Indice
Prologo Capitolo 1 La scatola Capitolo 2 L’ereditaria Capitolo 3 Il discendente Capitolo 4 Matilde Capitolo 5 Tommaso Capitolo 6 La selezione Capitolo 7 L’altro potere Capitolo 8 Il pendolo impazzito Capitolo 9
Ombre del ato Capitolo 10 La meteora Capitolo 11 L’evasione Capitolo 12 L’unica soluzione Capitolo 13 Toccata e fuga Capitolo 14 Il Guardiano dell’Aria Capitolo 15 La partenza di Tommaso Capitolo 16 La partenza di Matilde Capitolo 17 Sulle strade di Nebrus Capitolo 18 L’arrivo Capitolo 19 L’incontro
Capitolo 20 Il decotto Capitolo 21 Chi trova un amico... Capitolo 22 Tempo di shopping Capitolo 23 La confessione Capitolo 24 L’esame elementale Capitolo 25 Il dono di Altea Capitolo 26 Le cose evolvono... Capitolo 27 Verso Nebrus Capitolo 28 La riunificazione
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Copyright: 2014 – Tutti i diritti riservati all’Autrice.
Immagine di copertina realizzata da Sandra Palmisano.
ISBN | 978-88-91146-29-8
Youcanprint Self-Publisher www.youcanprint.it
Edizione 2017
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Prologo
Mondo di Sopra, anno 3119
Galdino Hondis, presidente del Consiglio dei Cinque, ricevette una lettera alata nel cuore della notte. La busta si era insinuata sotto la porta d’ingresso del suo appartamento e con le piccole ali aveva raggiunto la stanza da letto. Sventolò sul viso dell’uomo fino a destarlo e, quando egli fu sveglio, recitò ciò che gli era stato dettato in tutta fretta. La missiva lo invitava a raggiungere la Sala Consiliare il più in fretta possibile; la questione era molto urgente e delicata, non vi era il tempo di adoperare i regolari canali per chiedere udienza. Galdino percorse il corridoio a grandi i mentre finiva di allacciarsi la sopravveste dell’ordine di color porpora e con amaneria color oro. Aprì di scatto i due battenti della porta e irruppe nella sala borbottando. Gli altri quattro membri del Consiglio erano già seduti ai loro posti e sembravano attendere da un po’. In effetti, la lettera aveva faticato non poco a svegliarlo, vedendosi costretta, alla fine, a colpirlo in fronte con le alette. «Allora, che sarà mai successo, in questo tranquillo paese, di tanto grave da non poter aspettare il sorgere del sole!» Più in là, nella zona in ombra oltre il tavolo consiliare, la luce lunare, che penetrava da una finestra stretta e lunga, mise in evidenza la longilinea figura di una donna che si avvicinò rapidamente, sentendo finalmente la voce del presidente. «La qui presente, Alyssa Aster, intende denunciare il proprio gemello astrale per sottrazione illecita dei poteri elementali» disse il consigliere cui spettava di turno aprire la seduta. «Che idiozia è mai questa! Furto dei poteri elementali!? Non stiamo mica parlando di caramelle!» sbottò Galdino che, all’udire quella bazzecola, pensò solo di tornarsene subito a letto. Sulle labbra dei consiglieri affiorò un sorrisetto di scherno.
«Ci dispiace presidente, ma abbiamo ricevuto anche noi la sua stessa lettera, suppongo, senza motivazione e senza firma» disse quello che aveva parlato prima. «Se avessi fatto diversamente, a quest’ora non sareste qui» spiegò Alyssa. «E ora che ci siamo non ci resteremo un minuto di più. Non per ascoltare certe assurdità. Signorina Alyssa, è sicura di sentirsi bene?» «Adesso sì, grazie a Zymal che mi ha ritrovato nella radura. Sono stata vittima di un terribile incantesimo per mezzo del quale Bruto si è impossessato dei miei poteri. Dobbiamo fermarlo, poiché adesso ha il pote…» «Cara, tu devi aver preso una botta in testa prima di giungere alla radura, magari da un frutto di fitolicastro caduto dall’albero; in tal caso ti è andata bene, quella noce avrebbe potuto ucciderti. Suvvia, non esiste un incantesimo in grado di fare ciò che tu asserisci. E se anche fosse, la cosa sarebbe stata avvertita dai Guardiani. Vai a casa a riposare, domattina avrai le idee più chiare.» «Domattina sarà tardi per ogni cosa. I Guardiani non hanno percepito niente per il semplice fatto che la cosa è avvenuta nel Paese Perpetuo. Coraggio! Tirate fuori i vostri pendoli e rilevate i miei poteri: essi non oscilleranno né sul simbolo della Terra né sul simbolo dell’ Aria. Vi sto dicendo che non ho più i miei poteri, e non me li sono certo persi per strada. Come potete pensare che mi stia burlando di voi? Provate invece a pensare a quello che potrebbe fare il mio gemello col potere di tutti e quattro gli elementi; vi renderete conto…» tutti tacquero, accecati da un intenso bagliore che, dall’unica finestra, invase la stanza. Corsero dietro la vetrata riparandosi gli occhi: un’immensa cupola di luce argentea avvolgeva tutto, fino a dove gli occhi riuscivano a guardare. Seguì un boato fragoroso che fece vibrare il pavimento sotto i loro piedi. «Bruto!» un filo di voce uscì dalle labbra della ragazza.
Mondo di Sopra, 47° Teporis 3199 San Gregorio College, - cronaca di un ordinario giorno di scuola -
La giovane professoressa Gemma Cimador, fresca di cattedra, cammina tra le fila di banchi tenendo un’apionata lezione di storia contemporanea. È l’insegnamento preferito dagli alunni che frequentano la sua classe. Essi apprendono gli ultimi cruciali avvenimenti del loro Mondo, fatti reali che raccontati dalla Cimador acquistano un sapore di leggenda. L’insegnante si concede una pausa. La sua longilinea figura si dirige verso la cattedra, vi si siede sopra, gambe accavallate sotto il lungo abito viola con balze nere che partono dall’altezza del ginocchio fino all’orlo, osserva ogni studente ed è conscia di avere l’attenzione di tutto il gruppo. Ella si compiace delle sue pause e gli studenti, che ormai conoscono il suo stile, sanno che nel proseguito della lezione se ne concederà altre. Lei attende ancora qualche secondo, finché non legge nei loro occhi l’impazienza. Ora, soddisfatta, continua a narrare la storia dei due mondi. Il Mondo di Sopra, il loro, abitato da persone con speciali facoltà: maghi, sensitivi, cartomanti, veggenti, rabdomanti eccetera oltre che da creature magiche, che vegliano e osservano il Mondo di Sotto abitato da gente normale, ignara dell’esistenza di un mondo sovrastante.
«Molti decenni or sono, Il Mondo di Sopra vide la nascita di due bambini che col are degli anni e l’acquisizione dei loro poteri si scoprì che essi formavano una coppia astrale, fenomeno rarissimo per la straordinarietà che attribuisce a ciascun gemello la forza di due elementi. Quando i gemelli astrali, in seguito chiamati anche elementali, uniscono i loro poteri diventano una coppia imbattibile. Il periodo in cui questi due giovani frequentavano l’Ateneo, fu teatro di una lunga disputa sull’utilizzo delle arti magiche, sorta a causa della nascita di una fazione, “i Bruti”, dal nome del loro giovane capeggiatore Bruto Nerasmo, che pretendevano il libero arbitrio sull’uso della magia e l’abolizione della figura del
GAM (Garante per le Arti Magiche). La comunità rimase attonita e poi terrorizzata allo scoprire che si trattava proprio del gemello astrale. Si temette l’uso che Bruto Nerasmo avrebbe potuto fare del potere combinato dei quattro elementi. Bruto, però, non disponeva di questo potere in quanto il suo gemello ne deprecava le idee e i comportamenti e non riusciva a capacitarsi del suo improvviso e radicale cambiamento; non riconosceva più in lui l’allegro e interessato compagno. Accadde così che Bruto, in combutta con un perfido druido, riuscisse, con un intruglio di pozioni e una formula magica, a rubare temporaneamente i poteri al suo gemello…» «Temporaneamente?» uno degli studenti, dall’ultima fila di banchi, chiede delucidazioni in merito. «Sì, solo temporaneamente, perché neppure la magia può operare trasposizioni durature dei poteri elementali da una persona all’altra», spiega la Cimador, «ma il tempo fu sufficiente perché Bruto riuscisse a circoscrivere una porzione del Mondo di Sopra con un campo di forza permanente, usurpando così la più ampia parte di territorio e tralasciando una porzione più piccola, dove rimase il Centro di Governo del Mondo di Sopra. Come a intendere: “Tenetevi il vostro governo e governate come volete, io mi approprio di una parte del mondo, dove regnerà la mia legge”. Nella fretta di agire, per la limitatezza del potere acquisito, vi lasciò anche una buona fetta del sottobosco che altrimenti avrebbe mantenuto per sé. Con una formula magica trasferì poi, al di fuori del campo circoscritto, la maggior parte dei residenti per lasciare posto ai suoi seguaci. E siccome sapeva che quasi nessuno la pensava come lui, cercò di trasferirne il più possibile, ma erano parecchi e il territorio di destinazione limitato a un quarto dell’intero pianeta. Fu così che, non trovando il suo bacato cervello altra rapida soluzione, la parte eccedente la dirottò nel Mondo di Sotto. Non chiedetemi in quale modo ci riuscì perché, a oggi, rimane ancora un mistero. Tra l’altro non si sapeva ancora dell’esistenza del Portale.» […] «Gli abitanti del sottobosco rimasti esclusi, erano infuriati con Bruto poiché avevano patteggiato con lui la proprietà del suolo che occupavano e riversarono la loro rabbia su chiunque si addentrava nelle terre che ritenevano gli spettassero di diritto. Diverso tempo dopo, quando l’arrabbiatura si affievolì e diventò meno rischioso avvicinarsi a loro, il Consiglio dei Cinque si riunì e azzardò un
incontro con la fazione ribelle delle creature del sottobosco, in terra... diciamo neutrale: la radura. In quell’incontro fu stabilito e firmato un patto per una reciproca convivenza. Fu decretato che le aree abitate dalle creature, più altre ristrette zone limitrofe, diventassero di loro esclusivo uso e pertinenza. Gli abitanti del Mondo di Sopra non si sarebbero addentrati in questi territori, che vennero segnati col colore rosso, mentre le creature non avrebbero raggiunto la radura. Ogni tanto era battuta qualche notizia di risse e subbugli tra le creature ribelli della zona rossa e quelle pacifiste della zona blu. Il movente era sempre l’invasione del territorio altrui. A risolvere la questione, era intervenuto il Consiglio con una delibera che ordinava l’innalzamento di una rete lungo tutto il confine tra due zone.» […] «Non appena l’effetto della magia di Nerasmo terminò e perse i poteri sottratti al gemello, il campo di forza diventò anche per lui una barriera invalicabile, così come l’accesso al Mondo di Sotto. Restò quindi padrone indiscusso di tutto il resto del Mondo di Sopra, dove sicuramente la magia fu usata senza alcun controllo. Ma, come ben sapete, da quel momento ciascuna delle due parti è completamente estranea all’altra.» «Nel Mondo di Sotto gli “esiliati” dovettero imparare a vivere con i normali e soprattutto a non far uso della magia. Poi, com’era prevedibile, la mescolanza portò ai primi matrimoni misti. Così si distinsero i discendenti, nati da matrimoni puri, dagli ereditari nati da matrimoni misti. Intanto dal Mondo di Sopra, nella sala del "Grande Osservatorio”, noi potevamo solo osservarli.» […] «La cosa che fece rimanere tutti quanti stupefatti, fu che Nerasmo lasciò a noi la Terra delle Fate. Ancora oggi ci chiediamo come mai. Stiamo ancora cercando di capire se è stata una dimenticanza o un calcolo preciso. Nessuno crede che Nerasmo fosse sbadato fino a questo punto, perciò la risposta più ovvia è che egli abbia volutamente impedito alle generazioni future di diventare dei maghi completi per mantenere la supremazia.» «Comunque…continuiamo.» «arono gli anni. Un giorno, durante una ricerca nella Biblioteca del Consiglio, un certo Ermete Pixsus rischiò di cadere dalla scala a pioli sulla quale
si era inerpicato per raggiungere il ripiano più alto dello scaffale, dove, secondo l’indice di archiviazione, doveva trovarsi il libro che gli serviva. Evitò la caduta aggrappandosi a una spalla della libreria, il suo dito medio s’infilò in un intarsio del legno e pigiò qualcosa. In fondo all’ultimo ripiano, un riquadro della spalliera scivolò a destra mostrando una nicchia ricavata nella parete retrostante. Al suo interno un grande libro, vecchio e polveroso, era poggiato su un piedistallo. Inebetito, restò a guardarlo. Gli occhi spalancati e la bocca aperta, restò così finché i suoi polmoni reclamarono aria e si ricordò di respirare. Si guardò attorno in cerca di spiegazioni, ma la biblioteca era deserta. Prese il libro con meticolosa cura e scese dalla scala. Vi soffiò sopra con forza da alzare un polverone che lo fece tossire. Sulla rilegatura in cuoio era inciso “Il Mondo di Sopra – L’era del Portale”.» «Ermete rimase sbigottito. Non aveva mai sentito parlare di tale era, e vista la sua età era certo che nessun altro ne fosse a conoscenza. Che lui sapesse erano esistite solo due ere: quella detta “dei Due Mondi” durata millecinquecento anni e quella attuale detta “dei Gemelli”.» «Avvolse il libro nel suo mantello e lo portò nel proprio appartamento. Quando lo aprì, rimase senza parole. La prima cosa che gli venne in mente era che si trattasse di uno scherzo. Era assurdo. Come era possibile che un’era chiamata “Era del Portale” fosse esistita contemporaneamente alla prima? Però anche l’idea di una burla molto ben architettata non aveva fondamento. A quale scopo? Si chiese. Per quanto tempo quel libro era rimasto in quella nicchia? E per quanto ancora ci sarebbe rimasto se lui non l’avesse accidentalmente scoperto? Osservò bene quel volume, le pagine ingiallite, la grana della carta, l’inchiostro violaceo di seppionide nana (non più reperibile), la rilegatura con colla di bava di Lumaca Argentata (non più in uso) confermavano il periodo in cui era stato prodotto. Iniziò a leggerlo più attentamente. Più lesse e più si rese conto che il libro non parlava per niente di un’era sconosciuta, ma narrava de “L’era dei Due Mondi”. Anzi, a un certo punto, fu persino convinto di riconoscere certi periodi e di ricordarne addirittura le parole usate. Riandò in biblioteca e ne ritornò col volume de “L’era dei Due Mondi”. Lo poggiò sul tavolo alla sinistra dell’altro e iniziò a scorrerli parallelamente. Erano identici! L’uno la copia dell’altro, solo che giunto alla duecentoquattordicesima pagina, quello di sinistra terminò, mentre l’altro proseguiva con un documento di trenta pagine. Si trattava perciò del volume originale, mentre il libro della biblioteca era solo una copia alla quale era stata tolta l’ultima parte e cambiato il titolo. Ermete, sofferente di cuore, ebbe timore di avventurarsi nella lettura di quell’inedito. Si chiedeva quale
confidenza potessero mai contenere quelle pagine. Si domandava se quel libro era stato nascosto per celare un segreto, per proteggere qualcuno o qualcosa, ma occultato con la speranza che un giorno venisse ritrovato. Tale considerazione gli sembrò la più plausibile, altrimenti il libro sarebbe stato distrutto e non nascosto. Quale verità conteneva quel tomo? «Ermete, che era uno dei membri del Consiglio Dei Cinque, indisse una riunione straordinaria del Consiglio per portarlo alla conoscenza del suo ritrovamento e scoprire il contenuto di quel documento insieme agli altri quattro Consiglieri. Quel giorno erano tutti convinti che stessero per apprendere qualcosa che riguardava il mitico Portale descritto nei vecchi testi. La connessione usata dai predecessori per raggiungere il Mondo di Sotto. Tante erano le notizie su questi viaggi, però nessuno era mai riuscito a trovare il Portale. Molti erano convinti della sua esistenza, ma altrettanti l’avevano ascritto a leggenda. Quelle pagine inedite svelarono l’arcano. Ciò che restò un mistero fu il perché quel libro venne occultato. Nessuna postilla e nessun allegato furono lasciati dai predecessori a chiarimento. Fra le varie ipotesi quella più accreditata opinava la protezione di uno dei due mondi in seguito a un terribile evento. Più precisamente, s’ipotizzò che una potente e leggendaria veggente, vissuta nella Prima Era, Iolanda Iolis, abbia predetto le malefatte di Bruto Nerasmo e abbia eliminato ogni traccia dell’ esistenza del Portale per proteggere gli abitanti normali del Mondo di Sotto da una facile conquista da parte dei Bruti. Così fu prodotta una copia del Libro, sottraendo la parte finale e dandogli un altro titolo. Si suppose anche che Iolanda, sempre in base alle sue predizioni, sapesse che il libro sarebbe stato ritrovato al momento opportuno.» «L’ultima pagina dell’inedito era una mappa che segnalava l’entrata del Portale e l’uscita nel Mondo di Sotto, e ci consegnava anche la formula per rimetterlo in moto. Il collegamento fu riattivato e venne battezzato col nome di “Portale di Ermete”. Il mezzo di trasporto, che nel libro originale era citato semplicemente come Trasportatore, venne ribattezzato Mondovia.» «Bene» conclude la professoressa. Scende dalla cattedra e si dirige dal lato opposto per accomodarsi alla sua sedia. «Per la prossima volta, da pag. 59, studiate la composizione dei vari Consigli Dei Cinque che si sono susseguiti durante la Prima Era. E sarete interrogati anche sulle Dieci Leggi che disciplinano l’uso della magia.» «Avete domande sulla lezione di oggi?» Uno sfarfallio di mani si leva sopra le
teste degli alunni. «Topazio?» la professoressa invita la ragazza mora della prima fila a porgere il primo quesito. «Prof. Lei ha detto che quando Nerasmo perse i poteri sottratti al gemello, il campo di forza diventò per lui una barriera invalicabile, così come l’accesso al Mondo di Sotto. Questo vuol dire che la forza congiunta dei quattro elementi vanifica l’uso del Portale. Giusto?» «Questo indizio non è mai stato trovato nell’intera enciclopedia magica, ma, poiché Nerasmo c’è riuscito, la risposta non può essere che sì. Sì, l’unione dei quattro elementi crea una forza in grado di viaggiare nello spazio interdimensionale, ma sicuramente l’attitudine dei due ragazzi non è di poco conto.» «Se è così quel bastardo avrebbe potuto pensare anche di trasferirsi coi suoi seguaci nel Mondo di Sotto, e sottomettere i normali, anziché catapultarci la popolazione sfrattata. Sarebbe potuto diventare il dominatore di un Mondo più grande del nostro» interviene qualcuno. «Cosa? Chi ha parlato?» la Cimador capisce solo da che direzione arriva la voce maschile, ma non a chi appartiene. «Tanta magia concentrata in un tizio col cervello limitato…» interviene una ragazza dalla parte opposta. La professoressa gira la testa da una parte all’altra. Ormai tutti intervengono senza alzare la mano. «È per via della fretta. Non gli è venuto in mente» spiega qualcun altro. «Ma smettila! Uno che sa di stare per acquisire tutto quel potere, pianifica ogni cosa nei dettagli, mica improvvisa» s’infervora un ragazzo allentandosi il nodo della cravatta. «Fermi!» intima la professoressa Cimador facendo barriera con le mani. «intervenga uno per volta e soprattutto moderate il linguaggio.» «Effettivamente avete fatto una giusta osservazione. Sicuramente Nerasmo avrebbe potuto conquistare il Mondo di Sotto, se avesse voluto. Non oso pensare le conseguenze.»
«Perché Prof? Forse sarebbe stato meglio…» è di nuovo il ragazzo con la cravatta allentata a parlare «Dopotutto noi abbiamo ritrovato il Portale. Avremmo potuto organizzare un esercito di Maghi, Druidi, Negromanti, ogni Creatura magica e andare a sconfiggerlo. Dopo che non aveva più i poteri del gemello, sarebbe stata un’impresa facile.» dice con orgoglio patriottico. «Certo, avremmo trovato un Bruto Nerasmo ultracentenario. Ma ti studi le date?» interviene la compagna al suo fianco. «Secchiona! Mi riferivo al suo movimento, ovvio.»
Topazio, che era rimasta assorta nei suoi pensieri dopo il primo intervento, s’alza lentamente e getta uno sguardo ad ampio raggio sulla classe: «Ragazzi, non so a voi, ma a me capita di frequente di domandarmi che cosa stia succedendo in questo stesso istante dall’altra parte. Mi chiedo se è un posto tetro e malvagio, oppure se dopo la scomparsa di Nerasmo le cose siano migliorate. Penso che anche dall’altra parte qualcuno si ponga le stesse domande. Spero, ma allo stesso tempo temo, che un giorno il campo di forza crolli e le due parti si ritrovino. Ma nessuno sembra impegnarsi a tal fine. Non mi risulta che il Consiglio stia cercando una soluzione. Stiamo qui ad aspettare la prossima Profezia, sperando che i nuovi gemelli arrivino a rimettere tutto a posto. Però non possiamo prevedere se nasceranno qua o dall’altra parte, o peggio ancora separati. Così ci siamo rassegnati a questa divisione e abbassiamo la voce nel pronunciare quel nome, come se temessimo di evocarne il fantasma...» Il suono della camla giunge sulla parola “fantasma” e un brivido scorre lungo qualche schiena, ma la classe, al contrario di ogni volta, non abbandona l’aula di filata riversandosi come una piena nell’ androne.
QUARANT’ANNI DOPO
Capitolo 1
La scatola
Casimiro Ovibus, custode e tuttofare del San Gregorio College, si alzò di buon’ora e per prima cosa mise della nuova legna da ardere nel camino. Dopo la Festa dell’Incanto, il freddo era divenuto più pungente e la sua scorta di legna stava per esaurirsi. Durante la notte era nevicato copiosamente, tanto che ora non riusciva ad aprire le persiane per la quantità di neve depositata sui davanzali. Dallo sgabuzzino prese un pesante pastrano e un paio di pelosi scarponi da neve; li indossò e uscì da casa per provare a sbloccare le imposte dall’esterno. Raffiche gelide gli intimarono di sbrigarsi. Quando rientrò, il fuoco aveva già attecchito e una calda luce gialla illuminava fiocamente la stanza. Tese le mani davanti al camino per scrollarsi il freddo di dosso. Fuori c’era ancora la sesta luna e iniziava ad albeggiare. Casimiro preparò la caffettiera, la mise sul fornello e sedette in poltrona ad aspettare il tipico gorgogliare del caffè. La nera bevanda era, a suo parere, ciò che di meglio avesse da offrire il Mondo di Sotto; un elisir che desta i sensi e tempra lo spirito. Nell’attesa che l’amaro infuso colmasse la caffettiera, prese a rimirare la sua scatola rossa della corrispondenza, che investita dalla luce tremolante del camino sembrava animarsi. L’aveva costruita il Friavertum ato – la stagione fredda - con legno di fitolicastro e ancora oggi la guardava con grande orgoglio. Ne aveva suddiviso l’interno in due scomparti, uno per le domande d’ammissione in busta blu, e l’altro per quelle in busta rossa. L’aveva verniciata di porpora con stelle, mezze lune e soli dorati e per completare l’opera l’aveva dotata di un sistema di chiusura molto particolare. La scatola color rosso scuro aveva preso posto fisso sul tavolino rotondo vicino alla porta d’entrata della Dependance del College, usata come casa del custode e che ora la maggior parte degli studenti chiamava “casovibus”. La casa di Ovibus era piccola ma confortevole: un soggiorno con cucina a vista, un divano, una poltrona, una libreria, un tavolo con due panche, una camera da letto e una toilette con una grande tinozza. In quella dimora, arredata con pochi mobili e suppellettili di gusto abbastanza discutibile, la scatola rossa era forse l’oggetto più grazioso che conteneva e Casimiro, a ragione, ne andava fiero. In profonda contemplazione della sua opera, non sentì il gorgoglio del caffè che
usciva. Solo l’aroma, che si era espanso rapidamente nel piccolo ambiente, riuscì a farlo tornare in sé, e quando andò a spegnere il fuoco parte del caffè si era versato sul fornello, spegnendolo. Riuscì comunque a riempirne una buona tazza, ma per colmarla decise, in via eccezionale, di aggiungervi del latte. V’inzuppò un croissant con crema al cioccolato, di quelli confezionati da Trudstel, lo gnomo pasticcere più famoso del Mondo di Sopra. Fatta colazione, pensò che fosse ormai tempo di consegnare la scatola con le richieste d’ammissione; ne aveva raccolte quattrocentoquattordici e, non ricevendone più da due settimane, credette che non ne sarebbero pervenute d’ulteriori. Chiuse il coperchio e vi poggiò sopra la mano, chiuse gli occhi e rimase come intento ad ascoltare per qualche secondo, poi li riaprì e attorcigliandosi il lungo baffo: “Pochi, quest’anno sono proprio pochi” mormorò; poi guardò casualmente la finestra e intravide, attraverso i vetri picchiettati di bianco, una figura incappucciata sfrecciare sul viale principale verso il cancello. «Che diavolo! E quello chi è?» strillò precipitandosi verso la porta. «Ehi! Chi va là?» gridò sull’uscio di casa. Fece solo in tempo a vedere l’orlo svolazzante di un mantello scuro sparire dietro la siepe che delimitava il vialetto d’accesso alla Dependance. S’infilò gli scarponi, che aveva lasciato vicini alla porta, e uscì in pigiama e giacca da camera. Arrancando nella neve che sovrastava il vialetto, si mise sulle orme della figura misteriosa. Tracce inconfondibili: due ininterrotte strisce parallele. Le seguì fino ai pressi del cancello del College. Lì, sopra una panchina, sgombera per metà dalla neve, sedeva una donna avvolta da un caldo mantello scuro. Era intenta a sostituire gli scarponi da sci, che aveva ai piedi, con degli stivaloni da montagna. «Ehi. Chi sss…sei? Fatti v…vedere» Casimiro non riusciva a parlare. Gli mancava il fiato per la corsa e temeva se gli sarebbe venuto un infarto. Per fortuna almeno il vento si era calmato. La donna si mostrò, tirandosi giù il cappuccio contornato da morbido pelo. «Buondì, signor Ovibus» lo salutò imibile. «Lei!?» esclamò ambiguamente Ovibus. Tolse la rimanente neve dalla panchina e sedette vicino a lei per riprendere fiato.
«Signor Ovibus, dal tono della sua voce non ho capito se è deluso o sorpreso che sia io. Comunque, – cambiò discorso – spero che in cima alla sua lista delle priorità ci sia di are con lo spazzaneve. La strada è completamente inagibile» disse lei inespressiva. «Certo, signorina Angeloro. Vedo che lei ha comunque trovato un buon mezzo per arrivare fin qui, e anche veloce direi» fece Ovibus indicando gli sci infilzati nella neve. «Meglio se avesse utilizzato il suo potere, no?» «Il mio potere? Non è che possiamo utilizzare il nostro potere come e quanto ci piace. Ci sono delle regole, altrimenti sarebbe il caos. Ma che glielo dico a fare, come se non lo sapesse bene anche lei. E poi, mi consenta, non vorrà paragonare la traslazione a una frizzante discesa sugli sci. Mi sono proprio divertita, peccato che la pista non sia più lunga.» «Come vuole, contenta lei...» «Ha notato che il ritorno è però in salita?» rispose lui indicando le cime delle torri del College che si intravedevano dietro i fitti boschi di fitolicastro. «Già, vedo. In ogni caso ho la mia risorsa alternativa» fece lei di rimando. «Comunque, farebbe meglio a indossare una tuta da sci al posto di quella roba lì? E poi lo sa bene che non bisogna attirare l’attenzione. La direttrice lo ha più volte ribadito. Perché lei sta andando giù tra i normali, vero? E come mai ci va alla buonora? Non poteva aspettare che spalassi la neve? Poteva anche rompersi una gamba e questo non è proprio il momento.» «Mi sta per caso facendo la predica, signor Ovibus?» chiese, risentita. «Conosco bene le direttive della signora Gramegna e di certo non parlano del mio abbigliamento. In quanto alla neve spalata: no, non potevo aspettare. Voglio riuscire a prendere la Mondovia delle sette.» Mentre diceva ciò, aveva tirato fuori dalla tasca del suo mantello una custodia. L’aveva srotolata e ora era intenta a inserirvi sci e racchette. «Sto andando nel Mondo di Sotto a…» stava riprendendo a parlare, ma improvvisamente si ricordò delle ultime parole di Casimiro. «Che cosa intendeva dire col momento meno propizio per rompermi una gamba?» chiese puntandogli contro l’indice e il mignolo della mano destra.
«Beh... ecco...» Casimiro si accorse d’aver farneticato ed era imbarazzato. Il fatto è che le cose non stavano andando per il verso giusto, ossia non come le aveva immaginate a casa poco prima quando stava ammirando la sua creazione color porpora. Allora, aveva parlottato fra sé e sé delineando ciò che meditava da qualche giorno: "Non vedo l’ ora di osservare la faccia della signorina Angeloro quando le consegnerò la scatola. Vorrà tenersela? E no, questa è mia, me la deve ridare. Magari me ne commissiona una identica. Sì, potrei anche fargliela... Quindi prendo lo spazzaneve... salgo da destra... mi fermo davanti al College... gliela porto in segreteria. Che bella sorpresa le faccio! Poi scendo giù da sinistra...” Lo svanire dei suoi propositi l’aveva messo di cattivo umore. «Allora?» insistette Lucilla. «Beh, stavo pensando che c’è del lavoro per lei. Lei sa che ci sono delle scadenze precise...». Le sopracciglia di Lucilla si aggrottarono, poi si sollevarono. Non riusciva a capire dove Casimiro voleva andare a parare. «Ecco, è per via delle richieste d’ammissione degli esterni. Ce l’ho tutte. Volevo consegnargliele, però, visto che sta uscendo, le lascerò in segreteria» rispose tutto d’un fiato. “Se ieri mi avesse avvisato, adesso non sarei qui. Ad ogni modo mi ha risparmiato un viaggio. Giacché sono arrivate le domande, porterò giù i documenti un altro giorno così prenoto anche i posti sulla Mondovia per i nuovi ragazzi” pensò Lucilla. «A proposito, quante ne sono arrivate?» chiese quindi. «Quattrocentoquattordici. Poche quelle buone, direi» rispose Casimiro facendo oscillare lievemente la mano destra. «Cosa? Non posso crederci! L’ha fatto ancora! Ha di nuovo usato la sua mano per sapere le cose prima di me» si adirò Lucilla. «No, no… solo per qualche secondo… non ho esercitato un’auscultazione profonda. Più che altro si tratta di una sensazione…» «Non mi stia a raccontar frottole, signor Ovibus. L’ha fatto e basta. Lo vuol capire che questo è compito mio? Non mi piace che sappia prima di me ciò che tocca a me scoprire» sbraitò Lucilla, poi sospirò e scosse più volte la testa:
«Vada, vada a prendermi quella corrispondenza, per cortesia.» Così dicendo infilò la mano in una delle tasche del suo mantello e ne tirò fuori un fischietto agganciato a una catenella d’oro. Vi soffiò dentro, ma non si udì alcun suono. Poi allungò il collo cercando dove iniziavano i boschi di fitolicastro. Casimiro era entrato nella sua casupola pavoneggiandosi all’idea di consegnare a Lucilla la lucida e decorata scatola al posto del consunto sacco di iuta, anche se l’entusiasmo gli si era un po’ spento. Le sarebbe piaciuta moltissimo e la tensione fra loro due si sarebbe allentata. Almeno, questo era quello che in cuor suo sperava. Il freddo di quella mattina era molto intenso. Casimiro si sentiva congelato sino alle ossa, anche se prima di arrivare alle sue ossa occorreva traare uno spesso strato di adipe. Cambiò subito la giacca da camera col pesante pastrano, s’infilzò in testa un cappello e uscì impettito con la scatola in mano. Rischiò di non trovare il secondo gradino, sia per la neve che ne nascondeva la forma, sia per il fatto che, tra la scatola e la sua pancia, la visuale era molto ridotta. Poi, come se ciò non bastasse, fu spaventato dall’arrivo improvviso di Biancospino, il destriero di Lucilla. Bianco come la neve, era sopraggiunto mimetico e silenzioso vicino a lui e con la bocca gli aveva portato via il cappello. «Diavolo di un animale. Vuoi farmi venire un accidente!» gridò Casimiro, temendo nuovamente l’infarto. «E quella cosa sarebbe?» chiese Lucilla spazientita. «È la scatola con le richieste d’ammissione. L’ho costruita io. Ha due scomparti: uno per le buste blu e uno per le rosse. Vede, così sono già separate! Bella, vero?» si pavoneggiò. «Oh! Bella davvero, non v’è dubbio» fece lei sarcastica. «Ma mi spiega come caspita faccio a portarmi quella roba a cavallo?» rincarò. Per Lucilla, anche una cavalcata col suo fido destriero era preferibile alla traslazione. La coda di pavone di Casimiro si richiuse lentamente, ammosciandosi sino a toccar terra. Avrebbe voluto risponderle per le rime, ma con la signorina Lucilla proprio non gli riusciva. In fondo, Lucilla Angeloro era una ragazza simpatica, ma bisognava conoscerla bene per poter affermare ciò. La sua indole gitana e l’aspetto fiero incutevano a volte soggezione. La prima impressione era quella di una donna irascibile, una tipetta nervosa e irrequieta, istintiva e astuta, ma chi la
guardava soltanto vedeva una bella ragazza dai profondi occhi blu e dai lunghi capelli ricci e neri tra i quali portava sempre una fascia colorata. Indossava lunghe e voluminose gonne con tanto di sottogonna e stivalacci fino al polpaccio. Portava dei grandi cerchi d’oro agganciati ai lobi delle orecchie e una fornita serie di collane, bracciali e anelli. Agli studenti era sempre andata a genio e a lei andavano a genio i ragazzi, tanto che li conosceva bene uno per uno. Lucilla si accorse di aver esagerato. Dopotutto Ovibus era stato gentile e premuroso. Non aveva ancora spalato la neve, è vero, ma il giorno era appena sorto. Aveva di nuovo ficcato il naso, o meglio la mano, nella corrispondenza, ma per un sensitivo era un fatto talmente spontaneo e quotidiano usare la percezione extrasensoriale che non intendeva minimamente sminuire il suo lavoro. Perché dunque si era adirata tanto? Cercò allora di porre rimedio al torto fatto. «Mi scusi, Casimiro, ma oggi sono più nervosa del solito; sarà colpa della luna nuova. La sua scatola è veramente molto bella e l’aver separato le buste blu dalle rosse è per me un risparmio di tempo. Tuttavia il vecchio sacco era di gran lunga più comodo, me lo caricavo sulle spalle e partivo al galoppo. Sinceramente non so in che modo portare quella …» «Non è un problema, signorina, gliel’ho già detto. Porterò io la scatola in segreteria, anzi lei non dovrà più venire a prendere le lettere, d’ora in avanti gliele porterò sempre io, dentro questa scatola. Ha notato la chiusura, signorina? Anche questa è una mia invenzione» e dietro gli si riaprì una grande coda che mostrava tutti i suoi brillanti colori. «Adesso la carico sullo spazzaneve e gliela porto immediatamente.» «Non in pigiama spero.» disse Lucilla con un mezzo sorriso. «Eh… no, non mi sembra una buona idea» concordò Casimiro guardando la sua mise. «Con permesso» si congedò. Raccolse il cappello, che Biancospino aveva affossato con lo zoccolo nella neve, ed entrò in casa. Lucilla salì in groppa al suo cavallo, con la custodia degli sci a tracolla, e si diresse al College prendendo la strada dei boschi. Seguì scrupolosamente il sentiero contrassegnato con il colore verde. Aveva già imparato a sue spese che cosa significava sbagliare strada. Gli abitanti dei boschi non sono molto
accondiscendenti a perdonare gli intrusi: mai percorrere il sentiero rosso senza il loro esplicito invito. Più permissivi, invece, gli abitanti della zona blu. Casimiro tirò fuori lo spazzaneve dalla rimessa e salì per il viale di destra spalando la neve. ando in vicinanza del capanno degli attrezzi, incontrò Ezechiele Alavard, giardiniere e guardiano dei boschi. Gli commissionò della nuova legna per il camino, ebbe così a parlare con lui venendo a conoscenza di un fatto che lo turbò. Giunto davanti al College, saltò giù dallo spazzaneve con la scatola in mano, affossando fino ai ginocchi nella neve accumulata a lato del viale. Ne venne fuori brontolando a tutto spiano, poi, con la sua scatola in bella vista, si diresse in segreteria, dove Lucilla lo stava aspettando. Era quasi l’orario d’inizio delle lezioni e le scale e i corridoi erano gremiti di studenti e professori. Casimiro procedeva nella calca tenendo alti i gomiti, non si sa bene se per farsi largo o per proteggere la scatola. C’era chi si girava incuriosito, chi lo salutava e tirava dritto, chi non gli badava per niente. Lui non si scomponeva, camminava imperterrito tenendo la testa molto alta.
Capitolo 2
L’ereditaria
Nel profondo silenzio della notte, Matilde udì anche l’ultimo rintocco del lontano campanile. Era l’ultimo tocco della campana di mezzanotte che annunciava l’ inizio del nuovo giorno. Matilde si avvolse di scatto nel caldo e morbido piumone e ficcò la testa sotto il cuscino. Il fatidico giorno era arrivato. Aveva temporeggiato fino all’ultimo, ma adesso doveva a tutti i costi fare quella scelta. In quel momento, però, voleva solo dormire sperando che la notte le avrebbe portato consiglio. Così rimandò ancora una volta la decisione con la consapevolezza che dopo colazione il tempo sarebbe scaduto. Avrebbe o no affrontato quell’esame? Requisito fondamentale era are la selezione, dopodiché avrebbe avuto ancora qualche mese per decidere se confermare l’iscrizione. No, ritirarsi era da codardi. Scappare, senza neanche averci provato, era da vigliacchi, o deboli, o meschini, oppure paurosi, non trovava la parola più appropriata. Ma che importanza aveva? Il significato era sempre lo stesso. Non avrebbe mai fatto la figura della fifona, perciò doveva partecipare alla selezione solo se realmente intenzionata a entrare in quel college. Il sonno, comunque, non tardò ad arrivare.
La scelta degli studi di secondo grado era stata risoluta. La ragazzina dai lunghi e ricci capelli rossi aveva le idee ben chiare in proposito. Già da un paio d’anni aveva deciso cosa avrebbe fatto da grande; nonostante la sua scelta suscitasse negli altri le più svariate reazioni, Matilde avrebbe seguito le orme paterne: sarebbe diventata un’esperta in criminologia. Aveva sempre eccelso in ogni materia e tutto sarebbe stato certo più semplice se fosse appartenuta unicamente al Mondo di Sotto, se fosse stata cioè una normale, ma lei era un’ereditaria, da parte di padre, e come tale, all’età di quattordici anni, le veniva offerta la possibilità di partecipare alla selezione che le avrebbe dato accesso, l’anno successivo, al prestigioso e unico college del Mondo di Sopra. Entrare in quel college voleva dire rimandare di due anni i suoi studi nel Mondo di Sotto. Questo era il tempo necessario per uscirne col riconoscimento di “Master in Magia”. Dopo l’assegnazione del titolo, le sarebbe stata poggiata la
punta della Penna Marcante sulla spalla destra, e lì sarebbero comparse, indelebilmente, le due emme stilizzate. Quel mattino era l’ultimo giorno utile per presentare la sua richiesta che, casualmente, coincideva con l’ultimo giorno utile per la preiscrizione scolastica nel Mondo di Sotto. Questa decisione tormentava Matilde. Odiava interrompere gli studi nel suo mondo già durante il primo anno di scuola e perderne altri due, ma sapeva che solo il possesso di quel titolo le avrebbe dato l’ idoneità a praticare le arti magiche nel Mondo di Sotto, il che non era da sottovalutare. E a chi non avrebbe fatto comodo un simile aiuto stregato? Un giorno l’avrebbe pensata senz’altro così, ma adesso stava attraversando quel periodo dell’adolescenza caratterizzato da continui cambi di umore e di archetipi. Così, certe volte aveva desiderato essere una normale, come le sue amiche, e non vivere con un’intima doppia identità. Altre volte, invece, andava orgogliosa delle sue origini, si sentiva speciale e il potere di sbrogliare situazioni difficili con la magia le dava un vivo senso d’ebbrezza. Inoltre aveva una voglia matta di visitare il Mondo di Sopra. Anche se l’accesso fra i due mondi era stato ripristinato, la parte di popolazione discendente da coloro che al tempo di Nerasmo furono mandati nel Mondo di Sotto, non era comunque potuta ritornare al suo mondo di origine, per la scarsità di territorio abitabile. L’unica possibilità consisteva in brevi gite programmate a numero chiuso, visite a lontani parenti previo appuntamento, scambi “culturali” e, infine, la possibilità per gli studenti di frequentare il corso biennale di Master in Magia presso il prestigioso San Gregorio Collage. Per alcuni facoltosi, però, esisteva anche la possibilità di proseguire gli studi. Matilde aveva sognato quei luoghi tante volte, ma i suoi sogni non erano come quelli dei normali. Le sue erano vere e proprie traslazioni oniriche, durante le quali aveva vissuto in quel mondo bizzarre avventure, conosciuto persone come lei e strane creature. A ogni risveglio, ritornata nel suo corpo, non poteva negare che tutto ciò l’affascinava e l’attraeva irresistibilmente. Era consapevole che solo nel Mondo di Sopra avrebbe potuto essere se stessa e manifestare i suoi poteri, tenuti a bada da quando aveva acquisito consapevolezza di essi. Quella notte, le immagini del suo sogno erano prive di colore, offuscate, come scene osservate da spettatrice attraverso un velo. Si muovevano velocemente per poi rallentare all’improvviso, quasi a fermarsi, come una moviola asincrona. In sottofondo, anche le voci e i suoni seguivano lo stesso ritmo, mentre, al di sopra
di tutto, si stagliava netto e pulito un richiamo: Matilde!... Matilde!... Quindi, la figura snella di una giovane donna avanzava minacciosa all’orizzonte, e i suoi piedi non sembravano poggiare per terra, come la sagoma del tiro a segno che s’avvicina per mostrare i fori dei proiettili. L’immagine si arrestava con un’inquadratura a mezzo busto di cui Matilde non distingueva il volto in ombra, ma solo il particolare dei capelli scuri, lisci e lunghissimi, però il subconscio le forniva la certezza di trovarsi davanti un’adolescente. La ragazza le puntava contro un dito e la ammoniva: “Lascialo stare. È mio”. Poi udiva nuovamente quella voce maschile che ripeteva all’infinito il suo nome. Allora una luce, che man mano diveniva sempre più intensa, fece scomparire ogni immagine e Matilde si svegliò. La lampada sul suo comodino era accesa e suo padre la stava chiamando. «Matilde?» «Tutto a posto, Terremoto?» «Che succede?» chiese lei confusa. «Penso che tu abbia fatto un brutto sogno. Eri molto agitata e non riuscivo a svegliarti.» «Davvero? Ricordo solo una voce che mi chiamava in continuazione, ma forse eri tu che cercavi di svegliarmi.» «Mi sa.» «Che ore sono?» chiese Matilde allarmata. «Le cinque e un quarto» le rispose Sonaglino, la minuscola creatura della sveglia sul comodino. «Torna a dormire, ragazzina, la suoneria è puntata alle sette e un quarto; abbiamo ancora due ore di sonno e non intendo essere destata nuovamente, ieri sera sono andata a letto molto tardi per finir di rammendare le calze di Gepo e…» «Ma Gepo è morto!» disse piano Matilde. «Lo so.» «Perché allora rammendi ogni giorno? Lui non c’è più e tu non dovresti avere calzini bucati.»
«E invece sì, perché li ribuco io. Ho ato la maggior parte della mia vita a rammendar calzini e non riesco più a farne a meno. Adesso dormiamo.» «Buonanotte, Sonaglino» disse Matilde sbadigliando. «Buonanotte, papà.» «Buonanotte, Terremoto.» Sonaglino richiuse i battenti della finestra della sua casetta adiacente al lato destro della sveglia e si rimise a sonnecchiare in attesa dell’allarme martellante; Matilde, invece, si riaddormentò profondamente. Ripeté lo stesso sogno che questa volta avrebbe ricordato. Quando il gallo di Sonaglino, dal pomolo del letto, già cantava per la seconda volta, la minuscola creatura, destatasi, si meravigliava che la sveglia non avesse ancora suonato. Guardò il quadro inserito nella consolle di controllo, tutti i tasti e le spie luminose erano a posto, le impostazioni orarie esatte. «Accipicchia a questi aggeggi e agli umani con le loro diavolerie! Il mio gallo canta sempre all’ora che gli ordino la sera prima; di certo non s’inceppa mai; a volte soffre di mal di gola, ma trova sempre il modo di svegliarmi» borbottava Sonaglino mentre si accingeva a uscire di casa per salire in cima alla sveglia e andare a verificare il malfunzionamento. “Andiamo a vedere cos’è successo, altrimenti Matilde farà tardi e questo è un giorno importante per lei” così pensando aprì la porta alla base della sveglia che con un arco ritagliava interamente il numero sei. Entrò all’interno della sveglia facendosi luce con una torcia e si diresse alla scala a chiocciola che girava attorno al perimetro della sveglia arrivando su fino all’abitacolo del camlo. Sedette sulla poltrona agganciata a un binario che correva lungo la ringhiera della scala e azionò il meccanismo inserito sul bracciolo. La poltrona si mosse velocemente e in un batter d’occhio fu in cima alla scala. «Ecco perché era spaiato, guarda un po’ dov’era finito! Ma chi ce l’avrà portato quassù?» Si meravigliò estraendo il calzino che bloccava il martelletto del camlo. Con le mani si tappò all’istante le piccole orecchie appuntite e resistendo al suono assordante si precipitò sulla poltrona che ridiscese
velocemente alla base. «Va bene, va bene, sono sveglia. Falla smettere!» sbuffò Matilde stiracchiandosi. Sonaglino, uscendo dal quadrante, evitò per un pelo la lancetta dei minuti che in quel momento si stava spostando sul numero sei, e si precipitò dentro la sua minuscola dimora per pigiare il tasto di spegnimento dell’allarme, poi, sfinita, si lasciò cadere sul letto come un sacco di patate. Matilde tirò fuori una gamba, nell’atto di voler scendere dal letto, ma la ricacciò subito sotto il piumone tirandoselo fin sopra la testa. “Come si sta bene qui sotto. Chi ce l’ha il coraggio di alzarsi?” pensò. «Esci da lì, pigrona» la rimproverò Sonaglino. «Sei già in piedi, Terremoto?», fu la volta del padre che ando bussò alla sua porta, «Oggi è Sabato, tocca a te preparare la colazione, ti aspetto giù e ti informo che ho una gran fame!» «Già, vedrai quando avrò la mia bacchetta e potrò invocare le formule cuoco. Avrò finito di spentolare» disse piano Matilde. «Cosa?» gridò Sonaglino che, nonostante le sue orecchie appuntite fossero piccine, aveva un udito più sviluppato degli umani. «Non la puoi usare per i tuoi scopi personali, bada bene che…» «Sì, lo so, lo so, ma odio cucinare. Almeno per quello!» rispose Matilde agitando le braccia. «Hai già fatto la tua scelta, vero?» cambiò discorso Sonaglino. «Come?» «Dico se hai già scelto. Se parli di bacchetta, allora vuol dire che hai scelto» asserì la creatura. «Sì, ho scelto. Andrò su. Dopotutto appartengo per metà al Mondo di Sopra, è giusto che faccia questa esperienza e poi quella voce…» si soffermò a pensare.
«Voce? Quale voce?» Niente risposta. «Ehi dico a te, ci sei?» Sonaglino salì sulla mano di Matilde, che era appoggiata sul comodino, e le si arrampicò per la manica del pigiama sino ad arrivare vicino all’orecchio. «Allora, mi vuoi dire di che voce parli?» vi gridò dentro indirizzando con le mani il suono della voce. Matilde si destò; non si era neppure accorta di come Sonaglino fosse arrivata sulla sua spalla. La prese con due dita della mano destra e l’adagiò sul palmo della mano sinistra, dove la creaturina sedette, sempre in attesa della risposta. «Su, parla!» insistette. «Che ti prende, Sonaglino? Sei proprio una gran curiosona!» «Non cambiare discorso. La voce, la voce, voglio sapere di quella voce. Cosa ti ha detto?» ma l’intonazione non sembrava tanto di curiosità quanto di apprensione. Matilde, però, non ci badò. «Nel mio sogno sentivo una voce che mi chiamava con insistenza, ma non ho potuto darle un volto. Non so a chi appartenga, eppure ho la forte sensazione che provenga dal Mondo di Sopra.» «Uhm!» emise Sonaglino che ascoltava col mento appoggiato sul palmo della sua mano e le dita ripiegate sulla bocca, mentre con polso dell’altra mano si sorreggeva il gomito. «Che tipo di voce era? Descrivimela.» «Era lontana e non era in relazione alle immagini del sogno. Era bella e giovanile, ma difficile dire se appartenesse a un ragazzo o a un uomo. Si addice a entrambi.» «Quindi, con il tuo innato spirito investigativo, hai deciso di andare a scoprire se questa persona esiste veramente e cosa vuole da te. È stato questo l’input decisivo a fare quella benedetta scelta.» sentenziò Sonaglino scrutando il volto di
Matilde in cerca di conferma, invece il suono alla porta fece cambiare espressione alla ragazza che di fretta posò Sonaglino davanti alla soglia della minuscola casetta per precipitarsi alla finestra. «È Camilla, che vorrà a quest’ora?» disse rivolta a Sonaglino, «Presto va’ in casa e pietrifica.» La creatura varcò l’uscio richiudendosi la porta alle spalle, poi chiuse tutte le persiane e d’incanto la casetta e tutto ciò che vi era dentro, compresa la creatura, ma tranne il suo orecchio destro, si trasformarono in pietra. Il signor Mangrella aveva aperto la porta a Camilla, anch’egli meravigliato della sua visita mattutina. «Ciao Camilla, è per caso successo qualcosa?» «Niente affatto, signor Mangrella. Buongiorno, anzitutto. Oggi è l’ ultimo giorno valido per le iscrizioni e spero tanto che Matilde abbia fatto la mia stessa scelta. Non stavo più nella pelle, stanotte non ho quasi chiuso occhio, perciò eccomi qui, le devo parlare subito e sono venuta anche per accompagnarla.» «Accompagnarla? Ecco, veramente…» balbettò lui che, ancora ignaro della decisione presa dalla figlia, non sapeva quale direzione avrebbero preso quella mattina uscendo da casa. Ora, per ironia della sorte, quello era anche l’ultimo giorno per iscriversi al primo anno della scuola di grado superiore anche nel Mondo di Sotto, e Matilde era ancora indecisa se iscriversi per poi interrompere gli studi durante il primo anno o farlo dopo il conseguimento del master in magia. Ivan era ancora all’oscuro della decisione della figlia, e se Matilde avesse optato per il College di sopra, la presenza di Camilla sarebbe stata decisamente inopportuna. In cuor suo sperava che la scelta sarebbe stata proprio quella. «Posso salire?» chiese Camilla dirigendosi verso la scala. «Certo, va’ pure. Matilde s’è appena alzata.» «Come? Non è ancora pronta?» «No, non ancora e non abbiamo neppure fatto colazione.» «Oh, Santo Cielo! Ma così faremo tardi.»
«Sinceramente non capisco questa tua fretta» fece l’altro alzando le spalle. «Il fatto è che alle dieci e trenta ho un appuntamento dal dentista, quindi penso proprio che dovrò rinunciarci» disse con un sospiro. «Rinunciare al dentista? No, non devi, non mi sembra proprio il ca…» «Ma no, cos’ha capito, intendo a venire con voi» precisò. Il signor Mangrella tirò un sospiro di sollievo che però s’affrettò a giustificare alla meglio «Giusto, il dentista prima di tutto. È importante non trascurare i denti, brava.» «Già. Salgo a salutare Matì e poi vado» ma girando lo sguardo si accorse che l’amica era in cima alla scala. «Ciao Milly, ho sentito. Mi dispiace che sei venuta per niente, se ci fossimo messe d’accordo, mi avresti trovata pronta.» “Trovata pronta? Ma allora... ha deciso di rinunciare al master!” quel pensiero disegnò un’espressione di delusione sul volto del signor Mangrella. «Hai ragione, ma è una cosa che mi è venuta in mente stanotte, così stamattina ho pensato di venire ugualmente.» «Ma dai, scendi e raccontami» disse Camilla. Scendendo, Matilde aveva letto quell’espressione perplessa sul volto del genitore, così salutò con un bacio l’amica ed entrando in cucina si voltò verso il padre strizzandogli l’occhio. «Oggi preparo io la colazione. È il mio turno. Vuoi unirti a noi?» chiese a Camilla, con un ampio gesto della mano. «Per carità! Ho lo stomaco chiuso.» «Capisco, effetto dentista.» «Già, se andassi dal dentista ogni giorno perderei sicuramente qualche chilo. Posso darti una mano?» «Grazie. Nel primo cassetto della cassettiera di sinistra c’è la tovaglia, poi… mi
prendi il latte in frigo, e un paio di uova?» «Uova! Colazione leggera, eh? Io mi chiedo come fai a mangiare proprio stamattina. Non sei emozionata? Ma insomma, vuoi dirmi cosa hai deciso? Perché credi che sia venuta? Certo che te la sei tirata fino all’ultimo giorno. E allora?» disse d’un fiato Camilla. «Calma, calma. Ho deciso...» iniziò a dire Matilde mentre preparava la caffettiera. Doveva farsi venire in mente una scusa il più velocemente possibile. Non poteva dire la verità all’amica, la quale si attendeva una scelta tra le scuole del suo mondo, ovviamente. E poi avrebbe dovuto spiegare in qualche modo la sua lunga assenza, cosa alquanto ardua. «Beh, ecco, ho deciso... come te» disse scoraggiata per non aver trovato una soluzione. «Wow! Che sballo. Speriamo che ci mettano nella stessa camera. Sto già preparando delle cosucce che voglio portarmi, di cui non posso proprio fare a meno. Credo che avrò bisogno di una valigia in più. Quante borse si potranno portare in tutto?» Matilde neppure l’ascoltava. “Che stupida sono stata a non pensare a priori a una scusa. Che pasticcio ho combinato! Adesso non ho alternativa: oggi dovrò iscrivermi anche al liceo e iniziare a frequentare, insieme a lei, il primo anno. Così avrò il tempo di trovare una soluzione”, sospirò. Non le andava tanto di trasferirsi in un’altra città, in un altro paese. “Se i normali sapessero di noi sarebbe tutto più semplice; non possiamo nasconderci in eterno. Non possiamo continuare a credere che essi non siano pronti a questa verità. Dover raccontare balle a miei amici è una cosa che non sopporto più”. «… Chissà i ragazzi di quarta e quinta, ce ne saranno di bonazzi, vero?» Camilla parlava a ruota libera continuando a girare intorno al tavolo. Era troppo eccitata per restare ferma. «Che ne so; spero solo che non ci siano troppi idioti» rispose Matilde il cui unico pensiero era invece quello di trovare il possessore della voce onirica. «Sempre meglio un bel idiota che uno scorfano d’intelligenza, non trovi?» «Punti di vista» fece Matilde continuando a preparare la colazione e mentre
Camilla continuava a girare intorno al tavolo. «Hai già pensato cosa indossare il primo giorno? Ci mettiamo giù toste…» «Ma chi se ne frega! Mettiamoci una cosa qualsiasi, tanto, quando saremo arrivate, ci daranno la divisa… La smetti di girare intorno al tavolo?» «Già la divisa!» con un’espressione di disgusto, Camilla mise fine al suo circumnavigare il tavolo. «Ecco l’unica cosa che non mi va di quella scuola; non è giusto obbligarci a essere tutti così amorfi. A me piacciono i colori, le sfumature, la creatività, l’originalità. Io devo apparire, distinguermi. Non posso essere una margherita in un campo di margherite. Mi spiego?» protestò vivacemente l’amica. «Perfettamente» sospirò Matilde, che pensava, però, a tutt’altra divisa. L’aveva vista nelle foto di gruppo del padre. Nato anch’egli nel Mondo di Sotto, aveva varcato per la prima volta la soglia d’uscita del Portale il giorno d’inserimento al San Gregorio College. L’ereditaria era felice di quella divisa unisex: con i calzoni era completamente a suo agio. Camilla portò le tazze sulla tavola; durante i suoi giri era riuscita comunque ad apparecchiarla. «Credo proprio che sarò la promotrice di uno sciopero studentesco contro la divisa» annunciò Camilla per dare peso maggiore alla sua protesta. «Io, invece, credo proprio che indosserò la mia divisa e fingerò di non conoscerti» le rispose Matilde facendole tanto di linguaccia. «Grazie, Compagna Matì. Ma quando vincerò la mia battaglia sarai tu a ringraziarmi di non dover più indossare la gonna che tanto odi. Vigliacca!» Scuotendo la testa, Matilde andò a suonare la camla appesa al muro vicino la porta della cucina. Era il segnale, escogitato dalla madre qualche anno prima, per avvertire che era pronto in tavola. Ogni volta che suonavano la camla, sia lei sia il signor Mangrella, non potevano non pensare a lei che da cinque anni li aveva lasciati, ma che quotidianamente li osservava da lassù. Il tintinnio fece scuotere Camilla che, ricordato improvvisamente il suo appuntamento dall’altra parte della città, si decise a togliere il disturbo. Così si
congedò facendo prima promettere all’amica che le avrebbe telefonato nel pomeriggio. Non appena la porta si richiuse alle spalle di Camilla, gli ingranaggi dentro la testolina di Matilde iniziarono a girare freneticamente. Aveva un problema da risolvere.
Capitolo 3
Il discendente
La clinica psichiatrica era per gente pazza e non era certo ciò di cui aveva bisogno sua madre. Tommaso sbatté violentemente la porta uscendo da casa dopo l’ennesima lite col padre. Aveva bisogno di respirare un po’ d’aria fresca. Rifiutava il modo e il mezzo con cui lui aveva scelto di risolvere il problema. Il problema, se veramente esisteva – cosa di cui aveva iniziato a dubitare – non lo si poteva rilegare dentro una stanzetta piastrellata di bianco e con inferriate alla finestra. Sì, aveva bisogno di aria, ma non di tutta quell’aria! I rami degli alberi iniziarono ad agitarsi scossi da improvvise folate di vento, lasciando cadere il loro carico di neve. Tommaso si allontanò istintivamente da essi raggiungendo una zona spoglia del parco, ma l’aria smise di tormentare gli alberi e fu di nuovo da lui. Non riusciva a capire ciò che stava accadendo, sulle prime gli venne in mente un volume di scienze che aveva sfogliato in biblioteca, scritto da un facoltoso geofisico la cui occupazione era quella di annotare tutti i fenomeni naturali osservati; su quel libro aveva visto illustrazioni di trombe d’aria, uragani, tornado, cicloni, e descrizioni abbastanza dettagliate di quegli eventi. “Però i mulinelli non inseguono le persone, questo sembra essersi mosso di proposito verso di me.” “Eppure non mi smuove... non mi succede niente” cercava di persuadersi del perché restava stabile al suolo mentre l’aria gli girava intorno con impeto vorticoso senza nuocergli, come se volesse proteggerlo, anziché sollevarlo per poi scaraventarlo lontano. Guardò attraverso il vortice e vide in lontananza un folto gruppo di persone che assisteva atterrito. Provò più apprensione per quella gente che per se stesso tanto da voler che tutto finisse al più presto. «Adesso basta!» si trovò a dire con determinazione, e all’istante tutto cessò, proprio come dettato da un perentorio comando. Ebbe anche l’impressione che l’ultimo filo d’aria, dissolvendosi, gli avesse sussurrato qualcosa: ti aspetto.
Le persone arrancarono verso il luogo dell’accaduto per appurare la salute del ragazzo. Ognuno aveva una domanda da fare, e le domande si sovrapposero, mentre una caterva di mani si allungavano verso di lui toccandogli la fronte, accarezzandolo, spolverandogli la neve dai capelli, prendendogli le mani, scuotendogli le spalle. «Come stai ragazzo? – Grande Dea, che paura che ho avuto! – Già, anch’io. Credevo che da un momento all’altro ti avrebbe sollevato in aria. – È quello che abbiamo pensato tutti, sei stato fortunato ragazzo! – Secondo me lui si trovava perfettamente al centro: per questo non gli è successo niente. – Sei sicuro di stare bene? – Per me dovremmo chiamare un medico, non vedete che è scioccato? – Tieni, ragazzo, ti ho preso dell’acqua alla fontanella; bevi, bevi. – Per me... » continuarono così. Per un istante Tommaso desiderò che il mulinello d’aria tornasse e lo liberasse da quella calca, ma avvertendo un soffio d’aria scompigliargli la frangia bagnata, ebbe improvvisamente paura di quel pensiero e lo ricacciò. Mentre beveva l’acqua, decisamente gelata, offertagli da un’anziana donna con qualche capello bianco che spuntava da un cappellino di lana, i suoi occhi si posarono su un uomo distinto ed elegante che osservava la scena a distanza, seduto su un’altalena con cui si dondolava dolcemente. Sul suo viso un’espressione serafica e compiaciuta che accese l’interesse di Tommaso. Il tipo si alzò dal gioco oscillante e si avvicinò stretto a lui. «Bravo, ragazzo, bevi che dopo ti accompagno a casa, ho l’auto posteggiata qua vicino. Adesso hai bisogno di un buon riposo e di... riflettere.» “Riflettere? Ma chi è costui?” “E chi me lo dice che mi riaccompagna veramente a casa, oppure...” “Forse è un giornalista che vuole l’esclusiva; ma allora dov’è la sua macchina fotografica?” pensò. «Andiamo?» chiese l’uomo indirizzandolo per un braccio. Tommaso, nonostante lo scetticismo, decise di fidarsi di lui. Qualcosa nel suo sguardo gli induceva un senso di quiete, e poi lo stava salvando dalla fiumana. «Allora, raccontami: è da molto che giochi con i vortici d’aria?»
“Ecco, lo sapevo! È un giornalista.” «Preferisco ben altri giochi. Sono stato vittima di un mulinello, ma grazie al cielo è andato tutto bene. Mi dispiace ma non ho nient’altro da dichiarare per il suo articolo.» «Credi che sia un giornalista?» l’uomo si mise a ridere, come tutta la persona anche la sua risata aveva una certa eleganza. «Ti sbagli.» «Dunque, lei chi è?» «Ad essere sincero, tanti anni fa, quando ero uno studente accademico, ho fatto il giornalista. Era un lavoro che mi affascinava e mi è servito sia come crescita formativa sia come sostentamento agli studi. Poi sono diventato un avvocato. Ma voglio che tu sappia che ancor prima di essere un avvocato sono uno... come te.» «Certo, capisco, intende uno qualunque, una persona normale e non uno di quei montati che solo perché sono avvocati credono che tutti gli debbano maggior rispetto di...» «Attento a non dare del normale a me!» «Ma come! Non intendevo offenderla...» «Io sono un discendente. Oh Santa Pazienza, ho detto come te! Solo che io non gioco con l’aria ma con l’acqua.» “Non posso crederci: tengono rinchiusa mia madre e questo circola a piede libero.” «Senta, ci ho ripensato, la ringrazio del aggio, però preferisco fare due i a piedi per prendere un po’ d’aria, cioè no, niente aria, volevo dire che ho bisogno di camminare. Sì, vado a casa a piedi.» «Sei sicuro di voler andare a casa?» gli chiese l’avvocato aprendo la portiera della macchina. «Perché?» «Niente. Vuol dire che l’arrabbiatura con tuo padre t’è già ata. Meglio così.» «Cosa?»
“Mi sta pedinando”, pensò Tommaso, “Altro che avvocato, questo è un investigatore, oppure un Cacciamaghi. Qualcuno l’ha ingaggiato per tenermi d’occhio...” «No, non ancora, ma presto lo farà» rispose il tipo elegante percependo il suo pensiero e lasciando Tommaso senza parole. «Comunque, sono davvero un avvocato. Tieni, questo è il mio biglietto da visita. Adesso fai come ti ho detto: vai a casa e rifletti e quando sarai disposto a saperne di più, chiamami. E mi raccomando, non parlare assolutamente con nessuno di tutto questo. Potresti essere in serio pericolo, credimi.» Detto ciò, entrò nell’auto. Tommaso rimase stranito a guardarlo, rigirando tra le dita il pezzetto di carta. Poi l’uomo mise in moto, ingranò la marcia e prima di partire abbassò il finestrino e sporse fuori la testa «Dimenticavo: tua madre non è matta. Altrimenti lo sono anche io.»
La donna aveva superato brillantemente tutti i test psicoanalitici, ma a tenerla ancora lì dentro era stato il test della verità. Non vi era modo di eludere quelle domande stregate e anche se ci fosse riuscita, il risultato non sarebbe cambiato poiché tale test era condotto esclusivamente da persone fedeli a Goran. Individui assegnati a quell’incarico che, servendosi di potenti filtri della verità, ottenevano solo esiti comprovanti la non guarigione dei pazienti. Emma aveva risposto di no alle loro domande inquisitorie e aveva cercato di farlo con convinzione, ma le dosi di filtro magico che le erano state iniettate poco prima, permettevano ai fili, che le erano stati attaccati alla testa e alle dita della mano, di captare la sua energia magica e di raccoglierla all’interno dell’ampolla dove essi terminavano, visualizzandosi in denso fumo colorato. Nel caso di Emma il fumo si era tinto di marrone, come il colore della Terra. Il marchingegno serviva unicamente a questo scopo e in effetti non aveva alcun senso rispondere o no alle domande che venivano poste. Pertanto il responso restituito era soggetto alla consapevolezza che la donna aveva delle proprie doti e non alle risposte date. Tuttavia i medici, che tali non erano, dovevano rilasciare un parere professionale sull’indagine eseguita. Durante il consulto con gli altri medici, quando si doveva giudicare la guarigione del paziente, essi esibivano il loro questionario con le risposte falsate. Spesso si aprivano delle diatribe tra i dottori titolati e gli esperti di Goran. I primi contestavano vivamente il responso dei secondi quando era così incredibilmente discostante dal loro. Ciononostante, finiva sempre che le divergenze si appianassero, non certo per la dimostrazione
dei dati quanto perché era inutile polemizzare con quei soggetti, correndo altresì il rischio di essere radiati o di sparire misteriosamente. Tempo addietro, qualche giorno dopo un’infuocata rimostranza, due medici non si presentarono al loro posto di lavoro. Di essi si persero le tracce, nessuno ne seppe più nulla. Si iniziò a vociferare che fossero stati condotti nelle segrete del Palazzo del Governatore, o addirittura che fossero stati eliminati. Da allora le proteste che nascono istintivamente, si placano altrettanto spontaneamente. Emma eggiava per tutto il perimetro della stanza, con le mani giunte dietro alla schiena e la testa china. Aggirava il letto che da una parete si estendeva in lunghezza verso il centro della stanza. Quello era l’unico ostacolo al suo percorso. Per il resto vi era solo un armadio a muro e un tavolo con due sedie al centro della camera. Una porta adiacente al letto conduceva in un piccolo bagno. eggiava e rifletteva. A volte faceva una pausa soffermandosi davanti alla finestra da dove il mondo appariva a riquadri. Per un attimo pensò a quanto sarebbe stato facile uscire da lì potendo usare la magia, ma sapeva di non doverlo fare. Scacciò quel pensiero furtivo dalla mente. A se stessa avrebbe pensato in un secondo momento, adesso la cosa che più le stava a cuore era un’altra. Altrimenti a cosa sarebbe valso l’esporsi così apertamente rivelando alla sua famiglia la verità sulla loro identità? Certo, lei che lo sapeva aveva atteso tanti anni per tirare fuori questo argomento, ma d’altronde come si fa, di punto in bianco, a dire a chi ormai è convinto di essere un normale che la realtà è proprio quella di cui è vietato parlare? Poi, però, aveva dato alla luce un figlio, e lui adesso era cresciuto e doveva sapere. Ed Emma aveva parlato, consapevole dei rischi e dei pericoli. Il primo rischio, quello di essere creduta pazza, lo stava già scontando e soffriva per la reazione avuta dal marito dal quale si era aspettata più fiducia e maggiore predisposizione all’ascolto e alla discussione. Adesso doveva accantonare questo dolore per dedicarsi a suo figlio e a ciò che lo stava attendendo. Aveva bisogno di un appoggio all’esterno, qualcuno come lei disposto a illuminare il cammino del ragazzo. “Devo mettermi in contatto con Teodoro; con la sua perspicacia saprà persuadere Tom.” Così, aveva tirato la cordicella che penzolava vicino al letto, rasente il muro. Dopo cinque minuti l’aveva tirata di nuovo, e poi ancora. Finalmente un uomo, bruno e corpulento, con piccoli occhi tondi, posò il cruciverba sulla scrivania e vi sbatté sopra la penna, poi si sistemò il camice bianco e s’incamminò a destra del lungo corridoio ove si trovava. Arrivato in fondo, girò a sinistra e percorse ancora qualche metro giungendo davanti alla porta della stanza numero 222. Aprì usando il e-partout e rimase sulla soglia con le
braccia conserte e l’espressione beffarda dello sbruffone di turno. «Allora, cosa c’è?», ammortizzò un movimento scoordinato delle gambe, «Maga Maghemma ha perso di nuovo la bacchetta magica?» “Idiota, sai dove te la ficcherei la bacchetta se solo l’avessi?” «Non mi serve la bacchetta, ho bisogno del telefono. Vorrei chiamare una persona.» «Un telefono? A cosa le serve il telefono, non è forse capace a far apparire una persona con lo schiocco delle dita?» “Non male come idea”. «Come siamo spiritosi, oggi. Mi accompagna a un telefono o devo subirmi altre sue sose freddure?» «Niente telefonate. Se ha voglia di parlare con qualcuno lo farà durante l’orario delle visite.» Senza darle tempo di replicare chiuse la porta e la serratura scattò. Emma rimase qualche secondo con la bocca aperta e le mani a mezz’aria, poi s’alzò risoluta dal letto. “Bene. Al diavolo le regole, è arrivato il momento di agire e lo farò a modo mio. Prima penserò a mio figlio e dopo a uscire da qui.” In quella stanza spoglia, l’unico ornamento era un grande orologio appeso alla parete a destra dell’entrata, al di sopra dell’ultima fila di piastrelle. Il suo incessante ticchettio, nel silenzio di quelle quattro mura, era peggiore di una tortura cinese. A Emma capitava di osservare le lancette e, quando poco dopo le riguardava, di credere che non si fossero mosse. Il tempo sembrava eterno. Eppure, al di fuori di lì, per qualcuno il tempo correva e lei non aveva nessuna intenzione di fargli perdere una grande occasione. L’orologio segnava le quattro e dieci del pomeriggio. Aveva tre quarti d’ora di tempo, poi sarebbe stata l’ora delle visite. Sì, doveva farlo. Andò a sedersi ai piedi del letto; chiuse gli occhi portandosi gli indici alle tempie; si concentrò... si concentrò... si concentrò e lo raggiunse. Nella stanza apparve un bell’uomo, sulla quarantina o poco più, rivolto verso la finestra e nell’atto di sistemarsi la patta dei pantaloni. Visibilmente disorientato, voltò lentamente la testa alla sua sinistra e sobbalzò vedendo la sua vecchia compagna di scuola. «Emma? Non posso crederci, mi hai appena traslato! Ma cosa t’è saltato in
mente?» «A dire il vero l’idea non è stata mia, me l’hanno suggerita. Dopotutto non ho avuto scelta. Fosse stato per me, avrei preferito farti una telefonata, ma non me l’hanno permesso.» «Certo, l’avrei preferito anch’io; mi hai trasferito mentre ero... al bagno. Se l’avessi fatto qualche attimo prima... t’immagini...» scacciò con la mano il resto di quel pensiero. «Beh, per fortuna avevo finito. Tu sei matta» disse poi scuotendo la testa. «E no, caro mio, non ti ci mettere anche tu!» «Che posto è questo?» chiese scherzando e facendo un lento giro su se stesso. «Ah! Siamo a posto. Sbaglio o qui il veggente sei tu?» «Sono soltanto un po’ fuori allenamento, amica mia. Dunque vediamo... » assunse una postura ben eretta e tese le braccia con i palmi aperti verso di lei «Hai svelato a tuo marito la tua vera identità e come risultato ora ti trovi rinchiusa in questa clinica psichiatrica. Poi... ah sì, c’è un ragazzo che soffre molto per questa vicenda e tu desideri che almeno lui ti creda e che infine decida di frequentare il nostro prestigioso college, ed è per questo che io mi trovo qui» concluse con un mezzo sorrisetto di soddisfazione. «Tutto questo lo hai percepito adesso o lo sapevi già?» fece lei con sospetto. «La seconda che hai detto» rispose lui mal nascondendosi dietro le sue dita che facevano il numero due. «Non sei venuto a trovarmi una sola volta!» disse lei sconcertata. «Hai ragione. La verità è che sono molto impegnato a lavorare su un caso importante per...» «Una sola volta!» ribatté Emma sempre con la stessa espressione «Quale caso è così importante da non poter attendere un’ora di un solo giorno?» «Il tuo, Emma. Il tuo.»
«Cosa? Non capisco, vorresti dire che...» «Mi sto già occupando di Tommaso.» Il volto di Emma s’illuminò al contempo di gioia e meraviglia. «Ti assomiglia molto, lo sai? Nutro buone speranze per lui; penso che il mio compito sarà più facile del previsto anche perché...» aspettò che lei lo incitasse «Perché? Dimmi!» «Ha iniziato a fidarsi di me, ma soprattutto...» un’altra pausa voluta. «E dai parla!» «Ha iniziato a sperimentare il suo potere.» «Davvero? Il mio bimbo! Ma dimmi, qual è?» «ARIA.» Emma sorrise “Come il suo bisnonno.” «Ti farà anche piacere sapere che mi sono già preoccupato d’iscriverlo al College.» «Ha già accettato?» chiese lei con vivo stupore. «Pensavo che fossi solo ai primi approcci con mio figlio.» «Infatti, è così. Però, in base alle mie premonizioni, so che lui deciderà di andarci e siccome lo farà quando il termine per le iscrizioni sarà già scaduto, ho pensato bene di avvantaggiarmi.» «Per fortuna che eri un po’ fuori allenamento!» «Ovvio, sai che so fare di meglio. Adesso, però, ti sarei grato se mi riportassi da dove mi hai prelevato, ho due appuntamenti di cui uno molto importante», disse strizzandole l’occhio, «e sai quanto odio arrivare in ritardo. A proposito, la prossima volta verrò a trovarti con i miei piedi, non mi piacciono i tuoi metodi.» «Però fallo, qui dentro l’attesa ha una durata maggiore e se mi farai aspettare molto giuro che ti traslerò, anche se ti trovassi sotto la doccia!»
Capitolo 4
Matilde
Dopo colazione, Matilde salì in camera sua e ne ridiscese con un foglio arrotolato in una mano e nell’altra una busta blu e una penna. La richiesta d’iscrizione era già stata compilata in tutte le sue parti e Matilde la sottopose al padre per la firma. Prima di apporvela, egli dovette arrotolare nuovamente il modulo in senso opposto perché, per il tempo che Matilde lo aveva mantenuto arrotolato con un elastico, aveva assunto la forma a cannolo. Al signor Mangrella scintillarono gli occhi per la contentezza e l’emozione. La sua bambina sarebbe andata al college, dove trent’anni prima egli aveva iniziato il suo percorso formativo, fino all’ambito marchio tatuato sulla pelle. Dopo aver ottenuto il Master in Magia, Ivan Mangrella aveva proseguito i suoi studi nel Mondo di Sotto, fino alla laurea in criminologia. Al comando del nucleo investigativo, aveva risolto brillantemente molti casi intricati, a volte anche mediante l’uso delle sue facoltà medianiche che rendevano però cavillosa la stesura del rapporto. La firma gli era venuta proprio bene e Ivan se la contemplò per qualche secondo prima di restituire il foglio a Matilde. Lei lo ripiegò in due e lo inserì nella busta blu che non riportava alcun indirizzo di destinazione, ma solo quello del mittente. Quando furono pronti, Matilde prese la sua busta e il signor Mangrella diede un’occhiata incerta alla sua borsa del tennis. Matilde colse quello sguardo. «Prendila pure, se dopo vuoi fermarti a giocare, io tornerò con l’ autobus.» Invece la perplessità dell’uomo si accentuò e i suoi movimenti si paralizzarono. «Che ti succede, pa’? Pensavo fossi contento della mia scelta. Allora? Andiamo?» «No, non possiamo andare.» Matilde aprì la bocca ma non le uscirono parole, riuscì solo a scuotere la testa come chi non riesce proprio a capire. «Non ancora. C’è qualcosa che prima devi sapere. Prima che lassù se ne
accorgano, è giusto che tu sappia la verità avanti a loro.» «Verità?» ripeté debolmente Matilde. Le sue gambe iniziarono a tremare, l’espressione seria del padre le fece accelerare il ritmo cardiaco, gli occhi cominciarono a percepire immagini distorte e la casa iniziò a girare, poi il buio avvolse rapidamente tutto, fino a lasciare un puntino luminoso al centro che si spense dolcemente. Matilde riaprì gli occhi. Era sul divano, rammentava vagamente qualcosa e sforzava la sua mente a ricordare, infastidita però da un suono noioso e ritmico che giungeva da lontano. Quando la nebbia si alzò, rischiarandole la mente, riconobbe anche quel suono familiare. «Perché la sveglia sta suonando?» «Non lo immagini?» disse il padre porgendole un bicchiere d’acqua, «Quell’orecchio superfino ha sentito tutto. Vuole che tu vada a prenderla e non la smetterà di suonare finché non sarà accontentata.» «Non prendertela con Sonaglino» lo redarguì, tossendo per una goccia d’acqua andatale di traverso, «Sei tu quello che mi nasconde le verità. O forse tutt’e due? Certo, quell’essere microscopico potrebbe essere tua complice.» «Vado a prenderla e poi mi direte quale terribile cosa mi state nascondendo...» la voce le si incrinò «e da quanto tempo ne sono all’ oscuro.» «Non è nulla di... terribile...» «Ah già, nulla di terribile con quella faccia? Non oso pensare allora quale sarebbe la tua espressione per qualcosa di veramente terribile» parlava forte dirigendosi verso le scale. «Vieni qui, resta ancora sdraiata; vado io a prenderti la sveglia» fu il consiglio premuroso del padre. Lei lo guardò di sbieco, era la prima volta che si sentiva in collera con lui. Non riusciva a definire la sensazione che provava, un misto di rammarico, delusione e rabbia. Loro due non si sarebbero mai nascosti niente, sarebbero sempre stati sinceri l’una con l’altro: era il loro patto stipulato dopo la morte della madre, in una sera d’estate con la luna piena e la prima stella del crepuscolo scelte come testimoni. Perché dunque non era stato di parola?
«Sto bene. Salgo io a prenderla e dopo vi ascolterò.» Non era vero, la testa le girava ancora un po’, ma l’atteggiamento da dura l’aveva nel DNA. Entrò risoluta in camera e incrociò le braccia davanti alla sveglia che postava in bilico sul comodino a causa della lunga durata delle vibrazioni del martelletto. «Falla finita, Sonaglino» le intimò. La creaturina abbassò mogia gli occhi e premette l’interruttore per lo spegnimento. Sapeva che lei sapeva che aveva udito ogni parola. Sapeva anche di essere accusata di complicità e sapeva che, in un certo senso, era vero. «Anche tu!» sbottò Matilde afferrando la sveglia. Sonaglino si avvinghiò alla recinzione del giardino poiché la ragazza scendeva la scala tenendo in mano l’oggetto e col braccio assecondava i sobbalzi. Posò la sveglia sul tavolinetto di fronte al divano, si sedette a gambe incrociate abbracciando uno dei cuscini che erano sul divano. Il cuscino le infondeva sicurezza: poteva usarlo per nascondersi il viso, per sbirciare oppure come arma d’attacco o di difesa. «Sono tutta orecchie» disse burlandosi di Sonaglino la quale non era più tanto abbacchiata e tirò su il naso, impettita. Anche Matilde, da aspirante criminologa, si ricordò di una cosa importante, ossia che uno è innocente fino a prova contraria. Cambiò atteggiamento nei confronti dei due indiziati e cercò di ascoltare con serenità quella misteriosa, benedetta verità. «Bene. Da quanto tempo dura questo mistero?» «Da quando ti ho vista per la prima volta are attraverso la porta chiusa. Ricordi?» «Certo, è stato uno choc. Ero in camera mia con Camilla, giocavamo ai fantasmi, io avanzavo con le braccia tese e gli occhi chiusi. Uhuuuuu! Ti prendo, ti prendo, dicevo. Le mie mani hanno toccato la porta e io ho pensato che, se fossi stata davvero un fantasma, avrei potuto arvi oltre. Poi ho avvertito una strana sensazione, ho riaperto gli occhi e il mio corpo era per metà in camera e per metà nel disimpegno. Ero terrorizzata e paralizzata, non sapevo cosa fare. Camilla ha iniziato a urlare a squarciagola, Sonaglino non poteva intervenire senza peggiorare la situazione. Quando ho visto arrivare te, ho pensato che ero salva, solo tu, il mio papà mago, poteva aiutarmi, e invece ho visto…»,
s’interruppe poiché la sua mente le aveva appena riproposto l’immagine del volto di suo padre con stampata la stessa espressione vistagli poco prima. Eppure, qualche anno fa l’aveva rassicurata, convincendola a proseguire e oltreare completamente la porta. Le aveva spiegato che aveva il potere della Terra ed era quindi naturale che riuscisse ad aprire varchi nei muri e attraversare la materia con il corpo. “Sei una bimba speciale”, le aveva detto, e poi era corso da Camilla. «Sei una bimba speciale» le uscì dalle labbra con gli occhi ancora fissi sul ato. «È vero, Matilde, sei speciale» fece lui serio. «Perché? Chiunque ha questo potere può fare quello che faccio io. Che cosa ho di speciale?» «Un altro potere» risposero Ivan e Sonaglino omofoni. «Certo, quello dell’Acqua. Ho scoperto di averlo anche prima dell’ altro. E allora?» «Io ne ho solo uno. Non ti sei mai chiesta come mai?» «Sinceramente, no. Evidentemente io sono più dotata.» Non era questo il motivo, il padre, con la ripetuta intromissione di Sonaglino, che proprio non ce la faceva ad ascoltare e basta, le divulgò tutto ciò di cui era a conoscenza: il vecchio oracolo, il Libro delle Ombre, la Profezia… «Una gemella?» gridò Matilde «Non naturale! Astrale, non so se mi sono spiegato bene. Oppure un gemello, non è detto che sia femmina. «E come farò a trovare questo gemello?» «Perché vuoi trovarlo? Stai tranquilla e fuori dai guai» l’ammonì Sonaglino saltando giù dalla sveglia e percorrendo il tavolo verso la ragazza. La vicenda di Nerasmo spaventava anche le nuove generazioni, non di meno Sonaglino, che con la sua venerabile età l’aveva vissuta in prima persona.
«Non cerco guai, dico solo che se ciclicamente si compie una profezia ci sarà pure uno scopo. Le coppie astrali che si formano sono certamente destinate a incontrarsi, altrimenti non avrebbe senso.» Mangrella e la minuscola creatura si guardarono e alzarono le spalle: quel discorso sembrava sensato, non avevano parole per ribattere. Però a Sonaglino era tornato in mente il sogno di Matilde e anche la ragazza stava pensando a quella voce. Adesso era decisa più che mai ad andare al San Gregorio College, solo lì, tra quelli come lei, avrebbe avuto l’occasione di incontrarlo o incontrarla, ma quel richiamo onirico era una voce maschile per cui era convinta che si trattasse di un ragazzo.
Matilde raccolse da terra la busta blu, lì dove l’era caduta di mano quando aveva perso i sensi. Una sensitiva che perde i sensi era il top, sorrise a quel pensiero e uscì di casa. Il padre, che si sentiva in colpa per non averle detto prima ciò che la riguardava, perlomeno con un paio di anni d’anticipo anziché aspettare fino all’ultimo momento, prese la borsa con rammarico, quasi non meritasse di fermarsi a giocare, e seguì la figlia. Insieme salirono sulla vecchia Volkswagen. Durante il tragitto la busta blu ava incessantemente da una mano all’altra di Matilde, tanto che questo gesto iniziava a innervosire il signor Mangrella che temeva anche un ripensamento della figlia. Non gli importava niente del gemello; la sua bimba era speciale e stava per andare nel luogo dove sarebbe diventata veramente speciale. Dopotutto, chi ha detto che la storia debba ripetersi? Questa volta la coppia astrale avrebbe fatto cose straordinarie per il loro mondo, lo sentiva. «Nervosa?» chiese il padre.
«No.» «Sicura?» «Sì.» «È nervosa la busta blu?»
«...Cosa?» «Niente, dicevo che c’è traffico.» Dopo diversi minuti di silenzio, il signor Mangrella sentì di nuovo il bisogno di sondare il terreno. «Allora, sei pronta ad andare nel Mondo di Sopra? Hai qualche domanda da farmi; c’è qualcosa che vuoi sapere?» Matilde sembrò riflettere. Alzò un dito e chiese: «Il Mondo di Sopra ha anche un altro nome?» «No, si è sempre chiamato così. Perché non ti piace?» «Che c’entra. Anche il mondo che ci ospita, a sua insaputa, lo abbiamo sempre chiamato Mondo di Sotto, però i suoi abitanti lo chiamano Terra. Perciò pensavo che anche il Mondo di Sopra potesse avere un altro nome.» «No, non ce l’ha. Per mezzo del Grande Osservatorio, i nostri antenati hanno scoperto questo pianeta quando la sua civiltà era ancora agli arbori e i suoi abitanti non lo avevano ancora battezzato. O forse l’avevano fatto, ma i nostri avi non erano riusciti a interpretare il loro linguaggio. Così l’abbiamo chiamato Mondo di Sotto, in contrapposizione al nostro» spiegò il padre. «E con tutte le vaste città che ci sono sulla Terra, il portale doveva trovarsi proprio nella capitale del vecchio stivale?» «Certo che oggi non te ne va bene una! Che cos’hai adesso contro Roma? È stupenda; la chiamano la città eterna; è molto antica, ricca di storia e arte, infatti è piena di turisti tutto l’anno; i Romani hanno fondato l’impero più vasto e potente della storia dell’umanità…» «Falla finita, mi sembri un cicerone» lo interruppe Matilde, «e comunque c’è sempre traffico.» «Invece non ho finito» protestò il padre mettendo la freccia a destra per girare nel Viale delle Mura Portuensi, «San Gregorio al Celio, il posto dove stiamo andando, non ti dice niente?»
«Che il portale si trova nel parco» rispose lei con voce scontata e canzonatoria. «Esatto, nel parco di San Gregorio» precisò lui, scandendo bene quel nome. A Matilde si accese la spia dell’intuito: «Mi stai dicendo che c’è una certa attinenza tra il San Gregorio College e il Santo?» «Bingo!» esclamò il Mangrella. «Non ha senso» irruppe Matilde. «Dare al College il nome di Papa Gregorio Magno, come se quelli del Mondo di Sopra non avessero un personaggio famoso cui dedicare la scuola.» «Oh! Sì che ce l’avevano: Gregorio Magno, per esempio.» «No!», fece Matilde storpiando quella negazione, «vorresti farmi credere che era uno del Mondo di Sopra?» Lui annuì emettendo un doppio suono fonico della prima vocale, «Venuto a gestire un periodo critico della storia dell’impero romano» disse fermandosi rispettosamente a un semaforo rosso. «All’età di sei anni, acquisita una buona padronanza della lingua, è stato catapultato qui giù insieme ai suoi genitori che si fecero are per una famiglia di pescatori. A diciassette anni era già un eccellente mago, pratico in diverse arti. La sua ione era creare talismani, amuleti, pentacoli e medaglie erudite. È sorprendente il fatto che anche il vero Gregorio s’interessasse di occulto. Poi, a vent’anni, assunte le sembianze del vero Gregorio, si sostituì a questi vivendo nella casa sul Clivus Scauri. Da qui, il resto è storia che si studia a scuola.» «E nessuno ha mai sospettato nulla. Che so, notato una differenza nel modo di esprimersi, nelle abitudini, nei gesti. Possibile che i genitori del vero Gregorio non abbiano avuto il ben che minimo dubbio su di lui?» «Chi lo sa. Magari un cambiamento l’hanno notato, ma possono averlo attribuito al aggio all’età adulta, sbalzi di umore. Voglio dire, avranno cercato una risposta sensata e non certo pensato che quello non fosse il loro figlio. Anche se…» si interruppe per captare da dove proveniva il suono delle sirene e cercare di visualizzare l’ambulanza negli specchietti retrovisori. Accostò sulla destra per permettere al mezzo di soccorso di are.
«Anche se?» gli riprese il segno Matilde. «Anche se qualcosa sulla sua identità deve essere trapelata. Tant’è che una leggenda apocrifa narra che i suoi genitori biologici fossero due gemelli di nobile nascita e che abbiano commesso incesto sotto istigazione del diavolo. Solo che non si trattava di due gemelli naturali, ma di due gemelli elementali.» «Cosa ne è stato del vero Gregorio?» «Ha concluso la sua esistenza nel Mondo di Sopra. Si racconta che non si sia poi trovato male nel nostro mondo e visto l’interesse che nutriva per l’occulto e la magia, non chiese mai di tornare a casa.» Gli ultimi minuti arono in silenzio, fino al posteggio nei pressi del parco. Lei pensava al suo sogno sforzandosi di ricordare. Quello che aveva raccontato a Sonaglino non era tutto, sapeva che c’era dell’ altro ma nulla le affiorava alla mente. Cercò allora di ricordare, perlomeno, ciò che aveva provato: turbamento? Rabbia? Paura? Stupore? Niente, il vuoto. Perse la pazienza e sbuffò con forza. «Hai ragione, non si trova mai un posto. Ci vuole una grande pazienza per andare in giro in questa città» disse il padre, non sapendo di aver mal interpretato quel suono. Aveva rifatto il giro completo dell’ isolato. «Guarda pa’, quello sta uscendo!» Riuscirono finalmente a posteggiare. Matilde s’incamminò nel parco insieme al padre per il vialetto che portava al muro di contenimento divisore con Villa Celimontana, a quella porta camuffata che aveva visto diverse volte e che non aveva mai potuto varcare, e non lo avrebbe fatto neppure questa volta. Ancora non era arrivato per lei il momento, ma presto avrebbe avuto anche lei tale privilegio, quando l’iscrizione sarebbe stata formalizzata. Ogni volta si chiedeva se sarebbe riuscita a oltrearla con la stessa naturalezza usata dal padre. Non era intimorita di are per una porta che non c’era; quello era l’unico muro attraverso il quale riuscivano a are tutti, anche chi non aveva, come lei, il potere della Terra. Era abituata a superare porte senza l’ausilio della maniglia quando non aveva voglia di richiuderle, ma varcare quel muro, che conduce al Portale, era tutta un’altra storia. Percorsero il vialetto, dove alla destra una ringhiera delimitava un altro vialetto attiguo al muro di contenimento, più alto rispetto al livello di quello che stavano percorrendo, che con una dolce pendenza scendeva sino a raggiungere la stessa
quota. Lì, dove la ringhiera terminava per consentire l’accesso al vialetto, vi era una panchina in pietra. Rivolta verso il muro, vi sedeva una ragazza dai corti capelli castani, teneva sulle gambe un libro aperto, ma era in difficoltà a girare la pagina per via dei guanti di lana che calzava ed anche perché, mentre faceva ciò, fissava il muro, rendendo evidente che aspettava qualcuno. “Eccone un’altra” pensò Matilde. «Per favore, vedi di non starci troppo; fa particolarmente freddo questa mattina» disse Matilde al padre che, superata la panchina dove era seduta la ragazza dai capelli castani, si diresse verso il muro, con la busta blu in mano. Lei, invece, si andò a sedere sulla panchina a una quindicina di i da quella della ragazza col libro, nella direzione da cui erano arrivati. Era un po’ seccata perché avrebbe preferito l’altro sedile. Sul muro, alto all’incirca quattro metri, pietre più chiare dal taglio rettangolare, posate in verticale, formavano una sequenza di archi per tutta la lunghezza del muro. Al centro di ogni arco vi era una feritoia di scolo. Mangrella giunse all’arco che celava l’ingresso, inserì le mani giunte nella stretta feritoia di scolo, quasi come se volesse allargare quello spazio per arvi, e scomparve alla vista di Matilde. La sua sparizione sarebbe ata del tutto inosservata agli occhi umani, solo quelli dei loro simili l’avrebbero potuta notare. Egli si ritrovò in un’ anticamera di nove metri quadri, priva di finestre, rischiarata unicamente dalla tenue luce giallognola di una fiaccola a muro; la stanza era completamente spoglia, fatta eccezione per le due armature vuote poste ai lati dell’entrata; ogni qualvolta sopraggiungeva qualcuno dall’esterno, esse si animavano e incrociavano la loro lancia, poi ritornavano in posizione: un antico rituale di benvenuto. A destra vi era una porta senza maniglia dipinta sulla parete, il contatto con l’affresco faceva affiorare in superficie due labbra rosee e carnose che dicevano: “recedi, da qui si esce solamente”. La parete di sinistra era riccamente affrescata con un’accurata disposizione tematica in cui si distinguevano: le raffigurazioni dei quattro elementi e i loro simboli; il pentacolo come unione degli elementi racchiuso in un cerchio e attorniato dalle ventiquattro rune; i sei segni zodiacali del Mondo di Sopra (Drago, Centauro, Fenice, Serpente Piumato, Unicorno e Grifone), disposti all’interno di una cornice divisa in sei spicchi e a cui era interposta una seconda cornice con i nomi dei mesi (Primus, Tremulo, Mitigo, Dulcis, Arsuria e Teporis), anch’essi inseriti all’interno di sei sezioni, disposte in modo tale che ogni segno zodiacale risultasse a cavallo di due mesi. Sulla parete frontale vi era il portale, l’architrave
recava la scritta “Portale di Ermete”, gli stipiti erano in pietra con intarsi raffiguranti creature magiche, mentre all’interno della lunetta primeggiava l’araldica del Mondo di Sopra. Architrave, stipiti e lunetta erano i finimenti di una porta che però non c’era. Il portale racchiudeva un muro tinteggiato con il color porpora: non vi era alcuna porta ma soltanto una fessura millimetrica da cui scaturiva una fredda luce bianca. Mangrella v’infilò e ritrasse una scheda perforata (la perforatura riproduceva il vessillo del Mondo di Sopra: un gufo col cappello da mago) e sul muro si delineò una porta dello stesso colore, con una maniglia dorata. L’aprì accedendo a un lungo e largo corridoio semicircolare, dove, ai due estremi, c’erano le porte di due ascensori, o almeno questa era la loro parvenza; su quello di sinistra era attaccato un cartello con la scritta “Partenze” e su quello di destra uno con la scritta “Arrivi”. Erano i canali di andata e ritorno col Mondo di Sopra, ma adesso non gli servivano. Si trovava in una zona franca, qualcosa di paragonabile a un’Ambasciata in una dimensione sospesa tra i due Mondi. Sulla parete di fronte a quella da dove era entrato, c’erano quattro porte e in corrispondenza di ognuna, a circa due metri, quattro file da cinque sedie per le persone che attendevano il loro turno. Le porte conducevano a quattro uffici: Ufficio adozioni, Ufficio Postale, Ufficio Scolastico e l’ultimo che aveva una lunga denominazione tantoché la targa sulla porta ne riportava l’acronimo, UDAUAM (Ufficio per la Denuncia degli Abusi nell’Utilizzo delle Arti Magiche). Davanti all’ Ufficio Scolastico tre persone attendevano sedute il loro turno. Una donna con ciocche castane che sbucavano da un minuto ed eccentrico cappellino verde, attendeva davanti all’Ufficio Adozioni, evidentemente agitata. Per l’Ufficio Postale l’attesa era più lunga e Mangrella si accomodò attendendo con pazienza il suo turno. All’ultima porta, invece, per fortuna non attendeva nessuno.
