mi sono tenuta distante, quel momento era solo suo. Lei si è fermata, e, quasi l’attendesse, un forte colpo di vento ha liberato la pietra da tutto quel ciarpame, lasciandola pulita nel suo biancore mortale. Lentamente Làgrima ha lasciato cadere a terra la borsetta di strass, si è tolta gli abiti e il cappellino rosa, e ha sfilato le scarpe verdi, mentre, nella sua nudità trasparente, recitava qualcosa tra sé, rapita. Ho capito a malapena e malamente trascrivo:
«Ti ho sognato, richiamo lontano.
Ti ho cercato, desiderio incompiuto. Ti ho ritrovato, il ricordo dal silenzio stanato. Ti ho inventato, doppio sogno dell’altra l’uno. Ti ho perduto, amore mancato. Ti ho narrato, storia strappata. Ti ho amato per Mamita, che più non è. Che ti ha ucciso, da animale in pena. Una Làgrima piange l’Uomo matto e la Donna svanita, il Toro e l’Assassinio e dei due la vita sbagliata. E di me, ciò che non sono.»
Poi si è sciolta in una pioggerellina di lacrime, ed è evaporata. Mi sono avvicinata, tremante ho raccolto i suoi abiti, ho tolto i miei ruvidi e informi e ho indossato i suoi. Torna all’indice
EPILOGO Torna all’indice
Barcellona, tre mesi dopo
Oggi presento il mio libro. Mi sento un po’ goffa in realtà, perché scrivo da poco e ho poca dimestichezza con le persone, come mi sento a disagio seduta qui tra questi scaffali, dove aspetto che le persone vengano a comprare La vita sbagliata di Marilyn Conchita di Immaculada Lucrecia Ruiz. Ho pensato fosse giusto mettere il suo nome e poi perché io un nome non ce l’ho. Ho solo messo insieme le memorie di quanto è accaduto, in onore alla sua prigionia, al suo dolore, alla sua fine tragica e a quella, comica come la fine di ogni smargiassata, del Tempo dell’Avvenire, caduto a gambe all’aria e in disgrazia almeno per un po’ nelle menti delle persone. E il ritrovato amore per il profumo dei libri, a lungo dimenticati e banditi, ne è sicuramente buon segno, dopo questo lungo tempo di idiozie. Chissà che ogni lettore non ritrovi i propri ricordi, benché reinventati da altri. E la diversità di ciascuno, senza divisioni, ché l’umanità è una. Chi abbandona la cura per la bellezza, ipoteca l’intelligenza e prepara la strada ad altre dittature, che non hanno mai una giustificazione. Non ho scritto per un’archeologia del dolore, robaccia per menti inclini al facile melodramma, ma ho tentato di narrare come l’amore vero, anche se vissuto a distanza, resista a qualsiasi tentativo di soffocamento. E come il suo potente richiamo renda liberi da ogni prigione. Me lo ha insegnato Mamita, nella sua dignità di Penitente. La Natura e la Morte? Sono sempre lì, nella loro essenza non umana, perfetto ordine geometrico di un eterno andare e tornare, insieme all’errore, generato dal caso, anagramma del caos, cha a volte fa sì che ceneri amate vengano sparse al vento da un ubriaco di aggio, consegnandoci all’anonimo oblio. Anche quelle di Clark, dopo che il suo corpo era stato bruciato e la tomba distrutta dagli ultimi baluardi della dittatura, per evitare la nascita di un eroe, ma inutilmente. E il toro? Gli auguro di essere felice a brucare, o in altro faccende affaccendato
con belle giovenche. Così come ogni altro animale, ché di bestiale gli umani hanno più di quello che credono. E il flamenco? È tornato a splendere nella sua severità sensuale. E la corrida è ormai un tragico gioco lontano, senza umani o androidi, consegnata per sempre alla sua epoca arcaica. E infine, che i versi di Federico Garcia Lorca, ucciso anche lui da altri despoti, brillino in eterno nel cielo dei poeti. Sto cominciando a nutrire sentimenti, ma ci vorrà del tempo, lo so. Devo imparare a sciogliere gli argini, a non controllare ogni cosa, a lasciare che sia. Furono Mamita e lacrime non umane a ridarmi l’umanità.
