La Caverna
Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù ma chi li ha?
Siediti pure, ordina un drink ti dico come andava. Il tuo dito, sul bordo del bicchiere scorreva, traslucido per via delle luci del locale. Invitante seppur, la mia storia non sia tutt'altro che gioia. Ti parlo, ti racconto di come andava, e come si stava.
Capitolo 1;
I miei nuovi amici;
Dolci, ampie vallate piene di ruscelli, e alberi millenari. E lì che mi perdevo, fra i rami, e il profumo di pino. S’innalzava fra le frasche di quegli aghi, foglie colme di clorofilla. Scoiattoli dalla coda pomposa, colorata di grigio e bianco. Si lanciavano, fra un ramo e l’altro, come dei proiettili pelosi, saltando per poi atterrare lontano.
In quell’aria pulita, i miei i erano l’unico rumore presente, in quel silenzio ovattato, di foglie e rami. La luce solare, filtrava creando fasci di luce, dove la polvere si riuniva in contro luce. Ballando la sua danza, un sali e scendi continuo.
La non c’erano affatto sentieri sterrati, si seguiva il terreno, assecondare ogni ostacolo, da un albero caduto o una semplice buca. Mi fermai stanco e sudato, le mie camminate erano epiche in quel bosco attorno casa.
Esploravo semplicemente, concedendomi a quella gioia della scoperta continua, o dopo o annotavo il cambiamento del panorama, seguivo quei scoiattoli da terra, li guardavo volare attorno a me. Nella curiosità infinita di un dodicenne, questo può essere tutto. Un bosco attorno casa, la fantasia immaginaria, che si rinnovava ogni giorno.
Cercai il mio albero, quello che scalavo ogni pomeriggio. La conformazione dei rami, l’imperfezioni del tronco aiutavano in quella salita. Abile scalatore che non
ero altro, sembravo uno scoiattolo appollaiato, su quei rami nodosi. Guardavo l’orizzonte, da quel posto privilegiato in’attesa della prossima avventura. Chissà cosa la mia mente creerà, draghi volanti, maghi sinistri coi cappelli neri, supereroi col mantello e maschera. Tutto era plausibile, perche non vedevo quel panorama in quei momenti. Al posto del fiume riarso, delle praterie gialle e vive. Vedevo al di là dell’orizzonte castelli incantati, draghi sputa fuoco che volavano oltre le nuvole. E la lunga staccionata di Sam, assomigliava ha quei bassi muri del medioevo. Dove guerrieri bardati, col le loro spade pattugliavano la contea alla ricerca del bandito.
Ed era già tempo di tornare a casa; il pomeriggio s’inoltrava verso sera. Altre miglia, stavolta di corsa. Questi erano i miei pomeriggi, dopo scuola.
Sebbene fossi un ragazzo come tanti, di certo non mi si poteva definirmi normale. Non avevo il benché minimo di autostima.
I suoi occhi infatti, continuavano ha cercare un posto dove poter piangere liberamente. Lontano dagli altri, lontano dalle pene inutili altrui. Una sorta di rifugio, dove potevano sentirsi al sicuro. Andava alla ricerca di qualsiasi cosa, che l’abbracciasse col giusto calore e trasporto. Il solo rincuorare, gli bastava, perche dentro si sentiva inutile, e voleva piangere, voleva ancora disperarsi della sua inutile esistenza. Di questo non si dovrebbe preoccupare, la sua esistenza non era ancora iniziata. Visto che aveva appena dodici anni. Eppure lo faceva, senza amici con i suoi pensieri, con la sua bassa autostima. Era cresciuto più mentalmente, degli altri ragazzi della sua stessa età.
Era più maturo sotto questo aspetto, sapeva benissimo cosa gli bastasse per andare avanti. Solo per un giorno, le sue più paure erano queste. Come resistere un altro giorno?. Come fare ad andare avanti, semplice; la totale assenza di illusioni di sogni, lo aiutavano ha volare basso.
E cosi non soffrire per inutili speranze, perche ogni cosa che egli voleva fare, era destinata al fallimento.
Come poteva sentirsi dentro un ragazzino di dodici anni, una merda, nulla, un fantasma, un inutilità che tutti evitavano.
Ricordo la mia infanzia, come un luogo parecchio movimentato. Una hall di un Hotel piena, con i soliti uomini coi vestiti gessati e cappotti lunghi, di donne splendenti con opali alle orecchie, e di profumi costosi. Ed io la in un angolo di quella hall, l’angolo più scuro, più abbandonato, più solo nella pesante vita tutt’attorno.
Ero impossibilitato ad uscire da quella hall, ovviamente un modo c’era. La morte; sembrava troppo tragica perfino per pensarci su.
Fin da quando i maestri vedendomi nello stato di sfiducia che mi animava. Non facevano nulla per almeno compatirmi, anzi, rendevano tutto difficile con commenti poco carini sui miei confronti. Tale odio nasceva, per piccole mio omissioni nelle verifiche o interrogazioni.
Non lo facevo apposta, era semplicemente che i termini mi sfuggivano via dalla testa. Pensavo molto, immaginavo cose fantastiche, e sono sicuro ancora oggi che Sophie molte volte volle venirci dentro ad una di queste fantasie. Ma mai me lo disse, o ebbe il coraggio per farlo.
Urtai mia padre, quando filai dalla porta d’ingresso sin alla mia stanza. I polmoni bruciavano, per l’uso accelerato dell’aria fra le sue pareti.
“attento ragazzo!” sbraito ha denti stretti, brandendo il fantomatico pugno destro chiuso.
Filai in camera mia, mi attendevano i compiti per il giorno dopo. La sulla scrivania rozza, e molto vecchia. Le tarme già iniziavano ha mangiarsi alcuni angoli.
Quei quaderni, i miei pieni di errori col la matita rossa, o di x tracciate in fondo ad ogni tema consegnato al classico maestro di Italiano, di Storia, e Letteratura.
Per me quei quaderni, erano per lo più noia, erano dei avversi, nemici tosti. Le lettere sopra di essi, ballavano continuamente.
La fatica aumenta, quando si deve far si che i tuoi occhi tengano in qualche modo fermi le lettere A, o B, e C.
Comunque fu un sollievo, quando mia madre mi chiamo per le scale:
“e pronta la cena, sbrigati e lavati le mani” abbaio, era uno strano comportamento il mio quello di avere sempre e comunque delle mani poco pulite.
Non che amassi sporcarmi, no, semplicemente erano le mia avventure all’aria aperta a far si che le mie mani fossero cosi sporche. E siccome le mie avventure all’aria aperta, si susseguivano ogni giorno. Era verosimile che avessi ogni
giorno mani sporche.
Prima di arrivare in cucina, filai in bagno ove mi lavai le mani non capendo quello che stavo facendo. Per via di quella piccola farfalla, poggiata sulla finestrella sopra il water. Le ali di un giallo , molto di più del sole, con piccoli pallini nell’esatto centro di colore nero.
Dei colori affascinati, quant’era vero che quei colori si potevano vedere soltanto per quel giorno. Avvicinandomi alla finestrella, fini col stare in piedi sulla tazza del water abbassata. Cosi perso, nell’immergermi in quei colori forti e decisi. Stavo li, ha chiedermi come mai quella farfalla avesse quei colori sulle ali.
Quando le voci dei miei genitori, irruppero dalla cucina per infrangersi verso il bagno. Volevo rimanere li con quella farfalla ma quella, alle grida dei miei era scappata via, librandosi leggera per la campagna.
Scesi dal water, cos’altro potevo fare la in piedi sopra di esso. Nulla, potevo però raggiungere i miei genitori già in tavola, e già essi avevano quasi svuotato i loro piatti.
I loro volti, per tutta la cena rimasero piantati sui loro piatti. Visto che di tv, potevamo permettercene una soltanto. E che questa era in camera dei miei genitori.
Tutto ciò che sapevo dei cartoni animati, più in voga in quei anni. Lo sapevo grazie, alle voci sentite fra i corridoi o dai miei compagni di scuola. Ed era ben poco, questo fra l’altro s’aggiungeva agli altri modi per deridermi.
“dove vivi, in una grotta?” “ahahaha” le classiche risate di accompagnamento a quella frase, ed ad altre frasi simili.
Mangiai la mia cena, senza proferir parola. Ne i miei me la rivolsero, sembravano essere più sereni a parlare fra di loro che con me.
Consumata quella cena, sparecchiai la tavola velocemente. I compiti attendevano ancora d’essere svolti.
Mi adoperai al meglio per riuscirci, ma quell’intento mi era molto faticoso. Fini col perdermi come sempre, nella mia immaginazione.
Pagai quel conto la mattina, subito dopo. Quando fui a scuola, accadde quando stavo per prendere posto al mio solito banco. Quello più in fondo, e in disparte della classe.
“hai fatto i compiti di storia, no..allora sei spacciato” disse voltandosi verso di me, un mio compagno di classe. Che rise di malizia, alla mia sventura.
“sei spacciato” si aggiunsero in coro, gli altri membri della classe. Evidentemente avevano capito tutti, non so come. Che quei compiti, proprio non gli avevo svolti.
Ripiegai lo sguardo sul mio banco, adoperando il mio scarso intelletto. Come poteva far fronte ha quella situazione? Chiedere aiuto, forse.. See chi mai, mi
avrebbe aiutato. No, si sarebbero tutti rotolati dalle risate quando il maestro mi avrebbe sgridato, e sbattuto fuori dall’aula.
Pensai, pensai ma non riuscì a tirar nessun ragno dal buco. Cosi frettolosamente, apri lo zaino, tirai fuori il libro con gli esercizi di Storia. L’apri a pagina ventiquattro, costatai che quei esercizi proseguivano sin ad altre due pagine. Di certo non c’e l’avrei fatta.
Mancavano pochi minuti all’inizio della lezione, mi rimaneva solo una cosa da fare rispondere a casaccio alle domande di quei esercizi.
Scrissi il più velocemente possibile, sperando di almeno indovinare una risposta su una ventina. Riuscì a scrivere l’ultima risposta, quando filo dentro l’aula il maestro.
Portava ha tracolla la sua classica borsa in pelle chiara, era slanciato con abbastanza gel fra i capelli neri.
“buongiorno” disse alla classe, la sua severità la si notava perfino nel tono della voce.
Era forse l’unico, ha tenere la classe in silenzio senza dover minacciare, o comportarsi in modo spietato. O per lo meno, non con tutti.
Sembrava aver sviluppato un certo interesse spasmodico nei miei confronti, mi aveva sicuramente preso a male. Fin dal primo giorno, per fortuna che
mancavano due settimane alla fine dell’anno scolastico.
“buongiorno signor maestro” risposero tutti in coro, io mossi solamente la bocca.
“bene, iniziamo ha correggere i compiti per oggi. Poi, continueremo col la rivoluzione se” esordì il maestro, stringendosi le mani, come per scaldarle.
Quando ebbe preso posto, dietro alla sua grande scrivania. Prese il registro di classe.
“quando vi chiamo, vi avvicinate coi compiti e io li correggo” informo prima di chiamare, il primo in ordine alfabetico dal registro.
Io ero il secondo, il primo in ordine alfabetico era un ragazzo dai capelli marroncini che rispondeva al nome di Arthur.
Egli faceva parte di una combriccola tutta sua, e fuori dalle cerchia sociali di quella scuola. Essi non sembravano attratti dall’essere famosi, sembrava bramassero altre cose. E li vedevi nel giardino dietro scuola, starsene da soli su delle panchine disposte a cerchio. Semplicemente a parlare fra loro, divertendosi un mondo.
Non ho mai avuto amici, come quelli, non ho mai avuto la possibilità di ridere con qualcuno, o di parlare dei fatti miei. E dio se ero geloso di quei tre.
Assieme a Arthur, c’erano John un ragazzino molto alto, poi Rupert il biondo ricco della combriccola, poi veniva Frank un talento nato per la scienza, dotato di un gran intelletto.
Quei quattro assieme si completavano, più di quanto essi non vogliono ammettere. Era una cosa inevitabile, quando si è cresciuti nella stessa città.
Quando il maestro chiamo il mio nome, qualcuno busso allo stipite della porta. Voltai lo sguardo, come fecero tutti, verso chi aveva interrotto il maestro.
Era una ragazzina dai capelli biondi, molto carina, dal suo viso dai lineamenti intelligenti e paffuto col naso all’insù.
“sono Sophie” esordi Sophie, e la sua voce non tradì nessuna emozione.
“ah quella nuova, prendi un posto libero e stai attenta alla lezione” rispose il maestro, indicando l’unico banco libero.
Ch’era ovviamente quello affianco al mio, visto che nessuno amava starmi affianco.
Quando Sophie, senza fare una piega si trascino affianco al mio banco, e si sedette. Il maestro poté continuare le sue correzioni. Ero quasi arrivato alla cattedra, quando Sophie aveva interrotto il mio avanzare.
Raggiunsi la cattedra, dopo pochi secondi. Il Maestro guardo prima me con i suoi occhi neri e vuoti:
“vediamo se il nostro Scott, ci ha sorpreso stavolta” disse, la sua voce non aveva proprio il tono dello scherzo giocoso. Era terribilmente seria, già capì cosa mi attendeva.
Andare fuori dall’aula, nell’inutilità del mio essere.
Sbagliai la previsione, un momento prima, quando chinai il capo alle parole del maestro. Lo stesso volse il suo sguardo sul quaderno aperto, poi su me, sfoglio le due pagine.
Era chiaro, che avevo risposto a casaccio. Lessi nel suo viso, non la delusione, bensì la rabbia.
Evidentemente sembrava prendere i miei fallimenti, come una cosa personale. Se ero stupido, era tutta colpa sua. E ciò poteva discriminare molto, la sua carriera di gran maestro.
Fu cosi che afferro il mio quaderno, da parte a parte. E semplicemente, lo strappo davanti alla classe. Non si limito ha straccialo, lo lancio perfino nel cestino dei rifiuti.
Mi sentivo cosi umiliato, mentre mormorava: “torna a posto, razza di asino”.
Altri sogghigni riempirono l’aula, sprofondai a terra quando raggiunsi il mio banco. Incontrai gli occhi di Sophie, ch’erano sul punto di piangere per me. Prima di sprofondare, in un silenzio assente nella lezione.
Dovevo essere forte, potevo reggere ancora per un’po. Lo sapevo, dovevo farlo, un asino può trovare il modo di non deludere i proprio genitori?.
Stavo li a pensare, al come non far uscire nemmeno una lacrima dal mio senso d’abbattimento. Perche offrigli altri spunti per deridermi? No, non potevo.
Perche sapevo che tutti questi accorgimenti, come il non avvicinarsi troppo a persone sconosciute, non prima d’aver saputo quante queste potessero farmi soffrire, o l’ignorare gli sguardi di disgusto di quel maestro, di starmene da solo tutto il tempo a prendermi cura di me. Pensavo mi avrebbero salvato, dal buio baratro della pazzia o depressione.
Ero talmente terrorizzato di diventarlo, che mi adoperavo per resistere al non cadere da anni oramai.
“perche l’ha fatto?” domando Sophie, sporgendosi verso il mio banco senza essere notata.
Non risposi alla sua domanda, quanto questa Sophie poteva farmi del male? Era questa la prima domanda che mi feci sul suo conto.
Per fortuna mia, Sophie non insistette molto con le sue domande. Lascio perdere,
ma seppi in qualche modo che nell’arco della lezione, non riuscì ha togliermi gli occhi di dosso.
L’incrociai solamente, quando suono il cambio dell’ora. Alzandomi dal mio posto, raggiunsi il cestino dove stava il mio quaderno. E fra le risate di scherno dei miei compagni, mi chinai a raccoglierlo.
Tornando a posto, incrociai quei occhi di un blu simile al colore del cielo la mattina presto, cosi chiaro e privo d’imperfezioni. Quei occhi, provavano solo pena per me.
Nell’accorgermene diventai più addolorato di prima, fantastico e appena arrivata e già prova pena per me. Le mie sventure non hanno fine, non le avranno mai.
Con metà quaderno, e l’altra metà li affianco. Mi preparai a seguire le lezioni seguenti, sino all’intervallo quando tutti schizzarono dai loro banchi. Per uscire nel giardino sul retro della scuola. Rimasi in classe, la testa china sul banco, i pensieri turbinati mi minacciavano di spedirmi in quel baratro di vuoto assoluto. Dove sapevo, di non aver più la forza di rialzarmi una volta entrato nel vuoto.
Guardandomi i palmi delle mani, gli occhi mi andarono sul quaderno stracciato ha metà.
Dovevo trovare il modo di ripararlo, prima che i miei lo vedessero, almeno evitavo altre parole da parte loro, e i loro sguardi sconfitti coi sentori di non poter far niente per quel loro figlio che sempre gli aveva delusi.
Tentai col lo scotch dentro l’astuccio, afferrai una estremità, l’attaccai all’altra e col l’unica mano libera afferrai le forbici anche queste nell’astuccio e tagliai quel piccolo nastro appiccicoso. Incollai bene quelle estremità tagliate, tentando di nascondere fin quanto mi era possibile l’esistenza di quello scotch.
Quando fini, alzai il quaderno appena al di sopra della mia testa. Lo scotch sembrava non reggere il peso di quel quaderno, perche nell’angolo più in basso già s’era spezzato. Rivelando uno spazio fra quelle due estremità.
“prova a farci un giro dall’altra parte, col lo scotch” aggiunse Sophie, evidentemente mi aveva osservato per tutto quel tempo. Mentre stavo riparando il quaderno spezzato.
La guardai vacuo, dopo gli mormorai un “grazie” appena udibile.
Segui i suoi consigli, si rilevarono utili il quaderno non sembrava più spezzato. Le sorrisi in un modo spento, al momento era il massimo che potevo offrirli.
“mi vuoi dire perche, ti ha trattato cosi?” domando ancora, alzai appena lo sguardo verso ella.
Guardai quei suoi occhi celesti, prima di riabbassare lo sguardo. Tentando di nascondere, quel senso di vuoto dentro opprimente. Ella non doveva provare altra pena per me, ero inutile, ed era meglio che mi lasciasse stare.
Decisi di non rispondergli, concentrandomi sul compensato del mio banco.
“non ne vuoi parlare, d’accordo” disse Sophie, senti indistintamente il rumore di una sedia spostata, ed il rumore dei suoi i, si stavano allontanando da me.
Rimasi fermo in classe, da solo. Altre lacrime minacciavano di scendermi dagli occhi, ma io molto fermamente le trascinai dentro di me. Avevo il terrore anche di questo, se iniziavo ha piangere quando mi sarei fermato?. Non potevo rischiare, no, non potevo.
Hai tempi, controllavo ogni mia emozione. Valutandola attentamente, se ne valeva la pena ad esempio d’essere vissuta. O cosa mi sarebbe costato nel viverla, la felicità ad esempio la trovavo nelle piccole cose, come le scoperte che facevo nel bosco attorno casa. La tristezza, andava semplicemente calmata in qualche modo. Bloccata se vogliamo, prima che partisse. Magari calmandomi, o mormorandomi fra me e me parole di conforto. Cose come ad esempio:
“io ci sono per te, e so che sei forte. Vedrai ce la farai, ancora un altro giorno, un’altra ora..”
Nella mia mente, mi immaginavo mentre mi dicevo queste parole. Di abbracciarmi, e tenermi stretto fra le mie mani.
Mia madre non mi ha mai accarezzato, o mostrato in modo equivoco di volermi bene. Ed io di quella mancanza, la cercavo in me. Non potendo cercarla negli altri. Ero un tipetto, piuttosto autosufficiente. Sapevo cosa mi bastava, e cosa no. Come i sogni, la speranza erano solo altri modi per cadere in quel baratro. E comunque, che sogni può avere un ragazzo come me di dodici anni e poco più?.
Minacciavano le mie emozioni, di uscire dal mio guscio protettivo. E non potevo permetterlo, quella umiliazione davanti a tutti. Mi aveva un’po destato.
Il meglio da fare, in queste situazioni e farsi una eggiata nel giardino dietro la scuola.
Segui poco tempo dopo Sophie, ella era già fuori all’aria aperta.
Il giardino dietro la scuola, era un posto pieno di spazi aperti. Pochi alberi nel mezzo di quel giardino erano stati piantati, ed a parte quelle panchine disposte ha cerchio verso il limitare. Non c’era nient’altro, solo alberi secolari, betulle e perfino due platani.
Tutti gli studenti, si aggiravano fra quei alberi, calpestando il soffice manto erboso che ne ricopriva tutta quella superficie. Solo, camminandoci continuamente sopra, in alcuni punti s’erano creati dei veri e propri sentieri dove l’erba non cresceva. Quei sentieri, dividevano in modo tortuoso il giardino in piccole parti.
Ragazzi e ragazze si rincorrevano fra quei sentieri, giocosi e tentando di acchiapparsi. Altri invece, i più grandi camminavano o semplicemente, si distendevano sull’erba per godersi il calore del sole.
Gli unici lontani da tutto e da tutti, era la combriccola di Rupert, Arthur, Frank e John. Parlavano animatamente dei fatti loro, sorridevano sereni preparando la prossima avventura.
Sophie tentava di far amicizia, con qualche ragazze della sua stessa età. Ed era ha buon punto, quando mi indico, e chiese perche fossi cosi disagiato e solo:
“quello e Scott, lo sfigato dell’intera scuola” rispose una piena ragazza, dalle braccia vistosamente grasse.
“si, io ti ho chiesto il perche viene trattato cosi” aggiunse Sophie, in tono molto garbato.
“ma ha te che t’interessa, e un asino lascialo perdere. Fidati, lui sta bene da solo. Non ha bisogno di te” aggiunse un’altra ragazza, dal viso cavallino e il collo molto più grande della sua amica.
“voglio solo sapere il perche” rispose Sophie, con fare impaziente.
Le due la guardarono a bocca aperta, decisero comunque di non dire altro. Allontanandosi da quella ragazza, che oramai gli era divenuta antipatica.
La scena, mi fu chiara sin dall’inizio. Sophie aveva chiesto di me, ha Amy ed alla sua amica Emily. Forse le più miglior amiche, dell’intera scuola. Non c’era posto in cui le vedevi sole, perfino dentro hai bagni si chiudevano da sole.
Scrollai la testa, forse non ero l’unico ad non avere amici. E di sicuro, è molto difficile farseli dei nuovi in un posto dove non conosci nessuno.
Ma Sophie, non era un tipetto molto arrendevole. No, perspicacemente andò verso la combriccola di Rupert, Arthur, Frank e John. Quei quattro accolsero ha braccia aperte Sophie, nella loro combriccola.