Matilde e la ragazza della panchina, rimaste entrambe ad aspettare il proprio genitore, si lanciavano, di tanto in tanto, delle occhiate fugaci, finché la curiosità, elemento fondamentale di un buon detective, spinse Matilde a fare i suoi accertamenti sull’identità della lettrice distratta. Anzi, per dirla tutta, si stava proprio annoiando, perlomeno l’ altra aveva avuto la lungimiranza di portare con sé un libro per ammazzare il tempo; invece Matilde pensò di ammazzare il proprio andandosi a impicciare degli affari altrui. Si alzò e si diresse all’altra panchina.
«Ciao, disturbo se mi siedo qui?» chiese Matilde. «No, siediti pure» rispose l’altra che, gettando brevemente l’occhio verso la panchina rimasta vuota, aveva invece pensato “Perché lì non ci stavi comoda?” «Piacere, Matilde Mangrella» disse porgendole la mano. «Marta Vonwiller, piacere mio» rispose la ragazza, pensando “E adesso?” «Freddino stamattina, eh!» «Già» affermò l’altra, ritenendo scontato che l’intrusa avrebbe attaccato discorso parlando del tempo. «Hai aspettato anche tu fino all’ultimo giorno per l’iscrizione, eh?» “Anche ritardataria” pensò ancora Marta e poi «Macché, l’ho spedita tre mesi fa», rimarcò, «Sto aspettando la mia mamma che deve sbrigare una questione all’Ufficio Adozioni.» «Devi adottare una creatura?» «No, ce l’abbiamo già. È un folletto degli alberi... mo’ s’è messo a fare le bizze.» «Uhm, quelli sono i più inaffidabili. Bravissimi nel loro lavoro, ma a volte vanno fuori di testa.» «Infatti, pensa che il nostro si è messo a fare lo sciopero, con tanto di bandiere rosse e cartelli con scritto “Via l’impianto per annaffiare”. Afferma che non è un mezzo adatto a bagnare correttamente le piante, così l’ha messo fuori uso e pretende di far comparire delle nubi, una volta la settimana, solo sul mio giardino, in modo che piovendo le piante si bagnino uniformemente. Ma ti pare che una volta la settimana i normali possano assistere a questo strano fenomeno per cui piove soltanto nel mio giardino?» disse Marta. «È proprio andato fuori!» confermò Matilde. «Per me quelli della sua razza non li dovrebbero mandare qui» disse Marta. «Sono d’accordo. E poi questi folletti non dovrebbero occuparsi solamente delle
piante da appartamento?» chiese Matilde. «Certo, è di quelle che si deve occupare, ma un giorno si è svegliato dicendo che il nostro giardiniere, che viene ogni tre mesi, è un incapace e che le piante moriranno tutte entro breve tempo. Esce da casa in punta di piedi, nel cuore della notte, per dedicarsi al giardinaggio sotto il benevolo influsso della luna piena; così sostiene. Per fortuna il cane, che è più furbo di lui, lo becca subito e inizia ad abbaiare, quindi ci dobbiamo precipitare giù per acciuffarlo e riportarlo in casa. L’ultima è di questa notte, così la mia mamma ha deciso che non c’era più tempo d’aspettare e stamattina siamo accorse qui.» «Non mi vorrai dire che adesso lui si trova a casa da solo?» disse Matilde preoccupata. «Beh, non è mai uscito di giorno» rispose titubante. «Non crederai…?» «Sai come si dice: quando il gatto non c’è il topo balla.» «Anche il folletto?» chiese Marta, visibilmente preoccupata. «Dove abiti?» chiese Matilde. Nel mentre, si udì la frenata stridente di un autobus che si arrestava alla fermata, all’inizio del viale di accesso al parco. «Presto, quello va a casa mia. Corri.» disse Marta scattando dalla panchina. Le due ragazze salirono sull’autobus e dopo diverse fermate, tragitti a piedi e cambi di linea, giunsero all’ultima fermata che distava cinque minuti a piedi da casa di Marta, ma loro impiegarono meno tempo perché ci andarono di corsa. Stavano per arrivare, quando d’improvviso si bloccarono perché i loro occhi videro ciò che non avrebbero voluto vedere: un gruppo di nuvole grigiastre sostavano poco al di sopra del tetto della casa di Marta e mentre, trattenendo i raggi del sole, gettavano ombra su tutto il giardino, dal loro interno lasciavano cadere una pioggia a catinelle. Una dozzina di persone, ferme davanti alla cancellata, osservavano con stupore lo strano fenomeno. «Oh no! Non ci voglio credere. E adesso che facciamo?» disse Marta in preda all’agitazione. «Non lo so, ma qualcosa di sicuro faremo. Innanzi tutto dobbiamo mantenere la
calma e ragionare» rispose Matilde mostrando padronanza della situazione. «Riesci a far qualcosa con l’Acqua?» «Il massimo che posso fare è farla bollire.» «Ah, Fuoco» mormorò Matilde, «Va bene, alla pioggia ci penso io.» “Acqua, che fortuna!” pensò Marta. «C’è un’entrata anche sul retro?» «Sì, c’è il cancello del box, ma non ho dietro il mio mazzo di chiavi.» «Stupendo! Ci toccherà fare qualche incantesimo per…» «Sei matta? Non possiamo…» «Certo che possiamo, anzi dobbiamo; si tratta di un’emergenza. Non vedi quello che sta accadendo?» Sarebbe stato uno scherzo per lei are attraverso il muro di recinzione e poi anche attraverso la porta del garage, ma aveva appena detto di aver il potere dell’Acqua, non poteva svelare anche l’altro suo potere, non ancora perlomeno. Solo fino a qualche ora prima, per lei sarebbe stato normale adoperare entrambi, ma adesso sapeva che non era così scontato. «Per poter fare un incantesimo qui giù, bisogna prima chiedere il permesso» protestò Marta. «Ma noi non ne abbiamo il tempo. Vieni, andiamo sul retro.» «Ci metteremo nei guai» sospirò Marta, seguendo Matilde. «Nei guai ci siamo già, cammina.» Giunte sul retro, Matilde si fermò davanti al cancello del box: «La chiave giusta tu sai qual è, cancello apriti da te!» disse la formula e il cancello si aprì. Proseguirono per la discesa che conduceva al garage. Ripeté la formula sostituendo la parola “cancello” con porta. All’interno dell’autorimessa,
Matilde non poté fare a meno di notare le bocchette d’irrigazione e i tubi di gomma tagliati posti a terra in un angolo, e sulla parete, il quadro del temporizzatore con i fili staccati. «Da lì possiamo salire in soggiorno» disse Marta indicando una porta tagliafuoco, «Sicuramente Gorki sarà lì; di solito sta seduto in poltrona, ma ci giurerei che in questo momento è dietro la tenda della finestra a godersi lo spettacolo» disse riferendosi al folletto. «Va bene. Dobbiamo pensare a un piano prima di entrare. Tu che conosci la creatura ti occuperai di lui: dovrai immobilizzarlo perché credo che con lui non si possa più ragionare. Io mi occuperò della pioggia e degli spettatori» disse Matilde. «D’accordo, prendo questa, mi sarà utile» disse Marta mostrando a Matilde una lunga corda ripiegata. «Vado avanti io, ti indicherò un gradino da saltare perché scricchiola» aggiunse. Salirono in punta di piedi evitando il gradino difettoso. Giunte davanti alla porta del soggiorno, Marta aprì uno spiraglio per sbirciare dentro. Vide due inconfondibili calzature a punta spuntare dalla poltrona. Fece un cenno d’intesa a Matilde, poi aprì ancora di poco la porta in modo da farci are la corda cui ordinò a bassa voce: «Corda, striscia fino al Folletto e alla poltrona legalo stretto», ma l’estremità della corda, che era ata dalla porta, si alzò e si girò verso Marta; sembrava osservarla. «Stupida corda, fa’ quello che ti ho ordinato» gridò piano, Marta. Questa volta la corda si alzò un po’ di più e assunse la forma di un punto interrogativo. «Che è, un quiz?» si chiese la ragazza. «Che succede?» chiese dunque Matilde spazientita, che stando alle sue spalle non riusciva a vedere. «La corda non mi ubbidisce.» «Teniamoci per mano e insieme ripetiamole l’ordine» suggerì Matilde. Così fecero. La corda mostrò ancora un attimo di perplessità, poi strisciando si diresse alle spalle della poltrona, formò un nodo scorsoio e prese al laccio lo
schienale continuando a girarci intorno fino a esaurirsi con un doppio nodo. «Preso!» esclamò Marta ed entrò nella stanza tirandosi dietro Matilde per un braccio. «Dov’è?» chiese quest’ultima, constatando che la corda aveva legato unicamente la poltrona: sul sedile vi erano appaiati due stivali con la punta lunga e ricurva. «Mi ha fregata! Dove si sarà cacciato quello smilzo nanerottolo rimbecillito? Andiamo a cercarlo» così dicendo Marta slegava la corda avvolta alla poltrona. «Cercalo da sola. È meglio che io mi occupi subito degli spettatori là fuori» fece Matilde e si diresse alla finestra rimanendo invisibile dietro la tenda. Le persone davanti alla casa erano aumentate; un tizio era salito sul muretto ove era infissa la cancellata, e sporgendo il braccio all’interno del giardino sembrava volersi assicurare che quella che vedeva scendere dalle basse nuvole, che sfioravano il tetto della villetta, fosse vera pioggia. Matilde si concentrò per trovare le parole giuste per le sue formule. La prima l’aveva già in mente, ma sulla seconda, che doveva essere pronunciata immediatamente dopo, aveva bisogno di pensarci su ancora un attimo e la fretta della situazione rendeva ciò più difficile. Ma vi riuscì. «Dissolvi!» disse, e la pioggia cessò all’istante e le nubi minacciose sparirono. «Giratevi e rigiratevi. Quel che è stato è stato, ma voi l’avrete già dimenticato» pronunciò puntando l’indice contro le persone che erano fuori. Esse si girarono e rigirarono e dopo qualche secondo di smarrimento, chiedendosi cosa stessero facendo, oppure dove stessero andando, ripresero con naturalezza la loro strada. Matilde, soddisfatta del proprio operato, corse in cerca di Marta. Seguì un rumore di oggetti infranti arrivando in camera della sua nuova amica. Gorki, in cima alla libreria, giocherellava con qualcosa. «No, quello no. Posa il salvadanaio di Biancaneve» intimò Marta. «Biancaneve? Non sei un po’ cresciuta? Fece Matilde, ma mentre l’altra le rispondeva con una smorfia, si udì un tonfo e il tintinnio di tante monete; alcune si fermarono all’istante, altre girarono su sé stesse e altre ancora rotolarono in tutte le direzioni.
«Basta, Gorki! Hai superato ogni limite» gridò Marta. «Già, hai proprio superato ogni limite» gli fece eco una voce sopraggiunta alle sue spalle. La signora Vonwiller entrò nella stanza seguita da due uomini, uno alto e magro, l’altro tarchiato. Erano ispettori dell’Ufficio Adozioni. Gorki sussultò alla loro vista e sgranò gli occhi. Piegò le orecchie appuntite e con un’aria mogia si calò dalla libreria. Strisciò verso la donna e le si aggrappò al cappotto. «No, padrona, prego non cacciare Gorki. Umile servitore vostro. Non dare più problemi, Gorki. Ottimo giardiniere di vostre piante...» «Falla finita con questa commedia, Gorki» disse uno degli ispettori. «Non si faccia incantare, signora. Sono falsi e viscidi, riescono a ingannare la loro vittima il più delle volte» fece l’altro. «Non state esagerando? Con noi è sempre stato onesto» lo difese la signora Vonwiller. «Ci creda, anche quando sono sinceri è solo per loro tornaconto. Quando la cosa non gli conviene più...» «Non capisco, Gorki. Cosa ti è successo?» chiese al folletto, «Ti abbiamo offerto una grande opportunità: questo luogo è ricco di ogni specie vegetale. Per un intenditore come te...» «Già, per un intenditore come me... solo piante d’appartamento?» disse con profondo sdegno e con lo sguardo colmo di disprezzo. «Sapevi quali erano le condizioni prima di accettare questo incarico. Per nessuna ragione avresti potuto mostrarti ai normali. Cosa pretendevi? Di andartene in giro per i parchi e per i boschi?» rispose lei sconcertata. «Lasci perdere, è fiato sprecato» concluse l’ispettore quello alto «Gorki, tu torni a casa.» Gli ispettori afferrarono per le braccia il folletto e lo condussero nel seminterrato. Nonostante il comportamento di Gorki, scesero tutti per salutare la
creatura che veniva portata via. Entrarono nel garage. Fecero indossare a Gorki un cappuccio e un mantello che lo copriva fino ai piedi e che erano appartenuti al fratello di Marta quando era piccolo. Mentre lo facevano salire in macchina, il folletto si voltò e lanciò a Matilde un’occhiata ostile. La signora Vonwiller se ne accorse e parve realizzare solo in quel momento la presenza della ragazza sconosciuta. Gettò un’occhiata interrogativa e allarmata alla figlia. «Tranquilla, mamma, è dei nostri» si affrettò a precisare. «Ci siamo conosciute questa mattina al parco. Anche lei andrà al nostro College.» «Salve, signora Vonwiller, mi chiamo Matilde» si presentò. «Bene, Matilde, avremo modo di conoscerci. Adesso devo andare ad accompagnare gli ispettori e Gorki.» «Certo, signora. Arrivederci.» «Ah, chiamami Shana» disse salendo in macchina, e avviò il motore.
Capitolo 5
Tommaso
Riflettere era ciò che l’uomo misterioso gli aveva chiesto di fare. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il bigliettino color porpora e con le lettere filigranate in oro: Dott. Avvocato Teodoro Bachelot. “Dimenticavo: tua madre non è matta... altrimenti lo sono anch’io” quella frase gli ronzava di continuo nelle orecchie. “D’accordo, riflettiamo: questo tipo parla di mia madre, è quindi evidente che la conosce; eppure non ricordo di averle mai sentito fare il suo nome o tantomeno di parlare di un avvocato. Quel giorno la mamma ci ha annunciato di essere figlia di maghi e che le nostre origini provengono da un’altra parte del nostro mondo. Non ho proprio capito cosa intendeva dire. Si è definita una maga e ha chiamato gli altri falsi normali, perché asserisce che tutti siamo maghi, ma chi è stato convertito non sa più di esserlo. Mi ha detto che presto scoprirò anche io di avere dei poteri perché non sono stato convertito. Pure qui non ho capito cosa intendeva dire”. Tommaso non aveva avuto tempo per chiedere chiarimenti alla madre. Suo padre le aveva intimato di tacere. Le aveva urlato di smetterla con quelle assurdità, che se l’avessero sentita in giro, sarebbe stata in pericolo. Ma lei aveva continuato a parlare, voleva a tutti i costi riuscire a convincerli della loro natura; cercava di risvegliare e far riaffiorare nel marito ciò che era stato seppellito in qualche recondito angolo della sua coscienza. Emma pensò che, forse, parte dell’anima del suo uomo fosse stata cancellata per sempre, ma non si arrese. La sua perseveranza aveva portato l’uomo a segnalarla ai vigilanti come malata mentale. Tommaso ricordò che la madre gli aveva detto che lui era un discendente in quanto figlio di maghi. Gli vennero in mente le parole dell’avvocato: “Io sono un discendente. Oh Santa Pazienza, ho detto come te!”. Appuntò il primo indizio della sua riflessione e cioè che l’avvocato con le sue parole riabilitava sua madre dalla pazzia, a meno che non ci fosse in giro un virus della demenza che stava colpendo la gente del paese. Poi iniziò a ragionare sui mulinelli.
“Col cavolo i mulinelli! L’aria è venuta di proposito da me”. D’improvviso, nella sua mente balenò un ricordo. Diversi mesi prima, durante le gare scolastiche di atletica, stava per svolgere la corsa dei millecinquecento metri. Sapeva benissimo di non essere tra i favoriti, ma la ragazzina della sezione F ammiccava all’amica vicina che lo stava fissando da parecchi minuti schermendosi con l’opuscolo della programmazione delle varie attività sportive. Quel timido interesse aveva galvanizzato i suoi muscoli. Il tricipite surale e il quadricipite femorale erano ben lubrificati e pronti a dimostrare la loro resistenza e coprire la distanza di un chilometro e mezzo nel minor tempo possibile. A ogni giro, la vista della ragazzina aggiungeva nuovo carburante al suo corpo atletico, e giro dopo giro, guadagnando terreno sugli avversari, andò a concludere la gara al terzo posto. Incredibile, per lui era un risultato inatteso, aveva provato una grande gioia e al contempo si era reso conto dello sforzo che il suo fisico aveva affrontato. Dopo aver tagliato il traguardo, le sue gambe sfinite riuscirono a fare ancora qualche o disorientato, poi l’acido lattico ebbe il sopravvento e si accasciò in preda a un crampo al polpaccio; il suo cuore batteva forte mentre ansimava perché i polmoni reclamavano aria, e nell’istante di questa consapevolezza l’aria arrivò a soddisfarne il bisogno. Soffiava sul suo volto e lo rinfrescava, ossigenava i suoi polmoni. In quel giorno di calma piatta, senza alito di vento, ricordò di aver pensato a quell’evento come un colpo di fortuna: una folata di vento arrivata proprio al momento opportuno. Adesso, dopo l’episodio di quel pomeriggio, non ne era più certo. Camminando nel parco, amareggiato dalle vicissitudini familiari, con la testa china e le mani aggrappate alle bretelle dello zainetto che portava in spalle, si ripeteva: “Ho bisogno d’aria, ho bisogno d’aria”. E così l’aria era arrivata, anche questa volta. “Non può essere un caso, l’aria arriva quando io ne ho bisogno. Stava arrivando anche quando ho desiderato che spazzasse via quell’ accerchiamento di persone, quando però mi sono spaventato e ho ricacciato quel pensiero, essa si è dissipata. Non è possibile! Mi ubbidisce!” Tommaso fissò il nome dorato sul biglietto color porpora. “Chi sei? Io non ti conosco, perché dovrei fidarmi di te?” “D’altronde non ho scelta, forse sei l’unico che può darmi delle spiegazioni”. Prese il telefono e iniziò a comporre il numero scritto sul biglietto. Dall’altro capo, il telefono fece appena uno squillo che una calda voce maschile rispose.
«Salve, ragazzo dei mulinelli, sapevo che avresti chiamato.» «Come fa a sapere che sono io?» «So sempre chi c’è dall’altra parte, che domanda!» «Cos’è lei... un mago indovino?» «Sono un sensitivo, ma la tua definizione è di gran lunga più esauriente. Sì, diciamo che la preferisco. Va bene, da oggi sono un mago indovino, che ne dici amico?» «Noi non siamo amici.» «No, è vero, ma lo diventeremo.» «Un’altra delle sue sensazioni?» «Proprio così, che tu ci creda o no.» «Tu conosci la mia mamma, vero? Cioè, Lei la conosce... è cosi?» «Sì, Tommaso, ma preferisco che chiudi il telefono e vieni a trovarmi nel mio studio. Meglio non divulgare confidenze nell’etere, l’aria trasporta i suoni. Ah! Visto che diventeremo amici puoi anche darmi del tu.» Non ebbe il tempo di rispondere che il suo interlocutore aveva già chiuso la linea. Aveva ancora in mano il biglietto color porpora, e lesse l’indirizzo in basso a sinistra. Era a nove o dieci fermate d’autobus da casa sua. Afferrò il suo inseparabile zainetto, un contenitore di cianfrusaglie utili solo a lui, e attraversò veloce il corridoio. «Esco» gettò una voce al padre ando davanti al soggiorno. «Ancora? Si può sapere dove stai andando?» sbraitò abbassando il giornale che gli copriva la visuale, ma non riuscì ugualmente a vedere Tommaso perché questi era già sull’uscio di casa. «Lascia stare, tanto non ci crederesti» disse piano e chiuse la porta. La fermata era a due isolati dalla sua abitazione, quando Tommaso vi giunse,
dovette aspettare all’incirca cinque minuti prima che l’autobus arrivasse. C’erano dei sedili vuoti all’inizio della vettura e prese posto su quello in terza fila alle spalle al conducente. Alla prima fermata salì un ragazzo alto e nerboruto, con i capelli castani e il taglio a spazzola; aveva la bocca piena e mezzo panino super-imbottito in mano. Il conducente lanciò uno sguardo torvo al panino e al ragazzo, al ragazzo e al panino. Lui fece spallucce e si andò a sedere vicino a Tommaso. In tre bocconi, con mugolii di soddisfazione, finì la sua merenda ed esaminò la mano vuota sulla quale era rimasta traccia di una salsina chiara. Con la mano pulita, o almeno più dell’altra, si frugò nella tasca dei pantaloni in cerca di un fazzoletto, ma era vuota. Girò lo sguardo intorno a sé in cerca di una soluzione e trovò la mano di Tommaso che gli porgeva un fazzoletto inumidito e profumato. Nel suo zaino c’era posto anche per una scatoletta in perspex piena di rettangoli di stoffa intrisi di un liquido detergente ed emolliente. «Grazie, che buon profumo!» «Te lo sei proprio gustato, eh?» «Ci puoi giurare. Piossasco, di fronte alla fermata, fa dei panini che sono la fine del mondo...» «Un’imbottitura e-sa-ge-ra-ta», scandì, dando più risonanza col gesto della mano, «e poi ha una fantasia di combinazioni... ci mette di tutto, hai l’imbarazzo della scelta. Io resto mezz’ora davanti al bancone per sceglierne uno, li comprerei tutti.» «E finisci di mangiarli sempre sull’autobus? Hai visto come ti ha guardato male?» accennando col capo all’autista. «No, capita solo quando è in anticipo, come questa volta. Oppure se ci metto troppo a sceglierne uno.» «Capisco.» «Ecco, stiamo per arrivare alla mia fermata. Grazie per il fazzoletto.» «Figurati. A proposito, io sono Tommaso» disse porgendogli la mano. «Karmis, piacere» gli tese la mano ancora un po’ appiccicaticcia che però
odorava di muschio. A quel contatto lo fissò un istante inebetito, ma si riprese prontamente facendo finta di niente e si alzò per avviarsi all’uscita. «Qualcosa non va?» chiese Tommaso «No, niente, spero che tu abbia il sonno profondo» e scese. «Che cosa vuoi di...» le parole gli si spensero in bocca, le porte dell’autobus si erano già richiuse. “Comincio a pensare di avere una calamita per i fuori di testa!” pensò. Trascorse il tempo restante all’arrivo con lo sguardo sperso fuori dal finestrino, pensando a tutto quello che avrebbe chiesto all’avvocato. A una fermata intermedia, però, la sua attenzione fu attirata dal manifesto, in parte strappato, affisso sul muro di un edificio. Era un appello firmato dal Governatore Goran Ollgiast:
TUTTA LA CITTADINANZA …NVITATA A SEGNALARE CHIUNQUE MOSTRI …TI SEGNI DI SQUILIBRIO MENT... …ESTATE ATTENZIONE SE PARLA DI COSE STRANE COME MAG... ...CREATURE MAGICHE, POTERI ELEMENT... …AL CASO POTREBBE ESSERE AFFETTO DALLO STESSO …IOSO MORBO CHE CAUSO’ LA PAZZIA DI AULO. …OSTRA TEMPESTIVA SEGNALAZIONE POTRA’ SALVARGLI LA VITA. …FIDATELO ALLE CURE DELLE NOSTRA CLINICA SPECIALIZZATA.
Tommaso dovette reprimere l’impeto di scendere dall’autobus e finire di strappare quel cartellone.
Lo studio dell’avvocato era nel centro direzionale, una zona squisitamente “in”. Camminò per quattro isolati specchiandosi in vetrine con manichini “macho man” e “miss universo” elegantemente abbigliati; lanciò un occhio distratto ai negozi di gioielli e si soffermò a lungo davanti agli espositori di strumenti musicali e di nuovi libri. Dopo essersi ben lustrato gli occhi, arrivò a un grande complesso di edifici con facciate a specchio. Cercò quello con l’entrata contraddistinta dal numero civico P4-E2. L’androne aveva la pavimentazione in marmo e le pareti in granito; sulla parete di sinistra si apriva la porta dell’ascensore e quella che portava alle scale, mentre su quella di destra erano attaccate svariate targhe in ottone con indicati i vari studi. Sulla parete di fronte era fissata una scultura contemporanea in ferro e rame che Tommaso guardò ma che non perse tempo a cercare di decifrarne il significato, piuttosto si premurò a cercare la targa dell’avvocato fra un’infinità di riquadri, pensando che, se avesse cominciato dalla prima in alto, quella che stava cercando sarebbe stata sicuramente l’ultima in basso, così per tranquillità guardò prima proprio quelle due, ma entrambe non erano quella giusta. Poi a metà trovò la targa che cercava: Dott. Avvocato Teodoro Bachelot, Quindicesimo Piano. “Che giornata di merda! Pure l’avvocato all’ultimo piano e un ascensore panoramico. Che altro mi deve capitare oggi?” I suoi occhi fecero ping-pong tra la porta per le scale e quella dell’ascensore. Era titubante se scegliere l’ascensore, poiché entrando nel palazzo, ne aveva notata la struttura semicilindrica esterna all’edificio, oppure salire a piedi. Nel primo caso avrebbe dovuto lottare contro le vertigini, nel secondo temeva che sarebbe arrivato col fiatone e la sua esigenza d’aria avrebbe provocato un mulinello. Aveva optato, suo malgrado, per l’ascensore; non voleva essere responsabile di vetri infranti e altri danni all’immobile. Mentre vi si avvicinava, sentì che era in funzione e pochi secondi dopo le porte si aprirono, si fece da parte per lasciare che gli occupanti uscissero. Strascicò i piedi davanti alla soglia dell’ascensore e la vista che gli si presentò davanti gli suggerì l’epilogo: l’ampio posteggio pieno di auto che sarebbero man mano divenute più piccole salendo fino al quindicesimo piano. Rabbrividì e le gambe gli s’irrigidirono. “Coraggio, Tom, ce la puoi fare”. Si animò ed entrò nell’abitacolo. Sulla
pulsantiera premette il tasto del quindicesimo piano e rimase con la faccia quasi appiccicata alle porte e allargando le braccia appoggiò le mani ai lati dell’apertura per sentirsi più stabile, ma essendo le pareti in perspex e a semicerchio, con la coda di un occhio e poi dell’altro, alternativamente intravedeva in basso il suolo che si allontanava, allora si accasciò e tenne gli occhi chiusi pregando che l’ascensore arrivasse a destinazione senza tappe intermedie. La cabina saliva lentamente e una voce registrata scandiva i piani che avano, così, con gli occhi chiusi, quando le porte si aprirono, sapeva di non essere ancora arrivato. Forse non aveva pregato con convinzione perché, all’undicesimo piano, le porte si aprirono ed entrò una donna sulla trentina con quattro faldoni in mano. «Salve» lo salutò guardando in basso con indiscrezione. «Salve» rispose Tommaso senza alzare lo sguardo. «Hai perso qualcosa?» chiese lei sbirciando in giù mentre si aiutava col mento a tenere fermi i raccoglitori che tentavano di sfuggirle. «No, mi sto allacciando una scarpa» e tirò furtivamente il laccio per scioglierlo, poi si mise a riannodarlo alla cieca attendendo che le porte si riaprissero sul quindicesimo piano. Quando ciò accadde, balzò in avanti con le mani e uscì carponi sul pianerottolo. La donna ovviamente, non potendo salire oltre, uscì anche lei. «Tutto a posto?» chiese, sogghignando per la ridicola uscita. «Sì...» rispose alzandosi «... è solo che la cabina si è... arrestata nel momento in cui mi stavo rialzando e... ho perso l’equilibrio. Già» concluse convinto. «Hai ragione, proprio una brutta frenata!» continuò a prenderlo in giro. “Non se l’è bevuta” pensò. «Scusi, signorina, sa dov’è lo studio dell’avvocato Bachelot?» le chiese. «Signora, prego.» rispose lei senza voltarsi. «Volevo solo essere gentile» disse lui alle sue spalle facendo il verso di cacciarsi un dito in gola. Lei girò la testa e lo guardò di sbieco «Seguimi.»
«Ci sta andando anche lei? Chi è, la sua segretaria?» «E tu devi essere Tommaso, il ragazzo che sta aspettando e che... soffre di vertigini» «Chi, io!?» disse fingendosi meravigliato. «No, il ragazzo che ho incontrato in ascensore e che ha impiegato quindici piani per allacciarsi una scarpa.» «Guardi che lei è entrata all’undicesimo piano, un attimo dopo che mi sono abbassato per allacciarmi la scarpa.» “Ma che s’impiccia questa dei fatti miei”. «Questo palazzo ha una struttura a “L”. Come vedi anche tu, lì in fondo il corridoio gira. Dalle finestre di quel lato si può vedere molto bene l’ascensore. Il nostro archivio, all’undicesimo piano, è un monolocale con una di quelle finestre. Mi sono trovata per caso a guardarvi fuori, per questo so com’è andata dall’inizio» spiegò lei in modo telegrafico e preciso continuando a procedere dinnanzi a lui con i raccoglitori impilati. “Poteva tenerselo per sé. Questa tipa è una di quelle che sanno tutto loro e vogliono avere sempre l’ultima parola”. Così l’accontentò e non le rispose. Non con le parole, ma lo fece col linguaggio dei gesti approfittando sempre delle spalle che continuava a voltargli. D’altronde in qualche modo doveva sfogarsi. La porta dello studio recava una targa, neanche a dirlo, color porpora e con la scritta dorata “Studio Legale Avv. Bachelot”. «Siamo arrivati» disse la donna. Tommaso si affrettò ad aprirle la porta per agevolarle l’entrata. «Accomodati pure» disse la segretaria appoggiando i faldoni sulla scrivania. Poi con l’interfono avvisò l’avvocato, che al momento era impegnato con un cliente, che il suo atteso ospite era arrivato. «Mi dispiace, ho finito i succhi di frutta. Posso offrirti solo un distillato d’orzo se ti va, non ho altro.»
«No, la ringrazio.» «Bene. L’avvocato non ne avrà per molto. Se ti va di leggere qui ci sono delle riviste. Ecco, questa è di sport, l’ho comprata stamattina.» Era il suo settimanale di sport preferito e Tommaso si mise a sfogliarlo con vivo interesse, tant’è che a metà rivista si era quasi dimenticato dove si trovava e perché ci era andato: I Diavoli Neri erano balzati primi in classifica dopo la terza partita di ritorno giocata proprio con la squadra che era la prima in classifica. Una bellissima gara mozzafiato di cui Tommaso ne stava leggendo l’articolo zeppo di dettagli, scritto da un entusiasmante cronista. Talmente immerso nella lettura, non si accorse neppure di quando il cliente uscì dall’ufficio di Bachelot e si fermò a scambiare due parole con la segretaria prima di uscire dallo studio. Solo la suadente voce dell’avvocato lo riportò fuori da quelle pagine sportive. «Vieni, Tom» con un elegante cenno della mano lo invitò a entrare. Titubante, il ragazzo si alzò domandandosi come si sarebbe svolto quell’incontro e a che cosa avrebbe portato. Si chiese ancora una volta se stava facendo bene a fidarsi di quell’uomo, eppure a questa domanda tornava rapida quella vocina nel profondo del suo cuore che lo rassicurava, e lui decise di darle credito. Vi erano due poltroncine, una di fronte all’altra, separate da un tavolinetto basso. Teodoro fece accomodare il ragazzo su una di esse, poi si sedette sull’altra, tese le mani e chiudendo gli occhi iniziò a concentrarsi. Tommaso lo osservò con sguardo inquisitore dimenticandosi quasi di respirare. Dopo qualche istante, l’avvocato riaprì gli occhi, si rilassò e disse: «Ecco, ora possiamo parlare liberamente», ma notando due punti interrogativi al posto delle pupille di Tommaso, pensò fosse giusto iniziare con delle accurate spiegazioni. «Ho appena attivato la funzione scudo. È una magia che serve a non far captare la nostra presenza né quello che sarà detto in questa stanza» iniziò a dire. Tommaso si voltò a guardare la porta per calcolare quanto distava la via di fuga e quanto ci avrebbe messo a scattare dalla poltrona per raggiungere la salvezza. Naturalmente, Teodoro comprese quello che gli ava per la mente e continuò con voce calma e persuasiva. «Vedi, Tom, ci sono molte cose che dovrei spiegarti, ma non saprei da dove iniziare perché non so quanto già sai.» «Quanto so di cosa?»
«Di noi. Della nostra natura, dei nostri poteri, della divisione del nostro mondo, della magia, di …» abbassò la voce, quasi tenesse di evocarlo, «Nerasmo, dei suoi successori, della realtà attuale.» «Non so di cosa parli» rispose Tommaso lanciando un’altra occhiata furtiva alla porta. S’immaginò anche la segretaria, complice dell’avvocato, che gli bloccava la strada impedendogli di abbandonare lo studio. «Se vuoi andar via, puoi farlo in qualunque momento» disse Teodoro indicando la porta, «è aperta. Ma se sei venuto qua, è perché ti aspetti da me delle spiegazioni. Ed io sono pronto a dartele, anche se so benissimo che per te non sarà facile prestarmi fede. Quindi sta a te; decidi cosa fare.» «Non lo so, sono confuso. Prima la mia mamma che inizia a parlare di cose strane; poi io che mi succedono cose strane; poi tu che parli come mia madre. Se non c’è in giro un virus della demenza che colpisce le persone sane, allora deve esserci un’altra verità» iniziò a dire Tommaso, mentre con le mani torturava il manico dello zainetto che aveva sulle gambe. «Credo di voler sentire i tuoi chiarimenti.» Teodoro si alzò, affondò le dita di una mano tra la folta chioma brizzolata, mentre con l’altra frugò nella tasca dei pantaloni in cerca della chiave con cui aprì un cassetto della sua scrivania e ne prese un foglio ripiegato in quattro. Si sedette nuovamente e spiegò il foglio sul tavolinetto davanti a loro. Il prospetto riportato sul pezzo di carta prese vita a un gesto della mano dell’uomo. La visione tridimensionale di un paesaggio girava e scorreva dinanzi ai loro occhi. «Lo riconosci?» chiese l’uomo. «Sì, è Nebrus», fece il ragazzo, «Però... no, forse No. Ma sì è Nebrus, cioè è uguale a Nebrus ma non è Nebrus.» Tommaso era confuso, scuoteva la testa e guardava Teodoro in cerca di un suggerimento che però non arrivò. Al contrario, percepì che era Teodoro ad aspettarsi da lui la soluzione. «Tutta questa parte è di sicuro Nebrus, ma il mondo finisce qui...» disse concitato, con la mano a mezz’aria che tagliava una parte dell’ immagine tridimensionale «e ricomincia da qui» indicò l’altra parte. «Ma questo mondo è
più grande!» «È soltanto... un’illusione creata da te. Ecco cos’è.» concluse con lo sguardo di colui che non è disposto a farsi prendere in giro. «È realtà, Tom. Stai guardando il Mondo di Sopra, il nostro mondo» disse severo. «Nebrus è soltanto una porzione, ma ormai siamo in pochi a saperlo; gli altri l’hanno dimenticato...» «È assurdo! Come ti aspetti che possa credere a una cosa del genere» sbottò Tommaso alzandosi di scatto dalla poltrona. Scosse la testa, indignato, e raccogliendo il suo zainetto si diresse verso l’uscita. Quando fu davanti alla porta, si girò, più per curiosità che per ripensamento, perché dalle labbra di Teodoro non era uscito alcun suono. L’uomo non si era scomposto e lo guardava con severità. Tommaso esitò ancora. «Ti ho già detto che la porta è aperta, ma se esci, continuerai a ignorare la verità, a porti domande e a non sapere di chi fidarti, mentre io avrò deluso tua madre non essendo riuscito a mantener fede alla promessa fattale» sentenziò. «Già, mia madre. L’hai usata come esca per attirarmi qui, ma tu non la conosci, hai appreso di lei dai giornali, c’erano articoli su ogni rivista: “Il caso più eclatante di pazzia”, ecco come l’hanno definito. Ora, prima di andarmene, vorrei la soddisfazione di sapere cosa veramente vuoi da me.» L’avvocato, per tutta risposta, si alzò e andò a sedersi alla scrivania. Guardò Tommaso, poi inclinò la testa per cercare all’interno di un cassetto. Tirò fuori un piccolo album di fotografie e lo tese al ragazzo. Lui si avvicinò con diffidenza e curiosità al contempo. Lo prese e iniziò a sfogliarlo. Il suo viso si accese di stupore. Erano foto di due amici e in alcune istantanee avrebbe giurato che erano... più che due amici. Emma e Teodoro: due giovani ragazzi sorridenti e felici. Lei con gli occhi brillanti di una luce che non le aveva mai visto; lui con quella spiccata eleganza che già allora lo distingueva. Verso la fine dell’album, altre foto ritraevano anche un altro uomo insieme a loro: suo padre. Tommaso era rimasto senza parole e sapeva che non sarebbe uscito da quell’ufficio senza che le sue orecchie avessero prima ascoltato quanto più c’era da sapere. «Vi conoscete... dav...» riuscì ad articolare.
«Davvero. Prima di conoscere tuo padre... beh... è stata la mia...» «Certo, ho visto» fece Tommaso con le gote lievemente arrossate. Teodoro accennò un sorriso, «Ma a quanto pare non era destinata a me...» “Ma con te non sarebbe finita in clinica” pensò tristemente. «Rimane comunque la mia più cara amica. Le ho promesso che mi sarei occupato di te, che ti avrei spiegato tutto del nostro mondo e che avrei chiarito i tuoi dubbi. Cosa che lei non ha potuto fare.» Così dicendo invitò Tommaso a riaccomodarsi in poltrona e lo raggiunse. «Caro ragazzo, questa è una storia molto lunga per cui ti chiedo di attendere ancora un attimo. La funzione scudo è una magia che va rinnovata almeno ogni mezz’ora per non perdere efficacia.» Così si concentrò e ripeté quanto fatto in precedenza. Stavolta, il ragazzo lo osservò senza pregiudizio. «Tua madre, io, e un’altra settantina di persone formiamo la “Resistenza”. Noi siamo coloro che tengono vivo il ricordo del ato, poiché noi non siamo stati convertiti. Perché tu comprenda, è necessario fare un salto nel ato.» Ripiegò la mappa planetaria che era ancora sul tavolinetto e la poggiò per terra. Poi toccò i bordi del tavolo, il piano si aprì al centro e dall’interno emerse una sfera di vetro che, quando il piano si richiuse, vi rimase appoggiata sopra senza rotolare. Un’espressione di meraviglia illuminò gli occhi di Tommaso, “Non sarà…?” Proprio così: una sfera magica. L’oggetto cominciò ad animarsi visualizzando una densa nebbia che assunse diverse colorazioni per poi iniziare a perdere consistenza, e alla fine si diradò completamente offrendo una visione nitida. Teodoro la accarezzava girandovi intorno col polpastrello dell’ indice destro. «Molti decenni fa, nel nostro mondo si verificò un fenomeno rarissimo. Si formò una coppia astrale. Vale a dire due gemelli, nati lo stesso giorno ed esattamente alla stessa ora. Ciascuno con due poteri elementali differenti. Acqua, Terra, Aria, Fuoco. La loro azione combinata fonde la forza dei quattro elementi.» Teodoro fece una pausa; si chiese se quello era il modo giusto di iniziare poiché per ogni parola che diceva, avvertiva la necessità di una spiegazione a monte. «Interrompimi pure e chiedimi, quando non ti è chiaro.» Tommaso ne approfittò subito.
«Hai detto nati esattamente alla stessa ora. Quindi non sono fratelli?» «Esatto, non si tratta di gemelli naturali ma elementali, cioè basati sugli elementi. Quindi se, ad esempio, uno ha il potere dell’Acqua e dell’Aria, l’altro avrà necessariamente il potere del Fuoco e della Terra, altrimenti non si formerà la coppia. La particolarità di questi soggetti è altresì il fatto di possedere due poteri, quando tutti gli altri maghi ne possiedono invece uno solo. Io, ad esempio, ho il potere dell’Acqua, tua madre quello della Terra, tuo padre, prima di essere convertito e quindi di dimenticarlo, aveva il potere del Fuoco. Il potere non si eredita dai genitori, è la natura che te lo affida alla nascita; tu infatti hai un potere diverso dai tuoi genitori: quello dell’Aria.» “I miei mulinelli” pensò Tommaso. «Comunque, dove eravamo? Ah, la coppia: lui era…» abbassò la voce «Bruto Nerasmo, e lei Alyssa Aster. Lui divenne perfido e assetato di potere, disprezzante delle regole, volle creare un posto dove usare la magia come meglio credeva. Qualcuno fu in grado di offrirgli tutto questo potere aiutandolo a impossessarsi dei poteri della gemella. Guarda…» nella palla di vetro iniziarono a scorrere immagini che concretizzavano il racconto di Teodoro. Il ragazzo incollò gli occhi alla sfera, rapito da quella meraviglia. «Quando Bruto s’impossessò dei poteri di Alyssa Aster, grazie all’ aiuto del Druido Haltheyvan, circoscrisse la sua porzione di territorio ove agire da indiscusso signore della magia. Delimitò questa parte con un campo di energia generato dalla forza congiunta dei quattro elementi e le impose il nome “Nebrus” in onore di se stesso. Ma non proprio tutto andò per il verso giusto. Quando la fretta insidia anche il mago più potente, l’errore ha una buona probabilità di verificarsi. Tale fretta era dovuta alla labilità dei poteri usurpati. Così Nerasmo, nel suo rapido agire, non riuscì a lasciare fuori la totalità delle persone ostili alla sua etica, in altre parole i precursori della Resistenza. Nerasmo non tardò a istaurare il proprio governo e a dettare nuove leggi. I cittadini contrari alla sua autorità, rimasti intrappolati all’interno del suo settore, cominciarono la loro nuova vita nascondendosi ed emarginandosi per timore di essere scoperti. All’inizio essi non avevano idea di quanti fossero. Ognuno di loro frequentava solo chi conosceva bene; poi l’amico segnalava all’amico un
altro amico, e in breve tempo si era formato un piccolo movimento di resistenza che si riuniva segretamente attivando la funzione scudo per non essere individuati. Non avevano una grande organizzazione, in pratica non sapevano bene cosa poter fare contro Bruto. Il potere che egli aveva era difficile, se non impossibile, da contrastare. avano il tempo a studiare attentamente tutti i manuali di magia, antichi e moderni, che riuscivano a reperire, sperando di scoprire pozioni, formule, filtri magici, riti, da poter combinare in qualcosa di molto efficace. Fecero ricerche approfondite sui poteri elementali, ma non appresero niente di più di quello che già sapevano. Non vi era modo di combinare la forza degli elementi dei singoli individui, solo i gemelli elementali potevano riuscire in questa magica, terrificante e colossale impresa. All’inizio tutto era tranquillo, il sogno di Bruto si era compiuto e ognuno poteva usare e abusare della magia non più sottoposta alle regole del Consiglio dei Cinque, l’organo supremo del Mondo di Sopra. Poi, dopo la morte di Haltheyvan, le cose presero tutt’altra piega. Si narra che quando il druido, prossimo alla morte, trasferì i suoi poteri a Bruto, accadde che oltre a quelli traslocasse nel suo corpo anche la sua essenza vitale, e che la convivenza abbia prodotto un essere paranoico. Due entità condividevano lo stesso corpo e lottavano per la supremazia. I maghi potenti cominciarono a infastidirlo. Iniziò ad arrestare o a sbarazzarsi fisicamente dei maghi più valenti. Bruto Nerasmo era consapevole della sua supremazia, ma ciò non gli bastava... rimanere l’unico detentore dalla magia era un tarlo che ogni giorno insidiava sempre più la sua mente. Quest’assillo lo portò a circondarsi solo di pochi fedelissimi ai quali ordinò di fare piazza pulita. Iniziò la persecuzione dei maghi: compito dei Bruti, così vennero chiamati i devoti di Bruto, era quello di individuare tutti i veggenti, stregoni, chiaroveggenti eccetera ed eliminarli iniziando dai più autorevoli. Per fortuna il dominio di Nerasmo non durò molto. Le continue contese tra le due entità indebolirono il corpo e lo spirito di Nerasmo, per di più Haltheyvan gli aveva trasmesso una grave e misteriosa malattia di cui soffriva e che neppure la sua potente magia era riuscita a sconfiggere. Bruto lasciò i propri poteri in eredità al suo primogenito. La sua malvagità era tale che non risparmiò al figlio le pene della sua doppia personalità. Lo scellerato, pur di continuare a dirigere il suo piano di annientamento dei maghi, trasferì i suoi poteri, la sua essenza, e di conseguenza anche quella di Haltheyvan, nel corpo di Aulo.
Il governo di Aulo fu all’insegna della pazzia. Con tre menti e tre anime in un corpo non sarebbe potuto essere altrimenti. Vennero fatti decreti e il giorno dopo ritirati. Vennero pronunciati discorsi e il giorno dopo smentiti. Furono scritte leggi che stabilivano un divieto che alla fine della stesura diventava un permesso. Nei momenti in cui ebbe pieno possesso di se stesso e lucidità mentale, Aulo riuscì ad attuare un progetto a lungo agognato. Esposto al padre anni addietro, era stato da questi decisamente respinto. Aulo preferiva non eliminare i maghi, pensando che altrimenti la loro parte di territorio si sarebbe inevitabilmente spopolata, essendo noi tutti dei maghi. Il suo piano era quello di soggiogare le loro menti, cancellandone il contenuto e immettendovi nuovi dati. Per far ciò, iniziò a proclamare che il regno di terrore di suo padre era finito e fissò un calendario d’incontri pubblici per illustrare la sua linea di governo. La Resistenza, sempre guardinga, non partecipò a queste adunanze ma le spiò a debita distanza.» Tommaso osservava le immagini nella sfera mentre Teodoro le commentava. Vide Aulo su un palco che camminava avanti-indietro, da destra a sinistra, tenendo in mano un lungo bastone sulla cui cima stava una sfera nera. «Il movimento scoprì che durante questi raduni veniva esercitato un maestoso incantesimo ipnotico sulla totalità dei partecipanti. All’uscita, ognuno di loro non ricordava più di essere un mago; ciascuno era convinto di essere una persona normale. Ogni auditorio, scuola, arena, teatro venne prenotato da Aulo a tale scopo, ma egli non riuscì a mantenere fede a tutte le date fissate poiché le lotte interiori con Bruto e Haltheyvan lo condussero ad un tale livello di pazzia che gli fece esplodere il cervello. Non ci fu tempo per il trasferimento dei poteri: si concluse così il dominio di Bruto e del Druido. Aulo non aveva avuto figli perciò il comando fu preso dal fratellastro Jeziel, di lui molto più giovane, tanto che, alla morte di Bruto, lo prese con sé facendone le veci paterne. Bruto lo aveva avuto in tarda età da una giovane donna soggiogata alla sua volontà con l’incantesimo, dopo la morte della moglie. Jeziel aveva dunque un potere limitato e non poté portare a compimento l’opera del fratello. Per togliere di mezzo i maghi rimanenti, si servì, quindi, di tutti quelli già resi innocui da Aulo. Si appellò ad essi per sgominare i superstiti. Affisse manifesti per tutta la città offrendo una ricompensa a chiunque denunciasse un mago. Ma la sua iniziativa diede scarsi risultati perché i maghi si comportavano come gente normale per non farsi scoprire e quelli convertiti, persuasi ormai di non essere maghi, pensarono che Jeziel soffrisse della stessa pazzia del fratello
Aulo. Anche altri cercarono di individuare questi maghi. Erano quelli della Resistenza, convinti che si sarebbero uniti a loro. I seguaci di Bruto, erano stati da questo traditi, perseguitati, uccisi. Le nuove generazioni e gli orfani avevano ascoltato i racconti dei superstiti e avevano visto l’operato di Aulo e quindi di Jeziel. Non era possibile che appoggiassero ancora l’attuale governo. Ma nessuno si fidava di nessuno. Ogni contatto era giudicato una trappola per intascare la ricompensa. Si attraversò un periodo di apparente stallo, mentre si andava perdendo di vista l’obiettivo malvagio di Bruto.» Tommaso non staccava gli occhi dalla sfera di vetro. Seguiva le immagini del ato come in un muto cortometraggio e ascoltava il commento del narratore di fronte a lui. «Certamente non ti ricorderai di Jeziel, allora eri molto piccolo, ma ne conosci senz’altro la figlia, Argelia. Ha l’età dei tuoi nonni e, come sai, ha ato il testimone al figlio Goran, nostro attuale Governatore.» Teodoro gesticolò sopra la sfera e le visioni accelerarono finché non apparve una giovane donna dai lunghissimi capelli neri e gli occhi verdi come due smeraldi. «Quella è Argelia?» chiese il ragazzo incantato da quell’esile strega dal fascino seducente. «Sì. Ambiziosa, furba, accattivante, persuasiva, degna erede del bisnonno, non ci ha pensato su due volte a esiliare il padre debole e remissivo. Dobbiamo a lei l’apertura di cliniche psichiatriche, ubicate in strutture predisposte come vere e proprie prigioni piuttosto che come case di cura.» Si bloccò pensando a Emma e i suoi occhi cercarono quelli di Tommaso. Vi lesse una nota di tristezza e si rammaricò di essersi fatto sfuggire quel particolare. «La tireremo fuori di là. Ti do la mia parola.» Gli strinse un braccio e il ragazzo abbozzò un tenue sorriso e riprese a guardare all’interno della sfera. Quella che stava vedendo ora era un’Argelia che poteva avere l’età di sua nonna, pur conservando un fascino accattivante. Un’altra figura era entrata in scena, un uomo che dimostrava l’età di suo padre o anche di Teodoro, e stava mostrando alla donna delle carte. Ella ne strappò alcune e gli restituì le altre con un gesto di stizza.
«È Goran! Il Governatore.» esclamò Tommaso. «Esatto. Anche se non governa un bel niente. Dietro le quinte c’è sempre stata lei. È Argelia ad approvare ogni provvedimento. I suoi accorati appelli per la tutela della salute mentale dei cittadini di Nebrus stanno dando buoni frutti. Purtroppo. Ciò è dovuto anche al fatto che il ato è stato dimenticato dalla stragrande maggioranza.» «Quindi, i manifesti attaccati in città, che portano la firma di Goran Ollgiast, sono in realtà un provvedimento di Argelia?» «Non vi è dubbio. Goran è un fantoccio nelle mani della madre. Lei l’ha sempre trattato da debole, da perdente e lui ha finito per crederci. Ma adesso ci toccherà tenere d’occhio la nipote. Altea, figlia di Goran, è la copia sputata di sua nonna. Oltre alla somiglianza fisica comincia a delinearsi in lei anche una somiglianza caratteriale.» sentenziò Teodoro in chiusura. All’interno della sfera le immagini svanirono lentamente e la figura di Altea si dissolse nella nebbia color ghiaccio che occupò il volume prima che la palla di vetro tornasse trasparente.
Capitolo 6
La selezione
Aspettando Casimiro e la sua scatola color rosso porpora, Lucilla stava, nel frattempo, allestendo la scrivania per il lavoro di selezione delle richieste di ammissione. Aveva aperto una mappa divinatoria che copriva metà scrivania. Vi erano raffigurati i quattro elementi e i quattro indirizzi di studio: cultura storicoumanistica, lingue antiche e moderne, scienze biologiche e l’indirizzo scientifico-astronomico. Gli orientamenti scolastici, in questo caso, non le sarebbero serviti perché per gli esterni (gli studenti provenienti dal Mondo di Sotto) era previsto solo il corso di Master in Magia. Non vi era sufficienza di posti per garantire l’intero percorso di studi ad altri studenti oltre ai residenti, ma anche perché era impossibile esibire nel Mondo di Sotto un titolo di studio conseguito... “in un altro mondo”. Nell’angolo inferiore sinistro della mappa erano illustrate le sei costellazioni dello zodiaco: Drago, Centauro, Fenice, Serpente Piumato, Unicorno e Grifone. Sopra un tavolo di raccordo, collegato alla sinistra della scrivania, aveva posto quattro cestini porta-corrispondenza contrassegnati con le lettere C, L, B e S, perché a Lucilla piaceva comunque scoprire per quale materia ciascun ragazzo era portato, e così operava ugualmente questa selezione per poi consigliare l’esaminato in base al responso del suo saggio pendolo. Quando qualcuno bussò alla sua porta, sapeva già di chi si trattava. «Entri pure, Casimiro» disse frettolosamente. «Eccomi qua. Dove gliela metto, signorina?» chiese, riferendosi alla scatola. «Dunque vediamo… l’appoggi pure lì sopra» rispose lei indicando una consolle vicino alla porta. «Ecco fatto» disse giulivo. Poi l’espressione sul suo volto mutò in preoccupazione. Lucilla se ne accorse all’istante. «Qualche problema, signor Ovibus?» chiese. Casimiro si tolse il copricapo di pelo e si grattò la testa. Non sapeva da dove
iniziare e temeva di essere inopportuno. Poi ci provò. «Beh, ecco… Non per farle la predica, s’intende… So anche che non è affare mio… Solo che alla sua incolumità io ci tengo, signorina, e quando l’ho saputo per poco…» «Non le veniva un infarto» lo precedette ironica. «Suvvia, Casimiro, arrivi al dunque! Mi sta facendo soffrire. Che cosa è successo di così tremendo?» chiese a mo’ di sceneggiata. «C’è poco da scherzare, Lucilla. Poco fa ho incontrato Ezechiele, il quale mi ha riferito di averla vista tornare dai boschi dalla parte del sentiero rosso. Per la miseria! Che cosa intendeva fare? Non ha ricevuto nessun insegnamento dall’esperienza ata?» rispose. «Il solito pettegolo» sbottò Lucilla. «Spero che la cosa non sia giunta alle orecchie della Gramegna» aggiunse seccata. «Sbaglia a parlar così di lui. Anche Ezechiele è preoccupato. Siamo stati noi due a ritrovarla quella volta, ricorda? E poi l’ha detto a me perché sa che si può fidare.» difese così l’amico e collega. «È questo il fatto, l’ha detto a lei, non a me. Nessuno qua è capace di dirmi le cose in faccia, a parte la direttrice. Vengo sempre a sapere le cose per interposta persona o per voci di corridoio. Eppure non sono un mostro anche se c’è chi mi dipinge come tale.» «Oh! No. Un mostro lei! Io non l’ho mai pensato. Lo so che il suo cuore è buono, peccato che lo tenga chiuso dentro un’armatura. Beh, una gran bell’armatura, non c’è che dire, ma sempre ferro è» fece Casimiro e avvertì del calore invadergli le gote. «Se era un complimento, allora la ringrazio, Casimiro» disse Lucilla con un sorriso. «Ecco, lo vede? Quando sorride è ancora più bella! Tutta un’altra persona!» affermò Casimiro e le sue guance erano già del colore della scatola. Lucilla, che non era abituata a ricevere complimenti da Casimiro, e vedendolo imbarazzato e goffo, stava per sbottare a ridere. Gli voltò prontamente le spalle e
prese un fazzoletto di tasca; camuffando lo sbottò in uno starnuto, si soffiò il naso. «Un’altra persona, eh! D’accordo, cercherò di sorridere più spesso. Tornando però al discorso, vorrei chiarire come sono andate realmente le cose. Prima di tutto non sono una sconsiderata. Eravamo quasi arrivati alla radura…” «Eravate?» la interruppe circospetto. «Sì, eravamo. Io e Biancospino» precisò lei, contando con le dita della mano. «Ah!» esclamò Casimiro con equivoco sollievo. «Dicevo, sul cammino, quando eravamo quasi arrivati, abbiamo trovato la strada interrotta. Sono caduti due alberi, uno da destra e, poco più avanti, uno da sinistra. Il primo è caduto sul sentiero con il tronco e Biancospino l’ha saltato. Quello più avanti c’è finito su con i rami, così siamo dovuti tornare indietro e prendere il sentiero rosso. Non avevamo altra soluzione e comunque ne abbiamo percorso solo un breve tratto in prossimità della radura. Dopotutto, sappiamo che non vi era pericolo, no? Quelli cattivi non possono avvicinarsi alla radura. «Già» concordò lui. «Mi faccia il favore di dirlo a Ezechiele» lo pregò. Casimiro la rassicurò che lo avrebbe fatto immediatamente e si congedò da lei. Non fece in tempo a risalire sullo spazzaneve che dalla finestra della segreteria si affacciò Lucilla chiamandolo a gran voce. Non era riuscita ad aprire la scatola. Casimiro, trottando, tornò alla svelta in segreteria e vi giunse col fiato corto. Azionò il dispositivo d’apertura e poi mostrò a Lucilla anche quello di chiusura. «Però, ingegnoso!» esclamò lei. Si salutarono nuovamente. Casimiro finì di spalare la neve, poi si recò da Ezechiele per rassicurarlo sulla condotta dell’intrepida cavallerizza e per informarlo che c’erano due alberi caduti da rimuovere.
Dopo l’abbondante nevicata della notte e le forti ventate che avevano spazzato
via le nubi cariche di neve, un tiepido sole aveva fatto capolino tra le cime innevate, allietando la giornata. Lucilla appoggiò la scatola color porpora con stelle, mezze lune e soli dorati, sul lato sgombro della scrivania. Tirò le pesanti tende color verde petrolio a una delle due grandi finestre della stanza, ottenendo così una penombra favorevole al suo lavoro. Le dispiacque un po’ sottrarre alla vista il mite astro, ma era necessario. Creò l’atmosfera ideale accendendo le candele sui due candelabri d’argento – regalo della direttrice – poi sedette alla scrivania. Casimiro le aveva anticipato che erano arrivate quattrocentoquattordici richieste – ne teneva sempre il conto preciso, anche se non era sua mansione – e lei poteva sceglierne solo trecento quanti erano i posti disponibili. Iniziò dapprima con le buste blu, ovverosia quelle inviate dagli ereditari, che costituivano il quantitativo minore, ma anche il lavoro più selettivo e laborioso. Il compito di Lucilla consisteva nello scovare i talenti nascosti, cercare le potenzialità latenti dei candidati; era sua la responsabilità di assegnare con merito il centinaio di posti disponibili per gli “esiliati”. Inoltre doveva convertire la loro data di nascita terrestre nella data del suo calendario e anche l’ora di nascita doveva corrispondente, il più possibile, al suo orologio. L’anno del Mondo di Sopra è formato da trecentododici giorni, diviso in sei mesi (sestine) di cinquantadue giorni ciascuno: Primus, Tremulo, Mitigo, Dulcis, Arsuria e Teporis. Le stagioni sono due, Friavertum, quella fredda e Afusvertum, quella calda. Il giorno si compone di ventotto ore, e un’ora di ottanta minuti. Alla fine, la differenza di durata tra il moto di rivoluzione del Mondo di Sotto e il Mondo di Sopra è di 1224 ore in eccedenza per il primo; anche di questo Lucilla doveva tener conto. Dalla profonda tasca destra della sua gonna, l’esaminatrice tirò fuori una catenella con appeso un pendolo in bronzo cromato e pietra avventurina da quarantacinque grammi. Aprì la prima busta e lesse il modulo compilato personalmente dal candidato. In calce era espressamente richiesto che il modulo fosse compilato a mano, per l’individuazione della personalità tramite l’esame calligrafico. Lucilla lesse il nome del candidato, poi prese una delle tre fototessere allegate al documento e la inserì nel pendolo, nella cavità per il testimone. Quindi, iniziò a interrogare la mappa divinatoria con l’ausilio del suo inseparabile oggetto appuntito, ma per circa due minuti questo non ne volle sapere assolutamente di muoversi.
«Negativo. Sei pronto cestino?» mormorò Lucilla e dopo aver appallottolato il modulo lo gettò dietro le sue spalle. La palla di carta finì con precisione dentro il cesto della cartastraccia. Conservò la busta con l’indirizzo e le tre foto da restituire al mittente. Ripeté la medesima operazione con una decina di lettere. La palla di carta finiva sempre precisamente nel cesto. La solfa cambiò quando introdusse nel pendolo la foto di Marta Vonwiller, la ragazza nata il 36° giorno del mese di Teporis. Dopo pochi secondi, il pendolo ebbe una decisa oscillazione e cominciò a roteare sul segno elementale del Fuoco, quindi Lucilla spostò la mano sul quadrante delle inclinazioni scolastiche e il pendolo compì sette giri sulla casella "Lingue Antiche e Moderne". Ripose con soddisfazione la richiesta di ammissione nel raccoglitore contrassegnato dalla lettera L. Sette giri erano un buon risultato. Prese poi altre tre buste destinate a essere cestinate, quindi ne apri una decina che all’esame diede discreti risultati. Successivamente, estratta da un’altra busta blu, la foto di un ragazzo dai glaciali occhi azzurri prese posto nell’alloggiamento del testimone. Alex Grainer condusse il pendolo di Lucilla sul segno elementare dell’Acqua e gli fece compiere ben otto giri sulla casella dello scientifico-astronomico, era nato il 15° giorno di Dulcis. Il sole stava raggiungendo il punto più alto all’orizzonte, Lucilla tirò anche una delle due tende della seconda finestra e continuò il suo lungo lavoro di selezione.
Capitolo 7
L’altro potere
Nebrus era assolutamente diversa dal resto del Mondo di Sopra. Nerasmo era sempre stato affascinato dalle molteplici tipologie di città che aveva visto nel Mondo di Sotto attraverso il Grande Osservatorio. Le città antiche, molto caratteristiche e piene di storia, lo avevano lasciato indifferente perché le trovava abbastanza simili a quelle del suo mondo. Ma le città moderne, con la loro architettura d’avanguardia, i grattacieli, i ponti sospesi l’avevano attratto fortemente. Il progresso tecnologico, i mezzi di trasporto, la radio e il telefono avevano catturato decisamente la sua curiosità scientifica. Tutte cose che mancavano nel suo mondo. Già da adolescente, era riuscito con la magia a materializzare nel suo mondo alcuni piccoli oggetti guardati attraverso il Grande Osservatorio. Aveva iniziato con un tostapane e una macchina fotografica, per poi provarci col telefono, quindi con un aspirapolvere e in seguito, addirittura, con un’automobile. Con rammarico, dovette costatare che quelle cose nel suo mondo non funzionavano. Non aveva messo in conto le fonti energetiche di cui il Mondo di Sopra era sprovvisto. Con i suoi poteri, quello dell’ Acqua e del Fuoco, era riuscito, però, a dotare la vettura di un motore che generava una perenne forza a vapore. Certo non offriva le prestazioni dell’originale, tuttavia si muoveva. Lentamente è vero, ma si muoveva. Soddisfatto, ci aveva riprovato con altri mezzi, vale a dire un autobus per il College, lo spazzaneve che ancora oggi funziona perfettamente ed è affidato a Casimiro, le auto “diplomatiche” usate dai cinque membri del Consiglio, e varie commissionategli da maghi e poi da questi lasciate in eredità. Poco dopo l’Alto Congedo Scolastico, e un anno prima del suo mutamento, Bruto aveva scoperto come ricavare l’energia dal biocrinite, un minerale estratto dai monti che sovrastano la Terra Verde, nella regione di nordovest. Da allora i cilindretti dorati sono stati la nuova ed anche unica fonte di energia. Ridotto ulteriormente, in dimensioni di piccole pastiglie, il biocrinite può far funzionare piccoli oggetti, come una macchina fotografica. È proprio con questo dispositivo che Bruto si divertì a scattare foto alle città più eleganti, attraverso il Grande Osservatorio. Successivamente, con le foto che egli conservò, aveva potuto ricreare nel suo nuovo regno un’unica immensa città materializzandola da quelle immagini.
Oggi Bruto è ricordato dai nebrusiani unicamente come un uomo malvagio, l’unico modo in cui egli si è fatto conoscere. Dall’altra parte, invece, dove non hanno subito il suo dominio, oltre alla breve parentesi che parla del suo atto scellerato, si studia l’uomo che ha apportato benefici in senso di scoperte ma anche di sviluppo economico. È fiorita l’attività estrattiva, sono nate le fabbriche di mezzi di trasporto e i laboratori tecnologici. Tuttavia, in un mondo abitato da maghi, parlare di tecnologia e di lavoro, come li intendono i terrestri, ha poco senso. Il lavoro si traduce in colpi di bacchette magiche e sfolgorii di luci colorate, e nell’osservare come le cose funzionino correttamente da sole.
L’automobile di Teodoro procedeva lentamente lungo il viale principale del centro città, a traffico limitato, mentre accompagnava a casa Tommaso. L’avvocato aveva dovuto evocare l’effetto scudo anche all’interno dell’abitacolo perché il ragazzo era un fiume in piena di domande. Ora che si fidava di Teodoro e che era venuto a conoscenza della lunga e tormentata storia del suo Mondo, la curiosità di Tommaso si era accesa a mille watt. C’erano cose che l’avvocato non gli aveva ancora detto, e c’era una cosa in particolare che lui avrebbe voluto sapere, ma che non osava chiedere per timore di essere frainteso. L’immagine della giovane strega ammaliante, probabilmente sua coetanea, gli si era talmente insinuata nella mente che questa continuava a proiettargliela d’innanzi, come un miraggio. Credeva di vederla in ogni luogo in cui sopraggiungevano e interponeva il suo volto a quello dei anti. Finché dalle labbra gli uscì il suo nome senza rendersene conto: Altea. «Cosa?» Teodoro corrugò le sopracciglia nell’atto di prestare più attenzione. «Cosa?» gli fece eco Tommaso. «Non ho detto niente.» «Hai detto Altea. Ti ho sentito bene.» «No... non mi pare» si schiarì la voce, in imbarazzo. «Beh, sarà perfida come la nonna ma è pur sempre una bella ragazza. Capisco che tu possa esserne attratto. Non c’è nulla di male, mi pare.» «Bella? Ma è… è...» gesticolò non riuscendo a trovare subito il superlativo più
assoluto che esprimesse il suo pensiero. E non lo trovò, ma i suoi cenni erano stati abbastanza eloquenti. «Hai ragione “è”, ma devi fare attenzione alle maghe come Altea, sanno utilizzare la loro beltà come un altro potere.» Teodoro svoltò nella via che conduceva al confine. Dopo qualche centinaio di metri, Tommaso si accorse che quella non era la direzione di casa. «È la strada sbagliata, di qui non si arriva a casa mia.» «Hai Ragione. Di fatti non stiamo andando a casa tua. C’è qualcosa che devi vedere e altro che ti devo rivelare.» «Non possiamo rimandare a un altro giorno? Ho dei compiti da finire per domani.» «Esatto, parleremo anche di scuola. No, non possiamo rimandare, dobbiamo andarci adesso e quando saremo arrivati, capirai l’importanza della mia insistenza.» «Dov’è che stiamo andando?» chiese non riconoscendo la zona. «Al nostro quartier generale, vicino al confine. Sei mai stato al confine?» «Mai. Però so che c’è una recinzione di filo spinato che corre lungo tutto il perimetro della città, e tutta la terra che si estende al di là è zona vietata. Ho sentito dire che si estende a perdita d’occhio e non ho mai capito perché non la si possa abitare.» «Forse per il semplice fatto che non esiste? Tutto ciò che vedi oltre il filo spinato è soltanto un’illusione. Di là della rete c’è solo una stretta striscia di terra prima del campo di forza eretto da Nerasmo. La recinzione ci protegge separandoci da esso, che altrimenti ci annienterebbe, credo.» «Come sarebbe, credi?» «Ecco, la verità è che non lo sappiamo; nessuna persona è mai andata oltre la rete. Solo gli uccelli, nel loro tranquillo migrare, l’hanno ...» «Uccelli!?»
«Sì, creature volanti, con piume...» «So cosa sono gli uccelli, ma non li ho mai visti.» «Era appunto quello che ti stavo spiegando. Hanno oltreato il confine e sono... spariti. Non potrei dirti se sono stati disintegrati o rimasti intrappolati in qualche altra dimensione. Neanche io li ho mai visti, sono scomparsi tutti tempo fa.» «Quindi, se ho capito bene, dall’altra parte del confine c’è il resto del Mondo di Sopra. Giusto?» «Esatto, ragazzo. E non è ciò che vedi, noi lo sappiamo con certezza e un giorno lo vedrai con i tuoi occhi» asserì Teodoro mentre sostava l’auto nel posteggio della trattoria La Taverna dei segreti. «Eccoci arrivati.» disse spegnendo il motore alimentato col biocrinite. «Siamo venuti a mangiare?» «Niente affatto», rispose bisbigliando l’avvocato, «questo è il nostro segretissimo quartier generale», proseguì con tono ancora più basso. «Però se ti va di mangiare qualcosa non hai che da chiederlo» aggiunse. «Talmente segreto che l’avete pure scritto di fuori» osservò Tommaso. «Certamente. Più una cosa è palese e meno è sospetta. Non sei d’accordo? Dai, andiamo.» Non entrarono dall’entrata principale, quella utilizzata dai clienti, ma bussarono alla porta di servizio sul retro, quella utilizzata dal personale dipendente. La porta venne aperta a loro da una donna alta e robusta, di mezz’età e di gradevole aspetto. Indossava un grembiule sopra al vestito e aveva appuntata in testa una crestina in pizzo da cameriera. Teodoro la salutò chiamandola Miranda. La donna rispose al saluto con un sorriso e senza dire una parola fece loro cenno di seguirla. «Si hanno notizie di Zantor?» le chiese Teodoro. «Non ancora» rispose la donna.
Attraversarono la cucina, una confusione di voci concitate e rumori di piatti e stoviglie percosse i timpani del ragazzo, ma in compenso il suo olfatto fu benevolmente stimolato da aromi e profumi che gli stuzzicarono l’appetito. Con l’acquolina in bocca, voltandosi almeno un paio di volte, seguì i due adulti che superarono la cucina ed entrarono in un’altra stanza. Tommaso si guardò intorno; era una dispensa, con file di scaffali pieni di generi alimentari. Sulla parete più lontana, uno scaffale, pieno di ceste di vimini, roteò di novanta gradi insieme alla parete aprendo l’accesso a un successivo ambiente. Dall’interno provenivano voci sommesse, e una calda e tenue luce giallo-arancio proiettava due lunghe e tremolanti ombre umane sullo scorcio di muro in pietra che s’intravedeva dal aggio. Al cenno d’invito di Teodoro, il ragazzo si avvicinò titubante lanciando uno sguardo distratto a Miranda, ma nel breve attimo ne colse tuttavia il sorriso probatorio, lo stesso di quando gli aveva aperto la porta. «Entra, non temere. Sei tra amici.» La donna parlò con voce morbida e carezzevole come quella di una madre. Tommaso si sentì rincuorato e varcò con Teodoro l’entrata tra il muro e lo scaffale, che con un quarto di giro si richiuse alle loro spalle. La stanza, non molto grande, era quadrata e illuminata fiocamente da due lampade a olio appese al muro. Appena entrati, lo sguardo cadeva sul camino al centro della parete nord, era carico di legna nuova e affinava l’ambiente. A ovest l’intera parete era occupata da una libreria stracarica di libri tanto che molti volumi erano accatastati su uno stesso ripiano. Lungo la parete, dove si celava l’entrata, era allineata una fila di sedie e così pure lungo la parete est. Nel cuore della stanza vi era un grande tavolo ovale con almeno una quindicina di sedie attorno. Su due di queste sedie sedevano due uomini. Quello più anziano era in giacca e cravatta, l’altro era vestito da cuoco. L’idea che la fantasia di Tommaso elaborò era di trovarsi davanti alla scena in cui il proprietario del locale, l’uomo in giacca e cravatta, abbia condotto lì il suo dipendente, il cuoco, per lagnarsi del suo lavoro o forse per licenziarlo. Su una cosa sola egli aveva ragione, l’uomo ben vestito era il proprietario della Taverna dei Segreti, ma a breve ogni cosa gli sarebbe stata chiarita. «Allora, Teo, vedo che hai portato un giovane nuovo membro» cominciò l’anziano. «Di più! Ho portato il figlio di Emma» rispose Teodoro con evidente soddisfazione. Poi, rivolgendosi a Tommaso, ò alle presentazioni. «Questo signore è Alcherius Anfossi, proprietario della trattoria, mentre
quest’altro, vestito da cuoco, è Mathesias Horvath.» «Signori, Tommaso Cibei.» «Salve» disse il ragazzo. «Tommaso» fece uno. «Tommaso» ripeté l’altro. Entrambi con cenno di saluto. «Vedi, Tommaso, ti ho presentato queste due persone come proprietario e dipendente, ma qui dentro nessuno è subalterno all’altro. Non c’è proprietario, cuoco, cameriera o lavapiatti. Siamo tutti membri della Resistenza e questo è il nostro ritrovo. La trattoria è solo una copertura, anche se l’attività è avviata per davvero e rende bene.» Teodoro iniziò con le spiegazioni invitandolo ad accomodarsi dove preferiva. Tommaso scelse una sedia vicino al camino. Si sedette e, scosso da un brivido, si tirò su il bavero e si sfregò le mani lanciando uno sguardo eloquente al camino spento. «Fa un po’ freddo in questa stanza. Forse è meglio accendere il camino» disse prontamente Teodoro avendo colto il segnale. Anche gli altri manifestarono il loro assenso. Teodoro frugò nel suo abito in cerca dell’accendisigaro, tastò ogni tasca del suo completo ma non lo trovò. Tommaso si lasciò sfuggire uno sbruffo. «Che c’è di divertente?» chiese stranito Teodoro. «Niente. È che qui siete tutti maghi, no?» gli altri tre accennarono di sì con la testa e guardandosi fecero spallucce, con l’aria di chiedersi che cosa c’entrasse ciò. «E avete bisogno l’accendisigaro per dar fuoco alla legna? Pensavo di vedervelo fare con uno schiocco delle dita, oppure così...» e nascose il pollice all’interno del pugno per poi tirarlo fori di scatto. Ma non appena l’ebbe fatto, lanciò un urlo. Balzò in piedi rovesciando la sedia e con gli occhi sgranati iniziò a soffiare ripetutamente sul suo dito in cima al quale ardeva una fiammella. Gli altri due, che in un primo momento avevano l’aria compiaciuta, notarono lo sbalordimento impresso sul volto di Teodoro. Egli si teneva saldo allo schienale
di una sedia e fissava Tommaso a bocca aperta. I due uomini capirono all’istante che doveva esserci qualcosa che andava oltre all’esiguo prodigio cui avevano assistito, e assunsero un’espressione smarrita e interrogativa. Le facce di tutti e tre agitarono ancor di più Tommaso. Il ragazzo, in cerca di rassicurazioni e spiegazioni, si trovò davanti tre uomini maturi, tre maghi tra l’altro, che sembravano invece aspettarsi loro quel chiarimento. «Che c’è? Che succede?» si trovò a gridare. «Forse è normale, no? Forse ho il potere del fuoco...» ora la sua voce era incerta e tremante. «Insomma, perché mi guardate così? Parlate!» gridò nuovamente. Teodoro, scosso dalla reazione di Tommaso, si riprese all’istante e si apprestò a rasserenare il ragazzo. «Calmati, Tom, non è successo niente. Stai tranquillo, ragazzo. Adesso ti spiego, siedi qui.» «Sì, Teo, spiegaci.» intervenne Alcherius cercando il consenso di Mathesias. «Anche noi non capiamo. Il ragazzo ha appena sperimentato il suo potere. È la sua prima volta, a quanto pare, ed è normale che sia intimorito, ma ciò che l’ha terrorizzato è stata la tua espressione per una cosa... una cosa così... da poco, una semplice fiammella!» «Già, dovresti essere compiaciuto e sorridente. Invece sembra che tu abbia visto uno spettro» rincarò Mathesias. «Difatti sono stato compiaciuto e sorridente quando ho visto Tommaso invocare e domare l’ARIA» disse serio Teodoro. «ARIA!» esclamarono all’unisono gli altri due. L’espressione che avevano visto prima sul volto di Teodoro adesso era sui loro. «Insomma, è di me che state parlando, vi dispiacerebbe farmi capire qualcosa?» Tommaso era spazientito e soprattutto sconcertato dagli atteggiamenti di tutti e tre. «Il signor Mathesias ha ragione, dopotutto era una semplice fiammella. Per un mago, se questo io sono, non è certo un grande prodigio.» «Vedi, Tom, come ti stavo spiegando prima nel mio ufficio, ma forse eri troppo rapito dalle immagini dentro alla sfera da non prestare la dovuta attenzione alle
mie parole, ognuno di noi ha un potere. Uno soltanto. Difatti, io sono un mago veggente e ho il potere dell’Acqua; Alcherius…», indicò l’uomo elegante, «è un rabdomante ed ha il potere della Terra. Anche tua madre ha il potere della Terra; Mathesias…», indicò l’altro vestito da cuoco, «ha il potere del Fuoco. Come vedi uno soltanto. Tu invece ne hai due, Aria e Fuoco, ed è un evento estremamente raro.» «E a volte persino pericoloso» intervenne Alcherius con severità. La sua allusione a Nerasmo era ovvia. Solo a quel punto, Tommaso rammentò e mise insieme vaghe parole dell’avvocato e allora la conclusione gli sembrò ovvia. Con ansia, continuò ad ascoltare quanto Teodoro aveva ancora da dire, con la dubbiosa speranza che gli offrisse una spiegazione alternativa. Il veggente stava spiegando quanto riportato da un vecchio oracolo popolare che sarebbe stato scritto nell’unica copia di un antichissimo Libro delle Ombre, trafugato dalla Biblioteca del Consiglio nella notte dei tempi. Il fenomeno della nascita di due individui dotati di due poteri elementali è attribuito a un evento ciclico celeste. Si tratta dell’allineamento della seconda luna, Lylienit, con Theary, la sesta. Ogni centotrentacinque anni circa, quando le due lune si allineano entrando nel cono d’ombra del Mondo di Sopra, il fenomeno favorisce il formarsi di una coppia astrale, secondo un meccanismo sconosciuto, forse magico, forse soprannaturale, forse... chissà. Nel frattempo, Mathesias si era messo a cercare freneticamente tra i ripiani della libreria, e ritornò dagli altri con un libro rilegato in cuoio scuro. «Non si sa che fine abbia fatto il Libro delle Ombre, ma qui è annotata una lettera scritta più di quattrocento anni fa da un facoltoso astronomo e che parla di due gemelli di sesso maschile con i quattro poteri, nati durante l’allineamento che soprannomina eclisse degli elementi.» «Già, e dopo altre due eclissi nacque Nerasmo» interloquì Teodoro. «Quindi, l’ultimo allineamento c’è stato dodici anni fa, quando sono nato io» ne dedusse Tommaso con rassegnazione, e gli altri tre annuirono. «E perciò dovrei avere un gemello elementale in qualche parte di questo pianeta» non era una domanda bensì un’affermazione, ma gli altri tre annuirono
nuovamente. «E ora cosa succederà quando si verrà a sapere? Tutti temeranno la venuta di un nuovo Nerasmo, oppure si aspetteranno da me e... da quell’altro chissà quali prodigi?» «Ma io non so niente di magia. Fino a qualche ora fa non sapevo neppure di essere un mago e di avere il potere dell’Aria; e adesso scopro addirittura di avere anche un secondo potere, e... di avere un gemello, e... che mia madre è una maga, e... che lo è anche mio padre, ma che lui non se lo ricorda più, e... che tutti quanti siamo maghi, e... che c’è un’altra parte di questo mondo di là dal filo spinato, e... che c’è anche un altro mondo di gente normale che n...» Tommaso parlava sconnesso e con affanno, come se stesse tentando di liberarsi fisicamente dall’improvvisa valanga di eventi che l’aveva sepolto. Scoraggiato, avvertì un peso che gli opprimeva il petto. S’interruppe e cercò furiosamente di riprendere fiato. Una brezza gli scompigliò dolcemente i capelli, mentre una folata fece spegnere il camino, tutt’intorno iniziarono a volare molti libri dagli scaffali e una raffica gelida fece barcollare i tre uomini costringendoli a cercar riparo sotto il tavolo. «Soffre d’asma questo ragazzo?» chiese ironicamente Alcherius a Teodoro. «Penso di no. È solo che quando è un po’ teso, ansioso, nervoso, e... cose del genere insomma, ha bisogno di fare dei respiri profondi, di ossigenarsi inspirando più aria che può. Non so se mi spiego» rispose Teodoro accosciato vicino al piedistallo del tavolo. «D’accordo, ma provocare una bufera mi sembra un tantino esagerato!» fece Mathesias. «Suvvia, un po’ di pazienza. Il ragazzo non ha ancora imparato a controllare il suo potere.» «Meglio che si sbrighi. Oggi è solamente agitato; cosa potrebbe fare domani se fosse sull’orlo di una crisi di nervi?» replicò Alcherius. «Per questo l’ho portato qui, no?» rispose seccamente Teodoro. «D’accordo, d’accordo, però adesso fermiamolo prima che del nostro covo non rimanga più traccia» disse Mathesias.
«Come?» si ritrovarono a chiedersi all’unisono. Improvvisamente, Teodoro spalancò gli occhi: «Lo scudo, presto!» Avevano perso la concentrazione e lo scudo si era indebolito. «Preghiamo di non essere stati scoperti» disse preoccupato. Per il resto furono sollevati dal fatto che non era più necessario fermare il ragazzo. Tommaso aveva respirato tutto l’ossigeno di cui aveva bisogno. Ricordava bene quello che gli era successo al parco. Ricordava come il vortice girasse intorno a lui senza nuocergli, ma proteggendolo, offrendogli il proprio elemento riparatore, ridandogli forza ed energia. Ricordava che tutto era cessato non appena lo aveva chiesto e sapeva che sarebbe successo nuovamente. Ma questa volta non aveva solo bisogno d’aria ma anche di sfogare il suo disordine mentale. In quei pochi minuti, provò un grande appagamento nel vedere i libri scaraventati in tutte le direzioni, ma, immediatamente dopo, si rese conto con orrore che quello non poteva e non doveva essere il modo di utilizzare il suo potere, non certo in quelle circostanze dove era sufficiente sfogarsi battendo un pugno. Tornata la quiete dopo la tempesta, Tommaso, dispiaciuto e alquanto imbarazzato, iniziò a raccogliere i libri e a sistemarli a caso nella libreria. Gli altri lo fermarono dicendo che non era necessario e che se ne sarebbe occupato qualcun altro, anche perché andavano riposti per categoria. «Mi dispiace per questo» disse Tommaso indicando con la mano il disordine tutt’attorno. «È che per me è troppo. Vorrei non essere un mago. E... vorrei la mia mamma, a costo di apparire un poppante. Ho bisogno del suo abbraccio, delle sue rassicurazioni. Solo lei può aiutarmi e solo di lei io mi fido.» Tommaso si era lasciato cadere su una sedia con aria triste e sconsolata da indurre i tre uomini a prodigarsi per infondergli coraggio. «Ti ho promesso che avremmo tirato fuori tua madre da quel posto, ricordi?» gli chiese Teodoro. «Sì, lo ricordo; però mantener fede alla tua promessa non è di primaria importanza, vero? Per prima cosa voi siete interessati ai miei poteri, dico bene? Perché mi hai portato in questo posto? Cosa volete da me? D’accordo, i miei poteri, ma non so usarli. Quindi?» «Quindi sei qui per questo: per imparare» rispose Teodoro con la complicità dei
due membri della Resistenza. «Volete tenermi in questo sotterraneo buio a insegnarmi la magia? Scordatevelo! Già non vedo l’ora di uscirne, sto per diventare claustrofobico.» «Niente affatto» lo rassicurò Teodoro. «Vogliamo mandarti alla migliore scuola di magia» intervenne Alcherius. «Vuoi dire l’unica scuola di magia» lo corresse Mathesias. «Esatto. Il San Gregorio College. Ci andrai con Karmis Horvath...» stava dicendo Teodoro, e Mathesias mostrò un largo e orgoglioso sorriso «il figlio di Mathesias. Conoscerete altri ragazzi, e oltre alle materie tradizionali acquisirete l’uso delle arti magiche e svilupperete i vostri poteri.» «Karmis sarebbe...?» «No, non è il tuo gemello. Non sappiamo chi sia, nessun figlio dei membri della Resistenza possiede gli altri due poteri. Forse non lo incontrerai mai: potrebbe trattarsi di uno dei tanti ragazzi ignari della propria vera identità, oppure lo incontrerai al College. Onestamente, ce lo auguriamo tutti.» disse Mathesias. «Un momento, non ho mai sentito parlare di questo College e mi è difficile credere che il Governo, che reprime la magia e ne cancella la memoria dalle menti, tenga aperta una scuola di questo tipo. Sicuri che me la stiate raccontando giusta?» Tommaso era più che sospettoso e a braccia conserte pretendeva chiare spiegazioni. I tre adulti si guardavano titubanti, uno si grattava la nuca, il secondo si stropicciava il naso e il terzo si lisciava il mento. Sembravano tre macchiette del muto. Ognuno attendeva che fosse l’altro a iniziare a parlare. Alla fine era stato Teodoro a soddisfare l’esasperato ragazzo. Si schiarì la voce e rivelò: «Il college si trova al di là dal confine.» Il ragazzo rimase a guardarli per qualche attimo, le braccia sempre conserte e il sorrisetto beffardo, poi la sua espressione divenne severa di botto. «Mi state prendendo in giro?» chiese duramente. Ma sul volto dei tre uomini non vi era traccia di burla. Da quel giorno, Tommaso era stato obbligato a mantenere il segreto su ciò che gli era stato rivelato in
seguito.
Capitolo 8
Il pendolo impazzito
Come le capitava di sovente, Lucilla fece la pausa pranzo quasi un’ora dopo gli altri. Era sempre assorta nel suo lavoro da perdere la cognizione del tempo. Quando arrivò nel Salone Ovest, c’era ancora qualcuno che stava bevendo il caffè. La maggior parte dei tavoli erano vuoti, riuscì così a sedersi al suo preferito, quello vicino alla grande finestra angolare, con vetrate dalle quali si godeva un’ampia veduta del giardino. Adesso vi era ben poco da ammirare, la neve ricopriva ogni cosa e le sementi gettate da Ezechiele dormivano sottoterra aspettando l’arrivo della bella stagione. Una gnoma del sottobosco, con un bianco grembiule smerlato da cameriera, brontolando in gnomesco, arrivò a portarle il menu. «Sempre in ritardo, eh!» e trotterellando goffamente se ne tornò in cucina. Dopo qualche minuto, giunse lo gnomo Dortel, sommelier e picchia-menu, con la sua bacchetta multicolore in bella vista. «La lista dei vini, signorina?» chiese. «No, grazie, Dortel. Soltanto acqua per oggi.» «Ha già scelto le portate?» «Sì, vorrei soltanto una zuppa di cereali e ortiche» rispose porgendogli il menu. Dortel lo prese e picchiò due volte con la sua bacchetta magica sulla riga dov’era scritto il piatto scelto da Lucilla, poi le augurò il buon appetito e se ne andò. Dalla cucina uscì un piatto vuoto roteante che, non appena si adagiò sulla tavola, si colmò di buona zuppa fumante. Lucilla iniziò a mangiare, imibile alle voci che giungevano dalla cucina. La gnoma, infatti, si stava lamentando con Dortel delle abitudini della giovane donna e mentre mugolava, si affaccendava a preparare il menu della cena.
Lucilla s’incamminò verso il suo ufficio. Quando mezz’ora prima ne era uscita di fretta per andare a pranzo, aveva lasciato la sua mantella appesa all’attaccapanni e ora stava rabbrividendo. Sperando di non prendersi una congestione, si diede della stupida sconsiderata. Aveva ripreso a nevicare debolmente e i fiocchi bianchi si posavano suoi sui capelli, e i ricci impedivano loro di scivolar via. Un gatto, candido come la neve e con una macchia nera sul muso, comparve alle sue spalle e la superò girandole intorno. Con la coda dritta iniziò a strusciarsi alle gambe, e miagolando dolcemente tirava su il musetto per guardarla. «Oh! Povero micino, scommetto che senti freddo anche tu» disse prendendolo in braccio. La bestiola, per tutta risposta, le leccò il naso. «Va bene, va bene, non fare il lecchino, ti porterò con me in ufficio così ti scalderai. Anche se preferisco i gatti neri, sia ben inteso.» Appena aprì la porta del suo alloggio, il gatto le sgusciò dalle braccia e corse a saltar sulla poltrona. Con le zampe anteriori tirò giù il cuscino appoggiato allo schienale e vi si accucciò, non prima, però, di aver fatto due giri completi su se stesso. «Vedo che ti sei messo a tuo agio. Non potevi scegliere di meglio, ma ricordati che puoi usare la poltrona finché non la vorrò io. Domani ti troverò una cesta, e il cuscino, se ti piace tanto, lo potrai tenere.» «Miao» replicò il gatto. «Ecco, vedo che collabori. Forse andremo d’accordo. Un po’ di latte tiepido?» e fece comparire una ciottola vicino la poltrona; il gatto però non sembrò gradire particolarmente, dopo due leccate si riassestò sul cuscino. «Va be’, fai come ti pare. Io mi servo una bella cioccolata calda.»