Oggi ho visto un uomo entrare e vagare tra gli scaffali, per poi fermarsi esterrefatto e afferrare il mio volume, come in preda ad una visione improvvisa. Ma dopo averlo acquistato, non mi ha dato il tempo di sorridergli e andare verso di lui, e magari scrivergli un autografo: si è fermato appena sulla porta ed è andato via di corsa. Spero che leggendo questa storia, lui tornerà qui, finché ci sarò, perché qualcosa di familiare me lo ha fatto notare, come quella strana malinconia nei movimenti fuori tempo, una solitudine che ricorda una grave mancanza. Ecco perché mi somiglia, mentre lui somiglia all’eterno allievo di Clark Manolete. Ho riso segretamente, quando ho visto che porta i baffetti e nel taschino della camicia, come l’altro, ha delle sigarette senza filtro. Ecco, spero che lui riconosca in me qualcosa della sua vita ata, perché ho visto come, avvilito e confuso, ha guardato il mio abito, il cappellino rosa e le mie scarpe verdi, non riuscendo ancora a trovare una corrispondenza nella sua memoria. Chissà che non nasca quell’amore che sto cercando, che ora credo esista, benché imperfetto, è vero, come ogni cosa umana. E chissà che anche a noi due, personaggi senza volto e umili servitori di questa doppia storia, di cui ho raccontato solo la parte di lei, non sia dato finalmente un pezzo di verità, benché immaginata.
Verità che pur deve esistere da qualche parte, anche senza nome. Torna all’indice
NOTE DELL’AUTRICE Torna all’indice
Il mio amico e geniale scrittore Pierluigi Felli, poco righe prima della fine del suo romanzo La vita sbagliata di Clark Manolete (ed. Mondostudio), a pag. 101, scrive:
Quanto a me, se proprio fossi costretto a riassumere ciò che quel libro, specchio distorto del mio, mi insegnò, punterei senza dubbio sul concetto secondo il quale nella vita non bisogna mai fidarsi di una sola versione dei fatti. Soprattutto se questa è quella riportata nel romanzo che avete tra le mani.
L’idea del mio romanzo e del gioco letterario da cui esso ha avuto origine, si potrebbe spiegare semplicemente così: la stessa storia raccontata dai diversi punti di vista dei protagonisti principali, Clark Manolete e Marilyn Conchita, le cui vite però risultano entrambe sbagliate. L’idea del doppio nasce da un’intuizione, rimandata da uno all’altra al completamento della stesura del primo e maturata nell’arco di alcuni mesi. Le due vicende si muovono in assoluta autonomia, nonostante i numerosi prestiti necessari, di cui ringrazio lo scrittore, presi dalla prima per giustificare la seconda. La storia ne risulta arricchita, sia dai caratteri dei due sguardi, sia dai diversi stili narrativi, più picaresco il primo, più surreale il secondo, ambientati comunque ai confini della realtà. È questo per me il senso ultimo di questo lavoro: il confronto tra due forme di immaginazione, con il risultato moltiplicante e vivo che ogni forma d’arte deve avere.
La vita sbagliata di Marilyn Conchita è anche il mio primo romanzo, che spero di aver realizzato con rigore artigiano.
La poesia riportata in corsivo è di Federico Garcìa Lorca, da Poemas del Alma, Los cuatro muleros, nella forma di zarzuela, genere lirico-drammatico spagnolo.
Uno speciale ringraziamento va infine a tutti quelli che mi hanno aiutata, corretta e incoraggiata.
23 ottobre 2012
L.V. Torna all’indice
Lucia Viglianti (1957). Da molti anni si occupa di teatro, anche come autrice, soprattutto per la sua formazione Acta Teatro. Ha pubblicato, insieme a Marina Tufo: Per Santità Finta In Sommo Grado, Maria Valenza Marchionne tra ricerca storica e scrittura teatrale - Herald Editore, Roma 2007. Come narratrice: Senza Fine e altri racconti - Ego Edizioni, Latina 2010. Ha pubblicato altri racconti in diverse antologie. Per la Pulp, è presente in: AAVV – Requiem per Zorro, con il racconto El hombre, la sombra y la virgen (2011) AAVV - Londra 2012, l’importante è narrare, con il racconto Contro di me La vita sbagliata di Marilyn Conchita è il suo romanzo d’esordio.
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Con Smashwords la Pulp Edizioni ha già pubblicato:
Morte nell’Abbazia
L'uguaglianza dei fiocchi di neve
Quindici uomini