Anche li Sophie chiese di quello Scott.
Parlo per prima Rupert:
“in realtà non si sa molto di lui, abita vicino al bosco. I miei genitori, dicono che nella sua famiglia sono tutti ottimi lavoratori.”
“si bhè, solo suo padre” s’aggiunse Frank.
“figlio unico, proprio come me..e non l’invidio, ora che so quello che ha fatto tua sorella..e John?” parlo Arthur, sembrava il più sovraeccitato dei quattro.
“oh ma piantala Arthur.” mormoro imbarazzato John, distogliendo lo sguardo dall’intero gruppo.
“hey John..dico se vuoi, possiamo fargli saltare in aria qualche bambola..dico no?!” disse Arthur, evidentemente lo disse per tirar su il suo amico.
Che speranzoso alzo lo sguardo, indugio su uno ad uno dei suoi compagni.
“dio Arthur, cose che ancora non hai fatto saltare in aria?” apostrofo Rupert, sogghignando sereno.
“non lo so ancora, ma so che ci sono altre cose da far saltar in aria” rispose Arthur, prendendola sul ridere.
“sei sempre aperto ha nuove idee, diciamo” disse Sophie, guardando quei ragazzi uno ad uno.
“diciamo di si” rispose Arthur, l’aria da bambino incolpevole.
Trattenne ha stento qualche altra risata. Che poi s’alzo nell’aria, contagiando tutti.
“oh dio, Arthur..sempre cosi innocente” disse John, inclinando il capo verso lo stesso Arthur.
“mia madre dice la stessa identica cosa!” spalanco gli occhi Arthur, come se credesse impossibile, di due persone, che ha mala pena si conoscono possono dire entrambi la stessa frase.
“comunque quel Scott e sempre stato solo, non credo abbia amici” concluse Rupert, i suoi occhi indugiarono su quello Scott, s’aggirava per quel giardino completamente solo.
“e voi non vi siete mai chiesti, che magari non è una sua scelta. Forse e cosi timido, perche quel maestro lo tratta cosi..”
“lo tratta cosi da sempre” interruppe Frank.
Al quale si subì un’occhiata di rimprovero di Sophie.
“tanto peggio, e un ragazzo come voi.. Se accadesse tutto a voi? Che farete?” domando Sophie, quel ragazzino li faceva tanta tenerezza.
Rupert che ancora indugio su Scott, penso, forse valeva la pena di farlo entrare nella loro combriccola. Un anima un’po quieta, fra quei quattro poteva essere l’ago della bilancia.
Visto che nel gruppo, escludendo Arthur ch’era troppo eccitato. C’era solo Rupert ch’era un attimo quieto. John era piuttosto superstizioso, ad ogni corsa campestre al quale partecipava perche dotato di gran gambe. Faceva le stesse identiche cose, quando vinse la prima sua corsa. Come mettersi sempre seduto, nel bagagliaio della macchina del padre. O l’usare le stesse scarpe, consunte e spaiate ad ogni gara. Frank era intraprendente col suo intelletto, non c’era giorno che non assero i quattro nello scantinato di casa sua ha costruire razzi per Arthur. Non che gli altri, erano d’aiuto. Ma ha lui, piaceva la loro compagnia.
“d’accordo che proponi” esordi Rupert, ed in un attimo era come se il gruppo avesse deciso all’unisono.
Egli vedevano in Rupert il loro leader, mai l’avrebbero tradito, anzi, l’avrebbero seguito in capo al mondo. Tanta era la loro fiducia riposta in quel Rupert.
“non lo so, di farcelo amico..farlo uscire piano dal suo guscio” rispose Sophie, se fosse sorpresa dall’accettazione di quel Rupert e la sua banda. Non lo diede ha vedere.
Si limito ancora ha fissare, curiosa quel Arthur che non la finiva di non star fermo su quella panchina. Seppur egli fosse seduto, le sue minute gambe continuavano ha oscillare in avanti ed indietro. Sembrasse non vedeva l’ora di fare qualcosa, ed era facile pensare cosa.
Nel suo zainetto c’erano i nuovi petardi, arrivati all’armeria giù in città. Arthur aveva dato fondo, sin all’ultimo centesimo della sua paghetta per assicurarsene una gran bella scorta.
“credo sia meglio, farlo dopo la scuola” intervenne Frank, affianco ha lui John annui vistosamente.
“cosi e deciso” fini Rupert, guardandosi l’orologio notando che l’intervallo da li ha poco stava per finire. Si alzo da quella panchina, come fecero tutti gli altri del resto.
I quattro s’incamminarono verso la scuola, prima che la camla suonasse. E cosi magicamente richiamasse, quei ragazzi che tanto volevano stare all’aria aperta.
Chi non lo voleva, con quel giorno stupendo, quel cielo blu prometteva la più dolce delle avventure, quel calore t’invitava ha stenderti su qualsiasi cosa e chiudere gli occhi.
Quella giornata per Scott, o rapida come quando cambi velocità sul tappeto magnetico. E non riesci a fermarti, non trovi una fine al di là dell’orizzonte..
Mi ritrovai senza il sapere come, sulla via di casa. Non prendevo il pullman, trasportava tutti gli studenti verso casa. Visto che abitavo molto vicino alla scuola, un edificio interamente fatto in mattoni vecchio stile. Faceva un gran caldo, su per quelle vie quando sfilai il negozio del panettiere, e il ferramenta.
ai oltre al centro, ripieno di belle ville coloniali, con dei prati sul davanti da farti venire le lacrime agli occhi da tanta bellezza. Quelle rose, quei fiori tropicali, quelle palme. Era proprio ingiusto, da li ha pochi i c’era miseria. Una diseguaglianza, che vedevo allarmante ed ingiusta.
Guardai sognante quelle ville con piscina, faceva cosi caldo, fini in maniche corte e comunque sudavo ancora. Sarebbe stato un gran bel sogno, tornare a casa e tuffarsi in una piscina olimpionica tutta mia. Con l’acqua cosi fresca, da farti crogiolare in quel liquido per ore e ore.
Non mi accorsi che qualcuno mi stava seguendo, una ragazzina dai capelli biondi. Seguiva i miei i, come un’ombra. Ed io ero, francamente troppo assorto per accorgermene.
Col viso rivolto per terra, il solito ritornello triste suonato col piano. Accompagnava ogni mio o in avanti, mentre lentamente sfilava tutt’attorno
la città.
Le stradine con belle ville, lasciarono spazio alle grandi aperture della pianura tutt’attorno. I prati col solito colorito giallo bruciato, ove l’erba cullata dall’alito di vento caldo, creavano giochi di ombre sul manto. In alto come al solito, imperversava il sole, alto, di un rosso intenso.
Seguivo la strada, che appena fuori città divenne tutta curve.
Il limitare del bosco, si fece avanti verso quella strada. Grondavo letteralmente di sudore, quando mi guardai sulla mia destra.
Quei alberi, fornivano un’po di ombra. Soppesai ancora lo sguardo verso quel bosco, cosi assorto, cosi fresco nei suoi colori forti. Scavalcai quel piccolo fosso, subito dopo il manto stradale. E m’immersi in un nuovo mondo; la sotto le fronde di quei pini il calore non filtrava.
Si stava cosi bene, quella frescura mi investi, mi fece provare un forte senso di sollievo.
Afferrai da una tasca dei pantaloni, un fazzoletto di seta per asciugarmi il viso dal sudore.
M’ero fermato affianco ad un pino secolare, quando udì dei i alle mie spalle. Pensai fossero le solite coppiette di innamorati, alla ricerca di un riparo.
Fu per questo che mi nascosi, arrampicandomi sull’unico appiglio che trovai. Quel pino secolare.
Saltai verso un ramo basso, le braccia come lunghe propaggini, afferrarono quel legno vivo misto a resina. Issandomi con la sola forza delle braccia, inizia veloce la mia scalata.
Dovevo salire di qualche metro, cosi per essere sicuro di non essere visto. Riuscì a fatica, ad issarmi ancora per qualche ramo abbastanza grosso da reggere il mio peso esile.
Quando per poco non cadì al suolo, nel notare che non era una coppietta in cerca di riparo. No, era Sophie con il suo zaino sulle spalle. S’aggirava col lo sguardo, che si spostava in ogni direzione. Stava evidentemente cercando qualcuno. Possibile mai sia io quel qualcuno?.
Rimasi appollaiato su quel ramo, guardando dal basso quella ragazzina dai capelli biondi. Voltarsi a destra e a sinistra, poi lentamente alzo lo sguardo verso quei alberi tutt’attorno.
Sbiancai, al solo pensiero che mi individuasse lassù, ha pochi metri da lei. Tentai di cercare una via di fuga, ma non mi fu facile. Non c’erano altri rami affianco a quell’albero, abbastanza grandi da potermi reggere.
Ahimè ero bloccato, su di un ramo come un cretino. Comunque il mio disperarmi, duro pochi secondi.
Bastarono questi ha Sophie, per individuarmi. Ed il suo sguardo era dei più sorpresi.
“che fai lassù appollaiato, come un gufo?” domando, la sua voce riecheggio nel bosco, svegliando qualche uccellino, svolazzo via urlando il suo lamento.
“sentivo dei i dietro di me, ho pensato fossero due fidanzatini in cerca di un posto intimo” spiegai, prima che la mia mente ebbe il tempo di pensare a ciò che stavo per dire.
Alzo le sopracciglia Sophie.
“questo posto..e molto frequentato..da..ragazzi più grandi..” risposi in modo eloquente, scendendo da quel pino senza far fatica.
Un ultimo balzo prima di toccar terra, quando mi assali un dubbio.
“ma tu..mi stavi seguendo?” le chiesi, timoroso.
Sorrise Sophie, era evidente. Non dovevo nemmeno chiederlo.
“se vuoi chiedermi ancora..di quel maestro..non ho nulla da dire” risposi ignorando deliberatamente il suo viso.
“volevo solo conoscerti” disse Sophie, era sincera quando incrociai i suoi occhi blu, più splendenti in quel bosco. Visto la totale inesistenza del cielo.
“io?!” domandai incredulo, indicandomi il petto.
“si, scemo tu” rispose in tono scherzoso Sophie.
Sorrisi senza volerlo.
“come mai sei venuta alla mia scuola, quasi ha fine anno?” le chiesi, era perfino strano per me.
Indugio col lo sguardo Sophie, appena sopra la mia spalla. Cercava cosa dirmi, evidentemente.
“bhè, i miei hanno sempre fatto cosi. Fin da quando ho ricordo” rispose Sophie, tornando ha fissarmi negli occhi.
Deviai quello sguardo per aria, ricordandomi di quanta pena quei stessi occhi avevano provato per me.
“hai tuoi cosa racconterai, su quel libro?” domando Sophie, sembrava aver indovinato il motivo del mio turbamento. In un modo del tutto inverso.
Alzai le spalle, guardandomi attorno.
“fammi vedere cosa c’e di bello in questo bosco” mi sbalordì ciò che disse Sophie, quella sua richiesta cosi venuta dal nulla.
E poi come faceva ha sapere, che conoscevo questo posto come le mie tasche?.
Sembro leggermi ancora i miei pensieri Sophie, perche aggiunse:
“ho andiamo, ti sei arrampicato come se lo fi da anni.”
“molto perspicace” apostrofai sbalordito.
“oh non è stato nulla, osservo e basta” rispose Sophie, quella fu la prima volta in cui la vidi arrossire, e non di rabbia.
“c’e un posto, ma e diroccato e non lo miglioro più da un sacco di quel tempo.. sarà una catapecchia oramai” dissi, mollando lo zaino dietro quel pino.
Gesto che sorprendentemente Sophie segui, senza dire niente tranne:
“fammi vedere”.
Ci allontanammo da quel pino, certi di trovare i nostri zaini ancora li dove gli avevamo lasciati. Camminammo in direzione Ovest, il posto non era molto lontano. Saranno stati pochi metri, ma in quei metri Sophie era decisa ha spiegarmi la storia della sua vita.
“sono nata in un piccolo paesino di montagna, i miei nonni avevano una baita completamente in legno. Sai quelle che si vedono nelle pubblicità del cioccolato..ecco, quelle li. ai più o meno cinque anni della mia vita, in quella baita. Poi abbiamo comprato una casa sulla spiaggia, la ci siamo rimasti per tre anni..fu proprio la che vidi per la prima volta un delfino in carne e ossa saltare fra le onde. Da quella casa, abbiamo girato quasi tutto il paese” spiego Sophie, la sua voce era cosi solare.
“ma perche? Cioè non ha senso, cambiare cosi tante case ogni anno” risposi, quello non era un comportamento normale.
“i miei sono fatti cosi, non amano stare fermi. Ha loro piace muoversi, conoscere posti nuovi. E affascinante conoscere tante cose nuove, panorami, culture differenti” rispose Sophie, sembrava non ci fosse niente di più bello per Sophie, che seguirmi fra quei alberi e guardarsi attorno stupefatta.
“e tu?” domando infine Sophie, quando calo il silenzio fra di noi.
“io..bhè..” incespicai con le parole “sono nato qui” aggiunsi.
E non era niente ha confronto, di tutte le cose fantastiche che Sophie aveva fatto.
Come andare in catamarano, alla ricerca delle balene. O scalare una montagna, o semplicemente visitare musei e mostre d’arte.
“tutto qui” sembro dirmi Sophie, ch’era troppo poco.
Annui, non sapendo cosa dirle.
“un’po limitato non trovi?” domando più all’aria che a me Sophie.
“questa è la mia vita” risposi nello stesso identico modo.
Mi guardo Sophie, senti chiaramente che tentava di entrarmi nei miei pensieri. Perche quei suoi occhi, sembravano traarmi da parte a parte.
Sotto quelle fronde fitte, ci allontanammo dalla lunga striscia d’asfalto, la stessa collegava intere Nazioni, Paesi e in alcuni casi Stati.
Stavo portando Sophie, verso una vecchia e fatiscente casa sull’albero. L’intero tetto era crollato, e stato rimosso da me. Mi c’erano voluti tre giorni, per togliere quelle assi marce. Ora la casa, assomigliava ad una terrazza senza parapetto. Visto la maggior parte delle pareti, erano crollate col tetto.
Per qualche strano motivo logico, o per magia quella terrazza sembrava reggere alle intemperie del tempo. Che in Inverno, da queste parti e molto duro da sopportare.
Sophie spalanco gli occhi, il profondo stupore provato da ella. Coinvolse anche me, sorridevo senza rendermene conto. Mentre la stessa, girava attorno alla terrazza sopra la sua testa, ha pochi metri.
“l’hai costruita tu?” domando, quando furono ati minuti.
“no, è molto fatiscente per essere di questi anni” risposi risoluto, il legno in più parti era marcio come se avrebbe assorbito piogge per dieci anni o poco più. Era improbabile, molto improbabile che l’avessi costruita io all’età di un anno.
Sembro dello stesso parere Sophie, perche non aggiunse nulla. Si limito ad annuire alla mia risposta, come se si stesse aspettando proprio questo da me.
“ci reggerà?” chiese Sophie, adocchiando una piccola corda, penzolava giù da un foro quadrato nel terrazzo, abbastanza grande da far are sia me e Sophie.
“credo di si” risposi, dubbioso “meglio che vada primo io, se crolla posso appendermi ha quel ramo là” cosi dicendo indicai, un ramo abbastanza grande e vicino al terrazzo dove potersi appendere.
Lasciai Sophie ha distanza di sicurezza, nel caso la terrazza fosse caduta.
Mentre cauto mi avvicinai a quella corda, l’afferrai dandole uno strattone abbastanza forte. Non si spezzo, ero pronto alla mia scalata. Saltai con entrambi i piedi, tenendomi bene issato con le mani strette attorno alla corda. Lentamente,
molto lentamente iniziai a salir sulla terrazza. Quando arrivai, sul pavimento in legno, formato da grandi listarelle.
Da subito notai, il leggero pendio di quel pavimento. Le tarme stavano facendo, ciò che la pioggia, o il vento non avevano concluso.
Pestai i piedi su quel pavimento, arrivai perfino ha saltarci sopra. Col risultato d’ottenere un leggero scricchiolio appena udibile.
“oh non mi piace..scendi dai, e pericoloso” mormoro Sophie, era cosi lontana dalla terrazza.
La potevo vedere, col viso un’po sbiancato per la paura.
Le sorrisi con fare tranquillizzante, ma un attimo dopo lo stesso pavimento si piego su se stesso. Ondeggiando paurosamente, tanto le mie gambe iniziarono ha tremare. Mi mossi rapido, con i riflessi pronti. Saltai su quell’albero, sporgeva verso la terrazza. Appena in tempo, prima che un tremendo botto alle mie spalle. Mi fece capire, che me l’ero scampata per il rotto della cuffia.
Sospirai in perfetto equilibrio su quel ramo.
“io l’avevo detto, dio potevi cadere, potevi farti male..” disse con fervore Sophie, al mio indirizzo.
“un momento prima, ti piaceva quella terrazza” apostrofai, scendendo da quel ramo.
Lasciando che le gambe una volta a terra, assorbissero il mio peso esile.
“appunto prima, anche se non sembrava molto stabile” disse Sophie, probabilmente arrabbiata con se stessa. Per non averlo capito prima, quel rischio imprevedibile.
Ci avvicinammo oramai alle macerie di quella terrazza, con fare circospetti commentammo quanto quel legno era marcio. C’erano delle chiazze bianche, fra quelle grosse listarelle.
“muffa” disse Sophie, sporgendosi il più possibile verso quella parte bianca.
“forse non era legno trattato contro l’acqua” ipotizzo Sophie.
“può darsi, un barattolo di quel trattamento costa tanto. Solo gente come Rupert, se la può permettere” risposi.
“bhè in effetti, hai ragione” parlo una voce alle mie spalle.
Fece sussultare sia me, che Sophie.
Finché non ci voltammo verso quella voce, e non scoprimmo con somma gioia ch’era proprio Rupert e la sua combriccola.
Arrossi nel vederlo, avevo parlato quasi male della sua famiglia.
“figo..avete sentito che botto. Sei stato tu?!, sei grande davvero..” disse Arthur, un apparecchio per i denti luccicava in quel bosco.
“meno male che non ti sei fatto niente, avevo sentito alla radio..che per caso sei Sagittario?” domando John, guardandomi con fare curioso.
“oh ma piantala John, scusalo e superstizioso peggio di mia madre” apostrofo Frank.
In un attimo, l’ambiente ovattato e silenzioso del bosco fu scosso da tre risate. John era piuttosto imbronciato per riderci su. Sophie era ancora incredula come me, di quell’apparizione sorprendente.
“comunque, non sono del Sagittario” risposi, alla vista del viso imbronciato di John.
Mi ringrazio, per il mio tatto con un sorriso.
“bhè che mi prenda un colpo, sei anche in gamba” dichiaro John, spostandosi una mano verso i capelli.
Sorpreso del mio atteggiamento nei miei confronti.
“allora, cosa stavate facendo?” domando Rupert, sposto lo sguardo appena verso le macerie di legno di quella terrazza.
“gli avevo chiesto io, di farmi vedere le bellezze di questo posto” rispose per me Sophie.
Un cenno d’intesa, ci fu fra i due. Come se entrambi, avevano capito il motivo per il quale erano li con me.
“e poi cos’altro ce? Non sono mai stato in questo bosco” parlo Frank, guardandosi attorno aspettandosi di vedere qualcos’altro di stupendo dietro un tronco di qualche albero.
Scrollai le spalle “non e che ci siano altre cose cosi, ci sono soltanto alberi, qualche cespuglio di bacche e qualche fungo.. A parte gli scoiattoli” risposi, fissando uno per uno i membri di quella combriccola.
“Rupert, perche non catturiamo uno di quei scoiattoli, e li facciamo esplodere” propose Arthur, tutto eccitato. Tanto che inizio ha saltare sul posto, evidentemente l’idea di qualche bell’esplosione per Arthur era un qualcosa d’imperdibile nella vita.
“oh ma piantala Arthur” commento in tono sarcastico John, prendendo l’amico
per le spalle, per grattarli con le nocche la nuca.
Altre risate commentarono quella scena.
Incrociai per caso lo sguardo di Rupert, incuriosito e piantato su di me. Sogghigno appena alla mossa di John, che lascio Arthur poco dopo.
“sentite sta tramontando, torniamocene ha casa. Mio padre, mi ha già rimproverato..non devi tornare ha casa, dopo il tramonto.” cosi dicendo Rupert imito una voce baritonale maschile.
La sua imitazione era cosi perfetta, ma io non avevo mai avuto il piacere di conoscere il padre di Rupert. Non risi come John, Arthur e Frank. Nemmeno Sophie, conosceva il padre di Rupert. Rimase in silenzio ad osservare quei quattro, piegarsi dalle risate.
Rupert aveva ragione, stava tramontando e dovevamo tornate tutti a casa.
“ci vediamo domani ha scuola, Scott, Sophie” aggiunse Rupert.
“si..si ci vediamo, e magari vi faccio vedere i nuovi petardi che ho comprato” disse Arthur
“e magari, possiamo venire qui.” s’aggiunse John
“sii, voglio proprio vedere qualche scoiattolo” fini Frank.
E come se non bastasse ha quella parole, sia Sophie che Rupert annuirono, l’idea non era male.
Se non altro, non avevo mai condiviso quel bosco con nessuno. Al momento mi trovavo restio, a dividerlo con loro cinque. Non ce li volevo qui, potevano rovinare tutto.
Stavo ancora cercando il giusto rifugio, dove venirmi ha nascondere quando mi sarei sentito molto depresso. E se trovavo quel posto, con loro alle mie calcagna?. Come potevo rifugiarmi, in un posto che conoscevano altre cinque persone?. Se volevo stare solo, l’avrebbero capito. No?!.
E se con la loro compagnia, non l’avrei mai trovato? Cosa sarebbe successo?. C’erano troppi imprevisti, per accettar quei cinque nel mio bosco.
Il mio essere cosi esitante fu notato, da Rupert che disse:
“tutti hanno bisogno di ridere, e perfino tu devi essere spensierato almeno qualche volta. Non invaderemo i tuoi spazi, se ti da fastidio. Ma almeno, facci divertire anche ha noi. Facci vivere del brivido della scoperta. Te lo chiedo per favore.” disse Rupert, per tutto il tempo punto i suoi occhi blu scuri verso me. Il suo tono era cosi gentile, ed era cosi incredibile che mi avesse capito con un solo sguardo.
Voltai lo sguardo su quel gruppo, ora Sophie s’era disposta affianco ha quei cinque.