Sperò che il gatto non costituisse una distrazione, aveva ancora parecchio da fare. Nel suo studio, sostituì quelle candele che si erano consumate e andò a svuotare il cestino della carta semplicemente gettandola fuori dalla finestra. Era il sistema
più sbrigativo e romantico: di volta in volta, magari anche in base al suo umore, decideva in cosa le pallottole di carta si sarebbero trasformate. Si poteva perciò assistere a un volo di bianche colombe, a un batter d’ali di cento farfalle colorate, a una cascata di fiocchi di neve in Afusvertum – la stagione calda – eccetera. Stavolta, scelse uno sfarfallio di petali di rose rosse, forse per il netto contrasto con la coltre bianca che ricopriva la strada. Le piaceva talmente svuotare il cestino, che alcuni studenti malignavano che cestinasse di proposito un numero esagerato di richieste d’ammissione. Riprese dunque il lavoro. Intervallati da pallottole di carta che fecero canestro, tra i tanti ragazzi, ebbe dei buoni risultati anche con Karmis Horvath, (1° Mitigo, Fuoco, S, 6g/QI) e Ursula Iovene (40° Dulcis, Terra, B, 6g/QI). Con Sofia Arman (45° Primulo, Aria, 7g/QI) e Argon Zorel (28° Tremulo, Fuoco, L, 7g QI). Quando le mancavano sì e no una dozzina di lettere, avvertì l’energia del suo pendolo esaurirsi, quindi dovette interrompere il lavoro di selezione ed eseguire il rituale di ricaricamento delle energie radianti del pendolo per ristabilire e controllare le energie vibratorie. Era ormai tardi e decise di andare a letto, lasciando il pendolo a ricaricarsi per tutta la notte. «Buonanotte, micio. Domani vedrò di sceglierti un nome, sei contento?» «Miaaaooo» il gatto miagolò come se gli avessero pestato la coda, poi soffiò e si girò col muso verso lo schienale. «Gatto scorbutico! Avrei dovuto lasciarti al freddo.» Lucilla si svegliò più volte durante il sonno e ogni volta che si riaddormentava faceva lo stesso sogno: una voce lontana e sottile, che sembrava uscire dal suo pendolo, la chiamava e la incitava a riprendere il suo lavoro, mentre mappe e tappetini divinatori danzavano vorticosamente intorno alla stanza. Un sibilo proveniente dall’esterno si avvicinava e il suono diveniva sempre più acuto. D’improvviso, uno stormo di pendoli egizi, sferici e piramidali, irrompeva nella stanza spaccando i vetri delle finestre. Il vento stormiva le foglie dei boschi vicini e penetrava ululando dalle finestre rotte, facendo sventolare alti i pesanti tendaggi e spegnendo le candele. Dopodiché, i pendoli, illuminati soltanto dalla luna piena, eseguivano un’impennata in formazione aerea, puntando poi in picchiata verso di lei e arrestandosi a pochi centimetri dal suo naso; quindi
ondeggiavano lievemente come se la stessero osservando, e poi iniziavano lentamente a roteare, aumentando man mano la velocità del moto, intanto, dal suo pendolo in pietra avventurina, continuava a echeggiare il solito richiamo. A questo punto, Lucilla si svegliava ansimando. L’ultima volta, decise di andare a controllare il pendolo che stava ricaricandosi. Sembrava tutto a posto, ma quando lo aprì, si accorse di aver lasciato dentro il testimone. Si trattava della foto di un ragazzo. L’aveva inserita prima di sospendere il lavoro, ma di quel ragazzo non ne ricordava il nome. Posò la foto sul tavolo. La tenne lontano dal pendolo, senza un motivo preciso, forse per precauzione, non se lo seppe spiegare. Caso volle che questa volta, tornata a letto, riuscisse a dormire fino al mattino. Il gatto, con un occhio socchiuso l’aveva guardata tornare a letto e quando la vide girarsi su un fianco, dandogli le spalle, decise di andare a dare una sbirciatina sul tavolo. Al risveglio, Lucilla sapeva che quella sarebbe stata una giornata fuori dal comune. Il sogno premonitore ne era il segnale. Non vedeva l’ora di rimettersi al lavoro; il pendolo era carico d’energia e Lucilla si attendeva da esso grandi rivelazioni. Si lavò, si vestì nel suo inconfondibile stile e scese a far colazione nel Salone Ovest. Qualsiasi novità il pendolo avesse in serbo, poteva aspettare ancora un pochino. Lucilla non avrebbe mai mosso un dito prima di una sostanziosa colazione. Fatto anche lei il pieno d’energia come il suo pendolo, tornò nel suo ufficio, ansiosa di riprendere il lavoro da dove lo aveva lasciato. «Giù di là» gridò non appena aprì la porta. Il gatto stava rovistando tra le richieste già selezionate, ma senza mettere disordine. «Non salire mai più sulla scrivania, capito? Qui non si tocca niente, se hai voglia di giocare...» diede una rapida occhiata in giro senza trovare alcun oggetto da potergli offrire, «Santa pazienza! Va bene, prendi questo, e questo, e questo. Soddisfatto?» Sul pavimento era apparso un gomitolo di lana, un topolino e una pallina gialla con spirali rosse. Poi, però, fu lei a saltare sulla scrivania con uno strillo stridulo: il topo era vero, ossia vivo, e lei ne aveva una paura matta. Lo tramutò in un gioco animato a carica. Lucilla disdegnava chiunque e qualunque cosa s’intromettesse tra lei e il suo tempo prezioso. Stava già pensando di sbarazzarsi dell’animale, quando la sua vocina interna, che era identica alla sua voce per timbro e suono, intervenne con solerzia a sgridarla, come sempre. Lucilla vide che la scodella di latte che gli aveva parato il giorno prima era ancora lì, così pensò che probabilmente avesse fame e stava solo cercando del cibo. Gli preparò dei
croccantini di pesce e una mousse di prosciutto. La bestiola spizzicò un po’ in una ciotola e un po’ nell’altra, poi si sedette a fissarla. «Che c’è, questo è un pranzo da signori, perché non mangi?» chiese con indispettito stupore. «Fa’ come credi, dopotutto non mi sembri affatto deperito, anzi. Credo che tu abbia qualche accordo privilegiato con Trudstel e Dortel.» Lucilla scrollò le spalle e lasciò stare il gatto. Ricreò l’ambiente. Andò nel suo alloggio, intercomunicante con l’ufficio, e prese il suo pendolo, ormai carico. Introdusse il testimone, la foto dell’anonimo ragazzo lasciata sul tavolo. Chi era dunque l’inquietante animatore dei suoi sogni? Lo scoprì subito. Il ragazzo dai biondi capelli con la frangia sparpagliata sulla fronte e dai profondi occhi scuri, si chiamava Tommaso Cibei. Era nato il 52° Arsuria, alle ore ventisette e settantanove minuti. Lucilla non fece in tempo ad avvicinare il pendolo alla mappa che questo iniziò a muoversi descrivendo inconsuetamente circonferenze, più ampie del normale. Compì ben otto giri sulla casella dello scientifico. «Perbacco!» esclamò Lucilla. Poi il pendolo girò velocemente sia sul simbolo elementale dell’Aria sia su quello del Fuoco. Lucilla non riuscì a credere ai suoi occhi e ripeté l’operazione, ma il pendolo diede lo stesso responso. «Ehi ragazzo, che storia è questa! Nessuno ha due poteri» protestò Lucilla. Prese il pendolo e l’osservò attentamente rigirandolo nelle mani, ma non c’era niente che non andasse. Nessuna scheggiatura o crepatura. Non sapeva cosa fare né tantomeno cosa annotare sulla scheda, comunque non ebbe neppure il tempo di pensare a una soluzione perché improvvisamente il pendolo impazzì. Iniziò a vibrare in modo sussultorio; poi, infischiandosene delle leggi della fisica, si dispose orizzontalmente puntando una parete della stanza. Lucilla, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, stava ancora tenendo in mano la catenella cui era appeso il pendolo. Girò la testa, dove indicava il vertice dell’oggetto appuntito. Sulla parete in questione era appesa una cartina topografica dell’intera proprietà del San Gregorio, incollata su un pannello di un materiale simile al polistirolo. Il pendolo iniziò a muoversi come se stesse cercando qualcosa, poi d’improvviso si arrestò. Iniziò ad avvicinarsi alla cartina; Lucilla tentò di trattenerlo per la catenella, ma il pendolo aveva la forza di un mastino e si tirò dietro Lucilla che non mollava la presa e che riuscì a fatica ad aggirare la scrivania. Andò deciso verso il punto in cui era indicata la casa di Casimiro e lo centrò in pieno, bucò la
carta e rimase infilzato nel floxpan. Lucilla rimase impalata e l’unica cosa che riuscì a fare, a quel punto, fu di lasciare la catenella. Inutile dire che una cosa del genere non le era mai capitata prima. Quando si riprese corse a chiamare la direttrice. Anche il gatto corse via veloce gnaulando, come gettatosi all’inseguimento di un topo. «Signora Gramegna! Signora Gramegna!» chiamò Lucilla a gran voce bussando forte con entrambi i pugni sulla porta della direzione. Cassandra Ballard Gramegna rischiò di beccarsi un pugno in faccia quando andò ad aprire la porta. Lucilla era talmente agitata che non si accorse di percuotere l’aria. «Lucilla, ma che modi!» esordì la direttrice. «Che diamine ti è successo? Non ti ho mai vista in questo stato. Suvvia, fai un bel respiro profondo e raccontami tutto con calma» continuò, indicandole di entrare con un cenno di mano. Mentre la direttrice parlava, Lucilla aveva continuato a scuotere il capo e indicare ripetutamente con l’indice il suo ufficio. «No, no, non qui… di là, di là… deve venire di là… è impazzito…» «Impazzito! Chi?» chiese confusa la direttrice. «Venga, venga a vedere» disse Lucilla tirandosela dietro fino in segreteria. «Guardi cosa sta facendo» fece Lucilla indicando la cartina. «Chi?» chiese la direttrice aprendo le braccia e tirando su le spalle; non vedeva nessuno in quella stanza. «Il pendolo! Lì, sulla cartina. Si è infilzato a casa di Ovibus» spiegò la ragazza. La Gramegna s’infilò gli occhiali che teneva appesi al collo e si avvicinò alla parete. «Per tutti i pendoli!» esclamò. «Oh, Dea dell’Universo! Finalmente li abbiamo trovati!» «Questo è raro, molto raro! Non capisci Lucilla? Il pendolo sta cercando il suo
gemello» spiegò. «Il gemello del mio pendolo?» chiese sbigottita Lucilla, che non capì una sola parola della direttrice. Credette fosse impazzita alla pari del pendolo. «Certo che no!» «Oh, perbacco! Stiamo parlando dei gemelli della Profezia!?» «Esatto, il pendolo sta cercando il gemello elementale del testimone. È scritto che questa è una delle virtù del pendolo. Lo si studia sui libri, ma anche per me è la prima volta...» si sedette per l’emozione, ma un secondo dopo il suo viso s’incupì. «Che le succede, a cosa sta pensando?» «Niente» si riprese. «Presto, prendi l’almanacco. Guarda quando c’è stato l’allineamento in quartis.» La ragazza lo prese e iniziò a sfogliarlo all’indietro cercando l’anno di nascita del ragazzo. «Piuttosto dimmi, chi c’è lì dentro?» chiese la direttrice indicando col capo il pendolo. «Un ragazzo, Tommaso Cibei, che ora ha trovato il suo gemello in Casimiro» disse con una smorfia. «Non scherzare, Lucilla. È una cosa molto seria e importante.» l’ammonì Cassandra alzandosi di scatto, scura in viso. «D’accordo. Però, chiunque sia, si sta nascondendo a casa di Ovibus, altrimenti il mio pendolo ha fatto cilecca e questo non lo potrei sopportare» protestò Lucilla. Cassandra la percepì come in lontananza. Si era accostata a una finestra; spostata la tenda, i suoi occhi fissarono di là dei vetri ma non videro ciò che era fuori, stavano guardando nei ricordi che la mente rielaborava. Per brevi istanti, furono prima quelli più cupi e lontani, poi apparvero quelli attinenti il caso.
“Com’è possibile? No, non è possibile! Abbiamo controllato bene”, rifletté. Poi volle tutte le informazioni disponibili sul ragazzo. «Prendimi la scheda di Tommaso, per favore.» «Una cosa alla volta, per favore» ribadì l’ultima parola. «Va bene, tu prendi la scheda e io cerco sul calendario» propose Cassandra seria e infastidita. Lucilla capì che qualcosa non andava; scrisse l’ultimo dato, che non era riuscita a scrivere a causa del bizzarro comportamento del pendolo, e diede la scheda alla direttrice. Aveva annotato entrambi gli elementi, ora gli era chiaro perché quel ragazzo avesse due poteri. «Dunque vediamo… Tommaso Cibei… i suoi due elementi sono Aria e Fuoco, perciò quelli del suo gemello devono essere Acqua e Terra. È nato il 52° Arsuria, alle ore ventisette e settantanove minuti. Ed ecco qui, vedi?» disse puntando il dito sul calendario, «coincide con l’allineamento delle lune Lylienit e Theary. Non ci sono dubbi: la profezia si è ripresentata...» il suo sguardo si assentò per qualche secondo, «Vediamo che altro ci dice la scheda» riprese prontamente, ma quegli attimi fuggenti non arono inosservati agli occhi di Lucilla, «Ecco, otto giri sull’indirizzo scientifico-astronomico. Ottimo direi.» «Tuttavia, tornando sulla questione più importante, io credo che non incontrerà mai il suo gemello, c’è un’alta probabilità che...» il suo accorto argomentare fu interrotto da qualcuno che bussò alla porta già aperta. Allo stesso istante il pendolo di Lucilla riprese a vibrare e la punta iniziò a girare come il filetto di una vite che esce dall’incavo generato prima col movimento opposto. «Chi è?» chiese Lucilla, infastidita dall’interruzione. «Sono io, signorina Angeloro» rispose Casimiro cacciando dentro la testa. «Ne è arrivata un’altra, il postino me l’ha consegnata poco fa» aggiunse sventolando una busta blu. «Entri, entri pure.» Non appena Ovibus mise piede dentro la stanza, il pendolo riuscì a svitarsi dal suo sito e puntò contro di lui. Il poverino indietreggiò goffamente con le braccia
alzate a mo’ di resa e si fermò con le spalle contro la parete del corridoio. Il pendolo, che sapeva il fatto suo, avanzò deciso verso la mano destra di Casimiro bloccando al muro la busta che l’uomo teneva in alto; questa volta lo fece con delicatezza, come se sapesse che un forte impatto gli sarebbe stato fatale. «Eccolo il gemello!» esclamò Cassandra Ballard Gramegna. Lucilla prese la catenella e tirò il pendolo per liberare la busta, ma non ci riuscì. Provò allora con due mani, ma niente da fare. Se la prese allora con Tommaso: «Eh no, adesso basta, giovanotto, molla il mio pendolo!» Aprì l’alloggio e tolse il testimone. Il pendolo ricadde lungo la catenella e tornò a essere un oggetto inanimato. Casimiro era ancora attaccato alla parete, nella stessa posizione, e la direttrice dovette allungarsi in punta di piedi per riuscire a strappargli la busta di mano. Lucilla e Cassandra tornarono dentro la segreteria per scoprire l’ identità del secondo gemello, mentre Casimiro, spaesato, rimase sull’ uscio. Le buste blu contenevano le richieste d’ammissione degli ereditari, ossia figli di maghi e sensitivi da più generazioni, ma da parte di un solo genitore. Riguardavano cioè i figli nati da un originario del Mondo di Sopra e da un terrestre. La direttrice, perplessa, sbatteva la busta sul palmo della mano. «Be’, non l’apre?» chiese curiosa Lucilla. «È assurdo» rispose l’altra sventolandogli la busta a pochi centimetri dal viso, «Una busta blu. Non è possibile che il gemello sia del Mondo di Sotto. L’allineamento riguarda solo il nostro Mondo, è qui che si compie la profezia. Loro hanno il loro Sole, la loro Luna… è illogico...» «Se non l’apriamo non lo sapremo mai. Forse il pendolo si è sbagliato.» Come aveva fatto a mettere in discussione, ancora una volta, la perizia del suo oggetto? «Non esiste un pendolo che sbaglia, nemmeno quando è scarico, al più si ferma.» «È una ragazza» commentò la direttrice porgendo la foto alla giovane donna. Lei la inserì nell’alloggio del testimone e iniziò l’esame divinatorio. Inoltre lesse nella lettera la data di nascita che era già stata tradotta dalla ragazza nel loro
calendario.» Si guardarono sbalordite, il responso non lasciava dubbi: il gemello di Tommaso era una ragazza dagli scintillanti occhi verdi e dai lunghi e ricci capelli rossi. Il suo nome era Matilde Mangrella, (52° Arsuria, Acqua, Terra, C, 8g./QI).
Prima di tornare alle sue incombenze, la direttrice intimò a Lucilla e Casimiro di essere due tombe. Nessun altro doveva sapere. Confusa e turbata tornò nel suo ufficio chiedendo di non essere disturbata. In quel trambusto, Lucilla si era quasi dimenticata che aveva ancora una decina di richieste da esaminare, così si accinse a terminare il suo lavoro. Trovò ancora un paio di ragazzi dotati. Mentre lavorava, le tornarono sovente alla mente gli sguardi assenti e le pause silenziose della direttrice. Era ovvio che qualcosa la turbasse, ma non aveva avuto il coraggio di chiederglielo. No, non è vero, ci aveva tentato, ma l’altra aveva eluso la domanda, perciò lei non aveva insistito. Diciamo non in quel momento: l’ostinata Lucilla intendeva scoprirlo appena possibile. Di certo non avrebbe infastidito ulteriormente la direttrice, per cui pensava di rivolgersi a un anziano del College, nella fattispecie Ezechiele Alavard. Di lui sapeva che era buon amico della Gramegna già dai tempi della scuola. Era di due anni più vecchio di lei ed entrambi avevano scelto, dopo l’Alto Congedo, di restare al San Gregorio. Una vita ata insieme: egli doveva pur custodire i segreti e le angosce di una cara amica. Mise un attimo a freno la sua curiosità. Al momento opportuno si sarebbe recata da Ezechiele, magari con la scusa di chiarire personalmente la questione del sentiero rosso, e avrebbe poi sviato il discorso su ciò che le interessava. Però adesso non aveva tempo. Il lavoro di selezione era ultimato. Aveva scartato centotrentanove candidati ai quali avrebbe restituito le tre foto tessere in allegato alla solita lettera di diniego prestampata; e ora un tappeto di petali rossi ricopriva il viale sotto la finestra del suo ufficio. Dei duecentosettantacinque prescelti, invece, centonovantadue erano i discendenti e ottantatré gli ereditari. Lucilla prese tutto l’incartamento e lo pose dentro un cassetto sul cui frontalino
era avvitata una targhetta d’ottone con la scritta “Piano di sotto”. Il carteggio scomparve e ricomparve nel cassetto della scrivania della signora Clapiz, che fu avvisata di ciò da uno scamlio. La signora Clapiz, l’impiegata del piano di sotto, aveva, tra le varie mansioni, anche quella di imbustare e spedire le lettere di conferma d’ammissione, e quelle di rifiuto. La donna, aveva cacciato la testa fuori dalla finestra e aveva annusato l’aria, il tempo stava per cambiare. Decise categoricamente che non sarebbe uscita, certa del pronostico sulle condizioni atmosferiche avverse, e avrebbe aspettato l’indomani per inviare le lettere. Ma c’era invece chi, con un pensiero fisso in testa, non si curò per nulla di uscire mentre era in arrivo una tempesta di neve.
Capitolo 9
Ombre del ato
Persino Biancospino, con le orecchie tese in avanti e il muso alzato, aveva scrutato l’aria e si era rifiutato di uscire dalla stalla. Lucilla provò a usare il potere del suo elemento, ma era troppo stanca per compiere una traslazione distante, così prese il fuoristrada di servizio e si diresse a casa di Ezechiele, un piccolo cottage vicino al capanno degli attrezzi. Dal veicolo non si vedeva altro che una miriade di grossi fiocchi bianchi bersagliare il parabrezza, tuttavia Lucilla sembrava non preoccuparsene. Era certa che sarebbe arrivata prima della tormenta, per il ritorno avrebbe pensato poi. La visibilità si faceva sempre più ridotta e lei procedeva più che altro a memoria e acuendo i sensi. Era costretta ad avanzare come una tartaruga e le sembrò di non arrivare mai. D’un tratto percepì la presenza di Ovibus, ma non riuscì a localizzarlo. Le folate di vento, cariche di neve, interferivano con la sua mente. Finalmente scorse le luci del cottage e quando fu vicina, apparve anche lo spazzaneve, fermo a lato della strada. Scese dall’auto e s’incamminò lungo il vialetto pensando se avesse o no intrapreso la conversazione in presenza di Ovibus.
Ezechiele non le lasciò il tempo di bussare: le aveva già aperto la porta e teneva in mano una bottiglia di vino. «Salve, signorina Angeloro. La stavamo aspettando.» La invitò a entrare. «Davvero?» fece lei varcando la soglia con circospezione. «Proprio così. Guardi, lì c’è l’attaccapanni, appenda pure la sua mantella e si accomodi. Ah! Giacché si tratterrà a cena, mi dica, con la cacciagione preferisce un Sagrantino di Montefalco oppure un Guardia Sanframondi?» «Cosa?» «Il vino... quale preferisce? Se per lei fa lo stesso, io sceglierei il Sagrantino.» «Non capisco, voi mi stavate aspettando per cena? Vi ringrazio per l’invito, ma non sono qui per questo. Non so di che strumento divinatorio abbiate fatto uso, quel che è certo è che lo avete usato male» rispose beffandosi di loro.
«Invece sappiamo benissimo perché è qui» intervenne Ovibus. «Hai sentito bene anche tu, Casimiro? Sbaglio o la ragazza ci ha dato degli incompetenti? Una volta i giovani avevano maggior rispetto per i maghi più anziani. Li consideravano depositari di saggezza e luminari nelle arti magiche e divinatorie. Oggi, invece, sono impertinenti e pensano di saper tutto loro» disse Alavard. «Sono d’accordo, però mi dissocio dalla categoria degli anziani, se permetti. Dopotutto, ho appena compiuto quarantacinque anni» ribadì Casimiro, che non ci teneva per niente a considerarsi coetaneo di Ezechiele. Intanto Lucilla storceva il naso e pensava che forse avrebbe fatto meglio a consultare qualche runa prima di uscire dall’edificio scolastico. Pensò che avesse scelto il momento sbagliato per quella visita. Decise quindi di andarsene. «Scusate se sono piombata qui senza preavviso. A quanto pare avevate organizzato una cena tra colleghi ed io sono arrivata a guastarvi la serata.» «Ezechiele, avrei bisogno di parlarle, va bene per lei se tornassi domani?» chiese. «Non penserà davvero che la lasci andar via con questo tempo?» «Perché no. Il vento si è calmato e ho ancora un buon quarto d’ora di luce. È più che sufficiente, anche considerando che dovrò andare molto piano. Ci vedremo domani.» Indossò la mantella e salutandoli uscì da quella casa. Alavard e Ovibus si guardarono con un sorrisetto d’intesa. Lucilla vide un ammasso di neve che aveva la forma di un fuoristrada. Iniziò a togliere la neve con le mani, liberò prima il parabrezza, poi la portiera del guidatore ed entrò nell’abitacolo, ma quando provò a mettere in moto, non successe nulla. Tirò ancora la levetta d’accensione, il motorino d’avviamento gracchiava a vuoto e si zittiva con un soffoco. La batteria aveva ceduto di punto in bianco, eppure era certa che avesse ancora un buon quarto di autonomia. Vatti a fidare di questi strani mezzi di trasporto. Lucilla, avvilita, scese dalla macchina e sbatté forte la portiera. Sconsolata tornò a bussare alla porta di Alavard. «Entri è aperto» disse questi cortesemente.
«Non parte» fu tutto quello che riuscì a dire Lucilla indicando fuori con la mano. «Glielo avevo detto che si sarebbe fermata a cena. Come vede ho saputo usare il mio strumento. Ehm... Ehm» Ezechiele si schiarì la voce imbarazzato perché la sua ultima frase gli sembrò alquanto equivoca e andò subito a prendere la sua sfera di cristallo. «Questa, voglio dire», disse mettendola in piena mostra, «L’ho acquistata l’altro ieri. Ho fatto un salto giù. Che ve ne pare, bella eh? Purissimo cristallo di Murano; è il migliore: visioni nitidissime. La stavo mostrando a Casimiro e l’abbiamo provata. Indovini cosa vi abbiamo visto?» chiese Ezechiele. «Lei nel mezzo di una tempesta di neve, diretta qui» rispose al suo posto Ovibus. «Proprio il momento migliore per andarsene in giro! Dopotutto, c’era d’aspettarselo da un’impulsiva come lei. Non poteva usare il suo potere?» Si rese conto di averla rimproverata ancora, sembrava che ultimamente non riuscisse a fare altro. «Sono troppo stanca per viaggiare senza mezzi. E poi... non potevo più aspettare» disse seria Lucilla. Aveva ancora in dosso la mantella e si appoggiò con le mani allo schienale della poltrona. «Sappiamo che è preoccupata per Cassandra. Posi la mantella e si metta comodamente seduta; è una lunga storia quella che vuol sapere da me. Casimiro già la conosce e mi aiuterà casomai la memoria m’ingannasse.» disse Alavard alludendo ai suoi settantasette anni. Ovibus annuì. Lucilla fece come le aveva detto Alavard. Poi prese per prima la parola. «Mi piace il mio lavoro. Lo svolgo sempre con dedizione e non lascio che la vita privata interferisca con esso. Questa volta confesso di aver lavorato con la testa fra le nuvole. Per fortuna il lavoro più meticoloso e di concentrazione, mi riferisco alla selezione, lo avevo quasi del tutto terminato prima del…» s’interruppe ricordando la promessa fatta alla direttrice. «Non si fermi, continui pure… Prima della funzione Trova Gemello, stava per dire» disse quindi Casimiro. Lucilla gli lanciò un’occhiataccia. Come aveva osato spifferare tutto a Ezechiele.
«Non gli ho detto nulla, lo sapeva già. È stata la Gramegna a informarlo di tutto» si discolpò. «Ah! Bene, dovevo immaginarlo. Lei e la direttrice siete ottimi amici. Per questo sono qui, vorrei capire come aiutare Cassandra – era la prima volta che la chiamava per nome – anche io tengo molto a lei. Sapete bene tutto quello che ha fatto per me. Quando sono rimasta orfana, non so cosa ne sarebbe stato di me se non ci fosse stata lei. Mi ha preso con sé, e il College è diventato la mia casa. Mi ha fatto ultimare gli studi e mi ha permesso di restare a lavorare qui. Per me è come una madre, perciò vorrei tanto sapere cosa la turba» concluse. «Cara Lucilla, dobbiamo fare un balzo indietro di almeno un centinaio d’anni» guardò Casimiro in cerca di conferma. «Sì, sì, almeno centoventi» asserì il custode. «Orbene, almeno centoventi anni fa, quando Alyssa Aster, allora dodicenne, arrivò qua al San Gregorio. Era una ragazzina timida, ma sapeva il fatto suo: al momento opportuno sapeva tirare fuori le unghie. I suoi poteri erano quelli della Terra e del Fuoco, e con otto giri di quoziente intellettivo. L’intesa col ragazzo Acqua-Aria fu imminente. Lui era…» s’interruppe; si guardò intorno con circospezione, poi disse sottovoce «Bruto Nerasmo, il suo gemello.» «Cosa?» strillò Lucilla, ma poi abbassò subito il tono «Vuole dire quel Bruto Nerasmo?» «Perché ne ha conosciuti altri?» «No, ma cosa ha a che fare con Cassandra?» «Glielo dirò subito, se mi promette di non interrompermi ogni momento.» «La vedo dura» commentò Casimiro. Lucilla gli lanciò un’occhiataccia. Ezechiele si alzò e andò ai fornelli. Lucilla gli fece notare che non era quello il momento di preoccuparsi della cena perché lei stava aspettando di sentire il resto della storia. Alavard la rassicurò che la cena stava crogiolando nel camino per i fatti suoi. Quel nome gli aveva fatto venire improvvisamente tanto freddo, così aveva pensato di mettere a bollire l’acqua per preparare un buon tè. Sorseggiando la calda bevanda, la storia sarebbe stata meno agghiacciante.
Tornò a sedersi nel salotto e fissò la ragazza negli occhi per qualche istante, poi emise un profondo sospiro e riprese il racconto rivelandole il ato che inquietava Cassandra. «Bene, Alyssa Aster era la bisnonna di Cassandra.» Lucilla rimase a bocca aperta e, forse per la prima volta in vita sua, le mancarono le parole. A Ezechiele non rimase che continuare a esporre i pochi fatti conosciuti. «Dunque, i primi anni trascorsero tranquilli. Fra i due c’era una grande intesa. I loro poteri si accrebbero e loro facoltà sensoriali si svilupparono incredibilmente. Unendo le loro mani univano le loro menti, i loro poteri e i loro sensi. Insieme hanno fatto grandi cose, ammirati e invidiati da tutta la scuola. Le loro gesta erano spunto per approfondimenti e verifiche scolastiche. All’Ateneo li avevano soprannominati l’Ambo Vincente. Col tempo il loro legame si era trasformato in qualcosa di più forte di una semplice e inevitabile attrazione astrale. E tutto andò bene sino al fatidico giorno in cui Bruto, per bramosia di potere, decise di cambiare strada. Alyssa non seppe mai se il cambiamento di Bruto fu meditato o se la sua mente fu, in qualche modo, fuorviata da quell’essere diabolico. Quest’ultima motivazione sembrò ad Alyssa, e ai loro tre più intimi amici, la meno probabile. Bruto era ormai un mago completo, in grado di non farsi incantare neppure da un druido del calibro di Haltheyvan. Lo incontrò in uno dei suoi viaggi nel Paese Perpetuo…» Il fischio della teiera annunciò che l’acqua era in ebollizione. Casimiro si offerse di andare a preparare il tè, per lasciare che Ezechiele continuasse il racconto. Conosceva quella casa come fosse la sua ed entro breve tornò con un vassoio e tre tazze fumanti. «Andava spesso in quel paese, dove il tempo non ha inizio e non ha fine, al confine più remoto del sentiero rosso. Il Paese dove chi entra può visitare ogni epoca ata e far ritorno, ma le anime traate che vi dimorano non lo possono abbandonare. In una di queste epoche, nel borgo più frequentato di quel luogo, maga Priscilla Polf aveva aperto un erbario…» «La Bottega dei Mille Ingredienti, giusto?» Intervenne prontamente Lucilla. «Ne ho sentito parlare, so che tanto tempo fa erano in molti ad andarci. È un peccato che abbiamo dovuto cedere la zona rossa a quelli. Un giretto me lo sarei
fatto volentieri.» lo interruppe nuovamente, ma Ezechiele sorvolò la sua polemica. «Anche Haltheyvan si riforniva in quella bottega e lì s’incontrarono. In quell’epoca i druidi, oltre ad essere dei valenti maghi, erano anche considerati i saggi depositari delle conoscenze astronomiche e il loro potere era superiore a quello degli altri maghi. Haltheyvan conosceva il suo destino: non aveva ancora molto da vivere. Fece di Bruto il suo discepolo con la promessa che in punto di morte avrebbe trasferito in lui i suoi poteri. C’era dell’altro: gli disse di essere in possesso di un vecchissimo Libro delle Ombre, la più fantastica e completa raccolta incantatoria esistente al mondo. Vi era addirittura una formula magica per appropriarsi dei poteri del proprio gemello. Bruto aveva però un difetto: parlava nel sonno. Eccome se parlava! La mattina non ricordava assolutamente nulla. All’epoca il suo compagno di stanza era uno dei loro tre inseparabili amici, un certo Obihen. Nei racconti di Alyssa questo è descritto come una fortuita circostanza propizia.» «Già, un problema di sonno» intervenne Casimiro. «Vedi, Obihen aveva il sonno molto leggero ed era in stanza con un tizio che russava tutta la notte. Dal canto suo, Bruto aveva un compagno di stanza con un sonno talmente profondo che non lo svegliavano nemmeno le cannonate. Così chiesero al direttore di poter far cambio di stanza. Obihen ignorava che l’amico, col quale non gli era mai capitato di dover are una notte, fosse un chiacchierone, ma perlomeno i suoi discorsi non duravano tutta la nottata.» «Giusto. Dopotutto erano grandi amici, e se il difetto è di un amico, si è più disposti a sopportarlo» riprese la parola Ezechiele. «Comunque, non appena capì chi fosse diventato Bruto e cosa stava tramando andò subito a riferirlo ad Alyssa. Lei sulle prime si rifiutò di credergli, ma subito dopo confessò all’amico che da qualche giorno la schivava e che per tre sere non si era visto a cena, inoltre sentiva debole, e a volte assente, il richiamo gemellare, come quando si esercita la funzione scudo per non farsi percepire dall’altro. Non sapevano cosa fare, se avvertire il direttore o direttamente il Consiglio Dei Cinque. Non fecero né l’una né l’altra cosa. Avevano bisogno di prove. Non potevano essere sicuri che non si trattasse semplicemente di sogni, inoltre Alyssa aveva troppo a cuore Bruto e, anche se avesse scoperto che era vero, sarebbe stata disposta a tutto pur di riuscire a riportarlo sulla retta via. Così lo affrontarono apertamente, mettendolo al corrente delle sue confessioni oniriche e della loro incredulità e rifiuto di
accettare una simile realtà. Non da lui. Non potevamo credere che il loro amico si convertisse al male. Egli si approfittò del loro scetticismo per convincerli che avevamo travisato le cose: si trattava solo di un sogno ricorrente; non era mai stato realmente in quell’erbario né tanto meno esisteva quell’Haltheyvan. Gli credettero, dopotutto i sogni sono talvolta così fantasiosi e dettagliati che non avevano motivo di dubitare oltre. Da quel momento Bruto riprese a frequentarli assiduamente per qualche quartina, anche se la sera era spesso irreperibile. Non tornarono più sull’argomento, finché un giorno, di punto in bianco, Bruto disse a loro che Haltheyvan esisteva, in effetti; si era improvvisamente ricordato di aver letto di lui in un libro della biblioteca, quindi era probabile che il suo sogno fosse scaturito da nozioni archiviate in un angolo remoto del suo cervello. In più, incuriosito da questa scoperta, aveva fatto un sopralluogo all’erbario di maga Priscilla, ma non lo aveva detto a nessuno perché era geloso della qualità delle erbe che vi aveva trovato, con l’uso delle quali le sue pozioni acquisivano proprietà superiori.» «Scusa non richiesta, colpa manifesta!» commentò Casimiro. «Proprio così. Ebbene, i sospetti riaffiorarono alle loro menti. Decisero di fare delle ricerche e di tener d’occhio Bruto. In biblioteca trovarono il libro che palava del druido, della sua potenza e della sua competenza in erboristeria, ma nessun accenno al luogo di approvvigionamento delle erbe; si trattava di una breve postilla nel contesto di un altro argomento. Pure Bruto, che millantava il suo negozio delle erbe, grazie alle quali le sue pozioni erano quelle che riuscivano meglio, non disse mai ai suoi amici in quale anno vi si recasse, con la scusa di non voler divulgare il periodo di quell’eccezionale raccolto. Quindi iniziarono a sfogliare svariati libri di erbologia, e in uno trovarono un elenco dei più rinomati erbari della storia. Non trovarono nessuna Bottega dei Mille Ingredienti, ma tra il 1185 e 1260 era in attività una bottega che sembrava fare al caso loro, si chiamava più semplicemente Bottega degli Ingredienti. Alyssa e Obihen decisero di farci un salto.» «Ma hanno violato il patto!» Esclamò Lucilla. «Non è permesso andare in un tempo antecedente a quello fissato nella Convenzione Tempo-Dimensionale.» Casimiro di tanto in tanto andava a controllare il paiolo nel camino; era più interessato alla cena che alla storia che già conosceva e che suo padre gli aveva raccontato tante di quelle volte. Il vecchio Ovibus aveva problemi con la memoria a breve tempo, ma conservava un eccellente ricordo dei fatti più
remoti. Durante le visite del figlio se ne usciva sempre con: “Te l’ho mai raccontata la storia dei gemelli?”. Casimiro rispondeva generalmente di sì, ma a volte lascia che il padre gliela raccontasse ancora una volta. Lucilla, invece, era tutt’orecchi e pendeva dalle labbra di Ezechiele. «A quei tempi non esisteva ancora la Convenzione, infatti fu proprio a seguito della vicenda di Bruto che si ritenne opportuno stipularla. Si diede per scontato che il druido avesse scelto quel periodo come sua ultima dimora e che, con grande probabilità, anche Bruto l’avrebbe scelta quanto sarebbe arrivata la sua ora.» «Dunque, dicevo, decisero di farci un salto, però avevano bisogno una data precisa per individuare Bruto. Convennero che l’unica soluzione fosse di seguirlo. Presero tutte le precauzioni, dalla funzione scudo, al filtro d’invisibilità, per potersi avvicinare il più possibile. Dopo aver scoperto la data, decisero di farvi un salto e aspettare l’arrivo di Bruto. Alyssa pensò bene di documentarsi sui costumi di quell’epoca, ovviamente non potevano giungere in quel periodo nei loro panni, se volevano confondersi con gli abitanti d’allora. Trovarono i vestiti adatti in un negozio di costumi teatrali. Non fu facile, così conciati, giungere inosservati al vecchio Portale dell’Eternità; era la prima volta che andavano così indietro nel tempo. Sbucarono da un muro in un breve vicolo cieco. Dall’altro lato della strada c’era un uomo seduto per terra con una bottiglia vuota, era talmente ubriaco che, sia per i fumi dell’alcool che alteravano i suoi sensi sia per la completa oscurità, essi non si preoccuparono di ciò che forse non aveva visto. Trovarono una città completamente diversa. Sulle prime rimasero immobili, non sapevano da che parte prendere e soprattutto avevano paura di smarrire l’uscita del portale. Fotografarono mentalmente il posto e iniziarono a percorrere una stradina molto stretta. A quanto pare nemmeno Bruto si era mai addentrato più di tanto in quei luoghi avulsi, perché trovarono l’erbario alla seconda traversa e… indovina un po’?… Dalla trave della porta penzolava una targa di rame con inciso Bottega dei Mille Ingredienti. Era proprio quello l’erbario di Bruto; la trascrizione sul libro della biblioteca era evidentemente sbagliata. C’erano file di scaffali pieni di vasi; sacchi di tela colmi d’erbe sparsi un po’ ovunque; cesti scoperchiati rigurgitanti serpi, rospi e tarantole; contenitori con ogni sorta di essenze. Dietro un robusto bancone di legno c’era una donna tarchiata, con i capelli grigi e arruffati, il naso a cipolla e l’incisivo superiore
destro mancante. Sopra il vestito portava un grembiule bianco rattoppato. Non era proprio così che immaginavo maga Priscilla Polf.» commentò Ezechiele stiracchiandosi un po’ sulla poltrona. «Era così affaccendata a servire un cliente e a ricacciare gli animali nei cesti con l’ausilio di una bacchetta magica, che non badò ai nuovi arrivati. Alyssa vide Bruto attraverso uno specchietto che rifletteva l’entrata. Entrambi stavano esercitando la funzione scudo perciò l’uno non intercettò l’altro. Fecero appena in tempo a nascondersi dietro le prime fila di scaffali, e arretrarono ancora per sottrarsi completamente alla vista. Da lì, con l’incantesimo amplifica udito, poterono ascoltare ogni discorso in quella stanza. Bruto si avvicinò al cliente di maga Priscilla, poggiandogli una mano sulla spalla. Il vecchio con lunghi capelli bianchi e la barba ancora più lunga, striata di grigio, lo rimproverò del ritardo. Fu subito chiaro che si trattava di Haltheyvan. I due parlavano apertamente dei loro affari, senza curarsi della presenza di maga Priscilla. Sapevano che ella non avrebbe fatto niente per fermarli. Quello era il ato, e tutto era già avvenuto. Essi erano due estranei in quel tempo, due visitatori che non potevano interferire in quella che era considerata la seconda vita nel Paese Perpetuo, potevano solo giungere lì ogni volta che volevano, per brevissimo tempo, e poi tornare indietro. Come naturalmente sai, Lucilla, alla fine del sentiero rosso non v’è alcun paese. Fra i due secolari alberi parlanti, che intrecciano le loro fronde formando un arco sul sentiero, si trova il portale. Dopo aver detto la data all’albero a sinistra e il luogo prescelto a quello di destra, il portale ti catapulta nel ato, in uno spazio dimensionale che è stato denominato Paese Perpetuo.» «Certo, questo lo so benissimo» disse Lucilla. «Però non mi sembra saggio averlo lasciato a quelli del sottobosco.» «Non si poteva fare diversamente. È proprio al centro della loro terra. Tanto tempo fa, quando non vi era ostilità, si poteva andare e venire tranquillamente da quell’area, poi dagli abitanti del sottobosco si staccò la fazione dei seguaci di Bruto che si stabilì nel territorio del sentiero rosso. Così col Trattato di Pace si dovette lasciare a loro quella zona e l’unica cosa che si poté fare fu l’interdizione del periodo in cui Bruto e il Druido si incontravano, poiché si presunse che essi, o meglio Bruto, lo abbia scelto come destinazione per la nuova esistenza. Gli alberi, come sai, sono agli ordini del Presidente del Consiglio dei Cinque, ed essi non permettono l’accesso agli abitanti del sentiero rosso.» «Sì, sì. Però adesso continui col racconto» lo esortò Lucilla. Come al solito Ezechiele perse il filo del discorso e Lucilla prontamente glielo ritrovò.»
«Giusto, ero arrivato alla trappola...» «Quale trappola?» chiese Lucilla confusa. «Quella architettata da Bruto, perdinci! Allora non mi segue.» «Certo che la seguo e non ha accennato a nessuna trappola.» «Ah no? Forse... non c’ero ancora arrivato...» «Se permetti, continuo io, Ezechiele» intervenne Casimiro. «Credo che tu stia facendo un po’ di confusione, o perlomeno, secondo il racconto che ne fa mio padre, non è andata esattamente così. E lui è talmente allenato a ripetere questa storia che non la dimentica di certo, e ogni volta che la sento è sempre uguale alla volta precedente, non cambia mai una virgola. Quindi, per quel che ne so, Alyssa e Obihen non hanno seguito Bruto fino al portale. È stato egli a rivelare a loro la data in cui si recava nel Paese Perpetuo. Approfittando della sua chiacchiera notturna, aveva volutamente svelato quell’indizio, facendo così credere agli amici di avergli carpito l’informazione a sua insaputa. Egli era sicuro che l’indomani essi sarebbero andati nel 42° Mitigo 1205» Ezechiele fece una smorfia che si traduceva in “Caspita, ti ricordi addirittura la data”. «Ed era quello che voleva» continuò Casimiro sorvolando sull’ espressione del collega. «Ormai tutto era pronto, il piano organizzato; a Haltheyvan non rimaneva più molto tempo e il termine dell’operazione era stato fissato per quella sera. Siccome Haltheyvan preferiva agire indisturbato e in gran segreto, decise che il luogo ideale era il Paese Perpetuo, dove nessuno li avrebbe ostacolati. Occorreva pertanto portare da lui il gemello di Bruto affinché potesse operare la sua tremenda magia di trasferimento dei poteri. Alyssa e Obihen avevano attivato la funzione scudo, aspettando l’arrivo di Bruto per spiare le sue intenzioni. Ma a Bruto la funzione scudo non serviva. Lui sapeva che erano lì, li aveva seguiti a distanza e non aveva intenzione di non farsi intercettare, anzi, voleva proprio che sentissero ogni parola fra lui e Haltheyvan. Forse era una trappola architettata fin dall’inizio. Voglio dire che Bruto può aver sempre finto di parlare nel sonno, così da ...» «Però avrebbe rischiato», interruppe con veemenza Ezechiele vorticando un dito vicino alla tempia. «E se i suoi amici avessero avvertito subito il Consiglio dei ...
«Ancora con questa storia! Come te lo devo dire che Alyssa era troppo innamorata di Bruto per accettare a priori quel cambiamento. Non se ne sarebbe mai convinta se prima non l’avesse visto con i propri occhi e udito con le proprie orecchie» «Lei no, ma avrebbe potuto farlo uno degli altri due.» «Obihen non credo proprio, si dice che avesse poco carattere e che comunque assecondasse sempre Alyssa. Forse Zorec, che nel profondo nutriva ancora del rammarico nei confronti di Bruto perché gli aveva soffiato Alyssa, però in quel periodo era lontano per degli studi sui... draghi, credo.» «Se, se, se», Lucilla si alzò di scatto spazientita, «Che accidentaccio me ne importa. E che caspita ve ne importa anche a voi. Avete intenzione di riscrivere un fatto accaduto tanto tempo fa?» Gli altri due si guardarono con imbarazzo, poi Lucilla colse la voce di Casimiro, appena percettibile «Ha iniziato prima lui!» Lo guardò con gli occhi più spalancati che poté, scosse la testa senza riuscire a proferir parola. Pensò di trovarsi in una scuola per l’infanzia. Casimiro abbassò lo sguardo e si schiarì più volte la voce, mentre l’altro andò a controllare la cena nel paiolo. Casimiro si sentì in imbarazzo e non riuscì a continuare il racconto con la determinazione di prima, così diede una conclusione sbrigativa alla storia. «Beh, in poche parole, Bruto e Haltheyvan catturarono Alyssa. Obihen riuscì a scappare, ma oltreato il portale fu catturato da un gruppo di seguaci di Bruto, allertati da questi in precedenza; nessuno seppe più niente di lui. Ad Alyssa fecero bere un intruglio di pozioni che le causò dei dolori lancinanti, facendola poi cadere in uno stato di semi-incoscienza. Nei brevi sprazzi di lucidità sentiva il druido pronunciare arcane parole, poi perse del tutto i sensi. Quando rinvenne, si ritrovò nella radura, era indolenzita e in stato confusionale. Era notte e non ricordava come fosse uscita dal Paese Perpetuo. A trovarla fu Zymal Ovibus, il mio quadrisavolo, custode del San Gregorio. Era sconvolta, ma ebbe la forza di riprendersi velocemente. Non avvertiva più i suoi poteri e i fatti le tornarono presto alla mente. Raccontò che Obihen era riuscito a scappare, ma nessuno seppe comunicarle notizie dell’amico. Fu invasa da una profonda tristezza e ricordò anche di aver sperato che il ragazzo riuscisse a mettere in guardia gli Anziani. Quando invece lei stessa riuscì ad allertare il Consiglio dei
Cinque, era ormai tardi. Bruto era già a metà della sua opera malvagia e nessuno riuscì a contrastare il suo potere. E questo è tutto» concluse Casimiro. «Non è tutto», disse Ezechiele sopraggiungendo dalla sala da pranzo. «A cosa ti riferisci?» chiese stranito, Casimiro. «Le abbiamo raccontato tutto quello che sappiamo, non mi pare che abbiamo tralasciato qualcosa.» «C’è dell’altro», continuò serio Alavard. «Pochi giorni dopo il crudele operato del suo gemello elementare, Alyssa ebbe la conferma di essere incinta. Non era riuscita a salvare il suo amore e dargli la lieta novella, e nemmeno a scoprire se egli avesse agito sotto il potere del perfido druido o se si fosse convertito volutamente al male. Alyssa era terrorizzata di mettere al mondo un bambino cui avrebbero puntato il dito addosso, chiamandolo il figlio del malvagio, o peggio ancora. Zorec, allora, le chiese di sposarlo e si dichiarò disposto a riconoscere la paternità del figlio che portava in grembo. Certo, Zorec aveva colto la palla al balzo, era dai tempi del college che le moriva dietro e ad Alyssa, in quei momenti di dolore e smarrimento, non sembrò di avere una soluzione migliore. Dopotutto Zorec era affabile e anche un bel ragazzo. Alyssa ebbe una bambina che chiamò Zarabeth, che generò Naline, che generò Cassandra.» «Signor Alavard, ci sta dicendo…», Lucilla s’interruppe. «Che la direttrice è una discendente di Bruto!?» continuò Casimiro. «Ho appena tradito un giuramento, ma non ce la faccio più a nascondere questo segreto. Malgrado ciò non temo il rimprovero di Cassandra, sono le strigliate della mia coscienza quelle che feriscono il mio cuore anno dopo anno; è insopportabile la continua accusa che essa mi lancia, di essere restato inerme a guardare Cassandra portare a compimento il suo proposito: far cessare con lei la discendenza di Bruto. Non ho combattuto abbastanza da farle cambiare idea. Non sono riuscito a convincerla che nelle sue vene non scorre sangue cattivo. Alyssa, Zarabeth e Naline erano ottime persone, così come lo è lei. Non parla mai di Bruto e negli anni in cui ha insegnato al College saltava sempre quell’argomento, motivando di essere in ritardo col programma e di tralasciare perciò i temi di scarsa utilità didattica, lasciando alla Cimador, quando ne aveva il tempo, il compito di integrare quella lacuna. Che donna ostinata!» percosse l’aria con un gesto di stizza. Poi fissò il pavimento, un po’ per pudore. «Talmente caparbia che non ho mai trovato il coraggio di rivelarle i miei sentimenti. E
adesso è tardi. Stiamo invecchiando entrambi. Abbiamo sprecato la giovinezza e ciò che di bello aveva da offrirci.» Si alzò lentamente e tornò nella sala da pranzo, dove nel camino crogiolava lento nel paiolo il succulento pasto. Nella casa calò un profondo silenzio, per diversi minuti nessuno riuscì a parlare, persino Lucilla.
I due uomini si dedicarono alla cena, mentre Lucilla chiese di poter andare al bagno. Ezechiele rimestava delicatamente lo stufato. Casimiro preparava la tavola, lanciando rapidi sguardi di sottecchi al collega e meditando sul proprio status di scapolo. Quando li raggiunse, Lucilla costatò che la tavola era stata apparecchiata per sette persone. Chi altri avevano invitato quei due? Si sentì a disagio e fuori luogo. «Credo sia meglio che faccia un altro tentativo per vedere se la mia auto parte. Forse adesso farà la brava», disse con un sorrisetto incerto. «Pensavo fosse una cenetta a due, ma questa deve essere una rimpatriata», disse con eloquente accenno alla tavolata. «Capirete che non posso essere dei vostri» disse staccando la mantella dall’attaccapanni, ma mentre faceva per indossarla vide qualcosa di lucido e dorato sul palmo della mano di Casimiro. Glielo stava mostrando. Era un cilindretto di biocrinite, il generatore di energia della sua auto. «Questo è sabotaggio!» disse incredula allungando la mano verso l’oggetto, ma non riuscì a impossessarsene poiché l’altro ritrasse prontamente la mano serrando l’oggetto nel pugno. «Cosa diavolo significa ...» «Stiamo aspettando il Consiglio dei Cinque», la interruppe Ezechiele per chiarire subito la situazione. «Non emo l’aula consiliare perché questa non è una riunione di programma, né una riunione straordinaria. È una riunione che non c’è mai stata. Non so se mi spiego.» «No, non si spiega» rispose Lucilla stizzita. «È una riunione segreta, camuffata da cena tra amici, per appurare alcune
discrepanze sulla faccenda dei gemelli.» «Va bene, ma io e Cas...» «Lei e Casimiro ci siete dentro, sarebbe più complicato tenervi all’oscuro che rendervi partecipi. Siete le altre sole persone informate sui fatti», si rivolgeva a entrambi. «Eccoli!» disse Ezechiele indicando la finestra. Mentre riattaccava la mantella, Lucilla vide fuori, in lontananza, le luci tremolanti di quattro fiaccole. La tempesta era ata da un pezzo e ora l’atmosfera era ovattata. Il riverbero di tre lune sul bianco manto nevoso, Lylienit che si stava levando a est, Celio già alta all’orizzonte e Calype che andava scomparendo a ovest, rischiarava il cammino più efficacemente delle torce e pochi secondi dopo mise in evidenza il profilo di due slitte, le sagome degli occupanti e due mute di cani. Uno dei cani aveva qualcosa sul dorso, ma da quella distanza non si riusciva ancora a capire di cosa si trattasse. Lucilla vide che sul tavolino vicino al sofà, c’era ancora il vassoio con le tazze dove avevano bevuto il tè, lo prese e andò in cucina per lavarle. Intanto, silenziosamente, le slitte scivolarono fin davanti all’uscio della casa. Ezechiele, che era uno dei membri del Consiglio, andò ad aprire e uno alla volta entrarono gli altri quattro, battendo prima forte i piedi sullo zerbino per far staccare la neve attaccata agli scarponi. Ognuno aveva portato qualcosa per la cena, la professoressa Gemma Cimador, presidentessa del Consiglio, entrò per prima consegnando a Casimiro una teglia avvolta in un canovaccio. «Questo è da riscaldare più tardi» precisò. Seguirono quindi gli altri: Alvise Anvidalfarei, Didimo Baron e Cassandra, e prima che Ezechiele richiudesse la porta, un micio bianco con una macchia nera sul muso riuscì anch’esso a infilarsi. «E tu da dove sbuchi?» chiese alla bestiola. «Ah! Sei entrato», disse Cassandra. «Continuava a salire sulle slitte, lo abbiamo cacciato diverse volte, finché non è saltato in groppa a un cane, che lo ha trasportato senza lamentarsi...» stava spiegando la direttrice quando lo vide avvicinarsi a Lucilla e girle intorno sfregandosi alla sua lunga e calda gonna.
«È tuo quel gatto, Lucilla?» chiese alla sua protetta. «Credo di sì.» «Credi?» «Beh, direi che sembra lui. Comunque non è proprio mio... l’ho trovato un paio di giorni fa, tutto infreddolito, e l’ho portato nel mio appartamento. Forse ha già un padrone. Per il momento sta con me.» «Mi sembra già affezionato. Strano che sapesse dove trovarti.» «Sarà un caso. È scappato quando il mio pendolo si è conficcato nel floxpan e non è tornato a casa. Avrà seguito le prime persone che ha incontrato.» «Che profumino invitante» interruppe Didimo che, essendosi andato a scaldare le mani presso il fuoco nel camino, aveva le narici impregnate dell’aroma dello stufato di Ezechiele, e non vedeva l’ora di andare a tavola. «Giusto. Prendiamo posto, amici», ribadì Ezechiele andando a preparare i piatti. Gli altri tre uomini spostarono le sedie per fare accomodare le tre signore. La cena era veramente deliziosa e tutti mangiavano di gusto facendo un sacco di complimenti all’ospite. Però qualcuno si sentì offeso dalla totale mancanza di considerazione e iniziò a miagolare con risentimento. «È avanzato un piattino per lui?» chiese Lucilla scusandosi. «Sarà digiuno da un po’.» «Ecco due pezzetti di stufato anche per Muso Nero» disse Ezechiele posando a terra una ciotola di carne tiepida. Muso Nero? Ecco che qualcuno gli aveva finalmente trovato un nome. A Lucilla sembrò simpatico. Al gatto invece non piacque, ma divorò con gusto lo stufato. La cena si concluse con il dolce e col caffè. Dopo aver tutti contribuito a sparecchiare e rigovernare, a suon di bacchette magiche per sbrigarsi, si sedettero a discutere sullo straordinario evento che si verifica ogni centotrentacinque anni circa. La notizia dei gemelli aveva scosso una valanga di
quesiti ed emozioni. Si prospettava la speranza di riunificare il loro mondo. Ma era quello che tutti avrebbero voluto veramente? Com’era diventato il mondo dall’altra parte? Chi erano i suoi abitanti, i seguaci di Bruto rimasti fedeli ai suoi ideali? Avrebbero riaperto le porte a un luogo malvagio sotto l’autocrazia di un despota, oppure al di là del campo di forza i giusti erano insorti ristabilendo l’ordine e la democrazia? Dovevano lasciare le cose così com’erano o era giusto intervenire in ogni caso? Poteva significare la salvezza ma anche la distruzione del loro mondo. Ragionando, e supponendo che dall’altra parte regnasse il male, poteva malauguratamente capitare che al prossimo allineamento delle lune Lylienit e Theary i gemelli sarebbero entrambi nati lì. Tale nefasta ipotesi poteva mettere in pericolo il pianeta e con molta probabilità anche il Mondo di Sotto. Certo in quell’occasione nessuno di loro ci sarebbe stato più, ma ora avevano la responsabilità di prendere un’importante decisione a beneficio delle generazioni future. Consideravano, congetturavano e discutevano ogni singolo aspetto. Ma mentre tutti erano infervorati, Lucilla ebbe un impulso di distacco, quasi a protezione dei suoi ragazzi. Sì, era lei che li selezionava, ed entrava così profondamente in contatto con le loro personalità che provava una sorta d’affetto verso ognuno di loro. Stranamente, era stata zitta tutto il tempo, aveva solo ascoltato, ma adesso aveva la testa piena di discorsi che avevano fatto accrescere la sua indignazione. «Scusate un attimo», tolse la parola alzandosi in piedi. «State decidendo tutto voi. Cosa è meglio o cosa non è meglio fare. Come se i gemelli fossero dei burattini nelle vostre mani e voi siete qui riuniti per decidere come farli muovere. Non vi siete neppure chiesti chi sono questi ragazzi, come si chiamano, che cosa ne pensano della sorte che gli è capitata, se avranno voglia di starvi ad ascoltare, se...» «D’accordo, Lucilla, sei stata chiara» intervenne Cassandra. «Non siamo così insensibili come credi», s’interpose la presidente Cimador, «Quei due ragazzi ci stanno a cuore. Tuttavia c’è una posta molto alta in gioco e speriamo ardentemente che essi vorranno considerare il bene dei molti prima del loro.» «È beninteso che non subiranno pressioni da parte nostra» aggiunse Didimo. «Dovranno decidere liberamente» confermò Alvise.
«Proprio parlando dei ragazzi, c’è qualcosa che non torna» disse seria Cassandra tirando fuori dalla sua cartella le schede dei ragazzi elaborate da Lucilla, alcune mappe, un calendario e altri incartamenti. Sparpagliò tutto sul tavolo in modo che fossero ben visibili a tutti. «Ricordo bene che il giorno dopo l’allineamento in quartis, avvenuto il 52° Arsuria 3225, Gemma ed io ci siamo recate a consultare il Registro delle Anime, quel giorno erano state annotate più di una decina di nascite, ma non abbiamo trovato una coppia nata alla stessa ora. Siamo ritornate anche il giorno seguente, per verificare che un bimbo non fosse stato registrato in ritardo. Niente. Eppure qui ci troviamo di fronte ad una coppia astrale» attestò. «Dobbiamo verificare un’altra volta, prima di cercare altre risposte» consigliò Didimo. «Propongo di andare a prelevare il registro adesso, mentre gli uffici sono chiusi, così non dovremo giustificare il perché ci serve» suggerì Alvise. «Prenderlo di nascosto, dici?» farfugliò Ezechiele, «No, non pensate a me. Io non mi muovo da qui, non ho l’età per giocare ad Arsenio Lupin» «Arsenio... chi?» Lucilla sorrise, al contrario di Alvise lei conosceva bene il personaggio uscito dalla penna di Maurice Leblanc. Nel Mondo di sotto aveva acquistato un paio di libri che narravano le astute imprese del ladro gentiluomo, e il pensiero di intrufolarsi di nascosto e col buio nell’Ufficio Registri le fece scorrere un brivido lungo la schiena. Un brivido d’eccitazione, non di paura. Sarebbe andata lei a prelevare quel volume, oltretutto non c’era altra scelta; a parte Ezechiele solo lei aveva il potere della Terra che le consentiva di oltreare i muri e trasportarsi ovunque desiderasse. «Arsèn rubava ai ricchi per donare ai poveri», intervenne lei. «Noi non rubiamo niente. Prendiamo in prestito un registro per consultarlo e poi lo rimettiamo al suo posto.» «Giacché il signor Alavard non si offre volontario, assolverò io questo compito. Sapete tutti che non c’è alternativa» ribadì la ragazza. «D’accordo, d’accordo. Andrò io. Non si dica mai che sia poco cortese verso una
donna.» disse Ezechiele risentito. «No, voglio andare io. Davvero.» insistette Lucilla. «Il vino mi ha dato un po’ alla testa e una boccata d’aria fresca mi farà bene» lì per lì, le sembrò la scusa più azzeccata da aggiungere a sostegno della sua candidatura. Nessuno ebbe niente da ridire. La cosa importante era che qualcuno scollasse il deretano dalla sedia alla svelta e lo riportasse indietro assieme al registro. Così Lucilla sparì da quella casa per ricomparire nel cortile interno del Palazzo degli Uffici. Non aveva a memoria l’ubicazione esatta della stanza dei registri per giungervi direttamente, ma ricordava bene il cortile circolare su cui davano le uscite secondarie del palazzo. “Dannazione, la mantella!” s’incavolò per non averci pensato. Faceva molto freddo. “Rischio il blocco della digestione se non entro subito”. Diede una rapida occhiata in giro, era tutto spento e il silenzio assordante. Varcò il muro più vicino a lei senza pensarci su, avrebbe trovato poi la giusta direzione. Dentro non trovò il calore confortevole della casa di Ezechiele, le attività erano terminate da alcune ore e anche la legna nei camini aveva smesso di ardere. Si sfregò le mani e cercò di fare in fretta. Attraverso le grandi vetrate, lungo tutto il perimetro dell’edificio, le lune e il riverbero della neve gettavano una tenue luce all’interno, sufficiente a orientarsi senza il sussidio di una torcia. Leggendo le targhe indicative, al piano inferiore trovò la stanza che cercava. L’archivio anagrafico era un open-space che occupava più di un quarto della volumetria del piano. L’intera superficie era un labirinto di scaffali ricolmi di libri, faldoni e scatole piene di documenti. Dopo aver perlustrato di corsa un certo numero di stretti corridoi, con l’ausilio di una lampada trovata appesa alla parete d’ingresso, trovò lo scaffale dal quale iniziava l’anno 3225. Lì sotto la temperatura era inferiore, ovviamente non serviva scaldare quel luogo, ma dopo aver fatto diverse volte su e giù dalla scala scorrevole in cerca del volume, il sangue nelle vene cominciò a scaldarsi. Non appena le fu chiaro il criterio di catalogazione, riuscì rapidamente a trovare ciò che stava cercando. Soddisfatta, strinse al petto il voluminoso registro, andò a riporre la lampada e quindi si concentrò sulla sala da pranzo di Ezechiele, dove riapparve. Durante l’attesa, il padrone di casa aveva alimentato il camino e un fuoco vivo e scoppiettante avvolgeva l’ambiente come un caldo e tenero abbraccio. Un’occupazione alla quale dedicò più tempo del voluto, con l’intento di voltare le spalle evitando lo sguardo di Cassandra. Si sentiva in colpa per non aver
mantenuto fede alla promessa che le aveva fatto molti anni fa. Ma ora l’età gli faceva vedere le cose sotto una luce diversa e capiva l’errore di quella scelta. Aveva così ceduto alla richiesta di Lucilla, non di una persona qualsiasi, ma di una ragazza che le voleva bene e la considerava il suo mentore, e che avrebbe tenuto la cosa per sé. Forse qualche dubbio gli era venuto in seguito su Casimiro, ma ormai la cosa era fatta. Ora si sentiva più leggero da una parte, per aver sfogato un’amarezza repressa, ma tremendamente in colpa dall’altra. Per tutta la sera aveva evitato di guardare negli occhi Cassandra, la donna segretamente amata da sempre, tuttavia a Cassandra non era sfuggito quell’inusuale comportamento. Era fin troppo evidente che le nascondeva qualcosa. L’arrivo di Lucilla portò tutti a riconcentrarsi sul caso. Ella poggiò il massiccio tomo sul tavolo e gettò uno sguardo affettuoso al camino. Al tonfo del libro, Muso Nero balzò sul tavolo e si appoggiò con le zampe anteriori al libro. «Togliti, fammelo aprire!» disse Lucilla cacciandolo giù dal tavolo. Casimiro lo prese e lo mise sulla sedia a dondolo. «To’, stai qui a ronfare.» Ma quando tutti si sedettero intorno al libro, il gatto scese e tornò al tavolo, saltò su una sedia libera e alzatosi sulle zampe posteriori, si appoggiò al tavolo con quelle anteriori. «Beh, è un gatto di compagnia», commentò Didimo. «D’accordo, lasciamolo lì, non perdiamo altro tempo. Dai, Lucilla, cerca il giorno 52° Arsuria» Cassandra incitò la giovane donna. «Anche se sono sicura che non ci dirà niente di diverso da ciò che già sappiamo.» aggiunse guardando Gemma, la quale inarcò le sopracciglia e fece spallucce. Lucilla trovò la pagina: un elenco cronologico di morti e nascite. Fece scorrere lentamente il dito sulla colonna di nomi, cercando Cibei Tommaso. Non trovò il nome del ragazzo. «Che vi avevo detto?», ribadì Cassandra alla controprova. «Ma com’è possibile che questo ragazzo non sia stato registrato!» «E se la richiesta d’ammissione che avete ricevuto fosse una burla?» azzardò Alvise «Niente affatto!» urlò Lucilla risentita. «Vuol mettere in discussione la mia competenza nel lavoro di selezione o forse sta insinuando che io confermo tali e quali le qualità che il candidato riporta sul modulo senza l’interrogazione del
pendolo?» parlò tutto d’un fiato. «Qui c’è la lettera del candidato e qui c’è la mia scheda», prese i fogli poggiati sul tavolo e glieli sventolò davanti al naso. «Come vede il ragazzo si è dimenticato di indicare i suoi poteri. Li ho rilevati io. E comunque, sia ben chiaro che non lascio are niente senza controllare. Metto in dubbio tutto, persino l’indirizzo scolastico scelto. Mi fido soltanto del mio pendolo.» Era soddisfatta della sua arringa e tirò un sospiro sonoro. «Non fraintenda, signorina Angeloro, non volevo assolutamente mettere in discussione il suo lavoro che, anzi, riconosco essere di alta qualità. Questa faccenda è così strana... Ho sparato la prima supposizione che...» s’interruppe poiché si avvide che Lucilla non lo stava considerando, fissava il Registro delle Anime, ancora aperto alla stessa pagina, quando sul suo viso si accese lo stupore. Erano intenti a cercare il nome del ragazzo che non fecero caso a un’altra registrazione. «Matilde!», esclamò girando il registro verso di loro. «La ragazza è stata registrata.» «Non può essere! È una busta blu, quella», fecero tutti indicando la richiesta d’ammissione e relativa busta sul tavolo, ognuno con una frase, ma nel miscuglio di parole il senso rimase inalterato. «Qualcuno ha combinato un bel casino», la Cimador incrociò le braccia al petto. «Un ragazzo di qui, che non risulta essere nato, e una ragazza di giù, che non si capisce cosa ci faccia su questo registro. E tuttavia non potrebbe essere diversamente, perché solo nascendo qui, la ragazza poteva essere predestinata dalla profezia. Ci deve pur essere una spiegazione razionale, che porti alla soluzione. Scioglierò questa seduta solo quando l’avremo trovata» disse caparbia. «Un momento!» Ezechiele stava riesumando un ricordo che aveva appena fatto capolino nella sua mente. Cercò di metterlo a fuoco... «Mangrella, Mangrella... certo! Ora ricordo. Anni fa ricevemmo la visita di un esiliato, un ispettore di polizia credo... va be’, un poliziotto insomma. Comandava la squadra investigativa speciale e lavorava sul caso di un efferato... serial-killer», spiegò il significato di quella parola usata dai terrestri, «Aveva ricevuto diverse minacce, ma quando il malvagio mise in pericolo la vita di sua moglie, cioè della sua unità, come diciamo noi, venne a chiederci protezione per la donna e il bambino che stava aspettando. Pensò all’unico luogo in cui l’assassino non l’avrebbe mai
trovata e lui, con questa rassicurazione, poté concentrarsi tranquillamente sul difficile caso. Mesi dopo, quando finalmente il killer fu assicurato alla giustizia, tornò a riprendere la sua famiglia. Nel frattempo la donna aveva dato alla luce una bimba, ma prima che tornasse a casa si pensò che fosse corretto inserire quella nascita anche nei nostri registri. Per questo risulta registrata sia qui, sia nel Mondo di Sotto per ovvie ragioni» spiegò egli, scusandosi di non essersi ricordato subito quell’episodio. «Ecco, avete visto? C’è sempre una spiegazione razionale. Mezzo rompicapo è stato risolto. Adesso dobbiamo chiarire l’enigma del ragazzo» disse Gemma. «Potrebbe trattarsi di un errore casuale. Che so... il foglio della notifica potrebbe essersi perso durante l’iter e non essere pervenuto all’impiegato addetto alla scrittura del registro.» ipotizzò Alvise. «Può essere come dice il professor Alvise. Di certo però lo troveremo nei registri scolastici degli anni precedenti. Lui non indica il nome degli istituti che ha frequentato ‒ già, ha dimenticato anche questo dato. Alquanto distratto, direi ‒ ma noi li controlleremo tutti» propose Lucilla con molta naturalezza. «Brava Lucilla!» si compiacque Cassandra. «Non avrà intenzione di portare tutti quei registri a casa mia?» protestò Ezechiele. «Non sarà necessario. Sapete bene che, per questioni logistiche, i registri di tutte le scuole sono custoditi nell’immenso archivio del San Gregorio. Potrò consultarli tranquillamente domattina, sempre che la presidente Cimador decida di sciogliere la seduta» disse Lucilla, la quale cominciava ad aver sonno e sapeva che prima avrebbe dovuto riportare indietro il Registro delle Anime. La Cimador stava osservando il gattino con la macchia nera sul muso, la bestiola era stata sempre con le orecchie tese, ferma per tutto il tempo in quella posa ritta, alquanto innaturale per un animale. Un lampo folgorò la sua mente. Si alzò. «Forse non è necessaria quella consultazione, Lucilla», così dicendo iniziò a muoversi verso il gatto. «Credo che qui ci sia qualcuno che può darci le spiegazioni che stiamo cercando. Vero, Muso Nero?» tese di scatto le mani verso il gatto. «Converti!», ma esso fu più veloce e con un balzo abbandonò la sedia andandosi a nascondere sotto il mobile del salotto.
«Il mio micio! Si può sapere che le è preso?» si lagnò Lucilla. Si inginocchiò per recuperare il gatto. «Ferma!» urlò minacciosa la presidente. «Quello non è un gatto, a me non la dà a bere.» disse sicura di sé, piazzandovi davanti al mobile. «Siamo sette contro uno, signor Muso Nero. Credo le convenga uscire spontaneamente di là sotto, così facciamo le presentazioni», continuò sarcastica. «Come ha capito ho anch’io lo stesso potere e posso convertirla se voglio, ma lascerò che sia lei a mostrarsi.» Nessuno fiatò. Tutti rimasero con gli occhi fissi sotto il mobile aspettando che succedesse qualcosa. Dopo pochi ma eterni minuti, il gatto si decise: una zampina sbucò dal nascondiglio, poi la testa, strisciando col ventre sul pavimento, pian piano apparve anche la coda. Con aria sconfitta, la testa e le orecchie abbassate, la bestiola andò lentamente a sistemarsi sul dondolo. Ora non era più un gatto quello seduto. La sedia era occupata da un uomo, apparentemente sulla cinquantina, con la barba incolta al posto della macchia nera sul muso. «Il mio nome è Zantor Hoffis e vengo da Nebrus.» «Nebrus?» fu il coro di voci intorno a lui.
Capitolo 10
La meteora
Il sole era sorto da poco, risplendendo nel cielo terso ripulito dal vento della notte. Nella parte di terra degli eletti, nei sotterranei della reggia che dominava la città da una dolce altura, un’anziana donna aveva ato l’intera giornata nel suo studio-laboratorio. Un luogo tetro, dove di giorno filtrava una debole luce dalle alte feritoie ed emanava un tanfo costante. Le pareti di nuda pietra arenaria erano irregolari e, almeno una volta l’anno, trasudavano acqua dal terreno circostante infradiciato dall’ esondazione dell’attiguo canale. Il pavimento era in lastre levigate della stessa pietra. Sul bordo inferiore delle pareti, certi buchi rivelavano la tana di alcuni ieiaky, piccoli roditori dal pelo rossiccio e ispido. Il suo bisnonno avrebbe disdegnato vivere in un posto del genere. Egli aveva costruito una città diversa dalla loro realtà, copiando i moderni edifici del Mondo di Sotto dai quali era stato sempre affascinato. Aveva così riprodotto una metropoli in scala ridotta, anche se le cose non funzionavano allo stesso modo. La pronipote era di altre vedute, ma unicamente in materia di architettura, per il resto era la degna erede di Bruto. Un lungo tavolo rettangolare, di vecchio legno duro e scuro con evidenti segni di un’antica tarlatura, era cosparso di vecchi tomi voluminosi, provenienti dalla capiente libreria disposta a “L” al centro della stanza e che faceva da divisorio tra lo studio e il laboratorio. Più che altro la scelta di posizionare la libreria in quel modo e a quello scopo era stata dettata dall’oculatezza di tenere lontani i libri dalle pareti umide. La sera prima non aveva toccato cibo, ma non avvertiva i morsi della fame. L’unica fame che conosceva era quella del potere ma, per quanto si arrovellasse, non trovava la soluzione per colmare quel languore. Argelia aveva letto ogni libro di magia conosciuto, aveva divorato manuali classici di arti magiche e trattati inediti di magia nera, opere proscritte e dissertazioni sulle profezie, ma nessuno studio le aveva fornito il mezzo per dissolvere l’artificio del progenitore. Aveva ambizioni più grandi del suo avo, il suo scellerato sogno era di dominare sull’intero Mondo di Sopra, se mai fosse riuscita a distruggere la
barriera, e quando poi sarebbe venuta a conoscenza del ritrovamento di Ermete Taxus, anche il Mondo di Sotto sarebbe sicuramente stato in pericolo. Questa perversione era cresciuta di giorno in giorno da quando aveva scoperto le attitudini della nipote. La mattina in cui nacque la figlia di Goran, il cielo era pulito e Argelia stava per contemplare il fenomeno che non tutti nel corso della loro vita, anche se longeva, hanno la fortuna di osservare. Lei era una di queste persone ed era corsa alla finestra per non perdere l’appuntamento, infischiandosene altamente delle grida della partoriente: ce l’avrebbe fatta benissimo da sola, l’assistenza del medico era più che sufficiente, lei aveva cose più importanti a cui pensare. Quando la luna Lylienit, proveniente dalla destra dell’emisfero, si allineò perfettamente con la luna Theary, proveniente dalla sinistra, ed entrambe si frapposero al sole, Argelia intonò riti propiziatori affinché la profezia di quella doppia eclisse fosse benevola col nipote che stava per nascere. Non era certa se quei rituali fossero stati mai usati prima. Per quel che ne sapeva, potevano essere stati scritti da qualche fanatico, vista la non attendibilità della fonte, ma tanto valeva provare. E quando in quei minuti di buio totale una scia infuocata squarciò il cielo, e dalla stanza della puerpera giunse un vigoroso vagito, Argelia lo interpretò come un favorevole pronostico. Il tempo le diede ragione. La piccola Altea aveva i capelli neri e gli occhi di un verde brillante, come sua nonna. Man mano che cresceva la somiglianza con costei si accentuava. Dopo lo svezzamento della bambina, Argelia aveva iniziato, gradatamente, ad allontanarla dalla madre. Si occupava lei della sua educazione e del suo apprendimento, con l’intento di forgiarla a sua immagine e somiglianza; quanto alla somiglianza fisica, invece, ci avevano già pensato i geni: erano due gocce d’acqua. Argelia non cedette mai alle lagnanze della nuora che rivendicava il suo ruolo e gli affetti della figlia. Una donna dal carattere forte e combattivo, che invano aveva spronato il marito a mostrare gli attributi, mettendolo in guardia sulla madre che, oltre a depredare il suo ruolo di Governatore, aveva un cattivo ascendente sulla figlia. Debole e remissivo, Goran non aveva mai affrontato di petto una sola situazione, lasciando la sua unità sola a fronteggiare Argelia. Quando quest’ultima non ne poté più della nuora, decise di farla tacere per sempre. Solo il medico sapeva la verità. Le macchie simili a lividi e la colorazione blu della lingua, che egli aveva riscontrato nella donna già cadavere, quand’era giunto al suo capezzale, non lasciavano dubbi. Di certo era stato volutamente avvertito in ritardo, ma non ebbe il coraggio di formulare la sua
diagnosi. Alla sua età aveva conosciuto i predecessori di Argelia: da piccolo aveva incontrato Aulo, quando capitava che suo padre, anch’egli medico, lo portasse con sé nel giro delle visite. Aulo era temibile più che altro per la sua pazzia, che il padre non aveva potuto in nessun modo curare, e poi Jeziel, che faceva paura solo a parole, ma che con i fatti si era rivelato un inetto. Argelia invece l’aveva temuta sin da bambina. Restava a giocare con lei mentre il padre visitava suo zio Aulo. Lui sceglieva sempre di giocare a nascondino per rifugiarsi in qualche cantuccio, sfuggendo così alle sue angherie; quando invece toccava a lei nascondersi, non andava neppure a cercarla, fingendo di non riuscire a trovarla perché si era nascosta molto bene. Mentre Argelia cresceva, cresceva anche la sua crudeltà, e così, dopo molti anni, la temeva ancor più e per questo non aveva avuto il coraggio di dire ad anima viva ciò che sapeva sulla morte della donna. Il tormento e il rimorso lo accompagnavano ogni giorno. La piccola Altea soffrì terribilmente l’assenza della madre. Le mancarono i teneri baci, le carezze, le favole, le risate a crepapelle, i giochi e le consolazioni. Argelia non aveva nemmeno lasciato a Goran il delicato compito di spiegare alla figlia la disgrazia capitata. Era stata lei, senza un minimo di tatto, a darle la notizia. «Così stanno le cose, devi fartene una ragione. Il tempo guarisce ogni cosa ed io so come impegnare al meglio il tuo tempo, e vedrai che non te ne resterà per i rimpianti» così le aveva detto, incurante delle lacrime che sgorgavano dai piccoli occhi color smeraldo, rigando le tenere e rosee gote. E il tempo si alleò con Argelia: i ricordi di Altea sbiadirono e rimasero solo delle velate sensazioni. La dispotica donna la indottrinò in ogni campo della magia e i suoi insegnamenti divennero sempre più intensi e assillanti quando ebbe la conferma che la profezia si era compiuta per metà nella nipote. L’ossessione poi di trovare il gemello, da quel momento, non le diede più un giorno di pace. Non era facile, adesso, trovare quel ragazzo, o ragazza, quando la quasi totalità della popolazione credeva di essere normale. Nelle cliniche psichiatriche, dove erano internati i maghi denunciati e riconosciuti, non erano ammessi i minori... oppure no? Non ricordava se nel proclama aveva inserito questa clausola. Si segnò questo dato da verificare, diversamente sarebbe stato un buon punto di partenza per le ricerche. Ma nel peggiore dei casi, il gemello poteva trovarsi dall’altra parte del confine. Per questa probabilità malediva ogni giorno il suo antenato, ma soprattutto Haltheyvan. A giudizio dell’anziana donna era stato un errore che Bruto carpisse i poteri della sua gemella, soprattutto per un tempo così limitato,
invece di poterne usufruire come, quando e quanto voleva. Sarebbe stato più facile soggiogare pazientemente la preda, con ogni più sottile espediente, fino a indurla a condividere i propri archetipi (ispirazioni, utopie e perversioni). Qualcosa di simile al lavoro che aveva fatto con Altea. Per diversi anni era stata fermamente convinta che il gemello si trovasse dall’altra parte, perché la profezia, sempre secondo lei, si sarebbe manifestata solo in un essere molto dotato, per cui aveva escluso a priori gli abitanti fuorviati di Nebrus. Non trovando il sistema di annientare il campo di forza e vedendo gli anni are invano, aveva deciso di concentrarsi sulla sua città, organizzando una ricerca capillare onde levarsi ogni dubbio.
La ragazza dai lunghi capelli neri aprì la porta del laboratorio e un tanfo di muffa le fece arricciare il naso; con tutti i locali arieggiati della reggia, non capiva perché sua nonna prediligesse quello scantinato più consono a una prigione che a uno studio. Indossava un lungo vestito verde scuro con bordure nere che scendeva morbido sulla sua longilinea figura, una fascia nera, legata dietro, cingeva una vita sottile, mentre una generosa scollatura metteva in evidenza un decolté superbo per la sua giovane età. Vestiva secondo la tradizione del suo mondo, come la nonna le aveva imposto sin dai teneri anni. L’anziana donna snobbava ogni moda portata in auge dal nonno, anche se amava farsi portare in giro in auto, ben più comoda del cavallo o della carrozza, ed anche se il suo mezzo preferito rimaneva l’auto-traslazione, vi aveva dovuto rinunciare per ovvi motivi: non manifestare la magia in pubblico. «Non si bussa?» disse Argelia con voce boriosa tenendo la testa china su un grosso libro. «Sono io» rispose Altea «So che sei tu, ciò non toglie che prima si bussi…», roteò gli occhi verso di lei, «È l’educazione.» «È solo una questione di etichetta o mi nascondi qualcosa? E comunque io busso solo per entrare in una vera stanza, non in una bicocca.» Altea si avvicinò al lungo tavolo ingombro e fu attratta da tre rotoli di carta fermati da un nastro.
«Cosa sono quelli?» «Portali a tuo padre, deve firmarli e apporvi il sigillo.» «Altri editti? Che cosa ti sei inventata stavolta?» «Anche se forse non servirà a nulla, non dobbiamo tralasciare niente. Cercheremo nelle scuole, nei luoghi di culto e nelle cliniche psichiatriche. Mi arrenderò solo quando la vita non ne potrà più di me. Non rinuncerò così facilmente ai miei sogni» disse indaffarata tra le carte. «Finalmente l’hai detto, “i tuoi sogni”. Io sono unicamente il tramite. Forse non ti è chiaro che quando lo troverò sarò io ad avere il potere e non credere che abbia bisogno il tuo aiuto in questa ricerca» rispose secca. «Sciocca ingrata!», disse Argelia scattando in piedi, «Quel che sei e tutto ciò che sai, lo devi a me. Può darsi che un giorno dominerò su tutto, e tu sarai al mio fianco. Ormai sto invecchiando, spero che sarai magnanima da concedermi questo appagamento per il tempo che mi sarà concesso. Quando io non ci sarò più, tu sarai la padrona indiscussa di tutto ciò che avremo conquistato, e da quel momento potrai disporre come ti pare. Non mi sembra una grande pretesa e, dopotutto, me lo devi» sermoneggiò. «Quindi non mi resta altro che ringraziarti per quello che sono diventata» proferì dileggiandola con un profondo inchino. Poi prese i rotoli di carta, si voltò e uscì dalla “stamberga”. Rimasta sola, Argelia iniziò a eggiare nervosamente per la stanza scaricando la sua stizza su uno ieiaky sbucato da una fessura, a cui diede un calcio facendolo piroettare all’indietro. Il piccolo roditore andò a schiantarsi contrò la parete opposta e ricadde sul dorso emettendo un debole squittio, poi la testa gli ciondolò da un lato e dalla bocca sgorgò un rivolo di sangue. «Quella ragazza deve essere in piena tempesta ormonale», iniziò a borbottare con se stessa, l’unica che aveva sempre voglia di ascoltarla, «Non riesco più a controllarla: sta diventando insolente e scalpitante. Oltretutto è molto scaltra e non mi è più così semplice tenere le redini come una volta, ma non mi arrendo. Non ha ancora capito con chi ha a che...» s’interruppe nell’udire dei i ritmati da un risonante tacchettio. Con cipiglio, tese l’orecchio in attesa che qualcuno si rivelasse. Sentì bussare: quattro colpi secchi scanditi lentamente.
«Avanti!» incitò, avendo già intuito la scansione beffarda. «Stavolta ho bussato», esordì ironica Altea, accentuando la camminata con ondeggiamento delle anche. Era vestita con un paio di pantaloni neri affusolati, infilati dentro a un paio di stivali di pelle color grigio scuro e una maglia, anch’essa aderente, con larghe righe orizzontali verdi e nere; agganciato all’indice della mano sinistra, reggeva dietro la spalla un giubbotto nero; nell’altra mano aveva i rotoli di pergamena che il remissivo e ubbidiente governatore aveva già firmato, probabilmente senza nemmeno leggerli. Si avvicinò al lungo tavolo e lì li appoggiò, poi ne riprese uno. «Questo lo tengo io. Come vedi anche io mi do da fare. Andrò a cercare personalmente nelle scuole. Ah, c’è una cosa che no ti ho ancora detto: è qui. Qualche giorno fa, per un brevissimo istante, ho percepito il suo potere dell’Aria.» Argelia rimase dapprima senza parole, poi strinse i pugni, i muscoli le s’irrigidirono e se fosse stata una vecchia dragonessa avrebbe sbuffato fumo dal naso e dalle orecchie. «Qualche giorno fa!?» sbraitò la vecchia, «Qualche giorno fa!?» ripeté con maggior vigore, «E me lo dici ora? Non ti riesce di stabilire una precedenza per...» Altea fece per andarsene dal laboratorio lasciando che la nonna si sbollisse da sola, ma mentre stava per uscire le giunse un rimprovero lacerante. «Dove credi di andare vestita in quel modo?» «Tra i miei coetanei, non vorrai che mi renda ridicola. Anzi, sai che ti dico? Così mi piaccio di più, per cui ho deciso che da oggi cambio stile.» rispose con piena soddisfazione e uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Capitolo 11
L’evasione
Temeva di arrivare in ritardo, non ricordava con esattezza l’orario di inizio delle visite. Nella sua mente c’erano quei dieci minuti che ballavano: erano in più o in meno? Era combattuto tra le cinque e dieci e le cinque meno dieci, o per meglio dire le quattro e settanta secondo l’orologio del Mondo di Sopra. Avvalorata finalmente la seconda ipotesi dal ritrovamento dell’appunto in uno scomparto del portaoggetti dell’auto, quando parcheggiò era già in ritardo. Davanti alla recinzione della clinica si erano fermate cinque vetture color viola, con una striscia gialla sulle fiancate. Erano i camioncini delle Guardie Scelte del Governatore. Su ognuno vi erano due uomini, uno al posto di guida e l’altro al suo fianco. Mentre si avvicinava cauto al portone d’ingresso pedonale, vide, a una decina di metri più a destra, aprirsi un cancello più grande da dove arono i veicoli. Entrato a sua volta, li vide fermarsi in un ampio spazio circolare e dal retro di ciascuno saltarono fuori altre due guardie; avevano la divisa degli stessi colori degli automezzi, e tennero aperti i portelloni, in attesa. “In attesa di che?”, si chiese Teodoro, “Sembrerebbe una traduzione di massa” pensò percorrendo molto lentamente il viottolo. La risposta gli si presentò subito: dall’edificio vide sfilare una sequela di giovani, alcuni calmi e rassegnati, altri agitati o spaventati. Erano ammanettati e tenuti in fila per due da una decina di guardie governative che li fecero salire sui mezzi per scortarli a nuova destinazione. Teodoro affrettò il o vedendo un sorvegliante uscire dalla guardiola per controllare che fuori si svolgesse tutto regolarmente. Era un tipo smilzo e canuto, con il viso ossuto e olivastro sul quale era cresciuta un’ispida e grigia barbetta. Gli sembrò un tipo alla mano e sperò di ricavarne qualche informazione utile. «Salve, capo» esordì, sapendo che quella parolina faceva sempre lo stesso effetto ai subalterni, «Non sapevo che la clinica ospitasse anche ragazzi.» «Questo posto è per tutti: uomini, donne, vecchi e bambini. Non ci è mai stata data nessuna disposizione circa l’età. “Quelli che scovate internateli tutti, senza distinzioni” è stato ordinato» disse l’anziano uomo con una scrollata di spalle.
«Però adesso stanno portando via tutti i ragazzi» accennò con la mano alle camionette che stavano uscendo. «Non tutti, una piccola parte. Hanno voluto solo quelli nati nel 3225» «Perché?» «Dicono che stanno sperimentando un nuovo centro di accoglienza, con strutture e cure più adatte ai ragazzi, ma non sappiamo per quale motivo abbiano scelto quelli di quell’anno. Forse in base ai posti disponibili, ma è solo una mia supposizione.» «Magari se chiedessi al direttore me lo saprebbe dire» lo stuzzicò. Il sorvegliante rise di cuore dandosi una grattata alla barba ispida «Certo, glielo direbbe subito. Ma chi crede di essere?» «L’avvocato di uno dei ragazzi portati via?» suggerì Teodoro. «Ma se un attimo prima non sapeva neppure che qui teniamo anche i ragazzi» disse questi con superiorità, portandosi le mani ai fianchi. «Già, però questo il direttore non lo sa» azzardò Teodoro, ma l’altro non gli resse il gioco. «Senta lei, un momento fa mi era simpatico ma ora sta facendo troppe domande. Se è venuto in visita a qualcuno le suggerisco di non perdere tempo in cose che non la riguardano, considerato anche che le rimangono meno di dieci minuti.» disse risoluto il sorvegliante piazzatosi dinanzi a lui a gambe un po’ più divaricate e braccia conserte. “Sempre quei dannati dieci minuti”, pensò ironico Teodoro. Dopo un beneplacito accenno col capo, aggirò la figura dell’uomo che gli ostacolava il o e si affrettò ad andarsi a registrare come visitatore per poter andare da Emma, senza più ribattere al sorvegliante che iniziava ad insospettirsi. Che notizia che aveva in serbo per la sua amica! Quale sarebbe stata la sua reazione all’apprendere che il suo bambino era… “3225!?” quella data gli si ripresentò come un fulmine a ciel sereno. Un rapido
calcolo, mentre affrettava l’andatura nel lungo e angoloso corridoio, collimò col suo timore. «E uno, due, tre, quattro e giù. E uno, due, tre, quattro e giù…» Emma stava completando la sua serie di esercizi quotidiani scandendo il ritmo ad alta voce. Sentire la sua voce le faceva compagnia e le infondeva coraggio, per non ammattire in quel sordo silenzio. Era, però, anche una provocazione lanciata ai suoi carcerieri, ciò che essi erano a tutti gli effetti anche se loro si facevano chiamare igienisti mentali. Volevano indebolire la sua mente, ma lei era più forte e non glielo avrebbe permesso e altrettanto avrebbe fatto col suo fisico per non permettere che s’indebolisse. Si era così imposta un rigido e costante allenamento, senza regole d’orario. Dopotutto a cosa le serviva risparmiarsi per l’orario delle visite quando non ne riceveva? Il marito era andato a trovarla una sola volta in quei quattro lunghi mesi. Proprio lunghi se si considera che ciascuno dei sei mesi dell’anno solare del Mondo di Sopra è formato da cinquantadue giorni. Era stato dopo quarantacinque giorni che Emma si trovava lì, dopo i giorni definiti periodo d’inserimento, durante il quale era preferibile non ricevere visite e che in genere coincideva con i primi risultati positivi del paziente. Durante l’incontro, lei aveva cercato con serenità di convincerlo a riportarla a casa. Non era pazza. Se lui era disposto a crederle, gli avrebbe esposto una lunga serie di prove inconfutabili. Lo aveva implorato di fidarsi di lei e di non credere alla malvagia propaganda del governo, solo così poteva aiutarlo a ritrovar se stesso e tutto gli sarebbe stato chiaro. Sconsolato, lui aveva invece pensato che quei risultati positivi dei primi quarantacinque giorni non c’erano stati. «Perché invece non provi tu a fidarti di me?» Le parlava avvilito, temendole il viso fra le mani e sentendosi trafiggere il cuore da quei due occhi da cerbiatta in cui si stava spegnendo la speranza. «La magia non esiste, ma tu insisti a convincermi del contrario. Il morbo della pazzia ha contagiato anche te. Vedrai che qui riusciranno a guarirti. Stai tranquilla e collabora con i medici, così le cure avranno effetto più velocemente.» L’aveva lasciata con queste parole e con un lungo abbraccio, uscendo da quel posto senza il coraggio di voltarsi indietro.
«E uno, due, tre, slancio...» il rumore metallico del e-partout contro le sbarre della feritoia nella porta, la fece trasalire. Due piccoli occhi tondi, al centro di una grossa faccia a strisce, sbirciarono dentro.
«Ehi, Maga Maghemma, questo giorno devi proprio segnartelo sul calendario: hai una visita!» Le labbra di Emma si distesero in radioso sorriso. Corse a prendere una salvietta mentre la serratura scattava e la porta si apriva consentendo l’accesso al visitatore. «Teo, finalmente!» disse asciugandosi il sudore e tenendo poi ferma con le mani la salvietta attorno al collo. La guardia medica ammiccò: «Per regolamento devo chiuderla dentro con la paziente. Le riaprirò quando terminerà l’orario delle visite. Se dovessero esserci dei problemi, basta bussare forte alla porta, io sarò sempre in questo corridoio e verrò subito ad aprire. Comunque, non mi sembra il caso vostro» disse rinnovando un malizioso cenno d’intesa a Teodoro. «Guardi che lei non ha capito proprio...» non riuscì a finire la frase che la guardia aveva già richiuso la porta e lo vide strizzargli l’occhio prima di chiudere anche lo sportellino della feritoia. «Se ho inquadrato bene quel tipo, prima di stasera tutta la clinica crederà che la paziente della 222 abbia un amante», ironizzo Teodoro, «Credo che avrai bisogno di un avvocato.» «Smettila» lo ammonì lei colpendolo di sorpresa con l’asciugamano. «Piuttosto, mi piacerebbe sapere se ho ancora un marito» disse scuotendo la testa. «Mulac è convinto di agire per il tuo bene. Credo abbia paura che la sua presenza t’induca sempre a ripensare al motivo per cui ti trovi qui, e che sia quindi di ostacolo ai tuoi progressi. Praticamente, vive aspettando che dalla clinica lo avvertano che sei guarita e che può venire a riprenderti. Così impedisce anche a Tommaso di venirti a trovare e questo è un costante motivo di liti e discussioni tra loro due. Tuo figlio questo non lo accetta e se non fosse per l’obbligo di essere accompagnato da un adulto, sarebbe scappato un sacco di volte per venirti a trovare.» «Povero Tom. Mi manca da morire.» sospirò Emma sedendosi di peso sul letto.
«Ho paura che durante una discussione col padre possa perdere le staffe e non riuscire a controllare il suo potere. Mulac porterebbe qui anche lui se fosse possibile.» disse scossa da un brivido. «Emma, dobbiamo andarcene» si animò l’avvocato, avvicinandosi e tirandola su per le braccia, «Non puoi più restare qui dentro. Tom potrebbe essere in pericolo.» «Tom? Santo cielo, Teo, spiegati! Cos’è successo a Tom?» chiese agitata. «Shhh», le poggiò un dito sulle labbra e alluse con un cenno del capo alla guardia medica fuori nel corridoio, «Ho scoperto che qui tengono anche i ragazzi», continuò con un tono di voce più basso, «Mentre arrivavo ho visto che ne portavano via alcuni.» «Cosa? Stai scherzando?» fece lei sbarrando gli occhi. «Shhh», sibilò nuovamente Teodoro, «Ti pare possa scherzare su una cosa del genere...» «No, certo che No... non tradurre letteralmente. Comunque, cosa c’entra con Tommaso?» chiese lei con tono più pacato. «Ti spiegherò tutto fuori di qui. Al momento non potrei dirti se è effettivamente in pericolo. Si tratta di un presentimento corroborato da fatti e dati e... intuito.» Emma alzò gli occhi al cielo, «Lascia stare l’intuito, il tuo presentimento basta e avanza.» si avvicino a lui e gli strinse il polso. «Pensa dove hai lasciato l’auto. Visualizzala e quando…» «No, aspetta», la interruppe Teodoro, «non puoi traslarci entrambi. Fra qualche minuto terminerà l’orario delle visite e la guardia medica verrà ad aprirmi e troverebbe la stanza vuota. Anche se non m’importa quale enorme rompicapo sarebbe per lui capire come ci siamo volatilizzati, e come lo spiegherebbe al suo responsabile, sta di fatto che sarebbero allertate immediatamente le Guardie Scelte. Se invece faremo come ti dirò io, guadagneremo qualche ora di vantaggio, magari fino all’indomani.»
«Ascolta, io adesso me ne vado, tu invece ti fai una bella doccia, direi che ne hai proprio bisogno» fece indicandone la figura con un gesto della mano, che dall’altezza del capo, con i capelli intrisi di sudore e alcune ciocche appiccicate al collo, scese lungo il corpo abbigliato con una tuta da jogging evidentemente pezzata, fino ai piedi scalzi che stavano imprudentemente per calpestare l’asfalto cittadino. «Ti suggerisco di cantare a squarciagola finché sarai sotto l’acqua, in modo che la guardia ti senta. Quando sarai pronta, mi raggiungerai allo studio, il posto già lo conosci», e aggiunse con una frecciatina, «è proprio da dove mi hai prelevato qualche giorno fa, ricordi?» «Ricordo. Che aspetti ad andartene? Ho fretta di esibire le mie doti canore sotto la doccia.» «Mi dileguo» rispose lui andando a bussare forte alla porta della stanza. Evidentemente, la guardia doveva essere rimasta nei paraggi poiché arrivò lì per lì. Il suo faccione fece capolino tra le sbarre della feritoia, aveva un’espressione contemporaneamente meravigliata e delusa, e tentennò ad aprire. Forse si era illuso di trovare l’avvocato perlomeno un tantino scomposto o spettinato e la donna con un abbigliamento diverso, magari una vestaglia. Di lei invece non c’era traccia e alzo il mento cercando di sbirciare all’interno fin dove la finestrella glielo permetteva. La sua mente debosciata gli suggerì di concedere al visitatore ancora un po’ di tempo, pensando che ciò gli avrebbe fruttato magari una ricompensa. Inoltre, per almeno tre quartine, avrebbe avuto di che spettegolare con i colleghi. «Ha bussato?» si decise a chiedere. «Sì, ho bussato. Vorrei uscire.» rispose Teodoro con decisione. «Se non ci sono problemi con la signora, per me può restare. Ha ancora qualche minuto e... sa, a volte capita che gli orologi rimangano indietro... che ne dice di altri dieci minuti?» ammiccò il grassone. “Che persecuzione! Sempre quei dieci minuti.” pensò l’avvocato. «Mi apra, per favore. Oltretutto la paziente ha bisogno di fare al più presto una doccia calda. Fa freddo qui dentro e non è bene che il sudore le si geli addosso.» Le parole di Teodoro terminarono con uno scroscio d’acqua di sottofondo.