Ricordo ancora i loro visi speranzosi, quasi mi pregassero di condividere qualcosa di magico che solo io possedevo. Ed era strano, perche non ho mai avuto nulla da condividere con nessuno.
Ricordo ancora, il sorriso incerto di John, quello di Arthur ch’era tutto un programma, quello speranzoso di Frank, quello di Rupert sembrava avermi preso fra le sue grazie, quello dolce di Sophie.
Non me la senti, di dirgli di no.
“va bene” dissi, accadde un qualcosa che non mi aspettavo.
Sophie, corse verso di me per abbracciarmi. Arthur si avvicino tutto sorridente e felice.
“porterò i miei petardi, e li proveremo qui..o forse possiamo infilarli nella borsa del maestro..” disse Arthur.
“già, non e male come idea. Sapete, mi ha dato, sei nell’ultima verifica e avevo risposto bene ha quasi tutte le domande” s’aggiunse Frank, evidentemente quel sei non gli era proprio andato giù.
“si..prima o poi, gliela faremo vedere ha quello la” approvo John, vistosamente.
“voi state scherzando vero?” domando allarmata Sophie, guardandolo uno ad uno.
Arthur di quello sguardo si fece piccolo-piccolo.
“bhè una lezione se la merita comunque, non può fare quello che vuole senza pagarne le conseguenze” intervenne Rupert, facendomi l’occhiolino.
“se vuoi non sei costretta” aggiunse nel notare l’indecisione di Sophie.
“facciamolo” rispose quasi subito Sophie decisa.
“non può mica strappare quaderni ha desta e a manca” disse Arthur, non ero solo nelle grazie di Rupert.
Ero nelle grazie di quei cinque, e la cosa era cosi fantastica. Da farmi piangere, era troppo perfino per me.
Nemmeno ci credevo, quei cinque erano disposti ha prendere le mie difese non perche gli facevo pena. No, perche ero divenuto un loro amico. Cosi dal nulla, come crescono i funghi dietro le radici degli alberi.
“siete tutti troppo forti” mormorai, asciugandomi quelle lacrime col palmo della mano.
“oh ma sentitelo, aspetta e vedrai quanto siamo realmente forti.” disse Arthur, fischiando vistosamente.
“puoi ben dirlo, non hai ancora visto niente” convenne Frank, sorridendomi rassicurante.
“bhè andiamo ho no, mi si sta ghiacciando il culo” disse Rupert, prendendomi per le spalle e guidandomi fuori da quel bosco.
Incredibile, avevo cinque nuovi amici. E con loro alle mie spalle, usci da quel bosco con una rinnovata felicità. Minacciava proprio, di non abbandonarmi mai.
Fui grato per tutta la mia vita, ha quei cinque. Loro nemmeno s’immaginano, da cosa mi hanno salvato. Potevano solo ipotizzarlo..
Ci salutammo, diretti in direzioni diverse. Una volta afferrato il mio zaino, e Sophie il suo. Ci salutammo con abbracci e strette di mano. Fu solo Sophie ad abbracciarmi.
Guardai quei cinque, sparire oltre quella curva che piegava leggermente a sinistra. Alle loro spalle il tramonto, diveniva più arancione ed io non sospettavo minimamente le cose fantastiche che da li ha quell’estate mi sarebbero accadute.
Sapevo solo che avevo un sorriso, a trentadue denti. E con quello spirito, tornai a casa.
Capitolo 2;
Agliardi, la famiglia col rispetto.
Rupert e la sua banda, erano oramai lontani. Molto lontani da Scott, essi ne parlavano animatamente di quel ragazzo.
“pensavo non fosse apposto con la testa, invece e solamente solo” fu Frank ad avviare quel discorso.
Mentre la combriccola attraversava, qualche via traversa.
“troppa è la ingiustizia, che e costretto ha subire” disse Sophie, come se ciò fosse solo un dato di fatto da costatare.
“su questo hai ragione” mormoro Rupert, di quelle ingiustizie lui non ne sapeva niente.
Ma la vita, sembrava aver recato ad egli il suo scotto.
“si..si” parlo Arthur, annuendo vistosamente col la testa.
“e ha posto comunque” concluse John, il modo in cui quello Scott ebbe tatto di lui. Gli fu impresso nella mente.
“ci vediamo domani a scuola” disse Sophie, fermandosi su un crocevia. Era arrivata ha casa.
“ci vediamo” salutarono tutti Sophie, benché non fosse normale per loro. Avere nella loro combriccola una ragazza.
La banda si sciolse, pochi metri più in la. Abitavano tutti e quattro, nella stessa strada. Il primo ha fermarsi, fu Frank, poi John ed infine rimasero Rupert e Arthur.
Quando i due raggiunsero una villa bi-famigliare, Arthur piego il capo quasi tristemente all’indirizzo di Rupert. Che lo guardo, con fare rassicurante. Prima di allontanarsi, dal piccolo suo amico.
La sua casa, non era male. Era una villa, dai caratteri Georgiani. I soffitti alti, facevano impazzire tutte le donne che venivano i sabati per visitarla, quando in realtà la scusa era solo prendere il the con sua madre.
Donna molto attiva nel settore sociale, si prodigava spesso in raccolte di fondi per i più bisognosi. Trattando da schifo, gli inservienti di quella villa, arrivando addirittura ha pagargli una miseria.
Casa Agliardi, era tenuta in alto rispetto dalla popolazione di quella cittadina.
Per non parlare poi del padre di Rupert, lo chiamavano solo Signor Agliardi. Quel titolo, egli se lo era conquistato, ingannando, truffando la sua stessa banca, prima d’esserne divenuto il direttore.
Come quasi tutto quello che Rupert, poteva avere o che già aveva. Non si parla solo di privilegi, come la più vasta e succulenta scorta di carne, con il grasso che si scioglieva appena la guardavi.
Parlo della piscina, olimpionica in un mobile affianco alla villa. Con la possibilità di calare il tetto nei giorni caldi, o lasciarlo chiuso nei giorni invernali.
Con l’acqua calda, e il riscaldamento al massimo. Quella piscina in inverno, si trasformava quasi in una sorgente termale. Altro privilegio di Rupert, era quello di poter avere ciò che desiderava. Bastava solo chiedere, hai suoi patetici genitori.
Troppo presi dall’etichetta, che seguivano alla lettera. Di come e bene comportarsi, con ranghi sociali inferiori o se per caso accadeva, ranghi superiori. Il che era un vero e proprio eufemismo. I casi rari, nei quali venivano ha fargli visita qualche politico, qualche generale o semplicemente altri truffatori con giacche e cravatte firmate.
Entrando per il grande cancello in ferro battuto, Rupert venne accolto dal suo maggiordomo personale. Ne avevano uno per ogni membro famigliare, solo tre. Uno per suo padre, stranamente una bella donna bionda, uno per sua madre, ed infine Simon il suo maggiordomo personale.
La persona di Rupert, più amata in tutta la casa era Simon. Egli aveva un gran cuore, perche nel badare al suo padroncino. Egli si adoperava al meglio, per far si che il poveretto non si sorbisse tutte le cene, o le feste, o il prendere del the nella sala adibita solo per quel semplice gesto.
Creando sempre al suo amato padroncino, delle scuse plausibili per evitare quelle cerimonie. Che Rupert, odiava con tutto se stesso.
Simon era perfino riuscito, ha convincere i suoi genitori ha mandarlo in una scuola statale. E non privata, dove molto probabilmente era popolata da figli di papà. Chissà come, o chissà quando.
Sta di fatto che ora Rupert, frequentava quella scuola. E senza Simon, ciò non era possibile.
Come il trovarsi tre amici, dei veri amici, con cui scherzare e giocare. Rupert non era solo grato ha Simon, ne era devoto.
Perche quei amici, significavano per Rupert la possibilità di fuggire da quella vita, piena di regole sul come comportarsi, o come trattare gli inservienti. E crogiolarsi nei più bei beni, quando fuori viveva certa gente, che sua madre amava definire: “persone che infangano il nome di uomo, con la loro miseria”.
“solo perche nessuno, e come il tuo tanto amato marito..che quando può ti tradisce col la donna delle pulizie” voleva tanto rispondergli Rupert.
Gran parte dei suoi amici, non viveva una situazione come la sua, molto agiata.
Anzi, c’era da scommettersi che se sua madre per caso. Scoprisse che gente frequentava il figlio, e avesse visto in che case vivevano. Questa avrebbe chiaramente detto: “che miseria..non gli vedrai mai più, stai infangando il nome del tuo casato”
Era cosi che i suoi genitori, chiamavano la sua famiglia. Con l’accezione “casato” come, se essi fossero il meglio del meglio, solo perche potevano permettersi una barca a vela di dodici metri parcheggiata al porto. E abilmente nascosta, per motivi fiscali.
Gran parte delle cose che possedeva la sua famiglia, era nascosta al fisco. Suo padre, aveva agganci troppo in alto, per almeno essere beccato una volta. Era cosi che s’era fatto tutti quei soldi, del resto.
“il signorino, e arrivato appena in tempo. I suoi genitori, l’aspettano nella sala del the” disse Simon, usando un tono formale quando fra quelle parti c’era qualcuno che poteva origliare la loro conversazione.
In questo caso Bacon, il giardiniere da orecchie da mercante, e bocca sorprendentemente veloce quando si trattava di pettegolezzi.
Annui Rupert, adocchiando il sudato Bacon chino su un cespuglio di erbacce.
“sai per caso cosa vogliono da me, di solito mi lasciano in pace” rispose Rupert,
parlando fra gli angoli della bocca per non farsi sentire.
“credo riguardi il suo futuro..il signorino vuole rendermi il suo capotto e lo zaino?” cambio modo di parlare Simon, quando entrarono per la porta d’ingresso della casa.
Un’arcata di colonne, attendeva dietro codesta porta. Per crear scalpore, e grida di stupore. Una scala in marmo bianco, occupava gran parte della parte destra di quell’ingresso. Portava hai piani superiori, la lunga scalinata comprendeva anche un corrimano finemente elaborato. Dove terminava, con due leoni sulle balaustre d’inizio e fine corrimano.
Affreschi ritraevano angeli celestiali, alle pareti. Ed infine un bel arazzo pendeva dal lato sinistro, altrimenti spoglio. Un lungo tappeto rosso, prepotentemente invadeva l’ampiezza del pavimento.
L’unico mobile presente in quell’ingresso, era un appendi cappotti in legno massiccio.
Ove Simon si diresse, dopo che Rupert li diede il suo capotto estivo senza maniche, e il suo zaino. Che sfigurava, affianco al cappotto elegante di suo padre, e quello pieno di brillantini di sua madre.
Quando Simon appese, il giubbotto di Rupert sopra l’unico posto libero, con lo zaino ancora per le mani. Accompagno lo stesso, nella sala per il the.
La sala per il the, era una stanza quadrata piena di luce. Filtrava grazie alla grande vetrata, posizionata proprio verso l’orizzonte. Cosi da godere del bel panorama, cullava il più schizzinoso degli occhi. Fra le sue curve, e quella linea sottile del ruscello che iniziava dal bosco, per poi perdersi verso il mare.
Piccoli tavolini da quattro persone, erano posizionati qui e la per tutta la sala. L’unico riparo da quella luce, erano delle tende in lino bianco. Cosi leggere, cosi fini da far filtrare i raggi del sole fra i fili di lino intrecciati.
Sua madre l’attendeva, ad uno di quei tavolini mentre sorseggiava il the, sfogliando una rivista di moda per gente abbastanza facoltosa. Aveva il collo piccolo, un naso sottile, e due occhi grossi come quelli di un gufo. Solo che questi, sembravano più antipatici e ottusi.
“siediti” disse, senza nemmeno salutarlo.
Con particolare accezione, per il modo di vestirsi di suo figlio, molto simile ad ragazzo che viveva in una famiglia che non riusciva ad arrivare ha fine mese. Dai vestiti stracciati, hai jeans sporchi e trasandati. Quei particolari, fecero storcere parecchio il naso minuto di sua madre.
Rupert, segui le indicazioni di sua madre. Prese una sedia, proprio davanti ha quella di sua madre. La sposto, e ci si sedette sopra. Aspetto ha parlare, infondo era stata sua madre ha cercarlo.
“ne parlavo con tuo padre poco fa, lo sai che il figlio dei Signor Whawerly, andrà in una prestigiosa scuola superiore?”
S’era questo di cui volevano parlare, Rupert non voleva nemmeno sentirlo quel discorso. Da anni sua madre, assieme ha suo padre si prodigava i queste frasi. Col l’obbiettivo, di far sentire il figlio inferiore ha quei figli tutti perfetti delle altre famiglie, loro conoscenti.
Francamente Rupert ne era stufo, si alzo dalla sedia non preoccupandosi d’alzarla dal pavimento. Guardando torvo suo madre, ed anche suo padre che non era li. Ma era come se ci fosse.
“voi non avete il diritto, di scegliere della mia vita. Ne ho abbastanza, non me ne frega niente di quello che fanno gli altri..io farò quello che voglio fare, punto. Non ho bisogno di seguire, figli di papà viziati sino al midollo” sbotto, e prima che la madre potesse rispondergli schizzo in camera sua.
Forse l’unica stanza, che i suoi genitori non coinvolgevano nel fantomatico giro di quella casa. Accadeva quando arrivava gente nuova, che non aveva mai visto quella villa. E come spesso succedeva, i suoi genitori evitavano di far entrare gli ospiti in camera sua.
Il motivo era abbastanza chiaro, visto che Rupert da anni oramai aveva una camera molto simile ha quella che hanno i ragazzi normali alla sua età.
Modellini di auto d’epoca, brillavano sulle mensole sopra la scrivania. Un computer, con molti giochi dentro era posizionato nell’esatto centro di quella scrivania. Per il resto la stanza era vuota, niente arazzi, niente affreschi di nessun genere. E poi non c’era posto, perche le pareti erano piene di poster di videogame, o di film ed di qualche band musicale molto in voga in quei anni.
Per il resto la sua camera, non comprendeva niente di magnifico come soffitti alti, o colonne ad archi nulla di nulla. Solo un letto misero, ed un mobile raccattato da qualche parte della casa.
Questa era la camera più preferita di Rupert, ed era un atteggiamento un filo arrogante visto che era la sua.
Rupert con i nervi ha fior di pelle, letteralmente si sdraio sul suo letto completamente vestito, il suo zaino era già stato portato da Simon in camera sua. Era affianco alla scrivania, e con umore non dei migliori. Rupert si costrinse, ha far l’ipotetica montagna dei compiti per il giorno dopo.
Sgobbo, si affatico, grattandosi la nuca col la sua penna a sfera. Sbadiglio, stiracchiandosi dolcemente la schiena, su un complesso problema geometrico.
Prima d’essere chiamato da Simon, per lo spuntino pomeridiano. Il maggiordomo entro nella sua camera, bussando per tre volte sullo stipite. Attendendo, il solito cenno di benvenuto di Rupert.
Simon infondo era più che benvenuto nella sua camera.
“il signorino vuole, qualcosa da mangiare?” domando, portando con se un vassoio in argento luccicante nel tardo pomeriggio. Ove pasticcini erano stati disposti, perfettamente, calibrati al centimetro l’uno dall’altro.
“grazie Simon, ma al momento non ho fame..se solo mi ricordassi, come si fa ha trovare l’ipotenusa” borbotto Rupert, sprofondando la sua testa nelle mani.
“la somma delle aree di due quadrati, costruiti sui cateti e uguale all’ipotenusa” rispose Simon, prima di uscire dalla camera strizzo l’occhio ha Rupert.
Sapendo come si trova l’ipotenusa, ora aveva un certa fame. Peccato che quei succulenti, non che pieni di zucchero, pasticcini se n’erano andati con Simon. Non sembravano male, con tutta quella glassa ha ricoprirgli.
Fantastico per un attimo su quei pasticcini Rupert, prima di ritornar con la mente al suo dannato compito di geometria. L’aiuto di Simon, fu fondamentale. Scoperto come si trovava l’ipotenusa, oramai Rupert aveva la strada spianata.
Dopo quelle che parvero ore, in realtà erano ha malapena ata una mezz’oretta. Rupert fini coi suoi compiti, e finalmente era libero di scendere nelle cucine. Per vedere se il cuoco, avesse qualche spuntino da offrirgli.
Le cucine, erano quei posti nei quali un ragazzino come Rupert non era ben accetto. Infondo quello era l’unico posto in cui, gli inservienti di quella villa potesse sparlare dei loro padroni.
Ma siccome l’odio, per quelle due persone era reciproco. Rupert veniva accolto nelle cucine, come un eroe buono e giusto.
Non era raro vederlo, giocare ha carte col cuoco Bob. Un omaccione abbastanza
in carne, e quasi sempre vestito di bianco. Benché quel bianco, fe vedere quanto Bob fosse un attimino disordinato. Quel suo completo bianco, era sempre sporco. Per il resto era un ottimo cuoco, il suo spezzatino di carne era dei migliori.
Era solo per questo motivo che Bob, era ancora in quella cucina. I suoi genitori, non amava la gente disordinata, e per estensione si aspettavano che tutti gli inservienti avessero lo stesso modo di comportarsi dei loro padroni.
“ehilà figliolo” lo salutava sempre cosi Bob, vedendo filare per la porta a battenti delle cucine.
Sorrise in modo amichevole Rupert, sedendosi di fronte hai fornelli. Dove Bob si stava dando da fare, assieme alle due cameriere di colore. Esse si chiamavano Jolanda e Anna, non c’era molto da dire su di loro. Sbrigavano le loro faccende, e poi sparivano dalla circolazione.
Rupert sospettava, che elle avevano un secondo lavoro. Ne aveva perfino parlato con Simon, questi li rispose:
“signorino, questi non sono affari nostri. Se loro vorranno condividere con noi, cosa fanno una volta uscite di qui. Finalmente lo sapremmo, fino ad allora facciamo finta di niente” li rispose questi, con brevi pacche sulle spalle affettive. Cosa che suo padre, mai aveva fatto.
La cucina, era di quelle moderne e non mancava mai nulla nei frigoriferi. Ecco il perche Bob, fischiettava sempre. Era il suo regno, ed era un lusso per egli lavorare li.
“senti Bob, non e che hai qualche avanzo di ieri sera?” domando Rupert, indugiando sulle salsicce che ora stavano cuocendo sulla piastra.
Nel notare il grasso che lentamente si scioglieva, lo stomaco di Rupert non poté trattenersi.
Nel sentir quei brontoli, Bob lascio perdere ciò che stava cucinando. Abbasso la fiamma delle salsicce, e si diresse nel frigorifero enorme. Abbastanza da scambiarlo, per un armadio a due ante.
Ne riemerse Bob, dopo appena qualche secondo. Con un piatto di gnocchi al sugo, che subito s’affaccendo ha scaldare in un fornello.
“alla padrona non sono piaciuti” borbotto Bob, umilmente.
“la prossima volta, prova con uova di rana e vermi. Credo che sia il suo piatto preferito” rispose in tono sarcastico Rupert.
Bob sorrise con circospezione, ma subito dopo acquisto la sua felicità. E si esibì in una canzone per Rupert, mentre mangiava i suoi gnocchi al sugo. Erano squisiti, lo stesso Rupert lo disse a Bob.
“oh signorino, lei e troppo gentile” rispose Bob, s’era possibile divenne più felice dopo quel complimento.
Fischiando s’aggirava danzando fra i fornelli, in uno slancio di divertimento afferro il piccolo Rupert. E lo fece volteggiare con lui, attorno hai fornelli. Le loro risate, erano eccessive.
E sua madre che si trovava per caso, ha are affianco alle cucine. Entro per le porte battenti, indugio lo sguardo con orrore verso suo figlio e il cuoco.
La musica cesso, le loro risate anche. Nel notare che la mamma di Rupert, era sul punto di esplodere in quelle ch’erano le sue epiche sfuriate.
Prima che potesse aprir bocca, Rupert usci dalla cucina. Supero sua madre, e al sicuro dalle sue spalle mimo: “scusami”, venne recepito da Bob con un cenno impercettibile del capo.
Sapeva Rupert, cosa fosse successo una volta uscito dalle cucine.
“ROBE DA PAZZI, NON SI è MAI VISTO UN CUOCO CHE BALLA COL SUO PADRONE..E INACCETTABILE QUESTO COMPORTAMENTO..”
Le grida di sua madre, si sentivano perfino dalle scale all’ingresso. Quella non era aria per lui, cosi Rupert si allontano da quella casa.
Uscendo dalla vetrata sul retro, quella che collegava la casa all’immobile della piscina coperta. Le porte di quella piscina, erano sempre aperte. A Rupert li fu facile, percorrere il vialetto acciottolato sino alla semplice struttura rettangolare
della piscina.
Al suo interno, l’acqua gorgogliava da una cascata sul lato estremo della piscina. Luccicante ed invitante l’acqua, chiamava a se Rupert. Farsi il bagno ha quell’ora, Rupert sapeva avrebbe fatto di nuovo arrabbiare sua madre. E farla arrabbiare due volte di seguito, non era una buona idea.
Si limito solamente, ha togliersi le scarpe e le calze di lana. Sedendosi sul bordo, per immergere i piedi nel liquido tiepido e gratificante.
Tutte quelle fatiche di quel giorno, vennero cancellato dal rilassante temperatura perfetta di quell’acqua. Se solo Rupert, avesse il costume da bagno con se. Nulla gli avrebbe impedito, di lanciarsi a bomba nell’acqua, per poi fare il morto sul pelo dell’acqua.
“il signorino, cercava il suo costume?” domando Simon, che evidentemente aveva assistito alla scenata in cucina. E prontamente aveva fatto, ciò che Rupert pensava di fare.
“certe volte mi chiedo, se tu sei umano Simon.” rispose Rupert, afferrando il costume da bagno piegato finemente nella mani di Simon.
Per dirigersi negli spogliatoi, locale annesso alla piscina.
“umano signorino?” domando Simon, seguendolo per rimanere fuori dagli spogliatoi e attendendo i vestiti di Rupert. Cosi che potesse piegarli ha regola
d’arte, e sistemarli per bene su quelle panche dei spogliatoi.
“si umano..prima di tutto riesci ad apparire dal nulla peggio di un fantasma, secondo riesci ha capire ciò che voglio senza che io lo dica. Terzo mia madre, sembra amarti..se Arthur fosse qui, suggerirebbe che tu fossi..” le parole non li vennero più al pensiero, dei suoi amici e di come si sentisse un ragazzino normale con loro. Li venne una tristezza in pieno petto.
Perche doveva osservare quelle regole, quando fuori hai suoi amici non gliene importava? Perche far finta, di essere qualcuno che in realtà non si è?. Perche era evidente, Rupert in quei momenti non era felice.