La guardia medica si arrese e, senza nascondere una smorfia, gli aprì la porta. Teodoro uscì e la porta venne richiusa. Intanto, dall’interno della stanza giungevano le note acute e intenzionalmente stonate di “Una notte d’Afusvertum”, il primo grande successo di M. J. Marvel. I due uomini si guardarono. Teodoro fece spallucce e si incamminò. Fatti una decina di i si voltò e tornò indietro. «Ah, dimenticavo» disse alla guardia, «Emma mi ha chiesto di comunicarle che è molto stanca e non ha appetito. Non le faccia portare la cena, preferisce andare subito a riposare.» Aveva guadagnato dell’altro tempo. Non si sarebbero accorti dell’evasione se non all’indomani.
Tommaso era impegnato a scaldare il banco nella terza fila, il quarto da destra in riferimento all’entrata della classe, tanto per essere precisi. Da due giorni non riusciva a fare altro. Era troppo indaffarato e concentrato ad attivare e rinnovare la funzione scudo che Mathesias gli aveva insegnato. Aveva paura di se stesso, temeva di non riuscire a controllare i suoi poteri e di essere scoperto. Oltretutto gli avevano appena affibbiato l’etichetta di “persona molto speciale” aggiungendo un’aggravante alla sua incolumità. Tommaso non era ancora in grado di creare un campo di energia delle dimensioni di quello creato da Mathesias, ma era sufficiente a isolare la propria persona, anche se il suo effetto non aveva lunga durata ed era perciò costretto a rinforzarlo di frequente. Non è che in classe gli servisse questa protezione, però imparare bene a utilizzarla gli sembrava, al momento, più importante di qualsiasi insegnamento scolastico. Così la lezione di scienza dei numeri rimbalzava sullo scudo senza riuscire a penetrare all’interno del suo guscio protettivo. La funzione scudo era invisibile; solo chi la evocava era in grado di vedere i bagliori azzurri del campo di forza che aleggiavano intorno. Quando l’intensità di questi bagliori diminuiva, significava che il campo si stava indebolendo. Lo scudo non rendeva invisibili i maghi che lo utilizzavano, però impediva alle sfere di cristallo di captare e memorizzare tutto ciò che accadeva al di sotto, ossia immagini, suoni e quant’altro. In quel momento, per qualsiasi sfera esistente, Tommaso non si trovava a scuola. E chiunque l’avesse interrogata, sia dal ato sia dal futuro, essa avrebbe dato lo stesso responso. Per fortuna non
sempre ciò indicava che in quel momento era attivo uno scudo, certe volte, infatti, capita che le sfere non si rendano disponibili a rivelare ciò che sanno. Tommaso sentiva crescere la dimestichezza nell’evocare lo scudo. Più si esercitava e più riusciva a farlo nel minor tempo possibile, ma la parte più difficile era riuscire contemporaneamente a seguire altre attività. Questo non era ancora in grado di farlo. Ragion per cui, le parole dell’insegnante non riuscivano a sollecitare più di tanto i suoi timpani; solo alla quarta volta riuscì a sentire il suo nome. «Tommaso!» esasperata, la professoressa alzò la voce. Lui si destò e vide i bagliori azzurri perdere improvvisamente intensità e svanire. «Porca miseria!» esclamò con disappunto in tono basso e battendo un colpetto leggero sul banco. «Cosa hai detto?» chiese infastidita l’insegnante, mentre la classe ridacchiava. «Niente... che non ho capito la domanda.» «Quale domanda?» «Quella che mi ha fatto prima» rispose Tommaso con naturalezza «Non ti ho fatto nessuna domanda. Non ancora, per lo meno» disse lei stizzita. «Lo so, mi riferivo a quella.» Ciò che disse dopo l’insegnante, infuriata, nessuno lo capì, poiché la camla, collocata alla parete del corridoio proprio in prossimità della loro aula, iniziò a suonare con i soliti decibel di troppo, annunciando la fine dell’ultima ora di quel faticoso giorno di scuola. Tutti raccolsero velocemente libri, quaderni, diari e astucci dai banchi e ricomposero i loro zaini. Tommaso, invece, indugiò a uscire dalla classe. «Ehi, Tom, che ti succede? Hai dormito ad occhi aperti tutto il giorno» gli chiese il suo compagno di banco.
«Deve essersi innamorato» lo scimmiottò, uscendo, una compagna bruttina che aveva una cotta segreta per lui. «Scema» l’apostrofò. «Non darle retta», si affrettò ad aggiungere, quasi a impedire che l’altro potesse continuare sulla stessa menata, «Sono solo stanco, questa notte ho dormito poco e male.» Si avviarono entrambi all’uscita. Fuori, il tiepido sole di metà Mitigo, l’ultimo mese di Friavertum, la stagione fredda, iniziava a rendere più piacevole stare all’aperto. Uscendo all’esterno, gli occhi di Tommaso non erano preparati all’intensa luce solare e istintivamente si strinsero in due sottili fessure per proteggersi. All’ombra di un albero, intravide una sagoma non ben definita. Non appena riuscì a metterla a fuoco, ciò che vide lo accecò più della luce del sole. Intorno, tutto si era fermato. Rimase impalato e insensibile alla fiumana di studenti che si riversava giù dalle scale strattonandolo, così come non udì i fischi di apprezzamento dei ragazzi che si levavano da ogni parte. Sentiva solo i battiti del suo cuore che acceleravano e si premette forte una mano sul torace, temendo che il cuore potesse effettivamente uscirgli dal petto. Sentì mancargli l’aria. Poteva veramente fargli quell’effetto? Altea era lì, ferma nella longilinea figura con le sue curve aggraziate. Un dolce venticello le scompigliava la frangia e sottili ciocche di lunghi capelli neri svolazzavano davanti al suo volto cereo. Lei si accorse subito del ragazzo rimasto fermo in cima alle scale, mentre un’onda di scolari stentava a non travolgerlo. I loro sguardi si attrassero come se avessero avuto due calamite al posto degli occhi. Altea non provò le stesse emozioni di Tommaso. Lei non conosceva sentimenti come l’affetto, l’amore, la felicita, il rimorso e il dolore; non le erano stati insegnati, il suo ristretto mondo ne era avaro. Aveva conosciuto solo odio, rabbia, bramosia, indifferenza ed egoismo. Così la bellezza adonica di Tommaso le scivolò alle spalle, poiché era più interessata a lasciare che i suoi sensi subissero ben altra attrazione: quella elementale. E quel giorno pensò di essere stata fortunata. Cabàr, il compagno di Tommaso, si era distratto un attimo per parlare con una
ragazza e non vedendolo più al suo fianco iniziò a cercarlo. Prendevano lo stesso autobus, quindi lo cercò alla fermata pensando che fosse andato avanti per non intromettersi. Lì non c’era, allora iniziò a guardarsi intorno. Quando lo vide, irrigidito sulle scale, seguì il suo sguardo e non poté fare a meno di ridere. Andò a salvarlo, giacché era evidentemente che non si stava rendendo conto di essere ridicolo. «Ehi! Non sapevo che avessero posato una statua qui in cima», ma l’altro non lo udì. Lo scosse allora per un braccio. «Riprenditi amico, la stai divorando con gli occhi» Tommaso riuscì a cambiare polarità ai suoi occhi e le calamite persero l’attrazione. Si era dimenticato di respirare regolarmente e i polmoni erano avidi d’aria. Fu preso dal panico, temendo di scatenare un vortice si concentrò al massimo, doveva riuscire assolutamente a controllare il suo potere. Ma che succede? Stava respirando normalmente, i polmoni si erano ben ossigenati, immagazzinando l’aria necessaria senza scuotere l’elemento. Un sorriso gli affiorò sulle labbra: ci era riuscito! Si rese conto che lo aveva tenuto sotto controllo per tutto il tempo. I capelli di Altea smisero di svolazzare. Il dolce venticello si era placato. «Ben tornato!» fece Cabàr. Non gli era certo sfuggito che anche la ragazza dai lunghi capelli neri lo aveva fissato a lungo. «Hai fatto colpo, eh! Tra tutti i bei ragazzi a disposizione... proprio te?» «Scherzo» aggiunse dandogli una spallata, «Anzi di startene qui, impietrito, dovresti andare a fare la sua conoscenza. Se proprio insisti, ti accompagno.» «Stai scherzando? Ma lo sai chi è quella?» «Un gran pezzo di gnocca» disse con esagerata mimica facciale, «e se non t’interessa mi faccio avanti io.» «Non te lo consiglio. Quella è Altea, la figlia del Governatore Ollgiast.» «Altea? Non sapevo neppure che faccia avesse. Non l’ho mai vista in giro e nemmeno alle assemblee di piazza affianco al padre.» «Già» fece Tommaso perplesso.
«Sarà in cerca di un ragazzo. Avrà capito che era necessario uscire da casa per…» Le onde sonore di quelle parole percossero i timpani di Tommaso, che a loro volta trasmisero al cervello un segnale di pericolo. Stava cercando proprio lui. Non si era invaghita del suo aitante aspetto – modestamente – doveva aver captato i suoi poteri. Eppure era sicuro di aver praticato efficacemente la funzione scudo, ma anche se così non fosse, non aveva comunque usato i poteri e tantomeno era in grado di fare incantesimi e usare la magia. “Che stupido!” Se ne rese conto. Il leggero venticello che si era levato in quel giorno calmo, era opera sua. «Presto, dobbiamo andarcene», tirando Cabàr per un braccio si mise a scendere di corsa le scale. «Calma! Mi farai cadere», protestò l’altro mentre cercava di guardare l’orologio al polso. «L’autobus a tra cinque minuti.» «Non abbiamo tempo di aspettarlo. Prendiamo quello che è già arrivato» non aveva mollato la presa e continuò a tirarselo dietro. «Cosa? Tu sei matto, quello va dalla parte opposta.» «Poi troveremo il modo di tornare indietro. Adesso mi serve il tuo aiuto.» Cabàr oppose resistenza e con un forte strattone si liberò dalla ferrea presa di Tommaso. «Non ho nessuna intenzione di salire su quell’autobus. E neppure di aiutarti, se prima non mi dici che cosa succede» l’amico era risoluto. «Già, così intanto lo perdiamo. Dai, sali che ti spiego.» Cabàr sollevò le braccia in segno di sconfitta e scuotendo la testa seguì Tommaso sul mezzo. Andarono in fondo a occupare posto negli ultimi sedili. Quando si sedettero, tornando con lo sguardo sulla parte anteriore del bus, si accorsero che anche Altea era salita. Restò ferma qualche istante a fissarli, poi occupò un posto nella parte centrale dell’autobus. «Cavolo, anche... Ahi!» Cabàr fu interrotto dal piede di Tommaso che pestò il suo. Cominciava ad averne abbastanza e lo guardò torvo.
Tommaso sapeva della funzione “amplifica udito”. Mathesias non gliel’aveva ancora insegnata, ma era convinto che Altea sapesse usarla. Non dovevano dire nulla finché lui non evocava la funzione scudo. E qui veniva il bello: tenere attivo lo scudo mentre conversava con l’amico. Ma non era tutto, Altea avrebbe visto che muovevano le labbra e non riuscendo a udire le parole, avrebbe avuto un’ulteriore prova dei suoi poteri. Doveva escogitare subito qualcosa, prima che Cabàr perdesse la pazienza e iniziasse a parlare. L’idea arrivò lì per lì. Non era un gran che, ma non poteva permettersi di fare lo schizzinoso. Si concentrò sullo scudo, riusciva a coprire entrambi, poi si alzò di scatto rimettendosi sul sedile in ginocchio verso il lunotto posteriore, dando cioè le spalle ad Altea. Fece questa mossa fingendo di essersi girato a salutare degli amici e agitò la mano sorridendo. «Ehi! Girati anche tu, guarda chi c’è.» Quando l’altro si girò, stralunato perché non riconobbe nessuno, Tommaso iniziò a parlargli in modo alquanto strano. Mantenere attivo lo scudo e parlare al contempo era per lui una cosa ancora difficile. Le parole gli uscivano ritmiche e a Cabàr sarebbe sembrato di sentir parlare un robot, se solo avesse saputo cosa fosse. Tommaso gli disse che era in pericolo, che Altea non si era invaghita di lui ma che era a caccia di presunti maghi da rinchiudere. «Tu credi di essere un mago?» chiese confuso. «Certo - che No. Ma loro - vedono - maghi - dappertutto.» «Insomma, perché parli così? Sei proprio strano oggi. Sei sicuro di sentirti bene?» «Sto bene - credimi. Sono soltanto - spaventato. Ogni tanto - internano qualcuno - senza motivo. Li ho visti - portar via - mia madre - e ora quella vuole - anche me. Per favore - devi credermi.» Così dicendo infilò la mano in tasca; aveva ancora il biglietto da visita di Teodoro. Glielo ò di nascosto, chiedendogli di recarsi a quell’indirizzo e di avvisare l’avvocato che era in pericolo, perché Altea lo aveva trovato. Cabàr notò che l’autobus era diretto proprio in quella zona, ma protestò alla richiesta del compagno. Il veicolo si mise in moto proprio in quel momento. «Non andrò da nessuna parte che non sia casa mia. Anzi, sai che ti dico? Adesso
scendo prima che inizi a muoversi.» «No! Per favore», questa volta le parole non furono metalliche, si coglieva benissimo un accorato tono di supplica, ma Tommaso riprese subito il controllo. «Sei il solo - che può - aiutarmi. Va da lui - e riferiscigli - che scenderò all’ultima fermata - di questa linea. Poi - chiedigli - di riportarti a casa. Adesso ci giriamo e - non diremo più - una parola - di questo. D’accordo?» Cabàr annuì ed entrambi si girarono. L’autobus si era avviato e Altea occupava ancora lo stesso posto. Ella fece loro un leggero sorriso enigmatico. “Quella è cotta e lui vede gli acchiappa maghi” pensò Cabàr. Con la mano in tasca prese a rigirare il biglietto da visita chiedendosi che cosa ne avrebbe fatto.
L’amministratore delegato della Nebrus BioC, la principale compagnia estrattiva del biocrinite, era seduto di fronte a Teodoro, intento a firmare la relazione finale di una consulenza legale. Quando Teodoro trasalì, facendo vibrare la scrivania, questi alzò gli occhi per fissarlo. Teodoro si scusò dicendo che gli era venuto un brivido improvviso; la verità invece era un’altra. Alle spalle dell’amministratore era apparsa Emma. Appena il cliente ripose lo sguardo sul foglio, Teodoro, con gli occhi, indicò alla donna la poltrona vicino a lei, ed ella, in punta di piedi, andò ad accovacciarsi dietro ad essa per nascondersi. Teodoro ò all’AD altri fogli da firmare, quindi, con garbo, si sbrigò a liquidarlo. Lo salutò con un’energica stretta di mano e lo accompagnò alla porta. Emma sbucò fuori dal suo nascondiglio e lui le lanciò una occhiataccia. Indispettita, lei si portò le mani ai fianchi. «È colpa tua! Stavi aspettando me, non avresti dovuto prendere appuntamenti per oggi. Pensavi che sarei apparsa in sala d’attesa? No! Scusa, avrei dovuto prendere un appuntamento.» Teodoro stava per rispondere quando la porta gli arrivò addosso. Radalise, la segretaria, stava entrando e non si aspettava certo che lui fosse lì dietro. Sentendo un impedimento che non le faceva aprire la porta più di tanto, infilò a fatica la testa nell’angusto pertugio spiando dove fosse l’intoppo. Vide Teodoro,
ma con la coda dell’occhio rilevò un’altra presenza. Il suo volto si accese di stupore, spinse Teodoro per riuscire a entrare e richiuse subito la porta. «Emma!» esclamò sommessamente, e le andò subito incontro a braccia aperte. «Sei proprio tu?» «Sono tornata» rispose Emma e si strinsero in un forte abbraccio. «Finalmente ti hanno rilasciato.» «Ehm, Ehm», Emma si schiarì la voce. «Sei scappata?» «Direi che sono evasa, mi sembra più appropriato.» «Già, non mi risulta che abbiano mai dimesso qualcuno», poi si fece perplessa. «E adesso cosa farai? Non penserai di tornare a casa da tuo marito, spero. Quello ti rispedisce dentro.» «Sapevo che ti saresti offerta di ospitarla a casa tua» fece Teodoro di rilancio. «Cosa? Io complice di un’evasa!» gli altri due la guardarono confusi. «Ehi! Stavo scherzando. Accipicchia, sono anch’io un membro della Resistenza... se non ci aiutiamo fra di noi...», si fermò un istante, li guardò e si mise a ridere. «Ma certo che puoi stare da me.» «Grazie» disse Emma, stava per aggiunger qualcosa ma tentennò. «Qualcosa non va, cara?» le chiese Radalise. «Ecco, non vorrei darti troppo disturbo... è che... beh, quello che ho addosso è tutto ciò che ho. Ciò che avevo in dosso quando mi hanno ricoverato, adesso è un po’ fuori stagione. Sai, lì dentro usavo le divise che mi davano loro.» «Ma quale disturbo, non dirlo neppure per scherzo», disse Radalise, rendendosi conto solo in quel momento che l’altra indossava un indumento afusvertiano. Squadrò Emma e gettò un occhio su se stessa. «Dovremmo avere la stessa taglia, altrimenti andremo a comprare qualcosa.»
«Grazie ancora. Sei un tesoro», Emma le scoccò un bacio sulla guancia. «Però adesso ditemi tutto di Tommaso, vi prego. Perché mio figlio è in pericolo?» Teodoro fece cenno a Radalise di lasciarli soli; lei si congedò, ma dopo un istante rientrò. Aveva portato a Emma il coprispalle che teneva nel suo armadietto per ogni evenienza. Emma le fu davvero grata. Teodoro pensò di appiccare il fuoco a un ceppo nel camino, anche se quello non era più il periodo poiché Dulcis bussava alla porta. Sedettero sulle poltrone, l’uno di fronte all’altra. Radalise li interruppe un’ultima volta portando, premurosamente, due tazze d’infuso caldo. Teodoro ben accolse quelle interruzioni, perché non sapeva proprio da dove iniziare. «Devi star tranquilla. Non è detto che Tommaso sia in pericolo, comunque dobbiamo essere molto vigili. La prima volta che ho percepito il suo potere, mi sono subito precipitato da lui. Io non ho il tuo dono di apparire ovunque voglia, per cui ci ho messo un po’ ad arrivare da lui. Certo, mi vanto di erigere uno scudo ad ampio raggio, e l’ho attivato subito, ma prima di essere arrivato a coprire Tommaso, qualcun altro potrebbe averlo intercettato. Ma...» perbacco! Il momento più difficile. «Ma... cosa?» Emma era tesa. «Ma... dobbiamo essere vigili e proteggerlo a tutti i costi, perché lui conta più di tutti noi. La Profezia dei Gemelli ha predestinato tuo figlio donandogli il potere dell’Aria e del Fuoco», disse quelle parole con calma, scandendole bene e col tono tipico dell’avvocato alle prese con la tesi probatoria. Emma si portò le mani al petto, lo strinse forte poiché il suo cuore pulsava così veloce da non capire se era ancora in petto o si fosse trasferito in gola. Una miriade di pensieri guizzavano alla rinfusa nella testa e un senso di stordimento la pervase. Respirava con affanno e parlò con un filo di voce. «Sei proprio sicuro di quello che dici?» «Lo sono», affermò l’uomo. «Tom era con me, Mathesias e Alcherius, nel nostro covo, quando ha scoperto di possedere anche il potere del Fuoco. Lui è rimasto sconcertato e si è turbato alla vista della fiammella che scaturiva dal suo dito, ma noi siamo rimasti sconcertati più di lui, perché sappiamo cosa significa avere un
altro potere. Credo che in quegli attimi di stupore abbiamo tutti e tre perso la concentrazione e che lo scudo che avevamo evocato sia crollato per diversi secondi.» «Credi?» fece lei, stringendo di più le mani al petto. «No, purtroppo ne sono certo. Se Argelia ha rilevato entrambi i suoi poteri, non si darà pace finché non lo avrà trovato... finché non li avrà trovati... cercherà anche l’altro. A questo punto, dobbiamo sperare che il gemello si trovi dall’altra parte.» Emma tirò un profondo sospiro e si alzò dalla poltrona. Le sue pulsazioni erano tornate regolari e il respiro ritmico. Quel momento era ato, adesso aveva ritrovato la forte determinazione e la combattività, elementi caratteristici dell’Unicorno, il suo segno astrale. «Come procediamo? Avete già un piano per la sua protezione?» «Abbiamo mandato Zantor in avanscoperta per sondare il terreno. Per quello che ci hanno raccontato i nostri avi, l’altra parte del mondo era un posto pacifico e felice. Ci hanno tramandato tanti particolari di come era strutturata la società e del tipo di vita che si conduceva, ma non possiamo sapere se è rimasto tutto come allora. Zantor è andato a scoprirlo. Ha portato con sé le richieste di ammissione di Tommaso e del figlio di Mathesias. Se non ci saranno pericoli, se il posto è ancora il luogo tollerante che ci hanno descritto, troverà il modo di farle avere a chi di competenza. Abbiamo pensato di introdurre due dei nostri ragazzi al San Gregorio College, perché possano ricevere tutti gli insegnamenti che qui non siamo più in grado di offrire loro. Al termine dell’apprendimento, essi potranno veder confermati i loro poteri in modo definitivo solo durante il viaggio nel Paese delle Fate. Al momento Zantor non è ancora tornato, ma non appena ci porterà notizie, potremo valutare se sarà possibile per te e Tommaso rifugiarvi dall’altra parte. «Alt!» Emma lo fermò con un gesto della mano. «Ragioniamo. A prescindere dal fatto che non ho nessuna intenzione di scappare e abbandonare la Resistenza, per me non ci sarebbero problemi: io sono scappata ed è plausibile che mi stia nascondendo da qualche parte, e se non riusciranno a trovarmi penseranno solo che mi sia nascosta bene. Ma Tommaso non può sparire da un momento all’altro, Mulac lo cercherà ovunque, forse verrà persino da te a chiederti aiuto, e la scuola
chiederà informazioni sulla sua assenza.» «Ma è perfetto! Tu sei scappata e tutti penseranno che l’abbia portato via con te», l’avvocato schioccò le dita. «Grazie! Pazza, fuggiasca e rapitrice. Un soggetto pericoloso, altro che riabilitazione.» Emma stava consumando il pavimento dell’ufficio col suo andare avanti e indietro, un’abitudine che aveva preso all’interno della stanza 222, ogni volta che aveva bisogno di concentrazione. «Se Zantor è riuscito a far penetrare le richieste di ammissione dei ragazzi, a quest’ora chi svolge il compito di selezione avrà già scoperto i poteri di Tommaso. E se dovesse scappare da entrambi le parti?» la madre considerò una nuova ipotesi. «Ma no, come ti ho detto, Zantor deve valutare bene la situazione prima d’introdurre le richieste di ammissione. Non ci resta che aspettare il suo ritorno.» «Chiedo a Radalise di mutare il tuo aspetto», disse Teodoro avvicinandosi all’interfono. «L’incantesimo durerà il tempo sufficiente per raggiungere il quartier generale. Tommaso sta andando lì. Ci va ogni giorno uscendo da scuola per prendere lezioni da Mathesias, e torna a casa prima che Mulac rientri dal lavoro.» «Tom! Non vedo l’ora di stringerlo forte a me», disse Emma mentre stringeva forte se stessa. «Non troppo forte, mi raccomando. Non sai cos’è capace di scatenare se gli manca l’aria» Teodoro fece per pigiare il tasto dell’interfono, ma ci rinunciò poiché Radalise irruppe nell’ufficio, agitata. «Scusate. Teo, c’è qui un ragazzino, dice di avere un messaggio da parte di Tommaso e vuole parlare solo con te.» Emma e Teodoro si lanciarono un fulmineo sguardo allarmato. «Fallo entrare, che aspetti!» fece l’avvocato. Cabàr entrò titubante guardandosi intorno e chiese a Teodoro se conosceva
davvero Tommaso. Alla risposta affermativa dell’avvocato e al suo incoraggiamento a parlare, Cabàr guardò Emma, lanciando a Teodoro uno sguardo interrogativo. «È sua madre. Puoi parlare tranquillamente» disse. «Sua madre? Ma Tom mi ha detto che è ricoverata...» Emma lanciò all’amico un’occhiataccia «Vedi... come ti chiami?» chiese Teodoro «Cabàr» «Vedi, Cabàr, Tommaso soffre di manie di persecuzione. Ogni qual volta sua madre si assenta qualche giorno per lavoro, lui crede che quelli del governo l’abbiano portata alla clinica per malati di mente. È colpa di un cartellone propagandistico che ha letto un giorno e che l’ha spaventato.» «Cavolo! E adesso è convinto che vogliano portare dentro anche lui!» «Perché dici così? Dov’è Tom, cosa ti ha detto?» chiese Emma in crescente stato d’ansia. «Oggi, all’uscita di scuola, ha visto una ragazza. È convinto che sia An... Al... Beh, insomma, la figlia del governatore. Ha cominciato a dire che era in pericolo, che lei era venuta a cerar proprio lui per portarlo dentro; mi ha trascinato sul primo autobus in partenza, ma quello non era il nostro autobus, veniva da queste parti; anche la ragazza è salita sull’autobus e lui si è comportato stranamente, parlava a scatti; mi ha dato questo biglietto col vostro nome.» Gli mostrò il biglietto color porpora e con le scritte dorate. «Ha detto di avvisarla che lui è in pericolo; ha detto anche che ero il solo che poteva aiutarlo, ma io volevo solo andare a casa, non so perché ho deciso di venire...» Cabàr parlava come un treno diretto che va spedito al capolinea, saltando tutte le stazioni intermedie. Teodoro lo interruppe. Prendendolo per le braccia, gli impose di calmarsi, gli disse che andava tutto bene e di stare tranquillo. «Hai fatto bene a venire da me. Tommaso ha bisogno di cure, dobbiamo trovarlo
immediatamente, prima che possa accadergli qualcosa. Sai dove lo possiamo trovare?» «Ha detto che sarebbe sceso all’ultima fermata dell’11» «Non capisco, poteva venire qui insieme a Cabàr» fece Emma. «Non vuole coinvolgermi direttamente. Però sa che sono l’unico che può aiutarlo e ha cercato di avvicinarsi a me il più possibile. Tantomeno l’avrebbe condotta in quel posto.» Teodoro chiamò Radalise perché portasse Cabàr in sala d’aspetto e gli offrisse un succo di frutta. Il ragazzo si sedette e tracannò il suo succo d’un fiato. Discretamente, chiese se ne poteva avere un altro. Non vi era più tempo per l’incantesimo di Radalise, andavano di fretta. Adesso Tommaso era seriamente in pericolo. Prima di andar via con Emma, Teodoro chiese alla segretaria di rimandare gli ultimi appuntamenti del giorno, quindi di chiudere lo studio e di accompagnare Cabàr a casa. Le fece anche un gesto d’intesa, per cui Radalise comprese che, non appena il ragazzo fosse sceso dalla macchina, avrebbe rimosso dai suoi ricordi gli ultimi avvenimenti. Emma e Teodoro uscirono come due saette in cerca di Tommaso e, nonostante l’insistenza di Emma di viaggiare a modo suo, presero l’auto di Teodoro.
Capitolo 12
L’unica soluzione
C’era d’aspettarselo. Le due ragazze erano ormai convinte di averla fatta franca, ma all’occhio vigile di chi quel giorno attendeva al Grande Osservatorio il fatto non era sfuggito. Dopo qualche mese, ricevettero entrambe una busta viola dall’ UDAUAM, l’Ufficio per la Denuncia degli Abusi nell’Utilizzo delle Arti Magiche. Trattandosi di due ragazzine quattordicenni, le buste finirono direttamente nelle mani dei loro genitori. Il signor Mangrella rimase senza parole alla vista di quel colore che portava un solo tipo di notizia: un avviso di comparizione. A cinque chilometri di distanza, alla signora Shana, invece, le parole uscirono sconnesse quando aprì la busta e lesse il nome della figlia. Ivan e Shana si misero in contatto telefonicamente e organizzarono un incontro a insaputa delle figlie. Quando le ragazze si incontrarono al parco, quello che sembrava un pic-nic a sorpresa si rivelò un interrogatorio. I genitori erano tranquilli ma sinceramente amareggiati di essere stati tenuti all’oscuro della faccenda. Marta guardava Matilde con l’eloquente espressione del “te l’avevo detto”. Toccò a Matilde imbastire la difesa. Col fare di prima della classe iniziò a elencare i fatti, convinta che gli elementi per giustificare il movente c’erano tutti: il tempo, l’emergenza, la nuvola di Fantozzi. Per fortuna, il giorno dell’udienza, il giudice era sulla stessa lunghezza d’onda di Matilde, e le due ragazze tornarono a casa da eroine. Riscossero i complimenti della commissione per l’intuito, la tempestività, la bravura e la lucidità nell’affrontare la situazione; per aver dissipato il fenomeno, evitando che si diffondessero strane voci per tutta la capitale. Per un intero giorno, Matilde fu in preda all’eccitazione, poi la telefonata di Camilla, l’amica del cuore, ristabilì il suo umore quotidiano. Dal giorno dell’invio della richiesta di ammissione al San Gregorio College, ogni giorno successivo era ato rinviando all’indomani la risoluzione del problema “Camilla”.
L’amica era convinta che Matilde avesse scelto la sua stessa scuola, perché così le aveva fatto credere, rimandando a un altro momento l’elucubrazione per trovare una scusa credibile. Ma più il tempo ava e più diventava difficile. La sola vista di Camilla l’angosciava e aveva persino iniziato a evitarla, oltretutto negando l’evidenza ogni qual volta l’amica glielo rinfacciava. Avevano litigato due volte e Matilde si era inventata le scuse più incredibili per giungere a riappacificarsi. Tuttavia, Camilla non aveva smesso di tenerle il broncio, soprattutto a causa di Marta. Secondo lei, se Matilde si comportava stranamente nei suoi confronti era per colpa della nuova arrivata, che mirava a portarle via il titolo di amica del cuore. Matilde era triste. Tormentata dalla situazione in cui si era venuta a trovare, aveva desiderato con tutto il cuore poter essere una normale come Camilla. Il cuscino della Juventus era impregnato di goccioloni di pianto che Matilde non riusciva a trattenere, e il pavimento era cosparso di fazzoletti di carta usati. Poi, s’intromise il suo diaframma che iniziò a contrarsi causandole l’inevitabile, fastidiosissimo, singhiozzo. «I normali bevono sette sorsi d’acqua per farlo are. Oppure trattengono il fiato per dieci secondi» disse Sonaglino in camicia da notte, affacciata alla finestra della sua casa-orologio. «Smettila. Non voglio che mi i», replicò a scatti Matilde. «Oh! Allora tienitelo pure.» «Grazie, bell’aiuto! Io ho un problema molto serio da risolvere e tu riesci solo a darmi consigli su come far are il singhiozzo», ribatté con voce sobbalzante, strapazzando il cuscino. «Come faccio con Camilla!» «Uhm, vediamo un po’», Sonaglino si portò l’indice destro alla tempia. Iniziò a pensare, pensare, pensare. Il viso s’illuminò, ma... «No», disse con una smorfia, scuotendo la testa. Ripensò e di nuovo si accese, ma... «No, neppure questa», fece disgustata. «Ecco, lo vedi? Non c’è soluzione credibile. L’unica è dirle la verità.» «Sei impazzita forse? È solo una tua amica normale, non l’uomo normale che hai
sposato. Non sono concesse eccezioni», Sonaglino uscì da casa come una furia. Matilde si asciugò le lacrime con la manica del pigiama e tirò su col naso. Cercò di far capire alla minuscola creatura della sveglia che non aveva alternativa. Qualsiasi scusa non avrebbe retto, perché non poteva sparire per un anno senza dare notizie di sé. «Se anche le dicessi che andrò a studiare in America, non avrei scuse per non mantenere i contatti con lei: Sms, Facebook, Messenger, Twitter, Skype, WhatsApp, Viber... devo elencartene ancora? E se di colpo sparisse la tecnologia, ci sarebbero sempre carta e penna. Capisci cosa intendo? Mi odierebbe!» «Dovrei rinunciare per sempre a lei?» Si soffiò il naso. «Non ci penso proprio.» «Ehi, Terremoto, a cosa non pensi proprio?» chiese il padre, giunto in quel momento a darle la buonanotte. Si preoccupò nel vedere gli occhi rossi e gonfi della figlia e le chiese spiegazioni. «Camilla!» disse forte Sonaglino, alzando le braccia con un gesto esasperato. «E già, Camilla!» ripeté Ivan, imitandola. «Credo che non abbiamo altra scelta che dirle la verità» disse con far di logica. «Sììì!» esultò Matilde, tirando istintivamente i pugni in aria, come se il padre avesse appena segnato un goal. Si alzò dal letto e gli saltò al collo. «Cosa?» sbraitò la creaturina. «Hanno sentito bene le mie orecchie?» «Sonaglino, le tue orecchie appuntite sentono sempre molto bene» ironizzò Ivan «Voi due siete matti. Sapete benissimo che...» «La verità si può rivelare solo alla moglie o al marito», cantilenò Ivan. «Per me il rischio è lo stesso. Se permetti, noi, che ci viviamo insieme da più di un secolo, conosciamo i normali meglio di quelli che li osservano da lassù. Il concetto di vincolo matrimoniale e di coppia ha molte sfumature su questo pianeta, mentre nel Mondo di Sopra è... diciamo in bianco e nero. Se poi pensi alle coppie che litigano, si separano, divorziano ti renderai conto che la nostra identità può essere in pericolo in ogni caso, tanto quanto aver rivelato la verità a
un amico.» «Allora ditelo a tutti! Fate come vi pare; io quello che dovevo dirvi ve l’ho detto» brontolando, Sonaglino si ritirò nella sua dimora e pietrificò con tutta la casa e la torre dell’orologio, diventando il soprammobile che era solito essere per gli occhi dei normali. «Ecco, quando si arrabbia pietrifica sempre. Non la sopporto quando fa così» disse Matilde, «Tanto lo so che il tuo orecchio è rimasto vivo per continuare a origliare» aggiunse più forte. «Dai, lasciala andare che dopo le a» le disse il padre dandole delle leggere pacche sulla spalla, «Dopotutto, cosa dovremmo fare? Dire a Camilla che andrai a studiare in America? Ma dai, vuoi scherzare! Con tutti i mezzi di comunicazione che...» «Ehi! Ma tu stavi origliando» fece Matilde indispettita. «Per forza, i tuoi singhiozzi li hanno uditi per tutti e sette i Colli.» Matilde andò a dormire più leggera ora che si era tolta quell’enorme peso di dosso. Pensò felice all’indomani, quando finalmente avrebbe condiviso il suo segreto con la sua migliore amica. Eppure, nonostante la distensione, il suo sonno venne disturbato da sogni inquieti. Gli occhi si muovevano rapidamente sotto le palpebre chiuse, mentre l’inconscio proponeva la replica di un sogno. Tutte immagini già vissute, tranne un piccolo ma significante particolare: questa volta era riuscita a dare un volto alla calda voce che la chiamava. Un ragazzo biondo, con viso serafico e due intensi e magnetici occhi scuri, che le tendeva la mano con un sorriso disarmante. Nel suo cervello entrò in funzione l’emisfero della razionalità, e lei si svegliò per accertarsi che, come l’altra volta, il padre non la stesse chiamando. Aprì gli occhi e attorno a lei c’erano il buio e il silenzio. Sbuffò per essersi destata proprio in quel momento, quindi sistemò il cuscino e si rimise giù cercando di sprofondare velocemente nel sonno e riprendere il sogno da dove l’aveva lasciato. Sorrise anche lei a quel volto celestiale quando gli porse nuovamente la mano. Si guardarono intensamente e Matilde percepì un senso di completezza. Poi vide il ragazzo smettere di sorridere, il suo viso si fece serio e lo sguardo allarmato.
Sentì la sua mano scivolare via, si allontanava da lei elevandosi, come risucchiato da un vuoto d’aria. Istintivamente, corse verso di lui con le mani tese per afferrarlo, ma non appena spiccò il volo, la raziocinio, vigile, subentrò a ricordarle che non aveva il potere dell’Aria, così era arrivata solo a sfiorargli le dita per poi ricadere al suolo su un tappeto di muschio umido. Alzò gli occhi in cerca di lui, ma d’un tratto fu notte e sobbalzò nel trovarsi davanti un’oscura figura apparsa dal nulla. La luna piena, splendendo dietro a questa, le gettava addosso la lunga ombra di quel corpo perfetto. La fulgida luce lunare le offuscava la vista e illuminava il contorno della figura misteriosa, lasciandone il resto nell’oscurità. Solo i lunghissimi capelli, che sventolavano senza alito di vento, e la minaccia riproposta bastarono a Matilde per dissipare ogni dubbio sulla sua identità. Si svegliò di soprassalto e si arrabbiò nuovamente per essersi ridestata. Avrebbe voluto rialzarsi e afferrare per i capelli quella ragazza dalle forme perfette, girarla verso la luna per guardarla in faccia, chiederle chi fosse e che cosa volesse da lei. Non si sarebbe certo fatta intimorire dalla sua statura, semmai sarebbe salita sulla base del tronco reciso, quello che nel sogno aveva visto vicino a dove era caduta, e da quella posizione dominante le avrebbe detto di lasciare in pace l’affascinante biondino che... la chiamava. Nessuna voce aveva mai pronunciato così dolcemente il suo nome. No! Orrore, Matilde si scostò subito da quel pensiero, certe smancerie non erano da lei, quella poteva essere una frase di Camilla, non sua. Che le succedeva? Poi un pensiero le balenò, “E se la spilungona fosse la sua ragazza?” Già, perché non ci aveva pensato? Ora le sembrava quasi ovvio, “Io mi sono messa in mezzo e quella, giustamente, s’è incazzata.” «No, un momento, è lui che ha cercato me, che si è intromesso nei miei sogni.» Matilde non riuscì a controllare l’irruenza dei suoi pensieri e iniziò a parlare da sola nel cuore della notte. «A questo punto che se lo portasse via e lasciasse in pace me. Anzi, lasciatemi in pace entrambi.» “Non sarai mica gelosa?” Chiese Matì, la sua coscienza. La chiamava con lo stesso diminutivo che Camilla aveva affibbiato a lei. «Stai scherzando? Gelosa io, puah!»
“Certo però che quel viso così... quella voce così...” «Basta. Smettila, Matì» “E poi non è mica detto che sia fidanzato con quella strega. Ti pare che uno come lui possa...” «Insomma, la vuoi smettere? Pensa ad altro.» “Ehi! Un momento, ma lui aveva...” «Paura! Certo, è così. Ma che stupida che sei, Matì, mi distrai con certe sciocchezze e mi fai sfuggire il vero significato del sogno. È una richiesta di aiuto, perché lui è in pericolo e lei è... il pericolo! Tommaso è in pericolo!» “Tommaso? Perché l’hai chiamato Tommaso?” «Non lo so perché. Mi è uscito dalle labbra così, senza rendermene conto.» «Uffa, in questa camera c’è qualcun altro che vorrebbe dormire» protestò Sonaglino aprendo la finestra. «Scusa.» «Scusa non basta. Devi promettere che non ti rimetterai a parlare da sola non appena avrò richiuso la finestra» «Non stavo parlando da sola.» Sonaglino si sporse fuori esaminando la stanza a destra e a manca. «Parlavo con l’altra: Matì. Che vuoi, ha iniziato a stuzzicarmi.» Sonaglino, spazientita, chiuse le persiane sbattendole, e Matilde si mise giù, chiudendo gli occhi a un sonno effimero, disturbato dal costante pensiero che la sveglia sarebbe suonata quanto prima. L’indomani, a colazione, Matilde continuava a girare il cucchiaio nella tazza del caffelatte, anche se lo zucchero si era già sciolto da un pezzo. Per fortuna quella mattina non era il suo turno di preparare la colazione, altrimenti avrebbe preparato qualcosa di molto simile al caffè della Peppina.
«Ehi! Piccola, perché quella faccia? Capisco che è lunedì mattina...» «Pensavo ai sogni» rispose con sguardo assente. «Ai sogni in senso lato, dal punto di vista della psicanalisi, oppure...» «Dal punto di vista di Matilde, ragazza col potere dell’Acqua.» «Già, lo immaginavo. Meglio non tirare in ballo Freud, allora.» «Meglio di no.» «Tu hai la virtù della veggenza. Crescendo le tue percezioni diventeranno più ricorrenti e precise, ma adesso avrai ancora difficoltà a distinguere il semplice sogno dalla premonizione.» «Forse comincio ad averne un’idea. Sembra tutto così reale, e poi quei luoghi così... diversi, quel cielo... troppo azzurro. Il nostro cielo non ha mai avuto un colore simile.» «Attenta, potrebbe essere una rielaborazione che fa il tuo subconscio di informazioni che già possiedi. Immagini sviluppate dai miei racconti che per di più, per deformazione professionale, farcisco con accurati dettagli.» «Chissà. Però è tutto così vero, tangibile, e quando mi sveglio non è come smettere di sognare, ma come se fossi tornata da lì. Eppure io sento che lui è veramente in pericolo e non so cosa fare per aiutarlo... chi avvertire.» «Di chi parli?» «Sento che lui è il mio gemello. Istintivamente, l’ho chiamato Tommaso. Non chiedermi perché, ma sento anche che quello è il suo nome.» «Stai parlando sempre del tuo sogno, vero?» «Sì. Ti ripeto che non è un semplice sogno.» «E io ti ripeto che sei giovane per avere premonizioni nitide; visioni perfettamente corrispondenti agli eventi prossimi o futuri che si verificheranno.» «Però, hai anche detto che io sono speciale», disse in tono di sfida.
«È vero. In ogni caso non è detto che questo giustifichi una certa precocità.» «Ma non è detto neppure il contrario. Potresti verificarlo», altra sfida, «Per esempio potresti chiedere l’autorizzazione a fare un salto su, e lì, potresti chiedere informazioni se esiste un ragazzo di nome...» «Matilde, si sta facendo tardi. Vai a prepararti o perderai l’autobus, che stamattina non posso proprio accompagnarti. Ho un appuntamento col Procuratore...» guardò l’orologio e si rese conto che si stava facendo tardi anche per lui, «Anzi, scappo!... Bacio, ciao» le scoccò un bacio sulla guancia, «Poi stasera ne parliamo» aggiunse uscendo. «Uffa, non mi crede mai nessuno» si lamentò a gran voce e, mentre lo diceva, le venne in mente Camilla. Quel giorno aveva deciso di dirle la verità, chissà se lei le avrebbe creduto. Si rese conto che non sempre era facile credere a qualcosa o qualcuno così su due piedi. A volte era necessario fornire delle prove. Per Camilla non c’erano problemi, sapeva che le avrebbe potuto mostrare i suoi poteri – anche se non osava pensare all’effetto – ma un’altra cosa era poter dimostrare la natura di un sogno. Le sensazioni non erano prove inconfutabili, purtroppo occorreva attendere il verificarsi dell’evento e a quel punto non sarebbe rimasto che dire “Te lo avevo detto!”.
Sotto i portici della scuola, nella marea di studenti, Matilde individuò Camilla. I cancelli erano ancora chiusi e l’amica era già lì davanti contrariamente a quanto era solita fare, vale a dire aspettarla alla fermata dell’autobus che arrivava, all’incirca, cinque minuti dopo al suo. «Come mai sei qui?», chiese cozzando la spalla contro quella di Camilla. «Io ci vengo a studiare, e tu?» «Hai ragione di essere arrabbiata, lo sarei anche io al posto tuo. Mi dispiace davvero per come mi sto comportando. Anche per me non è stato facile...» «Cosa! Anche per te non è stato facile comportarti così? Oh, povera martire, le è anche costato sacrificio.» «Sì, è proprio così, mi è costato. Perché tu non sai tutto ciò che c’è dietro...»
«Oooooh, basta Matilde! Ne ho veramente abbastanza di tutte le scuse che t’inventi. Sarebbe ora che ti decidessi a dirmi in faccia le cose per come stanno. Non vuoi più essere mia amica? D’accordo, se vuoi ti facilito le cose: chiudo io. Addio» Camilla si allontanò. Era su tutte le furie e Matilde lo aveva capito un attimo prima, quando le aveva sentito scandire il suo nome per intero, al posto di Matì. Le corse dietro con gli occhi lucidi e, nel cercare di trattenere a forza le lacrime, le si formò un nodo in gola che le rese difficile articolare le parole. «È vero, non sono più credibile, ma ti prego di darmi un’ultima possibilità e ti giuro che questa volta ti racconterò la sacrosanta verità. Vieni a casa mia questo pomeriggio» Corse via con le lacrime che, ormai, avevano preso il sopravvento. I cancelli erano già stati aperti e si precipitò nel bagno più vicino per lavarsi il viso. Si guardò allo specchio, il suo aspetto non era migliorato, e quando in classe la professoressa le chiese se andava tutto bene rispose che era raffreddata.
Sonaglino stava facendo le pulizie di casa. Si affacciava di continuo alla finestra per sbattere la polvere dal panno, e ogni volta incontrava lo sguardo di Matilde che, in quell’angosciante pomeriggio, era fisso sull’orologio. «Se non hai niente da fare, potresti darmi una mano» disse la piccola creatura. «Ok» fece Matilde. Prese l’oggetto con dentro la sua padrona e, dopo aver aperto la finestra, lo sporse al di fuori e vi soffiò sopra con tutto il fiato che aveva nei polmoni. «Ecco, di fuori è tutto pulito. Non c’è più un granello di polvere.» Sonaglino s’infuriò, poiché la ragazza non le aveva dato il tempo di pietrificare ciò che era vivo, così, nonostante il tetto, le persiane, la torre del campanile, l’orologio e ogni parte della casa erano perfettamente puliti, le piante e i fiori erano abbastanza spannocchiati. Matilde rimise l’oggetto al suo posto senza badare alle lagnanze di Sonaglino. L’orologio segnava le ore cinque e trentacinque minuti, e Camilla ancora non arrivava. Andò alla finestra, da dove poteva vedere la parte di recinzione del condominio col cancelletto d’entrata, e rimase ad aspettare nascosta dietro alle
sue “madrine” – come le chiamava lei – ricamate sulle tendine. Su un telo era raffigurata la Fata della Terra e sull’altro la Fata dell’Acqua. Quando le aveva viste in una bancarella del mercato di Porta Portese, la signora Mangrella non aveva saputo resistere ad acquistarle, pensando che sarebbero state perfette per la camera di Matilde. Tra i vari colori e l’assortimento di ricami con creature magiche, aveva scelto le due fatine che, un giorno, avrebbero confermato i poteri di sua figlia. Che ne sapeva quel mercante che le raffigurazioni fantastiche dei suoi tessuti avessero per qualcuno un significato reale? Quando le lancette segnarono le ore sei, aveva già visto arrivare il signor Mario, il pensionato del primo piano; la signora Cesarina con le borse della spesa, e il signor Giuseppe seduto sulla sedia a rotelle spinta dalla badante rumena. Altre due persone, che lei non conosceva, avevano citofonato a qualcuno, poi una era entrata e l’altra se n’era andata. Ma di Camilla nessuna traccia; neppure una telefonata o un messaggio. Si stancò di stare in piedi alla finestra, inoltre star lì le dava l’impressione di essere una portinaia pettegola. Decise, quindi, di andare a fare i compiti. Per l’appunto, i compiti: erano già le sei e non aveva neppure tirato fuori il diario dallo zaino per vedere quali fossero i compiti da svolgere. Aprì il libro di storia senza riuscire, però, a concentrarsi. Leggeva le righe in modo scorrevole, ma il significato delle parole era vanificato da altri pensieri. Neppure le orecchie ascoltavano quelle parole poiché erano intente a captare tutti i rumori giù in strada. È così, infatti, che riconobbe un suono che le era familiare, ossia lo stridulino dei freni della bicicletta di Camilla. Il trillo del citofono servì da conferma. “Finalmente!”, pensò Matilde e scese di corsa le scale per andare ad aprirle la porta. Giunse anche il secondo trillo, quello del portoncino d’ingresso dello stabile. Camilla non suonò pure il camlo dell’abitazione perché Matilde, sentito il click-clock delle porte dell’ ascensore che si aprivano, aveva già spalancato la porta di casa. «Ciao, pensavo che non venissi più.» «Uhm», fece l’altra entrando. «Hai già finito i compiti?» Era tanto per dire qualcosa. «No, grazie a te non ci sono riuscita. Sono stata piuttosto impegnata a meditare la decisione giusta da prendere. Ho pensato di chiamarti per scusarmi di essere
stata troppo dura con te questa mattina, e subito dopo ho pensato che, invece, non avrei dovuto farlo, perché te l’eri meritato. Allora ho pensato, tuttavia, che era giusto concederti un’altra possibilità, ma poi ho pensato che mi avresti preso in giro ancora una volta e che non lo avrei sopportato.» «E adesso mi ritrovo qui», si guardò intorno come chi si rende conto solo in quell’istante dove si trova, «come se la bici mi ci avesse portato di sua iniziativa. Beh, spero che la mia vecchia Graziella abbia avuto una buona ragione per farlo.» «Adesso so chi devo ringraziare, se sei qui» ironizzò Matilde per rompere la tensione. «Vieni. Andiamo su in camera.» Camilla si sedette sul letto. «Sono tutt’orecchi. Vedi di non giocarti la tua ultima chance» intimò pungente, incrociando le braccia. “Come se fosse facile! E mo’, da dove inizio?” penso Matilde. Trasse un lungo e sonoro sospiro, e pregò Camilla di non uscire dalla camera qualunque cosa avesse detto, o comunque, di lasciarla parlare sino alla fine senza interromperla, altrimenti le sarebbe risultato tutto più difficile. Dopo avrebbe risposto a tutte le sue domande – magari non proprio a tutte –. Camilla aveva un’espressione prevenuta che non l’aiutava di certo, tuttavia, Matilde si concentrò sulle parole del suo discorso, continuando a guardarla in faccia per dimostrarle che le stava dicendo la verità e che perciò non aveva motivo di fuggire il suo sguardo. Iniziò a raccontarle dell’esistenza di un altro mondo e delle gesta di un mago malvagio di nome Bruto, che avevano dato origine a cinque generazioni di maghi sulla Terra. Le parlò della circostanza precedente la sua nascita, che le aveva dato i natali in quel mondo magico nel giorno in cui si compiva un’antica profezia ciclica. Le disse dei gemelli e le spiegò i poteri degli elementi. Infine le parlò della scuola che aveva scelto e come da lì fosse nata una serie di bugie, col solo intento di custodire una verità che non le è concesso di rivelare a chicchessia. Ma l’attesa di trovare una soluzione aveva portato unicamente a una sequenza di equivoci che aveva peggiorato i loro rapporti. Alla fine, l’unica decisione ragionevole era stata quella di dirle la verità.
Matilde concluse la confessione chiedendo a Camilla il solenne giuramento di non rivelare mai a nessuno ciò che aveva appena appreso. A metà del discorso di Matilde, Camilla sembrava una pentola a pressione con la valvola di sfogo sotto stretta sorveglianza, e si stupì anch’essa di essere riuscita a non farla sfiatare. Ora, dopo aver ascoltato tutto il discorso, la pressione era svanita, come se il fuoco, che ne era il responsabile, fosse stato spento. Di fatto, la ragazza, che varie volte aveva pensato di abbandonare quella casa e mandare al diavolo l’amica, si era poi andata convincendo che Matilde fosse pazza e che perciò avesse bisogno di aiuto. Non c’era altra spiegazione. Come poteva, la sua amica del cuore, prenderla in giro fino a quel punto? Ne avrebbe parlato subito col signor Mangrella, anche a rischio di non essere creduta e veder invertirsi le parti. «Ecco, è tutto. Hai domande?» chiese Matilde. «No, nessuna domanda. Ma qualcun altro sarebbe professionalmente interessato a portene molte.» «Alludi a uno psichiatra?» «Non esagerare. Intendevo uno psicanalista, ne hai veramente bisogno.» «Dunque non hai creduto a una sola parola. Ti sei limitata ad arrivare alla conclusione più pratica.» «Dai, non prenderla così. A volte nascono persone con una fervida immaginazione. Non è detto che sia un difetto, anzi, potrebbe essere una dote, l’importante è riuscire a distinguere la realtà dalla fantasia. Mi spiego? Tu invece sei vittima delle tue fantasie...» «Ma sentiti, parli proprio come uno strizzacervelli. Hai trovato cosa fare da grande.» «E se fino ad allora nessun collega sarà riuscito a metterti a posto quella testa, ci penserò io. Come cura, potrei obbligarti a scrivere la tua autobiografia: “La coscienza di Matilde”» disse alludendo alla terapia sperimentata dal Dottor “S” per Zeno Cosini. «Chissà, potrebbe venirne fuori un romanzo fantasy di successo. Alla fine mi sarai doppiamente grata: per la guarigione e per la fama», parlando si avvicinò alla porta con l’intenzione di uscire dalla camera per
tornarsene a casa. Matilde fu più veloce, talmente veloce che Camilla se la ritrovò dinnanzi, con le braccia spalancate a sbarrare la porta. Era sbigottita, non riusciva a capire che movimento avesse fatto, sembrava essersi materializzata sulla porta. Era certa di averla alle sue spalle e invece, improvvisamente, era lì, appiccicata alla porta, a pochi centimetri da lei. Matilde avanzò e i loro nasi si sfiorarono. Camilla, ancora stranita, iniziò a indietreggiare mentre Matilde procedeva verso di lei, finché Camilla non andò a battere al letto e ci cadde sopra. «Camilla Lopez, lo so che non si può credere a tutto indiscriminatamente. Certe cose abbiamo bisogno di vederle con i nostri occhi, ma a volte non crediamo neppure a essi. Una volta, quando eravamo piccole, mentre giocavamo ai fantasmi, mi hai visto are attraverso quella porta e hai iniziato a urlare di paura. Anch’io ero terrorizzata, il mio corpo si trovava a metà fra questa stanza e il corridoio. Era la prima volta che sperimentavo il mio potere della Terra. Adesso, per me è una cosa talmente naturale are attraverso muri e porte, ma quel giorno ero scioccata quanto te. Poi mio padre è intervenuto con la magia per cancellare il tuo ricordo. Adesso sei grande e, dopo tutto quello che ti ho spiegato di me, sono certa che non ti metterai a urlare come allora.» Così dicendo si diresse verso la porta chiusa e l’attraversò. Poi rientrò attraverso il muro. Camilla cercò di parlare ma rimase semplicemente a bocca aperta. Tentò allora di esprimere il concetto indicando la porta con un dito, ma, alla fine, l’unica cosa che riuscì a fare fu svenire. Per fortuna era già seduta sul letto. Matilde la dispose nel verso giusto e cercò di rianimarla. Qualche istante dopo, le giunsero dei suoni alle orecchie, poi cominciò a distinguerli in parole... «ami i sali...» «Non così... Tirale su le gambe.» «Ecco, rinviene!» Aveva riconosciuto la voce di Matilde, ma l’altra voce non capiva di chi fosse. Lentamente, riaprì gli occhi. Oddio! Quella minuscola cosa con le orecchie a punta stava parlando. Parlava veramente! Era troppo, perse nuovamente i sensi.
«Oh no, di nuovo. Preferivo che urlasse un po’. Due belle sberle e le ava tutto.» «Smettila, Sonaglino, stai in disparte. Mi ha appena visto beffarmi della materia, dalle tempo per accettare anche l’esistenza di una nanognoma.» «È tutto vero ciò che ho visto?» chiese Camilla, incerta e confusa, quando aprì nuovamente gli occhi. «Sì, tutto vero.» «Sì? Cioè, tu che avi attraverso la porta e il muro...e poi quella... cosa piccola che parlava dalla sveglia?» «Ogni cosa» affermò Matilde. «Oh cavolo!» esclamò tirandosi su a sedere. «Non lo faresti di nuovo?» «Perché?» «Perché stavolta non ho intenzione di svenire. Ti osserverò bene per capire dov’è il trucco.» «Sei davvero impossibile» sbuffò Matilde, e ripeté le mosse compiute prima, ritornando poi da Camilla. «Fatti toccare un po’...» l’afferrò per un braccio. «Wow! Non sei un ologramma, sei proprio tu» costatò Camilla. «Eh già.» «E quella cosa piccola che parlava dalla sveglia?» «Quella cosa piccola, come la chiami tu, è una nanognoma. Ha un udito eccezionale...», quindi, le si avvicinò all’orecchio per sussurrarle, «ed è anche permalosa.» «Perciò fa’ attenzione a quello che dirai perché sto per presentartela.» «Sonagliiinooo», cantilenò, «esci un attimo, voglio farti conoscere alla mia amica Camilla.»
«Solo se ritratti ciò che hai detto» rispose indispettita. «Di cosa parli?» Matilde guardò Camilla con aria beffarda e fece spallucce. «Non sono permalosa» protestò Sonaglino affacciandosi all’uscio della sua casetta. «Come ti dicevo, ha un super udito.» Camilla osservò affascinata la minuscola creatura con le orecchie a punta. «È tutto così incredibile. Adesso mi si è chiarito all’istante ogni dubbio che ho avuto su di te da quando ti conosco, e ti perdono tutte le bugie che sei stata costretta a dirmi. Mi dispiace tanto di averti aggredito così questa mattina...» «Lascia stare, non potevi sapere. Forse al tuo posto avrei reagito anche peggio.» «Ero convinta che preferissi l’amicizia di quella... Marta» «Scherzi?» «Ovviamente lei non sa niente» sottintese Camilla, scuotendo la testa. «Oh, lei sa tutto...» Gli occhi spalancati di Camilla erano eloquenti. La vide gonfiarsi i polmoni e trattenere il respiro portandosi le mani ai fianchi. Si aspettò di vederle uscire il fumo dalle orecchie con il classico effetto sonoro del cartone animato. «Tranquilla, tranquilla», si parò dietro i palmi delle mani, «Marta sa tutto perché anche lei è una maga come me. Noi due andremo alla stessa scuola.» Camilla si sgonfiò. Le sembrò ragionevole che Matilde avesse cercato l’amicizia di Marta; con lei non aveva bisogno di mentire e poteva essere se stessa. Un velo di tristezza scese però nei suoi occhi pensando che Matilde sarebbe andata con Marta alla stessa scuola, su di un altro mondo, e non l’avrebbe vista per un intero anno scolastico. Matilde avrebbe conosciuto altri come lei e si sarebbe sentita così appagata, tra i suoi simili, che l’avrebbe dimenticata. “No, non è vero”, si rimproverò per quel pensiero. Matilde ci teneva veramente
alla sua amicizia e glielo aveva appena dimostrato, trasgredendo alle regole e rivelandole tutta la verità sulla sua identità.
Capitolo 13
Toccata e fuga
Lei era ancora lì, seduta su un sedile nella parte centrale dell’autobus. Non stava aspettando la sua fermata, non era interessata alle cose che scorrevano di là del finestrino, aveva ignorato i ragazzi che avevano cercavano di attaccar bottone – ormai ne era rimasto uno solo e lo fulminò con lo sguardo – ciò che voleva era di fronte a lei, il resto non le importava. Il ragazzo biondo dai profondi occhi scuri aveva ciò che le mancava e se ne sarebbe appropriata... in qualche modo. Tommaso si rese conto che non era stata per niente una bella idea quella di scendere all’ultima fermata. Il capolinea era nel posto più isolato della città; poche abitazioni, per lo più raggruppate nei paraggi della fermata, poi soltanto magazzini, depositi e silos dislocati su una vasta area e poi un’immensa distesa di mulini a vento. La dea dai lunghissimi capelli corvini lo seguiva a debita distanza. Non aveva fretta di raggiungerlo, ma il suo sguardo era vigile come una guerriera che attende l’attimo giusto per scoccare la sua freccia. Tommaso camminava a o spedito, domandandosi se Teodoro sarebbe arrivato presto in suo aiuto. A dire il vero, aveva anche paura che Cabàr non fosse andato per nulla dall’avvocato e avesse deciso di aspettare l’autobus di ritorno, sbarazzandosi del biglietto da visita. Era consapevole di essersi comportato stranamente agli occhi del suo compagno di scuola, ed era accettabile che egli non avesse preso in seria considerazione la sua richiesta d’aiuto. Tommaso cercava di evitare di voltarsi per vedere se lei lo stesse sempre pedinando, trovando, però, dei pretesti per cercarla con la coda dell’occhio, come fermarsi un istante a raccogliere qualcosa da terra per gettarla nel cestino. Superò una decina di case che sembravano disabitate. Le imposte erano tutte chiuse. A quell’ora dovevano essere tutti al lavoro. Tuttavia, la ragione gli suggeriva di non coinvolgere altre persone. Decise, comunque, di rimanere sul viale principale e di non addentrarsi nelle vie
laterali, credendo così di facilitare il suo avvistamento da parte di Teodoro. Più avanti, dovette affrontare un ponte che guadava un corso d’acqua, la salita curvava a esse e, quando si trovò all’inizio della discesa, dovette costatare che in fondo la strada culminava dinnanzi a una immensa piana coltivata, animata da centinaia e centinaia di mulini a vento, e vide i monti a far da sfondo a quel paesaggio. Capì di essere sulla strada che, modificandosi in percorso carrozzabile, conduceva alle miniere di biocrinite. Proseguì. Alla sua sinistra stava per raggiungere l’ultima casa, poi ci sarebbero state solo le pale che fornivano l’energia a Nebrus. Alla sua destra, invece, le abitazioni erano finite da un pezzo lasciando il posto a grandi capannoni. Tommaso stava per giungere a una via trasversale, anch’essa costeggiata da magazzini. Decise di prendere quella via pensando di approfittare del vantaggio su Altea. Prendendo la nuova strada, infatti, aveva gettato un occhio di lato e aveva appurato che la ragazza era abbastanza distante da consentirgli di seminarla intrufolandosi in qualche magazzino, prima che anche lei giungesse a quella traversa. Tommaso si rammaricò delle circostanze che non gli avevano permesso di scoprire prima i suoi poteri. Aveva moltissimo da imparare. Sapeva che il potere del Fuoco gli conferiva la capacità di mutare forma, trasformandosi in un animale o assumendo le sembianze di un’altra persona, ma lui non aveva ancora imparato a servirsene e in quel momento era l’incantesimo che più gli occorreva. A pensarci bene, anche il potere dell’Aria non era da scartare, se invece di limitarsi a crear mulinelli egli avesse imparato a volare. La via era alberata su ambo i lati, di là degli alberi ava un viottolo pedonale e al di là del viottolo vi erano i magazzini, basse costruzioni di tre piani al massimo; alcuni erano attaccati gli uni gli altri, per il resto erano separati da stretti aggi. ò di corsa lungo i depositi sulla sinistra. Correva, perché pensava che anche Altea avrebbe potuto mettersi a correre per raggiungerlo. Sui grandi portoni scorrevoli, le targhe con l’orario di apertura scoraggiarono Tommaso. Sembrava proprio che tutti rispettassero la stessa pausa pranzo e di certo nessuno abitava nelle case che aveva ato prima. Osservò che avrebbero riaperto soltanto fra un’ora che, nel Mondo di Sopra, corrisponde a ottanta minuti. No, non proprio tutti: il secondo capannone, dal lato opposto della strada, stava già riaprendo. Tommaso sentì un rumore e si girò di scatto con il cuore in gola. Vide un uomo, alto e corpulento, spingere di lato la metà sinistra del portone, lasciando chiusa l’altra metà, quindi tornò dentro. Di Altea, invece, non vi era traccia. Tommaso pensò che per intrufolarsi in quel capannone sarebbe dovuto tornare indietro, andando, praticamente, incontro al Altea che, sicuramente, stava per sopraggiungere. Decise perciò che era meglio proseguire,
forse la fortuna lo avrebbe assistito offrendogli anche più avanti un escamotage. Si girò con determinazione e non si aspettò certo di ritrovarsi a faccia a faccia con Altea. Sussultò sonoramente, istintivamente indietreggiò in fretta di qualche o, inciampò nella radice di un albero e finì rovinosamente col posteriore a terra, graffiandosi inoltre le mani nel tentativo di attutire la caduta. «Ti ho spaventato?» chiese Altea spavalda. La sua voce era calda e melliflua. Da dove cavolo era sbucata? Tommaso giurò di non aver sentito assolutamente alcun rumore provenire dietro si sé. Eppure i suoi stivali col tacco avrebbero dovuto per forza produrre un ticchettio durante la camminata. Oltretutto, non aveva visto altre traverse prima di quella in cui si era infilato, tantomeno nel percorso che lo separava da Altea l’ultima volta che l’aveva vista. Tommaso era spaventato e incapace di proferir parola. Quando sentì il terreno sotto i piedi, realizzo di essersi alzato, eppure non ricordava d’averlo fatto. Ma non aveva importanza, l’importante era darsela a gambe, o meglio, questo era ciò che l’istinto, frastornato, gli suggerì in quel momento. Era scappato come un fifone. Non aveva avuto il coraggio di affrontarla, di chiederle cosa volesse da lui. Non gli serviva quell’informazione, era convinto di essere la vittima di una caccia ai maghi e quella stupenda ragazza voleva soltanto catturarlo per “ricoverarlo”. In quell’eventualità, Tommaso colse l’aspetto positivo della probabilità di poter, finalmente, incontrare sua madre. Mancava poco alla salvezza, la porta era ancora aperta e lui stava per raggiungerla. La sua corsa a perdifiato verso l’entrata del secondo capannone, però, s’interruppe bruscamente, perché Altea era apparsa lì, esattamente a due i dall’uscio. Stavolta Tommaso aveva capito. La bella predatrice aveva il potere della Terra che le permetteva di comparire ovunque desiderasse. «Senza presunzione, ti dirò che i ragazzi mi corrono letteralmente dietro. Tu sei il primo che scappa da me. Non avrai intenzione di rovinare la mia reputazione?» disse Altea in tono accattivante, gettando la testa di lato. L’orgoglio suggerì a Tommaso di combattere, scappare si era rivelata una pessima scelta e aveva messo in ridicolo la sua dignità. Aveva veramente paura di una donna? Giammai!
«Sei una bellissima ragazza, non temere per la tua reputazione. Purtroppo non sei il mio tipo. Però, a quando pare, la situazione si è invertita: ora sei tu a correre dietro a un ragazzo. Sbaglio o mi stai tallonando?» disse atteggiandosi a duro, mentre il cuore gli martellava forte in petto. Se avesse avuto pieno possesso dei suoi poteri si sarebbe sentito più tranquillo, invece sapeva di essere un novellino di fronte a una veterana. «Non ti sbagli, in un certo senso sono molto attratta da te. Tu hai tutto ciò che voglio» la sua voce giunse come una calda carezza e Tommaso avvertì un lieve calore invadergli le gote. Si ribellò a quella timida sensazione e si concentrò sulla parte che voleva recitare, quella del duro play-boy. «Ne sono convinto. Non troverai un altro come me in tutto il mondo.» «Già! È per questo che ho deciso di portarti via con me.» «E se io non avessi alcuna intenzione di seguirti?» «Non mi aspetto che tu lo faccia» avanzò verso i lui con l’intenzione di afferrarlo per un braccio e trasportarlo con sé in un altro luogo. Tommaso si ritrasse allargando le braccia e una violenta raffica d’aria investì in pieno Altea, sollevandola e scaraventandola nel mezzo dell’incrocio con la via principale. Stimolato da quel successo, Tommaso pensò alla prossima mossa e decise di non entrare nel magazzino per evitare di causare danni a cose o persone, pensò invece d’infilarsi nel aggio che si apriva tra il magazzino e quello successivo, andando verso i mulini a vento. Una miriade di pale che giravano lentamente fu incalzata dall’arrivo di Tommaso che non aveva ancora interrotto l’evocazione del potere elementale. I mulini iniziarono a lavorare sempre più freneticamente man mano che egli si avvicinava.
Teodoro ed Emma, intanto, in base all’informazione di Cabàr, erano giunti all’ultima fermata dell’11. Procedevano molto lentamente, ispezionando ogni angolo, quando improvvisi spifferi d’aria s’insinuarono dalle portiere e l’auto iniziò a ondeggiare. «Questa è opera di tuo figlio... Quando va in panico, esagera... E poi ha difficoltà a riprendere prontamente il controllo» disse Teodoro cercando di governare
l’auto sterzando e controsterzando. «Io vado a cercarlo. Fammi scendere, posso muovermi più velocemente e in ogni direzione, con quest’auto perdiamo solo un sacco di tempo» asserì Emma e, senza attendere che Teodoro fermasse l’auto, sparì dall’abitacolo. «Ha una strana concezione di “scendere” dall’auto» si disse Teodoro. Emma cominciò a muoversi in una sequenza di apparizioni e sparizioni, cercando tra le case, controllando in ogni cantuccio. Teodoro proseguì in auto sulla via principale. Il vento aveva alzato un polverone di terra e foglie secche che aveva velato il parabrezza, ma in lontananza riuscì a scorgere qualcosa per terra che si muoveva. Bloccò l’auto e azionò il tergicristallo. Pessima idea! Lo fermò immediatamente, ma ormai il vetro si era rigato. Scese dal veicolo e alzò un braccio per ripararsi gli occhi. Distinse una figura femminile che si alzava, era lontana per poterla identificare, ma i lunghissimi capelli neri che svolazzavano ai quattro venti gli tolsero ogni dubbio.
Tommaso entrò all’interno di un mulino e si nascose dietro due grosse balle di fieno a ridosso dell’entrata. Sapeva che lei lo aveva visto e attese il suo arrivo. Allertò tutti i suoi sensi poiché si aspettava che potesse comparire ovunque. Tale concentrazione fece rientrare il potere dell’Aria, se non anche perché iniziò a pensare al Fuoco quale alleato della sua prossima azione. Aveva in mente di sgattaiolare fuori non appena lei si fosse addentrata a sufficienza da non riuscire a fuggire prima che lui avesse appiccato il fuoco. Ma più ci pensava, più si rendeva conto di non avere il coraggio di una simile azione. La odiava, ma non era un assassino. Non poteva neppure parlare di legittima difesa: lei non lo aveva ancora attaccato. Semmai era stato lui ad aggredirla e lei non si era neppure difesa. Che cosa avrebbe dovuto fare, allora? Una soluzione doveva esserci, ma doveva trovarla in fretta, non aveva tempo di meditare. Alla fine, capì che col fuoco non l’avrebbe fermata ugualmente. Altea poteva evadere da quella trappola infernale come ridere, tuttavia il fuoco sarebbe stato un falò di avvistamento per Teodoro. Tanto valeva tentare. Altea comparve all’interno del mulino, dietro al raggio di sole che penetrava dall’unica finestra a una ventina di metri dal pavimento, e dalla quale si
potevano intravedere le pale che giravano di nuovo lentamente. In quella posizione, camuffata dal riverbero, era difficile notarla, eppure Tommaso riuscì a coglierne il profilo. Lesto, fece rotolare la balla di fieno di fianco a sé e, mentre lui uscì, la balla rimase davanti alla soglia a bloccare l’uscita. Poi, come gli aveva insegnato Mathesias, pensò intensamente al Fuoco e sentì subito il suo calore scorrergli in tutto il corpo. Si concentrò sulle mani e convogliò tutta la forza dell’elemento verso le sue dita dalle quali scaturirono, all’istante, lunghe e mastodontiche lingue di fuoco che incendiarono il fieno, con più efficacia di un lanciafiamme. In pochi secondi, il fuoco invase l’intera superficie interna del mulino per la quasi esclusiva presenza di legno e fieno ben asciutto. Tommaso indugiò un attimo di più a scappare. Stupito dalla potenza scaturita dalle sue mani, contemplò il rovo con compiaciuta eccitazione. Ma immediatamente il pensiero andò alla ragazza. Era riuscita a trasportarsi? Si girò di scatto in preda ad un terribile senso di colpa. Altea si era già messa in salvo e se la ritrovò nuovamente a faccia a faccia. Il ragazzo non seppe se reagire o se essere contento di vederla viva. Si chiese anche perché lei non lo avesse colto di sorpresa, approfittato del momento in cui le voltava le spalle. «Con i tuoi poteri sai fare solo danni» asserì lei. Poi drizzò le braccia, fissò l’acqua che scorreva all’interno di un canaletto d’irrigazione, nelle vicinanze, quindi iniziò a girare su se stessa, l’acqua si levò alta dal canale e iniziò a vorticare sopra al mulino ricadendo poi come una pioggia torrenziale, finché le fiamme non si spensero. La pioggia non aveva risparmiato i due ragazzi che si ritrovarono fradici da capo a piè, ma a dire il vero la colpa era stata di Tommaso. Il ragazzo era scioccato e non poteva accettare la realtà che gli si era appena palesata. La reazione involontaria allo stato emotivo, cosa che ancora non gli riusciva soddisfacentemente di tener sotto controllo, era stata quella di richiamare a sé un filo d’aria, sufficiente, però, a trasportare seco un’ ondata di goccioloni d’acqua. Così bagnati, i due ragazzi restarono in silenzio a fissarsi. Tommaso era sconcertato: “Perché proprio lei?” si ripeteva come un disco incantato. Non si dava pace. Ora gli era chiaro cosa la ragazza voleva da lui: “Tu hai tutto ciò che voglio”, gli aveva detto, e non si riferiva a qualità fisiche o caratteriali, adesso l’aveva capito e ciò lo poneva in una situazione di maggior
pericolo. Altea, invece, per la prima volta, guardò il ragazzo con occhi diversi. Si soffermò sui lineamenti perfetti e delicati del suo viso, indugiò nel suo profondo sguardo magnetico e si sorprese nel sentirsi, improvvisamente e incredibilmente, attratta da lui. «Tom!» una forte voce giunse in lontananza e alle spalle di Altea, ridestandola da quella sensazione apparsa come un fulmine a ciel sereno. «Mamma!» Tommaso pronunciò quel nome con voce fievole. Non riusciva a credere ai propri occhi: quella era davvero la sua mamma. La felicità invase il suo cuore e per un istante si dimenticò di Altea, che era a un alito da lui. La ragazza giocò d’astuzia, si mosse rapida approfittando di quel momento e afferrò il ragazzo saldamente per un braccio. «NO!» gridò Emma, ma i due ragazzi erano già scomparsi per riapparire altrove. Teodoro giunse in quel momento e non poté far altro che rincuorare Emma, promettendole che lo avrebbero ritrovato. Emma era piuttosto arrabbiata e reagì in malo modo, si accanì con l’automobile che aveva fatto perdere loro tanto tempo prezioso e, non di meno, con Teodoro per la sua caparbietà a volersene servire. A Teodoro non rimase che darle ragione, visto l’insuccesso. Così, sostata l’auto dove era consentito, per recuperarla in seguito, acconsentì alla donna di gestire gli spostamenti a modo suo. La destinazione sembrò loro scontata: il Palazzo del Governatore.
Il Palazzo del Governatore, la maestosa dimora dove Goran contava come il due di picche, sorgeva su di una dolce altura vasta quanto il palazzo e un solo percorso consentiva di raggiungerla. La via originaria era diritta, stretta e lastricata con pietre lisce, per lo più rettangolari e di dimensioni variabili, delimitata da mura alte più di un uomo e costellate da piccole feritoie. Il lungo percorso era agibile a piedi o a cavallo. Tempo fa, era esistita anche un’altra strada, asfaltata e ben più larga, fatta costruire da Bruto e distrutta poi da Aulo in uno dei suoi momenti di incontrollata pazzia. Tale strada, meno ripida poiché giungeva al Palazzo serpeggiando gentilmente, aveva la prerogativa di essere percorribile in auto, il mezzo di trasporto scopiazzato da Bruto dal Mondo di Sotto, di cui aveva riprodotto fedelmente la carrozzeria e tutti gli accessori, ma il
meccanismo propulsore era di sua invenzione. La ragazza teneva ancora ben salda la sua preda quando comparve nella stanza del Palazzo che aveva visualizzata pochi istanti prima. Due sole pareti, una diritta e l’altra a semicerchio, formavano il perimetro di quella stanza inutilizzata. Solo un ottavo delle innumerevoli stanze del Palazzo era abitato, concentrato nella zona sud-ovest per sfruttare la luce e il calore del sole. Altea aveva portato l’obbligato ospite nell’area opposta, per... riservatezza. Non voleva ancora che qualcuno sapesse del suo bottino, soprattutto sua nonna. Ultimamente, si fidava poco di lei e voleva controllare certi aspetti del suo operato, sicura di scoprire degli altarini. Soprattutto il perentorio divieto di accesso all’ala “top secret” era qualcosa che cominciava a puzzarle. Prima non ci badava più di tanto: i grandi vietano sempre ai bambini di fare qualcosa o di andare in qualche posto. Ma adesso era cresciuta, la sua curiosità e lo sviluppato intelletto erano divenuti ingordi di nozioni e riscontri, e non accettava più risposte evasive. Così, prima di affidarle Tommaso, la sorgente da cui avrebbe attinto i poteri che le mancavano, voleva sapere qualcosa di più sui suoi esperimenti. Argelia, l’ultima e più degna discendente di Nerasmo, ava gran parte delle sue giornate nei sotterranei del Palazzo, tra il suo studio-laboratorio e la zona riservata che iniziava oltre una robusta porta in ferro cui nessuno poteva accedere, neppure Altea. Ormai anziana, Argelia viveva unicamente per realizzare il suo ambizioso sogno di eguagliare, o meglio superare, le malefatte del suo avo. Tutto aveva avuto inizio quel fatidico giorno del 52° Arsuria 3225, e d’allora la sua mente aveva lavorato instancabilmente al progetto di riprodurre l’incantesimo e la pozione magica di Haltheyvan. «Ah! Se solo avessi avuto quel vecchio Libro delle Ombre» aveva ripetuto quasi quotidianamente, lagnandosi più di questo che dei suoi acciacchi alle ossa dovuti al freddo e all’umidità dei sotterranei, dove aveva realizzato il suo studio e il laboratorio alchemico. Lo aveva cercato in tutti i meandri del Palazzo, senza trovarlo. Adesso ci aveva dato un taglio: se ci fosse stato lo avrebbe sicuramente trovato, per cui ne dedusse che Haltheyvan non lo avesse donato a Bruto e che quindi fosse rimasto nel Paese Perpetuo, luogo dove quei due adesso si trovavano e di cui sapeva che la porta di accesso si trovava dall’altra parte.
La stanza remota scelta da Altea era fredda e completamente vuota. Tre grosse colonne levigate, disposte in linea nel mezzo della stanza, terminavano in cima a forma di una mano coi palmi rovesciati e sembravano reggere il soffitto molto alto, color fumo, scrostato, con chiazze di muffa e lunghi fili di ragnatela che penzolavano qua e là come liane in una giungla. Sulla parete a semicerchio si aprivano quattro grandi vetrate, attraverso le quali si vedevano le sommità degli alberi che componevano il Bosco di Nebrus, una macchia di verde che si estendeva a perdita d’occhio. Sotto le invetriate, un muretto in pietra formava una sorta di sedile. «Da una cella vuota in lontananza, catena, giungi in questa stanza!» disse piano Altea, ma il vuoto nella stanza fece echeggiare la sua voce, cosicché apparvero due catene, una era quella vera e l’altra, così come l’eco, si dissolse. A un gesto impositivo di Altea, la catena si animò, si mosse rapida verso Tommaso. Il ragazzo, ancora intontito da quel viaggio inconsueto, provò a sottrarsi, ma non vi erano ripari e l’unica via di fuga era bloccata da Altea. L’attimo d’indecisione vanificò ogni proposito; la catena era ben più decisa di lui, comandata dalla ragazza, sapeva già cosa fare. Lo cinse alla vita trascinandolo verso la colonna centrale e lo assicurò a essa con un doppio giro, poi si chiuse utilizzando il lucchetto che era già agganciato all’ultimo anello di un’estremità. A niente valse la resistenza di Tommaso, anzi, a ogni opposizione, la catena si accorciava di un anello stringendo di più la preda. «Non te ne andare, mi raccomando» lo provocò Altea. Gli voltò le spalle e si diresse verso la porta. «Ehi! Credo di aver diritto a delle spiegazioni...» «Possiamo parlarne?» «Maledizione, dove stai andando?» le urlò, dimenandosi dalle catene, ma subito se ne dovette pentire perché la catena lo strinse ancora un po’. «Vado a cambiarmi. Per colpa tua sono tutta fradicia.» «Se è per questo sono bagnato anch’io.» «Allora usa il tuo potere per asciugarti. Io, invece, ho bisogno di vestiti asciutti, ma tornerò quanto prima, non temere...» ne seguì una risatina. «Stavo
scherzando, è meglio che inizi a temere il mio ritorno.» «Se sarò ancora qui» rispose Tommaso con tono di sfida, ma il suo cuore era accelerato e la sua mente non aveva ancora elaborato una tattica di fuga. «E chi verrà a salvarti? Mammina?» si arrestò, «Già, mammina... non vengono concessi permessi di uscita; dovrò pensare anche a lei...» ò attraverso la porta chiusa ritrovandosi nel lungo corridoio. Si appoggiò con le spalle alla parete fredda e i vestiti bagnati le trasmisero un brivido gelido lungo la schiena, ma era niente a confronto col gelo che in quel momento pervase il suo cuore. Un’orda di sentimenti si miscelarono tra loro, facendo mutare più volte l’espressione del suo volto. Provò tristezza per la mancanza della madre, cercò conforto nei pochi e sbiaditi ricordi felici che la sua mente era riuscita a conservare, provò invidia per Tommaso che la mamma ancora aveva, poi lo odiò immaginando il loro riabbraccio. Una lacrima scaturì furtiva dal suo occhio color smeraldo e lei l’asciugò con rabbia col dorso della mano. Si recò nella sua camera, indossò degli indumenti asciutti e fermò i suoi lunghi capelli in una grossa treccia. Poi, visualizzò il lungo corridoio alla fine del quale si trovava la robusta porta in ferro, per la quale si accedeva all’ala riservata, e richiamò il potere della Terra per trasportarsi oltre quella. Si scontrò con un campo di forza che non si aspettava, così forte da rigettarla indietro da dove era partita. Era un sapiente incantesimo che avvolgeva la porta proteggendola dagli intrusi. Solo ad Argelia era permesso avvicinarsi e aprirla con la grossa chiave, anch’essa incantata. Un incantesimo molto simile, se non uguale, a quello che aveva adoperato per la porta del suo appartamento privato, sulla quale era solo concesso bussare. Decise allora di ritentare la mossa da una distanza più breve, sbarazzandosi delle due guardie armate di lancia che piantonavano l’inizio del corridoio; per ordine di Argelia non potevano lasciar are nessuno, neppure la nipote. «Che fate qui impalati!», sbraitò Altea, «Non sieste stati avvertiti? Dovete raggiungete i vostri commilitoni all’esterno. Una donna evasa dalla clinica potrebbe aggirarsi nella nostra proprietà» i due uomini si guardarono con scetticismo, pensando a una bravata della ragazza. «Fuggire verso il nemico... non è una mossa intelligente per un evaso», disse uno dei due. In quel momento ò un altro uomo in divisa che ordinò ai due di seguirlo. Era superiore a loro di grado ed essi non fiatarono. Altea fece un cenno
all’uomo cui aveva dato, in precedenza, l’imbeccata. Rimasta sola nel corridoio, s’incamminò verso il portone di ferro e fece per oltrearlo col potere della Terra, ma fu rigettata indietro fino all’inizio del corridoio, ancora una volta. “Che diavolo gliel’ha messe a fare le guardie con un incantesimo di questa portata?” “Spero solo per cautelare l’incolumità delle persone. Anche se mi riesce difficile crederlo.” Disorientata dai ragionamenti senza logica apparente della nonna, decise di entrarvi in altro modo. Entrò nella stanza più prossima alla porta incantata e oltreando una serie di muri si ritrovò dentro l’area proibita. All’interno, le parve strano di non imbattersi in altri incantesimi difensivi. Eppure, ciò che aveva appena fatto era una mossa che sua nonna avrebbe dovuto prevedere che lei potesse fare. “Beh, anche lei commette errori.” pensò Altea. Tuttavia, procedette guardinga nell’ambiente semibuio, dove fiochi raggi di luce penetravano unicamente da qualche minuscola finestrella fuligginosa. Vi erano in tutto quattro stanze con porte in legno e rinforzi in ferro. Su ciascuna porta era infissa una targa metallica con inciso il simbolo di un elemento. La prima recava il simbolo dell’Aria, la seconda quello del Fuoco, la terza quello dell’Acqua, ma non vi era la porta con simbolo della Terra. La quarta porta, infatti, era a sé: recava una targa con la scritta “Sala Prelievi”. Fu quest’ultima a destare in Altea il maggior interesse. Fece per entrare, ma la porta la respinse come aveva fatto quella d’ingresso, però con una potenza di molto inferiore. Allora varcò il muro e si ritrovò in una stanza illuminata a giorno. Un fascio di luce solare penetrava da un foro nel soffitto, del diametro di almeno un metro e mezzo, irradiando una base circolare di pietra bianca sorretta da un piedistallo cubico. Sembrava una sorta di altare, ma mentre lo osservava, una serie di luccichii sul pavimento deviò il suo sguardo: tanti piccoli oggetti brillavano tutt’intorno. Ne raccolse alcuni e rimase sgomenta riconoscendoli all’istante. Altea si schermì gli occhi con le mani e cercò di guardare in alto attraverso il foro. Intravide la parete rugosa e grigia e, più in alto, la carrucola con la corda alla cui estremità era legato un catino. Possibile che si trattasse proprio del suo pozzo dei desideri? Non poteva essere altrimenti, visto che il pavimento era cosparso di piccole monete, frammenti di gemme preziose, sassolini colorati e tutto ciò che da piccola vi aveva gettato dentro esprimendo desideri. In quel pozzo vi aveva
sempre visto l’acqua, limpida e immobile come uno specchio, riflettere l’azzurro del cielo e il suo bel viso, finché un sassolino non ne increspava la superficie. Non aveva mai temuto di cadere nel pozzo, sporgendosi a guardare la propria immagine riflessa, perché sapeva che non sarebbe mai annegata nel suo elemento, tutt’al più si sarebbe trasformata in una splendida sirenetta. “... Già, per fortuna non è mai successo”, pensò Altea, “L’acqua non c’è mai stata, è soltanto un incantesimo della nonna per nascondere cosa c’è sotto”. Tornò a esaminare l’altare circolare, posto sotto l’apertura del pozzo, e notò che al di sotto vi era un’altra lastra di pietra, molto più sottile e di uguale circonferenza, che però era libera di ruotare. Sul piano erano fissate quattro staffe; per la loro disposizione, era facile intuire che servissero a bloccare i polsi e le caviglie, e avevano un gioco di scarto che permetteva la loro regolazione in base all’altezza. Dove avrebbe dovuto poggiare la testa, vi era una concavità vuota per tre quarti. Alla base dell’incavo pieno, in corrispondenza di ciascun lobo frontale, vi era un canaletto scavato nella pietra. Dentro ciascun canaletto era poggiato un tubicino trasparente all’interno del quale si vedeva un ago forato. I due canaletti proseguivano in alto e verso l’interno, incontrandosi al di sopra della testa e accompagnando i tubicini in un buco sotto al quale era posizionata una serpentina che scendeva all’imbocco di un cilindro metallico di raccolta. Altea vide il simbolo dell’Acqua all’interno del foro per la testa; era scolpito nella lastra sottostante, e più esternamente vi era il cilindro metallico. Fece roteare l’altare e nel foro apparvero, uno dopo l’altro, i simboli del Fuoco e dell’Aria, e il rispettivo cilindro si fermava sotto la serpentina; anche qui mancava il simbolo della Terra. Altea cominciò a meditare su questa omissione. «Non può averlo fatto nonna», disse tra sé e sé, «questa è sicuramente opera di Bruto, architettata con quel negromante che albergava in lui.» Altea si chiese se Argelia stesse utilizzando l’altare per i suoi esperimenti e dove avesse trovato le istruzioni per l’uso. “...Se così fosse, perché il disco rotante era fermo sull’elemento Acqua?” Sì, quella era una buona osservazione che si aggiungeva alla stranezza del simbolo mancante. Lasciò quella stanza per ispezionare le altre tre. ò attraverso il muro della
prima, ormai con la porta nemmeno ci provava, e ciò che vide la pietrificò. La cella ospitava almeno una decina di persone tra uomini e donne, incatenati, sporchi e denutriti. Tre di loro avevano perso completamente il lume della ragione, ripetevano a cantilena sempre la stessa frase urtando i nervi di una donna, ella si premeva le mani sulle orecchie per non sentirli. Altri iniziarono a gridare: «Vattene!» Un giovane uomo la guardò col terrore negli occhi e iniziò a supplicarla: «Basta, per favore! Non portarmi ancora lì. Lasciami andare.» «Sì, lasciaci andare!» disse la donna accovacciata su un materasso lacero e ospitato da piccoli insetti verdi. «Sì, lasciaci andare; sì, lasciaci andare» iniziarono a cantilenare all’infinito i soliti tre ripetitivi. Quando Altea si ricordò di respirare, il tanfo che saturava quella cella le fece salire un conato di vomito e scappò fuori. Fece dei respiri profondi e, quando la sensazione di malessere ò, si accorse che al di fuori della cella non si udiva alcun suono. Anche quell’isolamento acustico era un incantesimo di Argelia. Sulla porta vide il simbolo dell’Acqua. “Sono la nipote del male personificato”, pensò Altea. “Ha superato suo nonno”. Con stizza entrò nella cella etichettata col simbolo del Fuoco, la scena che si presentò era addirittura peggiore: due individui, impossibile dire se fossero maschi o femmine, non avevano più nulla di umano. Erano un misto di membra di animali differenti. Forse l’estremo tentativo di trasformarsi in animali feroci, per liberarsi dall’altare su cui stavano subendo l’esperimento della perfida vecchia, si era concluso col conferimento irreversibile di quelle sembianze. «Aiutaci! Facci uscire da qui.» «Sei venuta anche tu per torturarci?» «Dove siamo?» «Che posto maledetto è mai questo?» «Che anno è?» «Dicci chi sei.» La tempestarono di domande, quelli che ancora riuscivano a parlare e a
ragionare. “Già, chi sono?”, si domandò Altea, “La complice di una pazza che non si fermerà davanti a nulla, finché...”, il suo pensiero venne bloccato da un nuovo evento: un ragazzo, giunto dal nulla, materializzatosi a mezz’aria, era precipitato al suolo rotolando ai suoi piedi. Altea aveva visto troppo. Fino a che punto sarebbe potuta arrivare una mente malvagia come quella? Abbandonò quel luogo orribile, ripercorrendo a ritroso lo stesso percorso attraverso i muri, poi si diresse verso lo studio di sua nonna. Incontrò due guardie che tenevano in fila per due una colonna di ragazzi, ammanettati e legati tra loro da un’ unica lunga catena. Erano in attesa di entrare, a uno alla volta, nello studio di Argelia. Notò che il primo della fila non aveva di fianco il suo compagno. Altea entrò decisa nello studio, le guardie non mossero ciglio, evidentemente non avevano ricevuto ordini da Argelia a riguardo della nipote. «CHI È?» ringhiò Argelia sbattendo la mano sulla scrivania, mentre il pendolo in ossidiana nera che teneva nell’altra mano, con cui aveva appena individuato il potere del terzo sequestrato, oscillò malamente. «Sono io. Non lo vedi?» rispose a tono, poiché la domanda era inopportuna dal momento che l’aveva vista entrare. «Quando la porta è chiusa, si bussa» sbraitò, «Devo ricordartelo ogni volta?» «Non mi piacciono le porte chiuse, non sai mai cosa nascondono all’interno» «È per questo che si bussa.» «In modo che tu possa nascondere qualcosa prima di rispondere “Avanti”» disse guardando la ragazza impaurita che sedeva di fronte a sua nonna. «Cosa vuoi insinuare, stupida ragazzina!», si alzò di scatto facendo cadere la sedia, poi con un gesto della mano investì d’energia la ragazza esaminata, «ARIA!» urlò, e la ragazza scomparve per giungere brutalmente nella cella designata.
«Sei un’ingrata! Da anni sto lavorando nel nostro primario interesse…» «Nel TUO interesse. Io non ti ho mai chiesto niente. Se c’è stato un tempo in cui ho creduto a tutto ciò che mi hai detto, ora non ne sono più convinta.» «Perché non ne comprendi l’importanza. Il potere sconfinato che riceverai dall’unione dei quattro elementi ti renderà la donna più potente dell’universo. Ma io non mi accontento certo di quel labile intruglio di Haltheyvan, voglio creare un incantesimo stabile perché mi serve tempo per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Tu starai al mio fianco senza fare capricci, non ti permetto di rovinare tutto.» «Dopo quanto ho visto nella “zona degli orrori”, non posso continuare ad appoggiarti. Quante persone dovranno ancora patire per consentirti di mettere a punto i tuoi esperimenti...» «Così sei stata nell’area vietata a tutti. Credi che l’essere mia nipote ti conceda la facoltà di eludere i divieti?» si era messa a braccia conserte, rigida. «Se tu avessi voluto veramente tenermi fuori da quella zona, l’ avresti resa inaccessibile ai miei poteri.» «Uhm.» «È stato un terribile errore!» «Uhm?» «Sì. Quel che ho visto mi ha rivelato molto circa le tue intenzioni, e le tue parole, poc’anzi, hanno confermato il mio sospetto. Non ti stai limitando a condurre esperimenti per sottrarre il potere dell’Aria e del Fuoco, quelli che mancano a ME, ma ci stai provando anche con quello dell’Acqua: quello che in più manca a TE!», disse rimarcando i pronomi, «Vero, nonna?» «Uhm» «Hai perso la parola per caso? Non importa, continuo io. Il simbolo della Terra manca da ogni posto. Come mai? Rispondo io, non ti scomodare: perché la Terra è il tuo elemento, non hai bisogno di rubarmi questo potere.»