“signorino credo di non essere un alieno, ma se lei si sentisse bene ha saperlo. Allora si, sono un alieno” rispose Simon, un sorriso di comione li illumino il viso.
Era forse una frase, che poteva dirti un vero padre quella. Fu per questo che quando Rupert usci dallo spogliatoio, abbraccio Simon con sentito amore.
“credo che il signorino, non vorrà essere visto cosi da sua madre” apostrofo Simon, comunque contento di quell’abbraccio.
“sai Simon, ne abbiamo già parlato chiamami Rupert e basta” rispose lo stesso Rupert.
Simon fece per aprir la bocca, ma Rupert fu più rapido di lui.
“questo è un ordine Simon, d’accordo?” domando, prima di lanciarsi nell’acqua deliziosa.
“ok signorino Rupert” sorrise Simon, mentre filava dentro lo spogliatoio.
Per mettere a posto i vestiti del suo padroncino, sorrise di più quando li noto perfettamente piegati sulla panca degli spogliatoi.
Il bagno duro appena un’oretta, nella quale Rupert rimase solo nella piscina, fece qualche vasca prima di rimaner sul pelo dell’acqua facendo finta d’essere morto.
Simon lo venne ha chiamare, poco dopo. Entro nel locale della piscina, con un accappatoio di un bianco candido.
“il signorino, vorrà gentilmente uscire. Sua madre l’aspetta per la cena” disse Simon, fissando Rupert proprio al centro della piscina.
Egli guardava i mosaici, che componevano la dirompente cascata proprio davanti ha se. Raffiguravano Dei nell’olimpo. Il suo preferito era Eros, con quei suoi muscoli dirompenti e il viso fiero.
Simon dovette richiamarlo un’altra volta, prima che Rupert si accorgesse di lui.
“te lo già detto, mi chiamo Rupert no signorino. Finche non mi chiamerai col mio nome, non esco da questa piscina” rispose Rupert, sguazzando ha stile libero per tutta la lunghezza della piscina.
“ok..Rupert vorrà gentilmente uscire dalla piscina, sua madre l’aspetta per la cena” disse Simon, per questa volta era stato fregato dal signorino.
Non li poté sfuggire, un sorriso grato dalle labbra. Subito mascherato, con un accesso di tosse.
Quando finalmente Rupert, si isso sul bordo. Fantastico per pochi secondi, su quei mosaici che si distendevano per tutti i muri di quella piscina. Fin anche al pavimento della stessa, ove al centro c’era uno stemma. Lo stemma della sua casata, gli Agliardi. Ovvero un Aquila che reggeva fra le zampe uno scudo, con su disegnato un albero contorto e una donna sotto di esso.
Gli altri mosaici su quelle pareti, raffiguravano figure mitologiche. C’era perfino una scena di Perseo che uccideva Medusa, sembrava molto reale.
Tanto che Medusa, assomigliava molto ha sua madre. Ogni tanto quella scena veniva sognata da Rupert, ma quando quel sogno iniziava. Lo stesso si costringeva ha cessarlo, era davvero brutto voler tranciar la testa di netto ha sua madre. Perfino per una madre acida, come la sua.
L’accappatoio di lino bianco, venne posizionato sulle spalle di Rupert. Che noto subito, il calore emanato dall’accappatoio. Di sicuro Simon, l’aveva riscaldato in qualche modo. Cosi da dar piacere, al suo padroncino.
Era cosi il loro rapporto, uno scambio di favori impercettibili agli occhi di sua madre. Ma a loro due, ben visibili e chiari.
Quando fu asciutto Rupert, coi vestiti rimessi, e l’accappatoio ed il costume furono abbandonati alle mani esperte di Simon. Fu quasi triste, quando raggiunse sua madre nella sala da pranzo. Simon era sparito, col l’accappatoio e il costume attraverso una porta secondaria.
Quella zona era off-limits perfino per Simon, ha nessuno era concesso entrare in sala da pranzo. Tranne i membri della famiglia, e le due cameriere che servivano i piatti con finti sorrisi, soprattutto rivolti verso la madre di Rupert. Che faceva finta, o proprio non se ne accorgeva di quei sorrisi.
Il cuoco Bob, sembro essersi superato con quel suo tripudio di salsicce e patate. Era tutto cosi squisito per Rupert, quando si sedette il più lontano da sua madre.
L’enorme tavolo, era abbastanza lungo da contenere dodici persone. Cinque da un lato, cinque dall’altro, e due a capo tavola da una parte e dall’altra.
Sua madre prese il solito posto, alla destra del capo tavola che dava le spalle ad uno splendido camino. Che nei giorni di inverno, in quelli più freddi veniva .
Era normale per Rupert, sedersi nell’altro capo tavola. Cosi che con tutti quei candelabri in argento, messi sulla tavola. Nascondevano completamente la vista di sua madre, ed la stessa non poteva vedere egli.
Fu una cena con pochi commenti, soprattutto sua madre parlo “mi i il sale, quel Bob non sa proprio dosare il sale” Rupert, che pensava che tutto fosse giusto di sale. Si alzo, afferro da centro tavola il dosatore del sale. Fece il giro della tavola, prima di arrivare di fronte ha sua madre. Per porgergli il dosatore del sale, e attendere che la stessa con poche manciate ricoprisse le sue salsicce e patate.
Quando fini, Rupert afferro il dosatore del sale, lo rimise a centro tavola e torno al suo posto.
Per il resto non ci fu nient’altro da aggiungere, l’unico rumore presente in quella sala. Era solo il tintinnio delle forchette, e del crogiolare dell’acqua quando venivano riempiti i bicchieri.
Rupert era piuttosto abituato, a quell’aria di silenzio quando si mangiava. Anzi, le poche volte che mangio ha casa di ciascuno della sua combriccola. Li fu talmente strano, che tutti parlavano animatamente facendosi battute continue, mentre si avano piatti ripieni d’ogni cosa.
Tanto che quelle scene, li rimasero impresse nella mente. Mai s’era sentito cosi felice, in una cena o in un pranzo. Purtroppo sua madre, scopri dove andava ha cenare. Da quel giorno in poi, non gli fu più possibile mangiare fuori casa.
“quelle persone non hanno il tuo rango sociale, te ne rendi conto!” disse sua madre, rossa di rabbia.
Capitolo 3;
Nuovo giorno.
Il disco infernale si alzo, nel cielo. Decantava gaio di questa prodezza, il gallo di Sam.
Il vecchio contadino del paese e proprietario, per honorem causa. Della vecchia staccionata, tutt’attorno hai suoi campi di allevamento. Comprendevano in quanto ad ampiezza, l’intera città.
Infondo Sam, aveva abbastanza anni. Da poter essere egli stesso, il fondatore di quella città. Poteva essere veritiero che, in qualche modo, vallo ha capire il motivo. Si sia stabilito là, sulla collina fuori città. E cosa altrettanto strana, qualcuno aveva seguito il suo esempio. Decidendo di abitare la, nella valle. In sostanza questa città, poteva essere nata cosi.
La sveglia era suonata da un pezzo, quando mi destai. Avevo ato la notte in bianco. Mia madre, quando ero rientrato il giorno prima, in casa. Mi chiese di fargli vedere i libri di scuola.
Ovviamente egli sapeva cosa cercare, informata prontamente dal maestro tanto simpatico a me.
“come è possibile, che fai cosi tanti errori… guarda, quanti segni rossi che hai. E
sono quasi su tutti i fogli” rimprovero mia madre.
Come potevo sentirmi, uno schifo, inutile, depresso, con l’autostima scarsa. Sprofondai con lo sguardo a terra. Mentre altri i in corridoio, annunciarono l’arrivo di mio padre dal lavoro. Era come al solito stanco, grugni qualcosa in segno di saluto.
In quel momento non stavo sentendo niente. Continuavo a ripetermi fra me e me.
“e tutto ok, domani sarà un altro giorno..”
“cos’è questo libro, pieno di scotch?” domando mio padre, sfortunatamente aveva trovato lui, il libro incriminato. Lo teneva in alto sul tavolo, cosi che potessi ancora vederlo. Era come rivivere quella scena, ancora e ancora. La stessa umiliazione, che si ripete.
“io sgobbo tutto il giorno, cercando di dare agio a te e a tua madre. E tu che fai? Ti fai strappare il libro di storia! Con tutti i soldi che costa, ingrato”
Lacrime colarono dal mio viso, non ero riuscito a controllarmi. Nemmeno chiudendo i pugni, e concentrandomi su altro. Chinai se possibile, più lo sguardo. Le spalle ancora più giù..
“non guardare in basso..non guardare in basso, guarda me e rispondimi ingrato, che è successo al libro di storia? Chi te lo ha stracciato?” continuo su quel tono mio padre.
Non me la sentivo di rispondergli, perche sapevo, se gli avrei detto la verità. Sarebbe stato tutto più peggiore.
“rispondimi” grido mio padre, sobbalzai per lo spavento.
Tremavo senza saperne il motivo. Con gesto impaziente, lancio il libro di storia sul tavolo della cucina. Deglutì un paio di volte, aprendo la bocca per parlare. Ero cosi spaventato, per poterlo fare. Mi costrinsi a farlo comunque, se non gli avrei parlato. Mi avrebbe picchiato, di sicuro.
“e..ee..staa-stat-stato..il-il..proo-professore” risposi balbettando più che altro.
“perche che hai fatto?” domando mia madre, lei sembrava più calma di mio padre.
“sbagliato..a fare..i compiti” risposi, ignorando le lacrime che mi oscuravano la vista.
“hai sbagliato a fare i compiti” mormoro mia madre.
“certo, e chiaro. Perche tu non sai fare niente, idiota di un asino.” aggiunse mio padre, il tono d’accusa come sempre. E sempre stata colpa mia, sono io quello che è sbagliato. E cosi, lo sarà sempre.
“fila via, sparisci prima che alzi le mani su di te” aggiunse infine.
Presi la mia cartella, i miei libri. E andai a letto senza cena.
Al solo ricordo troppo fresco, altre lacrime minacciavano la mia autostima. Di ricredersi, perche tanto era cosi inutile. Quando mi alzai dal letto, decisi di vestirmi e andare a scuola, senza fare colazione. Credevo di meritarmi tutto questo, e di certo non avevo nessuno che mi avrebbe fatto capire il contrario. Uscì di casa senza salutare, e senza essere salutato.
Per strada, stavo solo attento alle macchine che avano. Per il resto, tentavo di darmi una calmata. Ci riuscì più o meno, una volta superato il ferramenta della città.
Dove altri ragazzini camminavano assonati, su quei marciapiedi diretti a scuola. Mi tenni alla larga da loro, li guardai dal mio di mondo. Li guardai solamente, prendersi a spintoni per quella via.
Sophie mi trovo poco dopo, lei mi saluto col più grande dei sorrisi in segno di saluto, mai rivoltomi. Io non la senti, stavo rimuginando ancora su ieri pomeriggio. Dovevo parlarne con Sophie?
No, meglio di no. Fargli vedere come sei realmente fragile, non farà altro che farla preoccupare per te. E questo per te, non fa bene. Un conto e sapere quanto fai schifo, e sei inutile. Un altro conto e costatarlo, negli occhi degli altri. E sempre stato cosi, importa solo quello che pensano gli altri di te. Non viceversa.
Quel baratro nero e oscuro, si avvicinava sempre di più. Ad ogni o mosso in avanti.
“che hai?” chiese Sophie, poco dopo.
E ancora non risposi, mormorai un “niente”.
“cosa?” domando ancora Sophie, alle volte il mio mormorare era incomprensibile.
“niente” risposi, alzando un’po la voce.
Ma ancora, non ero riuscito ad alzare lo sguardo verso lei. Il brontolare del mio stomaco, l’aiuto ha capire cosa succedeva.
“hai fatto colazione?” chiese Sophie, stavamo ancora camminando verso scuola.
Ancora non le risposi, guardai a terra per tutto il tempo e prosegui nel mio cammino.
“ohh sto parlando con te” disse, afferrandomi per le spalle. Spingendomi verso un muro di una casa accanto.
“ho solo saltato la colazione, sai mi sono..svegliato in ritardo” risposi, ignorando deliberatamente quei suoi occhi blu. Tentarono di incrociare i miei.
“e perche ti sei svegliato tardi, hai avuto problemi..” a quella parola sussultai, come l’aveva scoperto Sophie?.
“coi problemi di geometria” ma poi prosegui, inarcando le sopraciglia.
“no, non gli ho fatti” non riuscì a bloccarmi in tempo, prima di aprir bocca.
Ora Sophie mi guardava, in modo perplesso. Tenendomi bloccato per le spalle, su quel muro di cinta freddo. Premeva con forza, prima che li dissi di non aver fatto i compiti. Ora, praticamente ero libero dalla sua morsa.
Feci per liberarmi, e proseguire il mio cammino. Quando una spinta della stessa Sophie, in pieno petto. Mi fece cozzare al muro, mi blocco ancora.
“e…come…mai…non gli hai fatti” continuava ha tenermi inchiodato la. Su quel muro, in modo insistente. Mentre tentato di liberarmi dalla sua presa, ma soprattutto da quelle spinte forti sul mio petto. Era una scena comica se vogliamo, ad ogni parola lottai per liberarmi. Ad ogni parola, tento di tenermi fermo su quel muro.
“me ne sono dimenticato” le risposi, arrendevole alle sue spinte.
“puoi dirlo, guardandomi negli occhi. Perche non ti credo” rispose Sophie, ha differenza di mio padre. Era molto calma, e gentile nel tono.
Tentai ancora di ignorare il suo sguardo, ma non mi fu possibile. Bloccato com’ero, la mia testa non poteva storcersi del tutto dal collo.
Quei due occhi blu, catturarono i miei con semplicità. Cosi chiari, cosi gentili d’animo.
Gli raccontai, cosa mi era successo. Per tutto l’arco di tempo in cui le parlai, Sophie ascolto come rapita, prima di divenire sgomenta. Mi lascio definitivamente libero, ora era lei ha guardare a terra. Sembrava alla ricerca delle parole giuste, da dirmi.
“vieni, andiamo a fare colazione” disse poi, sospirando tristemente mi guardo ancora una volta.
Scrutava ogni centimetro del mio viso, come alla ricerca della prova che fosse tutto apposto.
Le restituì uno sguardo appena accennato, immaginavo cosa stesse pensando: “oh poverino, deve sopportare tutto questo?” o ancora “come fa”. Ed ancora la pena di Sophie, smossa per me. Mi fece capire, quanto in realtà non dovessi esistere.
La sua mano destra si poso, ancora sul mio petto con comione. Poi scese, mi
prese per una mano, e delicatamente mi guido.
Dovunque stessimo andando, non ne avevo idea. Di certo, non stavamo andando a scuola. Visto che Sophie, mi trascino in una traversa, portava da tutt’altra parte tranne a scuola.
Possibile, mi stava chiedendo di far sega? Mi chiesi fra me e me.
Era strano, essere preso per una mano, e trascinato dalla stessa senza che nessuno dei due parlasse. L’unico rumore presente, era quello dei nostri i su quel marciapiede. Lentamente, molto lentamente ci stava portando nella zona più In di quella città.
Mega ville, con dolci tendaggi di lino bianco sui finestroni. La luce filtrava da quei tendaggi, addirittura veniva riflessa sulla strada. Alcune di queste ville, avevano piscine coperte, altre avevano fenomenali fontane sul giardino davanti.
Da una di quelle ville, uscì Rupert. Lo vidi, di sfuggita chiudere un cancello in ferro battuto molto elaborato. Le sbarre erano state finemente modellate, sino ha renderle quasi opere d’arte.
Il mio sguardo andava dalla villa a Rupert, che ora veniva bloccato da un uomo dal vestito bianco e nero. Assomigliava molto ad un maggiordomo.
L’uomo li o dei libri attraverso le sbarre, potetti godermi la scena dall’altro lato della strada.
Inavvertitamente mi bloccai, facendo quasi perdere il o a Sophie. Ancora mi teneva per mano.
“che hai adesso?” chiese con aria impaziente, forse innervosita perche la stavo per facendo cadere.
La guardai come ha dirgli, che non era colpa mia. Per poi fare un cenno con la testa, dall’altra parte della strada. Dove già Rupert, sembrava impaziente di mettere fra lui e la villa. Quanti più metri possibili.
Corrugò il viso Sophie, guardando in direzione del mio cenno. Li bastarono pochi secondi, per individuare la sagoma di Rupert col suo intercedere affrettato di spalle, e già lontano.
“Rupert!” chiamo a gran voce Sophie, lasciando andare simultaneamente la mia mano per la sorpresa. Decidendo in pochi millesimi di secondo, raggiunse Rupert. Che evidentemente non aveva sentito Sophie chiamarlo. Non seppi cosa fare, sparire approfittando di quel momento, o seguire Sophie? Riflettendoci Rupert, ieri era stato cosi gentile con me. Non mi sembrava corretto, negargli un saluto.
Mi decisi ha seguire Sophie, oramai era riuscita ha farsi notare da Rupert. Che ora salutava Sophie, con una mano fra i capelli. Molto ambiguo, o forse imbarazzato. Era anche lui infondo sorpreso, della nostra presenza in quella via.
“allora, voi che ci fate da queste parti?” domando Rupert, dopo avermi salutato
con un cenno lieve del capo. Stessa cosa che feci io, di rimando.
“stavamo andando a casa mia” rispose Sophie, indugiando con lo sguardo verso di me ch‘ero alle sue spalle.
“volevate far sega?” disse Rupert, dando un’occhiata di sfuggita al suo orologio da polso.
Come a costatare, che era tardi. Da li a dieci minuti, la camla scolastica di inizio lezione sarebbe suonata.
“no, che dici” sembrava oltraggiata Sophie da quella domanda.
“non ha fatto colazione..” poi aggiunse la sua scusa, indugiando ancora verso di me.
Sguardo che evitai prontamente, facendo finta d’essere interessato alla villa di fronte a me.
“capisco” mormoro Rupert, in un tono di chi la sa lunga.
“possiamo chiedere ha Bob, lui e sempre felice di cucinare per perfetti estranei” aggiunse Rupert voltandosi verso la sua casa. Ritorno al cancello dell’enorme villa, dove poco prima era uscito.
“vi volete muovere?! O volete star li impalati per tutta la vita” sorrise in modo sardonico Rupert.
Dovette fare qualche altro o, quando Sophie mi lancio uno sguardo interrogativo. Quasi mi stesse chiedendo se ero d’accordo con lei, nel raggiungere Rupert. Era particolarmente strano che qualcuno, mi chiedesse un mio parere. Del resto stavo morendo dalla fame, non c’era altra soluzione.
Seguimmo Rupert, con cipiglio d’impazienza ci stava aspettando davanti al cancello di casa. Dopo averci rivolto un’occhiata dall’aria divertita, suono al citofono in ottone posizionato sulla colonna destra e portante del capolavoro in ferro ch’era il suo cancello.
“lasciate ogni speranza o voi che entrate” disse in modo sarcastico, non riuscendo ha trattenere le sue risate.
Dietro Rupert, Sophie mi lancio uno sguardo equivoco, scrollai ancora le spalle. Filammo oltre quel cancello, quando venne aperto. Era difficile credere, che quella fosse l’entrata dell’inferno.
Quella villa era magnifica; dalle colonne in marmo, hai soffitti alti, agli affreschi sulle pareti.
Ci dovevamo far bastare due paia di occhi, per ammirare tutto quel splendore. Sia io che Sophie, seguimmo Rupert continuandoci a guardare intorno.
Dall’ingresso sontuoso, si ava per una sala da the deliziosa, ad un’immensa sala da pranzo. Con un lungo tavolo in legno massiccio, disposto in mezzo alla sala, ed un grosso camino sulla parete infondo rivolta ad oriente. Era tutto impeccabile, perfino l’aria che si respirava in quelle stanze.
Continuammo ha seguire Rupert, ando per due porte battenti, poste sul lato sinistro del camino. Finalmente eravamo tutti e tre in cucina. Un uomo abbastanza in carne, stava pulendo il piano di cottura, fischiettando una canzone che ti metteva in buon umore.
Ammaliati ancora, ci fermammo alle spalle di Rupert, mi sentivo come fuori luogo. Non la finivo di guardarmi attorno, con aria quasi rispettosa e umile nel confronto di quella villa.
Quel locale, era il doppio della mia camera da letto. Ed era piena di oggetti in rame, di ogni forma e dimensione. Come le pentole, pendevano dal soffitto.
“ma tu abiti qui?” domando infine Sophie, anche lei si sentiva fuori luogo.
Fu a quel punto che, il cuoco si accorse dei tre ragazzini. Del quale uno lo conosceva, dietro al suo bancone in marmo.
Sulle prime era cosi sorpreso, da lasciar perdere qualunque cosa stesse facendo prima, smise perfino di fischiettare mentre scrutava noi tre del tutto curioso.
“ciao Bob, non e che hai qualche avanzo. Il mio amico sta morendo di fame” disse Rupert, indicandomi con un cenno lieve del capo.
Si, mi aveva chiamato “il mio amico” ero cosi felice, era come arrossire da dentro. Il mio cuore sussulto appena, era la prima volta che ottenevo quel tipo di riconoscimento. Cosi felice, che la fame, e i ricordi di ieri pomeriggio. Si dissolsero come gas al vento, cessarono d’esistere.
Stupefatto, e forse dovevo farci l’abitudine. Mi costrinsi a chiudermi la bocca, precedentemente lasciata aperta per tutta quella magnificenza.
Prima che Rupert si volto verso me, per sorridermi in modo gentile.
“grazie” li mormorai, avvicinandomi al piano di marmo.
“allora, la mia casa vi piace?” chiese Rupert, che al mio grazie sorrise dolcemente sfiorandomi la spalla. Come ha dire, qui non dovevo preoccuparmi di nulla. Ad infine allargo le braccia, come ha voler toccare qualsiasi cosa o oggetto in quella stanza e nelle altre.
“e magnifica” borbotto Sophie.
“già, e incredibile” dissi, quei due si voltarono verso di me. Ora ero io ha dargli le spalle.
Come se non era cosi scontato, che parlassi. Ed infondo avevano ragione.
Rupert, dopo essersi scambiato un’occhiata con Sophie, andò più in la del piano in marmo.
Afferro tre sgabelli dal tavolo, sembrava il tavolo dove mangiava la servitù. In evidente trasposizione allo sfarzo, prima colto da me e Sophie.
Mi offri uno di quei sgabelli sgangherati Rupert, fece lo stecco con Sophie. Come me si avvicino al piano di marmo. Ed infine Rupert si sedette affianco ha Sophie.
Nel mentre il cuoco, era sparito in una porta sulla sinistra, più in là di pochi metri dal piano cottura.
“vorrei proprio garantirvi che le persone, che abitano qui. Siamo magnifici e incredibili..tranne la servitù certo” aggiunse Rupert, vedendo arrivare Bob dalla dispensa, con un vassoio carico di muffin ripieni.
“la signorina vuole dell’altro?” chiese Bob, era proprio come disse Rupert.
Sembrava nulla potesse rendere felice quel cuoco, se non cucinare per estranei. Appagare cosi i loro palati, con le sue leccornie.
Sophie scosse la testa, lei era a posto cosi. Sembrava troppo curiosa per
mangiare, quei muffin ripieni. Che trovai deliziosi. La crema ti si scioglieva in bocca, riversando nelle papille gustative zucchero, da farti ostruire tutte le arterie.
Addentai quei muffin, uno dopo l’altro. Afferrandoli dal vassoio, proprio davanti a me.
“che..lavoro fanno i tuoi genitori?” chiese Sophie, sembrava essersi bloccata un attimo prima di dire “che cosa fanno i tuoi genitori?” giudicando la domanda troppo scortese.
Afferrai un altro muffin, mentre Rupert chino il capo. Assomigliava, lo notai come se mi stessi riflettendo in uno specchio- al mio modo di comportarmi, quando volevo evitare di rispondere a qualche domanda.
Bob si godeva la scena dall’alto lato di quel ripiano senza dire nulla, apparentemente curioso.
“mio padre….bhè, lui fa il banchiere…in quanto ha mia madre sta a casa” rispose Rupert, come vergognandosi di qualcosa che per il momento ci sfuggiva, sia a me e ha Sophie.
“non lo immaginavo” commento sorpresa Sophie, rivolgendo uno sguardo alla cucina attorno.
“direi che hai mangiato abbastanza” osservo poi, adocchiando il vassoio quasi
vuoto davanti a me.
Annui, mandandone giù un altro.
“perche tutta questa fretta?” chiese Rupert, comodamente seduto al suo sgabello sbilenco.
“per lo stesso motivo, per cui hai uno zaino sulle spalle” rispose pepata Sophie, indicando le fibbie attorno alle spalle di Rupert.
“oh già..dobbiamo ehm sbrigarci” rispose Rupert, notando solo allora che ore erano, in imbarazzo totale.
Filammo via da quella villa, Bob ci saluto animatamente. Forse dispiaciuto dalla nostra partenza.
Ed eravamo già per strada, stavamo ora correndo coi lacci delle fibbie degli zaini che sbatacchiavano. Notai ancora le spille, ricoprivano la parte davanti dello zaino di Rupert, alcune erano magnifiche. C’e ne era uno, con su lo stemma di una famosa squadra di calcio. Un altro dell’aviazione militare, ed un altro ancora con un “H” saettante.
Tenni il o dei due, correvamo come matti. Anche se ero sicuro, che in pura velocità potevo battergli.
“perche hai saltato la colazione?” chiese Rupert, quando ansimanti avevamo raggiunto l’edificio di mattoni rossi della scuola.
Incrociai per sbaglio lo sguardo di Sophie, era preoccupata. Velocemente, iniziai a fissarmi i piedi sul cemento stratificato del viale della scuola. Un viale costeggiato da bassi alberi, e qualche cespuglio d’erbacce.
“capisco, sei un ragazzo di poche parole” rispose Rupert, non sembrava deluso dal tono di voce.
E non disse nulla, anche quando entrammo tutti e tre in classe. E sia John, che Arthur e Frank li rivolsero occhiate d’interrogazione. Rupert, si limito ad alzare le spalle prendendo la via per il suo banco. Fortunati, lo eravamo sul serio. Perche appena ci sedemmo hai nostri posti, la maestra di geometria entro in classe.
“buongiorno ragazzi” trillo, con la voce soave. Ma che in realtà era finta, e acida.
“buongiorno maestra” rispondemmo in coro, cosi come prassi voleva.
“aprite il libro a pagina trentaquattro. Oggi facciamo i quadrati.” disse la maestra.
Era tozza nel suo completo di lana grigio, con la gonna al di sotto del ginocchio. E quell’orribile faccia da vipera, che aveva. Roba da farti venire, solo ha guardarla qualche incubo terribile.
Ci fu il solito trambusto di cerniere aperte, di libri sfogliati rapidamente, ed infine matite afferrate da astucci.
Apri il mio libro di geometria, alla pagina dettatami dalla maestra. E mentre la testa tentava di concentrarsi. La fantasia proruppe in me, col suo scintillio intenso. Irruppe prepotentemente nei miei pensieri rivolti verso le complicate espressioni, mi soggiogava. Ed io ero cosi felice di lasciarglielo fare.
Fu quella spilla aeronautica, sullo zaino di Rupert ad ispirarmi. Proprio mi perdevo in un bicchier d’acqua.
Ed eccomi improvvisamente, su un aereo Lockheed L-10 Electra. A guidare c’e una donna di nome; Amelia.
Nuvole alte, coprivano con la loro foschia le ali affusolate in argento vivo, come tutta la carcassa. Stavamo sfrecciando nel cielo con sostenuta velocità. Alti torrioni bianchi, s’aprirono davanti a noi. Al di là del parabrezza, la foschia si dirado.
Dal parabrezza vedevo nuvole, qua e là uno sprazzo d’azzurro. Le due eliche poste sulle due ali, cosi veloci da non distinguerne quasi la forma, nemmeno da quante pale erano formate…due o quattro? Mi domandai.
“ora si balla un’po” disse Amelia, aveva i capelli di un rosso vivo. Portava sulla nuca un paio di occhiali da pilota in pelle, di quelli con le lenti tonde. Aveva perfino una sciarpa marroncina al collo.
Ed era vero, il vento cambio improvvisamente. Sali dal basso, una forte turbolenza colpi l’aereo, che inizio a traballare. Beccheggio appena Amelia, riuscendo ad uscire con leggiadria di un uccello dalla turbolenza…era fantastico, la libertà che provai nel volo, non era pari a nulla. Il rumore assordante del motore, il vento che fischiava fuori dall’abitacolo, sotto di noi, davanti a noi, sopra di noi, a sinistra e a destra. Eravamo circondati da aria, stupefacente e senza odore, aria…mi sporsi ancora dal parabrezza, scorsi la specie di naso tondo sulla parte davanti dell’aereo. Solo allora notai, sotto di noi; L’Oceano. Una distesa infinita di azzurro chiaro. Piccole increspature, si formavano sulla superficie…proseguimmo nella nostra impresa, anche se. Io ero, solo lo spettatore cosciente di quella magnificenza del volo. Rivolsi il mio sguardo, alla persona alla mia sinistra. Amelia mi stava fissando, bisbigliando il mio nome… le sorrisi…lei mi sorrise… la infondo si vedeva il Portogallo, una striscia di terra esamine, in confronto alla pienezza dell’Oceano……..
“Scott” bisbiglio ancora il mio nome Amelia, no…decisamente Amelia non era bionda e non aveva due paia di occhi azzurri…tornai bruscamente sul pianeta terra.
Sophie, si sporse dal suo banco, quasi da cadere dalla sua sedia.
La guardai allibito, aveva interrotto quella bella avventura. Perche poi? Quale diritto aveva?
Ma poi impercettibilmente, i suoi occhi si mossero in direzione della cattedra. Segui i suoi occhi, la maestra era in piedi davanti alla lavagna. Mi guardava con cipiglio curioso. E c’era d’averne paura.
“si?” chiesi, con fare innocente.
“quanto fa quattro per sei?” abbaio la maestra, un certo sorriso maligno le animava il volto.
Mi trovai in un bel guaio, ovviamente le tabelline non erano il mio forte. Sotto il banco, iniziai ha contare con le dita. O almeno ci provai.
Quattro per uno…quattro. Quattro per due…non ho tutto questo tempo…rinizia quattro per uno..quattro..
“deludente, non sai nemmeno le tabelline. Le abbiamo studiate l’anno scorso.” disse la maestra, sorridendomi ancora malignamente da dietro la cattedra.
Gli occhi di tutti erano puntati su di me, accusai il colpo e andai nel pallone.
Quanto fa quattro per uno? Me ne ero completamente dimenticato.
“hai addirittura bisogno di contare con le dita” scherni la maestra, notando le mie dita sotto il banco, che flebili si agitavano. Era la mia più vergogna, era la cosa che credevo fosse più umiliante in me.
“maestra scusi, ma stiamo facendo Geometria adesso.” intervenne Sophie, alzando prontamente la mano prima di parlare.
“e allora?” rispose la maestra, come se niente fosse.
E fra parentesi, non amava mai essere interrotta. Tormentarmi era il suo gioco preferito.
“lascia perdere” le mormorai, in modo che solo lei poteva sentirmi.
Allora Sophie mi guardo arrabbiata, sbruffo dopo aver abbassato le spalle. Per un attimo fu combattuta, per fortuna lascio perdere quasi subito.
“bene” disse soddisfatta la maestra, ha lei piaceva cosi.
Il perfetto silenzio, e nessuno che la interrompesse.
Rivolse ancora lo sguardo verso me, ero concentrato solo sul compensato del mio banco.
“vada fuori, Scott” aggiunse, ritornando seduta dietro la sua cattedra.
Senza dire nulla ai affianco hai banchi dei miei compagni. Non rivolgendoli il benché minimo sguardo. Sentivo comunque, in sottofondo alcune risate divertite mentre uscì dalla classe. Una volta fuori, mi poggiai allo stipite della porta.
Sophie stava facendo di tutto per farsi notare da me, dalla visuale che avevo da quella porta, vedevo solo uno spicchio della classe. Mi sorrise con fare confortante, quando riuscì ad attirare la mia attenzione.
Tale movimento, venne notato dalla maestra. Che si rialzo, nella sua figura tozza, per venire ha chiudere la porta dell’aula. Mi rivolse un’occhiata disgustata, prima di sparire dietro la porta.
Ed io, ero solo. Non c’era più la sensazione di libertà nel volo. Niente Amelia e il suo aereo. Non c’era più niente cielo, niente bianco delle nuvole, niente azzurro dell’oceano; niente.
Volsi le spalle alla porta chiusa, da dentro si sentiva la maestra spiegare un nuovo argomento. La geometria, ed ero sicuro che l’indomani mi avrebbe interrogato su quel argomento. Ben sapendo, di non aver assistito alla spiegazione.
Mi misi le mani nei capelli, mio padre non avrebbe accettato un altro voto negativo. Iniziavo, stranamente a fregarmene di queste umiliazioni, tanto erano il mio pane quotidiano. Ora ero tremendamente spaventato, dalle botte che avrei preso.
“tesoro, ti hanno sbattuto ancora fuori” la bidella si avvicino cauta, dietro il suo carrello in plastica delle pulizie.
Mi ritrassi come spaventato, inibito da questa paura. Quando smosse un braccio
verso me.
“tranquillo..tranquillo, non ti faccio niente” disse, ritraendosi d’istinto.
Ero cosi stretto verso lo stipite, rannicchiato come se quello potesse nascondermi definitivamente dal mondo. Anche dalla bidella, che non disse nulla, prese una grossa scopa e inizio ha pulire parte di quella sala dove di solito. Quando fuori pioveva, si ava l’intervallo.
Stetti in piedi, appoggiato su quello stipite. Mentre la bidella continuava ha pulire, di tanto in tanto mi rivolse qualche occhiata triste.
Per tre ore fin al suono della camla, di inizio intervallo. A quel punto, ero già sparito dallo stipite. Mi ero mosso due minuti prima, dal fatidico suono.
Ogni tanto li studenti più grandi di me, mi diedero spallate di proposito al mio aggio fra loro. Mi stavo nascondendo da Rupert e la sua combriccola. Ma soprattutto da Sophie, i suoi occhi avrebbero cercato i miei, pieni di pena per me. Che razza di amico potevo essere? Uno che non sa le tabelline a memoria. Uno che sta per tre ore di fila, fuori dall’aula, come uno scemo deficiente. No, non meritavo amici. Era la verità, cruda e dura. Dovevo stare da solo, almeno questo poteva assicurarmi che non avrei fatto provare imbarazzo ha nessuno. Ne delusione, ecc..
Mi trovai non so come sul tetto della scuola, ero seduto al sole a gambe incrociate. Avevo occhi solo per il cielo, quel cielo stupendo, mi aveva fatto provare qualcosa che niente era stato in grado di farmi provare sulla pelle.
L’azzurro pastello, era pressoché vuoto da nuvole candide. Qualche macchia scura, segnalava la presenza di un uccello lassù, dove prima ero con Amelia.
Sospirai, quando un lieve dolore saliva dallo sterno, per fermarsi al cuore. Ero cosi stupido…
C’e l’avevo con me stesso, iniziai a colpirmi con delle manate la fronte. Ripetendomi “sei stupido!”
Uno stormo di uccelli, prese il volo poco lontano da quel tetto. Cinguettando in modo fantastico, volavano verso il cielo in linea retta. Quel canto, mi fece smettere di farmi del male. E meno male che lo feci, perche dal nulla apparve Rupert. Anche lui guardo lo stormo compatto, volar via.
“stupende” mormoro Rupert, solo allora lo notai.
Era in piedi, col naso all’insù. Guardo quello stormo per pochi secondi, prima di ripiegare lo sguardo verso me.
Mi sorprese la totale assenza della pena per me, nei suoi occhi.
“sono..”
“allodole” fui più veloce di Rupert, a completare la frase.
Ma quando egli mi guardo, inarcando le sopraciglia. Guardai istintivamente le punte delle mie scarpe, vergognandomi.
Se solo quelle Allodole non si sarebbero alzate in volo, Rupert mi avrebbe visto darmi degli schiaffi sulla fronte. E allora, finalmente Rupert avrebbe pensato quanto fossi stupido. Di sicuro ciò mi avrebbe reso indegno, o mi avrebbe preso in giro.
Ma ancora, mi fissava col suo cipiglio indecifrabile.
“il…bosco dietro casa ne è pieno” dissi.
“sai forse, non sei cosi stupido come credi” rispose Rupert, sorridendomi appena.
Avanzo verso di me, per sedersi affianco su quel tetto. Guardammo in silenzio le Allodole, volare a largo. Come fanno le navi, quando salpano dal porto. C’e sempre quest’aria di tenerezza infinita, ma infondo, infondo c’e sempre una piccola nota di tristezza.
“certo sarebbe bello volare” mormoro sognante Rupert.
Alzai lo sguardo a malapena, verso di lui. Solo per scoprire, quanto quel
desiderio fosse forte in lui, e si rifletteva nei suoi occhi, facendoli brillare come diamanti lavorati.
“puoi farlo” dissi, deciso.
“che?” domando Rupert, riprendendosi da quel sogno ad occhi aperti.
Ci guardammo negli occhi, per un attimo. Prima che abbassasi i miei e aggiunsi.
“puoi farlo se lo vuoi, puoi andare all’aeronautico. O se è troppo distante per te, appena fuori città c’e un piccolo eliporto, la fanno corsi privati” risposi, ero cosi informato semplicemente perche era anche il mio sogno; irrealizzabile.
Ancora una volta Rupert, mi guardo con espressione indecifrabile. Poi con voce sommessa disse:
“ti sei informato proprio bene”
Colsi al volo, ciò che intendeva dire. E nel farlo arrossì.
“sai i tornado sono i miei preferiti, sono veloci, e all’inizio forse da quel che mi ricordo. Sono stati i primi col motore supersonico.” prosegui Rupert, non notando il mio rossore.
“intendi quelli della Luftwabel?” domandai, senza accorgermi di quello che stavo dicendo.
Ovviamente Rupert, aveva scoperto cosi facilmente ciò che mi faceva parlare in libertà.
“scherzi, un aereo nazista?..non direi mai che erano belli, nemmeno se alla guida c’era una scimmia” rise della sua battuta Rupert.
“hai ragione tu, meglio quelli della URSS” confermai, i nazisti non mi sono mai piaciuti.
“o quelli al servizio di sua maestà, erano ottimi. La maggior parte, montavano un motore Roce Royal” prosegui Rupert animatamente.
Ci guardammo sereni, forse non meritavo amici cosi. Ma non gli ho mai avuti, di cosi ottimi.
Stavamo ridendo, di una certa battuta. Quando Sophie ci trovo, su quel tetto. Notandola Rupert smise subito di ridere, come chi e stato beccato in fragrante. Sophie, sorprendentemente non commento quella scena evidente. Si limito a sedersi con noi.
“di cosa ridevate?” chiese comunque poi, infondo-infondo era curiosa anche lei.
Ci rivolse addirittura occhiate curiose, quando sia io che Rupert ci lanciammo sguardi a non finire.
“di aerei” risposi, ancora altre occhiate lanciate verso me da entrambi.
Inarco le sopraciglia Sophie, rivolgendole a Rupert, lo stesso proseguì:
“ha ragione, ridevamo di una stupida battuta”
“una stupida battuta?” fece eco Sophie.
“si…riguardava un Lockheed T-10..” non riuscì a completare la frase, trattenendo un accesso di risate, tappandomi la bocca con le mani.
Sembro non capire Sophie, guardava entrambi come ha chiederci d’essere più esaustivi.
“un aereo da turismo, molto bello nella forma. Ma non agile, per la sua stazza” rispose per me Rupert.
“e quindi..” prosegui “lo paragonato alla maestra di matematica e geometria” confesso Rupert, arrossì un poco.
Solo io potevo sapere la verità, Rupert non aveva solo paragonato l’aereo alla maestra. Rupert aveva detto cose, assai peggiori.
Nell’istante in cui Sophie, fu interessata verso altro. Io e Rupert ci guardammo, notai impercettibilmente che mi fece l’occhiolino. Complice con lui, non aggiunsi altro.
Sussultammo quando Sophie, improvvisamente si mise ha ridere.
“in effetti un’po tonda è” disse, più ha se stessa che a noi.
Scrollai le spalle, ad un Rupert che fisso prima Sophie e poi me, in modo allibito.
Ridemmo appena, cosi da essergli solidali. La stessa poi, mi rivolse un sorriso cosi dolce e felice da farmi istintivamente arrossire. Sapevo perche mi sorrideva a quel modo. Mi fece un’po vergognare.
“vedi, prima era normale. Arrivi tu e li ridi in modo ebete”sdrammatizzo Rupert loquace.
“se io sono ebete, tu sei un babbuino” rispose a tono Sophie.
Ci fu un attimo di silenzio, nel quale tutti ci guardammo in modo serio. Fu Rupert, a battere la mano per terra. Imitando proprio il verso di un babbuino.
Ridemmo incontrollatamente, perfino Rupert non se l’era presa. Anzi, era riuscito ha riderci sopra perfino.
Quanto vorrei essere cosi. Fui l’unico ha non proseguire la risata, non come Sophie che sol viso fra le mani minacciava di non finirla più. Scuoteva la testa, sorridendo incontrollatamente.
“meglio che vada, dal mio branco..huuuaaahaa” fece ancora quel verso Rupert, li riusciva benissimo.
Si alzo da terra, rivolse un sorriso ad entrambi, prima di scendere per le scale e sparire nei corridoi della scuola.
“simpatico” commento Sophie, sembrava sorpresa.
Forse Sophie, si aspettava che li dessi ragione. Ma non lo feci. Pensavo a come sdrammatizzare ogni situazione dove potrei invece piangere.
Ero cosi concentrato, da non accorgermi che con la schiena stavo dondolando avanti e indietro. Ora Sophie mi guardava, piegando la testa di lato.
“forse la mia felicità per te, ti spaventa” disse Sophie, risoluta.
“non è questo” mi affrettai a rispondergli.
“e allora cos’è?” domando Sophie, concentrandosi solo sul mio volto.
Chinai il capo, combattuto se dirgli la verità o meno. Poi, stranamente un qualcosa dentro me. Si desto, facendomi alzare lo sguardo verso Sophie.
La trovai là, seduta a gambe incrociate, proprio davanti a me. Con quei suoi occhi azzurro pastello chiaro, attendevano pazienti la mia risposta.
“quando ti guardo..” le parlai guardandola negli occhi, mi sorprese il fatto che Sophie non distolse lo sguardo. Ma che anzi, mi guardava senza battere ciglio.
“e noto quanta pena provi per me..ecco, io..”
“ti senti inutile?” chiese dolcemente Sophie.
Indugiai sui suoi occhi, erano lucidi. Abbassai il capo, annuendo sconfitto. La sua reazione mi sorprese.
In un attimo, due braccia mi stringevano il collo. Una marea di capelli biondi, mi invadeva la bocca, coi suoi profumi cosi delicati. Sophie mi stava abbracciando, sporgendosi verso di me rimanendo in ginocchio.
“sei il ragazzo più coraggioso che conosca, affronti tutto senza battere
ciglio….no, tu non sei inutile. Rupert non ti vorrebbe bene, e con lui anche gli altri, ne io te ne vorrei” disse Sophie.
Iniziai a piangere, tutto quell’affetto mi sopraffò. Mai nessuno, mi aveva abbracciato e poi consolato a quel modo.
Quando l’abbraccio si sciolse, ci auto controllammo entrambi. Asciugandosi le nostre rispettive lacrime.
“sei…io non ho mai avuto amici. Non ho una base per giudicarvi. Posso dire che sei la migliore amica che abbia mai avuto” le confessai.
Altre lacrime scivolarono, dalle guancie di Sophie.
“oh, sei troppo gentile” rispose, asciugandosi le stesse lacrime coi polsi delle mani.
Mi sorrise Sophie, con fare confortante. Forse, in quel momento era lei ad aver bisogno di conforto.
“ti va di scendere ora, e andare dagli altri” proposi, basto questo per confrontarla.
Ci alzammo entrambi, seguendo la scia tracciataci da Rupert per quei corridoi. Aspettavano tutti su quelle panchine.
John se ne stava sdraiato a terra, con la schiena rivolta all’erba soffice. In un modo di pacata noiosità, chiuse gli occhi appena i raggi del sole, li colpirono il viso.
Frank, giocava distrattamente con qualche stelo d’erba seduto su di una panchina. Li affianco c’era Rupert. Il solito energico Arthur saltellava attorno ha tutti. C’era una strana poesia, nella loro coesione. Era più essere amici, era un qualcosa di magico. Qualcosa di assoluto, che alla fine li completava. Un legame se vogliamo, fatto di fiducia e amore.
Perche era chiaro che i quattro si volevano bene, anche nell’ignorare le continue esclamazione di Arthur, o il suo modo di ronzargli attorno. Alle volte, ti dava del nervoso.