«Che assurdità! Hai una fervida immaginazione.» «Oh, oh. Ti è tornata la parola per mentire spudoratamente.» «Come osi parlarmi in questa maniera!» «E tu come osi ordire una simile nefandezza! Impossessarti dei miei poteri fregandotene della mia sorte. Non te lo permetterò.» «Che cosa hai in mente?» «Nulla nell’imminente. Ma non finirò certo in una di quelle celle.» «Certo che non ci finirai. Inoltre no ho intenzione di rubarti un bel niente; solo il gemello elementale può impossessarsi dei poteri del suo gemello. Lavoreremo a stretto contatto finché non avrò pianificato ogni cosa nei minimi dettagli. Dopo, potrai fare come ti pare. Quindi stai tranquilla, non voglio che ti succeda niente, perché tu sei la mia continuazione.» «No! Tu sei proprio pazza!», Altea strabuzzò gli occhi, «Stai pensando di trasferirti in me come fece il Negromante con...» per la prima volta iniziò a tremare davanti a quella donna senza cuore e le mancò il respiro. Era in momenti come questo che sentiva la mancanza di braccia materne in cui rifugiarsi. L’unica persona dalla quale poteva correre in cerca di aiuto si era spenta, inspiegabilmente, una sera di Primus. Da anni, pertanto, aveva dovuto asciugare le lacrime e combattere per non farsi sottomettere. Tale determinazione scaturiva in opposizione all’immagine del padre, plagiato sin da piccolo e tutt’ora dominato da una donna che non gli aveva mai dato amore; non era per nulla intenzionata a fare la stessa fine, piuttosto sarebbe morta anche lei. «Ah, ah, ah» Argelia scoppiò in una risata malefica, all’altezza della più crudele strega di Walt Disney, che echeggiò per tutto il Palazzo, ma un frastuono improvviso, di gran lunga più potente dell’ugola della donna, la fece trasalire e mutare espressione; un rumore di vetri infranti seguito dagli ululati del vento che s’infilava in ogni fessura – nei buchi delle serrature, sotto le porte, dalle canne dei camini. – Le molte finestre malandate, che non garantivano una perfetta chiusura, iniziarono a sbattere chiassosamente. Alcune cedettero e si spalancarono lasciando libero accesso al vento impetuoso. «L’hai trovato!» disse Argelia, esaltata. Quell’improvvisa bufera, in grado di far
tremare le fondamenta del Palazzo, poteva esser generata solamente da chi possedeva un potere sull’elemento superiore alla norma. Nella fattispecie, non poteva che trattarsi del gemello elementare, al quale l’allineamento in quartis (mondo, lune e sole) aveva attribuito superpoteri sui due elementi conferiti. «Grazie agli Astri si trova in questa parte di mondo», spalancò le braccia levando gli occhi al cielo. «DOV’È?» sbraitò, con la bramosia di sacrificarlo alla sua causa. Altea non rispose, si limitò a sparire dalla stanza. «Ah, ah, ah» la risata tetra della donna fu trasportata dal vento per tutto il Palazzo, «Tanto so dove trovarti!»
Le guardie stavano perlustrando tutta l’area intorno al Palazzo. Allertate da Altea, erano in cerca di una donna bionda fuggita dalla clinica psichiatrica, e di un uomo brizzolato, un tipo elegante e distinto, che le faceva compagnia. Una guardia stava aiutando l’ultima di loro a venir giù dall’albero su cui era stata scaraventata. Poco prima, una ventina di uomini in divisa viola e gialla, sembravano dei grossi e goffi condor appollaiati sui rami. Adesso che Tommaso era riuscito a dominare l’elemento Aria, stavano facendo ritorno a terra. Teodoro aveva retto a quella bufera abbracciando il tronco di un albero. Un fusto esile, ma con radici ben ancorate al suolo. «Cara, è tutto ato, puoi tornare in te» disse accarezzando la corteccia. Foglie, rami, tronco e radici si ritirarono in quest’ordine, lasciando il posto a Emma. La donna abbassò le braccia e si voltò verso l’uomo. Anche chi possedeva il potere della Terra poteva mutare forma, ma unicamente in un vegetale e in un minerale. «Scusa, ma non m’intendo di botanica, che albero eri?» Emma gli lanciò un’occhiataccia. Col figlio in pericolo, non gradì la battuta di spirito.
«Cosa hai intenzione di fare? Ci sono guardie dappertutto» chiese lui. «Entrare là e cercare Tommaso.» «Sarà pieno di guardie anche dentro. Loro si aspettano questa tua mossa.» «Senti questa calma. Sai cosa significa?» lui era in ascolto. «Che Tommaso ha smesso di usare i suoi poteri, perciò è nei guai.» «Ti sbagli. Adesso che le onde d’interferenza sono cessate, riesco a percepire il suo stato d’animo, le sue sensazioni, i suoi pensieri» Emma lo vide concentrarsi, aveva alzato la mano destra verso la testa; il pollice si affossò nella guancia e le altre dita premettero sulla tempia. Sul viso dell’uomo comparve un’espressione soddisfatta. «Bene! Ha finalmente domato l’elemento per lui più difficile.» «Sto avendo, ora, una visione nitida...» «Sì?» «...Un attimo, abbi pazienza.» «Oh! Perbacco, ora l’Aria è SUA» esclamò con piena soddisfazione.
Altea si rese conto che lei e il ragazzo incatenato alla colonna erano sulla stessa barca. Nei progetti di Argelia, la loro sorte non era poi così diversa. Una nuova e strana sensazione si stava facendo strada dentro di lei. Percepiva che il male fatto a Tommaso si sarebbe riflesso su se stessa. Aveva già avuto modo di costatarlo mentre si trovava nello studio della nonna. Aveva provato dolore allo stomaco e al petto ogni qual volta il ragazzo aveva cercato di liberarsi e la catena si era animata stringendolo sempre più alla colonna. Altea aveva sopportato il male senza manifestarlo, per non destar alcun sospetto, ma poi Tommaso aveva rovinato tutto. «Che diavolo ti è saltato in mente!» Altea apparve nella stanza semicircolare strillando al ragazzo e si accorse che era ancora ben legato alla colonna.
«Almeno fossi riuscito a scappare! Dopo aver creato tutto questo pandemonio, invece, sei ancora lì, legato come un allocco.» «Non potevo andarmene senza salutarti e ringraziarti dell’ospitalità» rispose lui sarcastico. «Sei poco furbo.» «Se fossi riuscito a liberarmi da questa dannata catena avrei tolto volentieri il disturbo. Mi pare ovvio.» «Appunto! Se non sei riuscito a liberarti, a cosa ti è servito sprigionare tanta forza dal tuo elemento? Solo a metterti nei guai, ecco a cosa ti è servito.» «Adesso mia nonna sa che sei qui. Tu non la conosci, non puoi nemmeno immaginare quale crudeltà ha in serbo per te. Devi fuggire» disse mentre si avvicinava a lui. «Cosa!?» Tommaso era incredulo «Non capisco, hai fatto di tutto per catturarmi... non vuoi più i miei poteri?» «Non in questo modo...» «Perché, ci sarebbe un modo migliore? Un furto è sempre un f... » «Shhh», lo zittì. Aveva avvertito qualcosa e si affrettò ad aprire il lucchetto che chiudeva la catena, ma non fece in tempo. Argelia spalancò la porta e lanciò un flusso di energia contro la nipote scaraventandola contro il sedile in pietra, sotto le vetrate in frantumi. Alcuni vetri le ferirono un braccio e un rivolo di sangue macchiò la manica del suo vestito. «Eccola, la stanza dove da piccola correvi a nascondere i cuccioli proibiti che raccattavi nel bosco, contravvenendo ai miei ordini. Hai sempre creduto di avermela fatta sotto il naso, invece io ne ero a conoscenza. Come credi che sparissero quegli animali? Ho dovuto sopprimerli per... lasciar correre... sottosotto mi faceva piacere vedere che mia nipote stesse crescendo con un carattere forte... come il mio.» «Come quello di mia madre, semmai. Da te non ho preso niente.»
«Bah.» «Certo, a parte la somiglianza fisica. Ma l’aspetto non conta, io sono una persona diversa» disse Altea rialzandosi e restituendo a sua nonna la spinta con l’onda di energia lanciata dalle sue mani, ma lo fece, volutamente, con poca forza. Dopotutto, si trattava sempre di sua nonna e di una donna di una certa età. Quest’ultima, invece, non ebbe remore in tal senso e utilizzò il suo potere con tutta la forza che possedeva per rispondere al contrattacco. “Adesso basta!” pensò Altea, che questa volta non si era fatta cogliere impreparata e stava resistendo abilmente a quell’energia, preparandosi alla contromossa; invece vide la donna sollevarsi da terra e salire sempre più in alto, ruotando in senso orario. Si voltò e vide l’espressione compiaciuta sul viso di Tommaso. Il ragazzo non riusciva a credere ai propri occhi: finalmente c’era riuscito! Davanti al pericolo egli aveva trovato la forza e il coraggio di mettere in pratica gli insegnamenti di Mathesias. Aveva compreso qual era l’errore commesso finora, quello tipico di ogni principiante: resistere alla forza dell’Aria per paura di esserne travolto, anziché permettere a quell’ energia di fluire attraverso il suo corpo e di assorbirla per poi convogliarla dove o contro chi desiderava. Sorrise quando le parole del suo maestro gli tornarono alla mente… “Tommaso, non opporre resistenza all’Aria.” “È arrivata perché sei stato tu a ordinarglielo.” “Non temerla, accoglila in te.” “Tu sei l’Aria”…
«Riesci a tenerla lassù ancora un po’?» gli chiese Altea. «Quanto voglio. È un gioco da ragazzi» rispose spavaldo «Sei un ragazzo» precisò lei. «Cosa?» Si distrasse e perse la concentrazione. Argelia precipitò da un’altezza di più di quattro metri, ma non toccò il suolo poiché il ragazzo riuscì a riprendere il controllo e a riportarla in alto.
«Tutto a posto», si affrettò a dire, «volevo solo farle capire che cosa le potrebbe capitare» azzardò. «Ne sono convinta» Altea sbloccò l’incantesimo sul lucchetto e ordinò alla catena di tornarsene da dove era venuta. «Puoi lasciarla andare. Prendo io il controllo su di lei» disse riferendosi alla nonna, «Vai via di qui, presto», ma il ragazzo non accennava a muoversi. «Che aspetti?» «Perché lo fai?» «Non fare domande. Vattene.» «Cosa ti succederà per avermi aiutato?» «Non è affar tuo. So badare a me stessa. Adesso esci subito da qua.» Tommaso si avviò verso la porta… «Non di là!» gli urlò dietro la ragazza, «È pieno di guardie e oltretutto non conosci la strada.» «Ma io non ho il potere della Terra per trasportarmi, che altro potrei…» s’irrigidì, una lampadina gli si era appena accesa nel cervello. “Evviva, ci sei arrivato!”, gli sembrò pure di leggere il pensiero di Altea. «No!» «E invece Sì! Non hai alternative, vola via.» «Non ho ancora imparato a volare!» il solo pensiero di schiantarsi al suolo gli fece diventare le gambe molli. «Beh, c’è sempre una prima volta.» Altea, con una sola mano, continuò a tener ferma la vecchia contro la colonna più a destra – Argelia non poteva nulla contro la sua forza bloccante – mentre con l’altra mano si occupò di Tommaso. Il ragazzo la vide puntargli contro l’indice sinistro e il suo cuore accelerò, ma non ebbe il tempo di aprir bocca che si ritrovò al di fuori del palazzo. Stette
qualche attimo a guardare le vetrate rotte e la ragazza dai lunghi capelli neri oltre a quelle e, quando si accorse che stava fluttuando nell’aria, iniziò a precipitare. Mille pensieri attraversarono la sua mente in una frazione di secondo. Si concentrò sull’Aria, se c’era riuscito prima perché non doveva funzionare adesso? Anziché dirigerla contro qualcuno, doveva usarla per sollevarsi. “Io sono l’Aria”, lo ripeté mentalmente. Ci credette. Iniziò a sollevarsi, aprì le braccia, pensò di essere un uccello e le usò come ali per sfruttare il vento e correggere la direzione.
Vedendo Tommaso precipitare, Emma infilzò le unghie nel braccio di Teodoro, il quale nemmeno se ne accorse. Entrambi erano col naso all’insù, in apnea. Poi il ragazzo era riuscito a librarsi in volo e il sangue era tornato a scorrere nelle vene della donna. Teodoro, nonostante la sua divinazione, aveva trascorso un attimo di panico e, quando tutto era finito, non sapeva se fosse più felice per le prodezze del ragazzo o per la conferma che le sue visioni non fossero all’acqua di rose. «Che ti avevo detto?» disse cingendo le spalle della donna in un abbraccio. «L’adrenalina accelera il processo di apprendimento!» «Non sei per niente divertente» rispose lei, spingendolo da parte. «Cosa farai per insegnargli i poteri del Fuoco, lo getterai in un vulcano?» «Non sono io il suo maestro.» fece spallucce. «Per fortuna.» rispose secca. «Comunque non stavo scherzando. Quando Tommaso ha paura o è arrabbiato, oppure quando sente la mancanza d’aria nei momenti di panico, evoca i suoi poteri senza rendersene conto. Quello che ha fatto oggi, lo avrebbe imparato, a dir poco, in quattro mesi, seguendo gli insegnamenti di Mathesias. E con ciò non voglio dire…», la mano di Emma giunse improvvisa a tappargli la bocca, mentre con l’indice davanti alla propria gli intimava il silenzio. Aveva sentito un rumore di foglie smosse e, infatti, poco più avanti, videro apparire una guardia che intimò loro l’altolà. Emma strinse il braccio di Teodoro e ricomparve con lui un
centinaio di metri oltre, lasciando disorientata la guardia. «Andiamo al nostro ritrovo», propose Teodoro, «ormai Tom è in salvo e, sicuramente, sta andando là anche lui.» Emma accondiscese e sparirono da lì.
Capitolo 14
Il Guardiano dell’Aria
Stava volando! Già, ma dove era diretto? Da lassù non doveva essere difficile orientarsi, poteva vedere tutta la città. Non però da quell’altezza; per avere una buona panoramica doveva salire più in alto. Al momento, stava sorvolando appena le cime degli alberi del parco del Palazzo del Governatore. Pensò di volare in alto dove osano solo le aquile. Era una bella sensazione, si sentiva leggero, libero e felice, pervaso da un senso di pace, e poi... «Oh, merda! Sto volando altissimo e non soffro di vertigini?» gridò. “Com’è possibile?” Si chiese, ma non sprecò tempo in cerca di una risposta. Era troppo preso dall’euforica novità. «Wow! Ma è fantastico!» nel dirlo allungò l’ultima vocale. Scese in picchiata e poi eseguì un’impennata. Gli sembrava di vedere le cose in modo diverso, con altri occhi; difatti, quando si voltò a guardare le sue braccia, capì all’istante il perché e rimase esterrefatto: al posto degli arti aveva un paio d’ali con lunghe penne nere e grigie, e due zampe con forti artigli adunchi e affilati. Il ragazzo si era trasformato in un’aquila. “E adesso come caspita faccio per tornare normale?” si domandò preoccupato. Poi si scrollò dalle ali anche quel pensiero. In qualche modo era riuscito pure a mutare forma usando il potere del Fuoco, a ritornar nei suoi panni ci avrebbe pensato più tardi. Se non ci fosse riuscito, sarebbe andato a cercare Mathesias. Cominciava ad avere sempre più stima di se stesso e fiducia nei suoi poteri, e assaporava ogni attimo di quell’incredibile avventura. In questo modo, dimenticò che lo scopo per cui era salito così in alto, era quello di orientarsi per far ritorno alla Taverna dei Segreti. Non pensò neppure a sua madre. Doveva necessariamente smaltire il carico di adrenalina. In mezzo alla sconfinata distesa di alberi si apriva un ampio specchio d’acqua, ed egli planò dolcemente fino a sorvolarlo a pelo per ammirare la sua immagine riflessa nel liquido cristallino. Aveva proprio un bel becco, lo sguardo predatore
e il portamento regale. Si compiacque della sua trasformazione, anche se non aveva la più pallida idea di come l’avesse evocata. Continuò il suo giretto turistico lungo la riva del lago quando vide un ceppo che affiorava dall’acqua e vi si appollaiò. In quell’istante, sentì il languore della fame lamentarsi con insistenza all’interno delle budella. Dopo la prima colazione, non aveva più toccato cibo; si era perfino dimenticato di portarsi dietro la merenda da consumare a scuola durante l’intervallo. Cominciò a guardarsi intorno e i suoi occhi predatori avvistarono uno ieiaky che, dalla riva del lago, stava correndo verso l’interno del bosco. L’istinto animale lo portò ad alzarsi in volo per piombare rapido e preciso sulla preda. Lo inseguì all’interno del bosco, dove il piccolo roditore cercò invano un nascondiglio poiché i cespugli, tutt’intorno, erano rovi con grosse spine, perciò corse sempre dritto lungo il sentiero finché egli non gli fu addosso e lo agguantò con i suoi artigli affilati. Se lo portò in cima a un albero. Quello sarebbe stato il suo pranzo se la parte umana non avesse preso, tempestivamente, il sopravvento. “Bleah! Disgustoso, stavo per mangiare uno ieiaky, perfino crudo.” Sotto gli artigli, sentì l’animale tremare di paura e ne ebbe comione. «Oh, povero ieiaky! Non temere, non ho alcuna intenzione di mangiarti» gli accarezzò la testa col becco e lo riportò giù. «Va’, sei libero» allentò gli artigli e la bestiola fuggì a zampette levate. Più avanti il sentiero voltava, ma prima che lo ieiaky vi giungesse, dal folto fogliame sbucò un’enorme zampa con squame azzurre e quattro artigli affilati, molto più grossi e lunghi di quelli dell’aquila, che lo agguantarono e lo sollevarono davanti a possenti fauci spalancate, dalle quali scaturì una fiammata che arrostì all’istante il piccolo roditore, prima di sparirvi dentro. «Lascialo!» gridò l’aquila, quando ormai era tardi. Si pentì subito di aver parlato vedendo la grossa testa dell’animale voltarsi verso di lui e fissarlo con occhi infuocati. «Sei stata tu, aquila, a parlare?» chiese la gigantesca bestia azzurra, muovendo il o con un leggero battito d’ali. Un movimento fin troppo elegante per la sua mole.
«Che cosa sei?» chiese l’aquila con un filo di voce. «Che cosa sono?» inveì l’animale, risentito. «Insomma, gli animali non parlano...» si accorse della gaffe, ma l’altro non gli diede tempo di correggersi. «Dici bene tu, gli animali non parlano, comprese le aquile, ma io sono un Drago e noi draghi abbiamo sempre parlato.» «Mi stai prendendo in giro, vero? I draghi sono frutto della fantasia popolare. Sono solamente una leggenda, nessuno li ha mai visti. Non si sa neppure che aspetto abbiano, veramente.» «È riuscito a farvi dimenticare la nostra esistenza» disse la bestia azzurra con tono grave. «Di chi stai parlando?» «Di colui che ha diviso il mondo, naturalmente. Ci ha confinato per sempre qui dentro.» «Vuoi dire che non potete uscire dal bosco di Nebrus?» «Bosco di Nebrus? Gli ha perfino cambiato nome. Puah! Per noi continua a essere il Bosco dei Draghi. Ci ha isolato perché temeva il nostro potere. Noi non possiamo più uscire da questo posto e nessuno vi può entrare. Infatti, perfino lo spazio aereo è limitato, superata l’altezza sicura, ci si scontra con un campo di forza invisibile. L’impatto può provocare una leggera scossa o farti perdere i sensi, dipende dalla velocità con cui ci vai a sbattere. Alcuni di noi, come altri animali volanti, sono svenuti e sono precipitati al suolo o dentro il lago; solo tre di loro si sono salvati, di cui due ne portano ancora le conseguenze. Le nostre femmine hanno paura a insegnare il volo ai piccoli. Come tutti i cuccioli, vogliono sempre giocare, non comprendono l’entità del pericolo e quindi non lo temono. Così si avventurano spesso fino ai confini stregati tra terra e cielo.» La sua voce era triste, scosse la testa e tirò un profondo ma rovente sospiro che fece volar via, terrorizzati, gli uccellini appollaiati su un ramo di fronte a lui. Parve non avvedersene. «Se solo fossimo rimasti dall’altra parte. Se avessimo scelto lì un posto per il
nostro raduno. Se, se, se. Da più di cent’anni continuo a chiedermi la stessa cosa: se è stato solo un caso che noi guardiani ci trovassimo ad un raduno in questa parte della valle, quando è stata operata la divisione, oppure se lui ne era a conoscenza e così ha potuto intrappolarci tutti in questa porzione di valle, privando entrambe le parti dei nostri servigi.» «Se te lo chiedi da più di cent’anni, allora sei un vecchio drago.» «Sono un drago di mezza età. Ho quattrocento... sedici anni, almeno credo.» «Io invece sono un ragazzo.» «Ma davvero!? Pensavo fossi un’aquila parlante!» «Volevo dire che non sono un uomo. Sono molto giovane. Sono un ragazzo.» «Certo, lo so. Sei un ragazzo molto speciale. Tu sei l’altro gemello» Tommaso ebbe un sussulto e non sapendo se fidarsi o no del drago, non rispose. «Beh, guarda che non ci voleva molto a capirlo. Sei riuscito a entrare in questo posto e solo chi ha poteri particolari può riuscirci.» «Hai detto “l’altro”...» accennò timidamente l’aquila. «Qualche anno fa, una bambina soleva addentrarsi in questi luoghi. Le piaceva fare il bagno nel lago. S’inabissava nelle acque profonde e di tanto in tanto emergeva la sua coda colorata e ritornava giù senza increspare la superficie dell’acqua. Quando tornava sulla terra, giocava con tutti i cuccioli che incontrava. A volte se ne portava via qualcuno. Un giorno, ha preso con sé un draghetto di appena dieci giorni di vita. Immagino quale sarà stata la sua sorte.» «Altea!» sussurrò l’aquila. «Non conosco il suo nome», rispose il drago. «A proposito, io sono Æronmì» «Tommaso», disse l’aquila, «ma se vuoi puoi chiamarmi Tom.» «Perché? Tommaso non è difficile da pronunciare.» «Gli amici mi chiamano Tom; è un vezzeggiativo.»
«Ci siamo appena conosciuti e mi consideri già un tuo amico?» «N... no», balbettò il ragazzo confuso, «però mi sei simpatico, perciò puoi chiamarmi Tom.» «Grazie. Tu puoi chiamarmi Æronmì.» «Uhm» fece l’aquila delusa. «Bene, ora che ci siamo presentati puoi anche riprendere le tue sembianze. M’infastidisce veder parlare un’aquila. La parola è una prerogativa di noi draghi.» «Capisco, però preferirei rimanere un’aquila per scappare con più agilità in caso di pericolo», non aveva nessuna intenzione di dirgli che non era in grado di convertire. Si vergognava di non essere abile nel gestire i suoi poteri dopo che il drago gli aveva dato del “ragazzo molto speciale”, anche se aveva fatto degli improvvisi progressi. «Baggianate! Qui nessuno è tuo nemico, di’ piuttosto che non sai come fare.» «Come l’hai capito?» «Ho letto il tuo pensiero» rispose con naturalezza il drago, ma si accorse che il ragazzo era a disagio. «Non preoccuparti, imparerai.» «Seguimi, voglio mostrarti qualcosa.» Tommaso lo seguì per sentieri fitti di vegetazione, ma poi il drago si avvide che per l’aquila era stancante procedere a piccoli saltelli e brevi svolazzi. Apri le sue enormi ali azzurre, per quanto la flora glielo consentisse, e si alzò in verticale fino a superare le cime degli alberi. «Dai! Aquila, è meglio che continuiamo in volo, altrimenti, col tuo o, non arriviamo più.» «Tom!» «Va bene: Tom. Sbrigati» Il ragazzo-aquila fu felice di riprendere a volare, quell’emozione gli piaceva assai. «Æronmì?»
«Che c’è?» rispose il drago voltando la testa alla sua sinistra. Lui e il ragazzo volavano in parallelo, facendo attenzione a non andare troppo in alto. Nonostante Tommaso fosse una robusta aquila adulta, vicino al drago sembrava solo un erotto, una scialuppa di salvataggio al fianco della nave. «Chi sono i guardiani?» «Siamo quattro. Siamo i guardiani degli Elementi. Io sono il guardiano dell’Aria. Appena arriveremo nel luogo dove siamo diretti, ti farò conoscere gli altri tre.» Tommaso notò il medaglione appeso alla catena che il drago portava alla base del collo. Un grosso cerchio dorato col simbolo elementale dell’Aria. «Perché, dove siamo diretti?» «Alla Valle Incantata» «Wow! Mi piace “incantata”.» Il drago scosse la testa e continuò a volar dritto. «Æronmì?» «Che c’è?» rispose tra lo scocciato e l’arrendevole. «A cosa fate la guardia, voi guardiani?» «Gli Elementi sono sacri. Il potere che deriva da essi è un dono e non va usato impropriamente. Noi controllavamo che nessuno abusasse dei suoi poteri a scopo malvagio o, comunque, in modo contrario al buon senso o dannoso per la collettività. Eravamo al servizio del Garante per le Arti Magiche. Adesso siamo disoccupati. Possiamo captare gli abusi, ma non possiamo intervenire. Abbiamo percepito tutti gli illeciti commessi dai governanti, e abbiamo costatato che al male perpetrato non sono mai seguite controffensive con l’uso dei poteri. È evidente che oltre ad esservi dimenticati di noi, vi siete dimenticati anche della magia. Noi draghi viviamo con questa consapevolezza dal 3114 e, intrappolati in questa porzione di terra, abbiamo aspettato con fiducia che arrivasse questo giorno. E tu sei giunto. Ora attendiamo fiduciosi il giorno in cui i vostri poteri saranno così maestosi da porre fine a queste divisioni.» «Non è detto che voglia assumermi questa responsabilità.» «Tu devi! Voi dovete!» sentenziò il drago, «Siete i soli a poterlo fare.»
«Non siamo costretti a farlo», ribadì l’aquila, «È una nostra scelta. Potreste anche aspettare altri cento anni, visto che avete la fortuna di essere così longevi, e lasciare in pace noi. E poi con quella non faccio un bel niente.» «Ma tu lo sai chi è? È la discendente di Nerasmo ed ha cercato di impadronirsi dei miei poteri; ce l’ha nel sangue.» «Ma poi ti ha fatto fuggire.» «Beh... sì», ammise con riluttanza. «Avrà avuto il suo buon motivo, ma non era certo quello di proteggere me.» «Allora dovrai riuscire a portarla dalla tua parte.» L’aquila si fermò su un ramo e il drago dovette tornare indietro. «Che c’è, sei stanco?» «Non ne ho alcuna intenzione», disse indispettita l’aquila, in risposta alla precedente esternazione del drago. «Non sono l’eroe nato per salvare il mondo. Voi guardiani, che pretendete questo da due ragazzi, dove eravate quando Bruto sottrasse i poteri alla sua gemella?» «Eravate in pausa pranzo? Tutti a cacciar roditori e a sbronzarvi con l’idrogeno? Se il mondo è diviso è anche per colpa vostra.» Il drago scaricò la sua rabbia sputando lunghe lingue di fuoco verso l’alto. Un moccioso che sputava sentenze sull’operato dei guardiani; li accusava senza conoscere i fatti. Il drago era arrabbiato, pretendeva più rispetto non fosse altro che per i quattrocento anni di distacco, ma non gli disse niente per non indispettirlo. Sapeva di chiedergli molto e, in un certo senso, comprendeva la sua reazione. Non poteva dargli del vigliacco o del menefreghista, era soltanto un cucciolo d’uomo ed era giustificabile la sua paura, ma un giorno, crescendo, molte cose gli sarebbero state più chiare e avrebbe cambiato idea. Ne era pressoché certo. «Quel fatidico giorno», iniziò a dire il drago, «eravamo qui, in questa parte della Valle, per un corso di perfezionamento e coordinamento di alcune mansioni. Ma ovunque fossimo stati, in nessun caso avremmo potuto far qualcosa, perché il fattaccio ebbe luogo nel Paese Perpetuo. I draghi non possono accedervi e non chiedermi il perché, non saprei risponderti. Quando Nerasmo tornò da quel luogo, col carico dei poteri dei quattro elementi, non riuscimmo ugualmente a percepire ciò che a breve avrebbe compiuto. Quel che crediamo è che i quattro
elementi gli conferirono la capacità di evocare uno scudo protettivo, talmente potente, da isolare perfino i nostri acuti sensi, gli unici capaci di penetrare uno scudo. Siamo riusciti a captare qualcosa solo quando Bruto ha iniziato a perdere i poteri della sua gemella. Lo scudo si è indebolito e così siamo riusciti a cogliere il male che stava compiendo. Purtroppo, non abbiamo potuto fermarlo. Il malvagio ci aveva già isolato in questo posto, e nonostante questa barriera sia molto più debole di quella che separa l’altra parte del mondo, non riusciamo a oltrearla. Ha colto l’occasione di eliminare in un colpo solo tutti i draghi, in special modo i guardiani degli elementi: gli unici capaci di risvegliare le coscienze dei maghi. E questo è quanto.» L’aquila non disse nulla, pensierosa si librò e riprese il volo; il drago smise di fluttuare nell’aria e lo seguì riportandosi al suo fianco. Proseguirono così in silenzio per un lungo tratto, poi il drago riattaccò con la solita tiritera. Perseverante nella sua missione di convincere il ragazzo. «Anche dall’altra parte staranno aspettando con fiducia la rivelazione dei gemelli. Oppure hanno già perso la speranza, perché sono ati ormai dodici anni dall’eclisse e non hanno trovato alcun ragazzo dotato e mai lo troveranno, giacché voi siete nati da quest’altra parte.» L’aquila finse d’ignorarlo. «Immagino tutte le congetture che avranno fatto in questi anni e anche i loro timori. Potrebbero aver ipotizzato che in questa parte di mondo perversi il male e che le persone si siano votate alla dottrina di Nerasmo. In questo caso, temerebbero l’arrivo dei gemelli come portatori di nuovi misfatti.» «Sei tu a supporre che loro suppongano, ma supponiamo che essi non suppongano: hai solo perso tempo. Ma sì, tanto sei disoccupato, che altro potresti fare durante la giornata se non supporre?» «Mi stai prendendo in giro?» disse il drago risentito, e scese su un masso, dove si sedette. “Suppongo di sì”, pensò l’aquila e il drago lesse quel pensiero. Scese anch’essa posandosi su un ramo all’altezza della testa del drago; notò che i suoi grandi occhi scuri si erano ridotti a due fessure e nelle iridi vide le fiamme, sembravano riflesse, come se il drago stesse guardando il fuoco. L’aquila temette di finire incenerita. «Tommaso», il tono era grave, «Dovete riunificare il nostro mondo, ridare
coscienza e identità alle persone che l’hanno persa. Il Mondo di Sopra deve tornare a essere il luogo felice e pacifico che era un tempo. Siete l’unica speranza di farci vivere degnamente le nostre vite. Lo so che è pur vero che non siete costretti. D’accordo, completo libero arbitrio: rifiutate! E il mondo aspetterà altri cent’anni e magari altri cento, ma la vostra coscienza vi tormenterà sino alla fine dei vostri giorni e i vostri figli biasimeranno la vostra riluttanza e perderanno la stima di voi...» «Ehi, drago, così non vale! Questo è terrorismo psicologico!» «Chiamalo come vuoi, ma questo è quanto accadrà. Sta a voi.» «Voi, voi, voi... Non siamo alleati. Come te lo devo spiegare che quella sta dall’altra parte della barricata? Poi c’è la vecchia che è peggio della nipote; è assetata di poteri elementali...» «Però la ragazza ti ha fatto fuggire.» «Ti ripeto che non so perché l’abbia fatto.» Provò a riflettere, poi scosse la testa «Ha detto che la vecchia voleva farmi... qualcosa di terribile, che dovevo andarmene.» «Quindi, non approva le azioni maligne della nonna.» «Come faccio a dirlo? Forse temeva soltanto che potessi morire e così lei non avrebbe mai avuto i miei poteri. Oppure sospetta che la vecchia voglia fregarci entrambi...» «Non è possibile. Solo il gemello può sottrarre i poteri al proprio gemello. In più, esiste un solo rito magico per poterlo fare.» «Forse lei non lo sa... », gettò la testa pennuta di lato, «E tu come lo sai?» «Secoli addietro, mio padre serviva un nobile mago. Questi era in possesso di un antichissimo libro magico, “Il Libro delle Ombre”. Ne era molto geloso e disse a mio padre che era un pezzo unico e di inestimabile valore. Affidò al mio genitore il compito di custodirlo e proteggerlo, anche al costo della vita, quando lui non fosse stato più su questa terra. Quel mago non ebbe figli e non trovò alcun mago degno, a parer suo, di ricevere in consegna il prezioso volume.
Mio padre perse la vita per proteggere il libro. Dopo un estenuante combattimento all’ultimo sangue, il drago nero ebbe la meglio. Il drago nero, sempre pronto a servire il miglior offerente di malvagità. Un figuro oscuro lo assunse per fronteggiare mio padre, drago dorato, e impossessarsi del prezioso volume. Molte volte quell’uomo minacciò di morte il mio genitore, ma anche tutta la nostra famiglia, se egli non gli avesse ceduto il libro; tuttavia, non poteva fronteggiarlo in una lotta impari. Mio padre era convinto che quell’uomo lavorasse per Haltheyvan, il terzo di una discendenza di negromanti, progenitore del druido che aiutò Nerasmo, il più terribile negromante della storia, che continua a vivere nel suo tempo attraverso il Paese Perpetuo, il posto dove è già giunto l’ieri, dove sta andando l’oggi e dove vi finirà il domani. Quando una notte il drago nero scoprì la nostra dimora, mio padre maledisse quel libro e chi glielo aveva affidato. Pensò per un attimo di distruggerlo, però aveva giurato di proteggere quel libro fino alla morte e per un drago il giuramento è sacro. Non aveva mai aperto il grosso volume dalla custodia in cuoio scuro con borchie dorate, ciò nonostante, quella notte, spinto dalla curiosità per la smania di possesso che aleggiava su quel libro, volle perlomeno sapere per cosa stavamo rischiando la vita. Iniziò a sfogliarlo e vi trovò l’incantesimo per sottrarre, temporaneamente, i poteri al proprio gemello, ma aveva trovato anche quello che permetteva alle anime ate di poter uscire dal Paese Perpetuo e calpestare la terra dei vivi. Ci illustrò ampiamente quei due incantesimi e commentò la loro pericolosità. Per questo che mio padre pensò a Haltheyvan III. Inquietato dal pensiero che l’orrendo mago avrebbe potuto far ritorno nel Mondo di Sopra, strappò la pagina e la incenerì soffiandovi sopra il suo alito rovente. Non fece nulla, invece, con l’altra pagina. Il drago nero, addentratosi nella caverna, aveva già trovato la galleria giusta e si mostrò torvo e più nero della paura che allora mi colse. Mio padre ci gridò di scappare e rimase a fronteggiare il drago. Mia madre mi condusse per una galleria secondaria che sbucava all’esterno. Lei sapeva che a un certo punto il cunicolo si sarebbe ristretto e per lei non sarebbe stato possibile proseguire. Strofinò forte con amore la sua testa con la mia, poi mi ordinò di andare avanti e mettermi in salvo. Lei tornò indietro. Mio padre era stato sconfitto; vide il drago nero fuggire con il libro e un sacchetto di tela. Si precipitò a soccorrere il suo compagno morente. Egli, prima di esalare l’ultimo respiro, tentò di dirle qualcosa, ma le uniche parole che lei riuscì a discernere fu il nome del perfido druido e “ceneri”. «Questo è quanto mia madre mi raccontò qualche tempo dopo il tragico e doloroso evento.»
L’aquila si era ammutolita, aveva ascoltato tutto il discorso del drago in religioso silenzio, pensando, meditando e riflettendo su ogni singola parola. Al termine tutto gli fu più chiaro, compresa la cocciutaggine e l’insistenza di Æronmì. Dopo una lunga e silenziosa pausa, l’aquila prese la parola: «Così l’ultimo Haltheyvan ereditò il Libro delle Ombre... pensi che lo abbia donato a Bruto?» «Non credo. Se così fosse, Altea non ti avrebbe lasciato andare. Io sospetto che Argelia stia sperimentando la maniera di ricostruire quell’incantesimo. È questo che spaventa la ragazza.» «Già, se non dovesse funzionare c’è il pericolo che le sfasci il giocattolo» una nota d’amarezza suonò tra quelle parole. Il drago lo guardò. Era evidente che il ragazzo fosse combattuto da sentimenti contrapposti. “Il mondo vi chiede un grande sacrificio e un profondo atto di coraggio”, la frase detta dal guardiano dell’Aria aveva assunto un significato nuovo e grave. «Il sacrificio di cui parli non si può limitare a convincere Altea, – stavolta l’aveva chiamata col suo nome – buttar giù un paio di barriere, una più resistente e l’altra meno, e il gioco è fatto. Il mondo sarà riunito e tutti vivranno felici e contenti. Sembra troppo semplice. Deve esserci una fregatura, giusto?» «Te lo avrei detto quando avresti compreso il vero valore dei gemelli elementali. Sei già riluttante a eliminare un campo di forza e, ancor prima, a convincere una bella ragazza, cosa faresti se ti dicessi quello che veramente vi aspetta? Non era mia intenzione spaventarti.» «Lo stai facendo adesso.» «Nessuno si aspetta che lo facciate domani. Ci vorrà tempo per imparare a padroneggiare perfettamente i poteri degli elementi. Dovrete studiare e allenarvi intensamente e quotidianamente, ciò richiederà qualche anno e molto impegno da parte vostra. L’unico punto dolente è che da questa parte la magia è quasi del tutto scomparsa e l’unica scuola per l’insegnamento delle arti magiche e dell’uso dei poteri degli elementi, il San Gregorio College, si trova dall’altra parte. Perciò, quando avrai convinto la ragazza dovrai portarla qui, io e gli altri guardiani saremo onorati di essere i vostri precettori.»
Tommaso pensò al tunnel sotterraneo che conduceva, segretamente, dall’altra parte, ma subito cercò di distrarre la mente per far si che il drago non vi leggesse quel pensiero. Non era ancora sicuro di potersi fidare cecamente di lui e poi, come l’avrebbero presa quelli della Resistenza? Non poteva agire di sua iniziativa, senza la loro approvazione. Qualora lo avessero ritenuto opportuno, allora sarebbe tornato per informarlo. «Ho bisogno di riflettere molto e bene su tutto quello che hai detto, ma tornerò a trovarti e ti farò sapere la mia decisione. Promesso.» «È giusto», commentò il drago, «dovrete mettere in gioco le vostre vite, nessuno può farvi premura» il drago alzò la testa, anche l’aquila fece lo stesso: il sole era calato improvvisamente dietro le cime degli alberi, l’imbrunire spense i contorni delle cose anche se gli occhi dei due osservatori si adattarono perfettamente alla semi-oscurità. «È tardissimo!» esplose Tommaso. In quell’istante sparì tutto dalla sua testa: l’emozione del volo, Altea, il drago e la missione cui era stato chiamato, ogni spazio della mente si era riempito unicamente dal pensiero di sua madre. Ricordò che non era più rinchiusa in quella sottospecie di clinica. L’aveva vista per un breve istante nel campo dei mulini, ne era certo. Non era stato un miraggio fabbricato dalla paura e dal bisogno di protezione. Dov’era andata? Da dove avrebbe iniziato a cercarla? A casa era alquanto improbabile se prima suo padre non fosse rinsavito, da Teodoro poteva essere un’alternativa, oppure al rifugio della Resistenza che era di gran lunga il posto più sicuro. Quella donna doveva essere tremendamente in ansia per lui, dopo che l’aveva visto sparire con Altea. Doveva andare subito da lei. Di certo non avrebbe potuto riabbracciarla con un paio d’ali al posto delle braccia, perciò doveva raggiungere il rifugio sperando di trovarvi Mathesias, che l’avrebbe aiutato a riprendere sembianze umane e, con un pizzico di fortuna, avrebbe potuto trovarci anche sua madre. «Mi dispiace, Æronmì, devo proprio scappare.» «Peccato. Sarei stato felice di farti vedere la Valle Incantata e di farti conoscere gli altri guardiani, ma per il cucciolo d’uomo s’è fatto tardi. Non lontano da qui, a una mezz’ora di volo se il naso non m’inganna, c’è un posto dove, da qualche tempo lo avvertiamo, viene spesso eretto uno scudo esteso e potente, il suo spessore deriva dal fatto che esso è evocato da più persone insieme. Noi abbiamo percepito, sotto a esso, tensione, preoccupazione e ansia, ma anche magia,
determinazione, sentimenti di fratellanza e di speranza. So che stai per andare in quel luogo. Va’, tua madre ti sta aspettando.» Imibile, l’aquila batté le ali e, felice, riprese il volo. «Arrivederci, drago!» «Arrivederci, Tom, aquila parlante.»
Capitolo 15
La partenza di Tommaso
Emma riapparve con Teodoro davanti alla porta di servizio della Taverna dei Segreti. Il personale della trattoria stava apparecchiando i tavoli per la cena e organizzando il lavoro per preparare le varie portate del menu serale. Tra qualche ora il locale si sarebbe riempito di clienti. Miranda aveva ricevuto parecchie prenotazioni per quella sera ed erano rimasti liberi soltanto tre tavoli da due. L’avvocato bussò con vigore alla porta scandendo il ritmo di riconoscimento. La porta si aprì in uno spiraglio e apparve un quarto di donna, con i capelli appuntati in cima alla testa. Lei strabuzzò gli occhi per la sorpresa e spalancò la porta di scatto. «Emma!?» disse con filo di voce, «Che cosa…» «Shhh», la bloccò Teodoro facendosi avanti, «Facci entrare, svelta.» La donna obbedì e richiuse immediatamente la porta appena furono entrati, poi abbracciò forte Emma, con le sue braccia energiche da instancabile lavoratrice, che quasi le fece mancare il respiro. «Emma è scappata da quel postaccio e per il momento starà a casa di Radalise. A Mulac non diremo niente, anzi, sarà utile escogitare un piano per la sua riconversione» disse Teodoro. «Tommaso dovrebbe giungere quanto prima», intervenne Emma, che per il momento era più preoccupata per il figlio che non per il marito. «È fuggito dal Palazzo del Governatore dopo che Altea lo aveva rapito. Resta vigile, potrebbero averlo seguito» proseguì Teodoro. «Altea... rapito?» «Ingordigia. Credo che i poteri di Tommaso le facciano gola. Però il ragazzo ha preso il volo e l’ha lasciata a bocca asciutta» rispose egli. «L’ambiente è diventato pericoloso per Tom adesso che Altea ha scoperto la sua identità.
Sicuramente lei e Argelia, che senz’altro è la mandante, proveranno di nuovo a catturarlo.» «Dovranno vedersela con tutti noi, a costo di uscire allo scoperto» proruppe Miranda portandosi le forti mani sui fianchi generosi. «Se solo Zantor si sbrigasse a tornare!» fece Teodoro, spazientito. «È piena la dispensa?» era un detto d’intesa. «Abbastanza: Alcherius, Karmis, Mathesias, Condef e Valdem. C’era anche Zuleica, ma è dovuta andare di corsa a comprare… un ingrediente che sta per finire» rispose vaga Miranda, poi indicò, con un cenno della mano, la strada per il locale utilizzato come dispensa: «Forza andate! Saranno tutti felici di riabbracciare la nostra Emma» disse cingendo con un braccio le spalle della donna. La porta segreta, nascosta dietro lo scaffale pieno di cesti di viveri, si aprì e la luce intensa della cambusa penetrò all’interno, rischiarando una striscia dell’ambiente semi-oscuro, dove erano riuniti alcuni membri della Resistenza. Le torce alimentate da cilindretti di biocrinite avevano, da poco, sostituito le lampade a olio poiché, in quella stanza senza finestre, consumavano una buona parte di ossigeno e non era consigliabile soggiornarvi a lungo, specialmente se in tanti. Nonostante il nuovo sistema artificiale d’illuminazione, vi era soltanto una torcia accesa, dato che l’abitudine a riunirsi sotto una luce fioca era dura a morire. Tutti furono ben lieti di rivedere Emma e per l’occasione stapparono una preziosa bottiglia di vino bianco nebrusiano per brindare alla sua salute, all’evasione e al suo ritorno nella Resistenza. Miranda arrivò con in mano un vassoio pieno di antipasti e con l’altra mano ne reggeva un altro coi bicchieri, mentre sotto l’ascella sinistra stringeva una bottiglia. Ben presto, si unirono all’aperitivo anche coloro che stavano allestendo la sala, e così Miranda dovette andare a prendere altre due bottiglie e preparare altri antipasti. Si brindò una seconda volta. Mentre, allegramente, facevano tintinnare i bicchieri, un suono pieno e ritmico giunse da sotto il tappeto. Tutti ammutolirono all’istante, si scambiarono brevi occhiate e subito tirarono indietro le sedie, sollevarono il grande tavolo ovale e lo spostarono al di fuori del perimetro del tappeto. Teodoro e Mathesias
arrotolarono il tappeto portando allo scoperto la botola sotto la quale iniziava una lunga scala a chiocciola che scendeva per oltre quaranta metri sottoterra. Terminata la scala aveva inizio il tunnel, scavato dai membri delle Resistenza, dritto e lungo circa quattrocento metri che, oltreando la linea del confine, sbucava dall’altra parte del Mondo di Sopra e precisamente nei boschi, con la fortuna spacciata di essere lontano dal sentiero rosso di cui i nebrusiani non sapevano dell’esistenza. Qualcuno bussò nuovamente sulla botola, questa volta più piano poiché aveva sentito cessare lo stormire di voci. Teodoro sollevò la botola e, in un lungo scricchiolio, la ribaltò alla sua destra rivelando un uomo che, dopo essersi inerpicato per un considerevole numero di pioli (nessuno si era preso mai la briga di contarli), era giunto in cima col fiato grosso e con il cuore che galoppava come un cavallo selvaggio. «Zantor, finalmente! Eravamo impazienti» disse Teodoro porgendogli la mano in aiuto per uscire dal cunicolo. L’altro fece soltanto un gesto con la testa, non riusciva a parlare. Miranda gli offrì subito una sedia ed egli le fece capire a gesti che aveva bisogno di bere. Un bicchiere di vino venne tramutato in acqua da Mathesias che glielo porse. Quand’ebbe bevuto e tirato un paio di profondi sospiri, fu in grado di parlare. Nel frattempo gli altri avevano rimesso in ordine la stanza e tutti presero posto attorno al grande tavolo ovale. «Ho tardato a tornare perché sono stato smascherato», iniziò a dire Zantor, «Hanno scoperto la mia vera identità e sono stato rinchiuso e interrogato per diversi giorni. Però, alla fine sono riuscito a convincerli della mia buona fede. Ho raccontato loro delle malefatte di Bruto e di tutta la sua discendenza, e di noi, la Resistenza, che più che riunirci in segreto non sappiamo proprio che altro fare. Che siamo troppo pochi, ancora, per elaborare una strategia vincente e tentare un colpo di stato.» «Ma ora la notizia più importante che tutti state aspettando: Tommaso è stato ammesso al San Gregorio. Non riuscivano a trovare la registrazione della sua nascita e ora sanno che il ragazzo è uno dei nostri. Sono molto interessati a lui e anche…» «Allora è possibile condurre subito il ragazzo dall’altra parte» lo interruppe Teodoro.
«Beh... » «Lui e Karmis, naturalmente. Come avevamo stabilito» intervenne Mathesias poggiando una mano sulla spalla di suo figlio. «E anche Emma. Sanno già della sua fuga dalla clinica e la stanno cercando» aggiunse Teodoro. «No, no, io resto qui. Mi basta sapere che mio figlio è al sicuro. E poi c’è sempre mio marito, devo riuscire ad annientare l’incantesimo che gli ha ripulito la mente durante l’assemblea pubblica. Era un valente mago e devo aiutarlo a ritrovare se stesso.» «Emma!?» disse Zantor con voce smarrita. «Sì, sono proprio io. Ho cercato di fare le cose in regola, ma loro baravano: non era mai sufficiente superare i loro test. Ho capito che non sarei mai uscita da là, e quando ho saputo che Tom era in pericolo ho tagliato la corda.» «Bentornata, Emma» poi si guardò intorno, nonostante ci fosse una sola torcia accesa per lui era troppa luce, i suoi occhi non si erano ancora adeguati al aggio dal buio profondo del tunnel lungo il quale aveva proceduto con una fiaccola. «Dov’è tuo figlio?» «Vorrei saperlo anch’io, spero che riesca a raggiungerci quanto prima, sta facendo buio e comincio a essere veramente in ansia.» «Perché non sai dov’è tuo figlio, esce da casa senza avvertire?» «Certo, tu non sai niente! È stato rapito da Altea: l’ha trasportato con sé nel Palazzo del Governatore…», la serratura scattò e la porta del nascondiglio segreto s’aprì. Entrò Radalise, sotto il braccio teneva a fatica una grande aquila. «Oh! Buonasera, Zantor, era ora che tornassi.» Egli accennò un saluto con la mano. «E quello?» disse Miranda indicando l’uccello, «Non vorrai che lo prepari per cena!»
«No! Povero pennuto. Sai come mi ha chiamato?» «Signorina segretaria di Bachelot. L’ho incontrato… per aria, mentre venivo qua. È atterrato sul sedile della mia auto e mi ha chiesto di accompagnarlo perché non sapeva come fare a entrare…» «Tom!?» «Mamma!» «Oh! Tom! Tesoro mio.» «Non riuscivo proprio a crederci che un ragazzino terrorizzato dall’altezza riuscisse a volare» disse Radalise. «Mi stavo allacciando la scarpa» le rispose con un tono che si sarebbe potuto definire a denti stretti, becco consentendo. «Beh, era ora! Sono contento che tu sia riuscito ad avvalerti anche di questo potere che ti deriva dall’elemento Fuoco. Adesso che ce lo hai mostrato, però, puoi pure ritornare te stesso» disse Mathesias. «Non lo so come ci sono riuscito e non so neppure come s’interrompa questo incantesimo» rispose mogio, abbassando la testa pennuta sotto un’ala. «Sicuramente hai desiderato essere un’aquila o possedere certe sue qualità. È così che funziona. Eppure te l’ho spiegato tante volte, forse prima non l’hai mai desiderato veramente o avevi bisogno di un pretesto a tutti i costi. Per tornare indietro devi semplicemente dire “Riconverti in me”, un comando secco e deciso, come l’ordine impartito da un comandante. Beh, questo all’inizio, perché quando avrai preso dimestichezza, ti basterà pensarlo.» Tommaso pensò al suo eroe preferito dei fumetti, il leggendario e invincibile Capitan Thug, l’unico essere nell’universo dotato dei poteri cosmici, che a bordo del suo vascello fantasma solcava l’iperspazio combattendo i nemici della Fondazione Galattica. S’immaginò nei suoi panni mentre ordinava ai suoi uomini il contrattacco. Pensò che così avrebbe funzionato, non aveva nessuna intenzione di fare una figuraccia davanti a tante persone. «RICONVERTI IN ME!» ordinò.
Tutti rividero il ragazzino biondo col ciuffo ribelle e gli occhi scuri e profondi. Fra i suoi capelli era rimasta una piuma bianca ed Emma gliela tolse con un gesto amorevole e il peculiare sorriso materno. Finalmente, dopo tanti mesi, madre e figlio si potettero riabbracciare. Fra la commozione generale il tempo sembrò fermarsi, poi fu Teodoro a parlare per primo. «Come mai ci hai messo così tanto, hai perso l’orientamento?» «Sono stato nel bosco di Nebrus. Cioè, veramente…» «Cosa? Non è possibile entrarvi» gli tolse la parola Alcherius. «Già! C’è un campo di forza anche lungo il perimetro del bosco di Nebrus» confermò Valdem. «In verità, si chiama Bosco dei Draghi e si trova nella Valle dei Draghi. Io posso entrarvi perché sono il gemello elementale e poi questo campo di forza è debole rispetto a quello del confine. Me l’ha detto Æronmì, il guardiano dell’Aria…» «No, aspetta un attimo», lo bloccò Teodoro, «stai dicendo che nel bosco vivono altre persone isolate da più di cent’anni?» «Non ho visto persone nel bosco. Ho incontrato solo Æronmì, il drago azzurro, guardiano dell’Aria. Voleva farmi conoscere…» «Un DRAGO!?» un coro di esclamazioni si levò nella stanza. «Hai una fervida immaginazione, ragazzo. Un drago! Tsz!» fu Condef a parlare, facendo irritare Emma. «Basta! Per più di un secolo, Bruto e i suoi discendenti hanno epurato le nostre coscienze. Sappiamo bene che la loro politica è imperniata su tre obiettivi: farci dimenticare che siamo dei maghi e che possediamo il potere di un elemento, rinchiudere gli immutati contando sul loro crollo psicologico, e nascondere o distruggere qualunque cosa possa risvegliare la memoria. Perché, dunque, non possono aver fatto lo stesso con i draghi? Se mio figlio dice di averne visto uno e di avergli parlato, io gli credo» batté con vigore la mano sul tavolo. «È ciò che ha detto anche Æronmì. I governanti hanno voluto che ci dimenticassimo di loro. I draghi sono i guardiani degli elementi e coadiuvano il
GAM nel suo lavoro. Essi intervengono quando scoprono degli abusi nell’utilizzo delle arti magiche, perciò andavano isolati. Æronmì ha detto anche che solo i draghi sono in grado di risvegliare le coscienze dei maghi.» Tommaso spiegò quello che aveva appreso dal drago azzurro. «Chi è, o cos’è il GAM?» chiese Radalise. «GAM sta per “Garante per le Arti Magiche”.» Tutti si voltarono di scatto, la risposta era provenuta dalla postazione di Zantor, ma la voce non era la sua… e neppure il corpo era mai stato il suo. Le sembianze del membro della Resistenza erano state prese in prestito da una donna anziana per intrufolarsi al quartier generale. «Mi chiamo Gemma Cimador, sono il presidente del Consiglio dei Cinque, nonché docente al San Gregorio College. Non temete per il vostro amico Zantor, sta bene. Ho assunto le sue sembianze per venire qua e avere un riscontro con quello che ci ha raccontato. Certamente, siete sempre stati coscienti di non potervi trasferire in massa nella nostra area, un tal esodo non erebbe inosservato e metterebbe in pericolo la nostra gente…», si rese conto della gaffe, «Scusate, siete anche voi la nostra gente; è per questo che dovremo collaborare strettamente, per il bene di tutti, del nostro mondo, per la riunificazione. A tal proposito il Consiglio ha deciso che sia di enorme importanza che il ragazzo, Tommaso, venga con me. Egli dovrà essere istruito al San Gregorio, dove avrà modo, inoltre, di conoscere la sua gemella…» «Scusi, signora… presidente, com’è possibile che facciate frequentare il San Gregorio anche ad Altea, la figlia del Governatore, la discendente di Bruto…» Tommaso non capiva, e neppure gli altri. «Questo non l’ho mai detto! Chi sarebbe questa... Altea?» «Come chi! Ma la mia gemella! Quella che vorrebbe farmi conoscere, ma si dà il caso che, purtroppo, la conosca già. Sono stato catturato da lei che, insieme a sua nonna Argelia, madre del Governatore, intende impossessarsi dei miei poteri...» «Aspetta un attimo, ragazzo, come puoi affermare che sia la tua gemella?» «Lei possiede i doni degli altri due elementi, riesce a entrare nel Bosco dei Draghi e Æronmì dice che è la mia gemella. Il drago azzurro vuole che la convinca a stare dalla mia parte e dice che entrambi dovremmo accettare ciò a
cui siamo stati destinati...» «Æronmì», mormorò la Cimador con una nota amara nella voce, «Sì, il drago è affidabile, senza alcun dubbio.» «Beh, sono affidabile anch’io, sa?», disse Tommaso risentito, «L’ho vista con questi occhi usare entrambi i poteri.» «Ci scusi, professoressa Cimador», Teodoro pensò di parlare a nome di tutti, «credo che lei ci stia confondendo. Vorrebbe essere più chiara?» «Sono confusa anch’io. Sembrerebbe che Tommaso abbia due gemelle. Durante la selezione, abbiamo rilevato i poteri gemellari in una ragazzina del Mondo di Sotto. Per una particolare circostanza, è venuta alla luce nel nostro mondo.» «Può darsi che sia stato commesso un errore in quella selezione» disse Alcherius, come dandolo per scontato. «Il lavoro di Lucilla è impeccabile. Oltretutto il pendolo, con la foto di Tommaso inserita nell’alloggio del testimone, ha eseguito la funzione trova gemello e ha indicato la ragazza con determinazione» affermò la Cimador. «Ho due GEMELLE!?» saltò su Tommaso. «Due... FEMMINE!» si lasciò cadere sconsolato sulla sedia. «Cos’ho fatto di male?» mugugnò sottovoce. Karmis, che si trovava in una zona un po’ in ombra della stanza, gli si avvicinò alle spalle. Non andava mai al quartier generale, ma quella volta suo padre lo aveva voluto lì. Radalise aveva avvisato Mathesias di quanto era successo a Tommaso, dicendogli anche che Teodoro, il quale era andato in suo aiuto, voleva che tutti si ritrovassero alla taverna per decidere la sistemazione dei ragazzi. Date le circostanze non si poteva continuare ad aspettare il ritorno di Zantor, occorreva agire subito. «Ehi, ciao!» disse Karmis dandogli un leggero pugno sul braccio. «Ciao» fece Tommaso, distrattamente e senza voglia. «Non ti ricordi di me?» insistette l’altro. Tommaso si volse a guardarlo e spremette le meningi.
«Ah, sì. Il ragazzo col panino. Quel giorno mi hai fatto proprio venir fame.» «Dovremmo andarci insieme da Piossasco. Vedrai, è come entrare nel paradiso del gusto. Miranda mi ha detto che lui gestisce quell’attività tramandata da generazioni. Quando il mondo era unito, i suoi progenitori appresero quest’arte osservando quelli del Mondo di Sotto, c’è voluto tempo e pazienza per imparare tutte quelle combinazioni di alimenti e sostanze, più difficile che preparare filtri magici e pozioni, ma ci sono riusciti, e direi che ne è valsa la pena. Questo, però, lo sanno in pochi perché non si può parlare dell’altra parte del nostro mondo e tantomeno di quello Di Sotto.» «Capisco» disse semplicemente Tommaso, la sua mente era pervasa da altri pensieri. Intanto gli adulti discutevano tra loro, si confrontavano sul caso trigemino e organizzavano la partenza dei ragazzi. Karmis, però, non si era avvicinato al gemello elementale per parlare di panini, nonostante il suo buon appetito anche le ragazze gli facevano gola. Diede uno strattone a Tommaso e ammiccò. «Adesso ci porteranno dall’altra parte e quando ci saremo sistemati non potrai sfuggire al mio interrogatorio», Tommaso lo guardò stralunato, «ti farò il quarto grado su Altea...» «Non ho niente da dirti, e poi sono stato rapito e non invitato a merenda», pensò di tagliar corto, ma l’altro aveva voglia di parlare. «Io mi farei perfino torturare pur di guardarla negli occhi» disse trasognante. «Masochista, eh?» «Macché, ci ho già pensato: tu la fai diventare buona, come vuole il drago, e poi me la presenti. Oppure, se ti ci volesse troppo tempo, in alternativa, potresti presentarmi l’altra. Sempre che ne valga la pena, amico. Vedi, potrebbero essere due entità contrapposte: la cattiva e la buona, la bella e la brutta. Tu chi sceglieresti?» «Mi è stato chiesto di salvare un mondo, che è anche il tuo. Pensi che abbia il tempo di perdermi in simili sciocchezze? Vorrei davvero andare da Piossasco e strafogarmi spensieratamente un panino super-imbottito, e invece so che mi rimarrebbe sullo stomaco, bloccato da angosce che mi hanno fatto ingoiare a forza e che non riesco ancora a digerire.»
«Insomma, ragazzi, ci date retta sì o no?» Mathesias li richiamò una seconda volta a voce più alta. «Ragazzi!», la Cimador ottenne la loro attenzione battendo le mani, «Bisogna andare, prendete le vostre cose. I vostri genitori potranno accompagnarvi», poi si rivolse a Emma e Mathesias «Verrete con noi e resterete finché non avremo appurato in quale strano modo si è adempiuta la profezia.» Karmis Horvath afferrò il suo borsone e se lo mise in spalla. Lui era già pronto a partire. Sempre ben propenso a nuove avventure, non si scoraggiava davanti a niente. Adesso non vedeva l’ora di scendere in profondità e incamminarsi per il lungo tunnel, stretto e buio. Era anche impaziente di vedere il resto del suo mondo e di dare sfogo alla magia senza preoccuparsi di erigere lo scudo. Tommaso, invece, non aveva avuto modo di preparare il suo bagaglio. La professoressa Cimador disse che avrebbe provveduto lei con la magia, oppure i suoi colleghi, a fornirgli del nuovo vestiario, gli accessori e quant’altro gli occorresse, appena giunti a destinazione. Tommaso, però, era titubante. Il ragazzo avrebbe preferito portarsi le sue cose, che ne sapeva di come girava la moda dall’altra parte. Emma, allora, pensò di trasferirli lei dalla loro casa al rifugio, utilizzando il suo potere; non era ancora pronta per tornare a casa. Con l’aiuto di Tommaso, che le suggeriva l’eventuale cambio di posto che avevano subito le cose da quando lei mancava da casa, riuscì in poco tempo a preparare il bagaglio del figlio, iniziando dal trolley verde collocato in soffitta. Dato che c’era, preparò anche una borsa per lei. Era ora di andare, solo Mathesias partì senza neppure un cambio e gli piacque l’idea di rinfrescare il suo guardaroba con qualche nuovo capo acquistato dall’altra parte. Gemma Cimador non nutriva lo stesso entusiasmo di Karmis per l’attraversamento del tunnel, l’avrebbe evitato volentieri. Non gradiva la vista degli ieiaky, tantomeno la loro compagnia. Decise pertanto che avrebbe operato un’altra trasformazione al fine di tenere le bestioline ben lontane. «Scusate signori, ma la necessità me lo impone» così dicendo si trasformò in un grande e agile felino, un esemplare della fauna del Mondo di Sopra che poteva sembrare un’involuzione del giaguaro.
Capitolo 16
La partenza di Matilde
La sveglia sul comodino aveva emesso soltanto il primo trillo, allorché Matilde, con gli occhi ancora serrati dal sonno, allungò velocemente la mano per non permettere ai successivi trilli di raggiungere e percuotere i suoi suscettibili timpani. Quel gesto alla cieca fece traballare la sveglia che rischiò di abbattersi e, forse chissà, anche di cadere per terra. Sonaglino tentò di aggrapparsi alla consolle, ma cadde dalla seggiola e rotolò sotto il letto. «Mondo gnomico! Per tutti i folletti del sottobosco! Questo è il terremoto, si salvi chi può!» Così dicendo e in preda al panico andò di corsa ad aprire la botola nel pavimento, sotto al tappeto, e si rifugiò nello scantinato della sveglia. Matilde, dopo un paio di stiracchiamenti e qualche sonoro sbadiglio, si meravigliò di non vedere la sua minuscola creatura affacciata alla finestra che, come ogni mattino, le augurava il buongiorno. La chiamò più volte. «La voce della mia padroncina; si è salvata anche lei!» rincuorata, Sonaglino uscì dal nascondiglio e corse goffamente fuori di casa. «Buongiorno, Sonaglino, cosa stavi facendo?» «Cosa vuoi che stessi facendo nel mio bunker? Mi proteggevo, è ovvio.» «E da che cosa?» chiese Matilde dando un rapido sguardo in giro e non individuando alcun pericolo. «Ma dal terremoto! Tutta la casa ha tremato!» poi si soffermò a riflettere, «No, non era un moto sussultorio... già, andava tutto di qua e di là. Oh! Sì sì, era oscillatorio.» «Non c’è stata nessuna scossa» disse Matilde schiarendosi la voce. «Ah, no? Allora cosa ha fatto traballare la mia casa?» chiese Sonaglino con aria inquisitoria.
Matilde si schiarì nuovamente la voce e girandosi una ciocca di capelli intorno all’indice disse: «Io?» «Tu!? Già, non è affatto un caso che tuo padre ti chiami terremoto, vero?» «Mi dispiace, Sonaglino, ho urtato la sveglia nello spegnerla, spero non ti sia fatta male.» «Mi son presa una botta e una paura druida, e più tardi, sicuramente, mi uscirà un bel livido sulla natica.» rispose massaggiandosi il posteriore, «Insomma, benedetta ragazza, non potevi parlare? Era sufficiente dire basta, spegnila, falla smettere, ok sono sveglia, fermala... qualunque cosa e io l’avrei azzittita. Sarebbe meglio che tu mi cambiassi di posto. Ecco, potrei andare lì, sul comò, il comodino non è più un luogo sicuro per me.» «Uffa, adesso non esagerare! Piuttosto, è meglio che ti prepari perché ci attende un bel viaggetto.» «Come!? Non avrai intenzione di portarmi con te? Non se ne parla. Io di qui non mi schiodo. Rettifico: viaggio solo fino al comò e lì mi fermo. Ho una certa età io, che credi... il tuo papà, la tua nonna prima e prima ancora il tuo bisnonno; ormai ho l’età pensionabile.» «Ma quale pensione! Sorvolando sui contributi mai versati, per quanto riguarda la tua venerabile età non è ancora giunta a metà del suo cammino. Sarai la sveglia dei miei figli e dei figli dei miei figli, perciò poche chiacchiere, adesso sei la mia sveglia quindi verrai con me.» «Fai presto a parlare tu. Io penso alla mia incolumità. Dopo l’episodio di questa mattina mi domando se potrò continuare a fidarmi di te. Per viaggiare dovrò pietrificare e se tu mi farai cadere o prendere una botta, sai cosa mi succederà? Quello che succederebbe a un qualsiasi oggetto di ceramica: mi romperei in cento pezzi.» «Pensi proprio che sia così incosciente e sconsiderata? Non sono una stupida, il cervello lo faccio funzionare a pieno regime. Lo vedi questo?», sventolò un grande foglio di plastica trasparente cosparso di sfere piene d’aria, «Ci avvolgerò la sveglia e la metterò in valigia in mezzo alla biancheria. Credi sia sufficiente o
hai altri suggerimenti?» Sonaglino non rispose, incrociò le braccia e tirò su il naso. «Bene, adesso vado a prepararmi.»
Dalla cucina, era salito fino alle camere il soave aroma del caffè e il profumo del pane appena tostato. Matilde si mise a testa in giù e ò diverse volte le dita tra i suoi folti e lunghi ricci rossi per districarli; poi diede un colpo di testa all’indietro e una spruzzata di unguento dalla formula segreta, inventato da Sonaglino, per rendere i ricci soffici, lucenti, elastici e pieni di vita. Scese a far colazione. Per il signor Mangrella, quello era un giorno davvero importante, tanto che, il giorno prima, era andato a lavare la sua Volkswaghen e l’aveva tirata lucida come se dovesse accompagnare la figlia a un gran gala. Matilde era molto emozionata, ma non voleva darlo a vedere. Le piaceva apparire sicura e inflessibile anche quando aveva il cuore in gola. Sentì la canzone “We are the champions” provenire dalla sua stanza e sparì dalla sedia della cucina. Di norma, non adoperava il suo potere per gli spostamenti, neppure in casa. Preferiva comportarsi come una ragazza normale, ma adesso l’imminente viaggio, e quindi il pensiero che si sarebbe trovata in mezzo a quelli come lei, le aveva stuzzicato la magia. Quindi a “...my friends” aveva già risposto al cellulare. Naturalmente, era Camilla che voleva rassicurarsi che l’amica la stesse aspettando. Doveva accompagnarla a tutti i costi anche se non sapeva dove... alla fermata dell’autobus? Alla stazione? Alla metropolitana? Con quale mezzo si poteva raggiungere il Mondo di Sopra? Beh, forse il teletrasporto, ma qui si parlava di magia e non di fantascienza. Matilde aveva provato più volte a spiegarle che il luogo da dove sarebbe partita era incantato. I normali non potevano accorgersi di quando i maghi varcavano il muro magico. Perciò lei si sarebbe ritrovata sola all’improvviso, senza ricordare che era in sua compagnia e si sarebbe chiesta cosa ci fe in quel posto. Matilde sapeva di star solo sprecando tempo, non conosceva persona più cocciuta e irremovibile di Camilla, alla fine dovette cedere. Così avrebbe subito le sue lagnanze anche durante il tragitto in macchina, non aveva fatto altro durante le ultime due settimane: “Non hai cuore ad abbandonarmi per un anno
intero.” “Cosa faccio senza di te? Che noia!” “Invece tu, con Marta vicina, non sentirai neppure la mia mancanza.” “È inconcepibile un anno senza neppure sentirci.” La cosa più terribile da mandar giù, per entrambe, era proprio la mancanza di comunicazione “veloce”. Difficile pensare di sopravvivere senza il telefonino. Matilde aveva rassicurato Camilla che esisteva, comunque, un servizio postale fra i due mondi e che quindi esse avrebbero avuto modo di tenersi in contatto. Sulle prime, il pensiero terrorizzò Camilla che era alquanto allergica all’inchiostro e le procurava irritazione vederlo fluire dalla sfera della penna, preferiva di gran lunga pigiare dei tasti con le lettere dell’alfabeto stampate sopra. Un istante dopo si diede della stupida, non era lei a dover usare la penna bensì Matilde. Benedetto computer! Come farne a meno? È vero che su internet non avrebbe mai trovato notizie sul Mondo di Sopra e, seppur avesse trovato qualcosa di simile, quella sarebbe stata solo fantasia. Sonaglino era già pronta; imbronciata ma pronta. Non aveva dovuto preparare alcunché, poiché la sua casa avrebbe viaggiato con lei. Matilde l’aveva imballata accuratamente ed era sempre decisa a portarsela dietro, nonostante le avesse occupato un certo spazio nella valigia poiché non aveva le dimensioni di una comune sveglia. Matilde ricontrollò la sua lista, sempre per la paura di dimenticare qualcosa. Così, ad ogni cosa in elenco, stava aggiungendo anche la terza spunta, dopo aver controllato dentro le borse. Matilde prese il giubbino di jeans e chiamò il padre perché l’aiutasse a portar giù borse e valige. Pochi secondi dopo, il trillo del citofono annunciò l’arrivo di Camilla. «Ciao, Milly, aspettaci giù, stiamo per scendere. Vai verso il cancello dei box, usciremo da là.» Era un caldo mattino di fine maggio; una domenica in cui ci si alza volentieri anche di buonora, magari per portare fuori il cane oppure fare un po’ di jogging, o anche per andare a comprare il quotidiano alla solita edicola e leggerlo, sorseggiando un caffè, al medesimo bar che ha appena tirato fuori i tavolini. La città si era di già animata e Camilla la stava osservando soffermandosi su molti particolari. Si chiese se lei sarebbe riuscita a fare a meno di tutto quello per un
anno. Come avrebbe fatto Matilde a star lontana da Roma? Se lo domandò, ma non trovò una risposta. In più, riguardo al Mondo di Sopra, ne aveva elaborata l’immagine di un posto triste e desolato, una terra sospesa a metà, velata da una foschia perenne e con un pallido sole che aveva la stessa tonalità di luce e di colore dall’alba al tramonto. Un luogo serio e rigoroso, dove il divertimento, l’umorismo e la musica erano stati esclusi agli albori dell’evoluzione. In fondo al cuore, provò tristezza per Matilde, al cospetto della cartolina di Roma. Perfino la sua amica sapeva ben poco del posto dove stava per andare, ne aveva solo la descrizione verbale del padre, ricordi di quando egli era andato al College. Non era proprio la stessa cosa immaginare un luogo anziché vederlo con i propri occhi. Anche i posti dove vagava nei suoi sogni erano alquanto surreali che ne metteva spesso in dubbio la loro attendibilità. La luce sul palo del cancello elettrico iniziò a lampeggiare e la Volkswagen, splendente e rombante, salì la rampa dei box attendendo l’apertura totale del cancello per uscire. Camilla balzò dentro sul sedile posteriore e, dietro perentorio invito del signor Mangrella, allacciò, malvolentieri, la cintura di sicurezza. Non appena l’auto voltò a destra, un raggio di sole trafisse in pieno gli occhi di Matilde. «Oh no, NO! Lo sapevo, lo sapevo...» «Che succede?» chiese il padre con tono di rimprovero, quello sbotto lo aveva fatto sobbalzare distraendolo dalla guida. «Gli occhiali da sole! Li ho dimenticati. Lo sapevo che dovevo dimenticare qualcosa.» «Questa è bella, per una settimana sei andata su e giù per la casa con quella benedetta lista in mano. E ora ti accorgi di aver dimenticato gli occhiali?» «Non li avevo scritti sulla lista. Come ho fatto a non pensarci!» «Dove li tieni?» chiese il padre dopo un sonoro sospiro. «In anticamera, nel cassetto piccolo dello scrittoio.» “Ma quale scrittoio! Li hai lasciati in camera tua sulla libreria e poi ci hai messo davanti Il Barone Rampante”, disse tra sé e sé Sonaglino che aveva la
consuetudine di non pietrificare un orecchio per rimanere sempre vigile. Aveva proprio un udito alla Superman. «D’accordo, te li spedirò, indietro non torno di certo. E non provarci con la magia, potrebbero ritenerlo un abuso. Meglio non creare problemi giacché stai per partire.» Camilla tirò fuori dalla sua borsa un sacchetto in tessuto nero, chiuso in cima da un cordoncino, e lo porse a Matilde. «Tieni, prendi i miei, così avrai qualcosa per ricordarti di me.» «Come se potessi scordarmi di te!» «Allora diciamo che ce li scambiamo così, quando li utilizzeremo, ci sentiremo più vicine. Poi tuo padre mi farà avere i tuoi» replicò Camilla, mentre nella sua mente riaffiorò l’immagine del sole pallido. “Sì, quanno li trova; avoja de sgrufolà” ribadì mentalmente Sonaglino usando, scherzosamente, il dialetto romanesco appreso dalle voci di strada, captate dal suo super udito. «Così parti, eh?» disse Camilla dopo qualche minuto in cui nessuno parlò. «E dai, Milly, non ricominciare! Lo sai che appartengo per metà a quel mondo e ritengo giusto fare questa esperienza. Necessaria addirittura... tutti se l’aspettano... insomma, tu così non mi aiuti, però. Vado in un mondo molto diverso dalla Terra e preferirei ricevere da te un incoraggiamento.» «Ehi, camomillati! Sei un po’ nervosetta stamattina. Io intendevo dire soltanto che è arrivato il grande giorno... finalmente», l’ultima parola fu sofferta. Faticò perché suonasse sincera. «D’accordo, scusa.» «Piuttosto sono preoccupato per te, Camilla», s’intromise il padre «Non mi va l’idea che ti ritroverai, improvvisamente, sola nel parco senza ricordare la nostra presenza e tantomeno di averci visto andar via.» «Non si preoccupi, signor Ivan, sono pronta.»
«Io preferirei accompagnarti alla fermata dell’autobus, ci saluteremo lì così la tua memoria non verrà alterata.» «Sarebbe ragionevole», ribadì Matilde «Ma non crederai davvero di spuntarla con Camilla?» «Gliel’ho spiegato un sacco di volte, ma quando si mette in testa una cosa...» «Va bene, va bene. So di essere testarda, però non dovete preoccuparvi per me perché ho elaborato un piano di salvataggio.» «Piano di salvataggio!?» fecero gli altri due all’unisono. Camilla mostrò loro il suo cellulare e un foglio di carta ripiegato in quattro. «Questi mi aiuteranno a ricordare» sembrava sapere il fatto suo. La ragazza aveva programmato la sveglia del suo telefono portatile e, all’ora stabilita, le sarebbe apparso un messaggio che le avrebbe notificato di leggere il foglietto che aveva messo nella tasca posteriore destra dei suoi jeans. Il foglio di carta, un ritaglio di modulo continuo a lettura facilitata, le avrebbe spiegato tutto. Lo aveva scritto la sera prima, fulminata, a dir suo, da un lampo di genio.
Per Ivan, non sarebbe stato facile trovare posteggio senza la precognizione che gli diede una dritta. Sentì che la Ford Fiesta viola, ultima versione, stava per lasciargli il posto. Si fermò poco più dietro ad essa e inserì la freccia segnaletica destra. «Aspettiamo un attimo», disse, «è inutile continuare a girare, tanto questa sta per uscire.» Dopo un minuto abbondante, che sembrò ancora più lungo sotto il sole cocente che surriscaldava l’abitacolo, arrivò una donna in tailleur, in pendant con l’auto, che salì sul mezzo e se ne andò solo dopo essersi sistemata i capelli e il trucco allo specchietto retrovisore. «Dai pupa, sei uno schianto, ma ora vedi di sgommare che abbiamo fretta.» «Per favore! Ma l’hai vista?» fece Matilde. «Era solo un incitamento ad andarsene.» «Non le sopporto quelle che devono restaurarsi in macchina.» Raggiunsero il parco a piedi. All’uscita dalla Messa, le persone si concedevano una eggiata nella verde frescura del parco. Nessuno si sarebbe accorto della sparizione improvvisa di due persone, di lì a poco. I tre si fermarono a una trentina di metri dal muro, pressappoco. Era giunto il momento dei saluti. Le due ragazze si guardarono e i loro pensieri non riuscirono a tramutarsi in parole, e le loro braccia ebbero un’oscillazione appena percettibile: il loro cervello non si decideva ad inviare, ai muscoli delle braccia, il comando di abbracciarsi. Al pari, anche i piedi si rifiutarono di accorciare la distanza tra di loro. Infine partì per primo l’impulso nel cervello di Matilde. «Insomma, vieni qua», disse muovendosi verso l’amica, «e non fare quella faccia, altrimenti ti ricorderò così per un anno.» «Quale... faccia?», rispose l’altra mentre la voce le si strozzava, «va tutto... bene.» Si strinsero fortissimo e i voluminosi ricci rossi di Matilde asciugarono le lacrime di Camilla, mentre quelle di Matilde bagnarono il collo scoperto dell’altra. Si staccarono e Camilla si o la mano sul collo bagnato, poi la
guardò e le sue labbra si modellarono in un sorriso. «Allora ti mancherò davvero!». «Stupida! Mi mancherai un casino!». «Beh, allora... ciao.» «Ciao, Milly.» «Ci vediamo, Camilla. Se dovessi dimenticarmi degli occhiali, ricordamelo tu» disse Ivan. «D’accordo; arrivederci.» Guardò l’amica avviarsi col padre verso il muro... «Matì!» gridò. Matilde si girò si scatto e le vide l’espressione sbalordita sul viso, non capì e aggrottò le sopracciglia, stava guardando il muro oltre le sue spalle. Camilla si ridestò in fretta e si sforzo di apparire normale... «Ricordati di scrivere!». L’altra sorrise e, per scherzare, le fece il pollice verso, poi le strizzò l’occhio e riprese la sua strada. Ivan Mangrella era davanti al muro su cui una serie di mattoni più chiari disegnava degli archi continui. Egli inserì le mani giunte nella feritoia di scolo nel muro, al centro dell’arco che nascondeva l’entrata. Magicamente si ritrovò all’interno. Matilde lo imitò e lo raggiunse in un’angusta e claustrofobica anticamera con le pareti affrescate e senza finestre, l’unica apertura era una fessura millimetrica sul muro di fronte, dove tutto faceva presupporre che ci dovesse essere una porta, ma che invece non c’era. Il portale faceva da contorno ad un muro, come una falsa porta, su cui una piccola fessura lasciava scaturire una forte luce bianca. Era la prima volta che Matilde oltreava il muro di contenimento col parco della Villa Celimontana, e ora non si trovava più nella città eterna bensì in una magica dimensione, un’anticamera di aggio tra la Terra e il Mondo di Sopra. La luce soffusa faceva apparire quello spazio, di nove metri quadrati, più ristretto di quanto in realtà non fosse. Matilde si soffermò a guardare la parete affrescata e notò che i disegni erano particolarmente in risalto, come se quel tipo di tempera fosse in grado di catturare tutta la luce della stanza. Guardando ancora più attentamente, si rese conto che era la parete ad emanare quella luce giallognola. Dopo che i sui occhi, abbandonato il sole romano, si abituarono alla luce del nuovo ambiente, si accorse che l’uomo e il ragazzo, che
erano entrati poco prima di loro, si trovavano ancora lì, e Matilde pregò che non arrivasse nessun altro in quel momento poiché lo spazio era già saturo. L’uomo si stava frugando nelle tasche e il ragazzo aveva un’aria impaziente e al contempo imbarazzata, per via del padre che non riusciva a trovare il lasciaare. «Prego, volete andare prima voi?» li invitò, ma Ivan non riuscì neppure a ringraziarlo che l’uomo aveva trovato ciò che stava cercando. «Eccolo, l’ho trovato. Vogliate scusarmi» inserì la tessera, e l’immagine traforata del vessillo del Mondo di Sopra, scomponendosi e ricomponendosi all’interno del meccanismo, fece scattare la combinazione della serratura. Sul muro apparve una porta col pomolo dorato e i due vi accedettero. Ivan prese la sua tessera e aspettò che la porta scomparisse e sul muro liscio tornasse la fessura. «Ma è proprio necessario?», chiese Matilde, «non si può oltreare il muro?» «No che non si può, il muro è protetto da un incantesimo. Occorre la tessera di riconoscimento.» «E se io ci provassi, cosa succederebbe?» «Nulla. Ci sbatteresti contro.» «Non capisco a cosa serve, solo chi è un mago riesce ad entrare qui; perché, quindi, mettere un incantesimo su questa specie di porta?» «È un controllo ulteriore. Potresti essere un mago, al momento, non ben accetto. Per esempio avere un carico pendente, aver commesso un abuso di magia,… cose del genere.» «Ah!» Matilde fece spallucce e decise di testare il muro; strizzò gli occhi preparandosi all’impatto, ma anzi di scontrarsi con la solida superficie, la oltreò ritrovandosi in un ampio corridoio semicircolare. Qualcuno fece caso che Matilde non era sbucata dalla porta, che apparve invece sul muro dopo pochi istanti e da cui uscì Ivan con i bagagli, il quale guardò la figlia con un impasto di stupore e rimprovero sul viso. Il cicaleccio generale cessò, sostituito da un bisbigliato aparola e da occhi che, cercando in giro in giro, finivano per
posarsi su Matilde. La ragazza si sentì tirata in causa e in forte imbarazzo, guardò il padre in cerca di o. Egli esitò un attimo, ancora attonito, quindi si destò: «Bisognerebbe far controllare questo muro. Avete visto anche voi: l’incantesimo deve aver perso stabilità. Mia figlia ha inciampato nella valigia finendo contro il muro, ma anzi di sbatterci contro l’ha oltreato. Sarebbe opportuno fare dei controlli periodici... lo farò subito presente a un responsabile» Ivan parlò con severità e gli altri annuirono e gli dettero ragione. Dopo aver fatto la coda allo sportello dell’Ufficio Scolastico, per la registrazione della partenza e per ritirare il lasciaare, nuovo fiammante, per Matilde, si accomodarono nella sala d’attesa adiacente alla soglia di sbarco. «Potevi dirmelo che con me non funziona!» «Non sapevo che tu potessi... farlo, e comunque non immaginavo che ci avresti voluto provare. Non ti riesce proprio di stare tranquilla.» Stavano bisbigliando: la sala era gremita di ragazzi del primo anno con almeno un genitore da accompagnatore. Marta giunse alle loro spalle, era accompagnata dalla madre. Attesero insieme la chiamata per la corsa sulla Mondovia. I ragazzi erano tutti ansiosi all’aprirsi di quella porta, ma sulle prime due tratte non c’era nemmeno l’ombra del loro accompagnatore. Era in ritardo. Le due ragazze erano state inserite nel primo gruppo di partenze. Finalmente, la porta contrassegnata dalla targa “Arrivi”, all’estremità sinistra del corridoio semicircolare, si aprì e ne uscì una giovane donna con grandi occhi blu e lunghi ricci neri. Ella invitò gli studenti del primo turno a salutare i parenti, quindi a prendere i loro bagagli e a seguirla. Indossava un abito lungo, confezionato con un pregiato tessuto di colore giallo, leggero e fresco come un petalo di rosa e, sopra a questo, portava una mantella bianca, sottile come ali di farfalla. Sembrava la personificazione della Primavera, o meglio dell’inizio dell’Afusvertum. «Io sono Lucilla e vi accompagnerò al San Gregorio College. Da oggi, fino al conseguimento del master in magia, sarò il vostro punto di riferimento.» Erano le parole che ripeteva ogni anno ai novizi. Fece disporre i ragazzi in fila per due e li condusse dalla parte opposta del corridoio, dov’era la Mondovia in partenza. Poi guardò la lista che aveva in mano e continuò a parlare ai ragazzi squadrandoli con interesse.
«Adesso vi chiamerò ad uno ad uno e prenderete posto sulla Mondovia. Lasciate a terra i vostri bagagli, a quelli penserò io.» Iniziò a leggere i nomi e i ragazzi si facevano riconoscere alzando la mano e si accomodavano sul mezzo; Lucilla sembrò tirare un sospiro quando lesse il nome di Matilde: finalmente poteva conoscerla. Le sue labbra si allargarono in un sorriso. «Benvenuta, Matilde. Il San Gregorio ti sta aspettando» le disse in tono riservato quando le ò a fianco per salire sull’insolita vettura. «Grazie» rispose timidamente Matilde, impacciata per il riguardo avuto dalla donna unicamente nei suoi confronti. Marta, che era salita prima di lei, le aveva tenuto occupato il posto di fianco a sé, dalla parte del finestrino; quando Matilde le si sedette accanto, ella le lanciò un’occhiata interrogativa. Matilde alzò le spalle e tutto, per il momento, sembrò finire lì poiché Lucilla richiamò l’attenzione di tutti i viaggiatori. «Ragazzi, onde evitare di sbattere la testa contro il soffitto, durante l’operazione di carico, vi consiglio vivamente di restare seduti ai vostri posti», così dicendo estrasse una bacchetta magica dalla sua manica. «Beh, che significa ciò’?» disse un ragazzo alzandosi dal suo sedile. Il fare di colui che non si accontenta di informazioni sommarie. Evitò d’un pelo di picchiare la testa al soffitto, con prontezza di riflessi si gettò a sedere. Il pavimento, con tutti i cinquanta sedili agganciati, si sollevò rapidamente di mezzo metro mostrando la stiva. «Significa che quando ti do un consiglio non hai molto tempo per decidere se seguirlo o no, ma non vorrei dover dire “Te l’avevo detto”.» «Me ne sono reso conto» disse il ragazzo alto. I suoi occhi erano gentili, del color del cielo terso, e i suoi capelli, lunghi e neri, erano raccolti in una coda. Lucilla indirizzò la bacchetta magica verso i bagagli. Era uno strumento bifasico, vale a dire che poteva essere utilizzato da entrambe le estremità, aventi stessa forma e dimensione, solo che l’una eseguiva l’azione opposta dell’altra. Lucilla poteva distinguere le due fasi dal differente colore di luce emanato dalle due estremità della bacchetta. La luce verde per caricare e quella gialla per scaricare. Certe bacchette, chiamate “bacchette di servizio”, avevano un ridotto potere magico ed erano forgiate per svolgere un’azione specifica. Così come Dortel, lo gnomo cameriere e sommelier della mensa del San Gregorio College, adoperava
una bacchetta picchia-menu per ordinare e per portare in tavola le pietanze, Lucilla si serviva di una bacchetta facchino per caricare e scaricare i bagagli degli alunni. Quindi, con l’ausilio della bacchetta, fece allineare i bagagli in fila per due e rimpicciolì quelli troppo voluminosi; ottenne così una schiera di bagagli della stessa dimensione, quella giusta per essere ospitati nella stiva, e questi, sfiorando il suolo leggeri come piume, entrarono nel deposito disponendosi ordinatamente come tanti soldatini. Al che, il pavimento si riabbassò. «Comunque, avrebbe potuto farlo prima che salissimo» disse sottovoce Matilde. Dal gesto indicatore del pollice, Marta capì che si stava riferendo allo scampato impatto craniale del loro compagno di viaggio. Intanto le porte della Mondovia si erano chiuse e Lucilla aveva annunciato che il trasferimento era iniziato. Non si udiva alcun rumore meccanico o di motore, non si avvertivano sobbalzi o oscillazioni, era come se fossero fermi. Fuori dai finestrini c’era un buio pesto che faceva rispecchiare l’interno del veicolo. Matilde guardò fuori facendosi scudo con le mani per neutralizzare le immagini interne riflesse, ma non riuscì a percepire la profondità dello spazio esterno; sembrava di essere immersi nel nulla assoluto. Ad un certo punto, dei fasci di luce, rossa e gialla, iniziarono a scorrere veloci, incrociandosi come doppie eliche di DNA, e dando al veicolo il senso del moto; a Matilde venne in mente la cartolina di un notturno metropolitano. Marta, invece, non era interessata ai particolari di quel viaggio fantastico, era un altro il particolare che aveva attratto il suo interesse e di cui era pressoché certa di averne risolto l’enigma, ma per averne la conferma doveva chiederla alla persona che le sedeva a fianco. «Hai potuto prendere in giro gli altri, ma non me» disse di punto in bianco, sottovoce, mentre l’altra stava ancora fissando le spirali colorate che correvano veloci intrecciandosi. «Ce l’hai con me?» «E con chi altri?» «Non capisco cosa intendi dire.» «Invece l’hai capito benissimo: lo avete visto tutti, l’incantesimo sul muro ha perso stabilità ... mia figlia è inciampata e ha oltreato il muro» rispose
scimmiottando la scena architettata dal padre di Matilde. «Dunque? È la spiegazione più sensata, altrimenti non capisco come avrei fatto a are attraverso un muro protetto da un potente incantesimo.» Mentre le rispondeva, osservò che le due ragazze sedute davanti a loro si stavano sparando un po’ di musica nelle orecchie, pensò anche che non appena i loro iPod si fossero scaricati non sarebbero serviti più a niente senza poter essere ricaricati. Considerò anche che lei e Marta occupavano gli ultimi sedili e ritenne i loro discorsi abbastanza al riparo da orecchie indiscrete. «Beh, per prima cosa dovresti avere il potere della Terra per riuscire a are un muro, ammesso e… concesso che l’incantesimo non abbia retto.» «Infatti, è proprio così.» «Ah, sì! E si può sapere, di grazia, quanti poteri hai?» Matilde rimase svanita, si accigliò sforzandosi di meditare su quelle parole, subito dopo fissò Marta con occhi ben aperti. Aveva fatto cessare la pioggia che cadeva a catinelle sul giardino di Marta! «Esatto!», annunciò Marta con un sorrisetto, «anche l’Acqua è tua amica. Come la mettiamo?». Matilde non rispose, si limitò a fare spallucce. Era stata scoperta e non aveva pretesti credibili per inscenare una smentita. «Bene, chi tace acconsente. Non so come possa essere capitato, ma c’è una sola spiegazione ai tuoi doppi poteri: la Profezia.» «Sono nata nel Mondo di Sopra», iniziò a raccontare fievolmente, «la verità sulla mia soggettività mi è stata nascosta fino a qualche mese fa. Mio padre aveva fatto sparire ogni libro che parlasse della Profezia e mi ha permesso di documentarmi solo dopo avermi annunciato che sono la gemella di cui si parla in quei libri. Intendeva proteggermi, capisci? Beh, io no, non lo capisco. La storia di Nerasmo…» «Shhh! Non fare quel nome» l’ammonì Marta. «Cavolo! E chi sarà mai: Voldemort? Ciò che lui è stato è un capitolo chiuso, ormai. Non è che ogni gemello elementale ambisca a sottrarre i poteri al suo simile.»
«Perché non me l’hai detto? Pensavo fossimo amiche.» «Siamo amiche, ma non è una cosa di cui mi va di parlare. Mi fa sentire diversa, osservata. Forse la verità è che ho paura che tutti si aspettino da me l’impossibile, mentre io mi sento una ragazza normalissima e non “speciale”, come dice mio padre.» «Credo di capire cosa intendi. Basti vedere la cortesia che ti ha usato Lucilla; è palese che ti considera una studentessa speciale e non penso di essere la sola ad averlo notato. Per me s’è dimenticata di caricare prima i bagagli perché ha avuto fretta di fare l’appello per conoscerti.» «Vuoi dire che quella sa di me?» «Perdinci! Non dirmi che non sai chi è! È la selezionatrice dei nuovi studenti. Tutti siamo stati scandagliati dal suo pendolo infallibile, lei legge il tuo potere elementale e scova le tue doti nascoste. Certo che sa di te». Matilde si guardò attorno e vide che qualcuno si girava a lanciarle una rapida occhiata. «Quindi saprà anche chi è il mio gemello, non credi? Lì vanno tutti al San Gregorio, tassativamente. Senza il master non puoi essere un mago completo. Perciò anche lui deve essere stato analizzato dal suo pendolo» disse convinta. «Hai ragione» asserì Marta. «Perché pensi che sia un “lui”? Potrebbe anche essere una “lei”.» «Ecco, a parte il fatto che per generalizzare si usi il maschile, diciamo che ho avuto una forte intuizione. Be’, qualcosa di più di un’intuizione, perché mi ha fornito anche il suo nome.» «Davvero!? E qual è?» Matilde glielo disse all’orecchio. Mentre si protendeva verso Marta, vide che il ragazzo coi lunghi capelli neri raccolti sotto la nuca la stava guardando; quando i loro occhi s’incontrarono, egli le regalò un sorriso affabile. Lei non poté fare a meno di ricambiarlo, anche se con poca convinzione. “Però, niente male il tipo!” pensò Matilde, e immaginò che se ci fosse stata Camilla avrebbe parlato di lui per tutto il viaggio, fino a farle venire il mal di testa. Già, Camilla! Si soffermò a pensare a lei, la immaginò nel parco dove l’aveva lasciata...
“Allora ti mancherò davvero?”. “Stupida! Mi mancherai un casino!”. “Beh, allora... ciao”. “Ciao, Milly”.
[«Matì!» gridò. Matilde si girò si scatto e le vide l’espressione sbalordita sul viso, non capì e aggrottò le sopracciglia, stava guardando il muro oltre le sue spalle. Camilla si ridestò in fretta e si sforzo di apparire normale...]
Camilla non capì com’era potuto succedere, eggiò stranita e sconcertata per un quarto d’ora, poi il suo cellulare iniziò a suonare, lo tirò fuori dalla borsa e lo guardò senza interesse, sapeva che era la suoneria della sveglia che aveva puntato. Fece scorrere gli occhi sul display, quindi infilò una mano nella tasca posteriore destra dei jeans e ne estrasse un foglietto ripiegato, lo fissò per qualche istante e poi lo fece in mille pezzi gettandoli nel cestino che incontrò lungo il cammino.