“ragazzi pensate, che come progetto estivo. In quel bosco..si bhè, possiamo costruirci una casa sull’albero. Ne ho sempre desiderata una.” colsi da lontano la voce di Arthur, squillante la si sentiva anche da qualche metro di distanza. Io e Sophie, eravamo ancora a qualche metro di distanza da lui e i suoi amici.
“si, certo. Magari la vuoi far saltare in aria?” si desto John dal suo ozio sacro, in modo sarcastico.
“perche no?!” sfumatura scherzosa della voce di John, non colta da Arthur.
“dio Arthur, stava scherzando!” intervenne Frank, lasciando perdere gli steli d’erba e i suoi complicati intrecci.
“e poi non credo che lui, voglia casino nel suo bosco” e con questo Frank, rivolse un cenno verso la mia direzione.
Arthur che solo adesso mi noto, fu piuttosto amareggiato nel fissarmi. La possibilità di avere un rifugio, tutto per se. Non era solamente, un mio desiderio.
“non è il mio bosco, comunque” dissi, rivolgendomi al solo Frank.
“bhè e un tuo diritto, visto che ci i dentro cosi tanto tempo” fece con fare ovvio John alzandosi da terra, con grosse manate si pulì i jeans sporchi.
Feci per dirgli il contrario, in quel bosco non ci avo che poche ore al giorno. Quando in realtà, stavo per mentirgli. Visto la maggior parte della mia infanzia, si era svolta dentro quel bosco. Quando Rupert, fino a quel momento molto pensieroso. Alzo la mano per aria.
“la questione non è se, il bosco sia di sua proprietà o meno. Il punto è, cosa possiamo farci la dentro?” domando all’intero gruppo, coinvolgendo cosi nella domanda anche me e Sophie.
“intendi come divertirsi?” domando Frank.
Rupert in tutta risposta annui.
“direi che per il momento possiamo esplorarlo tutto, e poi possiamo decidere” rispose affabile Sophie, prendendo posto nella panchina dov’era seduto Rupert. Storse il naso John, quando Sophie le o accanto diretta alle panchine.
“sei dei nostri, quindi” disse Frank, forse l’unico sorpreso della presenza di una femmina nel gruppo.
“perche no, non posso?” domando bruscamente Sophie, facendo intendere che con lei c’era poco da scherzare. Soprattutto quando incrocia le braccia, sul punto d’arrabbiarsi veramente.
“certo che puoi” disse Arthur buonista.
Il suo buonismo venne ringraziato da un sorriso di gratitudine della stessa Sophie. Che poi prosegui:
“e poi ci servirà una persona che sia capace di disegnare una mappa”
“intendi con tutti i sentieri, tutti i luoghi?” domando Frank, l’idea dal tono della voce. Li piacque molto.
“cosi possiamo orientarci, figo” disse John, l’idea piacque non solo a Frank.
“come la mappa del malandrino” aggiunse soave Arthur.
“oh, si certo Arthur. Dobbiamo aver paura di Colui-Che-Non-Deve-EssereNominato.” rispose John, facendo gesti lugubri con le mani.
In un attimo l’intero gruppo fu scosso da risate divertite. Persino Sophie ne fu divertita da quella scena.
Io me ne stavo in un cantuccio, senza saper se ridere o meno. Anche perche, effettivamente non sapevo di cosa dover ridere. Ignoravo l’esistenza di una mappa, e di un certo Colui-Che- eccetera eccetera.
La mia ignoranza sembro, essere letta chiaramente da Rupert.
“immagino che tu non hai mai letto Harry Potter” disse, con fare intuitivo.
Dissenti con la testa, li guardai uno ad uno. Ed erano totalmente sconvolti. Possibile, fosse cosi famoso, e nelle riviste scandalistiche di mia madre non venisse mai accennato il suo nome.
“non hai letto, nessuno dei suoi libri?” domando Frank, gli occhi sgranati a pesce palla.
Come quando non si vuol credere ha ciò che si sta sentendo.
Dissenti ancora “leggo poco” mormorai.
“a questo ci possiamo pensare dopo” intervenne Rupert, notando il mio disagio. Davanti a me tre persone sconvolte, due che infondo se lo aspettavano.
Non ricevevo regali, ne a Natale, ne al compleanno. Semplicemente perche, i miei genitori credevano non gli meritassi.
“già…non sapevo, che fossi brava nel disegno” disse Frank, il più scosso dei tre.
Arthur e John, avevano capito il perche dell’intervento di Rupert.
“me la cavo, mamma è una pittrice. Mi ha insegnato, tutto quello che sa” rispose Sophie.
“forse e meglio non dirlo a tua madre, eh Rupert?” altre risate di quei tre, riempirono l’aria. Fu la seconda volta che vidi Rupert arrossire.
Stavolta era peggio, le punte delle orecchie erano stranamente più rosse delle guancie.
“perche?” chiese curiosa Sophie.
“e da anni, che sua madre li chiede di riempire la sua camera di Putti e Angioletti” scoppio in altre risate Arthur, seguito a ruota dagli altri due.
“oh ma piantatela un’po, tutti e tre” rispose Rupert, notammo solo io e Sophie che sotto-sotto stava ridendo anche lui.
I tre si rotolarono per terra, ridendo da pazzi. Fu a quel punto che Sophie, mi rivolse un’occhiata piuttosto allarmata. Scrollai le spalle, per me quei quattro erano a posto, dei perfetti amici.
Forse stava arrivando un nuovo giorno per la mia esistenza. Dove finalmente potevo essere felice. E non potei fare a meno di crederlo, quando sia io che Sophie guardandoci negli occhi, iniziammo a ridere sereni.
Capitolo 4;
Il bosco, una avventura?
Era incredibile, stavo proprio progettando un’avventura con la combriccola di Rupert, più Sophie.
Giorni addietro, non ci avrei creduto. Sarei stato scettico, per tutto il tempo nel quale ci stavamo organizzando sul da farsi.
Il nostro progetto, era in anzitutto esplorale il bosco. Fare una mappa dettagliata, e cercare dei posti-rifugio dove potersi nascondere con sicurezza, e senza la presenza di adulti. E, a quell’età è un bene primario.
“ci vediamo tutti, sul limitare del bosco, vicino alla curva appena fuori città.” m’informo Sophie, muovendo solo gli angoli della bocca.
Cenni d’approvazione mi arrivarono dall’altro lato della classe. Il più eccitato, come sempre era Arthur. Il maestro, non si accorse fortunatamente di nulla. Chissà cosa mi avrebbe fatto, se non fossi stato (o per lo meno facendo finta) attento alla sua lezione. Annui ha Sophie, la stessa in risposta mi lancio un sorriso speranzoso.
Avevo la testa piena di troppi pensieri, cosa gli avrei fatto vedere in quel bosco? Perche era chiaro, che i cinque si aspettavano un qualcosa di straordinario. Solo
che, bhè diciamoci la verità. Quel bosco, era solo un bosco. Non nascondeva nulla al suo interno. Solo alberi, qualche raro cespuglio di more selvatiche, e rami secchi.
Fortunatamente i miei pensieri, rubarono via gran parte della giornata scolastica. Cosi che ora, mi trovai senza sapere il come. Al fatidico suono della camla, di fine lezioni per oggi. Con Sophie che mi spingeva ad alzarmi dal banco, frettolosamente.
“tu pensi troppo, te lo hanno mai detto?” disse in tono sarcastico, mentre con una mano mi aiutava ad infilarmi lo zaino sulle spalle.
Grugnì qualcosa, al momento ero concentrato sui posti che per me, in quel bosco, erano belli.
Sorprendentemente, l’unico posto era il ramo dove mi appollaiavo di solito. Da lassù si poteva scorgere l’intera città hai tuoi piedi, e non era male come posto. Anche se, quel ramo non era abbastanza robusto da poterci reggere tutti e sei… anche se; ahia!.
Sophie mi aveva pizzicato bene il braccio, scoperto dalle maniche corte della mia leggendaria t-shirt che portavo sempre.
“scusa, ti eri incantato” prontamente trovo una scusa Sophie, affrettandosi ha raggiungere gli altri studenti. Verso il meritato, pomeriggio libero.
Cosi di sfuggita, la sua lunga chioma bionda, le arrivava sin sotto le scapole, varcare la porta della classe. Inspirai a fondo, segui Sophie fuori dall’aula. Già lontana, probabilmente aveva già guadagnato l’uscita.
Deciso di non essere in ritardo, al nostro appuntamento a cinque. Con un balzo, superai quei corridoi, con un altro ancora più lungo, il viale cementificato dell’ingresso scolastico. Ed ancora uno, di prodigiosa goffaggine, superai finalmente la fermata dei pullman, proprio davanti scuola.
Ero per strada, la lunga linea di mezz’aria tratteggiata proseguiva per chilometri, prima di perdersi nell’orizzonte dove una mano umana non poteva disegnarla a quel modo. La segui distratto dal marciapiede, per nulla disturbato dalla cosciente solitudine. A parte la mia ombra, obliqua verso la strada.
Ero totalmente abituato, a starmene coi miei pensieri. Alle volte perfino parlavo fra me e me, ad alta voce. Era importante quella vicinanza, perche sapevo chiaramente. L’unica persona, che mi volesse realmente bene; ero io.
L’ombra e il suo proprietario, s’affaccendavano a lasciarsi alle spalle la città, e tutti i quartieri residenziali. Simili hai complessi di case, dove abitava Rupert. Sul davanti distese verdeggianti e rigogliose di prati ben curati, e il sogno di quella dolce avventura. Stava per iniziare.
Eccolo li, il bosco un mare di chiome verdi. Qualche folto stormo di uccelli, appollaiato sui suoi rami. Quel mare, non era omogeneo. Sapevo benissimo che qui e là, c’erano brevi radure. Una di queste comprendeva un manto di fiori di lavanda. Quel luogo era difficile da trovare.
Benché l’avevo visto solo una volta, ogni tanto mi prodigavo nella sua ricerca. Ottenendo quasi spesso, scarsi risultati.
Era stato solo un colpo di fortuna, scoprire quel luogo. Camminavo per quel bosco, non guardando dove stessi andando. Era buio, la notte era già calata col suo mantello scuro. Sapevo solo che mi ero spinto, troppo in là, troppo nell’entroterra del bosco. E non mi disperai, forse era meglio cosi. Non riuscire ha trovar la strada di casa, perdersi fra quei alberi.
Anche volendo, nessuno mi avrebbe aperto la porta di casa.
Fu un’altra delle tante punizioni fantasiose di mio padre, avevo rimediato un pessimo voto un’altra volta. Mi prese per la collottola della t-shirt, e mi sbatté fuori casa. Mi ricordo solo le sue parole, che mi grido da dietro la porta.
“vediamo se cosi la capisci” dopo il nulla, il Blackout completo.
So solo che mi ritrovai a camminare in quel bosco, al chiaror di luna.
Era un incubo, avevo cosi terrore che iniziai a singhiozzare. Camminai per tutta la notte, o poco più..
Quando all’alba, mi fermai sul limitare di una radura. Li affianco sull’apertura dove ero appena sbucato, c’era un albero dal tronco stranamente contorto.
Fu li che stanco, e cosi sentori della fame, mi attanagliavano le viscere. Mi addormentai.
E fu proprio in quel luogo, che mi trovo un cacciatore, portava un fucile da caccia a tracolla. Le munizioni spuntavano dalla cintura.
“che ci fa un ragazzino come te, in questo bosco?” fu la sua domanda, ed era molto pallido, come un cencio.
Probabilmente il poverino, in un primo momento mi aveva dato per morto. Mi svegliai di soprassalto, nel tentativo di alzarmi velocemente. Mi auto colpì il mento, con le ginocchia. Avevo ato tutta la mattinata rannicchiato, con la schiena contro l’albero contorto.
Fu allora che notai, quel leggero manto erboso colorato di viola. Cespugli di lavanda, crescevano qui e là. Donando colore a quel luogo, alberi e salici piangenti proteggevano quel luogo da occhi che ne potevano deturparne la bellezza.
“tutto ok?” domando ancora l’uomo sfiorandomi la spalla.
Sussultai spaventato, ero cosi concentrato su quella radura, da non essermi accorto di quell’uomo. La mia concentrazione nasceva da un semplice fatto, il voler ricordare in ogni singolo dettaglio, di quella bellezza.
“ti sei perso?” domando l’uomo imperterrito, per mia fortuna fu cosi gentile da
riaccompagnarmi verso il sentiero giusto, che portava verso casa. Ora che ci penso, non ricordo nemmeno il suo volto. Ricordo solo la radura, e quanto quel bosco di sera è sinistro.
Ogni tanto quel bosco sinistro, faceva parte dei miei incubi peggiori. Rabbrividì al solo pensiero, quando oramai ero vicino a casa.
Con mio grande sollievo, notai che in casa non c’era nessuno. Feci saltellando le scale, fin alla mia camera dove lanciai lo zaino per terra.
Pochi secondi dopo ero ancora fuori casa, chiusi la porta alle mie spalle. Ricordandomi di chiuderla a chiave, col mazzo di chiavi che portavo sempre con me. Perche non era detto che i miei mi aspettassero a casa, ogni pomeriggio dopo scuola. Potevano sparire anche per un intero giorno, di solito andavano ha visitare Zia Maria. Una vecchia Zia, mai conosciuta.
Libero e senza il peso dello zaino di scuola, andai dritto di filato nel bosco. I primi alberi, facevano parte del limitare del giardino incolto di casa mia.
Zig-zagare fra quei alberi era divertente, soprattutto se ti mettevi ha correre a perdifiato.
Piccolo piacere, duro poco, visto che dovevo tornare sui miei i, almeno da poter scorgere la strada.
S’intravedeva fra i tronchi di quei alberi, macchine sfrecciavano ballonzolando,
li affianco al guardrail. Eccola li, finalmente la curva, dove ci dovevamo incontrare.
Non era cambiata di molto, dall’ultima volta che Sophie da quel punto mi seguì. Non notai altri particolari interessanti, solo qualche pigna caduta da quei pini. E in quel bosco, si mescolavano ad altre specie di alberi in modo sorprendente.
Uno di questi aveva dei rami bassi, dove poter facilmente issarsi su. Rivolsi uno sguardo alla strada, probabilmente erano in ritardo, pensai.
Tornai ha guardare quei rami, che salivano su e ancora più su. Costituendo per me, una forte tentazione.
Al quale non seppi, dire di no. Un ultimo sguardo verso la strada, che già mi stavo issando rapidamente su quei rami. Scavalcavo rami, con rapidità sorprendente.
Ben presto mi fu visibile, la città distendersi sullo sfondo, la lunga strada come un unico fiume portava a casa mia, per proseguire oltre e disperdersi nel mare. Da quell’altezza mi furono visibili, cinque chiome. Due bionde, e tre castane scure. Avanzare per quella strada, chiacchierando per poi ridere sereni.
Quanto sarebbe stato bello, essere là con loro. A camminare spalla contro spalla, a ridere, e a parlare sereni.
Quando invece io ero da solo, e distante da loro. Piegai il capo sconfortato,
appoggiandomi saldamente con le mani al tronco nodoso e scivoloso per via della resina che lo impregnava di quel pino.
La voce di Frank, irruppe dal basso verso l’alto.
“siamo in anticipo?” domando, guardandosi l’orologio al polso.
Ero come rimasto paralizzato, aggrappato su quel tronco. A pochi metri dal gruppo.
Arthur inizio ha fischiettare allegramente, guardandosi in giro. John annoiato, si stiracchiava la schiena beatamente. Rupert e Sophie, si guardavano attorno. Pazienti, sperando di vedermi riemergere da uno di quei tronchi.
Non mi accorsi che Sophie, ha differenza di Rupert e gli altri. Non si guardava intorno, bensì guardava in alto su quei rami. Dove sapeva di trovarmi.
Le sorrisi scioccamente, quando inevitabilmente mi individuo proprio sopra di loro. Con una leggera spallata, Sophie segnalo la mia presenza a Rupert. Che mi guardo come gli altri, scendere da quel punto d’osservazione ottimo.
Quando mi lasciai, cadere a terra dall’ultimo e basso ramo. John esclamo:
“non pensavo, fossi cosi agile” fischio addirittura, come ha voler sottolineare quanto fosse stupefatto.
Lo guardai visibilmente imbarazzato, per quel commento.
“ha ragione” s’aggiunse Arthur, solo allora notai una scatolina di plastica fra le sue mani.
Un’antenna spuntava dal capo in alto, l’intera scatolina era colorata a mo’ di verde militare.
“ah..vedo che non ti sfugge niente, sono Walkie tokay” interpreto il mio sguardo curioso Frank.
“lo ho sgraffignate ha mio fratello…hanno un’ottima copertura.” aggiunse Arthur, tirando fuori altre radioline da un sacchetto di plastica. Le divise fra tutti i presenti.
“fighe” commento John, rigirandosi la radiolina e scrutandola da palmo a palmo.
“allora, il piano e questo. Qui sorgerà il campo base, almeno finche non troveremo un posto migliore. Direi quindi, di sparpagliarci e provare ha cercare un ottimo posto per il nostro rifugio..a voi che ve ne pare come piano?”
Eravamo tutti d’accordo con Rupert.
“se troviamo qualcosa d’interessante, usiamo le radioline” propose Sophie, era un’ottima proposta. Pensai, anche perche se no ha che servivano?. Ebbi un forte interesse per quella radiolina, che ora era nelle mie mani.
“poi potremmo, inventarci un segnale d’emergenza” spiego Arthur, con i suoi occhietti acquosi guardo l’intera combriccola.
“che ne dite del Marchio Nero, se qualcuno e in pericolo, basta che grida Marchio Nero.” disse Frank, l’idea del segnale di pericolo li piacque fin da subito.
“e perfetto..il Marchio Nero” mormoro fra se e se John.
Ad Arthur l’idea piaceva, fu per questo che saltello in giro come un cagnolino felice. Sophie e Rupert, si scambiarono una breve occhiata, per poi rivolgerla ha me.
Non erano gli unici ha guardarmi, ora Arthur e Frank mi guardarono con cipiglio curioso, Frank come se non si aspettasse altro che la mia approvazione.
“va bene, il Marchio Nero.” dissi.
“aah è fatta, sei dei nostri. Cioè..anche tu Sophie” fu entusiasta Arthur, accogliendoci definitivamente in quel gruppo, sorrise scioccamente, l’apparecchio brillo d’argento sopra i suoi denti.
“assolutamente si” disse Frank, sorridendo di gioia sia a me che ha Sophie.
“quindi ora tu, Scott. Mi insegnerai ad arrampicarmi sugli alberi” si avvicino John, per prendermi dalle spalle e stringendomele in modo amichevole.
Per quanto bizzarra fosse quella richiesta, non me la senti di rifiutare.
“d’accordo” mormorai.
“credo che adesso, non ci sia più bisogno dei sentimentalismi” disse Rupert, indugiando su John che ora mi stava ando un braccio attorno al collo.
Ridemmo tutti, e perfino io aggiunsi la mia risata alle loro.
“ok, dai muoviamoci prima che cali il sole” proruppe Frank, non vedeva l’ora di iniziare.
“va bene, fra mezz’ora ci ritroviamo qua per raccontarci quello che abbiamo visto” disse una Sophie, che si fece prendere dall’aria d’entusiasmo. E corse, verso Sud. Sparendo dietro una gran sequoia. Rapida come la notte, o forse come la gioia d’essere bambini.
Ci guardammo tutti piuttosto sconcertati, poi Rupert disse:
“difficile credere che quella sia una ragazza” e cosi dicendo, Rupert parti per la direzione opposta.
Piano piano, abbandonammo il luogo del ritrovo. Spingendoci da soli, verso l’entroterra del bosco. Ogni tanto dalla radiolina, sintonizzata su di un unico canale. Mandò un bip e poi uno fra John e Arthur, prendersi ripetutamente in giro. Frasi del tipo: “Arthur, attento ha non perderti. Dicono che da queste parti gira il vecchio Sam” e Arthur di rimando “oh non ti preoccupare sono del pesci, e oggi secondo le stelle non rischio nulla”
Le nostre risate erano continue, sotto quelle fronde.
Stavo seguendo un sentiero battuto, che portava verso casa mia. Quando Sophie parlo dalla sua radiolina: “ragazzi che ne dite di usare un linguaggio segreto” bip.
la sua voce cristallina, si alzo dall’interfono della radiolina per disperdersi nel silenzio ovattato di quel bosco.
“sii, qualcosa tipo linguaggio militare stretto” non si fece attendere, la risposta di John entusiasta.
Era strano, ma nella mia mente m’immaginavo, che i miei compagni d’esplorazione stessero camminando li affianco a me. Quelle radioline, erano magiche.
“no, inventiamoci qualcosa che siamo sicuri nessuno possa capire” intervenne Rupert.
“che proponi Ru’?” chiese Arthur.
Prosegui nel mio cammino in quel sentiero, speravo di trovare qualcosa di stupendo. O che per lo meno fosse interessante. Da permettermi d’entrare nella conversazione.
“non so, tu che dici Scott?” chiese Rupert, ben sapendo che lo stessi ascoltando.
Scavalcai un albero marcio, riverso a terra morto. Avevo visto qualcosa, quasi mi spaventò.
Era una costruzione, non potevo chiamarla casa. Da quanto era diroccata e lasciata oramai a se stessa. Dal tetto le tegole erano volate via, rivelando le poche rimanenti travi portanti in legno. Lo scheletro putrefatto di una vecchia casa, sembrava come crollata su se stessa. Come se quell’albero morto fosse proprio caduto su quella casa, distruggendola in parte.
Rampicanti rinsecchiti, ricoprivano gran parte delle quattro pareti sudice. La curiosità era cosi forte, mi avvicinai. Qualunque cosa contenesse quella casa, valeva la pena di spostare quell’albero secolare.
Arrischiai un altro o verso quella casa, quando un altro bip riempi l’aria, subito seguito dalle parole di Sophie: “Scott, tutto bene?” la sua preoccupazione,
la sentì chiaramente trasudare dall’interfono.
“ha che fare col Marchio Nero?” sembrava attendere quel momento da tanto tempo Arthur, finalmente ebbe l’opportunità di usare quella parola.
“che? No, no…c’e una casa qui” risposi, premendo un bottone nero sulla spalla sinistra della radiolina.
Sarebbe stato arrogante, non parlargli della mia scoperta. E poi diciamocelo, speravo esattamente in qualcosa come quella scoperta.
Scopri fin da subito, la prima gioia dell’amicizia; l’atto semplice della condivisione. È da quel giorno, non me lo scordai più.
“una casa?” chiese sorpreso Frank, la sua voce mostrava apprensione dalla radiolina.
“che genere di casa?” domando Rupert, come se non avesse colto minimamente l’apprensione di Frank.
“e diroccata, disabitata da molto tempo” risposi, ora che ero dove un tempo c’era una porta.
Potei vedere meglio dentro. Le pareti erano incrostate di fango, e piene di muffa nera.
Era tipo un’apertura quell’ingresso, sulla parete più nascosta da dove ero io. I rampicanti, coi loro rami avevano donato ha quella casa una perfetta tenda copri sole.
Intravidi solo qualcos’altro nell’interno, il pavimento era totalmente inesistente. Parecchie piastrelle, si erano spezzate, probabilmente dall’impatto col l’albero morto.
Avvicinandomi cauto all’apertura del muro, qualunque cosa c’era in quella casa. Oramai non c’era più, solo alcuni scaffali in metallo vuoti, ma tuttavia pieni di polvere.
Oramai ero quasi entrato nella casa, quando ancora Sophie mostro la sua preoccupazione, chiamandomi ancora attraverso la radiolina.
Fu a quel punto che, lo sguardo mi cadde su un bollitore di rame. Di quelli che si usavano un tempo per distillare Whisky. Peccato fosse rotto, ed era forse per questo motivo che il bollitore era stato abbandonato in quella casa.
Con somma sorpresa capì, a cosa serviva quella casa. Semplicemente a fare Whisky di contrabbando.
“ho capito cosa ci facevano qui, ci facevano del Whisky di contrabbando” esclamai alla radiolina.
“stai scherzando?” domando Arthur.
“no, che non scherzo. Ci troviamo al rifugio fra cinque minuti” risposi, si decisamente quella casa con un pezzo di tetto, era una cosa imperdibile.
Entrai di corsa nella casa, afferrai il bollitore di rame tutto impolverato e sporco, li in un angolo. Ed usci rapido, saltai l’albero morto, e corsi a perdifiato verso il ritrovo con quel peso fra le braccia.
Non senti risposta da nessuno, probabilmente stavano tutti correndo verso il ritrovo, e come me tutti a perdifiato.
Il bollitore sorprendentemente leggero, non mi dava il minimo fastidio. Anzi, con quei tubi a serpentina avevo anche una bella presa.
Arrivai al ritrovo, madido di sudore. Non ero stato però il primo ad arrivare, John attendeva piegato sulle ginocchia, stava riprendendo fiato dalla pazza corsa.
Quando alzo lo sguardo, fu per un attimo curioso, poi in un secondo momento divenne euforico. Quando noto il bollitore fra le mie mani.
“dunque, la leggenda era vera” biascico, venendomi incontro.
I suoi occhi incrociarono i miei, per poi abbassarsi tediosi sul bollitore. Come ha volermi chiedere, se lo poteva guardare da vicino.
Nemmeno doveva chiedermelo, un attimo dopo il bollitore era già nelle sue mani. Che ora continuava ha mormorare “incredibile” o “robe da pazzi” in continuazione.
Bastarono cinque minuti, prima che Frank apparve da dietro un albero, seguito a ruota da un Arthur particolarmente sudato. Il poverino, evidentemente s’era sforzato fin al suo stremo per stare al o con Frank.
“non è incredibile” disse John, alzando il bollitore cosi che tutti potessero vederlo meglio.
Per aria, assomigliava ad un trofeo.
Il rame sporco e lercio, sembro catturare la loro attenzione. Nel frattempo, io mi stavo riposando un’po il respiro. Sedendomi a terra, con la schiena appoggiata su di un tronco duro di quercia.
Altri secondi, ed apparvero Rupert e Sophie dalle loro direzioni opposte.
Quel bollitore divenne oggetto curioso, tanto che venne ato di mano in mano.
“sai e molto raro trovarne uno intatto, o quasi” disse Rupert, fra le mani aveva ancora il bollitore. E nella fretta di guardarlo meglio, mi aveva dato le spalle.
Il suo dito indice s’infilo in un buco, nell’esatto centro del barilotto in rame.
“un distillatore del dopo guerra direi” mormoro risoluta Sophie.
Sicché la guardammo tutti sbalorditi.
“c’e un’incisione la sotto” e cosi dicendo, indico la pedana dove poggiava il barilotto. Ed era proprio vero, sulla pedana c’era scritto “19/03/1930” fu ben visibile al sole, quando Rupert rigiro il barilotto bruscamente.
“l’hai trovato in una casa diroccata?” domando Rupert, stupefatto torno ha guardarmi.
Ed ancora gli sguardi di tutti, erano puntati su di me. Imbarazzato annui.
“whauu, dobbiamo assolutamente vederla” esclamo Arthur, eccitato.
“si, Scott devi portarci là” aggiunse Frank.
“potrebbe esserci dell’altro in quel covo di contrabbandieri” mormoro John, entusiasta.
Sophie mi lancio un’occhiata, anche lei, mi fece intendere. Che voleva dare un’occhiata ha quella casa. Sorrisi hai cinque: “va bene, vi faccio strada” e cosi dicendo, feci dietrofront.
Il mio orientamento in quel bosco, era impeccabile. Sapevo che, bastava trovare quel sentiero battuto. Alla fine poi, egli stesso mi avrebbe riportato al covo. Cosi come l’aveva fatto prima.
Il distillatore lo portava ancora Rupert, seguito a ruota da Sophie e gli altri.
Nessuno sembro voler parlare, come se non volessero deconcentrarmi dal seguire la pista.
Ogni tanto, mi fermavo, costringendoli a fermarsi. Solo per guardarmi attorno, per sincerarmi d’essere sulla strada giusta. Si, non c’erano dubbi quella era la direzione giusta.
Riconobbi per terra, tre rocce affiorare dal terreno, in una copia assai sbagliata di un’impronta di cinghiale.
Prosegui ancora per alcuni metri, quando la cima dell’albero morto, i suoi rami secchi erano scheletrici, senza foglie, e senza linfa che non scorreva più al suo interno. Mi fu ben visibile.
“e qui” dissi, aumentando il o, già stavo scavalcando il tronco morto.
Eccola li, la casa. O come l’aveva chiamata John: “il covo dei contrabbandieri” soffocarono quasi tutti i loro stupore, comunque ben visibile chiaramente nei loro volti da bambini curiosi.
Arthur avanzo senza indugiare oltre, verso l’apertura nella parete dov’ero entrato io.
“whauu, chiunque sia stato avrà fatto un botto enorme” urlo dall’interno, lo vidi dalla mia posizione esterna, guardare il tetto crollato. Come ha valutare, se lui fosse in grado di creare tale distruzione.
“oh ma piantala Arthur, gli unici tuoi pensieri sono distruggere, o far saltar in aria qualsiasi cosa” rimbecco John, seguendo il piccolo Arthur all’interno.
Dietro di lui s’aggiunse Frank, Rupert guardava il distillatore con crescente curiosità.
Sophie fu l’unica ad intuire, oltre me. Che l’albero era stato spostato.
“non credete anche voi, che quell’albero sia stato spostato?” domando all’intero gruppo.
“anche perche per abbattere il tetto, dovrebbe essere perpendicolare alla casa. E non parallelo” dissi, e devo riconoscerlo. Fu un’osservazione piuttosto brillante.
“hai ragione, quindi da quella parte ci sarà del terreno smosso” e cosi dicendo, Sophie indico un punto dietro la casa, perpendicolare al tetto distrutto.
Andai io a controllare, i nostri sospetti i miei e quelli di Sophie trovarono fondamento. Infatti, poco più in là dietro alla casa. Il terreno era brullo, dove probabilmente l’albero era stato sradicato.
Tornai dagli altri rimuginando, sul perche nonostante tutte quelle ore ate in quel bosco. Mai, avevo scoperto quel luogo.
Sophie, nel frattempo aveva seguito gli altri dentro il covo. Ne riemerse poco dopo, mentre stavo tornando.
Ci guardammo per un momento, sicuri che l’altro stranamente stava pensando la stessa cosa.
“certo che si sono dati da fare” osservo Sophie, adocchiando la carcassa dell’albero morto poco distante dalla casa.
Non me la senti di rispondergli, pensavo ancora a quante cose mi nascondeva quel bosco.
“che hai?” chiese Sophie, mi aveva raggiunto e sfiorato dolcemente una spalla.
Incrociai i suoi occhi blu, per poi sorridere.
“e strano, nonostante o pomeriggi interi dentro questo bosco. Non ho mai visto questo posto.”
E come se mi stesse leggendo nei pensieri, Sophie mi rispose:
“allora, chissà altre cose ci nasconde” sorridemmo entrambi.
Ero felice, di una felicità che mi colmava. E stranamente mi riempiva sproporzionatamente. Cosi chiesi.
“prima avevi detto, la leggenda e vera, allora. Di cosa stavi parlando?” domandai ad un John, in quel momento stava uscendo dal covo.
Lo stesso rivolse ha Rupert un’occhiata, come ha chiedere il permesso di parlarne. Rupert assenti in risposta.
“della leggenda del Moonshine..”
“un tipo di whisky” lo interruppe Frank, notando il mio non capire di cosa stesse parlando John.
“si, grazie Frank…comunque, si diceva che in questo bosco un tempo si fabbricava whisky di contrabbando. A dir la verità, credevo fossero solo panzane
di mio nonno. Lui era un poliziotto all’epoca. Invece, quel vecchio dannato aveva ragione.” spiego John, alludendo al covo alle sue spalle.
“credevate che il covo era nel bosco?” domando Sophie.
“cielo no, pensavamo doveva essere in città, se mai fosse esistito” rispose Frank.
“l’importante è che l’abbiamo trovato” mormoro Rupert.
“giusto, sentite questa. E se lo usciamo noi come covo” butto li Arthur, egli voleva proprio un rifugio, il meglio per lui era una casa sull’albero. Ma se proprio, non poteva trovare tanto, avrebbe accettato quel covo losco.
“sei pazzo Arthur, credo che altre persone conoscono questo posto” disse John, infervorato.
“quali persone?” domando scioccamente Arthur.
“quelle che l’hanno costruito ad esempio.” rispose risoluto Frank.
Arthur guardo l’uno e l’altro, lui desiderava un posto solo per lui e il suo gruppo. Glielo si leggeva in faccia.
“hanno ragione Arthur, troveremo il nostro luogo segreto. Infondo questo bosco è immenso” disse Rupert, fu un gesto carino da parte sua, fargli quella promessa.
“solo non credo che, quelli che lo hanno costruito siano ancora in vita” disse la sua Arthur.
Un assenso provenne dal mio fianco. Sophie annuiva, vistosamente. Fu notato dall’intero gruppo.
“insomma, saranno vecchi, più vecchi che decrepiti, o impossibilitati ha muoversi” mormoro Sophie, quei sguardi le davano soggezione.
“comunque, non è sicuro. Forse i figli conosceranno questo posto” aggiunse infine Sophie.
“per oggi può bastare, ci vediamo domani a scuola” disse Rupert, intravedendo fra le fronde alte il sole basso, ed il cielo arancio scuro.
“oh e tardi, devo finire ancora i compiti” disse Frank, sembro essersi svegliato solo in quel momento.
“Frank, stai scherzando. Non ci sono i compiti, per domani” rispose John, forse allarmato, perche in effetti poteva scoprire che, oggi c’erano proprio dei compiti da fare.
“lo so, sto parlando di quelli di dopo domani” si fece piccolo-piccolo Frank, scoprimmo poi il perche io e Sophie.
“oh mio povero Frank, qui ci vuole la secchia per Frank.” cosi dicendo John, lo afferro per le spalle.
I due si stavano rotolando per terra, alla loro lotta si aggiunse Arthur, balzando sui due come uno scoiattolo agile. Rupert poso ha terra il distillatore, correndo verso i tre nella loro baruffa sosa. Infatti, mentre si rotolavano per terra, i quattro non la finivano di ridere. Perfino Frank, fu quello che ne prese di più. Parve essere felice, di quel trattamento. Erano le loro adulazioni, per mostrarsi il loro volersi bene.
Ridemmo perfino io e Sophie “uomini” senti dirgli.
I quattro, non davano segno di farla finita. Ruzzolavano a terra e continuando, a volersi prendere una posizione predominante sugli altri.
“ragazzi, si sta facendo tardi” urlo più delle risate, Sophie.
I quattro istantaneamente si bloccarono, rimanendo comunque a terra. Ridendo da pazzi, ancora.
Frank, continuava ha spintonare tutti, divertito dalle adulazioni ricevute.
“quando qualcuno dice cosi: qui ci vuole la secchia per Frank. Dovete aggiungerci ha noi” spiego John, come per dire “più siamo meglio è”
“solo su Frank?” chiese Sophie, giudicandolo un trattamento impari.
“no, no c’e anche..” e qui Frank scambio uno sguardo complice con Rupert, che annui copiosamente. John era in mezzo ha loro.
“tutti sopra ha quella checca di John” e cosi dicendo, inizio un’altra baruffa fra quei quattro. Ovviamente venne messo in mezzo John, per questo giro. Altre risate proruppero dalle loro bocche.
“oh alla talpa” e con un urlo John, cambio postazione con Arthur.
Rupert venne messo in mezzo alla fine, di quella baruffa al grido di “alla soldout” altre risate, fu il pomeriggio più bello della mia vita.
“questi sono pazzi” disse Sophie, rivolgendosi a me.
Visto che entrambi, non c’eravamo ancora uniti alla baruffa di quei quattro.
Scrollai le spalle, per me quei quattro erano simpatici.
Il risultato di rotolarsi per terra, fu che i quattro si ritrovarono coi capelli sporchi di foglie secche, di terra sparsa sulle loro magliette e pantaloni, ed infine la mancanza di respiro.
Dopo che si furono scrollati di dosso quelle foglie, e puliti pantaloni e magliette con grandi manate. I quattro oramai, si erano ristabiliti. Sia io che Sophie, li guardammo prendersi ancora ha spintonate sulle braccia. Non la finirono di ridere.
“torniamo ha casa checche” disse Rupert, già in piedi, aiuto gli altri tre ad alzarsi.
Stavamo percorrendo, quella pista battuta a ritroso. Sophie si guardo attorno, coma ha voler notare particolari fondamentali. Li sarebbero serviti quando avrebbe disegnato la mappa.
Cosi la colpì lievemente sul braccio, indicandoli col capo le tre rocce che affiorarono dal terreno.
“ti orienti cosi?” chiese, notando quel particolare indizio.
L’avrebbe riportato sulla mappa, ne ero sicuro.
I quattro, camminavano davanti a noi. Il distillatore di Moonshine, lo portava Frank. Lo stava studiando con occhio attento.
“più o meno, mi do un punto con cui partire” risposi.
“ e in tutti questi giorni che avi qui, non ti sentivi solo?” chiese Sophie, stava parlando semplicemente, come di cose che hanno scarso interesse.
Lei fu grato per non aver usato un tono preoccupato, o in apprensione che di solito precedeva questo tipo di domande.
“avevo una missione, non pensavo a niente tranne il raggiungere quel luogo…mi sentivo cosi a casa. Mi sento cosi sereno sotto questi alberi” risposi, ed era vero sotto quei alberi mi sentivo un’altra persona. Diversa da quella che ero, cosi spaventato, cosi triste e solo. Li mi sentivo tranquillo, felice, spensierato. E non lo sono mai stato, spensierato. Nemmeno adesso.
“che tipo di luogo?” chiese invece Sophie, quando poteva benissimo mostrarmi pena per quelle mie parole.
Cosi gli descrissi quella radura, senza però raccontargli in quali circostanze l’avevo scoperta. Mi sembrava stupido, far si che quell’aria d’ilarità. Venne cancellata, dai miei guai.
“ci sono radure, molte sono spazi dove non crescono alberi, altre ancora ci ano soltanto ruscelli” spiegai.
Sophie blocco il o, rimanendo indietro. Mi bloccai perfino io, voltandomi non mi sfuggi che stava parlando fra se e se. La guardai con fare curioso, finché
Sophie riprese il o. Solo quando poi mi fu accanto parlo:
“bhè non mi sorprende, ci vuole molta acqua per distillare Whisky” disse.
Allora perche comportarsi in quel modo? Mi domandai.
“pensavo che l’acqua se la portavano da casa, ma poi ho pensato, che sarebbe stato sospettoso vedere delle persone faticare per portare acqua in questo bosco” aggiunse, come ha decifrare la mia curiosità sul suo strano comportamento.
“almeno domani, potrai farci vedere quei ruscelli” aggiunse Sophie.
“c’e ne è soltanto uno” la corressi.
“meglio di niente, no” alzo le spalle Sophie.
Ero come sicuro, che mi stesse nascondendo qualcosa, non gli chiesi comunque altro. Se Sophie probabilmente, non mi voleva dire la verità. Avrà di sicuro, i suoi buoni motivi per farlo.
Eravamo oramai al ritrovo, dove i quattro si erano fermati. ( il bloccarsi di Sophie, lungo il percorso. Li aveva dato un bel vantaggio) attendendoci là.
Feci per dare la mia radiolina ad Arthur, che dissenti chiaramente.
“tienila, mio fratello ne ha cosi tante che non se ne accorgerà nemmeno” disse gentilmente Arthur.
Ero sorpreso, li mormorai un “grazie” appena accennato.
“peccato che abiti cosi lontano, potevamo parlarci con quelle radioline” disse Rupert, mi sorpresi nel notare sul suo viso dispiacere sincero.
Dispiaceva ovviamente anche ha me, abitare lontano da loro. Ma che potevo farci?
“tanto ci vediamo domani mattina” disse Sophie ottimista, aveva ragione.
Nella mia scoperta, ci sentimmo ora molto legati. Tanto che ci risulto strano, allontanarci per quella strada.
Come del resto fa la vita, col tempo ci lascia soli su di una strada al tramonto. Con i tuoi amici che ti danno le spalle, ed ha una velocità sorprendente si allontanano, con le loro auree arancioni. Sembrano dissolversi, mentre si avvicinano all’orizzonte, per poi sparire dietro di esso. Probabilmente in una terra lontana; in un altro mondo.
Non dimenticai quell’immagine, e la tristezza di quel momento. Io, fermo su
quella curva. Ed i miei amici, che si allontanavano da me, senza che io potessi far niente.
Nella irrealtà di quel momento, ero sul punto di seguirgli. Quando un bip provenne dalla radiolina.
“a domani Scott” era stato Rupert ha parlare, alla sua voce s’aggiunse quella di John, di Frank, infine Arthur e Sophie.
“si, a domani e ricordati della promessa”
“il distillatore lo tengo io, ma se lo vuoi tu sarà un piacere fartelo avere.”
“ciao Scott, e vedi di mangiare”
“notte’ Scott”.
Lacrime, stavolta di felicità sgorgarono dai miei occhi, e forse in quelle lacrime c’era un pizzico di profondo amore per quei ragazzi, e l’infelicità per non essere li affianco ha loro.
Mi asciugai le lacrime con le mani, premetti il bottone nero della radiolina, e mormorai vicino all’interfono:
“non sapete quanto vi amo, amici miei”
Non seppi mai, se mi avevano sentito. E ahimè, io non glielo mai chiesto.
Tornai a casa, col senso di qualcosa di nuovo dentro di me. Era come sentirsi vivi, un’altra volta.
Stava calando la notte e se, non mi sbagliavo. Rischiavo d’avere delle ripercussioni, da parte di mio padre.
Corsi verso casa, la radiolina in mano. Da un lato il guardrail e il bosco, mi sfrecciavano accanto. Dall’altro la grande prateria, più in là altre luci segnalavano la presenza di un’altra città. Si stagliava piccola, come un formicaio, in mezzo ha quei campi.
Oramai andavo ad una certa andatura, tanto che se fossi Icaro, con le sue ali hai piedi. Potrei benissimo volare. E, magari raggiungere le Allodole lassù sulle nuvole.
I miei sogni ad occhi aperti, dovettero cessare alla vista di casa. Le luci accese in cucina. Mi fecero capire che i miei erano tornati a casa. Peccato, desideravo molto avere tutta la casa per me.
Saltai i gradini, del piccolo portico che conducevano alla porta d’ingresso. Apri la porta, senza usare le chiavi di casa.
Un bel odorino, proveniva dalla cucina. Mamma si stava dando da fare, papà probabilmente era nel capanno degli attrezzi.
Avanzai in cucina, richiamato dall’odore. Apri piano la porta della cucina, i cardini cigolarono appena.
Abbastanza da richiamare mia madre, verso la medesima porta.
“dove sei stato?” domando, ne brusca, ne curiosa.
Piuttosto rassegnata.
“in giro” era la mia classica risposta.
“e quanto, sei stato in giro?” chiese, voltandosi verso le padelle ove lentamente sfrigolavano lo stufato e le patate.
“dieci minuti” risposi, che tanto aveva scarsa distinzione del tempo.
E comunque il quel bosco, il tempo sembro volato via.
“ma se siamo noi, ritornati da mezz’ora” disse mia madre scettica.
“mezz’ora allora” risposi.
“figliolo tu lo sai che ore sono? Che giorno è oggi?” chiese mia madre con un misto di delusione e altre emozioni indecifrabili nella voce.
“no, mamma” risposi sincero.
Piegai le spalle, ero tornato quello di sempre. Per un attimo, avevo creduto alla favola che fossi normale. Ma ora, i fatti parlavano chiaro. Io, non sono normale. Perche illudersi del contrario?.
“vai a lavarti la faccia, fra poco si mangia” disse mamma, facendo finta di non aver sentito l’ultima mia risposta.
Le voltai le spalle, dirigendomi verso il bagno. Allo specchio, sopra il lavandino. Potei costatare, quanto fossi abbronzato.
Sembrava avessi ato, ogni giorno della mia vita fuori dalle mura di casa. Guancie e naso, erano simili ha quelle di mio padre. Gli occhi, la loro forma e colore gli avevo presi da mio nonno, da parte di madre.
Insomma non ero di sicuro, il più bel ragazzo del paese. Ma se non fosse per quei pregiudizi sulla mia stupidità. Ero abbastanza carino, i folti capelli castano scuri, il fisco asciutto, l’altezza appena al di sopra della media. Le gambe secche, per via dello scalare continuamente qualsiasi cosa avesse una parete
perpendicolare.
Scopri comunque, dopo pochi anni la mia media bellezza. Hai tempi, mi vedevo come uno scarafaggio, al quale tutti provvedevano di starne alla larga.
Piegai il capo, verso il getto freddo dell’acqua. Dopo essermi lavato per bene mani e faccia.