Capitolo 17
Sulle strade di Nebrus
La borsa da viaggio di Tommaso, preparata in tutta fretta da Emma, aveva fornito un indizio ad Argelia. La sua sfera di cristallo aveva registrato i movimenti avvenuti per magia nella casa dei Cibei. Nella luce del crepuscolo, che si diffondeva scarsamente nella stanza attraverso le finestre, svolazzavano indumenti da ragazzo che si ripiegavano in aria per poi adagiarsi, ordinatamente, all’interno di una borsa aperta sul letto. Argelia vide la borsa chiudersi e sparire dal letto, ma la sfera non fu in grado, altresì, di dirle qual era stata la sua destinazione. Il suo primo istinto fu di dare una manata alla sfera per scaraventarla lontana, però riuscì a trattenersi a un pelo dal farlo. Ne aveva già rotta una a quel modo e si ricordò quant’era stato difficile trovarne un’altra. A dire il vero non la trovò: decise che a suo figlio non serviva e se ne appropriò. Perciò le usò riguardo e la coprì con un panno nero.
Mulac era tornato dal lavoro quando fuori era già buio. Preoccupato di non aver trovato il figlio a casa e sapendo che per quel pomeriggio non aveva impegni, aveva iniziato a cercarlo presso i compagni che frequentava abitualmente. Egli non era certo al corrente di dove il ragazzo asse la maggior parte delle ore pomeridiane, così, non riuscendo a trovarlo, si era rivolto alla Vigilanza Territoriale. Tutte le forze dell’ordine: Guardie del Governatore, Vigilanza Territoriale e Cacciamaghi, non erano sganciati dal potere politico. A Nebrus nessun organismo godeva di autonomia, ma dipendeva direttamente dal Governatore, il quale stabiliva i regolamenti e le gerarchie. Tutte le unità di controllo erano state informate dei recenti avvenimenti e gli identikit di Emma e di Tommaso erano attaccati alla bacheca di ogni ufficio e sul cruscotto di ogni vettura in servizio. Mulac posteggiò davanti al più vicino nucleo di vigilanza. La città contava più nuclei di controllo che botteghe e uffici di professioni; il loro compito non era tanto quello di proteggere i cittadini bensì quello di tutelare gli interessi del Governatore e far rispettare le sue direttive, quali che fossero. Dopotutto, nessuno avrebbe mai sollevato questioni, perché tutto era molto ben mascherato
dalla magia di Argelia e dalle epurazioni dei suoi predecessori. Mulac varcò la soglia e si ritrovò in un ampio salone con una serie di open office disposta alle spalle di una reception prossima all’entrata. Vi si fermò dinnanzi, poiché le quattro sedie, poste lì di fianco, erano vuote: non era un orario per le normali pratiche quotidiane e, quella sera, lui era il solo cittadino con una questione urgente. Tra i vari uffici, c’era un trafficato via vai di uomini e donne in divisa ed egli si chiese quale fosse il problema che li rendeva così nervosi. Nessuno lo degnò di attenzione finché egli non si accorse delle foto esposte in bacheca, solo allora qualcuno notò la sua espressione confusa di fronte ai due volti impressi sulla carta. Una donna di bassa statura, col viso arcigno, gli si avvicinò. La prima cosa che lo colpì, fu la sua acconciatura vaporosa come una nuvola nel cielo di Mitigo. Indossava un completo grigio chiaro, aveva l’emblema dell’ente sul taschino della camicia e, dall’altra parete, i distintivi di qualifica che la identificavano come Comandante. «Li ha mai visti?» chiese la donna, cercando i suoi occhi che tornarono, invece, a fissare la bacheca. Mulac fece per parlare ma la voce non gli uscì. «Lei li conosce» sostenne allora la Comandante, convinta. «Sì. Il ragazzo è mio figlio. Dov’è? Cosa gli è accaduto? Perché la sua foto...» «Perciò la donna è la sua unità» concluse l’altra invece di rispondere alle sue domande. «Certo, è la mia unità, ma mi vuol spiegare cosa succede?» disse alzando la voce. «Si calmi. Mi segua» rispose inespressiva, quindi, chiamò a gran voce un sottoposto e, con un cenno del capo, gli ordinò di seguirla nel suo ufficio. L’ufficio della Comandante era l’unico racchiuso da quattro pareti, Mulac vi entrò subito dopo la donna e sentì sopraggiungere alle proprie spalle l’uomo che lei aveva chiamato Zewil. «Si sieda, signor Cibei», la Comandante rimase in piedi, all’altro capo della scrivania. «Ci dica dove si trova la sua unità», la domanda era secca.
«È ospite della clinica di riabilitazione mentale», disse in modo scontato, «dovreste saperlo.» «Non faccia lo spiritoso. Le rifaccio la domanda e stavolta veda di darmi la risposta giusta: dove si trova la sua unità?» «Insomma, che storia è mai questa! Gliel’ho già detto dove si trova la mia unità.» «D’accordo, supponiamo che lei ci stia dicendo la verità. Adesso cascherà dalle nuvole quando le dirò che la sua unità è scappata dalla clinica, quindi...» «Scappata!?» «Come stavo dicendo: stupenda simulazione di meraviglia. Ma noi non ci crediamo, vero Zewil?», l’altro si limitò a sogghignare, «Adesso ci dirà quali sono i posti dove potrebbe nascondersi la sua unità e chi sono le persone che la stanno aiutando, oltre a lei s’intende.» «Non sapevo della sua fuga, vi sto dicendo la verità. Sono stato io a chiamare i Cacciamaghi quando ha cominciato a fare discordi sconnessi sulla magia. Voglio che guarisca completamente da queste fissazioni; non capisco, dunque, perché abbia dovuto sottrarla alle cure. Semmai sono io a pretendere delle spiegazioni da voi: vengo a denunciare la scomparsa di mio figlio e mi ritrovo la sua foto e quella della mia unità attaccate alla vostra bacheca. Chi ha denunciato la sua scomparsa...», troncò li la domanda poiché varie supposizioni gli balenarono nella mente, “Emma... l’ha rapito! L’ha portato via con sé. Ho avuto aspre discussioni con mio figlio per via del ricovero di sua madre, ma non credo... No, non può averla aiutata a scappare. Per l’età non gli sono permesse neppure le visite.” «Se state cercando entrambi, vuol dire che sapete già che sono insieme. Qualcuno li ha visti?» «Esatto. Sono stati visti insieme. E adesso lei ci fornirà i nomi di tutti i vostri amici e conoscenti.» Zewil prese il taccuino e una penna, e si sedette di fronte a Mulac; iniziò a tamburellare con la penna sulla scrivania mentre fissava negli occhi l’indiziato. «Veda di sbrigarsi, non abbiamo tempo da perdere.» «Voi non state cercando, semplicemente, due cittadini scomparsi, più che altro,
sembra che stiate dando la caccia a due delinquenti. Voglio sapere che storia è questa.» «È la madre del governatore che li sta cercando, e la faccenda è top secret e di priorità assoluta. Neppure noi siamo a conoscenza dei dettagli, abbiamo l’ordine di trovarli e basta. Mi creda, nessuno ha intenzione di fare questioni e tantomeno di mettersi a discutere gli ordini di Argelia. Quindi la smetta di fare domande e collabori, non intendo deludere quella donna.» disse la Comandante appoggiandosi alla scrivania con entrambe le mani. «Stiamo parlando della mia famiglia, ho il diritto di sapere perché sono ricercati» gridò Mulac scattando in piedi. «Si sieda e ci dia quei nomi» fece il sottoposto. «Non vi darò un bel niente. Non dirò più una sola parola se non in presenza del mio avvocato.» «A proposito di avvocati, conosce il dott. Teodoro Bachelot?» Mulac tenne fede alla sua parola e non rispose. «È stato visto con la sua unità. Potrebbe essere il suo complice, non le pare? O qualcosa di più, chissà... Quante volte è stato a trovare la sua unità?», sbatté un fascicolo aperto sulla scrivania, «È il registro delle visite, il suo nome non compare da mesi. Quello dell’avvocato, invece, compare proprio il giorno dell’evasione della sua unità» il tono della Comandante era provocatorio, ma Mulac non si scompose e non disse una parola, si limitò a gettare un occhio al registro. Contenne l’ira e fece per andarsene, ma Zewil lo bloccò. Non poteva stare un minuto di più dentro a quell’ufficio, aveva bisogno di andare a sfogarsi da qualche parte, magari avrebbe scelto un bar, un bicchierino gli avrebbe placato la voglia di sferrare un cazzotto a Zewil, perché lui non picchiava le donne, altrimenti ne avrebbe assestato uno anche alla Comandante. Invece, i due, non avevano intenzione di liquidarlo così facilmente. «Dove crede di andare?», disse Zewil, «Sarà nostro ospite finché non le si sarà sciolta la lingua». Così chiamò due uomini affinché lo scortassero in guardina, giù nello scantinato. «Anche il signor Cibei ha deciso di trattenersi da noi qualche giorno» disse sferzante.
“Anche? Con chi hanno intenzione di mettermi?” si chiese Mulac e sperò che non fosse un attaccabrighe, poi, però, cambiò opinione in quanto ritenne più probabile che si trattasse di un altro povero diavolo, ma questo non tardò a scoprirlo. La cella era un ambiente rettangolare con le sbarre al posto della parete più larga sul davanti e delle panche addossate alle tre pareti ricoprivano interamente il restante perimetro. Su una porzione di sedile, un uomo stava supino con le mani dietro la nuca, il gomito alzato sottraeva alla vista il suo volto. Quando sentì aprire la cella, si tirò su a sedere e allora Mulac lo riconobbe. Non lo vedeva da parecchi anni, tranne l’averlo scorto in lontananza un paio di volte. L’aveva mandato via da casa sua con la sola cortesia di non denunciare ai Cacciamaghi le sue pericolose asserzioni, e questo unicamente in nome della loro vecchia amicizia. Aveva temuto che le sue assurde convinzioni potessero contagiare e recare danno alla famiglia. Adesso, non era poi tanto sorpreso di trovarselo davanti. Il suo coinquilino accennò con la mano un muto saluto, aveva una manciata di capelli bianchi ben miscelata ai restanti del primario colore, ma la capigliatura era ancora folta e questo destò in Mulac un pizzico d’invidia, perché la sua, al contrario, si era sfoltita parecchio, per cui aveva preso la drastica decisione di rasarsi la testa. Dopotutto, a Emma piaceva il suo nuovo look e così quel sentimento furtivo si dissolse all’istante. E poi, a dire il vero, non ci aveva pensato di proposito, era un pensiero indipendente balenato lì per lì perché in quel momento aveva ben altri pensieri; si avvicinò deciso all’uomo seduto sulla panca senza neppure ricambiare il suo saluto. «Dov’è Emma?» il suo tono non era certo amichevole, ma l’altro se l’aspettò. «Anche se lo sapessi, credi che te lo direi?» «Togli il se, tu sai dov’è. Sei andato a trovarla in clinica, dopo di che lei è sparita, e successivamente vi hanno visti insieme. Ho fatto male, quella volta, a non denunciarti; sei riuscito a persuadere Emma, cosicché sono stato costretto a rinchiuderla nella clinica. Non so cosa tu possa averle detto per convincerla ad abbandonare la cura, ma non puoi farla franca anche stavolta.» «Aiutarla a scappare…», Mulac serrò i pugni, «Un comportamento fuori da ogni dogma professionale, non ti pare?» «Adesso mi dirai dove l’hai nascosta e io ti salverò ancora una volta non
denunciando la tua complicità. Dirò loro che ho deciso di collaborare e che Emma si è messa in contatto con me, rivelandomi il suo nascondiglio; dirò che non ho parlato prima perché temevo che a Emma venissero applicate misure restrittive una volta rientrata, ma che parlando con te ho capito che non le avrebbero fatto niente per via dell’attenuante dell’instabilità psichica. L’unica cosa che m’importa è che Emma riprenda le cure e che Tommaso torni a casa e vada a scuola.» «Siediti, per favore.» disse Teodoro con tono grave e profondo. Mulac si sedette sulla panca, mentre Teodoro s’alzò girandosi verso di lui. A Mulac non piacque quella mossa che avvertì come un atto di sottomissione. D’accordo, agli avvocati piace parlare in piedi di fronte a una giuria seduta, ma gli aveva chiesto solo un indirizzo non di esibirsi in un’arringa finale. «Oh! Hai preparato un sermone?» disse guardando in alto, «la mia unità ti ha assunto come suo avvocato?» «A Emma non serve un avvocato, ma solo qualcuno che le creda e di cui fidarsi.» «Così sei disposto a dare credito alle sue fantasie pur di compiacerla, senza preoccuparti di quanto questo comportamento sia controproducente.» «Perché non lo è. Emma ha sempre detto la verità, ma è difficile dirla quando chi hai davanti non prova neppure ad ascoltarti, a darti il tempo di spiegare cosa sta succedendo in questo mondo e a darti la possibilità di dimostrarlo. Invece tu hai chiamato i Cacciamaghi...» «Guar...» Mulac non riuscì a chiamare le guardie, le sue labbra si sigillarono e si sforzò inutilmente di aprire la bocca, ottenendo solo tante ridicole smorfie. Irato, cercò di alzarsi, ma il suo posteriore sembrava incollato all’asse della panca. L’accortezza di Teodoro di erigere lo scudo a priori si rivelò opportuna. «È inutile che ti sforzi, non riuscirai a parlare e neppure ad alzarti. Sei sotto l’effetto della mia magia, quella che non dovrebbe esistere! Così adesso farai ciò che non hai saputo fare prima: ascoltare.» «Dov’ero arrivato? Oh, scusa non puoi rispondere! Stavo dicendo che hai chiamato i Cacciamaghi e l’hai fatta rinchiudere in quella che propagandano come una clinica d’igiene mentale e che, invece, è una struttura di detenzione
per tutti i maghi sfuggiti al controllo dei governanti. Questi ultimi hanno fatto incantesimi e sortilegi sulla popolazione, generazione dopo generazione, fino a epurare le menti di migliaia di maghi da ogni cognizione magica, facendogli dimenticare la loro natura e altre verità. Siamo tutti maghi, ma siamo in pochi a sapere di esserlo; solo che quelli come me ed Emma devono guardarsi le spalle da quelli come te che, seppur in buona fede, credendo di fare il nostro bene, ci segnalano alle autorità. Così, quando tuo figlio ha scoperto il suo potere ha capito che sua madre non era matta e si è guardato bene dal venire da te a chiedere consigli. Per fortuna, quando inconsapevolmente l’ha usato, sono riuscito ad intercettarlo e a giungere in tempo da lui per proteggerlo con lo scudo e controllare la mente dei presenti, evitando che qualcuno lo segnalasse ai Cacciamaghi.» Mulac, mugolando, scosse energicamente la testa. «I ragazzi non vengono portati alla clinica? È questo che vorresti dire?». Mulac fese di sì col capo. «È quello che credevo anch’io, ma mi sbagliavo. Ho visto portar via dei ragazzi dalla clinica, tutti i nati nel 3225, perché Argelia ne sta cercando uno in particolare, un ragazzo speciale, il più potente di tutti i maghi: Tommaso.» Mulac scosse la testa con disappunto. «Sì, tuo figlio», continuò Teodoro puntandogli contro l’indice, «È per questo che Emma è fuggita, per difendere suo figlio. Il nostro scudo di protezione ha ceduto per qualche istante, ma sufficiente ad Argelia, o più probabilmente a sua nipote, per percepire i poteri di Tom.» Mulac si arrese, smise di reagire all’incantesimo che aveva addosso, tanto non c’era nulla da fare. Dall’istante in cui i suoi muscoli si rilassarono anche la mente divenne più leggera e si ritrovò a riflettere. “Possibile che siamo tutti maghi?” Eppure era vero che non riusciva a parlare, tantomeno a scollarsi da quella panca: Teodoro glielo aveva appena dimostrato. Provò di nuovo, con molta calma e convinzione, ad alzarsi e schiudere le labbra, ma non accadde nulla. Se non era stato colto da un’improvvisa paralisi, ipotesi alquanto assurda giacché riusciva a muovere tutti gli arti, la magia sembrava la risposta più sensata a quanto gli stava accadendo. Ragionando, non aveva mai visto le autorità accanirsi così nella ricerca di due innocue persone. Quale pericolo potevano mai rappresentare? Non aveva senso! Cominciò, invece, a dare più senso al discorso di Teodoro anche se alcune parole non le
comprendeva, ma questo doveva dipendere dal fatto che, come lui aveva detto, i governanti avevano manomesso le menti dei cittadini. «Altea era riuscita a catturare Tommaso, ma adesso tuo figlio è al sicuro» riprese a dire Teodoro. «Lo so che le cose che ti ho detto potranno sembrarti, per certi versi, assurde, tuttavia è la verità. Fra non molto, quando avrai recuperato i ricordi e riacquistato la tua essenza, potrò metterti al corrente di informazioni più delicate. Vedi, stiamo mettendo a punto un antidoto, un contro-incantesimo, capace di neutralizzare gli effetti della totalità degli incantesimi e sortilegi operati dai vari governanti sulla popolazione. La formula è bell’e pronta da un pezzo, ma adesso saremo in grado di preparare la pozione, perché stiamo per avere ciò che ci mancava.» Mulac si picchiettò le labbra con l’indice e la sua espressione fu eloquente. Aveva ascoltato come fa una giuria, ora il verdetto spettava a lui. «Scusa amico, non ho avuto scelta» disse Teodoro sciogliendolo dall’incantesimo. «Beh, sai come farti ascoltare senza interruzioni anche fuori da un tribunale, non c’è che dire.» «Anche meglio, direi, in tribunale puoi obiettare. Spero tu l’abbia fatto davvero... intendo “ascoltare”.» «Sì, certo; le orecchie me le hai lasciate aperte.» «Lo so che potevi sentire, ma io ti ho chiesto se hai ascoltato.» «L’ho fatto. E voglio crederti, primo perché sei mio amico e secondo perché quelli di sopra non la raccontano giusta.» «Bene, spero che quanto prima potrai unirti a noi.» «Hai detto “noi” tante volte. Ma chi siete voi?» «Siamo i maghi consapevoli. I figli dei pochi superstiti che hanno dato vita alla Resistenza. Il nostro scopo è di liberare i nebrusiani dal maleficio e quando
diventeremo un grande esercito saremo in grado di sconfiggere Argelia e il suo seguito. Negli ultimi anni, abbiamo fatto un’importante scoperta che ci permetterà di ultimare la pozione magica.» «Già... l’antidoto. E io sarò la vostra prima cavia, è così?» disse sardonico. «Beh, detta così è un po’ scoraggiante. Diciamo, invece, che avrai l’onore di essere il primo nebrusiano rinsavito.» «Uhm. Ci devo pensare.» «Pensiamo invece a un modo per andarcene da qui. Per me è uno scherzo aprire quella serratura, purtroppo per uscire bisogna attraversare la stanza degli uffici. Se soltanto Emma non fosse andata... beh, lei è una di quelli col potere della Ter...» «Qualcuno ha bisogno di me?» La voce di Emma giunse improvvisa così come la sua persona, facendo trasalire i due reclusi. ò attraverso le sbarre e si avvicinò a loro. «Che ci fai qui?» Teodoro era sorpreso. Mulac, invece, era inebetito e guardava la sua unità con occhi increduli e a bocca aperta. «Da dove mi trovavo, non potevo visualizzare questo posto che non lo conosco, così sono venuta a prendervi di persona.» «Ma non dovresti essere qui» era quello che intendeva dire anche prima. «Ho accompagnato Tom, ho visto il suo alloggio, conosciuto le persone che si occuperanno di lui, fatto un giro di visite del luogo, e ora sono tranquilla perché so che è in buone mani e al sicuro; non c’era ragione perché mi trattenessi oltre. Per l’altra questione è sufficiente la presenza di Mathesias. Qui sarei stata più utile, infatti non mi sbagliavo» disse indicando la cella con un ampio gesto della mano. Poi schioccò le dita davanti al viso del marito che era ancora imbambolato. «Mi aspettavo un’accoglienza più calorosa...» s’interruppe poiché sentirono dei i sulle scale. L’incedere si fece più pesante e si udirono anche delle voci. Qualcuno stava per arrivare.
«D’accordo, non c’è tempo per i saluti, dobbiamo andarcene», disse Emma facendo alzare Mulac, poi prese i due uomini per le mani, «Teo, lo scudo è tuo. Ora non pensate assolutamente a nulla, faccio tutto io.» Quando le guardie arrivarono a prendere i due uomini per un altro interrogatorio, la cella era vuota. Tre persone erano sparite da un luogo per giungere magicamente in un altro, ma qualcosa nel trasferimento non era andata per il verso giusto. Non avevano fatto molta strada, si ritrovarono nel parcheggio di fronte al nucleo di vigilanza, Teodoro era seduto sul cofano di un’auto blu, invece Emma e Mulac si ritrovarono seduti sulla capotta. La donna lanciò un’occhiataccia al marito. «Ti avevo chiesto di non pensare a niente!» «Non l’ho fatto apposta. Hai detto che dovevamo andarcene e mi è venuto in mente che abbiamo la mia auto per scappare. Comunque, non siamo più in cella! Cosa c’è che non va?» «C’è che dovremmo trovarci al sicuro in un altro posto!» «Scusa! Che ne so io di come funzionano questi trucchi». Emma tagliò corto, anche per le recriminazioni non v’era tempo. Dovevano andarsene immediatamente: erano già stati avvistati. Quattro vigilanti, con la Comandante in testa, stavano correndo verso di loro intimando l’alt. Un altro gruppo di vigilanti uscì appresso. I due fuggitivi e la loro complice – per ironia della sorte si erano invertite le parti – non potevano certo svanire sotto i loro occhi, in quel momento la loro unica chance era di fuggire con l’auto di Mulac. Misero in moto e si diressero verso ovest come suggerito da Emma. Ella aveva già un piano. Tre auto verdi con la scritta blu “Vigilanza Territoriale” si misero subito all’inseguimento della berlina blu. Mulac spinse fino in fondo il pedale dell’acceleratore, ma al suo alimentatore restava circa un quarto di autonomia, aveva consumato oltre il settantacinque per cento del biocrinite. Era risaputo che le auto delle forze dell’ordine erano sempre in piena efficienza. Mulac, dalla sua, aveva una delle auto più veloci mai prodotte, però consumava molta energia. Guardò nello specchietto retrovisore e vide le luci di sei fanali. Era notte fonda, schiacciò il pedale a tavoletta e vide le luci allontanarsi un poco. «Ho meno di un decimo di energia», disse Mulac dopo un po’, «dobbiamo andare molto lontano?»
«Prima dobbiamo riuscire a seminarli» rispose Emma. «Questo è fuori di dubbio, ma è impossibile su questa strada sempre diritta. Ci vorrebbe uno dei vostri trucchetti.» «Non sono trucchi, caro. È magia. Purtroppo non possiamo fare grandi cose, perché i nostri poteri non sono stati confermati.» «Che vuol dire “non sono stati confermati”?» «Presto saprai tante cose, non ora.» Dalla stazione, da dove erano scappati, era partita immediatamente la segnalazione, a tutte le altre stazioni, del loro inseguimento, e nuove pattuglie erano entrate in azione. Quando Mulac arrivò al primo incrocio, giunsero due auto verdi, una da destra e l’altra da sinistra, e s’immisero sulla strada principale subito dopo il aggio della berlina blu. Così il vantaggio che essi avevano sui primi inseguitori venne annullato dai nuovi arrivati. È difficile ricordare un inseguimento a Nebrus; forse non ce n’era mai stato uno. Quel che è certo è che agli occhi di quelli del Mondo di Sotto, abituati alle scene d’inseguimento dei film polizieschi e di azione, quello era alquanto ridicolo, roba da comiche. La prestazione massima dei modelli standard di auto prodotti, con un motore alimentato col biocrinite, era di settantacinque chilometri orari; il modello d’auto di Mulac riusciva invece a tirare quasi i cento. Quindi nessun brivido, nessuna scena stile Hazzard o Cobra11. Anche le auto dei vigilanti erano tra le più “sofisticate” e Mulac ne aveva due ai calcagni. In questo modo, Emma non avrebbe potuto mettere in atto il suo piano, bisognava distanziarli a tutti i costi. Erano diretti verso le montagne, sulla strada che conduce alle miniere: un rettilineo con pochi sbocchi laterali, per lo più lunghe strade senza uscita. Era su una di queste che Emma voleva lasciarli a bocca asciutta, ma occorreva avere un discreto vantaggio. Doveva farsi venire un’idea. Seduta sul sedile posteriore, si voltò a guardare le due auto che li seguivano da cinque minuti mantenendo sempre la stessa distanza. Era evidente che non riuscivano a raggiungerli, tuttavia occorreva fare qualcosa per guadagnare terreno. Ma cosa? Non le veniva in mente nessuna idea che non implicasse l’uso della magia. Lei aveva il potere di muovere le cose, avrebbe potuto rimuovere i conducenti dal loro posto di guida e far si che si ritrovassero seduti sulle balle di fieno disseminate nei campi adiacenti alla strada. Beh,
perché no? Dopotutto stavano per ultimare la pozione magica che presto sarebbe stata utilizzata per risvegliare la popolazione dal torpore; poteva anche iniziare a darle una scossa. Non poté più resistere a quel pensiero. «Al diavolo», disse all’improvviso, «usiamo la magia.» Quando i due autisti si ritrovarono seduti su una balla di fieno, ella guidò le ruote dei veicoli rimasti senza controllo e le due auto finirono la loro corsa oltre i margini della strada, ad un pelo dai canali d’irrigazione. Sotto il suo influsso magico, alcune balle di fieno apparvero sulla strada a formare una barriera, interrompendo la corsa del primo gruppo di vigilanti. Riuscirono a frenare appena in tempo; la Comandante, furibonda, scese dalla vettura sbattendo la portiera e iniziò a gridare ai suoi uomini di rimuovere immediatamente gli ostacoli, ma la sua collera balzò alle stelle non appena vide i due vigilanti sul fieno, posti in evidenza dai fari di una delle vetture che aveva evitato l’ostacolo sterzando a sinistra. Non sapendo fiutare la magia, esigette a gran voce delle spiegazioni che i due uomini, ancora stralunati, non seppero darle; si limitarono a fare spallucce e borbottare qualcosa d’incom-prensibile, poi si precipitarono ad aiutare i colleghi a liberare la strada. Nel frattempo, Teodoro, osservando l’acqua scura dei canaletti per l’irrigazione, striata dal riverbero lunare, non volle essere da meno e decise di dare il suo contributo per ostacolare ulteriormente gli inseguitori. Così l’acqua, ubbidendo ai suoi ordini, iniziò a vorticare formando una tromba che si diresse verso le auto dei vigilanti. Quando fu in posizione, essa si spezzò lasciando cadere sul bersaglio un’abbondante cascata del prezioso elemento. «D’accordo, ho suggerito io di usare la magia, ma senza esagerare!» disse Emma. «È stato il mio regalo per la Comandante. Non mi piaceva la sua acconciatura cotonata.» Mulac iniziò a ridere, anche lui aveva trovato ridicola quella chioma, «Hai ragione, sembrava che andasse in giro con una nuvola in testa.» «Già, una nuvola carica di pioggia!» «Siete due schiocchi», fece Emma scuotendo le testa e celando un sorriso, «Non era necessario infradiciarli a quel modo: guardate c’è una via sulla destra, e loro sono ancora bloccati. Entriamo là e li lasciamo a bocca asciutta.»
«Ma è una strada senza uscita» fece notare Mulac. «Non ha importanza», rispose Emma e ciò fece preoccupare la sua metà, «Teo, tu non fare cedere lo scudo e io penserò a far perdere le nostre tracce. Spero di riuscirci, l’importante e che voi mi aiutiate a visualizzare il vialetto davanti a casa mia.» «Cos’hai in mente?» chiese Mulac svoltando nella traversa. «Lo vedrai. Qualcosa di notevole. Il mio potere è appena stato confermato dalle Fate della Terra», dopo gliel’avrebbe spiegato. «Stavolta non pensare ad altro, fa’ come ti ho detto, per favore.» «Non preoccuparti, ho imparato la lezione» rispose in tono vagamente offeso. «Bene, ci siamo. Quando dirò “ora” pensate intensamente al posto e visualizzatelo» disse Emma allargando le braccia e afferrando le due portiere posteriori. Richiamò il potere del suo elemento e si concentrò come mai aveva fatto prima...» «ORA!» Aveva funzionato! Adesso si trovavano davanti a casa sua... con tutta l’auto. «Perbacco! Una traslazione così distante e precisa con tre persone e un’auto. Mai vista una roba del genere!» «Beh, mi avete aiutato anche voi.» «E dai, non fare la modesta. Adesso capisco da chi ha preso Tommaso» si complimentò Teodoro. «Senza offesa, s’intente», aggiunse rivolto a Mulac, «Anche tu eri un valente mago prima che decidessi di andare a quei raduni organizzati dal Governo.» «Se lo dici tu deve essere vero. Cioè, dopo quanto vi ho visto fare, non vedo perché io dovrei essere da meno» rispose sprezzante. Stava fingendo e gli altri due lo presero a spintoni. Nascosero l’auto nella rimessa e dopo di ciò Emma li trasportò nel covo della Resistenza. Nessuno si stupì di vedere Mulac, si
aspettavano che Emma l’avrebbe portato lì, d’altronde occorreva evitare che i vigilanti trovassero collegamenti con lei e il figlio. Entrarono dalla porta segreta della dispensa proprio mentre Zantor, di ritorno, stava uscendo dalla botola. Da quando l’uomo era partito per la missione ricognitiva, nella stanza segreta era rimasto sempre qualcuno di guardia, perché la botola non si poteva aprire dall’interno, in più era nascosta sotto il tappeto su cui poggiava il piedistallo del tavolo. Però, da quando i ragazzi erano andati via, il tavolo non era stato rimesso al suo posto per comodità: per prima era tornata Emma e oltre a Zantor si attendeva anche il ritorno di Mathesias. Così, a turno, qualcuno rimaneva nella stanza segreta per aprire la botola; stavolta era toccato ad Alcherius. «Ehilà, Zantor. Sei proprio tu, stavolta?» chiese Teodoro. «E chi dovrei essere?» fece questi stranito. «Ci ha fatto visita la professoressa Cimador nelle tue vesti, non l’hai saputo?» Lui non l’aveva saputo. Gli avevano detto che era tutto a posto, che avevano verificato quanto lui aveva loro riferito e che poteva andarsene quando voleva. Quel che a lui importava è che avessero acconsentito alla sua richiesta di potersi recare in certi luoghi a raccogliere particolari erbe e sostanze naturali che a Nebrus erano irreperibili. Anche essi erano interessati alla sorte degli abitanti dell’altra parte del Mondo di Sopra, ma avevano voluto la promessa che la conoscenza del tunnel rimanesse prerogativa di pochi. Avevano delegato lui come messaggero tra le due sponde, ed esteso solo ai genitori dei ragazzi l’ autorizzazione a circolare liberamente nel territorio. La rettrice aveva accompagnato personalmente Zantor nel Paese delle Fate e nella parte della Valle Incantata libera dall’incantesimo di Bruto. Per raggiungere le mete, Zantor aveva abbandonato il volo sulla scopa già al primo tentativo e Cassandra aveva richiesto l’uso della vettura Consiliare, ma non sapendola guidare si era rivolta a Lucilla la quale era un po’ seccata, perché avrebbe tardato per andare a prendere i suoi ragazzi del primo anno. Oltre alle due agognate erbe che occorrevano per completare la pozione “salva Nebrusiani”, Zantor era tornato all’ovile con due sacchi di tela colmi di ogni specie vegetale incontrata sul suo cammino. Dato che c’era, tanto valeva farne una bella scorta così da non disturbare i vicini per un pezzo. Egli era sì
soddisfatto per l’approvvigionamento, ma euforico perché nel Paese delle Fate gli era apparsa la Fata del Fuoco che, giudicata soddisfacente la padronanza dell’elemento, gli aveva confermato il suo potere. Tale conferma infondeva nel soggetto lo spirito dell’Elemento che alimentava ogni singola cellula del corpo e gli donava il completo dominio dell’Elemento.
Capitolo 18
L’arrivo
La fabbrica di autoveicoli era sorta più di un secolo prima nella parte di regione usurpata da Nerasmo ed era stata progettata seguendo le sue indicazioni. Era così iniziata la riproduzione dei modelli osservati dall’allora neo congedato studente tramite il Grande Osservatorio. Erano gli inizi del 3114. Sul finire del precedente anno, Nerasmo aveva ottenuto l’Alto Congedo con il massimo dei voti ed era molto eccitato di iniziare il suo lavoro come responsabile del settore innovazioni, facente capo al Dipartimento di Arti Magiche e Mestieri Ordinari. Nel Mondo di Sotto, in quella stessa epoca, era iniziato un secolo molto importante nella storia del genere umano. Un periodo di grandi scoperte e sviluppo tecnologico, ma anche un periodo di odio razziale e di grandi conflitti tra le tante nazioni in cui quel mondo era diviso. La Prima Guerra Mondiale era alle porte, ma non era un problema di Nerasmo. Ciò che lo interessava erano i nuovi modelli di auto che le varie industrie automobilistiche, comprese le nuove nate come la Maserati, stavano tirando fuori. Era affascinato da quella pazza idea che avevano avuto i Terrestri di sostituire i cavalli utilizzati fino a quel momento per il traino delle carrozze, facendo in modo che quest’ultime potessero muoversi indipendentemente. All’inizio, però, la sua proposta di creare una fabbrica di automobili non era stata presa in considerazione: nessuno ne vedeva l’effettiva utilità e giudicarono l’idea come un dilettevole capriccio. Eppure lui sfruttò quel pregiudizio e ripresentò la sua proposta come una fabbrica di giocattoli per adulti; avrebbe creato quei mezzi per far riposare le scope nei giorni di festa, per rendere piacevoli le eggiate, per trasportare le cose pesanti, per muovere le comitive ai raduni e offrire il vantaggio di viaggiare riparati durante le piogge. Dopotutto, sotto sotto si rimane sempre un po’ bambini. Così, pian piano l’idea cominciò ad attrarre. Gli fu concesso il benestare e Nerasmo individuò subito il sito ideale dove gettare le fondamenta della fabbrica. Con il sussidio della magia, in due quartine (otto giorni), era sorta la fabbrica e tutto era già funzionante. La produzione iniziò con la Pathfinder serie XIV Touring del 1914 e la Rolls-Royce Silver Ghost Limousine del 1911, modello che verrà adottato come auto ufficiale del Consiglio dei Cinque. Ma mentre nel Mondo di Sotto – che usava le scope solo per spazzare –
l’industria automobilistica aveva avuto un rapido sviluppo tecnologico e innovativo, la fabbrica di Nerasmo, installata nel territorio che prese poi il nome di Nebrus, non ebbe la possibilità di stare al o coi tempi terresti. Nerasmo, privato dell’occhio sapiente, rimase all’oscuro di tale progresso. Quanto ai dirigenti, che assunsero successivamente il controllo della fabbrica, essi non avvertirono esigenze di perfezionamento e rinnovamento, per cui continuarono a produrre sempre gli stessi modelli, limitandosi a modificarne alcuni spinti dalla necessità di andare in giro in un abitacolo chiuso durante il periodo freddo. In seguito, quando la fabbrica automobilistica venne controllata dalla Nebrus BioC per l’ottanta percento, furono progettati due nuovi motori in grado di sviluppare una maggiore potenza dietro un maggior consumo di biocrinite. Le auto in circolazione al di fuori di Nebrus erano pertanto centenarie e, pur non essendoci officine di riparazione, venivano mantenute in ottime condizioni per mezzo della magia, perciò l’impossibilità di cambiare l’auto non era un problema avvertito da quelle parti, dove, oltretutto, gli abitanti facevano volentieri a meno delle strade, scorrazzando in aria con le scope o, per chi poteva, trasportandosi. Inoltre i giacimenti di biocrinite si estendevano anche in un piccolo tratto di catena montuosa oltre la Terra Verde, assicurando il carburante anche a questa parte di mondo. Solamente Casimiro, di tanto in tanto, si chiedeva se dall’altra parte, in tutti quegli anni, avessero tirato fuori dei nuovi modelli di autobus. Il poverino non poteva sapere che si continuava a produrre sempre il medesimo, lo stesso in dotazione al College: un Autobus A Impériale P2 Schneider del 1905, un mezzo a due piani per il trasporto di trentadue eggeri. I nebrusiani non avevano l’inventiva degli abitanti del Mondo di Sotto e quanto a Nerasmo, egli si disinteressò presto della sua fabbrica poiché aveva in mente ben altri progetti. Tuttavia, Casimiro, quando era in vena di riflessioni profonde, biasimava se stesso di aver potuto desiderare un autobus come quelli attualmente osservabili nel mondo sottostante. Quello che aveva era più che sufficiente e funzionava benone, inoltre non inquinava. Il biocrinite era una fonte di energia pulita e non l’avrebbe mai barattato con una tanica di gasolio.
La Mondovia era arrivata a destinazione, sbarcando la prima comitiva di alunni. Il Portale di Ermete era localizzato in un antico tempio dedicato alla Dea
dell’Universo e sito al centro di una vasta area pianeggiante. Un’opera architettonica surreale: di pianta rettangolare, con una lunga scalinata percorribile da ogni lato. La base era staccata dal suolo come se una mano invisibile la tenesse sospesa. Eppure era solo un inganno, o meglio, un incantesimo. La scalinata era visibile solo per metà e dopo essere scesi sino all’ultimo gradino visibilmente calpestabile, bisognava solo avere il coraggio di proseguire a scendere; solo i dotati del potere di un elemento avrebbero visto i gradini apparire sotto il loro piede. Gli altri, i normali, sarebbero precipitati nel vuoto. Matilde rammentò il racconto di suo padre, del giorno in cui portò sua mamma, e sé stessa che le stava crescendo in grembo, nel Mondo di Sopra per sottrarre entrambi dalle minacce del serial killer, un assassino senza volto cha la squadra di Mangrella doveva acciuffare. Le raccontava che, giunto all’ultimo gradino visibile del tempio, dovette proseguire portando in braccio sua moglie. Lucilla era ormai abituata allo sconcerto che si dipingeva sulle facce dei nuovi arrivati non appena mettevano il piede fuori dalla Mondovia. Anche se alcuni avevano sentito parlare, da genitori o parenti, di come andassero le cose lassù, verificarlo di persona creava ogni volta stupore. Lucilla si divertiva a vedere le file di occhi sgranati per l’effetto sorpresa, e origliava i loro commenti che, bene o male, erano sempre gli stessi: «Ma dai! Allora è proprio vero!» «Ragazzi, chi va per primo?» Non tutti erano tanto coraggiosi da fare il primo o. I più timorosi si decisero solo dopo aver visto Lucilla scendere per prima per dare l’esempio, e quindi un certo numero di compagni raggiungere il suolo senza problemi. Casimiro, intanto, si stava avvicinando alla comitiva e, giunto al fianco di Lucilla, invitò i ragazzi a prendere posto sull’autobus. «Dobbiamo salire sul quel coso lì?» chiese uno, perplesso. «Ma cammina?» fece un altro dubbioso. «...Eppur si muove!» recitò con enfasi un terzo, come ebbe a dire Galileo Galilei. «Perbacco se si muove! Non perde un colpo» s’indignò Casimiro.
«Che sballo ragazzi, è una curiosità che si realizza! Quell’autobus l’ho visto esposto al Retromobile, il salone delle auto d’epoca di Parigi, solo che il piano superiore era aperto sulle fiancate. Mi sarebbe piaciuto salirci, ma era vietato e c’ero rimasta un po’ male» disse Matilde. «Perché ha scelto di andare in giro con questo mezzo un po’... datato, signor...?» chiese il ragazzo con gli occhi del color del cielo terso. «Ovibus, Casimiro Ovibus», si presentò il custode e tuttofare del San Gregorio College, «La storia delle nostre automobili non la si può spiegare in pochi attimi, signor... ?», chiese di rimando «Alex Grainer» «Bene, signor Grainer, appena inizierà a studiare al college apprenderà molte cose di questo mondo. Anche sulle auto, se ciò la interessa.» «Adesso prendete posto, devo accompagnarvi ai vostri alloggi», aggiunse. «Si sale dal retro. C’è una scala a “S” per salire al piano superiore. Vero, signor Ovibus?» «Lei è ben informata, signorina. Scommetto che vorrebbe conquistarsi un posto in alto. Ogni anno tutti corrono e spingono per salire al piano superiore.» «Beh, a chi non piacerebbe? È come correre ad occupare i posti in fondo.» «In fondo? Intende dire quelli alle mie spalle?» «No, mi riferivo ai nostri autobus.» «Ah. Beh, credo che mentre noi parlavamo i suoi amici abbiamo rastrellato tutti e sedici i posti disponibili di sopra.» «Pazienza», disse Matilde con un sospiro, «Ci saranno altre occasioni.» «Ma certamente, signorina...?» «Matilde, piacere» rispose offrendogli la mano. «Matilde... Mangrella?» Lei accennò di sì col capo, «Oh! Il piacere è tutto mio.»
Guardò con maggior interesse quella ragazza a cui piaceva il suo autobus; lei era quella dell’ultima busta blu ricevuta, la ragazza del Mondo di Sotto che, per una particolare circostanza, aveva avuto i natali nel Mondo di Sopra, proprio nel momento dell’eclissi che determinava il compiersi della Profezia dei Gemelli. Mentre l’osservava dirigersi verso l’autobus, sentì i i di Lucilla che si avvicinavano, si voltò e vide lo sguardo ammiccante e compiaciuto sul volto di lei. «Formano una bella coppia; lei che ne dice, Casimiro?» «Io dico che ti sbagli.» Lei lo squadrò, contrariata. Non tanto perché non fosse d’accordo con lei, quanto perché le aveva risposto dandole del tu. Avevano solamente lavorato insieme a un caso, condiviso il segreto di Ezechiele, mangiato insieme sotto il tetto di questi e brindato coll’inebriante vino dell’ospite, ma tutto ciò era poca cosa per ritenersi libero di concedersi quella confidenza... «Ah sì!?» Lei stessa non capì per quale causale emise quell’esclamazione. Casimiro, tra l’altro, non s’era neppure accorto del suo dire confidenziale. «Certo, una coppia è formata da due persone...», sulla faccia di Lucilla si dipinse un’espressione ovvia, «invece siamo in presenza di una terna.» «Cosa!?» l’espressione mutò in quella di chi ode assurdità. È così che Casimiro iniziò a raccontarle gli ultimi fatti avvenuti mentre lei era impegnata ad organizzare l’arrivo delle nuove matricole. Le parlò dei due ragazzi arrivati da Nebrus e della certezza di Tommaso di aver riconosciuto in Altea, l’ultima discendente di Bruto, la sua gemella elementale. L’assicurò che nessuno aveva messo in dubbio le sue doti di selettrice, ragion per cui il Consiglio si era riunito per risolvere l’enigma. Dopo accurate ricerche e minuziosi calcoli, che non portarono a nulla di scientificamente dimostrabile, si era arrivati alla conclusione che la responsabilità del fenomeno era da attribuirsi alla meteora che aveva attraversato il cielo proprio mentre si compiva l’eclisse totale di sole. La lama infuocata che era sfrecciata tra le due lune, Theary e Lylienit, scomparendo per un solo attimo da destra e ricomparendo a sinistra, doveva aver, in qualche modo, ripartito diversamente la profezia. Lucilla era sbigottita a tal punto da non prestare più attenzione se l’argomentare
di Casimiro stava continuando in tono confidenziale oppure no. «Sbrigati, Lucilla, devi andare a prendere il secondo gruppo. Io raggiungo i ragazzi sull’autobus. Finché Altea sta dall’altra parte non dobbiamo preoccuparci.» «E quando il confine sarà abbattuto?» «Che vuoi che possa fare lei da sola contro i nostri due ragazzi. Suvvia, non creiamo allarmismi. Questa volta le cose andranno in maniera diversa. Noi siamo un esercito di maghi, non temiamo certo una vecchia e una ragazzina. O sbaglio?» «Hai ragione, dobbiamo riuscire a spazzare via le ombre del ato e ridare luce e tranquillità al nostro mondo.» Con risolutezza, Lucilla si avviò verso il Tempio. Solo davanti alla scalinata, realizzò di aver risposto in modo confidenziale. Sorrise: “Beh, che sia”. E Casimiro si avviò per accompagnare il primo gruppo al San Gregorio. Marta si era sporta da un finestrino del piano superiore dell’autobus e con un eloquente gesto della mano aveva segnalato a Matilde che di sopra non c’erano più posti liberi. L’altra fece spallucce di rassegnazione e salì. Si sedette di fronte ad Alex, il ragazzo coi lunghi capelli neri che aveva evitato di un pelo una zuccata al soffitto della Mondovia. Matilde notò che il ragazzo portava al collo il medaglione idioletto: una spirale i cui giri erano formati dal susseguirsi di simboli e lettere. Era un congegno magico che permetteva, a chi lo indossava, di capire la lingua del Mondo di Sopra, ma cosa ancora più strabiliante era il fatto che gli consentisse di parlare nella stessa lingua. La ragazza lanciò un’occhiata in giro e vide altri ragazzi con lo stesso medaglione. Ne aveva già sentito parlare ed è per questo che lo riconobbe, e capì anche cosa venne consegnato ad alcuni ragazzi allo sportello dell’Ufficio Scolastico. Lei non ne aveva bisogno. Aveva appreso dal padre la lingua del posto e che in casa sua aveva sostituito il dialetto romanesco, tant’è che anche sua madre era riuscita un po’ a comprenderlo, anche se non si era mai cimentata nel parlarlo. Lucilla invece capiva e parlava bene l’italiano, ma solo pochi altri, tra cui la Cimador, ne erano in grado. Matilde, con la mente vaga, tornò a fissare il medaglione al collo del ragazzo. Egli prese con due dita l’oggetto spiroidale e lo scosse, destando l’attenzione di Matilde. I loro occhi s’incontrarono nuovamente. Lei percepì con la fantasia la
gomitata di Camilla sul fianco e stava quasi per dire “Ahi!” «Vedo che tu non ne hai bisogno», disse lui, «Io ho problemi con l’inglese, figurati se mi mettevo a imparare un’altra lingua» concluse enfatizzando la mimica. Lei rise. «I tuoi non lo parlano in casa?» chiese allora Matilde. «Sono un ereditario da parte di madre. Lei non lo parla mai. Dice di averlo pressoché dimenticato.» «È un peccato. Lo avresti imparato naturalmente, così come ora sapresti l’inglese se tua madre fosse stata una english tongue.» «Forse hai ragione, comunque non sono portato per le lingue. Di dove sei?» chiese per cambiare argomento. «Campitelli.» «Eh? Dove si trova?» «Oh, scusa. È un rione di Roma.» «Ah! Non conosco Roma. Io sono della provincia di Milano.» «Non conosco Milano» disse lei di rimando, con un sorriso disarmante che offrì al ragazzo l’occasione che stava aspettando per un primo contatto. Si protese verso di lei tendendole la mano, «Mi chiamo Alex» annunciò; lo sguardo suadente. «Io sono Matilde» rispose stringendogli la mano, mentre il suo sguardo sfuggiva a quegli occhi color del cielo terso, deviando per puro caso su quelli grigi della ragazza seduta alla destra di Alex, il che fu ancora peggio. Colse nella coetanea l’espressione della cagnetta a cui hanno appena sottratto l’osso. Dopo una tagliente occhiata di sfida, ella s’intromise nella conversazione con sfacciata malia. «Io invece vengo da Brescia; mi chiamo Ursula» annunciò, piegando la testa nell’atto di sistemarsi dietro l’orecchio una ciocca dei suoi corti capelli bruni. Poi, accavallando una gamba, torse il busto verso il ragazzo.
«Abbiamo pernottato nello stesso hotel. Ti ricorderai sicuramente di me, stamattina ero seduta al tavolo di fronte al tuo, quando abbiamo fatto colazione nella sala da pranzo.» «Sì, ti ho notato. Mi chiedevo dove mettessi tutta quella roba.» «Adoro i dolci. Per fortuna non assimilo niente» disse facendo scorrere i palmi dalla vita sino alle anche. Matilde, disgustata, si mise a guardare fuori dal finestrino. Un pesce era appena caduto nella rete. Alex colse la sua smorfia e sorrise senza mimica. Era solo stato cortese con Ursula, ma non aveva intenzione di continuare una conversazione su quel livello. La ragazza dai capelli rossi, evidentemente, non lo aveva capito.
Il paesaggio che l’autobus stava attraversando attirò presto gli occhi delle nuove matricole, e anche Ursula smise di atteggiarsi. Lasciato il pianoro, una vasta area tappezzata con riquadri dalle diverse sfumature di giallo, verde e rosso, che richiamava alla mente una coperta confezionata con la tecnica del patchwork, l’autobus di Casimiro iniziò a salire la collina e dopo qualche curva si addentrò nelle strade del paese. Alla comitiva sembrò quasi di essere a casa. Ebbero l’impressione di essere in gita scolastica per visitare i più bei paesi medievali; come essere a Grazzano Visconti o Campiglia Marittima e respirare, però, una tangibile aria di magia. Percorsero interamente la via principale, una carreggiata di quattro metri di larghezza pavimentata con tecnica mista: blocchi di arenaria di forma poligonale, legati a malta di calce, mentre due strisce parallele in lastricato agevolavano il aggio dei veicoli. Da ambo i lati si aprivano numerose strade secondarie di ampiezza variabile tra un metro e mezzo e due metri e mezzo. Tutte realizzate in lastricato e ciottoli, si diramavano per il paese salendo dolcemente. Quelle più strette affrontavano una pendenza maggiore e formavano un gradino ogni tre i. Tutti gli esercizi si trovavano lungo il Cammino di Calype, così era stata battezzata la via principale, dal nome della prima luna. Casimiro era ormai rassegnato a come si svolgeva ogni anno la tratta delle matricole, sapeva che dopo la prossima curva i ragazzi non sarebbero stati capaci di rimanere seduti. L’autobus ò lentamente davanti alla bottega di elisir ed erbe mediche che esponeva vasi e bocce di varia grandezza e forma. ò davanti al negozio di pendoli e sfere magiche, un’equivalenza di brillantezza e fragilità. ò quindi davanti al negozio di scope volanti,
all’apparenza comunissimi oggetti per spazzare che fecero pensare, ai meno esperti, a un negozio di casalinghi; Quando, però, l’autobus ò davanti al negozio di bacchette magiche, ci fu uno spostamento in massa sul lato sinistro dell’abitacolo, su entrambi i piani, e le ruote destre del veicolo persero aderenza, per qualche secondo, sulla striscia di lastricato. Casimiro c’era abituato e intervenne magicamente per ridare stabilità al mezzo, sapeva che gridare ai ragazzi di stare seduti al proprio posto sarebbe stato vano. Lasciato il paese alle spalle, il Cammino di Calype proseguì per altri quattro chilometri dopodiché la pavimentazione terminò al fianco di una piazzuola sterrata che avrebbe permesso all’autobus di fare dietrofront e che era, altresì, il luogo di sosta del veicolo; là era stato eretto un riparo con tre pareti e una tettoia in legno. Da lì, il viaggio sarebbe continuato a piedi per una mulattiera che attraversava la zona boschiva della proprietà del San Gregorio College. Il tragitto era avvantaggiato dall’assenza di bagaglio, perché di esso se n’era già occupata Lucilla per mezzo della sua bacchetta facchino. Borse e valigie avevano preceduto i ragazzi e attendevano di essere recuperate dai proprietari all’ingresso del College. Sul ciglio della mulattiera, vi era un gabbiotto di legno che non sarebbe ato inosservato se i ragazzi avessero saputo cosa conteneva. Solo quando l’ebbero superato, Casimiro disse loro che quello era il ripostiglio delle scope di servizio. Conteneva una cinquantina di scope utilizzabili solo per il tragitto che loro stavano affrontando; alla fine del percorso vi era un altro ripostiglio con altrettante scope. Lo disse a titolo puramente informativo, poiché essi dovevano ancora imparare ad utilizzarle. Giunti a metà strada, dopo una buona mezz’ora di marcia, qualcuno iniziò a lamentarsi per la stanchezza e il mal di piedi, ma la quasi totalità dei ragazzi era fresca e motivata a proseguire. Perfino Casimiro, con la sua pancetta, saliva spedito come uno stambecco. Ursula, invece, pretendeva di usare il suo potere della Terra anche se non era in grado di visualizzare il posto dove avrebbe dovuto trasferirsi. Certo che partire con i tacchi e la minigonna non era stata una scelta saggia. Poco dopo, il custode indicò ai ragazzi un viottolo a destra che portava alla sua casa. In lontananza, nascosta da cespugli e rami, se ne poteva intravedere qualche ritaglio. Al culmine della disperazione, Ursula si era tolta le scarpe ed aveva concluso a pieni nudi gli ultimi cinquecento metri, provando un grande sollievo al contatto con la terra umida e il muschio. Quando arrivarono alla radura, si sentirono tutti più riposati di quando erano partiti; si era completato il riciclo di ossigeno in ogni cellula del corpo e l’aria terrestre, inquinata dal biossido di carbonio, era stata sostituita con l’aria pura del Mondo di Sopra. Man mano che la comitiva si avvicinava al Collage, Matilde percepiva sempre
più la presenza di Tommaso e durante il cammino ne parlava, sottovoce, con Marta. Di tanto in tanto, venivano raggiunte da Alex e allora il discorso s’interrompeva o convergeva su altro, ma subito il ragazzo veniva riagguantato da Ursula, sempre più decisa a farne il suo bastone da eggio. Giunti alla radura, la maestosità del San Gregorio si stagliò all’orizzonte. Era un’opera architettonica incredibile e bizzarra, e tuttavia un’armonica fusione tra una cattedrale, un palazzo reale ed un antico castello medievale. Percorsero il prato fino a raggiungere la strada che li portò dinanzi al cancello che apriva la recinzione del podere: un muro di mattoni rossi, di un metro e mezzo di altezza, sovrastato da un’inferriata di due metri; ogni asta, di cui era formata, terminava con una punta e ogni serie di quattro aste era rafforzata da una sbarra in diagonale, ora a destra e ora a sinistra, dalla base a sotto la punta. Il cancello era spalancato, e la comitiva guidata da Casimiro mise piede, per la prima volta, al San Gregorio. Camminarono sul viale con gli occhi per terra, ammirando la pavimentazione a mosaico animato raffigurante il Mondo di Sopra glorificato dal moto perpetuo delle sue sei lune che gli danzano intorno: Calype, Lylienit, Celio, Yalis, Gregor e Theary. Era uno spettacolo stupefacente, degno dei migliori effetti speciali se fosse stata un’immagine elaborata al computer, ma quello non era un effetto cinematografico, era magia. E c’era d’aspettarselo che una simile attrazione avesse sottratto attenzione alle meravigliose aiuole di Ezechiele che circondavano l’intera edificazione e che, in quel periodo, erano un’esplosione di colori, dalle tinte più brillanti a quelle più tenue. Ogni aiola era collegata all’altra per mezzo di una rete di vialetti che offriva lo spunto per romantiche eggiate, anche al chiaro delle lune che, essendo ben sei, a turno, almeno una era sempre disponibile. Il San Gregorio College era un agglomerato di pianta quadrata, ne renderebbe bene l’idea una larga cornice, che costituirebbe il complesso degli edifici, con una torretta posta a ciascun vertice e un solo lato interrotto al centro da una torre più alta; proprio davanti a questa erano giunti i ragazzi alla fine del viale animato. Essa permetteva l’accesso alla “cittadella” tramite un grande portone in ferro col profilo dei quattro draghi in bassorilievo: i Guardiani degli Elementi. Chiamata Torre dei Quadranti, in alto al centro, ospitava l’orologio del Mondo di Sopra, sotto a questo c’era una targa rettangolare con la data del Mondo di Sopra, più sotto ancora vi erano l’orologio terrestre – con l’ora di Roma – e la data terrestre; sul lato destro era montato il quadrante con i sei mesi e i sei segni zodiacali, mentre sul lato sinistro erano raffigurati i quattro elementi.
Dopo aver spiegato alle matricole che l’ingresso era protetto dalla medesima magia fatta sulla porta che appariva sul muro romano, e che tale protezione era solo in entrata, ma non in uscita, Casimiro percosse il portone di ferro col grande anello che pendeva dalle fauci del Guardiano della Terra, il drago sul battente destro. L’occhio del Guardiano dell’Aria, il drago sul battente opposto, roteò all’insù e nella sua cavità apparve quello umano di Ampelio Asnicar, il custode della Torre. La comitiva varcò la soglia e la vista si aprì sul vasto cortile interno. All’interno della Torre, sulla destra si apriva un androne, dove i ragazzi trovarono i loro bagagli, sull’altro lato si accedeva, invece, all’appartamento del custode. Il cortile non era soltanto un luogo di ricreazione, bensì un autentico campo di addestramento per le attività magiche che richiedevano spazio o che avrebbero potuto danneggiare gravemente le aule; anche se con la magia tutto era riparabile, come in qualsiasi mondo del lavoro, gli insegnanti avrebbero preteso una rimunerazione per l’attività straordinaria di riparazione. In quel momento, in due diversi punti del cortile, c’erano due gruppi di studenti del secondo anno; per loro l’anno scolastico era già iniziato da quarantacinque giorni (quasi un mese). Il gruppo con il potere del Fuoco stava sperimentando la prova più difficile di trasformazione. L’insegnamento, condotto dalla professoressa Cimador, era imperniato sulla mutazione nella forma di drago, e ora, giunti alla sesta lezione, dovevano cimentarsi con la prova della combustione. Un draghetto viola stava svolazzando sopra le teste dei compagni quando s’elevò oltre i tetti del college; pronto a sprigionare una lingua di fuoco dalla bocca, tutto quello che uscì fu uno sbuffo di fumo dalle narici. Demoralizzato, atterrò nel cortile e richiuse le ali a pipistrello riacquistando forma umana, mentre il cerchio di compagni sghignazzava. La Cimador li redarguì ed essi si ricomposero accorgendosi in quel momento delle matricole che accedevano al cortile con il loro carico di bagagli. L’insegnante disse al suo gruppo di aspettarla senza fare danni e si avviò verso i nuovi arrivati. La curiosità di conoscere Matilde era tanta, ed essa si avvicinava fissando Casimiro per cogliere un’indicazione dal suo sguardo. «Wow! Questo è fare magia seriamente», disse Ursula, «non vedo l’ora di iniziare!» «Voi come ve la cavate con le varie arti?» chiese a quelli vicini a lei. «Io piuttosto bene. So fare un sacco di cose, soprattutto quelle che dipendono dal mio elemento» aggiunse senza aspettare la risposta dagli altri, perché non era
una vera domanda ma un’introduzione egocentrica. «A proposito, io ho il potere della Terra» continuò, dando uno strattone al trolley la cui ruota sinistra si era incastrata tra due piastrelle, «e tu, Alex, qual è il tuo potere?» Cinse il braccio del ragazzo tirandolo a sé. «Acqua» rispose lui semplicemente, e lanciò un rapido sguardo a Matilde che era accanto a lui, dal lato opposto a Ursula. A Matilde sembrò quasi una richiesta di aiuto e le sue labbra vibrarono in un sorriso appena percettibile. Ursula tirò il braccio del ragazzo e sporse la testa in avanti per vedere meglio Matilde, poi la guardò con superficialità, «E il tuo, Matilde?» chiese. Matilde sentì il gomito di Marta spingere sul fianco e scosse la testa. Non le avrebbe detto che era la gemella elementale, non ancora; a lei non piaceva attirare l’attenzione. Ebbe comunque esitazione a rispondere, perché stava pensando se dirle di avere anche lei il potere della Terra, come a volerla sfidare sullo stesso campo, oppure dichiarare di avere il potere dell’Acqua, elemento in comune col ragazzo a cui l’altra non toglieva gli occhi di dosso, e neppure le mani. «Cos’è, non lo sai ancora!? Non l’hai ancora sperimentato?» sentenziò la brunetta. Matilde serrò i pugni, ma non fece a tempo a risponderle per le rime poiché la professoressa Cimador intervenne al suo posto. Giunta vicino al gruppo, aveva sentito la ragazza in tacchi e minigonna chiamare l’altra “Matilde” e aveva evitato che la gemella replicasse alla provocazione della compagna. «Buongiorno, ragazzi, io sono la professoressa Gemma Cimador e vi do il benvenuto al San Gregorio. Il signor Ovibus vi accompagnerà ai vostri alloggi, potrete scegliere con chi dividere la camera e non vi sarà concesso, successivamente, cambiare la scelta fatta. Vi consiglio vivamente di riposare qualche ora, all’inizio non sarà facile adeguarvi al nostro orologio. Come ben saprete, il nostro giorno dura ben otto ore in più di quello terrestre e, inoltre, un’ora è formata da ottanta minuti e non da sessanta, di conseguenza il vostro ritmo di veglia e riposo dovrà mutare parecchio. La nostra vita giornaliera è un susseguirsi di attività e pause. Questo ciclo è chiaramente illustrato in uno schema appeso in ogni stanza... Il Signor Ovibus vi fornirà le altre informazioni, adesso andate e attraversate silenziosamente il cortile senza disturbare le lezioni. Ci vedremo nell’auditorio.» La Cimador tagliò corto, aveva soddisfatto la sua curiosità di vedere subito Matilde e non rubò ulteriormente il compito a Casimiro. Egli, dal canto suo, non se la prese perché la stessa cosa era successa
anche a lui. Arrivati al punto di incrocio dei due corridoi che conducevano uno agli alloggi delle ragazze e l’altro a quelli dei ragazzi, a Casimiro rimase soltanto da dire alla comitiva che alle ore 23:40 si sarebbero dovuti recare in auditorio per il discorso di benvenuto della rettrice, a cui sarebbe seguita la cena. Raccomandò la puntualità e diede l’ultima informazione: «Su ogni scrivania è stata lasciata una piantina dell’intero plesso scolastico, è una pergamena incantata, vi basterà nominare il posto che intendete raggiungere e sulla mappa apparirà la vostra posizione e il percorso da seguire. Troverete anche un paio di orologi locali, il modello è unisex. È un omaggio del Consiglio dei Cinque», stava per congedarsi quando ricordò ancora un’ultima cosa, «Nell’armadio troverete una divisa e due cambi. Indossatela per venire alla festa. Ricordate che la divisa può essere dismessa solo dopo le 28:00». Matilde sorrise ripensando a Camilla e alla sua allergia alla divisa.
Matilde fece coppia con Marta e occuparono la stanza sulla cui porta d’ingresso era attaccato il numero otto. L’ambiente era sobrio, conteneva il minimo indispensabile: due letti, due comodini, due armadi, due scrivanie e due sedie. Durante il viaggio, però, Lucilla aveva detto ai ragazzi che era possibile utilizzare la magia per apportare delle modifiche agli arredi, senza ovviamente recare offesa al gusto. Tirarono a sorte per scegliere il letto, scegliendo poi gli altri arredi in base alla vicinanza al proprio letto. Iniziarono a disfare i bagagli e sistemare la roba negli armadi. «Guarda» disse a un tratto Marta, «è lo schema di cui parlava la professoressa Cimador». Iniziò a leggere il cartello ad alta voce:
«È pazzesco!» esclamò. Matilde si avvicinò al tabellone e iniziò a contare... «All’anima! Dieci ore al giorno di lezione.» «La terza parte dopo cena!? E chi ha voglia di tornare a scuola dopo cena. Guarda, cinque ore di tempo libero solo prima di andare a letto, ma io sarò già crollata sul banco! Quest’orario è militaresco.» «Io son sicura di non riuscire a reggere questo ritmo, muoio prima» sostenne Marta, lasciandosi cadere a peso sul letto. «Scommetto che hai contato le ore interpretandole secondo il nostro orologio» fece Matilde, tanto per esasperare la situazione. Marta, in un sospiro, chiuse gli occhi e rilassò le spalle. Era proprio così, aveva considerato l’ora di sessanta minuti. «Ohhh! Siete sempre le solite esagerate. Hanno retto tutti, reggerete anche voi» sentenziò una vocina proveniente dal bagaglio aperto di Matilde. La ragazza s’irrigidì e spalancò gli occhi, fissi su Marta. «Cavolo, Sonaglino!» bisbigliò. Si era completamente dimenticata di lei, rapita dalla nuova avventura. «Cavolo, Sonaglino!» la scimmiottò la piccola creatura dall’udito superfino, «Ti sei dimenticata di me.» «L’avevo detto che non ci volevo venire. Spero che ti ricorderai di me durante le pause.» Matilde era mortificata e dispensò a Sonaglino amorevoli riguardi e promesse.
Capitolo 19
L’incontro
Ormai la distanza si era talmente ridotta da risultare insignificante. Non era più la lontananza planetaria a dividere i due gemelli, ma un disimpegno tra il dormitorio maschile e quello femminile. Matilde stava riposando sul suo letto, seguendo il consiglio della Cimador e ancor prima di Lucilla, in attesa che arrivasse il momento di prepararsi per la cena di benvenuto alle matricole. Gli studenti del secondo anno non avevano neppure terminato la prima parte delle lezioni e la cena sarebbe stata tra poco più di cinque ore, cioè alle ventiquattro. La ragazza sorrise divertita, a casa sua quella era l’ora più tarda di andare a nanna. Chiuse gli occhi cercando di appisolarsi. Non riusciva però a rilassarsi. Era irrequieta, e più di una volta s’era tirata su a sedere con l’impulso di uscire dalla stanza. Si sentiva come una calamita cui qualcuno, a tratti, avvicinava una piastra di ferro. Sapeva che lui era lì. Percepiva la sua presenza, sempre più vicina. A un certo punto Marta le scagliò il proprio cuscino. «La vuoi smettere di scattare come una molla? Vallo a cercare e falla finita. Io voglio riposare, qui il giorno è molto lungo e non ho intenzione di crollare stasera alla festa.» «Credi che anche lui stia avvertendo la mia presenza?» «È probabile. Perché no? Se ci riesci tu...»
Tommaso non aveva il problema di adeguarsi al nuovo fuso orario. Era arrivato il giorno prima di Matilde, assieme a Karmis, e aveva ato la maggior parte del suo tempo in biblioteca, rimpinzandosi di nozioni sulla magia, oppure ad osservare le lezioni all’aperto dei più grandi. Consapevole che per la latitanza dei suoi poteri partiva in situazione di svantaggio rispetto ai coetanei dell’altra parte e perfino a quelli del Mondo di Sotto, per non aggiungere a Karmis, si dava da fare per recuperare alla svelta. Non si sarebbe certo data tanta pena se non fosse stato prescelto dalla Profezia, un segno che pesava quanto un macigno. Anche quel giorno era iniziato sui libri, noncurante dell’arrivo dei lontani coevi
dalle comuni origini. Eppure sapeva che tra quei ragazzi ci sarebbe stata anche lei. Non ne era incuriosito, ne aveva già fin troppo di Altea e non ci teneva a confrontarsi con la nuova venuta. Forse il suo problema era essenzialmente quello. Si sentiva inferiore ad entrambe nonostante i recenti risultati: in un solo giorno aveva imparato a volare e a mutare forma. Comunque, quella sera l’avrebbe incontrata, era inevitabile, com’era stato inevitabile il ciclico compiersi della Profezia. Tommaso si era chiesto molte volte se la profezia beccasse alla cieca o se sotto ci fosse un disegno molto più grande. Anche Matilde se l’era domandato. Chissà se era stato il fato o un volere supremo a farla nascere nel Mondo di Sopra. Tommaso vacillò sul libro di erbologia, aperto alla pagina che conteneva la ricetta per preparare la pozione in grado di far germinare velocemente la mandragora. Dopo aver toccato la pagina con la punta del naso e gli occhi serrati per la terza volta, chiuse il libro di scatto e decise di schiacciare un pisolino. I quattro lati dell’intero plesso scolastico erano comunicanti fra loro per mezzo di una serie di aggi, scale, vestiboli e cunicoli. La biblioteca occupava tutto il seminterrato dell’ala ovest, Tommaso salì due rampe di scale e attraversò qualche corridoio fino a raggiungere un’uscita sul cortile interno. Gli alloggi degli studenti si trovavano nell’ala est per cui, come apprese dall’abitudine degli studenti più grandi, tagliò per il cortile piuttosto che percorrere mezzo college dall’interno. Il topo di biblioteca, tale sembrava destinato a diventare, assaporò la boccata d’aria fresca che sembrò ridestarlo, ma tornato all’interno iniziò a fare uno sbadiglio dopo l’altro. Dopo essersi inerpicato per una lunga scalinata, sostenendosi al corrimano, giunse all’androne che separava le due camerate e, prima di voltare sul corridoio di sinistra, si fermò qualche attimo a guardare dalla parte opposta. I suoi occhi s’incollarono sulla quarta porta a sinistra, quella col numero otto. “Spero almeno che tu sia simpatica. Abbiamo del lavoro da fare insieme.” pensò. Poi andò spedito in camera sua, dove Karmis stava ronfando già da un pezzo. Anche sulla sua porta era infisso il numero otto. Matilde sentì lo sguardo del suo gemello fendere la porta, andò ad aprire di scatto pensando di trovarselo davanti. Non c’era nessuno. Si affacciò e spiò il corridoio opposto: vide soltanto la suola di una scarpa sparire all’interno della camera 8, e la porta chiudersi.
Bene o male avevano riposato, di certo non si erano stancate. Adesso era il
momento di prepararsi. Nell’armadio avevano trovato tre divise a testa. Matilde indossò la sua, erano taglie a caso, pensò. Le maniche erano corte, mentre i pantaloni strofinavano il pavimento con due centimetri abbondanti di tessuto. Anche Marta aveva problemi col suo completo, ma il suo inconveniente era l’opposto. Le ragazze si misero a ridere e stavano pensando di svestirsi e indossare qualcosa del loro guardaroba personale quando i capi si animarono. La divisa era magica e aveva la facoltà di adattarsi al corpo che l’indossava. La stoffa si accorciò oppure si allungò, si strinse oppure si allargò, creando un capo su misura. «Aprire una sartoria in questo mondo sarebbe fallimentare.» osservò Matilde. «Hai ragione. Io dico che parole come “lavoro” e “fatica” non rientrano nel loro vocabolario.» «Goditi questa pacchia, perché fra due anni si torna alla normalità, mia cara!» «Sicuramente, per me sarà così, ma tu sei speciale... forse a te permetteranno di rimanere, se lo desideri.» «Ecco, dovevi proprio ricordarmelo.» «Vorresti farmi credere che a volte te ne dimentichi?» «Fingo. È che la cosa mi spaventa, anche adesso... sono terrorizzata all’idea di andare alla festa e di sentirmi addosso gli occhi di tutti.» «Rilassati, chi vuoi che lo sappia oltre a me, Lucilla, credo Casimiro, e qualcuno di quelli che conta...» «E se lo rendessero noto durante la cerimonia?» «O beh, insomma, prima o poi si verrà a sapere! Meglio subito così non ci pensi più.» «Si fa presto a parlare quando la cosa non ci riguarda...» si arresto e guardò l’amica con espressione illuminata. Marta aveva il potere del Fuoco. «Che c’è?» chiese l’altra preoccupata.
«Potresti prendere le mie sembianze e andare al mio posto.» «Ma sei matta? Non pensarci assolutamente» rispose Marta con tono grave e andò decisa verso la propria scrivania. «Faranno sicuramente l’appello.» «Dirai che sei rimasta in camera perché ti sentivi poco bene». Marta non le diede retta e si avvicinò a Matilde con la mappa del college. «È ora di andare. Vediamo come funziona.» disse decisa, srotolando il rotolo di pergamena. «Come si chiama la sala?» Matilde fece la faccia scocciata e andò a leggere sul tabellone delle attività, «Gregor» disse con tono tra il contrariato e l’arrendevole. «Indicami la sala Gregor» ordinò Marta alla mappa. Apparve una minuscola immagine tridimensionale dov’era localizzata la stanza numero otto del dormitorio femminile, Marta la guardò attentamente e poi si stupì. «Ma quella sono io!». Poi, dai piedi dell’immagine iniziò a disegnarsi una linea blu che serpeggiò a lungo prima di raggiungere la meta. «Muoviti Matilde, c’è un bel pezzo di strada, non vorrai tutti gli occhi addosso anche per essere arrivata tardi?» prese la compagna per la mano e se la tirò dietro. Dirigendosi alla scala, Matilde gettò un occhio nel corridoio maschile chiedendosi se lui fosse già andato. Controllando sulla mappa che lo spostamento della minuscola Marta stesse seguendo esattamente la linea blu, le ragazze arrivarono alla sala Gregor. Era la stanza più grande del college dopo la biblioteca e l’archivio, lì si cenava, si tenevano le assemblee e i seminari, si festeggiavano le ricorrenze. Tutto era pronto per la cerimonia d’apertura del nuovo anno scolastico. Lucilla, che era l’organizzatrice, si era messa subito al lavoro dopo aver portato al collage il secondo gruppo di matricole. Era un’ abile scenografa, aveva creato molti addobbi magici per abbellire l’ambiente e creare un’atmosfera gioiosa. Dortel, lo gnomo pasticcere, il più quotato di tutto il Mondo di Sopra, aveva preparato i dolci più squisiti della cucina locale e anche qualcuno preso tra le ricette terrestri che Lucilla gli aveva procurato e tradotto. Ella, inoltre, gli aveva fornito quegli ingredienti tipici del Mondo di Sotto che non potevano essere sostituiti. Trudstel, lo gnomo sommelier e picchia menu, aveva preparato una lista di pietanze e Cucnaif, la gnoma capocuoca, organizzò la sua cucina e i sottocuochi per prepararle. Casimiro aveva pulito la canna fumaria dei sei grandi
camini e dato una mano qua e là. Per quel giorno era stata sospesa la terza parte delle lezioni e i festeggiamenti sarebbero proseguiti fino alle ore ventotto. Prima delle ventiquattro, gli studenti iniziarono ad arrivare alla spicciolata. Per primi, arrivarono gli studenti del triennio, cioè i soli ragazzi nati nel Mondo di Sopra che quindi avevano potuto proseguire gli studi dopo il biennio, e quelli del secondo anno che erano una scolaresca mista. Appresso, cominciarono a giungere anche le matricole. Quando Matilde e Marta arrivarono, la stanza era già gremita e da ogni punto si levava un animato cicaleccio. Poco oltre l’entrata, notarono Alex e Ursula, così andarono verso di loro per unirsi a qualcuno che conoscevano. A quel punto, Ursula si appiccicò al ragazzo come una patella e lanciò a Matilde uno sguardo di sfida che però non ebbe seguito. Si accorse, infatti, che Matilde non la stava guardando, il suo sguardo l’aveva scavalcata e si era fissato in un punto più lontano. Cercò di seguirne la traiettoria, lo stesso fece Marta, e pure Alex dopo che riuscì a staccarsi di dosso il mitile. Dall’altro capo, c’erano due ragazzi, uno più basso e robusto, con i capelli castani tagliati a spazzola, aveva l’aria del simpaticone; l’altro aveva un fisico atletico e un volto angelico, e un gruppetto di ragazzine alle sue spalle era intento a bisbigliare e ridacchiare senza togliergli gli occhi di dosso. Tommaso avvertì il magnetismo e girò di scatto gli occhi. Fu allora che la vide per la prima volta. Non sapeva ancora se fosse simpatica come aveva auspicato, di certo era bella. Non era di una bellezza dirompente come Altea, ma aveva un fascino fresco e armonioso. In breve, la trovò incantevole. Lei lo trovò affascinante, praticamente uno schianto. E questo lo capirono in molti. I due ragazzi sembravano ipnotizzarsi a vicenda; Marta e Karmis dovettero scuoterli per rompere l’incanto. «È lui?» chiese Marta. «Sì» rispose Matilde. «È lei?» chiese Karmis. «Sì» rispose Tommaso.
Arrivò Lucilla, tirò fuori un fischietto di tasca, ma poiché il soffio non produsse alcun suono capì di aver sbagliato fischietto, infatti, era quello che le serviva per
chiamare Biancospino. Si augurò che il cavallo non l’avesse sentito e tirò fuori quello giusto da un’altra tasca. Ottenuta l’attenzione della fiumana, chiese a tutti di prendere posto, mentre indirizzò i nuovi arrivati in una zona riservata al fianco del tavolo dei professori e a quello dei collaboratori stretti, dove Casimiro ed Ezechiele avevano già preso posto. Quando tutti si accomodarono, entrarono i professori seguiti dal Consiglio dei Cinque. Gli studenti si alzarono in piedi, per rispetto, e le matricole li imitarono. I più grandi si scambiarono fugaci occhiate interrogative e si levò un leggero bisbiglio. Era la prima volta, infatti, che un organo importante come il Consiglio dei Cinque prendeva parte alla festa delle matricole che di per sé non era certo un evento di spessore. «Salve a tutti, ragazzi. Per quelli che ancora non mi conoscono, io sono Lucilla. Sono la segretaria scolastica e vostra referente. Oggi, come di consuetudine, siamo riuniti in quest’accogliente sala del nostro prestigioso college per festeggiare l’inizio del nuovo anno scolastico, ma anche per dare il benvenuto ai ragazzi del primo anno» Lucilla li indicò tutti quanti con un ampio gesto della mano. «Adesso erò a presentarveli» così dicendo, lesse l’elenco dei nomi. Quando sentì il nome di Tommaso, Matilde ebbe la conferma che quello era davvero il suo nome e non più solo una sensazione, si volse a guardarlo e vide che anche lui la stava guardando, entrambi distolsero subito lo sguardo. Quando Lucilla terminò di leggere i duecentosettantacinque nomi aveva la gola arsa; mentre cercava sollievo in un bicchiere d’acqua, tutti si alzarono in piedi e iniziarono ad applaudire le matricole. Si propagò un effetto acustico fragoroso che venne placato dopo un minuto da un cenno della Gramegna. Ella si alzò mentre tutti gli altri sedettero. Era il momento del suo discorso. «Ecco, c’è una cosa che Lucilla non vi ha detto di sé» esordì, rivolta ai nuovi arrivati, «Probabilmente qualcuno già lo sa, comunque Lucilla è colei che seleziona le domande di ammissione. Quindi, se siete qua è perché lei vi ha scelto.» Ci fu un breve applauso anche per Lucilla, dopodiché la Gramegna continuò: «Mi presento, il mio nome è Cassandra Ballard Gramegna e sono la rettrice del San Gregorio College. Qualcuno mi avrà anche come insegnante», soffermò un attimo lo sguardo sul gruppo per assicurarsi che avessero afferrato l’ultima frase, «Questo è l’unico posto in grado di fare di voi degli ottimi maghi. Come saprete, da quando è stato attivato il Portale di Ermete, questa scuola è aperta anche ai
discendenti della nostra gente esiliata da Nerasmo nel Mondo di Sotto, e in questo gruppo, di cui Lucilla ci ha letto i nomi, ci sono ottantatré di questi ragazzi. La loro formazione durerà solo due anni – il tempo necessario per il raggiungimento del Master in Magia – dopodiché essi dovranno far ritorno sul loro pianeta, poiché il San Gregorio non ha un numero di posti a sufficienza per garantire loro la continuazione degli studi. Oltretutto, nel Mondo di Sotto i nostri insegnamenti non avrebbero applicazioni. Essi dovranno imparare i mestieri del loro mondo, istruzione che stanno rimandando di due anni per essere qui, e noi li ringraziamo di questa scelta, perché è importante non spezzare il vincolo che ci accomuna, valorizzare e comprendere la propria origine. Com’è noto, noi abbiamo sempre segretamente vigilato e aiutato il Mondo di Sotto, e per i nostri esuli il marchio della doppia emme, vale a dire la conferma dei poteri, è indispensabile per avere il permesso di utilizzare la magia in quel mondo solo per comprovata necessità. Infatti, qualcuno qui ha già avuto a che fare col Garante» ammiccò. Matilde e Marta si guardarono di sottecchi. «In effetti, si trattava di una vera emergenza», ci tenne a precisare per chiarire che non era un rimprovero, «Certo che, da oltre un secolo, la presenza diretta di maghi sul territorio è stata utile per fronteggiare prontamente situazioni di pericolo, senza mai interferire con la politica dei popoli. Devo dire che certi paesi hanno dei governi alquanto singolari, ma questo non è affar nostro finché non minacciano la libertà o la vita di altri. Nonostante questa efficiente peculiarità, noi speriamo che tutti quelli che lo vorranno potranno presto far definitivo rientro nel nostro mondo. Oggi, questa speranza potrà finalmente divenire realtà. Il sogno della riunificazione del Mondo di Sopra potrà concretizzarsi...» Tommaso iniziava a innervosirsi. Gli avevano assicurato il libero arbitrio; la scelta di adoperarsi per quello scopo non sarebbe stata imposta né a lui tantomeno alla sua gemella, eppure la direttrice stava nutrendo di belle speranze la folta platea di studenti. Questo non era giusto. Avevano già deciso per lui. Come avrebbe detto a quei ragazzi che lui si tirava indietro? Altri più coraggiosi avrebbero agognato i suoi poteri per compiere quell’eroica impresa; e lui? Lui che per giunta era nato dall’altra parte, che aveva vissuto le ingiustizie e lo strapotere della stirpe di Nerasmo, con quale faccia avrebbe detto a tutti di aspettare altri centotrentacinque anni perché lui se la faceva sotto? E Matilde? Ancora non le aveva neppure detto ciao. Lei, che invece veniva dal Mondo di Sotto e che poteva fregarsene della faccenda, forse era già pronta a dare il proprio contributo. Cosa avrebbe allora pensato di lui la bella rossa dai voluminosi ricci? Probabilmente aveva bisogno di essere spronato, incoraggiato. Forse era questo che stava facendo la direttrice? Riprese ad ascoltarle sue parole.
«... ma di questo vi parlerà la presidente del Consiglio dei Cinque. Certamente vi sarete chiesti del perché della presenza del Consiglio a questa cerimonia. Lascio dunque la parola alla presidente Gemma Cimador.» «Signore e signori, carissimi ragazzi, stimati professori, sono molto felice di trovarmi qui fra tutti voi. Vi prometto che sarò breve, sento già molte pance lamentarsi e so che non vedete l’ora di abbassare la testa sui piatti raffinati della cucina di Cucnaif», ci fu un mormorio di approvazione, «E state pur certi che ciò che ho da dirvi, motivo della presenza qui del Consiglio, non vi guasterà l’appetito, anzi, il contrario. Mi aggancio al discorso preparatorio della professoressa Gramegna, la quale ci parlava di speranza, di riunificazione. Or dunque, come avete studiato, nel 3100, durante l’allineamento in quartis, si è compiuta la Profezia dei Gemelli che ha prescelto Alyssa Aster e Br... Bruto Nerasmo, ma non intendo rivangare il ato che tutti ben conosciamo, anche perché vi ho promesso che non vi avrei rovinato l’appetito. E poi, quel che è stato è stato, adesso è il presente che ci importa. Dodici anni fa, precisamente il 52° Arsuria 3225, le lune Lylienit e Theary si sono nuovamente allineate e si è nuovamente compiuta la profezia. Carissimi, oggi abbiamo fra noi i nuovi gemelli elementali, gli unici che possono fondere il potere dei loro elementi in un’unica immensa forza, gli unici in grado di riunificare il nostro mondo...» gli occhi della massa di studenti scrutarono tra i nuovi arrivati, quelli nati nel 3225, e il nuovo gruppo scrutò al proprio interno, tranne Matilde e Tommaso che sentirono crescere uno stato di disagio. «Essi avranno bisogno di tutto il nostro sostegno, incoraggiamento, rassicurazione, per progredire e diventare più forti. Per me è un piacere e un onore chiamare vicino a me la signorina Matilde Mangrella e il signor Tommaso Cibei... Prego, cari... venite.» Si alzarono, visibilmente emozionati. I loro cuori iniziarono a martellare nel petto un ritmo più veloce e profondo. Tommaso riuscì a controllare la sua richiesta d’aria concentrandosi sul fatto che non era solo, con lui c’era Matilde e ci teneva a fare la parte del disinvolto. I ragazzi raggiunsero la donna, Matilde si piazzò alla destra della presidente e Tommaso evitò la vicinanza della ragazza fermandosi alla sinistra della donna. «No, No. Non ho intenzione di separavi neppure figurativamente. È meglio che iniziate subito a conoscervi» disse la Cimador. Arretrando dalla sua posizione centrale, allargò le braccia, pose le mani sulla spalla più esterna dei ragazzi e li spinse l’uno verso l’altra. Molti studenti sghignazzarono, poiché sembrò loro una sorta di rito di fidanzamento. L’evento diede a Karmis lo spunto per tentare un approccio.
«Che fai? Questo posto è occupato. È della mia amica Matilde... la gemella» disse Marta con un cenno del capo per indicare l’amica al ragazzo con i capelli a spazzola. «Sto soltanto seguendo le indicazioni e l’esempio della professoressa Cimador. Lascio alla tua amica il mio posto vicino al mio amico Tommaso... il gemello» rispose l’altro, ammiccando allo stesso modo della ragazza. «Permetti?» chiese il ragazzo, accomodandosi senza attendere il consenso. Marta notò che il ragazzo era leggermente in sovrappeso, tuttavia di bell’aspetto. «Accomodati pure... se è per una buona causa...» non le rimase che dire. «Ah, lo è», rispose convinto, «ma scusa la mia irruenza, non mi sono neppure presentato, sono Karmis Horvath», le porse la mano. «Marta Vonwiller», fece lei stringendo la mano del ragazzo. «Sei di qua?», gli chiese. Karmis rimase spiazzato. Era meglio non dirle della sua esatta provenienza. «Sì, certo. Sono di qua» rispose dopo un’impercettibile esitazione. «E tu?» «Terra... Roma». Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Sì, insomma... del Mondo di Sotto, come dite voi.» «Certo, l’avevo capito.» In realtà, lui sapeva ben poco o nulla di quel mondo. Lui era nato e vissuto dall’altra parte e non aveva potuto studiarlo tramite il Grande Osservatorio.
La cena appagò ogni palato, dal più raffinato al più grezzo. Compiacque il solito inappetente e schizzinoso quanto l’ingordo di bocca buona. Dopo l’ultima portata, di dolce e frutta, Marta aveva la testa colma delle chiacchiere di Karmis. La ragazza non aveva mai visto qualcuno mangiare e parlare così tanto, la bocca di Karmis era in continuo movimento, ben articolato fra le due azioni cosicché nulla gli era sfuggito dalla bocca e niente gli era andato di traverso. Matilde e Tommaso parlarono pochissimo, eppure, prima di incontrarsi, erano molte le cose che avrebbero voluto sapere l’una dell’altro. In verità, non si
sentivano liberi di parlare perché erano attorniati dai compagni che, tra l’altro, incuriositi, continuavano a sbirciarli. Così si concentrarono soprattutto sul cibo e di quello parlarono confrontando e contendendosi i piatti migliori dei due mondi. Al termine della cena, però, Tommaso disse alla ragazza che aveva bisogno di parlarle e la invitò a una eggiata nei viali, tra le aiuole fiorite di Ezechiele. Pertanto, i due ragazzi si lasciarono alle spalle la Torre dei Quadranti, promettendo ad Ampelio che sarebbero tornati entro le ore ventotto, orario in cui il custode chiudeva il portone per la notte e terminava il suo lavoro quotidiano. La sera era fresca, ma non fredda. Nell’aria si respirava il profumo dei fiori ancora schiusi. Calype, la più luminosa delle sei lune, era spuntata da poco; bassa e piena, illuminava sufficientemente i vialetti così da risparmiare ai due giovani maghi il tocco per accendere i lampioni. Tommaso era in vena di confidenze e sentiva il bisogno di parlare liberamente con qualcuno, e nessuno meglio della sua gemella poteva essere un interlocutore affidabile e interessato. «Beh, adesso lo sanno tutti. Direi che è stato alquanto imbarazzante. Neppure il tempo di arrivare, di conoscerci...» iniziò a dire Matilde. «Già, senza lasciarci il tempo di consultarci e prendere liberamente una decisione», la interruppe Tommaso che sembrava aspettare lo spunto per tirar fuori tutto, «Ormai siamo nel mirino di tutti, ci terranno sotto continua osservazione. La Cimador ha la speranza di questo mondo diviso, non ci è permesso deluderlo. Forse ha ragione, ma è l’inopportuno tempismo che io critico, che mi fa arrabbiare. Caspita, poteva aspettare!» «Figurati, io sono più disorientata di te. Ho sperimentato presto i miei due poteri, ma ho appreso solo recentemente che essi sono un dono della profezia. Penso che mio padre l’abbia tenuto nascosto sia a me sia al Consiglio per proteggermi, o forse per farmi crescere senza il peso di questa responsabilità finché è stato possibile. Ancora non lo so, di certo mi sono arrabbiata parecchio quando l’ho scoperto...» d’improvviso Matilde s’incupì «Che c’è?» chiese Tommaso «Stavo pensando a come sarebbe andata questa faccenda se avessi deciso di non inviare la richiesta di ammissione al San Gregorio. Cosa sarebbe successo? Mio padre avrebbe insistito fino a convincermi di questa scelta? Sarebbe stato costretto ad informare il Consiglio di avere una figlia “speciale”? La Cimador
sarebbe venuta personalmente a prelevarmi a casa? Perché ho la sensazione di essere stata incastrata?» proruppe Matilde, aprendo al cielo i palmi. «Benvenuta nel club.» «Club?» «Beh, ristretto... molto ristretto... tu e io». Risero entrambi. Stavano percorrendo un vialetto che separava due aiole, una con un grande salice al centro e l’altra cosparsa di tulipani, di vari colori, coltivati a cerchi concentrici, ogni cerchio di un colore diverso. Nei pressi di una panchina, Matilde iniziò a rabbrividire; lontano dalle mura del college, si avvertiva, infatti, un debole venticello. La ragazza chiese di tornare indietro e proseguire la loro chiacchierata nel cortile, ma Tommaso ebbe un’idea. Le chiese se era in grado di far apparire un po’ di legna secca ai loro piedi e, quando lei esaudì tale richiesta, lui diede fuoco ai ceppi. Matilde si sedette sulla panchina immaginando di essere davanti al fuoco in un camino. «Quanto sei brava con la magia?» chiese ad un certo punto Tommaso, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. «Penso di essere abbastanza... bravina…», fece lei senza eccedere, «…per quel che è consentito sperimentare sulla Terra. Sono sicura di avere molto da imparare.» «E io più di te» disse lui in tono grave. «Non ci credo.» «Dico davvero. Da dove vengo io la magia è stata bandita. Ho scoperto di essere un mago solo da pochi mesi.» Lei lo guardò scettica. Era assurdo ciò che le stava dicendo, lui era del Mondo di Sopra. «Promettimi che ciò che ti racconterò rimarrà tra di noi» disse guardandola seriamente. «Perché dovrei?» «Perché sei la mia gemella e tu puoi sapere cose che, per il momento, è meglio tacere ad altri.» «D’accordo» promise Matilde, stuzzicata dalle ultime parole di lui.
«D’accordo» ripeté Tommaso. «Io e Karmis veniamo da Nebrus, l’altra parte del Mondo di Sopra, quella usurpata da Bruto, per intenderci.» «Non è possibile! Ti stai prendendo gioco di me» lo interruppe seccata. «NO. È vero. Tempo fa, la Resistenza ha scoperto che il campo di forza creato da Nerasmo, che separa le due sponde, arriva fino ad una creta profondità nel sottosuolo. Al di sotto di quella quota inizia ad indebolirsi fino ad esaurirsi del tutto. Così hanno scavato una cavità molto profonda e poi una galleria che, dopo aver superato la linea del confine, risale fino in superficie dall’altra parte. Bada bene, di questo sono a conoscenza solo il Consiglio, Lucilla e Casimiro, oltre a Karmis, ovviamente.» «Scusa, ma se ciò che dici è vero perché dovrebbero contare su di noi per questa benedetta unificazione? Basterebbe scavare un grande tunnel... un traforo, e il gioco è fatto. Con la magia, poi, sarebbe uno scherzo» disse Matilde con ragion di logica. «Un aggio obbligato che limiti la libertà di circolazione? Ma dai, non dirai sul serio! E poi che ne sarà del cielo? Se il cielo non sarà sicuro i draghi non potranno volare serenamente. A proposito di draghi, devo proprio farti conoscere Æronmì. Lui non sa niente di te, crede che la mia gemella sia solo l’altra.» «Come sarebbe l’altra? Non capisco», fece Matilde voltando la testa verso di lui, «Ahi!» guaì ritraendo di scatto le mani lasciate immobili sul fuoco. «Non te l’hanno detto?» le chiese. Matilde scosse la testa. Tommaso, con disappunto, scosse anch’egli il capo. «Non siamo solo noi, tu ed io. Siamo in tre. Tre gemelli.» «Ma che stupidaggine, se io ho due poteri e tu hai gli altri due, il terzo gemello...?» «Ha i tuoi stessi poteri. È una strana faccenda, non si sa con certezza come sia accaduto. Il Consiglio pensa che a causare questa anomalia sia stata la meteora che è sfrecciata fra le due lune nell’attimo esatto in cui queste raggiungevano l’allineamento. Sta di fatto che ho un’altra gemella con i tuoi stessi poteri, ma non basta, la disgrazia vuole che si tratti dell’ultima discendente di Bruto.» «Una ragazza, eh?» mormorò Matilde, che stava riesumando i suoi sogni
trascurando la parentela della rivale onirica. «Dimmi, è forse una tipa alta con lunghissimi capelli neri?» chiese, ma era già sicura della risposta. «La conosci!?» quell’espressione equivaleva ad una conferma. «Non proprio. Diciamo che si è intrufolata nei miei sogni per portarmi un preciso messaggio. Ha detto che devo lasciarti stare perché... “sei SUO!”» enfatizzò l’esclamazione. «Sicura fosse un sogno e non un incubo?» «Per me o per te?» lo stuzzicò Matilde. «Sarei un pessimo bugiardo se ti dicessi che è carina. Lei è bellissima, ma altrettanto cattiva... O perlomeno è quello che dicono tutti, ma c’è qualcosa in quella ragazza che non riesco a mettere a fuoco. Comunque, per ora è meglio non fidarci della nostra gemella.» «Cos’è, la griffe dei Nerasmo non le sta attaccata?» chiese Matilde, martellata alla testa da quel superlativo. Lui fece spallucce. «L’hai conosciuta?» A Tommaso sfuggì il tono, non capì se lei gli avesse fatto una domanda o se stesse facendo un’affermazione. Poco valeva, perciò annuì. Lei sembrò aspettarsi di più e Tommaso iniziò a raccontare, non certo per accontentarla, ma perché era ciò che aveva già in mente di fare quando l’aveva invitata a uscire. Parlò di tutto: della vita a Nebrus e dell’organizzazione del governo, dell’epurazione della magia e della reclusione dei maghi, dell’incontro con Teodoro e della Resistenza, della crudele Argelia e delle vicissitudini con Altea, e, infine, dell’incontro col Guardiano dell’Aria. Intanto il fuoco ai loro piedi si era spento e i ragazzi si accorsero che era ora di tornare. Fecero sparire dal vialetto i resti combusti e s’incamminarono.
Capitolo 20
Il decotto
«Direi che ci siamo. Per me è pronto. Tu che ne dici?» chiese Alcherius a Zantor rimestando le erbe nella grossa pentola da cuoco. L’altro si avvicinò e cacciò il naso dentro il pentolone, a più riprese annusò l’intruglio scuro che gorgogliava pacatamente. «Uhm, ha un odore intenso. Anch’io dico che è pronto» asserì. «Bene, non ci resta che farlo freddare, poi filtrarlo e poi... provarlo», Alcherius accennò a Mulac che stava aiutando Miranda a sistemare i tavoli. «Guarda che ti ho sentito. Non temere, non scapperò attorno ai tavoli. Mi offro spontaneamente e sarà meglio per voi due che funzioni.» li additò con mano ferma. «Beh, non lo biasimo», disse Zantor rivolto ad Alcherius, «questa ricetta l’abbiamo scovata in un taccuino di cui ignoriamo l’autore e, come se non bastasse, la fine della pagina è strappata» si strinse nelle spalle. Mulac li guardò con sospetto. «Ecco, dovevi proprio dirglielo?» l’altro si finse indispettito. «Ehi, un attimo... mi state dicendo che non sapete se la formula è completa?» «No, No. Tranquillo. La parte degli ingredienti e del procedimento è completa, l’abbiamo trascritta fedelmente, solo che s’intuisce che è stata scritta una postilla in fondo alla pagina, perché si riesce a leggere la parola “post scriptum” e poi “Il preparato così ottenuto agirà sulla memoria dell’individuo con l’eff...”. Sicuramente niente d’importante, magari solo un suggerimento, un accorgimento... niente di che» lo rassicurò Zantor. Nonostante tutto, quando la bevanda fu pronta, Alcherius ne versò due dita in un bicchiere e Mulac si avvicinò, coraggiosamente, al bancone. Tirò un sospiro, chiuse gli occhi e lo tracannò. Mulac non riaprì gli occhi, anzi, li strinse forte, aprì la bocca e cacciò fuori la lingua con un verso di disgusto battendo le mani
sul piano del bancone. «Bleah! È pazzescamente amara. Ma che diavolo ci avete messo?» riuscì a dire a fatica. Tutti i presenti si avvicinarono preoccupati. Come avrebbero fatto a somministrare l’antidoto alla popolazione camuffandolo nei cibi e nelle bevande? Quella era, all’inizio, la loro idea, ma ora sembrava improponibile: avrebbero perso tutta la clientela prima ancora di raggiungere lo scopo. Mulac, però, iniziò a scoccare la lingua contro il palato, e via via che assaporava, la sua espressione di disgusto mutava in apprezzamento. «Però! Alla fine ti resta in bocca un buon sapore, gradevolmente aromatico. Amaro, ma aromatico come un... amaro.» «Magari sorseggiandolo... Aspetta, me ne verso un altro goccio.» Verificò che degustandolo, diluito con la saliva, ogni piccolo sorso stuzzicava piacevolmente il palato. «Questa sì che è una buona notizia, e visto che ci hai preso gusto, questa è meglio che me la riprenda.» disse Alcherius sottraendogli la bottiglia. Risero tutti. «Quando farà effetto?» chiese Emma impaziente di vedere il marito riacquistare consapevolezza del suo potere. «Credo almeno un’ora. È il tempo che, generalmente, impiegano le pozioni che devono stimolare il cervello» disse Zantor. Alcherius non intendeva aspettare che la pozione fe effetto e propose di non perdere tempo nell’attesa, ma di discutere subito il modo in cui avrebbero somministrato il liquido alla popolazione. Egli per primo suggerì di offrirlo ai clienti, come amaro della casa, a conclusione dei pranzi e delle cene. Gli trovò anche il nome: “Amaro Ventuno”, perché fatto con ventuno erbe differenti. Miranda, però, osservò giustamente che quella soluzione non era consigliata per i ragazzi e ancor meno per i bambini. L’idea migliore venne a Valdem. Egli era un medico e disse che l’avrebbe propinata come medicina ai piccoli pazienti, ma anche ai grandi, in aggiunta alla vera medicina. Si sa, le medicine sono spesso amare. «Come faremo con quelli che godono di buona salute? Non possiamo certo
aspettare che tutti si ammalino» disse allora Condef. «Ci vorrebbe una finta epidemia da curare», mormorò qualcuno, ma subito ritrasse, «Niente da fare, troppo rischioso. Il Governo ne verrebbe immediatamente a conoscenza.» «Caramelle!» gioì Radalise. «Caramelle... amare!?» gli altri storsero il naso. «Certo, ai ragazzi piace lanciarsi le sfide. La faremo diffondere a scuola dai nostri figli. Sarà la caramella dei duri. Bisogna aver fegato per succhiarla, perché è pazzescamente amara – ripeté la frase di Mulac – ma alla fine ti lascia in bocca un buon sapore.» «Sì, potrebbe funzionare», disse Zantor, «l’aggiunta di un addensante e di un gelificante non dovrebbe interferire sull’azione della formula originale. Proviamo.» «Bene, se la cosa funzionerà, potremmo mettere le caramelle in vendita al chiosco di Piossasco. Quel posto è sempre pieno di giovani. Il proprietario lo conosco bene, è uno dei nostri» propose Miranda. Mulac non aveva detto una parola. Non aveva partecipato alla pianificazione del progetto della Resistenza. Era rimasto in disparte, concentrato e vigile sulle sue sensazioni per cogliere l’attimo in cui si sarebbe manifestato l’effetto del decotto. Era ato il tempo d’attesa pronosticato da Zantor. Attese ancora, e poi ancora. Non succedeva niente. A dire il vero non aveva la più pallida idea dell’effetto che avrebbe avuto l’intruglio né in che modo avrebbe dovuto avvertirlo. Forse era già tutto successo senza il minimo sentore, ora doveva solo provare a vedere se gli riusciva qualche magia.
Capitolo 21
Chi trova un amico...
Erano trascorsi tre mesi, un periodo vissuto intensamente all’insegna dello studio e del buon rendimento. I due gemelli imparavano in fretta il più possibile, ma come un obbligo con una scadenza imposta. La loro condizione di prescelti li impegnava a emergere dal branco, perché era questo che tutti si aspettavano o perlomeno ciò di cui essi erano convinti. I primi della classe dovevano eccellere in ogni arte e disciplina, e i rari casi in cui i loro insuccessi o errori furono oggetto di sguardi perplessi o di sciocche derisioni erano stati vissuti come una sconfitta, piuttosto che in modo costruttivo traendo insegnamento dai propri sbagli. Questa situazione di disagio e di stress, tuttavia, durò solo per i primi due mesi. Poi, un bel giorno, i due ragazzi si guardarono e si dissero con convinzione che era ora di cambiare registro. Dovevano fare solo quello che si sentivano di fare, né più né meno degli altri. E se qualcuno si aspettava di più non era un problema loro. E se la profezia li aveva scelti, neppure quello era un problema loro. Nel corso del mese successivo, con l’applicazione del nuovo proposito, si resero conto di essere stati loro stessi gli artefici delle proprie ansie. Da allora tutto procedette con più serenità e crebbe anche la loro voglia di imparare, riuscendo perfino a divertirsi. Quando Teporis stava per finire, Matilde e Tommaso avevano già sostenuto otto esami, quattro in più rispetto agli altri studenti del loro anno: due prove teoriche di erbologia, un test di divinazione, due prove pratiche di pozioni e filtri, una di volo strumentale e due individuali sul proprio potere. Con l’arrivo di Primus, presero le cose con più calma. Come succede spesso, nelle novità ci si butta a capofitto e con entusiasmo, poi si rallenta. Questa distensione fece emergere ai loro occhi una realtà sottovalutata; presi dai propri interessi avevano trascurato le amicizie e non si erano resi conto dei malumori che aleggiavano intorno da un po’. A dire il vero, Tommaso ci badò di meno poiché Karmis, l’unico amico in quell’ambiente, non era tipo da tante recriminazioni e, dopo i primi insuccessi nel proferire con l’amico, sfoderò il suo savoir-faire per crearsi nuove amicizie e per lanciarsi alla conquista di Marta.
Matilde, al contrario, reagì come chi all’improvviso si ricorda che l’altro ieri aveva un sacco di cose da fare e non ne ha fatta nessuna. Si rese perciò conto del risentimento stampato in faccia ai suoi amici e di cui era lei la causa. In prima linea, con tanto di broncio, vi era Sonaglino. La minuscola creatura della sveglia, che già aveva abbandonato controvoglia la tranquilla routine della casa romana, pretendeva un po’ di considerazione in più che non l’essere stata abbandonata su di un comodino, rilegata alla mera funzione di soprammobile. Alex, invece, aveva preso a guardar di sbieco il ragazzo biondo costantemente appiccicato alla bella ricci-rossi e, per sondare la reazione della gemella elementale, per una quindicina di giorni aveva finto di cedere alla fastidiosa vischiosità di Ursula. La tattica non produsse alcun effetto e il ragazzo si liberò con grande fatica dell’espediente, serbando un costante malumore. Marta avrebbe voluto trascorrere più tempo con Matilde per parlare delle cose più disparate, nell’ottica della nuova esperienza, delle nuove sensazioni e, non per ultimo, per chiacchierare dei bei tipi che circolavano nel college, ma Matilde ava la maggior parte del tempo sui libri e partecipava, con Tommaso, a tutti i laboratori di magia. Ciò faceva arrabbiare Marta, perché in un posto in cui il giorno durava trentadue ore e un’ora era formata da ottanta minuti, non reggeva la scusante di non aver tempo per altro. E quando si ritiravano nella loro camera, per sospendere le attività come imposto dal regolamento orario, erano entrambe molto stanche – proprio per via della durata del giorno, ritmo a cui era difficile di abituarsi per un terrestre – che crollavano di sasso sui letti, e i discorsi, con poche parole strascicate, si spegnevano sul nascere. E Camilla, allora? Quella povera ragazza aveva atteso con pazienza, e già questo era preoccupante, l’arrivo della prima lettera di Matilde, ma non ricevendo nulla aveva iniziato a tormentare Ivan Mangrella. Aveva quindi scritto lei la prima missiva che il padre di Matilde fece recapitare alla figlia. In seguito, non ricevendo risposta, gliene consegnò una seconda e poi una terza. Le lettere giacevano nel cassetto della scrivania di Matilde, però le buste erano aperte, perlomeno aveva trovato il tempo di leggerle. Matilde dovette rivedere le proprie priorità, ritagliando del tempo agli impegni per ricucire i rapporti di amicizia. Come una brava sartina, iniziò a imbastire le varie pezze per indossare il suo nuovo vestito. Iniziò col primo proposito di dedicare costantemente parte della prima pausa della giornata alla nanognoma Sonaglino, che considerava come una specie di fata madrina. Lasciò che la minuscola creatura sfogasse il rancore e quando la pentola a pressione si svuotò
completamente del vapore, tutto tornò alla normalità. Matilde le lesse le lettere di Camilla, tralasciando qualche aggio troppo personale, e dopo l’espressione di rimprovero di Sonaglino, che la guardava di sbieco a braccia conserte sbattendo ritmicamente il piede sulla scrivania ove lei l’aveva posta, decise di scrivere subito all’amica e, per farsi perdonare da questa, riempì ben quattro fogli su ambo le facciate, iniziando con le sincere scuse. Dopodiché, non ebbe bisogno di servirsi di una scopa di servizio dal ripostiglio delle scope, non le occorreva un mezzo per raggiungere la casa di Ovibus e consegnare la lettera che il custode avrebbe portato all’ufficio postale. A Marta, invece, dedicò i dopocena e un’ora di chiacchiere prima della nanna. Sotto le calde coperte, protette dal primo freddo che Primus aveva portato, spettegolavano ad oltranza finché il sonno non aveva la meglio su di loro.
Capitolo 22
Tempo di shopping
L’acquazzone era cessato all’improvviso così com’era arrivato, ed era apparso, come per incanto, uno spettacolare arcobaleno che valicava il College e si frammentava tra i rami spogli dei boschi di fitolicastro. Matilde e Marta guardarono meravigliate quell’arco perfetto dai colori vividi che sembrava essere stato pennellato nel cielo da Matisse. La terra era coperta da un manto di foglie bagnate che luccicavano sotto i timidi raggi di sole riusciti a forare le nubi grigie. Macchie di colore, dalle varie tonalità dei rossi e dei gialli, che a breve sarebbero state ricoperte dalla neve, come una gomma che cancella tutto lasciando il foglio in bianco. ato lo stupore per il fenomeno atmosferico, le due ragazze si ricordarono di essere andate alla finestra solamente per accertarsi che fosse spiovuto, ma poi l’arcobaleno sembrò uscire a proposito per coronare le loro intenzioni. Gli studenti del primo anno, infatti, erano esagitati per l’avvenimento del giorno: avevano appena ricevuto la tessera personale con l’immagine traforata del vessillo del Mondo di Sopra, che avrebbe permesso al possessore di accedere ai due portali e agli uffici. Ovviamente, non era questa peculiarità della tessera la fonte del loro eccitamento, bensì quella che essa era stata caricata di un valore spendibile. I voti ottenuti nelle materie scolastiche si tramutavano in credito monetario. Più alti erano i voti, maggiore era il credito che finiva sulla tessera. Questa gratificazione costituiva un’eccellente incentivazione allo studio. Un attimo dopo che la pioggia era cessata, era iniziato l’assalto al ripostiglio delle scope. «Visto? Alla fine ce l’hanno fatta.» disse Matilde «Sei convinta che siano stati loro? Non credo siano così bravi. Era troppo forte, è spiovuto da sé» sostenne Marta. «Erano una ventina, li ho visti sotto i portici. Erano molto determinati nonostante l’acqua che schizzava ovunque.» «E non ti hanno chiesto di unirti a loro?»
«Mi sono defilata in tempo, prima che mi vedessero, almeno credo.» Marta scosse la testa, ma ella si giustificò «Poi dicono che sono la solita secchiona.» «Ma smettila, se te lo chiedono è diverso. Non sei certo andata là dicendo ci penso io.» «Ormai avevano già iniziato. E poi avevo altro da fare.» «Adesso sbrigati, però, o non rimarrà neppure una scopa», disse Marta affrettandosi verso la porta, «Lo so che a te non serve...» era già fuori e Matilde non capì le successive parole. Le andò dietro di corsa e si scontrò con Tommaso che sopraggiungeva, anch’egli velocemente, dalla parte opposta del corridoio. Nessuno dei due riuscì a frenare in tempo e la collisione fu inevitabile; si ritrovò l’una nelle braccia dell’altro e, dopo un attimo di sconcerto, si respinsero con ritegno sistemandosi, meccanicamente, gli abiti e i capelli. Il sinistro non era ato inosservato, Alex ne era stato il testimone casuale. Aveva un’ espressione contrita che non sfuggì a Marta. Il ragazzo con i lunghi capelli neri e il potere dell’Acqua, si voltò, senza salutarli, incamminandosi verso l’uscita dell’ala degli alloggi. Poi ci ripensò e si voltò di scatto: «Perché non ti sei unita a noi?» chiese senza preamboli, rivolto alla ragazza dai ricci rossi. La domanda colse Matilde di sorpresa. Cosa aveva voluto dire? Era una semplice domanda oppure l’aveva vista are? “Forse mi ha visto!”, pensò ella, a giudicare dallo sguardo severo. «Ce l’avete fatta benissimo da soli... io avevo un impegno» si giustificò. Era vero, non gli aveva mentito: aveva avuto intenzione di scrivere a Camilla, ma poi s’era messa a chiacchierare con Marta. «Certo che ce l’abbiamo fatta, cosa credevi», scosse la testa, «Non tutti cercano solo il tuo aiuto, c’è a chi farebbe piacere la tua compagnia... ogni tanto» disse più forte le ultime parole mentre già s’era incamminato a lunghi i. Lei rimase a bocca aperta, si voltò verso Tommaso, ma costui, che nel frattempo era stato chiamato da Karmis, fece spallucce e se ne andò. «Adesso basta, sono proprio stufa, sempre la solita storia... che dovrei fare... clonarmi?» s’infuriò con l’amica, l’unica rimasta lì, che la prese per mano e se la tirò dietro, sempre col timore che finissero le scope, provando a darle chiare
risposte. «Per forza, ti vede sempre con Tommaso...» «Ma quando mai!» «Quando? Beh vediamo, a parte adesso che gli sei finita tra le braccia, direi...» «E dai, non fare la deficiente! L’hai visto che è stato un incidente.» «A dire il vero m’è sfuggita la dinamica, ma lo so che non è stato intenzionale...», Marta s’arrestò di colpo, «Ma allora sei proprio tonta! Non l’hai capito che è geloso?» «Di Tommaso!?» «No, di mio nonno in carriola. Certo, di Tommaso! Lo dici con quel tono, come se stessi parlando del gobbo di Notre-Dame. Ma dico: l’hai mai guardato bene o hai le pezze sugli occhi? Qui dentro c’è un manipolo di ragazze pronte a lanciarti qualche maledizione, se non temesse il tuo potere e il giudizio del Consiglio. «Lo ammetto: è piuttosto belloccio.» «Esagera pure.» «È il mio gemello elementale, lo so», rimarcò “elementale”, «ma ormai lo considero proprio come un fratello.» «Che spreco! Se vuoi proprio un fratello potresti adottare quel rompiscatole del mio e, su Tommaso, farci un ripensamento.» «Non credo di interessargli...» rispose Matilde lasciando in sospeso la frase. Il resto lo pensò, non poteva farne parola con Marta. Pensò all’altra gemella e alle parole di Tommaso: “Sarei un pessimo bugiardo se ti dicessi che è carina. Lei è bellissima...” «Va be’, allora chioma selvaggia non ha un rivale, anche lui è un bel bocconcino...» disse Marta, ma aveva ormai la mano sul chiavistello del ripostiglio e già pensava ad altro.
«Ma non andava dietro a Ursula?» Marta scosse la testa, afferrò l’ultima scopa rimasta e guardò Matilde con comione: «Sei proprio tonta.» «Grazie!» «Sì, grazie a te c’è rimasta l’ultima scopa, ma tanto a te non serve. Ci vediamo giù.» Dai ripiani e da tutte le rastrelliere, le scope erano sparite, tranne un’unica rimasta nell’angolo remoto a sinistra che pareva lasciata in castigo a espiare colpe non sue. “Volendo, neppure a te” pensò Matilde. «No, aspetta» la fermò. Non voleva arrivare prima di lei e rischiare d’imbattersi in Alex. Aveva bisogno di una spalla. «Vengo con te, però non fare cose strane.» «Salta su» disse Marta, le sue parole ostentavano sicurezza. Proprio così, almeno in quello sapeva di essere più brava di Matilde. Non per niente era stata ingaggiata dalla prima squadra di volo acrobatico, ma nonostante ciò Matilde si avvinghiò alla vita dell’amica impedendole quasi di respirare. «Rilassati, fifona... non ti farò cadere.» L’aria era fredda e le sciarpe tirate su a coprire il naso non evitarono di farlo diventare rosso come una ciliegia. Lasciata la scopa al secondo deposito, le due ragazze proseguirono a piedi lungo il Cammino di Calype. I primi negozi che arono erano quasi deserti: gli animaletti da compagnia e i copricapo da mago riscuotevano poco interesse, tantomeno i liquori e gli amari. La boutique di borse era una meta prettamente femminile: una bella borsa magica, come quella di Merlino, praticamente senza fondo, è il sogno di tutte le donne. Cosa non vorrebbero farci stare dentro! Mentre continuavano a scendere, giungeva alle loro orecchie un brusio che man mano si trasformò in parole meglio distinte. Sapevano cosa aspettarsi dopo la curva: l’assalto al negozio di bacchette magiche. L’Emporio della bacchetta del sig. Tripp era gremito di studenti e un altro centinaio, almeno, attendeva per strada di poter entrare. In quella moltitudine Matilde notò subito Alex, era impossibile non individuarlo all’istante poiché la strada era in discesa e lui uno spilungone. Anche lui vide lei. «Guarda che coda!», esclamò Marta, «Non ho nessuna intenzione di mettermi in fila. Facciamo prima un salto al Bazar delle Scope» suggerì la ragazza. Matilde non se lo fece ripetere e superarono la coda e lo sguardo furtivo del ragazzo.
«Se preferisci, fermarti pure... vado da sola», la stuzzicò Marta. «Non mi serve la bacchetta, lo sai. Vengo con te.» rispose secca. Effettivamente era così: lei e Tommaso avevano avuto la loro bacchetta prima di tutti gli altri. Era un bastoncino speciale forgiato per l’avvenimento, fondendo l’anima di due bacchette per ottenerne una bifasica col potere di due elementi. Quella di Matilde aveva una punta azzurra, color dell’Acqua, e una ocra scura, color della Terra. Quella di Tommaso aveva una punta rossa, color del Fuoco, e una blu, color dell’Aria. Le bacchette altre non sono che un prolungamento dell’arto di chi le adopera, predisposte ad incanalare l’energia che fluisce dalle dita e convogliarla sul bersaglio con più forza e precisione. La bacchetta è uno strumento indispensabile per il principiante che, però, dovrà aver acquisito una certa dimestichezza con i propri poteri prima di adoperarla, per evitare pericolose canalizzazioni dei flussi magici. I maghi esperti non ne fanno più uso. C’era un’altra bacchetta, però, che Matilde voleva acquistare a tutti i costi. Una bacchetta oggetto di tante discussioni con Sonaglino. Una bacchetta che avrebbe riposto con cura in valigia tra le prime cose da riportare a casa: la tanto agognata bacchetta-cuoco. Marta, che non si era mai cimentata a fornelli e non valutava un suo impegno futuro in tal senso, ambiva, invece, ad avere una scopa tutta sua e magari con essa uscire direttamente dalla finestra della sua stanza. Forse non l’avrebbe portata a casa, ma in caso contrario sarebbe stata solo un souvenir inutile da adagiare in bella vista a ricordo delle emozioni vissute. Marta sorrise al pensiero di svolazzar di notte nel cielo romano durante la festa di Halloween, pensò anche alla Befana con le scarpe tutte rotte e le note del ritornello popolare batterono mute nella sua bocca. Marta diede un’occhiata alla vetrina e fece una smorfia, «Uhm, qui non c’è. Forza, entriamo a chiedere.» Il bottegaio, un uomo tarchiato e rotondo da assomigliare ad un uovo con le gambe, s’avvicinò con un sorriso cordiale, «Buongiorno, ragazze, immagino che siate qui per la vostra prima scopa magica.» Matilde si premurò di additare la compagna. «Ah, è per questa graziosa signorina. Aveva già in mente qualcosa?» «Sì», disse euforica Marta avendo individuato la sua preferita, «vorrei quella», la
indicò con decisione. Il signor Galliver, questo era il nome del bottegaio, si schiarì due volte la voce e lanciò uno sguardo divertito al suo commesso, quest’ altro scosse la testa e riprese a spolverare le mensole. «Bella scelta, la signorina ha l’occhio clinico. Tuttavia, le consiglio quest’altra...», tirò fuori da un cesto una delle cinque scope che conteneva, «è una mediana, e per una principiante va più che bene. L’altra è una scopa piuttosto... seria» disse riferendosi a quella scelta da Marta. «Ma anch’io sono una ragazza piuttosto... seria» controbatté l’acquirente. «Nessuno lo mette in dubbio, ma quella scopa è per veri esperti, forse un giorno...» «Forse un giorno? Forse lei non sa con chi sta parlando!» intervenne Matilde, che non riuscì a trattenere uno sbuffo sarcastico. «Dovrei?» «Certo, dovrebbe! Ha qui dinnanzi la nuova campionessa di volo acrobatico. La regina dello spazio aereo...» Marta, imbarazzata, la fece tacere assestandole una gomitata al fianco. «Accipicchia, la signorina Vonwiller! Poteva dirmelo subito. Ho letto tanti articoli sulle gare studentesche, però non mi è capitato di vederla in un primo piano ma solo in alcune foto che la ritraggono mentre svolazza in alto...» «Non le piace farsi fotografare, ma le assicuro che è proprio lei» confermò Matilde. «In tal caso le cose cambiano... Però si tratta sempre di una scopa un po’ caruccia... Si sa, è una scopa avanzata.» Il cuore di Marta prese a palpitare. Quale cifra le avrebbe sparato? Lei aveva duecentoventicinque crediti e una voglia matta di possedere quella scopa. «Vale duecentodieci crediti» concluse Galliver, il quale aveva già prelevato la scopa e la rigirava sotto gli occhi luccicanti di Marta. «Beh, considerando che è avanzata potrebbe farci un piccolo sconto» azzardò Matilde, giocando sul doppio senso dell’aggettivo. Il bottegaio le lanciò
un’occhiataccia e si rivolse a Marta cambiando espressione, «È chiaro che la sua amica non ha la più pallida idea del valore di quest’oggetto. Signorina Vonwiller, le sto facendo un ottimo prezzo proprio perché si tratta di lei. Questa scopa vale duecentonovanta crediti. Cosa decide?» Marta tentennò, mosse le dita come se stesse facendo i conti, ma c’era ben poco da contare, la sottrazione era semplice: le sarebbero rimasti solamente quindici crediti. Doveva mantenere una media alta per recuperarli in fretta, nel frattempo avrebbe potuto soddisfare solo capricci economici. «Se per te quella scopa è così importante, è giusto che tu abbia quella scopa!» esplose Matilde. Marta la guardò con tanto di occhi, il signor Galliver, sobbalzando, indietreggiò d’un o, e il commesso smise di spolverare per osservare la scena. «Il 36 Teporis mi sono scordata del tuo compleanno e finora, non avendo la tessera, non ho potuto farti un regalo. Perciò la scopa te la regalo io, almeno sono sicura di farti cosa gradita. Avrei voluto anche l’effetto sorpresa, ma... pazienza.» «Matilde, sei matta! Sono duecentodieci crediti...» «E allora? Cosa me ne faccio di ottocento crediti se non posso rendere felice un’amica?» Il bottegaio e il commesso si guardarono sgomenti. Nessuno studente aveva mai totalizzato più di trecento crediti. Il bottegaio s’insospettì, ma mentre già meditava d’informare la direttrice poiché temeva una frode, gli riecheggiò nella mente il nome della ragazza. “Non sarà mica quella Matilde...?”. La conferma arrivò subito. «È deciso: la vogliamo» disse Matilde, porgendo la sua tessera al signor Galliver. L’uomo la prese, lesse il nome e bloccò gli occhi sulla ragazza. La fissò con la stessa intensità, lo stesso stupore e la stessa speranza con cui il 52° Arsuria del 3225 osservò l’eclisse. Matilde agitò una mano, come per salutare, per disincantare l’uomo. «Signor Galliver... qualcosa non va?» Aveva capito benissimo la reazione dell’uomo, ormai si stava rassegnando alla sua fama, però trovava ancora scomode quelle situazioni.
«Signorina Mangrella, è un onore per me fare la sua conoscenza» balbettò il bottegaio. Alla sua destra spuntò una mano, era del commesso, protesa in avanti per stringere quella di Matilde. «Sono Zagharia Asnicar, nipote del custode. Riponiamo tutti molta fiducia nei nuovi gemelli», rimase insoddisfatto delle sue parole, avrebbe voluto dire qualcosa di più significativo. «Già...» fece Matilde, era stufa di sentirselo dire, le parole cambiavano ogni volta ma il concetto no. Galliver colse nel tono il peso dell’onere che incombeva sulla studentessa. «Zagharia, non infastidire la ragazza. Su! Dai! Vai a finire ciò che stavi facendo» e agitò una mano con eloquente significato di andare. «Quindi… Concludiamo?» fece il bottegaio nell’atto di accettare la tessera. Marta sussultò a bocca aperta senza emettere suono, poiché Matilde la bloccò all’istante. «Certo! E non c’è bisogno che me la incarta: credo che la proverà subito, ma da so...» non riuscì a finire la frase che Marta le saltò al collo e la strinse forte. «Grazie! Grazie! È il regalo più bello che abbia mai ricevuto.» «Naturalmente, tu sarai la prima a salirci...» “Ecco, ti pareva! Stavo proprio per dirle che ci sarebbe andata da sola...” pensò Matilde che si era vista interrompere la frase. Ma tanto valeva, non avrebbe potuto dirle di No. Galliver intanto aveva inserito la tessera nella millimetrica fessura sul coperchio di un’urna tonda e trasparente a cui aveva posto davanti il bene in vendita, correggendo il prezzo sul cartellino col nuovo importo pattuito. All’interno dell’urna apparve l’immagine tridimensionale in scala ridotta della scopa e dalla tessera iniziarono a cadere delle monete che tintinnarono su una manciata di denaro già presente sul fondo, e cessarono quando raggiunsero la cifra di duecentodieci crediti.
Davanti all’emporio delle bacchette magiche, la coda di studenti si era dissolta. Le due ragazze trovarono all’interno una trentina di persone e attesero il loro
turno. Quando ne uscirono avevano le loro bacchette nello zainetto. Marta aveva speso i primi novanta crediti per una bacchetta col potere del Fuoco la cui punta avrebbe emanato una sgargiante luce rossa se utilizzata adeguatamente. Matilde, invece, ne spese altri sessanta per la sospirata bacchetta-cuoco. Contente degli acquisti decisero che potevano rientrare. Marta montò sulla sua nuova scopa, provandone l’impostazione e visionandola nei minimi dettagli: sembrava un ragazzo in sella per la prima volta a una Kawasaki Ninja. Avrebbe provato l’ebbrezza del volo anche senza quell’attrezzo. Aveva il potere del Fuoco, quindi poteva trasformarsi in un volatile e librare leggera nell’aria, magari in un grifone, il suo segno astrale, però era con la scopa che gareggiava, le piaceva la competizione ed era comunque un altro modo di volare che preferiva non dovendo mutare aspetto. «Dai, collaudiamo il tuo regalo» fece cenno all’amica di salire. Matilde sospirò, annuì e montò in groppa al regalo. Marta decollò e iniziò a compiere una serie di manovre di assestamento e, durante il rodaggio, decantò le peculiarità della scopa, mentre Matilde si teneva stretta alla vita dell’amica meditando in ogni istante di sparire, ma poi si fece coraggio e resistette. Quando Marta decise finalmente di impostare una rotta da crociera, mettendo quindi fine alle acrobazie – tali erano per Matilde le semplici virate della campionessa – avvistarono all’orizzonte un piccolo volatile bianco che avanzava deciso sulla loro rotta. Appena fu abbastanza vicino da identificarlo, le ragazze si resero conto che non si trattava di un uccello ma di una lettera alata. Quando l’oggetto animato distò circa tre metri dalla punta del manico della scopa, scartò prontamente a sinistra e ò oltre. Le ragazze si voltarono e la videro allontanarsi, ma non era finita lì. «Ce n’è un’altra in arrivo» anche se ancora lontano, Marta individuò lo stesso tipo di oggetto svolazzare all’orizzonte da dove era sopraggiunto il precedente. Anche questo veniva verso di loro. «Credo che tu stia violando lo spazio aereo riservato alle lettere» sentenziò Matilde. «Questa mi giunge nuova.» «Spostati ugualmente.» Marta acconsentì e si mosse a sinistra, visto che la precedente lettera aveva fatto la stessa mossa nell’altra direzione. La busta, con
un lungo avanzamento diagonale, si riportò di fronte a loro. «E adesso come me lo spieghi?» «Non ne ho idea.» Pure questa giunse prossima a loro, ma, a differenza di quella prima, non si spostò e accorciò la distanza; tre metri, due metri, un metro... stavolta fu Marta a scartare a sinistra, si abbassò di quota ed entrò nel fitto della vegetazione. Colta di sorpresa, la busta ò oltre, poi frenò e fece dietrofront. Prese ad inseguire le ragazze zigzagando tra gli alberi, sulla loro scia. «Ce l’ha con noi...» gridò Matilde. «Lo vedo, ci sta inseguendo... adesso provo a seminarla.» «Fermati, non è mica una simulazione per i tuoi allenamenti. Porta un messaggio a una di noi due». Marta frenò sterzando la scopa di novanta gradi a ovest e rimasero a fluttuare. La busta sbatté contro la spalla di Matilde e iniziò a precipitare, poi riprese quota sbattendo veloci le piccole ali e andò a depositarsi in grembo alla gemella elementale. «È stata inviata dalla segreteria.» «Aprila! Che dice?» «Preferisco aprirla in stanza, leggere a quest’altezza mi fa venire il voltastomaco.» «Come preferisci. Tieniti, si riparte.» Mentre volavano in direzione del San Gregorio, furono superati da un’aquila con una magnifica apertura alare. Teneva qualcosa in becco. «La prima lettera non arriverà più al destinatario», osservò Marta, «hai visto? L’ha beccata quell’aquila.» «Ti sbagli, l’ha beccata proprio il destinatario. Quell’aquila è Tommaso.» «Ma come fai a riconoscerlo?» Marta non ricevette risposta. Si voltò e si accorse
che Matilde era sparita.
Capitolo 23
La confessione
Sulla strada stretta, irta e lastricata con pietre lisce e rettangolari, sussultando, procedeva lento un piccolo cocchio trainato da due cavalli neri. A cassetta sedeva un vecchio, ossuto e con la barba lunga e candida; il viso oscurato dall’ombra di un cappello nero dalla larga falda. Anche il suo vestito era completamente nero, come nere erano le tendine serrate del cocchio, che ne occultavano l’interno. Giunto davanti al Palazzo del Governatore, l’uomo nero fermò i cavalli i quali impennarono e nitrirono con un timbro surreale, una vibrazione che traò le mura e si propagò in ogni stanza dell’immensa residenza. L’uomo smontò con assurda velocità, nel senso che nell’atto di scendere era già coi piedi al suolo. Andò a bussare al portone principale del palazzo sbattendo per tre volte il batacchio con l’effigie di Bruto, il suono rimbombò con uguale intensità del nitrito. Con lento e timoroso incedere, la ragazza andò ad aprire e i suoi lunghissimi capelli neri ondeggiarono sofficemente smossi da spifferi d’aria gelida. «Sì?» chiese restando nascosta per metà dietro il portone, «Chi siete?» «Non temere, non sono qui per te. Sono venuto per Argelia Nerasmo» disse il vecchio togliendosi il cappello. Il suo sguardo era glaciale e inespressivo. «Togliti di mezzo, devo andare.» Argelia sopraggiunse impetuosa alle spalle della nipote. Altea si sentì spingere di lato con forza. La donna aveva premura di uscire; indossava una mantella leggera color nero e un cappello uguale a quello del vecchio forestiero tranne che per la veletta nera che le copriva il viso. «Eccomi. Sono pronta» asserì di fronte all’uomo. «Quanta fretta! Normalmente nessuno è mai pronto» rispose l’altro con cipiglio, sentendo sminuita la macabra solennità della sua missione, «Devo comunque procedere col rituale... » «Non possiamo proprio evitare?» Dopo averle lanciato uno sguardo torvo, il
vecchio proseguì «Argelia Nerasmo, è giunta la tua ultima ora. Sono qui per condurti nel Paese Perpetuo, luogo dal quale non potrai più far ritorno e dove, quindi, dimorerai per l’eternità...», la vecchia si lasciò sfuggire un sogghigno che indispettì ulteriormente il vecchio, «Argelia Nerasmo, ti è concessa la facoltà di scegliere la tua destinazione nel tempo: ato o presente, non muterà. Esprimi ora la tua preferenza.» «Ah, già», stava per sfuggirgli, «ti è concessa anche la facoltà di portare con te un bagaglio... un piccolo bagaglio» vide che la donna l’aveva già in mano. «Sicura di non aver bisogno d’altro? Non si torna indietro» ghignò. «Sicura» rispose Argelia «Esprimi ora la tua preferenza» ripeté. «Posso dirtela dopo che sarò salita sul cocchio?» chiese Argelia. «Esprimi ora la tua preferenza» ripeté più forte il vecchio e si ficcò in testa il cappello. Argelia lanciò uno sguardo circospetto alla nipote, si avvicinò al vecchio e gli sussurrò all’orecchio la risposta che stava aspettando. Il Conduttore delle Anime condusse Argelia al cocchio ed ella si rifiutò di dargli la sua borsa da sistemare sul portabagagli, dove era già sistemato un baule grigio. Quando il conduttore aprì lo sportello, Altea si accorse che un anziano, ben vestito, occupava già un posto nella vettura. Argelia allungò la mano e lui, dopo un tentennamento, le offrì la sua. Così sembrò ad Altea, ma l’intenzione di Argelia non era quella di salutarlo bensì di tappargli la bocca. Quell’uomo aveva qualcosa di vagamente familiare, ma l’interno del cocchio era buio, per via delle tendine chiuse, e non riuscì a capire chi fosse.
Altea si svegliò rimuginando sulla figura intravista all’interno del cocchio. Niente è più snervante di quando qualcosa ti sfugge; non hai pace finché l’enigma non è risolto. Per quanto cerchi di non pensarci, di distrarti, non appena ti rilassi e la mente è sgombra, il quesito s’intrufola nuovamente. Il pesante tendone si aprì di poco sotto l’effetto della magia emessa dall’indice della ragazza, mentre ella si riparava gli occhi tirandosi le coperte sulla testa. Protetta sì dalla repentina luce del giorno, ma disturbata dall’improvviso tocco
secco alla sua porta. «Svegliati! Tra mezz’ora hai lezione; bada bene di non far attendere il tuo insegnante.» Argelia era sempre lì, viva e vegeta, e non mancava di manifestarlo. «Sono sveglia» gridò Altea. Si alzò e andò involontariamente alla finestra e si sorprese di star controllando se il cocchio guidato dal vecchio in nero fosse realmente nel cortile. Scosse la testa, poi, però, riesaminò il sogno e la cosa più grottesca le parve la fretta di sua nonna di andarsene a quel paese. Riapparve quindi la sagoma dell’uomo senza nome. Insomma, chi era costui? Eppure le ricordava qualcuno... Un ticchettio contro il vetro della finestra arrestò la spremitura di meningi. Lontanamente discendente dal primo esemplare originario del Mondo di Sotto, un piccione stava battendo ritmicamente il becco sulla lastra trasparente. Alla zampetta sinistra qualcuno gli aveva legato un foglietto arrotolato. Temendo che l’uccello scape, Altea aprì adagio l’imposta. “Non è possibile, è proprio un piccione! Credevo che nessun uccello si fosse salvato.” Il piccione rimase lì e la osservò piegando la testa di lato. Alla ragazza quei piccoli occhi tondi parvero circospetti, come se l’uccello non stesse aspettando altro che lei avvicinasse la mano per beccargliela. Indugiò e quando finalmente si decise a slegare il rotolino di carta, il piccione si voltò emettendo il suo tipico e rauco mormorio. «Dispettoso!» disse la ragazza sottovoce, portandosi le mani ai fianchi. Rinunciò a un secondo tentativo preferendo usare il suo potere, il laccio si slegò e il rotolino di carta si trasferì nella sua mano. Il messaggio era scritto dall’unità del dott. Zagreus, l’uomo che fino a una decina di anni or sono era stato il medico ufficiale della famiglia Nerasmo. La donna, per espresso desiderio della sua unità, la invitava a far visita all’anziano medico poiché un lontano fatto tormentava la sua anima e non gli rimaneva più molto tempo per ridarle serenità. La donna le raccomandava di non farne parola con alcuno, anzitutto con Argelia. Concludeva con le parole: “Vieni prima possibile, domani potrebbe essere tardi.” «...Cordialmente, Virginia Zagreus.»
«Zagreus! Sì, Zagreus!» Ecco chi era l’uomo dentro al cocchio. Estratto inaspettatamente il chiodo, tolto il rischio che rimanesse fisso, Altea si chiese se ci fosse qualche relazione col sogno. Premonizione o semplice coincidenza? Non doveva far altro che scoprirlo, perciò accolse l’invito marinando la lezione. “Scusami con il professore, ho un impegno improrogabile”, scrisse su un foglio che lasciò sulla scrivania. Sogghignò sapendo che la nonna sarebbe andata su tutte le furie. Il piccione era ancora lì, forse aspettava la risposta da portare al mittente. «Sciò!» Altea provò a mandarlo via, ma l’uccello svolazzò poco in là e tornò alla finestra. «Ti sbagli di grosso, non attaccherò niente alla tua zampa.» Si guardò intorno in cerca di un contenitore e vide la piccola cesta bianca col coperchio sull’ultimo ripiano della libreria. Era adatta al suo scopo: l’attirò a sé e vi trasferì il piccione all’interno. Eretto lo scudo a copertura dei suoi spostamenti, Altea comparve davanti alla casa dei coniugi Zagreus. Per strada non c’era nessuno per cui si azzardò a oltreare la porta d’ingresso. Aveva la cesta col piccione sotto al braccio sinistro e nella mano destra teneva il messaggio ricevuto. Virginia stava sgombrando il tavolo dalle stoviglie dopo aver consumato da sola una frugale colazione. L’apparizione della ragazza non la spaventò, solo il fantasma della solitudine la turbava, null’altro la intimoriva. «Ti ringrazio di essere venuta» disse ella nell’atto di togliersi il grembiule legato alla vita. Per risposta Altea accennò al messaggio che aveva in mano. «Oh, scusate, questo è il vostro piccione» disse poi, come se si fosse dimenticata di averlo sotto il braccio. La donna prese la cesta e l’ aprì fuori dalla finestra che dava sull’aia, liberando l’uccello. «Seguimi, andiamo da lui. Finalmente potrà levarsi un peso e lasciare serenamente questo mondo.» «Sta... morendo?» chiese timidamente Altea. La donna annuì con rassegnazione e salì il primo gradino della scala che conduceva al piano superiore, dove il vecchio medico giaceva nel suo letto. Virginia saliva lentamente, gradino per gradino, poggiando per primo sempre lo stesso piede e reggendosi al corrimano.
«Si porta dentro questo segreto da dieci anni. Argelia gli intimò di tacere e lui rivelò solo a me il fattaccio...» «Mia nonna!?» mormorò Altea. I tasselli del sogno iniziavano a comporsi. «Quella donna comanda su tutto, manipola ogni cosa a sua convenienza, la sua parola è legge e tutti la temono. Provai a convincerlo di parlare con tuo padre, ma aveva troppa paura di Argelia. Non lo biasimo. Poco dopo lasciò l’incarico a Palazzo, perché non sopportava più la vista di tua nonna e il suo sguardo intimidatorio che pareva cercasse di scavargli nella mente.» «Di che si tratta?», chiese Altea il cui cuore aveva iniziato a battere più forte, «Potreste dirmelo voi e lasciare tranquillo la vostra unità.» «Ti ringrazio della premura, ma te lo dirà lui. È ciò che ha sempre voluto.» Giunta sulla soglia della stanza, facendo in modo di essere sentita dal marito, aggiunse: «A dire il vero aveva avuto un ripensamento, temeva che Argelia, una volta che lui non ci fosse stato più, si sarebbe vendicata su di me. Ma io gli ho detto che se non l’avesse fatto lui, allora te l’avrei detto io.» Il medico fece un debole cenno con la mano per invitare la ragazza ad entrare. «Virginia, per favore, aiutami a tirarmi su.» La donna lo sollevò a malapena e gli sistemò i cuscini dietro alle spalle. Poi si sedette sulla sedia vicina al letto. «Offri una sedia alla ragazza.» «Non importa, resto in piedi.» Altea non volle scomodare la donna poiché vide che non c’erano altre sedie in quella stanza. «No, farai meglio a sederti» disse Virginia, e si alzò per cederle il posto, mentre lei si sedette ai piedi del letto. Il vecchio annuì. «La mia Virginia aveva il potere della Terra, poi quel maledetto giorno andò a una delle assemblee di Jeziel, e ne tornò priva. Adesso che l’età avanza, per lei sarebbe un prezioso ausilio quel potere. Inizia a stancarsi troppo.» Parlava lentamente, con voce roca, e s’interrompeva spesso per prendere fiato. «Avevi ragione tu, mio caro. Avrei dovuto ascoltarti, ma non serve a nulla rivangare il ato, perciò risparmia il fiato e dì alla ragazza quel che hai da dire.»
«Questo vecchio è stato un vigliacco, ha temuto la vendetta di Argelia e ha sempre taciuto, e ora invoca il tuo perdono. Si vergogna a dirlo, ma se fosse tuttora in salute, forse chissà, avrebbe tergiversato ancora.» Zagreus iniziò a parlare estraniandosi da se stesso e giudicando l’uomo sdraiato nel letto. «Il mio perdono? Non ricordo di aver ricevuto offesa da voi. Qualunque cosa sia, cosa vi rende così sicuro che non andrò a riferirlo a mia nonna?» «Perché si tratta della verità sulla morte di tua madre, ragazza mia. Ecco cosa mi ha fatto tacere quella malefica donna: la verità sulla morte di tua madre» riaffermò, e l’agitazione gli procurò un convulso attacco di tosse. La moglie accorse per dargli sostegno. Altea avvertì il sangue defluire dal cervello e successivamente da ogni parte del corpo. Virginia si accorse del viso cereo della ragazza e dovette dedicarsi pure a lei, prese dei sali dal cassetto del comodino e glieli fece annusare. «Quale verità?» La stanza, finalmente, smise di girare. «Veleno. È stata avvelenata» disse Virginia tamponando le tempie e il collo del marito con un panno umido, dopo averlo sbattuto per rinfrescarlo. «Avvelenata...?» ripeté incredula Altea, «Ne siete proprio certo?» «Sono un medico, non ho dubbi sui segni riscontrati. Mi dispiace...» la risposta di Zagreus fu appena percettibile. «Ma perché mia nonna non ha voluto che si sapesse. Chi sta proteggendo?» «Tua madre era una donna tenace e combattiva. Ti amava moltissimo e si opponeva all’interferenza di Argelia sulla tua educazione», intervenne Virginia, «Voleva che andassi a scuola e frequentassi gli altri bambini, ma Argelia non lo permetteva perché tu sei sua nipote e dovevi ricevere quegli insegnamenti che a nessun altro, tranne l’élite selezionata dal Palazzo, è permesso ricevere. Lottò da sola poiché le mancò l’appoggio di tuo padre. Argelia s’intrometteva in ogni decisione che ti riguardava, voleva il timone della tua vita, ma tua madre non le avrebbe mai concesso di condurla. Cercò di liberarti dal dispotismo di tua nonna e finì invece che fu quest’ultima a...» s’interruppe poiché rivoli irrefrenabili di lacrime stavano sgorgando dagli occhi di Altea, rigandole il viso e continuando a scendere sui lunghi capelli. La donna intuì che la ragazza aveva già capito tutto.
«No, non posso crederci», diceva Altea mentre fissava assente i due anziani coniugi, i quali riuscirono a stento a trattenere le lacrime, «Non può averlo fatto», ma le balenò il ricordo delle povere anime sbattute nei sotterranei, «Perché è così cattiva!», gridò, «Mi dice sempre che le somiglio, ma io non sono come lei. Abbiamo le stesse fattezze, è vero, ma io non sono malvagia, non ho preso niente da lei. Non riuscirà mai a plasmarmi a suo piacimento perché nelle mie vene non scorre solo il sangue della sua stirpe ma anche quello di mia madre ed è a lei che voglio essere paragonata. Odio perfino il mio aspetto, avrei preferito avere il potere del Fuoco per mutarlo ogni giorno. Avrei preso le sembianze di mia madre e sarei rimasta le ore a guardarmi allo specchio... e forse alla fine avrebbe avvelenato anche me.» Altea dava libero sfogo al suo dolore e alle frustrazioni che da anni l’attanagliavano e che erano quasi riuscite a rendere duro il suo cuore. Virginia strinse forte a sé la ragazza e le asciugò le lacrime, e Altea sprofondò in quell’abbraccio caldo e materno di cui aveva maledettamente bisogno. Ma in quell’attimo di quiete, un improvviso timore l’assalì e si staccò di scatto dalla donna. Travolta dalle amare circostanze, il suo scudo si era indebolito per un lasso di tempo imprecisato. Mentre però si apprestava a rifornire energia allo scudo, la figura funesta di Argelia apparve di fronte a loro con le braccia alzate e le mani pronte a compiere un atto d’imposizione. «Stupido vecchio!», inveì, mentre le vene del collo le s’ingrossarono, «Con un piede già sul cocchio ti è sfuggita l’acqua di bocca. Avrei dovuto sbarazzarmi di te tempo fa.» Dalle sue mani scaturì un fascio energetico di intensa luce argentea, allora i due fasci s’incontrarono e si unirono in una doppia elica che colpì con la rapidità di un fulmine. Altea agì prontamente con un campo d’attrazione che richiamò l’energia ostile e la trattenne come una potente calamita. La ragazza si aspettò un gesto di stizza da parte della nonna e invece la vide sorridere con l’espressione di soddisfazione che le brillava negli occhi. Per un istante non capì, poi il grido di dolore di Virginia le fece voltare lo sguardo e vide la donna riversa sul suo amato, e lo scuoteva nel vano tentativo di destarlo. Nella stanza fredda, echeggiarono le risa sinistre di Argelia. Virginia si arrese improvvisamente alla sacralità della morte, lasciò tranquille le povere spoglie di Zagreus e girò lentamente la testa verso Argelia. «Perché?», chiese con tanta amarezza negli occhi e col cuore straziato, «Sei una donna crudele.»
«È ciò che spetta a un traditore» rispose imperiosa. «Stava per morire, ma non potevi lasciare che il destino ti togliesse la soddisfazione di...» un assordante scalpitio sul selciato pose fine alle rimostranze di Virginia. Seguì a breve un surreale nitrito a più voci. Le mani di Argelia cessarono di emanare il fluido malefico e anche Altea dissipò lo scudo pur rimanendo vigile. Dal corpo spento del medico si staccò l’eterna essenza del suo essere. L’evanescente figura aleggiò sul suo trascorso ego, gli gettò uno sguardo di commiato e si rivolse alla sua unità. Virginia gli tese le braccia, ma lui non riuscì ad afferrarle le mani; ella palpò l’inconsistenza di quel tocco e una lacrima s’incanalò lungo la ruga del suo viso. Lui guardò quella lacrima scenderle fin sul collo e ricordò la beltà della sua donna in quel tempo in cui la sua pelle era liscia e luminosa e i suoi seni erano rigonfi di latte. «Ti ricordi, vero»? chiese l’uomo «Come potrei dimenticarlo! Un giorno, ci ritroveremo là» rispose Virginia. Da tanto avevano deciso in quale tempo del Paese Perpetuo si sarebbero riuniti un giorno: la stagione più felice della loro vita prima che la disgrazia sconvolgesse la loro esistenza. Avevano avuto un bel bimbo, con le guance tonde e rubiconde e mangiava come un lupetto. Un dì, dopo l’ultima poppata della sera, succhiata con voracità, il bimbo dormì profondamente, tanto che Virginia non si preoccupò quando il figlio non si svegliò all’ora in cui era solito reclamare il nuovo pasto. Andò comunque a controllarlo e quando gli fece una carezza si accorse che il visetto era gelido; corse ad aprire le tende e tornando indietro notò che sue guance erano ceree. Lanciò un grido di disperazione e strappandosi i capelli si accasciò ai piedi della culla. Nel cuore della notte, il piccolo aveva raggiunto, silenziosamente, il Paese Perpetuo tra le braccia del Conduttore delle Anime, neppure i cavalli avevano nitrito. Poiché il bimbo era incapace di scegliere la propria destinazione nel tempo, come da regolamento, il Conduttore non poté fare altro che condurlo in quel Presente. Ora Zagreus stava per raggiungere suo figlio. Il colpo del batacchio risuonò per tre volte, poi la voce del cocchiere chiamò il nome del dottore. Argelia si voltò di scatto e scomparve dalla stanza senza proferir verbo, quasi
che la chiamata fosse per lei e non vedesse l’ora di dipartire. La donna, la ragazza e il fantasma s’interrogarono con gli sguardi. Poi apparve il cocchiere che recitò la solita litania. «Clemir Zagreus, è giunta la tua ultima ora. Sono qui per condurti nel Paese Perpetuo, luogo dal quale non potrai più far ritorno e dove, quindi, dimorerai per l’eternità. Ti è concessa la facoltà di scegliere la tua destinazione nel tempo: ato o presente, non muterà. Ti è consentito portare un solo bagaglio.» «Eccolo, è già pronto» il fantasma indicò un baule grigio addossato al muro sotto la finestra. Un manico ciascuno, i due uomini presero il bagaglio. Il Conduttore delle Anime sollevò il proprio cappello nel gesto di salutare le due donne. Zagreus parlò per chiedere ad Altea di proteggere Virginia; ottenuta la promessa della ragazza, mandò un bacio con la mano alla sua unità e scomparve con l’altro.
Miranda attraversò per la quarta volta la cucina e uscì dalla porta sul retro della Taverna dei Segreti per scuotere all’aperto il piumino impolverato. Dopo qualche colpo di tosse decise di sbarazzarsi dell’oggetto. «Così non finirò più! Avanti e indietro, avanti e indietro... e poi non è per niente igienico are con questo coso tra i fornelli» borbottò tra sé e sé, e ripose il piumino nel ripostiglio. Ogni tanto provava a faticare come le donne normali, convinta che l’attività fisica le avrebbe giovato, ma finiva sempre col trovare una scusa per ripiegare sulla magia. Tornò nella dispensa, dove la parete mobile era ruotata di quarantacinque gradi permettendo l’accesso alla stanza segreta. Nel covo, privo di areazione e di luce naturale, si era reso necessario fare un po’ di conti con la polvere. La sottile cipria era depositata soprattutto sui volumi che affollavano la libreria poiché, oltre al tavolo che veniva pulito quotidianamente, nella stanza rimanevano solo le sedie allineate lungo le pareti. Senza stancarsi era anche più facile sostenere lo scudo. Si sedette e cominciò a impartire ordini. Un libro dopo l’altro uscì dalla libreria, si sfogliò accuratamente, si richiuse di botto e si posò sul tavolo mentre la nuvoletta grigia che aveva sprigionato sfavillò e poi svanì. Quando un intero settore della libreria si era svuotato e sul tavolo si erano formate alte pile di libri spolveri, Miranda salì sulla scala per rimuovere la polvere dai ripiani più alti – un po’ di movimento doveva
comunque farlo – e così ogni libro ritornò esattamente al suo posto. La trafila ripartì dal settore successivo, ma quando Miranda salì a spolverare il ripiano più alto notò che tra questo e la spalla della libreria v’era incastrato un pezzo di carta. Un pezzetto di carta ingiallita dal tempo, lo lesse e per poco non cadde dalla scala. «Mathesias! Alcherius! Venite, presto!» cacciò fuori la testa dal covo e chiamò a gran voce i primi nomi che le vennero in mente. Essi arrivarono di corsa, allertati dal tono della sua voce. Non riuscirono a vederla, ma la udirono parlare dietro la catasta di libri. «Dove sei? Allora, dov’è che sei?» Miranda cercava freneticamente il taccuino che conteneva la pagina al cui piede avrebbe combaciato il pezzetto di carta ritrovato. Arrivarono anche Emma e Mulac, «Che succede?» chiesero. Miranda sbucò alla destra del tavolo, «Ho trovato la postilla» rispose sbandierando il reperto, «Leggete! Leggete!» «Postilla?» s’interrogarono l’un l’altro. Mulac prese il pezzo di carta che Miranda aveva posato sul tavolo per continuare la ricerca. Lo lesse a voce alta: «...etto di ridargli piena consapevolezza dei propri poteri e di riacquisirli. Tuttavia, non produce l’effetto della restituzione se sull’individuo incombe il potente incantesimo “Epura”. Questa terribile stregoneria è punibile con l’incarcerazione a vita. Essa è preparata utilizzando scaglie di pelle di drago; una scaglia viva staccata a ciascuno dei Guardiani degli Elementi, e inserite nei quadranti della Sfera di Giada Nera. Solo i quattro draghi potranno restituire i poteri all’individuo.» Emma stava rivangando nei suoi ricordi. Forse non tutti avevano ascoltato attentamente le parole di Tommaso, il giorno che il ragazzo era tornato dalla Valle dei Draghi, e sua madre, nuovamente, udì con la mente la sua voce e ne ripeté le parole: «Æronmì ha detto anche che solo i draghi sono in grado di risvegliare le coscienze dei maghi.» «Sono state queste le parole di mio figlio!»
«Eccolo!» Miranda aveva trovato il libretto d’appunti e lo aprì alla pagina del decotto. «Da’ qua...» reclamò con la mano il pezzo di carta. Mulac glielo porse ed ella fece combaciare i due lembi strappati. Al pezzo ritrovato si antepose la prima parte della postilla: “Il preparato così ottenuto agirà sulla memoria dell’individuo con l’eff…”. «Non è il nostro caso, giusto?» fece Alcherius. Gli altri si guardarono dubbiosi. Mulac assunse un’espressione tra lo scettico e l’imbarazzato, e iniziò a grattarsi la nuca glabra. «Non ve l’ho ancora detto, ma con me non ha funzionato, non del tutto. È proprio come recita la nota: ricordo ogni cosa, so di essere un mago, ma non riesco ad usare il mio potere né a compiere la più semplice magia basilare.» Gli altri meditarono, poi Mathesias ricordò un particolare: «Ma certo, il bastone di Aulo! Sulla cima c’era una sfera nera.» «Però, Aulo non poteva entrare nel Bosco dei Draghi. Come ha spiegato Æronmì a Tommaso, può riuscirci solo il gemello elementale.» «Quindi è evidente che il bastone magico sia appartenuto prima a Bruto. Solo lui avrebbe potuto rubare ai draghi una scaglia della loro pelle prima di imprigionarli nella valle, o anche dopo» dedusse Miranda. «Come ci sarà riuscito? Certo non deve essere facile sorprendere quattro draghi» osservò Mulac. «Non ne ho proprio idea. Io non capisco neppure perché l’abbia fatto, dato che nella storia non è documentato l’utilizzo del bastone da parte sua» rispose Mathesias. «Ma questo non ci importa. Quel che è certo è che non avremo alcuna speranza se non riusciremo a liberare i draghi. Tutto il decotto che abbiamo somministrato finora, in tutte le salse, è soltanto un palliativo; sono i draghi ad avere la cura giusta» sentenziò Mulac.
Virginia si era rasserenata. Adesso la sua unità non soffriva più, le parve persino forte quando lo vide sollevare il baule e sorrise pensando che alla fine del
viaggio sarebbe ringiovanito, prima d’incontrare il loro piccolo. Andò alla finestra e Altea la seguì. Il cocchiere spronò i cavalli dopo aver selezionato la data nel dispositivo Trova-Porte davanti a sé. Un piccolo congegno piramidale a tre livelli mobili e incastri sequenziali, inserito nel monoblocco attaccato al pavimento della vettura, che obbligava l’uomo a stare a gambe aperte. Il dottore prese ad agitare la mano sporgendosi dal finestrino e anche Virginia, dalla finestra della camera, cominciò a salutarlo sventolando un fazzoletto bianco. Poi, improvvisamente, il dottore si ritrasse e a Virginia la cosa non piacque; lui avrebbe continuato a salutarla finché la carrozza non fosse sparita nell’altra dimensione, ne era certa. «Strano!» mormorò «Come dite?» fece Altea «Niente, cara. Pensavo solo che è strano il modo in cui si è dileguata tua nonna. Forse ha avuto paura che l’uomo nero si portasse via anche lei.» Quelle parole fecero tornare in mente ad Altea il suo sogno. «Non credo. Lei non teme niente. Però la cosa non mi piace, perciò vi porterò in un posto sicuro.» «Ti ringrazio per la premura, ma da questa casa non mi muovo.» «Mi dispiace tanto di non essere riuscita a proteggere il dottor Zagreus...» «Shhh!», la zittì Virginia, «Gli avresti regalato solo poche ore.» «Però, se il mio scudo non si fosse indebolito, mia nonna...» «Smettila. Non è colpa tua, era già tutto scritto.» «D’accordo, comunque ho promesso alla vostra unità che mi sarei presa cura di voi e intendo mantener fede alla mia promessa.» «Come vuoi. Però voglio rimanere a casa mia.» «Vi condurrò in un posto solo per un giorno; voglio farvi un regalo.» «Ecco, allora inizia a farmi il piacere di non darmi più del “voi”. Al di fuori del
Palazzo, questa formalità non è più osservata da tempo», le chiese come regalo. «Ribadisco di non aver voglia di muovermi da casa, tuttavia, sono curiosa di sapere dove avresti intenzione di portarmi.» Altea sorrise, «In un luogo dove nessun altro può entrare, vedrete... Uhm, volevo dire: vedrai». Le fece prendere qualcosa per coprirsi, poi le si avvicinò e con la mano sinistra la tenne per il braccio e col braccio destro le cinse le spalle. «Cosa...» Virginia riuscì appena a mormorare che erano già scomparse dalla stanza.
Capitolo 24
L’esame elementale
Il sole languido di Mitigo era appena sorto. L’inconfondibile Detroit Town Car a quattro posti, con copertura modificata, e i suoi occupanti erano le prime cose ad essersi mosse quel tiepido mattino. Tutto il resto dormiva; tutto tranne sei occhi dietro alle finestre delle camerate che osservarono il veicolo allontanarsi dal College. Quattro occhi pieni di ammirazione per gli amici che stavano per affrontare la prova più importante del cammino scolastico, e due occhi infastiditi dalla vista del ragazzo biondo insieme alla ragazza coi ricci rossi. Alex non capiva perché dovessero affrontare insieme quell’esame che era invece una prova individuale per il resto degli studenti. Gli sembrava sempre di più che quando non era per scelta di quei due, allora fossero i professori o i consiglieri, vattelapesca o chicchessia a costringerli a stare insieme. Quel giorno tentò a più riprese d’incontrare Marta, casualmente, per carpirle informazioni sull’amica, ma la ragazza, proprio perché tale, non si fece certo infinocchiare dalla casualità con cui chioma selvaggia pensava di mascherare l’incontro, tuttavia si mostrò molto affabile col ragazzo, per suo tornaconto. Il continuo ronzare di Alex intorno a Marta fece difatti indispettire Karmis, in più, ogni volta che stava per avvicinarsi a loro, Alex si toglieva il medaglione idioletto dando modo al ragazzo di farsi strane idee. Karmis stava diventando ogni giorno più geloso, diffidava di chiunque si fermasse a parlare con Marta per un tempo più lungo del saluto, ma non trovava il coraggio di dichiararsi. Marta, che sapeva aspettare, si divertiva nel frattempo a stuzzicarlo. L’auto di Lucilla si fermò al limitare del bosco. Da lì iniziava il sentiero che si addentrava nel Paese delle Fate. Matilde e Tommaso scesero dal veicolo e ascoltarono attentamente le raccomandazioni di Lucilla. Dovevano trascorrere il giorno nella terra delle creature magiche, dove esse li avrebbero messi alla prova e solo all’indomani, ai primi albori, avrebbero emesso il loro responso. «In bocca al lupo, ragazzi!» l’incitò Lucilla tornando alla macchina. «Perché mai gli dovremmo finire in bocca?» Tommaso la guardò stranito. Matilde rise. «È un modo terrestre di augurare buona fortuna. Devi rispondere “crepi il
lupo”.» «Ah, ho capito.» «Sì, ma devi dirlo, altrimenti porta sfortuna» disse la ragazza. «Va bene, se funziona così... allora crepi il lupo.» «Crepi!» rispose anche Matilde. Salutarono Lucilla con la mano mentre lei faceva inversione di marcia. L’auto scomparve quasi subito dopo la prima curva e i ragazzi si voltarono addentrandosi guardinghi nel Paese delle Fate. Tutto era iniziato con la lettera ricevuta durante il primo giorno si shopping. Proveniva dalla segreteria, ma quando l’avevano aperta avevano visto che in calce recava il timbro del Consiglio dei Cinque. «Come ti ha chiamata tuo padre?» chiese Tommaso a un certo punto. «Terremoto.» «Nel senso che ti muovi molto di rado?» «No, al contrario!» lo guardò sconcertata. Lui se ne avvide e intuì. «Ecco, noi abbiamo avuto solo quattro terremoti in tutta la storia del nostro pianeta. Devo quindi pensare che nel Mondo di Sotto ne avvengano di frequente.» «Già…»
Già, suo padre; era l’ultima persona che si sarebbe aspettata d’incontrare. Matilde aveva percorso a o sostenuto il corridoio che conduceva alla sala consiliare. Era la prima volta che si recava in quel posto e, dopotutto, non avrebbe mai avuto motivo di andarci se non fosse stata chiamata d’urgenza dai cinque saggi poiché, come recava la missiva, “l’evolversi di certi fatti richiedono lo sveltimento della procedura...”
Aveva bussato alla grande porta e atteso l’invito. Quand’era entrata aveva visto che Tommaso l’aveva preceduta. Oltre ai consiglieri, era presente Lucilla, Casimiro e poi un uomo e una donna che non aveva mai visto prima e che le era sembrato che la guardassero con una certa curiosità. Poi alle loro spalle si era fatto largo un uomo. «Papà?» Per scomodarlo dal Mondo di Sotto la questione doveva essere importante e, con ogni evidenza, doveva richiedere la presenza e l’approvazione di un genitore. «Ciao, Terremoto», l’abbracciò, «mi sei mancata» le aveva bisbigliato all’orecchio. «Idem» aveva risposto lei. «Ho conosciuto il tuo gemello» aveva detto il padre, indicando il ragazzo con un cenno del capo. «E io finalmente riesco a conoscere te» aveva sostenuto la donna sconosciuta facendosi avanti. «Ciao, sono Emma, la madre di Tommaso» le aveva stretto la mano. «E io sono Teodoro, un... amico di famiglia.» «Ah» aveva detto soltanto, non capendo a che titolo fosse presente anche un amico di famiglia. Comunque neppure lei, fino a quel momento, sapeva ancora il motivo della riunione. A un gesto della presidente, le cinque sedie dei consiglieri si erano strette attorno alla tavola rotonda, lasciando lo spazio ad altre sette, meno pregiate e di misura più ridotta, che erano comparse subito dopo. «Prego, signori, accomodatevi.» Dopo che i consiglieri avevano preso posto, gli altri si erano distribuiti attorno all’altra mezza circonferenza del tavolo. Lei e Tommaso si erano seduti vicini e i due genitori al loro fianco. «Ragazzi, il Consiglio ha deciso di anticipare il vostro viaggio nel Paese delle Fate per ricevere la conferma dei vostri poteri. Gli eccellenti risultati finora ottenuti da entrambi sono rassicuranti per il buon esito dell’esame e ci hanno
trovato d’accordo nel prendere tale decisione.» Lei e Tommaso si erano guardati con circospezione; in altra occasione avrebbero fatto salti di gioia, ciò significava diventare dei maghi completi e ricevere dalla penna marcante il simbolo permanente della doppia “M” un anno prima di tutti quelli del loro corso. Invece, erano rimasti seri. «È giunto il momento di prendere quella decisione», proseguì la Gramegna senza preamboli, «Ce la comunicherete al ritorno del viaggio.» Lei aveva guardato nuovamente Tommaso e gli aveva stretto la mano. Lui aveva interpretato quel gesto come una richiesta di soccorso e aveva pensato d’intercedere per lei. Si era alzato in piedi. «Ormai non c’è una sola anima che non riponga in noi fiducia e speranza. Come possiamo tirarci indietro? Non possiamo deluderli. Io non posso deludervi, però Matilde non ha nessun obbligo nei nostri confronti. Lei appartiene al Mondo di Sotto e non è giusto che le chiediate d’impegnarsi nella nostra causa. Capisco che nessuno di voi sia disposto ad aspettare altri cento anni, ma non dimenticate che ho un’altra gemella...» “Oh, quest’uomo! Non riesce neppure a interpretare una stretta di mano. Provi a fargli capire che sei con lui e lui ti tira fuori dal gioco” aveva pensato in quel frangente. Lei non era proprio il tipo che si tira indietro. A are da vigliacca proprio non ci stava, figuriamoci a lasciare che un’altra la sostituisse, prendendosi il merito. “Questa poi...” si era alzata di ripicca e si era rivolta al suo gemello. «Appartengo anche al Mondo di Sopra. Neppure gli esiliati sono disposti ad aspettare altri cento anni. La maggior parte hanno origini terrestri solo per metà e sono molti quelli che vorrebbero poter tornare a casa. La mia scelta la farò anche pensando a loro. Comunque la decisione dovremmo prenderla insieme e finora non abbiamo mai affrontato seriamente la questione. Dovremo arrivare alla stessa conclusione... per forza.» «La ragazza ha parlato bene» aveva gongolato Alvise, fiutando un sentore di disponibilità. «E tu non penserai veramente di far coppia con Altea?» Teodoro aveva puntato il dito contro Tommaso. «Non puoi fidarti di lei e non dovrai cercarla. Prometti.» aveva aggiunto Emma
poggiando la mano sulla spalla del figlio. «Il drago non è dello stesso parere» si era difeso Tommaso con un tono che voleva mettere in evidenza che quella era la convinzione di uno che conta. Era stato il Guardiano dell’Aria a insistere sulla collaborazione con la ragazza dai lunghissimi capelli neri. «Meglio essere prudenti» aveva bofonchiato Casimiro. «Al drago importa solo di essere liberato e non sa dell’esistenza di Matilde.» Lucilla si era portata le mani ai fianchi. «Certo, perché lui è uno dei Guardiani. Molte cose terribili sono accadute a Nebrus proprio a causa della loro prigionia» aveva protestato Tommaso.
Povero Tom, sembrava che ce l’avessero tutti con lui eppure aveva aperto bocca solo per proteggerla. Adesso l’aveva capito. «Davvero eri pronto a rimpiazzarmi con Altea?» chiese a un certo punto, spostando dei rami che ostacolavano il aggio. Una frasca tornò indietro di scatto sfiorando il viso del ragazzo. «E dai! Ti ho già detto che mi dispiace», un ramo carico di foglioline verdi e piccole bacche rosse lo colpì in pieno petto. Una bacca si spaccò nell’impatto macchiandogli la maglia. «Smettila, lo stai facendo apposta. Guarda cos’hai combinato!» Lei lo ignorò «Non capisco perché sei ancora arrabbiata.» «Non sono arrabbiata, sono delusa. Credevo che tu mi conoscessi meglio. Mi sbagliavo. Ecco tutto.» «Invece l’ho fatto proprio perché ti conosco. Sei caparbia e impulsiva, imprevedibile come un terremoto sulla Terra – ne aveva afferrato il senso – e non voglio che ti capiti qualcosa di male» disse a intervalli, poiché era attento a schivare e parare i rami che sfuggivano dalle mani di Matilde.
«Ecco, come dicevo», ribadì ella. «D’accordo, forse un po’ caparbia lo sono, ma per il resto è evidente che non hai capito niente di me.» «E cosa ci sarebbe da capire?» «Non sono una vigliacca, fifona. Pensi davvero che Miss Nebrus sia più in gamba e più coraggiosa di me?» «Dunque è di questo che si tratta: la solita rivalità tra donne.» «Io non ho rivali» si voltò e lo fissò con gli occhi ridotti a una fessura. Lasciò scattare il ramoscello teso nella sua mano. «Allora dimmelo tu qual è il problema. Chi vi capisce è bravo!» Non ricevette risposta. Matilde sospettava che volesse metterla da parte per restare solo con la bella Altea, ma se gli avesse chiesto conferma lui ne avrebbe dedotto che era gelosa. Invece non era così. O forse sì? Neppure lei ci capiva più niente. A Marta aveva detto di considerarlo un fratello, ma era prima che lui pensasse di allearsi con quella lì. «Quindi?» «Non parliamone più. Adesso concentriamoci sull’esame». La smise anche di torturarlo con i rami e utilizzò il potere della Terra per far ritirare la vegetazione che ostacolava il loro procedere lungo il sentiero. A un certo punto, questo terminò di fronte a un lago. «E adesso? Il sentiero finisce qui» disse Tommaso. «Lucilla ha detto di seguire il sentiero senza mai fermarci. Di non fare alcuna deviazione se non esplicitamente richiesta da una Fata» rispose Matilde. Tommaso ricorse al potere dell’Aria e si alzò in volo, dall’alto ebbe la risposta che cercava. «Il sentiero riparte dall’altra sponda. Dobbiamo riprenderlo.» «Forse questa è una prova» suggerì Matilde. «Ci vediamo dall’altra parte». Avrebbero potuto usare qualsiasi potere. Tommaso, che già si trovava per aria, decise di proseguire in volo senza necessariamente mutare forma. Matilde si
servì del potere della Terra per trasferirsi, poiché l’acqua del lago era ancora fredda in quel periodo e preferì non sfoggiare la sua bella coda di sirena. Giunti che furono sull’altra sponda, ripresero a seguire il sentiero. Delle Fate neanche l’ombra, così pensarono i due gemelli. In realtà esse li stavano osservando, ma erano molto ben mimetizzate col loro elemento. «Pensi che ci vorrà molto prima che si facciano vedere?» «Il giorno è appena cominciato. Non aver premura.» «Se tutte le prove sono come quella del lago, farebbero bene a manifestarsi subito, così togliamo il disturbo senza aspettare l’indomani» considerò Tommaso. «Taci. Potrebbero essere in ascolto. Se continui a gasarti, magari ce ne propinano una bella tosta.» «Credo che lo faranno ugualmente. Dopotutto siamo i gemelli elementali, non possiamo cavarcela con un semplice compitino.» «Shhh!» Matilde aveva captato qualcosa. Acuì i sensi: era un crepitio. «Stiamo allerti...» non fece neanche in tempo a dirlo che, tutto intorno, piombarono palle di fuco. Le fiamme si propagarono all’istante. Ogni albero si era trasformato in una gigantesca torcia. Gli animali iniziarono a gemere e guaire scappando in tutte le direzioni e del fumo acre iniziò a espandersi. Tutta la foresta stava bruciando, tizzoni ardenti piovevano dall’alto come meteore. Matilde raggiunse mentalmente il lago e iniziò a muovere le braccia con ampi gesti rotondi. La superficie del lago s’increspò nel punto raggiunto e il movimento si estese rapidamente all’intero specchio d’acqua. Il moto ondoso converse al centro e una vasta colonna di acqua s’innalzò dirigendosi da chi la stava comandando. Matilde cercò la mano di Tommaso. Lui la strinse e, quando la vide giungere, col potere dell’Aria diramò l’enorme massa d’acqua su quell’inferno dantesco. Matilde, nel frattempo, con la mano libera invocò il potere della Terra per trasferire gli animali in salvo sulla riva del lago. Spirali di fumo nero sostituirono le fiamme e Tommaso le dissipò, l’aria tornò respirabile. La terra era inzuppata, tutt’intorno cadevano rami carbonizzati. Anche i due ragazzi gocciolavano come due spugne intrise e Matilde iniziò a tremare e battere i denti. Tommaso coordinò i suoi due poteri e in un attimo fu come
trovarsi all’interno di un’asciugatrice o sotto il sole di Sicilia in una giornata di scirocco. Allegorie che soltanto Matilde avrebbe compreso. La ragazza s’inginocchiò e appoggiò le mani sul terreno. Il dono della Terra era grandioso in lei, l’energia fluì in tutto il corpo e lei la convogliò alle dita, da queste si propagò sul terreno e raggiunse ogni vegetale, e ogni singola molecola venne rigenerata. A vista d’occhio, il bosco ritornò vitale e lussureggiante, e gli animali poterono farvi ritorno. Si ritennero soddisfatti della loro prova. «Non direi che questo era un semplice compitino» osservò Tommaso. Matilde fece No con la testa. «Dammi un cinque, gemello!» disse lei. E lui batté un cinque sulla mano aperta di Matilde, così come lei gli aveva insegnato. Ripresero il sentiero. Gli animali salutarono il loro aggio esprimendo gratitudine, ognuno col proprio verso composto. I suoni della natura sublimavano l’incanto del Paese delle Fate. Ma di esse neanche l’ombra. Dopo un lungo tratto, il cammino s’infilò tra grandi rocce ricoperte da muschi e licheni, serpeggiò un paio di volte e si ritrovarono all’ imbocco di una caverna. Esitarono un istante, poi si presero per mano ed entrarono nel cunicolo che via via divenne sempre più buio. Tommaso roteò il polso descrivendo con la mano un cerchio e creò una sfera di fuoco. Illuminò la strada che scendeva in profondità tra pareti trasudanti che continuavano a distanziarsi, e poi si separarono improvvisamente circoscrivendo un’ampia area cosparsa di stalagmiti e stalattiti. Tommaso spense la sua sfera di fuoco: le pareti della grotta brillavano di luce propria e per terra, al centro dell’ambiente, ardeva un grande falò. Figure evanescenti in movimento presero lentamente consistenza: erano le Fate del Fuoco che danzavano intorno al loro elemento. Bellissime creature dai capelli rosso vivo, vestite con veli neri striati di rosso, arancio e giallo. Compivano movimenti morbidi e sensuali giocherellando con delle fiammelle, al ritmo della nenia da esse intonata con voce seducente. Quando l’incanto svanì, in fondo alla grotta apparve una lunga scalinata che conduceva all’aperto. Una volta fuori ritrovarono il loro sentiero. Tommaso aveva un sorriso trasognato stampato in faccia. Finalmente aveva visto le fate e ne era rimasto affascinato, in più erano quelle del suo elemento. «Potresti toglierti quell’espressione da ebete e stare in guardia? Sicuramente le prove non sono terminate» lo redarguì Matilde, spintonandolo.
«Tutta invidia la tua.» «Sinceramente non mi è sembrata un’apparizione imparziale. Insomma, io ho portato l’acqua, messo in salvo gli animali e ridato vita al bosco, mentre tu hai solo spruzzato in giro la mia acqua.» «Ammettilo!» «Che vuoi che ti dica? Non le ho mica pagate!» si difese. «L’importante è che alla fine si mostrino tutte. Che ne so, magari saltano fuori a caso, indipendentemente dalle prove proposte» continuò, come se sentisse il bisogno di discolparsi. «Sì, sì, che vuoi che m’importi. Il mio l’ho fatto e so d’averlo fatto bene.» «Sei stata fantastica!» «Lo so.» Procedettero sulla via obbligata, tra la natura rigogliosa e i suoni che l’animavano. Si sentivano euforici, tuttavia questa sensazione andò lentamente mutando. Provarono un’ansia crescente, un turbamento di cui non capivano la natura. Si spiarono l’un l’altro: la cosa li accomunava. E mentre questo senso di malessere cresceva, il cielo si fece intensamente grigio e spifferi d’aria gelida colpivano a tradimento i due ragazzi, poiché essi non riuscivano a prevenirli. Cambiavano continuamente verso e spiravano da ogni direzione. Folate che portavano seco grida funeste da far rabbrividire anche un iceberg. I ragazzi avvertivano pesantemente delle presenze, tuttavia non riuscivano a vedere alcunché, sfavoriti, inoltre, dalla nebbia densa, quasi palpabile, che avvolgeva tutto il bosco. Avanzarono lentamente e guardinghi, il pericolo era ovunque. I gemelli percepivano di essere circondati da entità malvagie e inquiete in silenzioso avvicinamento. Quando la sensazione fu a pelle, videro affiorare dalla nebbia delle figure livide, grigiastre e diafane da sembrare che la bruma stessa si fosse tramutata in quelle forme. Gli esseri immateriali avanzarono verso di loro, tutti con la stessa cadenza. Matilde abbassò repentina lo sguardo. «Non guardarli negli occhi! Ti rubano il respiro!» gridò Matilde. Non fece in tempo: all’improvviso lo vide cadere in ginocchio e portarsi le mani alla gola nell’atto di allargare lo scollo della sua maglia; faceva fatica a respirare. Era
bastato un solo attimo, e i suoi occhi erano rimasti incollati a quelli dell’entità. Tommaso richiamò l’Aria, tutta quella di cui aveva bisogno. Intanto che i suoi polmoni facevano il pieno d’ossigeno, Matilde si tramutò in un albero per non essere spazzata via, mentre le entità si dissolsero. «Scusa, me ne ero dimenticato» disse Tommaso. Il particolare dello sguardo gli era sfuggito di mente. Li aveva dissolti, ma sapeva che non li aveva ancora sconfitti. Rammentò la lezione sugli Spiritelli Effimeri e sapeva che quello non era il metodo per liberarsi di loro, di quelle anime transitorie che tornavano a una non vita ogni qual volta il polline dell’Ayuhapeyuha sollecitava l’olfatto dei viandanti ignari. Questa pianta allucinogena, che fiorisce verso la fine del Friavertum, produce dei fiori insignificanti a forma di piccole zucche, dello stesso colore grigio-verde delle foglie. Cresce bassa e all’ombra dei cespugli di Poternaria ed è quindi difficile scorgerla. Il polline del suo fiore contiene una molecola allucinogena che produce gli effetti sperimentati da Tommaso e Matilde. Inconsciamente i due ragazzi, nel loro stato confusionale, stavano richiamando gli Spiritelli Effimeri, cioè quelle anime che erano scappate dal cocchio del vecchio vestito di nero, rifiutandosi di andare nel Paese Perpetuo. Adesso vagavano dannandosi per la loro scelta. «Eccone una» disse Matilde, sottovoce. Vide una di quelle piante malefiche e usò il potere della Terra per farla seccare all’istante. «Una da questa parte» le mostrò Tommaso. E anche quella ebbe ciò che le spettava. L’effetto stupefacente si attenuò, ma le presenze aleggiavano ancora intorno a loro cercando di catturare i loro occhi. Era molto difficile resistere al loro richiamo. I ragazzi sapevano che per liberarsi definitivamente degli Spiritelli Effimeri dovevano porre fine al loro tormento dando loro degna sepoltura. Avrebbero dovuto bruciarli e seppellirne le ceneri, poiché ad essi, a causa del loro rifiuto, non era concessa una seconda possibilità di dimorare nel Paese Perpetuo. Matilde si strinse le braccia e rabbrividì. Nel fare ciò, schiacciò qualcosa contro il petto. Qualcosa che aveva nella tasca interna del giubbotto: gli occhiali di Camilla! Li tirò fuori. «Tieni, Tom, infila questi!»
«Sono a specchio, rifletteranno i loro occhi ed essi non potranno vedere i tuoi.» Tommaso l’indossò e Matilde si riparò dietro a lui. Il ragazzo evocò il potere del Fuoco e bruciò tutti gli spiritelli che apparvero. Arsero come tanti falò durante la Festa dell’Incanto, finché sul terreno rimasero dei mucchietti di cenere. Quindi, Matilde usò il potere della Terra e sotto ad essi il terreno si aprì ingoiandoli. Tommaso si tolse gli occhiali, li rigirò tra le mani studiandoli, poi fece una smorfia di perplessità e li restituì a Matilde. «Sono occhiali da sole» disse lei. Ma lui le restituì la stessa smorfia. Matilde scosse la testa e se li rimise in tasca. Erano già ate diverse ore. Un sole pallido, come quello immaginato da Camilla, aveva lasciato la sua posizione centrale nel cielo grigio-azzurro e si era di poco spostato e abbassato verso ovest. Matilde tirò su il bavero del suo giubbotto e si strofinò le braccia con energia. Propose si affrettare il o per scaldarsi. «Non fa poi tutto questo freddo» disse Tommaso. «Che posso farci, sono freddolosa.» Allora Tommaso le ò un braccio intorno alle spalle e l’attirò a sé, delicatamente, un gesto ambiguo tra il rispettoso e l’imbarazzato. Lei girò la testa e volse gli occhi in alto per guardarlo. Lui ritenette subito di dover giustificare il gesto. «Ti scaldo un po’» disse. Lei avvertì già un tepore invaderle il corpo. Era una sensazione piacevolissima, come scivolare sotto un caldo piumone. Pensò che non era assolutamente da sottovalutare avere un ragazzo con i suoi poteri, che ti scalda nella stagione fredda e ti rinfresca in quella calda. Le scappò uno sbuffo col naso quando si domandò se stesse parlando di un ragazzo o di un climatizzatore. «Che c’è?» «Niente» rispose lei, ma ci ripensò e le scappò nuovamente un sorriso.
«Non mi pare, direi che qualcosa ti diverte.» «Niente di che. Beh, se proprio lo vuoi sapere, pensavo che sei più efficiente di una coperta di lana» rise ancora e gli cinse la vita appoggiando la guancia al suo petto. I voluminosi ricci solleticarono il naso di Tommaso che ne respirò il buon profumo, la fragranza dell’unguento di Sonaglino. Quell’idillio, se tale era, finì presto. Qualcosa catturò la loro attenzione ed essi si staccarono. Un suono melodioso di flauti e arpe giungeva in sottofondo. Si rigirarono più volte cercando di capirne la provenienza, ma sembrava giungere da ogni parte del bosco. Poi le musicanti si manifestarono: erano le Fate della Terra. Erano un po’ ovunque, chi sedeva sopra un ceppo d’albero o nella biforcazione di un tronco, chi su un enorme fungo e chi sul guscio di una tartaruga gigante. Ed ecco che, da dietro i grossi tronchi di fitolicastro, fecero capolino altre fate che iniziarono a danzare. Erano creature affascinanti e serafiche, esili, non molto alte, con lunghi capelli verdi e mossi adornati con foglie e fiori, vestite di veli i cui colori si mimetizzavano con l’ambiente, e dietro le spalle sbattevano sottili ali di farfalla dai colori pastello. «Sono bellissime!» esclamò Matilde. «Sì, ma non seducono quanto quelle del Fuoco» commentò Tommaso. «Ecco, su qualunque Mondo, voi maschi siete tutti uguali!» «Invece voi femmine, su qualunque Mondo, siete di due tipi: quelle che seducono e quelle che si arrabbiano se guardiamo le prime.» «Bla-bla. Comunque adesso siamo pari» non aveva voglia di continuare quella stupida conversazione che poi, tra l’altro, si sa come va sempre a finire. Si sedette sulla grossa radice di un albero secolare. «Sai, forse hai ragione: non compaiono in base alla prova. Questa volta hai fatto di più tu.» «Fermiamoci un po’, sono stanca. Abbiamo fatto già molti chilometri su questo sentiero.» «Buona idea, sono stanco anch’io. Questo percorso sembra non aver fine.» Matilde prese un rametto da terra e con esso iniziò a tracciare disegni geometrici
sul terreno dopo aver scansato le foglie secche che lo ricoprivano. «Quando ero sulla Terra», disse a un certo punto, «mi chiedevo come sarebbe stato questo momento: il giorno dell’esame... il marchio del Master in Magia sulla spalla. Di certo non potevo immaginare che l’avremmo affrontato insieme. Mio padre me l’aveva detto che è una prova individuale. La doppia emme è il traguardo che ogni mago desidera tagliare. Capisci? È la conferma che sei un mago completo! Per noi del Mondo di Sotto è ancora più importante, perché è solo dopo questo riconoscimento che ci è permesso usare la magia, pur sempre con molti limiti. Fino a ieri per me significava solo questo. Oggi la cosa è molto più seria.» «Per te significa poter usare un po’ di magia nel tuo Mondo, è già una bella cosa. A Nebrus non puoi neppure nominarla la parola “magia”. Questa faccenda va chiusa. Adesso! Sono più determinato di prima. Stiamo insieme?» «In che senso? Cioè… volevo dire sì, siamo insieme.» Certo, in quale altro senso? Stava parlando di Nebrus e non di loro due. «Tu pensi che ci nascondano qualcosa?» «Chi?» «Tutti quanti. Il Consiglio, i professori, … i draghi.» «Pensi che ci sia dell’altro, non è cosi? Anch’io l’ho pensato spesso.» «Sarà, ma quando ci chiedono di unificare il Mondo non fanno la faccia contenta» osservò Matilde.» Tommaso raccolse un sasso, lo soppesò, poi si alzò e lo scagliò lontano. «Æronmì è l’unico a essere stato sincero.» «Perché, cosa ti ha detto?» «Niente nello specifico. Ha asserito che me lo avrebbe detto quando avrei compreso il vero valore dei gemelli elementali. “…Cosa faresti se ti dicessi quello che veramente vi aspetta?” Sono state le sue testuali parole». Aveva omesso la prima parte in cui il drago faceva riferimento ad Altea, tuttavia Matilde l’aveva intuito. «Ha detto “vi”, è ovvio che non si riferisse a me. Lui non sa neppure che esisto.»
«Ti prego, non ricominciare!» «Non ne ho intenzione. Stavo solo traendo una conclusione ovvia» disse risentita. «Se è così ovvia che bisogno avevi di trarla?» «Sei insopportabile» contrariata, si alzò e riprese il sentiero. «Buon viaggio!» La guardò allontanarsi aspettando il momento in cui si fosse girata per vedere se lui la stesse seguendo, ma lei non si girò. Proseguiva decisa per la sua strada, perché si sarebbe dovuta voltare? Lui non aveva scelta, doveva per forza continuare il percorso, anche questa era una conclusione ovvia. Tommaso scrollò la testa e si incammino a lunghi i. «Si può sapere perché finisce sempre che ci becchiamo?» chiese quando l’ebbe raggiunta. Lei non rispose, aveva in mano qualcosa; un rotolo di pergamena che una civetta le aveva lasciato cadere ai piedi poco prima. Perciò si era fermata e Tommaso era riuscito a raggiungerla in breve tempo. L’aveva srotolato, ma gli occhi scorrevano incolti su quei caratteri. «Non ci capisco niente» disse andoglielo. Lui lo studiò un attimo. «È una lingua antica. La si parlava più di duemila anni fa. In quel periodo sono vissuti i più grandi poeti della nostra storia e i loro poemi li leggiamo ancora oggi a scuola. Certo, quella che abbiamo sempre creduto essere la storia di Nebrus, ma che appartiene a tutto il Mondo di Sopra.» «Va bene, ma cosa dice?» «Dunque, vediamo:»
«Devo ripescarle la perla?» «Senza star lì a far la prosa, direi che il succo è proprio quello.» «Questa sarebbe una prova!? Soddisfare i capricci di una Fata?» «Shhh! Non vorrai far torto a una di loro, oltretutto del tuo elemento. Ti ricordo che le fate, quando gli gira, sanno essere molto dispettose. Loro stabiliscono le prove e noi le affrontiamo. Sai bene che non bisogna far commenti e non ci si può tirare indietro». Non era quello il problema, Matilde era pronta ad affrontare qualsiasi prova, ma immergersi nelle acque gelide del lago sperava che non avesse costituito il fondamento di una delle prove. «Il lago l’abbiamo abbandonato ore fa, possibile che dobbiamo tornare indietro?» «Certo che no, Lucilla ci ha raccomandato di proseguire sempre lungo il sentiero, di non lasciarlo per nessuna ragione» così dicendo le si accese un barlume di speranza, forse le fate avevano commesso un errore e avrebbero ritirato la prova. Perciò proseguirono sulla strada maestra senza porsi altri interrogativi. Intanto il sole era all’ultimo tratto e la sua luce purpurea filtrava tra il fitto fogliame. Il cielo si era liberato di un po’ di nuvole e dal versante opposto stava sorgendo Calype, mentre Gregor, con le sue sfumature violacee, era ora in posizione centrale. Dopo una larga curva il sentiero aveva qualcosa di familiare. «Non hai anche tu la sensazione di… déjà vu?» «DI CHE?» «Già visto. Di qui ci siamo già ati.» Anche Tommaso iniziò a far mente locale. Ricordò il punto dove si era allacciato il giubbotto per nascondere la macchia sulla maglia, procuratagli da Matilde quando gli aveva sferzato il ramo pieno di bacche rosse. Il sentiero, dopo aver circumnavigato il lago, si era immesso nuovamente in sé. Infatti, dopo aver fatto ancora un pezzo di strada, si ritrovarono di fronte al lago. Matilde non gioiva di
certo, le toccava affrontare la prova. «Magari le sirene non sono freddolose» volle incoraggiarla Tommaso. Lei lo guardò storto. Notò una rientranza più in là sulla destra: una piccolissima caletta. «Vado là dentro e tu non sbirciare» disse secca. «Tranquilla» disse alzando le mani, come se gli avessero puntato contro un’arma. Matilde entrò in quella nicchia foderata di folta vegetazione e qualche scoglio, e mentre trovava il coraggio di togliersi gli abiti di dosso, Tommaso, pur non avendo ricevuto alcuna richiesta d’intercessione dalla sua gemella, decise lo stesso di farle una sorpresa e agevolare la sua prova, così immerse le mani nel lago. «Voltati» ordinò Matilde. «Sono già voltato.» «E allora allontanati dalla riva» aggiunse lei a maggior tutela della sua privacy. S’avvicinò tremante alla battigia, allungò un piede immergendo l’alluce nelle acque del lago e preparandosi alla sensazione di gelo. Chiuse gli occhi. Contrariamente alle aspettative il dito toccò un liquido tiepido, come l’acqua d’una piscina. Sorrise. Quel ragazzo non era capace a tenere il broncio, ma era sempre disposto ad aiutare gli amici. Oramai questo lato del suo carattere lo conosceva bene. «Grazie!» gli gridò quando era già con l’acqua al busto. «Non c’è di che» rispose lui e si voltò. La superficie del lago rifletteva la luce delle tre lune, poiché anche Lylienit era ormai sorta, evidenziando il profilo della ragazza che dava le spalle alla riva. I bellissimi ricci, di cui ora era impossibile capirne il colore, oscillavano lievemente a pelo d’acqua. Quand’ella si tuffò, la parte inferiore del corpo, che emerse per pochi istanti, aveva ceduto le sembianze umane a quelle della creatura più affascinante del mondo acquatico. Con un colpo di coda, Matilde sparì. Iniziò a scendere fino a toccare il fondale sabbioso del lago. La visibilità era discreta, le lune sembravano tre lampare accese apposta per lei e di cui la
renella fina e bianca ne rimandava la luce. Cominciò a cercare ovunque, lungo il perimetro degli scogli muovendo con delicatezza la sabbia; tra i cespugli di alghe; nei gusci vuoti di alcuni molluschi, abbandonati dal predatore dopo averne pappato il proprietario; sotto un gigantesco fungo; poi andò a disturbare una tartaruga per controllare che non stesse covando la perla della Fata. Il fondale era meraviglioso, bello quanto quello dei mari tropicali sulla terra, vi erano perfino zone ricoperte da corta erbetta e fiori di vari colori, sassi luccicanti e fauna singolare. Sarebbe rimasta volentieri a nuotar tra quelle meraviglie, ma l’unico scopo per cui si trovava lì era recuperare la perla. Ma era come cercare un ago in un pagliaio! E se non fosse riuscita a superare la prova? Poi si ricordò della stella. Salì in superficie per osservare il cielo e trovare la stella più brillante, in modo da stabilire con più approssimazione l’area in cui alla fata era caduto il suo giocattolo. Vide la stella e la sgridò: «Menomale che mi dovevi illuminare il cammino! Se non fosse per le lune, qui sotto ci sarebbe un gran buio.» Che la stella non aspettasse altro? Perché d’improvviso aumentò notevolmente di splendore e proiettò un fascio di luce accecante che trafisse il lago come una spada laser. Matilde s’immerse nuovamente e seguì il fascio di luce. Puntava dritto in un posto dov’era già stata. Finalmente la vide, illuminata dalla stella e sepolta per metà nella sabbia. Non riusciva a credere ai propri occhi: stava cercando una piccola perla, come quelle che s’infilano in sequenza per farne collane, e invece ne aveva davanti agli occhi una della grandezza di una pallina da baseball. «Ehi, Tom. Guarda che meraviglia!». Emerse solo la testa e alzò il braccio per mostrare la sfera. «Dai lanciala!» e si mise in posa come il primo ricettore dei Diavoli Neri, la sua squadra del cuore. «Ma sei matto? È un oggetto troppo prezioso per giocarci.» «Beh, la tua fata ci gioca con tanta leggerezza da non preoccuparsi che le cada.» «Questo non è affar nostro. La perla le appartiene.» «Di’ piuttosto che non vuoi fare una figuraccia. Io sono un ottimo ricettore e tu devi essere una pessima lanciatrice.» «Non stuzzicarmi per far sì che te la lanci; tanto non funziona.»
In quell’istante una bellissima fata ò sopra la testa di Tommaso. Aveva i capelli turchini e vestiva con veli bianchi sui quali sfavillavano spruzzi di azzurro. Si fermò a mezz’aria con le mani ai fianchi e lo fissò con smorfia contrariata, poi con un gesto rapido della mano, come se volesse schiaffeggiarlo, gli schizzò d’acqua il viso. Soddisfatta, ondeggiò verso Matilde e colse la perla dalla sua mano. Se la strinse forte al petto, cullandola. Poi adagiò un bacio sulla propria mano e lo soffiò in direzione della ragazza. Salì più in alto e sotto la luce della stella iniziò a giocar con la sua perla. Arrivarono altre Fate d’Acqua e si disposero a cerchio intorno ad Acquitrella, ed ella lanciava a turno la sfera ad ognuna di quelle che a lei la restituiva. Mentre le fate canticchiavano una filastrocca che accompagnava il loro gioco, Matilde fece segno a Tommaso di voltarsi, roteando l’indice. Uscire dall’acqua tiepida scaldata da Tommaso richiedeva una buona dose di coraggio, Matilde strinse i denti e andò di corsa alla caletta dove s’era spogliata. Le si scaldò anche il cuore quando vide ardere un focherello che teneva al caldo i suoi vestiti. Tommaso li aveva infilati in un ramo che aveva puntellato tra due scogli. «Alla fine del viaggio penso di assumerti. Sei impeccabile come maggiordomo.» disse ad alta voce mentre si rivestiva. «Ti ringrazio, ma ho ben altre ambizioni.» «No, sono io che ti ringrazio. Ancora una volta.» «Non c’è di che.» «Puoi venire, sono vestita.» Tommaso la raggiunse, era seduta vicino al fuoco che cercava di asciugarsi i capelli. «Due a uno. Adesso sono in vantaggio io.» «Meglio, così non rompi» rispose lui. Lei gli fece la linguaccia. «Dopo le Fate dell’Aria, potremo finalmente riposare.» Tommaso guardò il suo orologio: erano le 25:15, «Al college è appena iniziata la terza parte delle lezioni.» «Di’ piuttosto che hanno appena finito di cenare. Non ci vedo più dalla fame!» «A chi lo dici! Non mangio da ieri sera.» Poi ebbe un pensiero che lo fece
sorridere, «T’immagini Karmis al nostro posto? Bisogna che gli dica di prepararsi uno zaino di provviste per quando toccherà a lui.» «Non credo abbia bisogno delle tue raccomandazioni, in questo è molto più avveduto di noi.» «Un po’ noiose le tue fate con la loro tiritera» osservò Tommaso. Le creature magiche stavano ancora giocando sul lago, al chiaror della stella. «Non posso darti torto. Io le trovo addirittura infantili.» «Però quelle del Fuoco…», troncò il discorso non certo per l’ espressione di Matilde, «Cos’è quell’increspatura?» «Dove?» «Sul lago, laggiù» indicò un ampio cerchio dentro cui l’acqua si stava arricciando. Anche le fate se ne accorsero e abbandonarono all’istante il loro divertimento. Fecero gruppo stringendosi l’un l’altra. «Loro devono sapere di cosa si tratta» disse Tommaso, ma dopo un secondo lo seppe anche lui e Matilde. Dal lago affiorarono, una dopo l’altra, nove teste serpentiformi su lunghi colli sottili. Dalle nove bocche fuoriuscivano lunghe lingue biforcute; poi emerse anche il tronco, dove i colli erano attaccati, e parte del corpo. Una mostruosa massa nera che agitava le sue teste indipendenti tenendo d’occhio ogni cantone. «Io sono appena stata là dentro», disse Matilde in preda a un forte turbamento, «…con quel terribile mostro!» «Ho rischiato la vita per una palla di perla» il suo sconcerto era in crescendo. La situazione fece arrabbiare Tommaso; il pensiero che Matilde avesse rischiato d’imbattersi in quella bestia gli procurò dell’astio verso quelle creature spensierate che non sapevano fare altro che trastullarsi. «Ecco perché nessuna di voi è scesa a ripescare la perla. E non venitemi a raccontare che questa era la prova che avevate in serbo per lei, perché non ci credo.» Alzò la voce e levò il dito accusatorio contro di loro. Con facce
indispettite, le fate borbottarono qualcosa d’incomprensibile; poi Acquitrella lanciò la perla a Tommaso. Lui l’afferrò con la mano destra, una presa sicura. «Non voglio giocare con voi», ma le fate si voltarono e sparirono. La perla nella mano di Tommaso si tramutò in una spada lucente con effige di drago. Il ragazzo esaminò l’arma e tagliò l’aria con un paio di fendenti, poi guardò la sua gemella. Lei fece segno di No con la testa. «È troppo rischioso.» «Anche tu hai rischiato. Siamo i gemelli elementali, forse sono davvero queste le prove che ci tocca affrontare. Oppure sta succedendo tutto a causa mia: ricordi quando ho deriso la facilità della prima prova? Adesso, perciò, andrò a sconfiggere quel mostro.» Ostentò coraggio mentre dentro tremava e il cuore gli batteva in gola. Si tramutò in un drago col cui artiglio brandiva la spada e si domandò che cosa avrebbe fatto Æronmì. Chi lo sa? Meglio pensare a cosa avrebbe fatto lui. Il mostro aveva voltato tutte le teste nella sua direzione, sembrava aspettarlo, attento a valutare la sua prima mossa. La vista di un avversario della propria stazza aveva il suo interesse e l’istinto di competizione. Si era sollevato mostrando anche la coda a punta di lancia, una tattica per intimorire il rivale mostrando la sua intera mole. Tommaso si levò in volo sul lago. «Tom!» mormorò Matilde. Lui non la udì oppure fece finta. Lei sospirò e scosse la testa, doveva capire come aiutarlo. Quando si trovò di fronte al mostro, Tommaso provò a colpire le teste più al centro con una fiammata. Eppure sembrò aspettarselo che le teste si separassero lasciando che il fuoco asse oltre. Guardò la spada: l’unica soluzione era tagliare le teste della bestia, tutte tranne una. «Tom, è un’idra» urlò Matilde, e indirizzò la voce con le mani perché giungesse più chiara. «Grazie, lo vedo da me.» «Qualsiasi testa tagli ne ricresceranno due, a meno che non tagli l’unica immortale.»
«So anche questo, ma come faccio a capire qual è, sono tutte uguali.» Una delle teste si era avvicinata pericolosamente cercando di assestare il suo morso velenoso. Tommaso la schivò portandosi sul fianco, poi, con mezza torsione, fece scendere la lama di sbieco sul collo, una ventina di centimetri sotto la testa, per lo più. Recisa di netto, la testa sprofondò nel lago. Neanche il tempo di tirare un sospiro che, dal moncone fresco e gocciolante di sangue letale, germogliarono due protuberanze e subito dopo il mostro aveva dieci teste. Prima che le due nuove teste potessero agire, egli le recise di netto e con l’alito rovente cauterizzò la ferita. Dal tessuto bruciato non poterono ricrescere nuove teste. Tommaso capì che quella era la mossa giusta e si animò. Aveva dalla sua la facoltà di muoversi liberamente attorno all’idra – mentre l’avversario beccheggiava sull’acqua apparentemente senza via di scampo a meno d’inabissarsi – però le sue otto teste si muovevano all’improvviso in tutte le direzioni. Il drago era armato di spada, l’idra uccideva col suo fiato velenoso, ma nel caso del drago non avrebbe avuto efficacia per cui avrebbe cercato di morderlo per iniettargli in sangue il veleno. Tommaso credette di aver individuato la testa centrale, quella immortale, ma tutte quante si muovevamo così velocemente scambiandosi di posto che la perse di vista. Capì che se si fosse concentrato a seguire quella, le altre lo avrebbero colto di sorpresa. Giocò in difesa anziché in attacco, aspettando che una di loro fe la prima mossa. Non appena una testa attaccava, il drago la mozzava con agilità e ne cauterizzava il moncone. Le teste caddero finché rimase l’ultima. Stavolta attaccò e con un tondo rovescio staccò di netto la testa centrale. Dalla ferita cauterizzata, però, affiorò una protuberanza, miliardi di cellule si riprodussero velocemente dando origine a una nuova testa. Quando ormai pensava di averla sconfitta, si rese conto che il termine immortale non era utilizzato a caso. L’espediente usato con le altre teste non poteva funzionare con quella immortale. Che altro avrebbe potuto fare? Così in quell’attimo di disorientamento, in cui stava cercando di riflettere velocemente, non riuscì ad evitare il fulmineo attacco del mostro che lo colpì violentemente con la coda, e mentre vacillando perdeva quota, lo morse alla zampa posteriore sinistra. Disteso sul fianco destro, il drago ebbe la forza di rigirarsi e mentre eseguiva la torsione tese la zampa anteriore destra che brandiva la spada e con uno dritto sgualembrato gli recise nuovamente la testa. Sapeva che non valeva a niente, pensò solo di guadagnare qualche attimo per riprendersi. Invece, si sentì mancare le forze e perse la forma di drago. Cadde nel lago. Matilde agì rapidissima e col potere della Terra, prima che lui potesse affondare, lo aveva tratto in salvo sulla riva. Lo tenne stretto e si traslò con lui nella caletta, dove un pezzo di legno stava ancora bruciando. Si tolse il foulard e
lo legò stretto alla gamba sanguinante di Tommaso, al di sopra del morso dell’idra, per impedire al veleno di diffondersi. Mentre soccorreva il suo gemello teneva d’occhio il mostro. Si era accorta che si stava avvicinando, nuotava restando col dorso a pelo d’acqua, come un coccodrillo. Matilde sapeva che l’idra poteva uscire dall’acqua e camminare sulla terra ferma con le sue zampe di drago. Provò a respingerla col potere dell’Acqua dando vita a un’onda gigantesca, quando capì come distruggerla. «Tom, Tom!» lo scosse, il ragazzo era debole e tendeva a perdere i sensi. «Ti prego resta sveglio o il veleno agirà più in fretta.» «Ascolta, ho capito quello che dobbiamo fare. Se non ci liberiamo di lui non potrò lasciarti qui da solo per andare a cercare le erbe curative.» «Tom, Tom!» lo scosse di nuovo, «mi stai ascoltando? Rispondi.» «Sì, ti ascolto» rispose a fatica. «Mancano solo le fate dell’Aria, perciò è quello il potere che dovevi usare. Le fate dell’Acqua ti hanno ingannato, dandoti la spada, perché tu le hai accusate.» «Ascolta, devi richiamare tutta l’aria di cui sei capace, ce la puoi fare. Quando io travolgerò l’idra con l’onda, tu soffierai aria gelida che la congelerà, e poi con la forza dirompente dell’Aria la manderai in frantumi.» Matilde aveva ragione, se solo ci avesse pensato prima adesso Tommaso non sarebbe in quelle condizioni disperate. Però era andata così e Tommaso dovette fare uno sforo incredibile per fare ciò che la sua gemella gli aveva chiesto. L’astuzia di Matilde si dimostrò vincente. Non appena l’azione si concluse Tommaso perse i sensi. Prima, però, riuscì a vedere l’esplosione di grossi chicchi di grandine al cui interno racchiudevano un brandello di idra. Il ghiaccio, sfavillante alla luce delle lune, pareva una cascata di scintille che ricade dopo lo scoppio di un fuoco d’artificio. Matilde non perse tempo a guardare quella scena, ma ravvivò il fuoco, quindi prese un tizzo e sparì per ricomparire nel punto del bosco dove ricordava di aver visto delle bacche rosse. E di nuovo spariva da un posto e ricompariva in un altro, finché non ebbe raccolto tutte le erbe mediche che le occorrevano per preparare l’impasto da stendere sopra la ferita di Tommaso, e l’infuso, quale antidoto contro il veleno dell’idra. Vide un grosso frutto dal guscio legnoso e lo
raccolse per utilizzarne la metà vuota del guscio come mortaio. Quando tornò da Tommaso lo trovò in compagnia. Una bellissima fata dai capelli verdi si stava prendendo cura di lui; aveva spalmato sulla ferita un impasto di erbe curative e il ragazzo aveva già ripreso conoscenza, tuttavia era debilitato e febbricitante. Le fate, pur mostrandosi a volte dispettose e vendicative, non avrebbero mai permesso che un ragazzo perdesse la vita durante l’Esame Elementale. Così era subito intervenuta Linfarella che, come tutte le fate della Terra, era esperta in guarigioni. La fata guardò le erbe nelle mani di Matilde e con un gesto leggiadro gliele fece sparire, poi sorrise e se ne andò svolazzando con le sue sottili ali di farfalla. Allorché, giunse un giovane gnomo, col panciotto nero sotto la giacchetta aperta verde petrolio. In testa calzava un cappello a cono color bordeaux dal cui bordo sfuggivano riccioli corvini, e i suoi calzoni erano in tinta col cappello. Aveva l’aria annoiata ed enfatizzava la camminata tenendo le mani in tasca. Disse di chiamarsi Nivelong Orobel Klansmith, ma che potevano chiamarlo solo Nivelong. «Sono venuto a riferirvi il volere delle Fate. Esse vogliono che iate la notte in quella caverna» così dicendo lo gnomo indicò una parete scoscesa di roccia bianca a circa un chilometro; era parzialmente illuminata da Gregor, la luna che s’apprestava a calare dietro a essa. Nella zona in ombra, una macchia più scura a forma di petalo lasciava intuire che quella era l’entrata della caverna; una stretta mulattiera ci ava davanti e terminava, poco più in là, di fronte a una roccia invalicabile. «Dovrete aspettare là il sorgere del nuovo giorno» aggiunse col fare dello sfigato a cui è toccato di far qualcosa che il quel momento proprio non gli andava. Matilde toccò la fronte di Tommaso, scottava. Aveva chiuso gli occhi ed era percorso da brividi violenti. Gli sollevò la testa andogli sotto il braccio sinistro e ò l’altro braccio sotto le ginocchia, come se volesse prenderlo in braccio; in quella posizione, comparve con lui nella caverna. Quando lo adagiò, l’antro s’illuminò: dei ceppi in un angolo avevano preso fuoco. La fioca luce aveva svelato sul pavimento un grande rettangolo di stoffa, su cui erano posate diverse ciotole colme di cibo. Dall’oscurità, una figura andò verso il fuoco per mostrarsi, era Nivelong. Aveva tra le mani una ciotola di legno colma di un liquido ambrato. «Falla bere al ragazzo», disse a Matilde, «è l’antidoto al veleno dell’idra.»
«Linfarella vuole che ti riferisca che le erbe che avevi raccolto per il tuo amico erano quelle giuste. Tuttavia guarire il ragazzo non ti era stato richiesto.» «Non mi era stato richiesto? Non avrei certo atteso il permesso delle fate per salvare il mio amico.» «Non mi sono spiegato, intendevo dire che nel Paese delle Fate non viene chiesto di compiere azioni indipendenti da una prova d’esame. Eventuali situazioni di crisi vengono gestite direttamente dalle fate o dai loro incaricati.» «Il mio compito è terminato. Vi saluto». Ma mentre stava per uscire, si ricordò di una curiosità che voleva soddisfare, «Ah, volevo chiedervi... Come mai siete in due? So per certo che la prova d’esame è individuale, oltretutto non è mai in questo periodo dell’anno. Cosa avete combinato?» «Noi niente, ha combinato tutto il Consiglio dei Cinque.» Vide che il piccoletto la guardava con gli occhi stretti. «Siamo i gemelli elementali» spiegò Matilde. A questo punto gli occhi gli si spalancarono. Si era lamentato dell’incarico affidatogli e ora si rese conto che doveva essere grato alle fate per essere stato prescelto. Fece un profondo inchino e se ne andò gongolando dopo aver esternato tutta la sua profonda ammirazione. Per un pezzo avrebbe avuto di che parlare e vantarsi con gli altri gnomi. Matilde non gli aveva dato praticamente retta, e aveva accennato una leggera contrazione delle labbra, giusto per gentilezza. Stava pensando soltanto a destare Tommaso perché riuscisse a bere l’infuso. Aveva faticato a farglielo ingoiare tutto poiché lui collaborava a tratti. Spostò le ciotole col cibo, provocando un’ondata di profumi che cercò d’ignorare; strappò una striscia di stoffa dalla tovaglia, richiamò l’Acqua per intridere la pezza e gliela pose sulla fronte. Sedette dietro a lui, gli sollevò il capo e s’avvicinò per farlo appoggiare sulle sue gambe. Aspettando che l’antidoto fe effetto, teneva umida la pezza e gli accarezzava i capelli. Aspettava e guardava le ciotole, gli accarezzava i capelli e guardava le ciotole, strizzava la pezza che aveva troppo inzuppato e guardava le ciotole. I morsi della fame la stavano dilaniando e il suo stomaco era un brontolio unico. Poi guardava Tommaso e si sentiva un verme nel pensare al cibo mentre lui era mezzo moribondo. «Ma sì dai... solo un frutto. Devo essere in forze per dare aiuto a Tom» mormorò a se stessa.
«Ehi, Terremoto… ti ho sentita. Non preoccuparti per me, mangia pure. Sai che sto già meglio?» «Ehi, ben tornato!» «Cosa mi hai fatto?» «Beh, non posso certo prendermi il merito. Per dirtela tutta, le fate non me l’hanno permesso; avevo raccolto tutte le erbe necessarie, ma a quanto pare non possiamo prendere iniziative al di fuori di quelle necessarie a superare le prove. Lo gnomo… ti ricordi dello gnomo?» – non se ne ricordava – «beh, è arrivato un nanerottolo di nome Nivelong e ha detto che delle emergenze che riguardano i ragazzi se ne occupano direttamente le fate. Mi ha portato l’antidoto che ti ho fatto bere. Ce n’è voluta per fartelo mandare giù.» «Che fai? Stai buono!» Tommaso accennò ad alzarsi, lei gli toccò la fronte, era fresco. «Come hai fatto a sfebbrare così in fretta?» «Pare che l’antidoto abbia un effetto rapido. Lasciami alzare, sto bene.» Si mise seduto, aveva un leggero cerchio alla testa, ma sentiva di aver recuperato le forze. «Posso invitarti a cena?» «Mi prendi proprio per la gola! Come potrei rifiutare?» «Scusa, il locale non è molto raffinato, è anche un po’ freddo. Il servizio è completamente scadente, anzi non c’è proprio, ma è tutto ciò che in questo momento posso offrirti.» «Non preoccuparti, basta il pensiero. Adesso piantala con questa commedia e mangiamo» concluse Matilde agguantando una ciotola a caso. «E comunque non ti ho dato il permesso di chiamarmi Terremoto» disse con la bocca piena.
Matilde aveva richiamato una grande quantità di foglie secche e pagliuzze all’interno della caverna. L’aveva ammucchiata e ricoperta con la tovaglia,
formando così un pagliericcio. Si stesero a riposare, erano stanchi morti, ma prima di addormentarsi parlarono un po’ di quello che avrebbero fatto l’indomani dopo aver ricevuto la conferma dei poteri, perché di questo erano certi: avrebbero lasciato il Paese delle fate con il marchio della doppia M sulla spalla destra.
Capitolo 25
Il dono di Altea
L’anziana donna si guardò intorno con curiosità. Si strinse nella mantella mentre osservava la superficie del lago increspata dal vento. Un lago che non aveva mai visto e di cui, in tutta la sua vita, era sicura di non averne neppure sentito parlare. La natura incontaminata racchiudeva lo specchio d’acqua cristallina, e le montagne, in cima alle quali la neve si era ormai sciolta, facevano da sfondo alla conca. Virginia capì dove la ragazza l’aveva portata. “Un luogo dove nessun altro può entrare”, aveva detto Altea. Non poteva che essere il Bosco di Nebrus, ma il bosco era solo la parete invalicabile poiché all’interno s’apriva un mondo. «Che meraviglia!» esclamò. Si riempì i polmoni d’aria e inalò tutti gli odori della natura. Altea le stava dietro e le teneva le mani sulle spalle. «Senti il profumo della Terra», la stimolò, «Oggi riacquisterai i poteri del tuo elemento. Questo è il mio dono.» «Stai scherzando, vero?» fece la donna voltandosi di scatto, «hai davvero tutto questo potere!?» «Mi piacerebbe, invece il dono è commissionato. O meglio sarà commissionato, poiché l’artefice, al momento, non lo sa. Non gliel’ho ancora chiesto.» «Vive qui! Altra gente vive isolata da Nebrus? Scusa, ragazza, ma te lo devo proprio dire, il tuo antenato era un...» «No, nessuno vive qui oltre ai draghi. Lui isolò i draghi poiché, in quanto guardiani degli elementi, essi costituivano una minaccia per lui. Quando delimitò questa zona stava iniziando a perdere i poteri che aveva sottratto alla sua gemella, è per questo che la barriera è debole rispetto al confine e solo io ho la capacità di oltrearla.» In un certo senso mentì, sapeva bene che c’era un’altra persona che era in grado di farlo. «Dunque esistono davvero, non è una diceria.»
«Certo. Veramente è da tanto che non vengo qua e di draghi adulti non ne ho incontrati, però sono sicura che ci sono perché, quand’ero piccola, ne ho preso un cucciolo e me lo sono portato a casa. Volevo bene al mio draghetto, l’avevo chiamato Vaporetto perché mi divertiva quando sbuffava vapore dalle narici. Un giorno non l’ho più trovato, non so che fine gli abbia fatto fare la nonna. Lei fa sparire tutto ciò che mi rende felice.» Virginia annuì. «Mi disse che i draghi non si fanno sentire, però avvertono sempre la presenza degli umani; che loro sanno che ho portato via il piccolo drago e sicuramente saranno adirati con me; che avrei fatto meglio a stare alla larga da questo posto. È per questo che non ci sono più venuta.» «Però adesso sei qui, non temi più la loro rabbia?» «La verità è che non credo più ad Argelia Nerasmo. Chiederò perdono ai draghi per lei, perché io non ho mai fatto del male a Vaporetto. Lo so che ho sbagliato a portarlo via alla sua mamma, ma allora ero piccola e intendevo solo giocare, non potevo immaginare le conseguenze.» «Ciononostante, siamo qui per te, perché ho promesso al dott. Zagreus che ti avrei aiutata e il Guardiano della Terra non vorrà certo rifiutarsi di ridarti il potere del tuo elemento. Lui sa che sei una persona giusta.» «Ti ringrazio. Però, se Argelia venisse a saperlo o anche i Cacciamaghi...» «Ma tu agirai solo entro le quattro mura della tua casa. Nessuno lo verrà a sapere e ad ogni caso ci sarò sempre io a proteggerti.» Qualcosa si mosse tra gli alberi, una gigantesca macchia azzurra confusa tra il fogliame. Non c’era bisogno di chiedersi cosa fosse, ne seguirono lo spostamento finché sbucò fuori sul sentiero. «Ti sei fatta grande, Altea» parlò il drago in tutta la sua maestosità. «Io sono Æronmì, il Guardiano dell’Aria. Vi do il benvenuto nella Valle dei Draghi.» «Grazie, Æronmì. Io sono Virginia Zagreus, consorte del fu Clemir Zagreus. Spero di non essere di disturbo nella vostra terra.» «In qual caso, la colpa sarebbe soltanto mia. Sono stata io a portare qui questa
donna, nella speranza che vogliate accogliere una richiesta. Altrimenti ce ne andremo.» «Altrimenti ve ne andrete? Credevo che non fosse l’unico scopo della tua visita, ma forse ho capito male» disse il drago allungando il collo e distendendo tutta la sua mole con un battito d’ali. Altea chinò il capo e il suo sguardo si posò sulle zampe anteriori del drago e lì rimase finché parlò. «Hai ragione, Æronmì, Guardiano dell’Aria. Sono venuta anche a chiedere perdono a tutti i draghi per la cattiva sorte capitata al draghetto che ho portato via. Volevo un compagno di giochi col quale are il mio tempo e invece ho inconsapevolmente sancito la sua morte. Sono addolorata di questo, credimi.» «Percepisco la tua sincerità.» «Aspetta, non è tutto. Io sono l’ultima discendente dei Nerasmo, e siccome si dice che le colpe dei padri ricadono sui figli, oggi vengo anche a chiedere indulgenza per il confino in questa valle a cui vi ha condannato il mio trisavolo, Bruto. Sappiate che se un giorno dovessi trovare il modo di liberarvi non esiterò a farlo.» «Anche adesso ho percepito la tua sincerità. Apprezzo le tue parole.» «Prima ho ascoltato la vostra conversazione», rivelò il drago, «È lodevole l’interessamento che hai mostrato per Virginia e ti annuncio che il tuo dono sarà elargito.» Æronmì si genuflesse. «Salite in groppa a me. Vi condurrò nella Valle Incantata, dove troveremo la Guardiana della Terra.» «Oh! Una femmina» Altea se ne compiacque. «Sì. Una dragonessa dorata.» Virginia si tirò su il cappuccio e Altea le diede una mano a salire. Salì con riluttanza, ma lo tenne per sé per non essere scortese. Il drago, ovviamente, lo percepì. «Non tema, gentile signora. Andrò molto piano. Vedrà che non le accadrà nulla.» «Æronmì, come fai a sapere il mio nome?» chiese Altea ad un certo punto. Non
le era sfuggito che il drago l’avesse usato, oltretutto era sicura che Virginia non l’avesse nominata. Il drago volse di poco la testa e la guardò con la coda dell’occhio, ma non le rispose. «Non sei l’unica che può entrare nella nostra valle. Dovresti saperlo. Ho ricevuto un’altra visita» rispose in seguito. Altea e Virginia giunsero con Æronmì nella Valle Incantata. Le immagini davanti a lori occhi ne esplicavano in pieno l’aggettivo. «È davvero un incanto!» disse Virginia mentre il drago iniziava a planare dolcemente. «Già, dev’essere meraviglioso vivere qua. È meglio di Nebrus» disse la ragazza pensando di stuzzicare in Virginia l’idea di rimanere. Questo era stato nelle sue intenzioni, ma la donna aveva ribadito con fermezza di voler restare a casa sua. Certo che se avesse cambiato parere, Altea sarebbe stata più tranquilla. Le colorate miniature in movimento, azzurre, verdi, viola, rosse e dorate, giunsero alla loro naturale grandezza. Le due ospiti posarono i piedi per terra. Erano circondate da una tribù di draghi scostanti e sospettosi. Dopo le presentazioni e le parole di Æronmì, il loro umore si quietò. Øþhelia si disse disposta a risvegliare la coscienza di Virginia e renderle i poteri della Terra. Al momento di far ritorno a Nebrus, Æronmì, a nome di tutti i draghi, chiese a Virginia se le avesse fatto piacere rimanere nella loro valle. Ella lo ringraziò e gli disse che, seppure la valle era davvero un incanto, come aveva già asserito, il posto migliore in cui vivere rimane pur sempre la propria casa. Il drago azzurro annuì. «Sagge parole.» Si avvicinò allora ad Altea e abbassò la grossa testa al suo livello. La ragazza gli ò un braccio intorno al collo. «Grazie, Æronmì. Te ne sarò per sempre grata. Mi piacerebbe poter ricambiare in qualche modo...» «Un modo ci sarebbe, ma non è una cosa che puoi fare da sola. Hai bisogno di lui. Insieme potreste fare la cosa più giusta, dipende da che parte stai tu. Perché una volta che ci avrete liberato, risveglieremo le coscienze della popolazione e la conseguenza sarà la fine dell’autocrazia dei Nerasmo.»
«Mi chiedi da che parte sto. Vedi, qualche goccia del sangue dei Nerasmo scorre nelle mie vene, ma non ne porto il nome: mi chiamo Altea Ollgiast. E non voglio sentirmi responsabile della crudeltà che ho visto perpetrarsi sotto lo stemma dei Nerasmo. Vorrei davvero metter fine alla sofferenza della gente che patisce a causa di Argelia...», scuoteva la testa al pensiero delle celle nei sotterranei, «non immagini neppure quel che hanno visto i miei occhi.» «So che farai la cosa giusta, riesco a percepire la tua coscienza, e poiché oggi siamo in vena di doni, voglio farti un regalo» mormorò il drago. «Un regalo... a me?» Altea era meravigliata. Da molto tempo non riceveva più un regalo. Aveva dimenticato la gioia e l’emozione che si prova in quella circostanza. La sua mamma si divertiva a farle piccole sorprese nascondendogliele sotto la tazza rovesciata sul vassoio della colazione; le cose più grandi, invece, le nascondeva sotto il letto, dove metteva anche un diffusore di profumo. Non appena la fragranza solleticava le sue narici, intuiva subito che sotto il letto c’era una sorpresa per lei. Questo era uno dei pochi ricordi rimasti impressi nella sua mente. Ma dopo quel breve periodo felice, da chi avrebbe potuto ricevere ancora dei regali? Non certo da Argelia, che non aveva tempo per queste smancerie, né tanto meno da Goran, non perché non le volesse bene, è che proprio non ci pensava; inoltre non aveva amici da cui ricevere dei presenti nelle occasioni speciali, perché chi potesse incontrare era stato stabilito a Palazzo. A dire il vero, cominciava solo adesso a sentire la mancanza di amicizie, prima aveva la tendenza a schivare i coetanei con un atteggiamento quasi di ripicca. Nel pensiero popolare, la somiglianza con Argelia bastava a identificarla con la nonna anche nel carattere e questo, per un intervallo della sua vita, coincise con la verità. «Sì, proprio a te», disse Æronmì e accostò la sua ala sinistra alla ragazza, quasi a creare un séparé per una conversazione confidenziale. «Si tratta di un regalo molto importante che va oltre il semplice dono che Øþhelia ha fatto a Virginia. Devi sapere che, tanto tanto tempo fa, eravamo noi guardiani ad avere il compito di confermare il potere dell’elemento ad ogni individuo. Capacità che anche le Fate hanno sempre avuto, ma siccome esse si negavano, si estraniavano ed erano costantemente impegnate nell’attività del dolce far niente, non erano state prese in considerazione per questa mansione. Fu poi il Consiglio dei Cinque presieduto da Galdino Hondis a decidere che le Fate non potevano continuare a occupare un vasto territorio, il Paese delle Fate – terra sottratta all’insediamento urbano per rispetto alle creature magiche, che esigevano uno spazio privato dove condurre
una vita al di fuori dei canoni antropici – senza dare in cambio un contributo alla comunità. Così noi draghi venimmo alleggeriti di questo compito che venne assegnato alle Fate. «E il mio trisavolo ha pensato bene di lasciare quel territorio dall’ altra parte e confinare voi in quest’altro. Non era poi tanto preoccupato delle facoltà magiche del lignaggio.» «Un personaggio controverso; dubito che un giorno potrò riuscire a tracciarne le varie sfaccettature. Comunque, adesso ci importa il presente, per questo ho chiesto a Øþhelia e a Īriɖio di esercitare nuovamente la nostra antica mansione per confermare il tuo potere della Terra e quello dell’Acqua.» La dragonessa dorata e il drago verde si avvicinarono ad un cenno di Æronmì e adempirono la richiesta del drago azzurro. «Non siamo in possesso della Penna Marcante, poiché fu consegnata alle Fate con il conferimento a loro della nostra vecchia mansione. Perciò non potremo regalarti anche il simbolo della doppia M sulla spalla destra, ma la conferma dei poteri che hai appena ricevuto ha ugualmente valore. Diciamo solo che non potrai andare in giro a sfoggiare il marchio; non è quello che avvalora le tue abilità.» disse Æronmì, dopo che i suoi colleghi avevano inondato la ragazza con la luce emessa dal medaglione che penzolava dalla catena intorno al loro collo. Un medaglione dorato con il simbolo elementale della Terra, per Øþhelia, e uno verde col simbolo dell’Acqua, per Īriɖio. Dai due oggetti era scaturito un fascio di luce, uno dorato e l’altro verde – come il colore della pelle dei draghi – che avvolsero Altea sollevandola e facendola roteare dolcemente in senso orario e riflettendo sul suo corpo una miriade di simboli elementali dell’Acqua e della Terra, che danzavano come un gioco di colori nella deviazione dei fasci di luce prodotta da un prisma. La ragazza li ringraziò e loro se ne andarono fieri di quanto avevano fatto. «Grazie anche a te, Æronmì. Ero all’oscuro di questa dote.» «È un dono che non va sprecato. Viene elargito soltanto ai meritevoli, a chi ha un’ottima padronanza delle arti magiche e dell’elemento.» «Ne farò tesoro.»
«Bene. Adesso vai e portami il ragazzo. Anche lui ha bisogno della conferma.» «In verità non so dove cercarlo. Sembra essere svanito nel nulla, è ata un’intera stagione senza che sia riuscita ad avvertire la sua presenza.» «Uhm, sì... è molto strano. Pensavo che sarebbe tornato a trovarmi. Mah!» Altea pensò che la donna bionda stesse proteggendo Tommaso, nascondendolo chissà dove. Certamente intorno a loro doveva esserci costantemente uno scudo protettivo molto forte per non essere percepiti neppure dai draghi. Uno scudo eretto da un buon gruppo di persone che avevano stretto un sodalizio e di cui la madre di Tommaso doveva far parte. La ragazza non disse niente della donna al drago azzurro, poiché avrebbe dovuto confessare anche di averle spedito contro le guardie. Cacciò quel pensiero, ma dall’occhio indagatore della creatura, con la pupilla rossa stretta in una lunga fessura, immaginò che, in qualche modo, fosse già stato colto. Doveva far ricredere Æronmì, contraccambiando il regalo ricevuto. «Adesso devo proprio andare. Devo riportare a casa Virginia; sarà stanca.» “Poi ho un paio di cosette da sistemare a casa mia...” pensò.
Capitolo 26
Le cose evolvono...
Varcò la porta di casa e l’aria, per la prima volta, le sembrò irrespirabile. I suoi i rimbombarono sordi mentre percorse in fretta le ampie stanze semivuote dai soffitti molto alti. Avrebbe accettato la proposta di Æronmì di rimanere nella Valle dei Draghi, se solo il drago l’avesse fatta a lei anziché a Virginia. In quel luogo, si era lasciata tutto alle spalle e adesso si sentiva un’altra persona, decisa a rimettere ordine nella sua giovane vita e a predisporre un futuro migliore. Migliore per tutti. Altea andò decisa nei sotterranei certa di trovare sua nonna Argelia nello studio-laboratorio, un ambiente freddo e umido, dove la malvagità della donna trasudava da ogni parete. Aprì la porta, ma nella stanza non c’era nessuno. “Perché ha avuto fretta di andarsene dalla casa del dottor Zagreus?” si chiese la ragazza continuando a cercarla. “Forse sarei dovuta correre subito qui per scoprirlo e occuparmi poi di Virginia”, prese a correre per tutte le ali del palazzo, aprendo e richiudendo stanze vuote, finché giunse nell’appartamento del governatore, suo padre. Goran era impegnato in una sorta di puzzle tridimensionale del suo palazzo. Un miscuglio di pezzetti colorati, per lo più delle varie tonalità di grigio, erano sparpagliati sul tavolo. La costruzione dell’edificio, che al momento pareva invece una struttura diroccata, stava magicamente sospesa a mezz’aria e il governatore gli girava intorno con un frammento in mano, cercando di azzeccare il corretto incastro. «Dov’è? Non la trovo da nessuna parte» chiese Altea irrompendo nella stanza. «Chi? Tua nonna?» Goran replicò con un’altra domanda; le diede una fugace occhiata e riprese a concentrarsi sul suo atempo. «Sì, tua madre; l’hai vista?» «Non proprio. L’ho sentita entrare in camera sua e rovistare freneticamente... Non è neppure questo», disse mettendo da parte il pezzo di puzzle e cercandone un altro, «... Poi ne è uscita, ho sentito sbattere la porta e, immediatamente dopo, anche il portone d’ingresso. Quindi ne deduco che sia uscita.» «Neanche una parola?»
«No.» Poi sembrò ripensarci, «Ah, una cosa strana: non appena si è chiuso il portone, ho sentito un vibrante nitrito. Ho guardato fuori dalla finestra e c’era una carrozza... già lontana. Deve essersi fatta dare un aggio da qualcuno. Strano che ci sia ancora chi usa la carrozza, non trovi?» ma quando si decise a guardare sua figlia, staccando gli occhi dal puzzle, vide che era impallidita. «Che ti succede? Sembri un cadavere!» «Non sono io il cadavere, ma colui che era dentro quella carrozza. Quello che hai visto era il cocchio del Conduttore delle Anime, e il eggero era il dottor Zagreus. È morto questa mattina.» «Davvero!? Il vecchio Zagreus? Oh, come mi dispiace! E tu come l’hai saputo?» «Io ero lì, al suo capezzale.» «Per quale ragione ti saresti trovata là?» stranito, Goran abbandonò decisamente l’hobby e si avvicinò alla figlia. «Mi ha fatto chiamare perché aveva una confessione da farmi», sentì un nodo alla gola e le lacrime sfuggire al suo controllo. Goran la fissò inquieto, «doveva liberare la sua amina da un enorme peso, quello di essere stato obbligato a mantenere il segreto su una colpa altrui. Ciò che Zagreus aveva bisogno di confidarmi, prima di morire, era la verità sulla morte della mamma» le lacrime strariparono dai suoi occhi come un fiume in piena, scorrendo in rivoli rigonfi lungo il viso. Goran l’afferrò per le braccia, scuotendola, come se il resto della storia sarebbe saltato fuori dalla ragazza a seguito di quella sollecitazione. «Veleno... è stata... avvelenata» disse con voce interrotta. «Cosa stai dicendo! È assurdo, chi mai può avere avuto interesse a farlo. Era una brava donna, tutti le volevano bene... » Altea inspirò profondamente e il suo sguardo divenne severo, si liberò dalla presa ferrea del padre con un gesto brusco e improvviso. «C’è solo una persona che odia tutto il suo prossimo: Argelia Nerasmo.» «Stai accusando tua nonna! È il dottore che l’ha accusata? Ha mentito!» «Mentito in punto di morte? A che convenienza? Ti dirò di più, anche Zagreus è
morto per mano di Argelia – la chiamava per nome per accrescere il distacco che provava – Mi ha intercettato ed è giunta all’improvviso per vendicarsi del dottore, strappandogli le ultime ore di vita. È ora che tu apra gli occhi, papà. Dobbiamo scoprire quale diabolico piano ha elaborato tua madre – un altro accenno di distacco – perché non è certo salita sul cocchio del Conduttore delle Anime per andarsene in pace nel Paese Perpetuo. E poi sarebbe proprio ora che tu la smetta di giocare e prenda in mano il governo di questa città, e che ti renda finalmente conto di tutto il male che ha compiuto Argelia Nerasmo.» «Ma che modo è mai questo di... » «Seguimi!» si voltò e uscì con solerzia, impedendo al padre di completare quella che già dall’inizio suonava come una ramanzina. Arrivarono davanti alla grande porta di ferro che conduceva nell’area vietata. «Allontanatevi, siete sollevati dal compito di sorvegliare questa entrata. Presto vi verrà dato un altro incarico.» disse Altea in modo imperativo. «Noi prendiamo ordini direttamente dalla Governatrice Argelia» risposero le due guardie all’unisono. «Governatrice?» fece Altea con disgusto. «Questa poi!» Guardò suo padre e con lo sguardo lo esortò ad intervenire. «Sono io il Governatore e vi ordino di abbandonare immediatamente questa postazione. Recatevi dal primo ufficiale e chiedetegli che, a seguito della mia decisione, vi affidi una nuova mansione.» I due non si mossero e si guardarono titubanti, allora Goran assunse un’aria minacciosa e alzò la voce, «È UN ORDINE!» «Agli ordini, Governatore!» dissero le guardie scattando sugli attenti e di corsa si dileguarono. Forse per la prima volta, Goran assaporò il tono del comando. «Eri a conoscenza di quest’area riservata?» domandò Altea. «So che utilizza alcune aree dei sotterranei per sperimentare tutto ciò che è scritto nei suoi libri di magia. E anche che non le piacciono i ficcanasi. Mi ha avvisato di non avvicinarmi mai a quella porta», disse mentre ci si stavano
avvicinando, «a tutto mio rischio e pericolo. Però è la prima volta che ci vengo. Immagino ci abbia messo un incantesimo» concluse guardando la grande porta di ferro. «Già, e anche molto potente... in grado di rispedirti lontano.» Ormai gli erano di fronte. «Che intendi fare? Le hai forse rubato la chiave magica?» «Credo di non averne bisogno. Dopo il dono dei draghi dovrebbe essere uno scherzo oltrearla.» «Draghi? Di quali draghi stai... » Non riuscì a finire la frase perché Altea era sparita oltre la porta di ferro. La ragazza provò una serie di formule che aprivano lucchetti, combinazioni e serrature quando ci si trovava dalla parte opposta di una porta su cui gravava un incantesimo, finché non trovò quella giusta. Per fortuna l’intera enciclopedia magica ne annoverava soltanto dodici e alla nona formula pronunciata la porta emise un clip-clop secco e s’aprì. «Prego. Benvenuto nella fabbrica degli orrori di Argelia.» «Ricordi il vecchio pozzo dove da piccola gettavo dentro monete e pietruzze?» Goran annuì. «Beh, il pozzo non raggiunge nessuna falda acquifera, l’acqua non c’è mai stata, è un’illusione. Il foro ha lo scopo d’irradiare la stanza con la luce solare... o forse con quella lunare, non saprei, ma di certo non quello di attingere acqua sorgiva. Adesso ti farò vedere dove conduce il pozzo» spiegò Altea. Aprì la porta ma rimase più sconcertata di suo padre. L’altare circolare di pietra, posizionato sotto l’apertura del pozzo, era scomparso. Goran guardò in alto attraverso il foro, riconoscendo dal rivestimento dell’apertura e dalla carrucola col tino agganciato alla fune, nonché da quanto si riusciva a intravedere dell’esterno, che si trattava proprio del vecchio pozzo. Notò anche il pavimento cosparso di monete e sassolini preziosi. «Hai ragione, questo è proprio il tuo pozzo dei desideri» confermò Goran. «Però non ne comprendo il senso» disse guardandosi intorno. «Il senso ti sarebbe stato più chiaro se Argelia non avesse rimosso la ruota della tortura. Qui, sotto al foro, c’era un congegno circolare in pietra, con una cavità per la testa e quattro staffe per bloccare polsi e caviglie. E sotto... »
«E adesso è misteriosamente sparito» La interruppe il padre; lo scetticismo gli si leggeva in faccia. «Non mi credi?» Altea era ancora più sfiduciata. «Credo sia meglio uscire di qua, tua nonna potrebbe tornare.» «E allora? Te la fai sotto? Io non ho paura di lei e sono decisa a fermarla. Non voglio essere complice delle sofferenze che sta infliggendo alla popolazione per ottenere... non so ancora che cosa! Se non stai dalla mia parte sarai ritenuto responsabile anche tu. «MA DI COSA STAI PARLANDO?» Goran perse la pazienza e alzò la voce. «Non ti agitare, adesso te lo mostrerò» lo condusse davanti alle celle che riportavano la targa col simbolo elementale. «L’Acqua, il tuo elemento. Vogliamo visitare per prima questa cella?» Provò direttamente la nona formula, sicura della poca fantasia dell’anziana donna. La serratura scattò e la porta s’aprì in uno spiraglio emettendo un cigolio rugginoso. Il silenzio fu rotto dai lamenti e piagnistei provenienti dall’interno della cella. Altea spalancò la porta e la raccapricciante scena si mostrò agli occhi di Goran. Sconvolto e turbato, egli indietreggiò di qualche o. La puzza di urina ed escrementi giunse lì per lì ad impregnargli le narici, si portò le mani a coppa sul viso per tappare bocca e naso, come se ciò bastasse a proteggerlo dal tanfo. Avrebbe voluto riparare anche le orecchie per non sentire quella povera gente implorare pietà, rannicchiata e abbracciata in cerca di sostegno in sé, che guardava la porta aperta senza avvicinarsi, senza interpretarne il segno di libertà. “Com’è possibile che la magia su una porta possa sigillare questo schifo” si chiese. Senza dir niente, Altea andò ad aprire anche la porta della cella contrassegnata dal simbolo del Fuoco. Goran, da dov’era, girò la testa per sbirciare dentro. «Sì, fai bene a non avvicinarti. Per guardare dentro a questa cella ci vuole stomaco.» «Perché non mi hai informato prima?» La voce di Goran era soffocata dalle sue stesse mani. «Perché non ti sei chiesto prima in che modo tua madre stesse conducendo la baracca al posto tuo? Hai firmato alla cieca un sacco di ordinanze, non ti sei mai
interessato di controllare personalmente la ben che minima cosa. E adesso chiedi a me perché? Non sei neppure riuscito ad occuparti di me, lasciandomi nelle mani di Argelia, figuriamoci se ti saresti occupato della popolazione.» Altea parlò in tono amaro e i suoi occhi si velarono di liquido cristallino che enfatizzò il verde smeraldo dei suoi occhi. Goran, in quello stesso istante, sembrò venir fuori da un lungo letargo. «Devo far qualcosa per questa gente» disse avvicinandosi alla seconda cella aperta. La visione di persone dall’aspetto mostruoso gli fece gelare il sangue nelle vene. «Non solo per loro. Tutte le persone rinchiuse nella clinica, se proprio vogliamo continuare a chiamarla così, dovranno far ritorno alle proprie case. Il nostro è un mondo di maghi e tutti abbiamo il diritto di usare la magia nei limiti della legalità e da quanto stabilito dal buon senso.» «Mi chiedo da chi tu abbia ereditato tutto questo buon senso.» «Da mia madre. E per il futuro spero di poter dire anche da te.» «Il futuro inizia adesso. Emanerò subito un’ordinanza per far chiudere la clinica.» Altea non era d’accordo sul chiudere la clinica. Quel luogo, riorganizzato, poteva essere utile ad un altro scopo. Non sapeva cosa e quanto avrebbe potuto fare per le persone che popolavano le fetide celle dei sotterranei. Pensò di tenere quel sito per questi casi disperati. Lì, le persone sarebbero state lavate, vestiste, sfamate e accudite per alleviarne le sofferenze. Lei avrebbe provato a guarirne il maggior numero, ma sapeva che per i casi gravi avrebbe avuto bisogno dell’aiuto del suo gemello. Spiegò a suo padre quant’era importante che riuscisse a trovare quel ragazzo per liberare i Guardiani degli Elementi. Goran disse che in questo non sapeva come aiutarla, quello che poteva fare adesso era di andare a rovistare nello studio di Argelia tutti gli editti che lei gli aveva fatto firmare ed esaminarli attentamente ad uno ad uno per abrogare quelli su cui non era d’accordo. “Sicuramente tutti”, pensò Altea, “avrai un bel da fare”. La ragazza propose anche di proclamare la morte di Argelia Nerasmo, visto la sua scelta di assalire il cocchio diretto al Paese Perpetuo. Così Tommaso e sua madre non avrebbero più avuto motivo per nascondersi e lei lo avrebbe trovato.
I nuovi editti firmati da Goran entrarono in vigore immediatamente. Le porte della clinica d’igiene mentale si aprirono e le stanze si svuotarono. La cosa venne ben accolta da quelli che, con diverse modalità, avevano assunto, inconsapevolmente, il decotto di Zantor. Altri, invece, si lagnarono del fatto che il Governatore avesse tagliato ogni forma di assistenza. Le porte delle celle, con le sbarre alle feritoie, furono sostituite, e le stanze arredate in modo più confortevole per accogliere i nuovi ospiti provenienti dalle celle dei sotterranei del Palazzo del Governatore. La divisione dei Cacciamaghi venne sciolta e alle Guardie del Governatore e alla Vigilanza Territoriale vennero rimossi tutti gli ordini che avevano come oggetto l’individuazione e la cattura dei cittadini che parlavano di magia. Altea era contenta della nuova gestione del padre e soprattutto del fatto che avesse finalmente aperto gli occhi, ma sarebbe stata più soddisfatta se le iniziative fossero partite da lui mentre era stata lei a suggerirgli le mosse d’attuare. Tuttavia Altea non era tranquilla, la sbrigativa dipartita di sua nonna doveva senz’altro far parte di un piano già elaborato. Certo non poteva prevedere la morte di Zagreus per approfittare di un aggio; al momento opportuno avrebbe potuto intrufolarsi nel cocchio destinato a qualunque cittadino. “Perché prendere proprio quella corsa?” “Perché non poteva attendere ancora?” si chiese Altea uscendo dallo studiolaboratorio di Argelia. Aveva rovistato in ogni angolo in cerca di un indizio senza trovare nulla e ora si stava dirigendo nell’appartamento dell’anziana donna sperando di essere più fortunata. “Che fine ha fatto l’altare sacrificale, quel demonio d’un congegno?” Altea si chiese se l’avesse fatto scomparire perché lei l’aveva scoperto o se invece non le servisse più. Se non le serviva più, allora, voleva dire che il suo esperimento si era concluso. Pensò anche alle parole di suo padre, il quale aveva detto di averla sentita rovistare nella sua stanza. “Preparava il bagaglio per la vacanza o ci ha inserito anche il risultato dell’esperimento?” Era giunta davanti alla porta dell’appartamento di Argelia, a una ventina di i oltre quello di Goran sulla sinistra del lungo corridoio. “Forse quello che ha portato a termine è l’esperimento iniziato dal trisavolo ed era ansiosa di andargli a portare i risultati.” “Ma perché, di cosa si tratta?” Anche l’incantesimo sulla porta dell’appartamento era fuffa paragonato ai suoi poteri e Altea la oltreò. Iniziò a cercare nei cassetti, negli armadi, nella cassapanca, sotto il letto, nella credenza, nella libreria, in ciascuna delle tre stanze che formavano l’appartamento della donna. Stanca per l’insuccesso si
gettò un attimo sul letto per riposare, ma senza darsi per vinta. Avrebbe continuato a cercare, certa che qualcosa sarebbe saltato fuori.
Capitolo 27
Verso Nebrus
Il sole aveva appena fatto capolino all’orizzonte e i suoi raggi languidi accarezzavano le spalle dei due ragazzi. Stavano lasciando il Paese delle Fate sul cammino immerso nell’aurora. Matilde si massaggiò la spalla destra mentre percorreva il sentiero nel verso opposto a quello finora sostenuto. Anche Tommaso avvertiva sulla pelle una sensazione mista di bruciore e intorpidimento, e camminando agitava la spalla come a volersi scrollare qualcosa di dosso. «Mi sembra d’avere un’etichetta che punge» disse Matilde infilando la mano sotto il giubbotto e sollevando la maglia dalla spalla. «Etichetta?» Tommaso fece la faccia strana. «Sì, un piccolo rettangolo di stoffa su cui è scritta la composizione del tessuto, le istruzioni per il lavaggio e il paese di produzione, che il più delle volte dà un fastidio boia... roba del Mondo di Sotto, non ti preoccupare.» «A proposito del Mondo di Sotto: come farai a giustificare il marchio sulla spalla?» «Beh, nel mio mondo è di moda farsi disegni, scritte o simboli sulla pelle, si chiamano tatuaggi, e anch’essi, come il nostro, sono impressi in modo indelebile. E poi le due M, se ci hai fatto caso, possono essere le iniziali del mio nome e cognome.» «Ah! Bella roba!», fece Tommaso guardando la sua spalla destra, «Così dovrò ricordarmi di te anche quando te ne sarai andata.» Matilde si voltò di scatto e iniziò ad assestargli alcuni scappellotti alla base della nuca; lui assecondò i primi due incurvando le spalle. «Ahi!» Poi si difese bloccandole le braccia in un forte abbraccio. Lei cercò di divincolarsi, ma le braccia di Tommaso erano robuste e non intenzionate a mollare la presa. “Lasciami!”, stava per dire, però s’accorse che non era ciò che voleva veramente, e nel momento che si lasciò andare all’interno di quella salda presa, lui pensò invece che il pericolo fosse rientrato e
la lasciò andare. «E poi, secondo Marta, sarei io la tonta!» mormorò lei. «Eh?» «Niente, parlavo da sola.» «Senti, ma tu le fate dell’Aria le hai viste? Perché io non me le ricordo. Sai... lo svenimento, la febbre... mi sforzo di ricordare, ma... vuoto assoluto.» «Il nanerottolo... Nivelong, ha detto che non si sono manifestate perché non eri in grado di vederle. Sei svenuto subito dopo aver sconfitto l’idra e quando sei guarito era già finito il tempo per l’esame. Comunque hanno dato lo stesso parere favorevole alla tua prova.» «Vorrei ben vedere! Dopo che ci ho quasi rimesso le penne.» «Certo che mi hai fatto prendere uno spaghetto! Volevo dire spavento.» «Sai che a volte faccio fatica a capirti?» «Non fare il difficile, solo perché, ogni tanto, mi viene d’usare una parola in italiano? Io mi esprimo bene nella tua lingua, invece tu non sei in grado di fare altrettanto nella...» «Ehi, ti piacerebbe venire a casa mia per le vacanze?» «Dici davvero?» «Perché no?» «Sicuro che mi piacerebbe. Anch’io voglio portarti in un posto.» «Dove?» «Nella Valle dei Draghi. Non vedo l’ora di farti conoscere Æronmì, lui non sa ancora che ho un’altra gemella. Deve sapere che adesso siamo in grado di eliminare il campo magico e liberare tutti i draghi.» Tommaso parlò con entusiasmo. Galvanizzato dall’esibizione dei suoi poteri durante le prove d’esame, non vedeva l’ora di compiere qualcosa di grandioso e di eroico.
Un’impresa per cui sarebbe stato ricordato anche nei secoli a venire. «Non puoi andare di là e decidere tu quando agire. Occorrerà sentire il Consiglio dei Cinque.» «Insomma, vuoi venire o no?» «Non sto mica cercando una scusa per non venire. Si può sapere che ti prende?» «Okay, scusa. Il nome di quella consulta comincia a irritarmi. Non mi va l’idea di essere nelle loro mani, che ci dicano come, quando e cosa dobbiamo fare.» «No, mi dispiace signora Presidente, quel giorno ho già un impegno» recitò. «Abbiamo dato la nostra parola che ci saremmo assunti l’impegno. In buona sostanza, vorrei che fossimo noi a decidere quando agire. È una cosa che dobbiamo sentire, sapremo noi quando sarà il momento. Per me è ora, mi sento carico. Se lasciassi are dei giorni, dopo mi sentirei meno motivato. Tu che ne pensi?» «Non so. Tu qua ci vivi; io vorrei poterci ritornare. Non mi conviene dispiacere il Consiglio.» «Figuriamoci se ti cacciano per qualcosa che sono essi i primi a volere che tu faccia. Avranno sempre un occhio di riguardo per noi... gli conviene.» «Cosa cambierebbe se ci andassimo domani? Intanto potremo dir loro delle nostre intenzioni, tanto per far le cose fatte bene.» «Preferisco l’effetto sorpresa, perciò io vado, tu fa’ come ti pare.» «Ah sì!? Che cosa pensi di fare da solo?» «Solo? Dimentichi sempre che ho un’altra gemella.» «Come posso dimenticarlo se non fai altro che ricordarmelo!» “Buon viaggio!” avrebbe voluto rispondergli, ma se lui si fosse mosso in quella direzione, le sarebbe toccato seguirlo con la coda fra le gambe, perché non poteva accertarsi in altro modo che non stesse barando ed era fuori dubbio che in
alcun modo si sarebbe fatta sostituire da Altea. «Comunque mi interessa sentire anche il parere del drago. È per questo che vengo. Vedrai che mi darà ragione. Sicuramente non vede l’ora di essere liberato, tuttavia, nella sua saggezza, sarà d’accordo con me che bisogna informare il Consiglio prima di agire. La cosa va gestita.» Detta così non si esponeva ad equivoci sulla “rivalità tra donne”, come Tommaso aveva già avuto occasione di insinuare. In più, per rafforzare la propria opinione, aveva assunto la posa a braccia conserte, piede destro avanzato e peso del corpo su quello sinistro, testa leggermente piegata a sinistra. «Vedremo» rispose Tommaso. S’incamminò nel verso che conduceva al sottoo segreto e Matilde lo seguì controvoglia. In lontananza, si vedeva già il muretto costruito per proteggere le persone dall’invisibilità del campo magico di Bruto. A differenza della recinzione di filo spinato utilizzato a Nebrus con la stessa funzione, dall’altra parte del Mondo di Sopra si era fatta una scelta diversa. Il lungo serpente di mattoni rossi si era ricoperto di muschio e piante rampicanti, integrandosi perfettamente con l’ambiente. Inoltre, potendo utilizzare la magia, al di sopra del muro era stato creato un effetto ammortizzante per proteggere i volatili, il cui volo veniva rallentato per poi essere respinti dolcemente. Camminarono in silenzio, lui ragionando sui motivi validi per continuare in quella direzione e lei meditando su quelli per tornare indietro. Fu per primo Tommaso ad avere qualcosa da dire. «Devi pensare che il confine divide Nebrus dal resto del Mondo di Sopra. Sono due aree a sé. Tutto ciò che è stato fatto a Nebrus non ha mai riguardato l’altra parte. Se noi agiamo dalla parte di Nebrus il Consiglio è tagliato fuori, non ha giurisdizione. Inoltre le barriere sono state create da Nerasmo, diciamo che gli appartengono, perché qualcun altro ci dovrebbe autorizzare a distruggerle?» «Ma non è questo il punto. Occorre valutare le conseguenze della riunificazione se non v’è l’unanime accordo fra le due parti. Per questo ti dicevo che la cosa va gestita.» Matilde guardò in alto il cunicolo illuminato dalla sfera di fuoco creata da Tommaso. Una scala a chiocciola saliva al suo interno, si sfocava e si perdeva completamente nel buio. A Matilde venne in mente la pianta del fagiolo magico di Giacomino che saliva fino a scomparire dentro le nuvole.
«E questa?» chiese. «Non mi hai parlato di questa scala.» «Non l’ho fatto?» «No, non l’hai fatto», disse in tono di rimprovero, «Altrimenti non mi sarei aspettata di affrontare una salita per riaffiorare.» Infatti, dopo che erano entrati nella cavità di un grosso tronco di fitolicastro – che aveva messo radici diversi metri prima del muretto di mattoni rossi, molto tempo prima che questo venisse costruito – avevano affrontato una lunghissima discesa, poi un tratto più breve in rettilineo ed erano giunti danti alla scala a chiocciola. «Il confine è troppo vicino al nostro covo, questa scala era l’unica soluzione» spiegò Tommaso. «Meglio erigere lo scudo adesso che ci apprestiamo a salire.» Matilde lo prese per mano, «Non si riesce a vedere dove finisce la scala, ma possiamo trasportarci fin dove riesco a visualizzarla, e via così.» «Grazie, ma per un’aquila non è un grosso problema.» Il pennuto prese il posto del ragazzo e volò sempre più in alto fino a sparire alla vista di Matilde. La ragazza, in cinque riprese fu anch’essa in cima. Lì giunti, Tommaso iniziò a bussare alla botola sopra la loro testa. Bussò di nuovo; bussò ancora, stavolta più forte; bussarono insieme, ma nessuno venne loro ad aprire. Da quando Zantor era tornato, nessuno, a turno, vigilava più la botola. Tommaso e Karmis erano al college e non avevano motivo di tornare. Prima delle vacanze, Mathesias ed Emma sarebbero andati al college per l’incontro con i docenti e a concordare il rientro dei figli. Inoltre, niente era stato deciso in merito all’azione antiNerasmo, come qualcuno l’aveva definita. «Credo che non verrà nessuno ad aprirci» Tommaso se ne rese conto. «L’entrata è nella dispensa e se nessuno entra a prendere qualcosa, sarà proprio difficile che ci possano sentire.» «Meraviglioso!» Matilde stava per proporre di tornare indietro invece disse: «Cosa pensi di fare?» «Beh, ti chiederei di are attraverso la botola, ma al disopra di essa, di regola, ci poggia il piedistallo del tavolo. Per un periodo lo hanno tenuto spostato, quando aspettavano che Zantor rientrasse dalla missione, adesso l’avranno rimesso al suo posto.»
«Provo a spostare il tavolo» disse lei. «No, aspetta!» si girò in direzione dell’entrata, «Dunque, vediamo: di là c’è la libreria, se non calibri la forza e ce lo fai sbattere contro... è un disastro. Da quella parte c’è il camino, ci getteresti dentro almeno una sedia. Da quest’altra parte c’è più spazio, ma... ci sono comunque troppe sedie intorno al tavolo e...» «Sarebbe un disastro, ho capito» finì lei la frase. «Visualizza un punto tranquillo della stanza e ci trasliamo lì» disse con un’alzata di spalle, in effetti, era la soluzione più ovvia. Invece Tommaso iniziò a grattarsi la testa. «Ecco... veramente... non sono del tutto sicuro che le indicazioni che ti ho dato prima siano corrette, perché non potrei giurare in quale verso si apra la botola rispetto ad un punto della stanza.» Matilde sospirò forte. «Ho un’altra idea», disse quindi, «con un pochino d’Aria potresti darmi una spinta così da farmi are attraverso botola e tavolo.» «Sì, potrebbe funzionare.» «Deve funzionare, non voglio ritrovarmi con la testa dentro al piedistallo e i piedi qui sotto.» «Non preoccuparti. Fidati.» Rassicurandola, incrociò le mani come base di spinta, lei vi poggiò il piede, allungò le braccia con le mani unite sopra la testa – come se volesse trasformarsi in un missile – e strizzò gli occhi. «Pronta?» «Vai!» Sfiorò il soffitto e ricadendo in piedi sul tavolo flesse le gambe per ammortizzare la caduta. Tommaso, per evitare quel che era il timore della gemella, ci aveva messo un po’ di energia in più. Matilde si ritrovò, quindi, nel covo della Resistenza; l’ambiente era buio, ma nel camino ardeva ancora un pezzetto di carbone, segno che qualcuno se n’era andato da poco. Vi gettò sopra qualche pagliuzza e appena attizzò, per avere un poco di luce, aggiunse un piccolo ceppo di legno, quanto bastava a farle vedere perlomeno il profilo delle cose. Spostò manualmente tutte le sedie che stavano intorno al tavolo e col potere della Terra, invece, spostò il tavolo quant’era sufficiente a liberare la botola. Così arrotolò il tappeto contro il piedistallo e aprì la botola a Tommaso.
«Nessuno ci ha aperto, nessuno ci ha visto. Potremmo rimettere tutto a posto e uscire da qua col tuo potere, posso visualizzare io al posto tuo.» «E no, tesoro! Non pensarci neppure, qualcuno dovrà pur sapere dove siamo. Già siamo nei guai, finito l’esame saremmo dovuti tornare al College. Tutta colpa tua e di... » non disse il nome, per altro fin troppo chiaro. «Certo, certo. T’interessava sentire il parere del drago.» «M’interessa comunque, è la tempistica che è sbagliata.» Mentre Matilde continuava a rispondere a sostegno che la sua presenza lì fosse indipendente dalla provocazione di lui, e lanciava ordini in tutte le direzioni per risistemare la stanza, si udirono voci concitate provenire di là dalla parete confinante con la dispensa, sul cui lato esterno era infisso uno scaffale pieno di ceste e barattoli. Si voltarono in quella direzione e videro la parete aprirsi. I membri della Resistenza, parlando tutti insieme, si riversarono all’interno per quella che sembrava essere una riunione d’urgenza del gruppo dirigente. Mathesias, il primo ad entrare, si bloccò all’istante non appena si accorse della presenza dei due ragazzi. Nella frazione di un secondo, in cui, osservando che tutto era perfettamente in ordine, cercò di capire come vi erano giunti, Miranda non riuscì a frenarsi e gli finì addosso facendolo traballare. «Ah, bene. Siete già qui» fece quest’ultima. Poi sembrò rendersi conto del tempismo: «Li hai fatti chiamare tu?» chiese a Mathesias, ma questi scrollò il capo. «Come mai siete qui, allora?» domandò Alcherius. «Siamo di ritorno dal Paese delle Fate. Abbiamo appena ricevuto la conferma dei nostri poteri» rispose Matilde toccandosi la spalla. «E quindi... siete in viaggio premio?» chiese Mathesias. Matilde guardò storto Tommaso obbligandolo a dare lui la risposta, invece il ragazzo fu salvato dall’entrata in scena dei genitori. «Ciao, mamma!» «... Papà!?» Era sorpreso di vederlo di nuovo insieme alla madre come tempo fa, quando lei ancora taceva sulla magia. Adesso era anche meglio, perché alla luce
della verità le cose risplendevano senza proiettare ombre. «D’accordo, lasciamo stare le spiegazioni e prendiamo posto» tagliò corto Teodoro e andò per primo ad occupare il suo posto attorno al grande tavolo ovale. Mulac era ormai diventato parte integrante del gruppo dirigente e un irreperibile per il resto della comunità. Da quando era fuggito insieme a Teodoro dalla guardina della Vigilanza Territoriale, si era rifugiato con Emma nel covo della Resistenza e non aveva più messo il piede fuori da lì. Anche lui e la sua unità sedettero al tavolo seguiti da Miranda, Mathesias, Alcherius, Radalise, Zantor, Condef, Valdem e Zuleica. Avanzò una sedia e Teodoro disse ai ragazzi di lasciarla libera perché stavano aspettando ancora una persona, perciò i due ragazzi presero due sedie tra quelle allineate lungo la parete a destra dell’entrata. La riunione era stata indetta d’urgenza a causa degli ultimi sorprendenti, quanto incomprensibili, fatti che stavano accadendo a Nebrus e che, se si fossero rivelati attendibili, avrebbero cambiato le strategie e i tempi d’azione della Resistenza. In considerazione di ciò, si stava per valutare la testimonianza di uno dei membri anziani del loro movimento. La persona in questione, però, era in ritardo.
La parete ruotò di quarantacinque gradi e l’esile donna dai capelli argentei s’insinuò nella stanza segreta del covo della Resistenza. «Scusate il ritardo. Devo ancora prendere dimestichezza con la visualizzazione dei luoghi. Riacquisire i poteri alla mia età è come tornare a scuola» disse Virginia avvicinandosi al grande tavolo ovale. «Vieni cara, siedi vicino a me» disse Miranda offrendole la sedia tenuta libera per lei. «Siamo tutti addolorati per la dipartita di Clemir» aggiunse in nome del gruppo anche se gli altri, a turno, spesero ugualmente una parola in ricordo del dottore. «Quindi tu puoi confermarci che i cambiamenti che stanno avvenendo al vertice non sono una tattica per attirarci allo scoperto, giusto?» chiese subito Teodoro. «Ascoltate, io della piccola mi fido. Ha sofferto molto a causa di quella donna e la generosità mostrata nei miei riguardi era veramente sincera. Ha fronteggiato Argelia per difendere Clemir...»
«Ma non c’è riuscita. Poteva essere una farsa messa in atto con Argelia...» Mathesias l’aveva interrotta. «No, no... tu non sai di che parlo. Dovevi esser lì a vedere quante lacrime hanno versato quei meravigliosi occhi, e i singhiozzi che non le concedevano tregua. Quella donna ha avuto la crudeltà di avvelenarle la madre, e dopo quel segreto rivelatole dalla mia unità, voi sareste così meschini da supporre che la ragazza abbia tramato... NO!» Virginia si alzò in piedi per dare più forza alle sue parole e Matilde provò tanta tristezza per quella ragazza che aveva sempre considerato come una rivale. Lei poteva capire il suo dolore perché l’aveva provato. Lei, però, era stata più fortunata perché aveva continuato ad essere amata anche dopo quell’amara perdita, mentre per Altea, la ragazza che più volte aveva tormentato i suoi sogni, le cose avevano avuto un prosieguo infelice. «Altea mi ha fatto un dono: ha ottenuto che Øþhelia, la dragonessa dorata, mi restituisse il potere della Terra, come ben sapete. Anche Æronmì si fida di lei. Per quanto riguarda Argelia, l’ho vista coi miei occhi sparire in tutta fretta non appena è giunto il Cocchiere delle Anime e ho il sospetto che si sia infilata nel suo carro dopo che è partito. Lo dico perché mi è sembrato molto strano che Clemir, ad un certo punto, abbia smesso di salutarmi e si sia ritirato. Come se qualcosa all’interno del cocchio abbia attirato la sua attenzione, qualcosa di una certa rilevanza poiché non si è più affacciato.» «Bene. Se le cose stanno così, dobbiamo agire in fretta» disse Teodoro. «Esatto. Dobbiamo approfittare dell’assenza di Argelia. Quella vipera non si è certo ritirata a miglior vita. Ha in testa qualcosa. Tornerà. E quando lo farà troverà un mondo riunificato e consapevole pronto ad attenderla» sermoneggiò Alcherius. «Perfetto, i nostri ragazzi sono già qui e le Fate li hanno benedetti. Zantor andrà dall’altra parte per informare il Consiglio dei Cinque» suggerì Mulac. «Vuoi dire Muso Nero» lo corresse l’interessato. Qualcuno rise. I due ragazzi, invece, si guardarono ogni qual volta uno finiva di dire la propria. «D’accordo. Per prima cosa bisognerà liberare i draghi in modo che inizino subito la loro missione», consigliò Emma, «Vi sentite pronti, ragazzi?» Gli occhi di Tommaso s’illuminarono, dopotutto era andato lì per questo, trascinandosi dietro Matilde. Annuì anche lei. Pure Matilde era pronta, ora che l’iniziativa
partiva dagli adulti. «E dopo verrà l’impresa più grande», proseguì con un sorriso che era un impasto di felicità, amore e speranza, ma anche un briciolo di preoccupazione, «il crollo del confine.» Andò ad abbracciare i gemelli. Tutti si alzarono e la imitarono. I gemelli elementali erano pronti a dimostrare che la Profezia non li aveva scelti invano.
Capitolo 28
La riunificazione
Altea aveva ripreso le sue ricerche che, ancora una volta, non portarono ad alcun risultato. Delusa, uscì dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle. Stava per tornare indietro, aveva già ruotato il piede sinistro per prendere quella direzione, quando riportò gli occhi sulla parete a destra della porta. Là sopra sapeva esserci una macchia poco evidente, “Una vecchia macchia di umidità che non riesce più ad andar via”, aveva risposto sua nonna alla domanda che le aveva rivolto da bambina. Adesso, d’improvviso, le apparve per quello che veramente era: una toppa realizzata con un materiale non perfettamente uguale al resto della parete. Si distingueva a malapena la forma di un rettangolo col lato più lungo in verticale, e in alto si poteva notare un alone a forma di cono, come lo spicchio di una lunetta. «Una porta!» esclamò Altea. “Qui doveva esserci una porta che poi è stata chiusa.” Provò ad infilare un braccio per vedere se il muro era pieno o se dietro vi era del vuoto. Aveva ragione, al posto della macchia vi era stata la porta di un’altra stanza. Guardò la porta dirimpetto, alla fine del corridoio, che distava una decina di i. Il Palazzo contava tante stanze, anche troppe; in quella vi era entrata, per la prima volta, soltanto due giorni prima, quando, di corsa, stava ando in rassegna tutte le camere in cerca di Argelia. Non ricordava se la stanza avesse una rientranza a destra. Può darsi che la porta fosse stata murata per ampliare quell’altra stanza. Andò a verificare, ma il muro a destra proseguiva dritto fino all’angolo con l’altra parete a sinistra. Tornò indietro e oltreo la macchia nel muro; dentro, l’ambiente era completamente buio e odorava di chiuso; nessuna luce filtrava d’innanzi, segno che non c’erano finestre; fece un o avanti, inciampò in qualcosa e cadde a terra. “Che stupida! So bene quante sono le finestre, da fuori. Dopo le quattro finestre della nonna non ce ne sono altre. Una stanza segreta con una finestra non è più segreta.” Si rialzò, a tastoni trovò il muro e uscì nel corridoio. “La nonna non entrava certo da qui; deve esserci un aggio segreto nella sua camera”. Tornò nella stanza della nonna e sulla parete in comune con la stanza
segreta era adagiata una libreria che faceva da contorno al grande camino centrale. «Niente di più scontato: il camino oppure un settore della libreria.» “Beh, attraverso il camino proprio no. È più in funzione che spento, e non si è neppure presa la briga di farlo ripulire dopo l’ultima accensione di Mitigo.” Tanto per sicurezza, fece lo stesso una prova e mosse l’attizzatoio e le pinze, ma non successe niente. ò ad esaminare la libreria. Stava cercando incastri lungo le spalliere e muovendo i libri a partire dal ripiano più basso, quando con gli occhi tornò al camino: il candelabro a sette bracci, poggiato sull’angolo sinistro del rivestimento del camino, aveva sei candele consumate a metà e solamente quella centrale non era mai stata accesa. Si avvicinò e tolse quella candela. Il settore di libreria vicino al candelabro emise un clip clop e si mosse in avanti di qualche centimetro. Altea infilò le dita nell’apertura e tirò verso di sé. La porzione di libreria ruotò permettendole di are. Accese le candele sul candelabro, “Ecco a cosa servivano”, ed entrò. La luce era poca ma gli occhi si adattarono in fretta. Vide dei bauli. Ne aprì uno e vi trovò la sfera di cristallo di Argelia o meglio la sfera che ella aveva sottratto a suo figlio Goran, un cofanetto di legno con dentro le rune, un altro cofanetto con dentro due pendoli, e varia attrezzatura divinatoria. Mentre ella cercava nella stanza segreta, senza finestre, prove e indizi sull’attività di sua nonna, non poté accorgersi degli intensi bagliori azzurri provenienti dall’esterno. Quando aprì il secondo baule, più stretto ma più lungo del primo, vi trovò uno strano oggetto. Era un bastone ricco di intarsi e modanature, raffiguranti stelle e mezzelune, i simboli degli elementi e quelli astrali, in alto era stato applicato il punzone dei Nerasmo e in cima era incastonata una sfera. Mentre osservava quell’oggetto, sentì un rumore provenire dalla stanza attigua. Qualcosa stava battendo contro i vetri della finestra. Uscì con il bastone in mano e vide due occhi grandi, con la pupilla a fessura, che la spiavano oltre i vetri. La sua testa non era completamente visibile poiché era più grande della finestra. «Æronmì!» Per poco non lasciò cadere il bastone. Corse alla finestra e l’aprì. «Come hai fatto a...» «Cos’hai in mano?» chiese il drago sospettoso.
«Non lo so, l’ho trovato... tra le cose di mia nonna», rispose Altea farfugliando, infastidita da quell’interruzione di poco conto quando la questione importante era un’altra, «Ma tu come puoi essere qui, come hai fatto ad uscire?» «Tommaso e Matilde» rispose secco il drago. «M... Ma... Matilde!?» «Sì, Matilde. L’altra tua gemella. Proprio così, ragazza: siete in tre. Salta su che ti spiego strada facendo.» «Porta con te quel bastone; credo di sapere cosa sia.» Mentre volava a cavalcioni della bestia azzurra, Altea incrociò altri draghi che volavano in tutte le direzioni spargendo la loro polvere della consapevolezza sulla popolazione. La guarigione fu quasi istantanea e la gente era come uscita da un lungo letargo, come se per tanti anni avesse vissuto con le bende agli occhi e adesso era tornata a vedere il mondo. Le persone, risvegliate, si riversarono per le strade a guardare il cielo variopinto, ogni macchia di colore era un drago, rosso, verde, dorato, azzurro e anche viola.
Dall’altra parte, il Consiglio dei Cinque, avvisato da Zantor circa i nuovi incredibili sviluppi, aveva rilasciato ai gazzettieri la notizia più straordinaria del secolo. L’annuncio di interesse collettivo, magari scritto a caratteri cubitali, che tutti speravano di leggere quanto prima. Vecchi e bambini si sarebbero strappati la pagina di mano per leggere la notizia. I gazzettieri uscirono subito in stampa in forma ridotta, anzi ridottissima, perché non avevano alcunché da comunicare oltre a quella sensazionale notizia. Il ventiseidiale – corrispondente al bisettimanale o quindicinale che dir si voglia – si ridusse a un volantino. La posta alata decollò dalla Torre delle Notizie, come stormi di bianche colombe che si dirigono sui campi per beccare le sementi appena gettate, e nell’aria rimbombò il battito di migliaia di piccole alette. La gente uscì di casa e iniziò il pellegrinaggio verso il confine. Sul finir della giornata si era formata una sottile barriera umana parallela a quella di mattoni rossi ricoperta dai rampicanti. Di notte, la barriera apparve come una lunga fiaccolata, la gente pernottò all’aperto scaldandosi coi falò e qualche coperta che, i più avveduti, si erano portati dietro. All’indomani la barriera era più spessa,
molti maghi avevano volato tutta la notte sulle loro scope, altri migrarono al confine tramutati in creature volanti. Ovviamente, arrivarono prima tutti quelli col potere della Terra, ma i primi in assoluto furono gli studenti del San Gregorio College. La scuola era poco distante dal confine e la notizia arrivò prima lì perché il tam-tam partito da Lucilla fu più veloce della stampa. Tutti aspettavano il momento in cui avrebbero visto oltre. Chissà come avrebbero giudicato lo stile di una città come Nebrus. Erano giunte anche le creature magiche del sottobosco portando seco mazze e picconi, come se avessero fatto una scappata sul luogo prima di recarsi al lavoro; invece le creature del sentiero rosso rispettarono il divieto di sconfinamento e rimasero nella loro terra, c’è da dire che esse non erano per niente interessate alla riunificazione, anzi, temevano che il loro territorio venisse ulteriormente ridotto o che sarebbero stati costretti ad accettare la convivenza con il resto della popolazione gnomica ed elfica. In tanti si erano arrampicati sugli alberi per osservare meglio ciò che avveniva oltre il muro. Ogni tanto si vedeva un bagliore e la barriera, per brevi istanti, diveniva visibile sotto forma di una massa densa di colore verde che vibrava come gelatina. Marta, Karmis e Alex osservavano il fenomeno e pensavano ai loro due amici che non vedevano da quattro giorni. Ursula aveva stretto amicizia con Sofia Arman, e Alex le udì parlottare alle sue spalle; non distinse bene le parole, ma ebbe la netta sensazione che stessero parlando di lui e di Matilde. Si voltò a guardarle, Ursula gli fece un sorriso civettuolo e ancheggiando avanzò di qualche o per parlargli più da vicino. «Speriamo che Riccioli Rossi riesca nell’impresa», si voltò verso l’amica, «tu che dici, Sofia?» «Ce lo auguriamo tutti» rispose l’altra, visibilmente imbarazzata. «Certo, non dobbiamo preoccuparci. I due gemelli se la intendono a meraviglia.» Da un paio di mesi, sentendosi respinta, non perdeva occasione per rammentargli quanto tempo Matilde asse insieme a Tommaso. «Sei una vipera!» Marta non usava mezzi termini, era sempre diretta. «Meglio vipera che cieca» rispose sprezzante l’altra, e si allontanò tirandosi dietro Sofia.
Marta scosse la testa guardando Alex, nel senso di lasciar perdere perché non ne valeva proprio la pena.
Æronmì raggiunse la Valle dei Draghi e atterrò in una radura. Col pensiero chiamò gli altri tre Guardiani degli Elementi. Øþhelia, Īriɖio e Ƒaireɖ giunsero all’istante e chiesero al Guardiano dell’Aria cosa avesse bisogno. Videro che sopra un blocco di pietra era poggiato un lungo bastone riccamente lavorato e a un’estremità era incastonata una sfera di giada nera. All’interno della sfera erano visibili quattro frammenti luminescenti e colorati. «Lo ha trovato Altea. Era nascosto a Palazzo» disse Æronmì avvicinandovi il muso, quasi lo stesse annusando. «È quello che credo io?» chiese Ƒaireɖ, il Guardiano del Fuoco. «Lo strumento per evocare l’incantesimo “Epura”.» Lo riconobbe anche Īriɖio «È così che hanno fatto!» sussurrò la dragonessa dorata. «Esatto», confermò Æronmì, «bisogna distruggerlo. Altea, dovrai essere tu a farlo. Infrangi la sfera sul masso.» I draghi si disposero a cerchio, circondando Altea. La ragazza non fece domande. Si fidava del drago. Impugnò il bastone e lo fece scendere con fermezza sul sasso. La sfera di giada andò in frantumi liberando le schegge di pelle di drago che Bruto aveva sottratto ai Guardiani. Altea osservò la scheggia dorata schizzare in aria e ricadere sul corpo di Øþhelia aderendo alla sua pelle. Anche le altre tre schegge tornarono a unirsi alla pelle dei rispettivi draghi. Øþhelia osservò sgomenta la sua scaglia riavuta: «Non capisco come sia successo. Io non ricordo nulla.» «Deve averci addormentati con un sapiente incantesimo, non c’è altra spiegazione» rispose Æronmì. «Possibile che nessuno di noi quattro abbia percepito niente?» s’indignò Īriɖio. «Possibile, se lo scudo fu eretto con la forza dei quattro elementi.» Anche Æronmì era seccato, ma non intenzionato a porsi ulteriori domande sul se e sul
ma; ormai erano liberi e il bastone era stato distrutto. Adesso veniva l’impresa più importante. «I tuoi gemelli sono dietro quell’altura» Æronmì indicò ad Altea un punto in lontananza. Un grande bagliore provenne da dietro un collinetta in parte ricoperta da bassa vegetazione, e si vide la barriera prendere consistenza e vibrare. «Hanno sentito che quello è di poco il punto più vulnerabile del campo di forza. Stanno provando ad infrangerlo da più di un’ora, ma non v’è dubbio che abbiano bisogno il tuo aiuto. Senza di te il potere dei quattro elementi non è completo, quindi non può avvenire la fusione elementale. La meteora, o forse la Dea dell’Universo, o semplicemente il fato, qualunque cosa abbia interferito sul compiersi della Profezia, ha creato un’anomalia per cui la combinazione del potere dell’Acqua e del potere della Terra si è distribuito su due neonate. Altea, tu non sei completa senza Matilde e Matilde non può esserlo senza di te.» «Va’ e unisciti a loro.» «Grazie, Æronmì. Io ti devo molto. Sei stato una guida nel momento in cui ne ho avuto bisogno. Mi hai fatto vedere le cose per quelle che sono veramente...» «Adesso basta! Quando mi emoziono mi sfuggono delle vampate. Potrei diventare pericoloso, perciò scappa se ci tieni alla pelle!» e con una lunga oscillazione del collo voltò la grossa testa verso la collina. Altea sorrise e scomparve.
Tommaso e Matilde si presero per mano per l’ennesima volta. La mano libera puntava in avanti verso la barriera. Si concentrarono per fondere i loro poteri, la forza scaturì e il campo di forza vibrò nuovamente emanando luce verde. Tremò forte fino a dare l’impressione di dissolversi, ma poi tutto tornava come prima. «Dai che questa volta c’eravamo quasi» disse Tommaso agitando i pugni in aria. «No, non ce la faremo mai» rispose Matilde lasciandosi cadere in ginocchio sull’erba umida. «Non ti starai mica arrendendo?» Tommaso si stupì. Matilde scosse la testa.
«È inutile, Tom; senza di lei non ce la possiamo fare.» «Cosa? E tu questo non lo chiami arrendersi?» «Ragiona: se la Profezia ha destinato tre gemelli, il potere è ripartito in tre. Senza di lei è come se fossimo mutilati. Tom, ci manca una mano!» «Ehi, ragazzi! Credo che abbiate bisogno di me» Altea era apparsa all’improvviso. «Lupus in fabula!» mormorò Matilde. «Prego?» Altea aggrottò la fronte «Non badarci, a volte parla strano, ma sa esprimersi nella nostra lingua» la rassicurò Tommaso. Matilde abbassò la testa, appoggiò le mani per terra e si diede una spintarella per poggiare i piedi al posto delle ginocchia e alzarsi. Si ripulì la terra dalle mani e si avvicinò alla nuova arrivata. «Credo proprio che tu abbia ragione. Ciao, sono Matilde Mangrella» le porse la mano. «E io sono Altea Ollgiast, piacere» rispose stringendole la mano. Tommaso le guardò, non riusciva quasi a credere che quelle due si stessero veramente stringendo la mano. Sembravano quasi due amiche, le loro facce erano rilassate e sorridenti, gliene venne fuori una strana espressione sul viso che non ò inosservata alle sue gemelle. Matilde lo guardò come per spronarlo. «Ah, be’... io sono Tommaso... ma ci siamo già conosciuti» si ò le dita tra il ciuffo e arrossì. «Già. Mi dispiace, quella che ti ha rapito era un’altra Altea.» «Ma figurati. Dopotutto, quell’esperienza ha avuto un risvolto positivo: ho imparato a volare e anche a mutare forma, ho conosciuto Æronmì...» «Scusate, se voi due avreste finito di raccontarvela... avremmo una barriera da
buttar giù.» Matilde riportò l’attenzione sulla missione da portare a termine, ma non le sfuggì lo sguardo di Tommaso per la bella ragazza dai lunghissimi capelli neri, che in quell’occasione erano raccolti in una lunga treccia. Le venne in mente la storia di Rapolina che, dall’ultima finestra della torre, gettava la treccia al suo principe per permettergli di arrampicarsi e farle visita. Si accorse anche che la cosa non la infastidiva. «Io sono pronta» rispose Altea. «Aspetta un attimo», disse Tommaso puntando un dito contro di lei, «tu non hai ricevuto la conferma dei tuoi poteri. Così non può funzionare.» «Tommaso ha ragione», confermò Matilde, «Dobbiamo rimandare tutto. Chiederemo a...» «No, ragazzi; è tutto a posto. Ho ricevuto la conferma dai draghi.» «Dai draghi!?» gli altri due erano straniti. «Certo, dal Guardiano dell’Acqua e dalla Guardiana della Terra. È una lunga storia; per farla breve, mi hanno raccontato che questa mansione era svolta dai Guardiani degli Elementi prima di essere concessa alle Fate. Occasionalmente, essi possono ancora operare in tal senso.» «Sono state difficili le prove che hai dovuto sostenere?» volle sapere Tommaso. «Prove? Di quali prove stai parlando?» «Cosa? Vuoi dire che ti hanno confermato i poteri senza sostenere un esame?» Sembrava che Matilde stesse per sbranarla. «Non capisco di cosa parlate» Altea fece un o indietro. «Non posso crederci...», Matilde si rivolse a Tommaso, «noi due ad affrontare... tu che per poco non... e questa, fresca fresca, riceve la conferma dai draghi.» «Scusa, non ce l’ho con te», mise in chiaro, «È che a saperlo prima saremmo venuti da questa parte a farci marcare la spalla.» «Ecco, quella è l’unica cosa che mi manca. Esiste una sola penna marcante ed è
in possesso delle Fate.» spiegò Altea, poi, con cipiglio, fissò Matilde: «Spero che il fatto, che tu abbia la doppia emme e io no, ti faccia stare meglio.» «Di sicuro me la sono meritata! Comunque, ti ho già detto che non ce l’ho con te. Poi, se proprio vuoi le scuse, allora... scusa! Contenta?» «Gongolo!» «Benedetta Profezia, cosa ho fatto di male che mi hai dato due donne per gemelle?» Tommaso si ritrovò a chiedere clemenza al cielo. Le ragazze sorrisero a quella commedia e si scusarono reciprocamente. Basta perdere tempo, in gioco c’era qualcosa di molto importante da non giustificare i battibecchi. Tre mani intrecciarono insieme le dita e tre mani puntarono le dita verso la barriera. I gemelli elementali si concentrarono, unirono i loro poteri e la fusione elementale ebbe inizio. Dalle loro mani si sprigionò una tale energia da fare impallidire il più potente dei maghi. Stava per essere usata l’unica magia in grado di eliminare il campo di forza creato da Bruto. La massa densa e verde tornò visibile e il colore andò via via intensificandosi arrivando ad essere un bagliore accecante. La gente radunata nei pressi della barriera iniziò ad allontanarsi timorosa. «DISSOLVI!» gridarono i gemelli all’unisono. E la barriera che era sorta tanti anni prima con un fragoroso boato, con altrettanto fragoroso boato svanì nel nulla. «Ce l’abbiamo fatta!» si strinsero in un vero abbraccio fraterno. La felicità era immensa. Con un ultimo semplice gesto fecero sparire la recinzione di filo spinato. Il tunnel scavato dalla Resistenza non sarebbe più servito. Guardarono in lontananza e videro il muro di mattoni rossi che in parte era già stato demolito. L’opera di demolizione era una iniziativa degli gnomi e dei nani; evidentemente non erano solo di aggio e si erano portati gli arnesi proprio con lo scopo e la speranza di distruggere finalmente quel muro. A Matilde venne in mente la caduta del Muro di Berlino, ma quella era un’altra storia. Ben presto i ragazzi si trovarono in compagnia; tanta compagnia. Giunsero i draghi e tutti i membri della Resistenza, giunse Goran scortato da tutte le forze
dell’ordine di Nebrus, giunsero gli abitanti servendosi dei poteri riacquistati. Cassandra Ballard Gramegna lasciò che le piccole creature magiche finissero di distruggere il muro, tanto determinata sembrava la loro volontà e il loro entusiasmo in quell’impresa. Quando finirono, fece scomparire magicamente tutte le macerie. Adesso le due parti potevano guardarsi senza più ostacoli. Due rive opposte: chi non conosce questa storia potrebbe anche pensare di stare per assistere a due schieramenti pronti ad affrontarsi. Invece nessuno aveva un’arma, né magica né convenzionale, a meno che, in modo figurato, non si voglia definire quella gente armata di buoni propositi per il futuro. Ci fu un attimo di assoluto silenzio mentre le due parti si guardarono. Poi Matilde, Tommaso e Altea si presero per mano e avanzarono scendendo la collina. Poi si fermarono e alzarono al cielo le mani in segno di vittoria. Esplose un boato di voci misto ad applausi. Molti cappelli da mago volarono in aria. Gli abitanti di Nebrus scesero di corsa la collina e i ritrovati concittadini gli andarono in contro. Tutti si abbracciarono anche se non si conoscevano. Certo, molti avevano parenti da una parte e dall’altra, ma dopo più di un secolo di separazione occorreva ricostruire la genealogia per potersi ritrovare e lo avrebbero fatto sicuramente. I tre gemelli furono sopraffatti dalla calca. Ognuno voleva congratularsi con loro, ringraziarli, o solamente toccarli. Al seguito del drago azzurro, arrivarono i Guardiani degli Elementi, solo a vederli molti indietreggiarono ed essi si disposero a cerchio per proteggere i ragazzi e lasciarono are solo le persone più intime e quelle autorevoli. «Grazie, Æronmì. Non riuscivo più a respirare» disse Tommaso. «Un tempo mi sarei preoccupato di ciò e avrei cercato senz’altro un riparo» disse Teodoro dandogli una pacca sulla spalla. E si abbracciarono. «Tom!» Sentì il suo nome; era la voce di sua madre. La cercò, la vide che gli tendeva la mano e abbracciava Mulac; anche suo padre gli tese la mano. Corse da loro e si strinsero in un abbraccio. Dei ragazzi stavano timidamente discutendo col drago rosso. «Lasciali are, Ƒaireɖ. Sono nostri amici» spiegò Matilde, sprizzante di felicità. Marta, Karmis e
Alex furono ammessi nel cerchio. Matilde colse all’istante un sorprendente particolare: Karmis veniva avanti tenendo la mano di Marta. Ammiccò all’amica e l’altra fece spallucce con un sorrisetto sfacciato, salvo poi dare uno strattone al ragazzo appena si accorse con quanta insistenza stesse guardando Altea. Karmis si ricompose all’istante e di sottecchi lanciò a Tommaso uno sguardo d’intesa. Alex sembrava non essersi accorto della dea dai lunghissimi capelli neri. Aveva occhi solo per Matilde. «Sei stata semplicemente fantastica!» le disse, come se tutto fosse dipeso unicamente da lei. Quando alzò gli occhi per guardarlo, la luce del sole l’accecò. Infilò gli occhiali di Camilla e le parve di udire i suoi commenti. La Gramegna, per premiare Matilde e Tommaso, concesse loro le vacanze anticipate, esonerandoli, pertanto, dall’ultimo mese di lezione. Sulla Terra era giugno inoltrato e Matilde era felice di poter tornare a casa e riabbracciare Camilla. “Mi mancherai un casino!” Le aveva detto prima di sparire oltre il muro di contenimento con Villa Celimontana. Le mancava anche suo padre e Sonaglino, infatti, in occasione della visita di Ivan al San Gregorio, aveva affidato al padre la sveglia con la piccola creatura magica in quanto si era resa conto di trascurarla, inoltre Sonaglino era sempre stata contraria a lasciare la casa romana, per cui Matilde era certa di aver preso la decisione migliore. Sì, adesso tutti erano felici e contenti, ma solo in pochi sapevano di non poter abbassare la guardia. La misteriosa scomparsa di Argelia, se per un verso aveva fatto tirare un sospiro di sollievo, dall’altro lasciava un dubbio irrisolto.
Per saperne di più…
… Continua e si conclude con
“L’Epilogo”