Decisi ch’era meglio rintanarmi in camera mia. Nonostante, come aveva detto John non c’erano compiti per il giorno successivo.
Mi concessi, altri minuti d’immaginazione. Visto che non possedevo giocattoli, ne bambolotti.
Avevo solo una pallina da tennis, l’avevo presa in prestito dalla scuola.
Di solito giocavo con quella, mi sdraiavo sul letto e la lanciavo in aria, tentando d’afferrarla al volo.
Quel giorno, non ero in vena. Chissà come sarebbe, essere contrabbandieri di Whisky..
Rupert e John, erano perfetti. I degni rivali di Al Capone. Non perche nell’animo erano cattivi. No, solo erano molto furbi. In quanto ha Frank e Arthur, loro credo si sarebbero occupati solo dell’atto di distillare il Whisky.
Anche se, una vocina nella mia testa. Mi diceva che, quella Sophie. In quanto ha carattere, batteva di gran lunga quei quattro.
E io cosa avrei fatto, l’elemento fuori dal coro. Quel ragazzino che non è partecipe alla vita.
Io ero solo io, probabilmente mi sarei limitato a stare su di un albero appollaiato, semplicemente a guardargli.
Cosi come ho sempre fatto nella vita.
Stavo ancora fantasticando, sulla possibilità o meno di diventare contrabbandiere. Quando la voce rude di mio padre, mi chiamo per le scale.
La cena era pronta, io caracollai in fretta in cucina. Presi posto, in mezzo fra mio padre e mia madre, già seduti ha tavola coi piatti caldi e fumanti davanti ha loro.
Mangiai con ancora quella fantasia, e mi chiesi dopo cena. Quando fui seduto sul davanzale della finestra aperta, se quel bosco comprendeva l’inizio di qualche avventura per me e i miei amici.
Le chiome scure di quei alberi, non risposero alla mia domanda. Scure, scosse solo da qualche alito di vento. Proprio non mi aspettavo, potessero rispondermi. In quel momento, solo le stelle sembravano promettere qualcosa. Col loro brillio capace di alimentare i più bei sogni, le più belle speranze per chiunque.
Non seppi, quanto tempo rimasi là, delle ore o minuti, o perfino secondi. Quello che conta, era che pensavo per la prima volta ha qualcuno che non fosse me.
Sorrisi vacuo, alla notte oscura fuori dalla finestra. Dove contrabbandieri uscivano dai loro covi, portando con se barilotti del più squisito Whisky.
“buonanotte, amici miei” mormorai, prima di abbandonarmi al letto.
Capitolo 5;
La mappa prende forma.
La mattina dopo, ero già in piedi molto prima dell’alba. Avevo fatto sogni quasi tutti uguali, avevano ha che fare col covo dei contrabbandieri. Nel sogno, venivo inseguito da figure coi a montagna, armati di fucili a doppietta, di quelli che si usano nella caccia.
Tutti si concludevano, con la mia disperata fuga dai bruti, dal loro covo fin alla radura piena di lavanda. La al sicuro, potei tornare ha respirare.
Raccolsi da terra, svelto i miei vestiti per la scuola. Si rifacevano sempre ad un paio di jeans strappati, ma cosi vissuti. Ed una maglietta bianca, tutta stropicciata.
Già bel pronto per la scuola, afferrai col braccio ad uncino lo zaino di scuola. Il tempo di chiudere la porta della mia camera, che già ero in cucina. A spalmarmi abbondanti dose di marmellata hai mirtilli, sulle fette del pane croccanti. Fini in fretta la mia colazione, non vedevo l’ora di rivedere i miei amici.
Ed ero già sulla spavalda strada, per andare a scuola. Come sempre, studenti della mia età o poco più. Si riversavano sui marciapiedi, i piedi storti, le andature goffe.
La ilarità dei loro volti, contagio anche me. Sembravano nati tutti nella stessa casa, i nostri sogni erano cosi simili; come del resto i nostri destini. Finiremo tutti, accolti in un freddo abbraccio.
Fra questi ragazzi, era difficile non notare Sophie, la sua capigliatura bionda, il suo modo di vestirsi semplice senza inutili fiocchi o complicate treccine. Solo cosi, senza niente di eccessivo.
Fu lei ha raggiungermi, io l’attendevo all’incrocio. Abbassando il ritmo della mia camminata.
Mi sorrise come sempre, io che ancora stavo ripensando a quel sogno. Venendomi incontro, non mi sfuggi le sue sopraciglia alzate. Non indago Sophie, solo si affianco a me.
“ciao” la salutai, camminando verso scuola.
“ciao” rispose Sophie, ridendo divertita.
“più o meno, quel ruscello di cui parlargli dove si trova rispetto al covo?” chiese Sophie, rigirandosi lo zaino per portarselo sul davanti. Lo apri, e afferro un blocco da disegno nuovo di zecca.
Visto che solo la prima pagina, sembrava disegnata. Pochi alberi, per lo più molto originali. Erano disegnati in un modo molto lieve, sulla carta bianca.
C’erano degli spazi bianchi fra quei alberi, e più si andava verso il centro del foglio, quei spazzi bianchi aumentavano. Sin quando non si arrivava sulla parte sinistra del foglio completamente bianca.
“ti piace?” chiese Sophie, stringeva fra le mani quel blocco da disegno come se fosse la cosa più preziosa che aveva.
“moltissimo” risposi sincero, sembrava una vista dall’alto del bosco.
“ti ringrazio, e come noterai. Ho messi quei tre sassi, e il covo” aggiunse Sophie, molto orgogliosa di se.
Non mi ero accorto, sulla mappa c’erano veramente i tre sassi, facevano parte del sentiero battuto delimitato dalla stessa Sophie, sulla mappa.
Fantastico, pensai mi potrà essere utile per trovare la radura della lavanda. O forse, un terribile presentimento sotto forma di pensiero. Si insinuo nella mia mente. E se, solo quel foglio non bastasse, per comprendere l’intero bosco? Se quel bosco, ipoteticamente non aveva una fine?
Ero sul serio spaventato, da queste ipotesi.
Una risata giovale, mi sveglio dal mio pensare perennemente al peggio.
Voltai lo sguardo, verso Sophie affianco. Mi fissava, come se volesse capire i
miei pensieri. Non solo capirli, ma anche entrarci, per condividergli. Ebbi queste impressione, dalla sua occhiata.
La fissai per qualche secondo, prima di decidermi a rispondergli alla sua prima domanda:
“e qui, più o meno un’po a sinistra, ed in basso dal covo” e cosi dicendo, indicai un punto su quel foglio, lasciato bianco da Sophie.
“ok, e prosegue dritto, o zig-zagga per il bosco?” chiese ancora.
Dovetti spremermi le meningi..
“ricordo solo due sponde, dove alcuni alberi.. Coi loro rami si sfiorano, creando archi proprio in mezzo al ruscello..non è molto profondo, molto meno di una pozzanghera in città.”
“capisco, e tipo un rigagnolo” rispose Sophie, tracciando una piccola linea dritta sulla mappa, nel punto dove avevo poggiato il dito.
“cos’è un rigagnolo?” le chiesi curioso, non avevo mai sentito una parola del genere.
Mentre Sophie, rimetteva il blocco da disegno, e matita nel suo zaino. Cosi come gli aveva presi.
“e un piccolo fiume, poco grande di uno spago da cucire” rispose Sophie, affabile.
Camminando verso scuola, ci mancavano pochi metri. Quando Sophie, parlo nuovamente.
“fai mai sogni strani?” mi domando, procedendo spedita e col suo solito sorriso radioso, ha sfidare il mondo.
“alcuni” risposi, ripensando alla sera prima; rabbrividì.
“anche quando sei in classe” non era una domanda, semplicemente era affermazione.
La guardai vacuo, senza saper bene come rispondergli. Poi impercettibilmente; o per esattezza. Qualcuno dentro me, fece si che la testa annui.
“sai, la mia fantasia o immaginazione. Credo sia preziosa, e ciò che ci rende diversi, no?!. Anche più umani, e non animali. E un dono, che non spreco..i miei mi dicono spesso che ciascuno di noi, ha in dono una luce nel cuore, una gioia, un talento. E io non lo spreco il mio, disegno ciò che sogno, ciò che mi affascina, ciò che mi alletta.” concluse Sophie, hai tempi credevo mi avesse fatto una predica. Ma non era cosi, poco tempo dopo glielo chiesi..
“io non credo di avere talenti” le dissi, proprio per il motivo sopra citato.
“dici?” rispose Sophie, non sembrava sorpresa dalla mia risposta.
Fece per ribattere, aprendo la bocca. Ma non ci riuscì perche, da lontano, in una traversa poco più in la. Apparvero quattro ragazzi, tre dai capelli castani, ed uno di un biondo irriverente.
I quattro mi salutarono, manco fossi il loto migliore amico da una vita. Quando in realtà, lo eravamo da poco.
“bella scoperta ieri, Scott” disse un Frank, in tono pomposo.
“su, coraggio diglielo” sbotto John, incrociando le braccia.
C’eravamo tutti fermati, su quel marciapiede per il rito dei saluti.
“dirci cosa?” chiese Sophie, impazientemente curiosa.
“che il distillatore del Whisky, che Scott ha trovato. Era di Sam” e non riuscì a trattenere risate allegre.
Anche i tre, iniziarono ha ridere. La sola Sophie, non abbozzo nemmeno un sorriso.
“chi è Sam?” chiese poco dopo Sophie, attese pazientemente stavolta il finir del nostro ridere.
Non ci sfuggì per questo, la nota allarmata della sua voce.
“e solo un vecchio contadino, vive fuori città. Quasi tutte le staccionate, fuori paese sono le sue.” spiegai.
“e un tipo ok, anche se e strano, e molto solo” aggiunsi, volendo solamente rassicurarla.
La stessa mi guardo intensamente, mi era chiaro cosa stesse pensando. Probabilmente non era cosi, si eravamo entrambi soli, e strani. Ma non mi sognerei mai, di incutere timore ad ogni persona, che si avvicini troppo alla mia staccionata.
“direi anche pazzo, io di certo non mi metterei ha distillare Whisky di contrabbando in un bosco” disse tutto d’un fiato Frank, come se temesse che quella frase avrebbe scatenato, il grido di battaglia: “qui ci vuole la secchia per Frank” non scatto, per sua fortuna. Solo altre risate di scherno, da parte di Arthur e John.
“già tu non faresti, nulla illegale” lo apostrofo Rupert, prendendo per le spalle Frank.
“come hai scoperto che era di Sam?” li domandai.
“c’era la sua sigla in fondo, all’interno del barilotto” rispose Frank, felice per la sua scoperta.
Stavolta le risate, provennero solo da Sophie. Sembrava divertita.
“tutta questa ilarità, solo per una sigla? Non potete esserne sicuri, solo perche uno e solo e strano, avete subito dei pregiudizi su di lui” spiego, l’ delle sue risate.
“c’era una mela rovesciata?” chiesi, conoscevo a memoria la sigla di Sam.
Ogni bambino, ogni ragazzo, o adulto che sia sapeva riconoscere la sigla di Sam. Perche tutti prima o dopo, erano stati minacciati dallo stesso Sam di:
“se vi vedo ancora, dentro la mia proprietà vi marchio ha fuoco su una chiappa. Con la mia sigla!” quasi spesso, lo si vedeva rincorrere bambini, amanti del pericolo nelle sue terre con il leggendario bastone di Sam.
Stesso bastone, che mi brandì addosso come un’arma. Quando per sbaglio, misi piede nella sua proprietà.
“con una S sopra” rispose Frank, non sentendo ciò che aveva detto Sophie.
“e lui, sicuro” mormorai.
“marchia cosi, ogni paletto della sua staccionata” spiego Rupert, ad una Sophie che continuava ha guardarci con fare interrogativo.
“cosi che tutti, vedendo la sua sigla possano capire dove stanno entrando” concluse Arthur.
“si, già nella proprietà di Sam” disse in fino tono lugubre John.
Stavolta ridemmo tutti, perfino Sophie.
“e questo uomo..” inizio ha dire Sophie, eravamo di nuovo in marcia verso la scuola.
“incute timore, ad ogni bambino della valle” rise Frank, alla sua battuta scema.
“anima gli incubi di ogni ragazzino” s’aggiunse John.
“io, ho sentito che Emily. Quando era bambina, e non so cosa avesse combinato. I suoi genitori, l’hanno minacciata di portarla da Sam..ooh non e stata una bella scena, piangeva ha dirotto” racconto Arthur.
“questo è un altro modo, per istruire i propri figli” scoppio ancora ha ridere John, della sua battuta.
Ci stavamo tutti e sei su quel marciapiede, o quasi. Visto che sia John, che Arthur camminavano in mezzo alla strada.
“non credevo fosse un contrabbandiere, pensavo fosse solo un contadino. Trasferitosi qui, da chissà dove, o chissà quando.” dissi ripensando alla leggenda, oramai celebre di Sam.
Stessa leggenda, che venne recitata per Sophie in modo soso, e traumatico da parte di Arthur e John. Uno dei due faceva finta, di trascinarsi per la strada. Facendo finta di avere un bastone, fra le mani.
“in effetti hai ragione, chi può essere sano di mente. Da comprare del Whisky da Sam” disse Rupert.
Senti un forte calore, salirmi dal collo a quelle parole.
“bhè guardiamola dal lato positivo” disse Arthur, lasciando perdere la sua imitazione di Sam. Anche se quella di John, ha mio dire, era la più fedele.
Trascinava il piede destro per terra, nello stesso, identico e preciso modo di Sam. Chinato, con una piccola gobba sulla schiena, sdentato, con la barba grigia e rada. Mancavano questi piccoli particolari a John, per essere spicciato ha Sam.
Oltre la faccia scavata, sulle guancie e sul collo, per via della gobba.
Nel mentre, tutti si erano voltati verso Arthur. Qual’era il lato positivo?.
“almeno sappiamo, cosa tiene nel suo capanno degli attrezzi” disse Arthur, con fare ovvio.
“giusto, ci nasconde il Whisky che non ha venduto” esclamo battendosi il pugno della mano sul palmo Frank.
“non credo, il suo capanno e pieno d’attrezzi da lavoro” risposi, risoluto.
Avevano, ora, tutti sguardi increduli. Infondo nessuno, si era mai avvicinato al suo capanno per vedere cosa contenesse.
Era sul limitare del suo terreno, costruito in un punto, dallo stesso Sam. Cosi da renderlo ben visibile, dalla sua casa. Tanto era difficile, avvicinarsi ha quel capanno in legno. Che era considerata una vera e proprio impresa, solo avvicinarsi ti ricopriva di onore per tutta la vita.
Perche sembrava, che in quel capanno. C’era qualcosa d’importante per Sam. Tanto che sorvegliava, e correva intorno ha chiunque si avvicinasse al capanno. Qualunque cosa fosse, era uno dei tanti misteri di Sam.
Mistero, indecifrabile.
“tu, ti sei avvicinato al capanno?” domando Frank, trattenendo il respiro.
“si” risposi, deciso.
“racconta” fece Rupert, incoraggiandomi.
Gli raccontai tutto, anche se non c’era tanto da raccontare. Quella volta ero cosi pensieroso, da non essermi accorto d’aver scavalcato la leggendaria staccionata di Sam. Quando giunsi, al racconto del mio correre per il suo terreno, con alle calcagna Sam col suo bastone impugnato come una spada, il gruppo inizio ha ridere a crepapelle. Sam era uscito di fretta dal suo capanno, era si anziano, ma aveva un orecchio cosi sensibile. Fu in quell’istante, che vidi cosa conteneva il capanno. Qualche rastrello, delle pale per scavare, una sega eccetera..eccetera.
Conclusi il mio racconto, con io che scavalco la staccionata e il vecchio senza denti, mi lascio scappare giù dalla collina.
“oh bhè, se tutti lo saprebbero saresti un eroe.” disse John, tempo fa piegato sulle ginocchia dal ridere.
Filammo per l’entrata della scuola, eravamo gli ultimi ad entrare. Visto che alle nostre spalle, non c’era nessuno.
“dovremmo provarci anche noi, magari riusciamo ha filare dentro il suo capanno” disse pensieroso Frank.
I quattro volti dei miei amici, si accesero in uno strano bagliore simultaneo. La prospettiva di questa avventura, li allettava tremendamente.
Con o svelto, stavamo inforcando i corridoi di scuola, diretti nella nostra classe.
“andiamo, volete scherzare. Non è divertente, prendersela con un anziano. Che è solo” intervenne greve Sophie, anche lei aveva colto lo strano brillio dei loro volti.
“invece lo è, se solo lo vedresti uscire dalla sua casa, sbattendo la porta d’ingresso….le sue urla, e quei grugniti, il suo bastone..hai ragione tu, non e divertente” smorzo il suo entusiasmo iniziale Rupert, notando il viso duro e irremovibile di Sophie.
Non era l’unico, ad esserne intimorito; notai.
Entrammo in aula, pronti ad ascoltare una nuova lezione.
Tutto sommato andò bene, avevamo solo un complicato tema di Italiano, e i soliti esercizi di storia per l’indomani.
Questi si andarono ad aggiungere, agli altri compiti di Scienze e Matematica. Ero sicuro, di non poter vivere un bel pomeriggio. Con tutti quei compiti, non mi sarei mosso da casa.
E le facce contratte dei rispettivi, Rupert, Arthur e John. Mi dicevano, che non ero l’unico a pensarlo.
“dai ragazzi, sono semplicissimi. Quello di Matematica, non ne parliamo. Una bazzecola” apostrofo la sua frase Frank, aggiungendoci uno sbuffo. Come ha dire, che altri erano i problemi della vita.
“allora, non ci vedrai nulla di male. Se ci darai una mano?” chiese Arthur, eravamo alle panchine nell’intervallo.
“certo che si Arthur, per chi mi hai preso” sbotto Frank, allibito.
Lui aiutava sempre i suoi amici. E devo dire che, senza il suo aiuto. Non avrei mai ato, gli esami finali per are alle superiori.
“questo pomeriggio, tutti ha casa di Frank” propose Rupert.
“sia chiaro, siete invitati anche voi” aggiunse Frank, indicando me e Sophie.
“era sottointeso Frank, loro fanno oramai parte della nostra combriccola” sintetizzo John, sempre disteso a terra, col suo cipiglio annoiato.
Sorrisi rivolgendomi ad una Sophie, felice quanto me da quella notizia.
Trovavamo all’inizio, molto strano sederci accanto a loro, su quelle panchine. Ma da quel giorno, non stemmo più in piedi, davanti ha quei quattro seduti dovunque vicino alle panchine. Quello infondo, divenne il nostro spazio, l’angolo di mondo che ci accoglieva solennemente. Ci venne naturale, una volta suonata la campana dell’intervallo. Riunirci lì, assieme a loro.
Sophie dopo quel sorriso rivoltomi, raggiunse una panchina, dove era seduto Rupert. E si sedette, incrociando le gambe. Era il rituale dell’accettazione, l’accoglienza dei nuovi coscritti. Quell’azione, era questo per me.
Frank, stavolta s’era appoggiato al reggischiena, con le gambe appoggiate, dove ogni tanto le distendeva. Li accanto c’era Arthur. Decisi di raggiungere John a terra, sul manto soffice del terreno erboso.
Strappai distrattamente qualche stelo d’erba, sorridendo di gioia, le ginocchia che sfioravano il mento.
“chissà cosa dirà mia madre, vedendoci arrivare” borbotto Frank, non sembrava minimamente preoccupato.
Nel silenzio che s’era creato, infondo quel momento era fondamentale, per la nostra amicizia. E in quei momenti, non si può fare ha meno di assaporargli col silenzio, carico di pensieri, e emozioni.
“probabilmente niente, ci dirà di andare sotto il gazebo” rispose distaccato John.
“ma tu John, non devi allenarti per la corsa campestre?” chiese Arthur, col suo timbro di voce squillante e eccitato.
John alzo il capo, dalla sua posizione comoda. Rivolse un sorriso affascinante, ad Arthur.
“in teoria si, ma visto che anche ha scuola mi alleno da solo. Non li faccio più qui” rispose John, schioccando le dita.
“cioè il maestro, non ti costringe ha venire qui per gli allenamenti?” gli chiesi, ero scioccato.
John faceva quello che voleva, e i suoi genitori glielo lasciavano fare, come se niente fosse.
“mio padre lo conosce da una vita. Sai no, come funziona” rispose John, anche perche tale maestro, era irremovibile su tutto. Insomma, ciò che diceva lui era legge.
“funziona, che hai un trattamento di favore” disse Sophie, un’po stizzita.
Ma John non disse nulla, infondo erano ate poche ore al ricordo, di come Sophie riesce ad emergere greve in tutta la sua altezza.
“si, hai ragione tu” convenne infine John.
“a proposito di corsa campestre, perche Scott non partecipi?” chiese Arthur improvvisamente.
Quella domanda mi sorprese, cosi diretta, con cosi tanta noncuranza.
“ah..mhh..io non ci ho mai pensato” risposi, di solito nelle ore di educazione fisica. Semplicemente mi nascondevo, non mi facevo trovare dal maestro in questione. Dubito appunto, che sappia della mia esistenza.
“ma tu non vieni mai alle ore di educazione fisica” intervenne John, alzandosi dal terreno.
Mi guardava come se fossi sul serio un pazzo.
“devi scusarlo, il padre di John insegna quasi tutti gli sport alle superiori, per lui religione è l’ora di educazione fisica” disse Rupert, innalzandosi solo con il collo e la testa da dietro la schiena di John. Ora proprio davanti a me.
“lui ama questa materia” s’aggiunse Frank, con una risata molto divertita.
“alla prossima verrò” promisi.
Parve rincuorato di questo John, tanto che torno ha terra sdraiato.
“cosa fai allora, durante quelle ore?” chiese Sophie, curiosa.
I cinque mi guardarono, attendendo la mia risposta.
“aah vado in giro” spiegai.
Frank cadde dal reggischiena al quale era appoggiato, cadendo ha terra di schiena. Rialzandosi quasi subito.
“vuoi dire che scappi da scuola?” domando lo stesso Frank, destabilizzato, anche un’po per la botta ricevuta.
“nessuno, sorveglia il cancello” fu la mia risposta, con semplicità.
Ed era vero, avo quelle ore fuori da scuola. Per strada, per me era cosi normale.
Sia John, che Arthur scoppiarono ha ridere mormorando: “nessuno, sorveglia il cancello” il primo continuava ha colpire in terreno con un pugno. Il secondo si dimenava sulla panchina, dov’era seduto.
Frank, mi guardava stranito. Per lui solo l’atto di scappare, mentre si stava facendo lezione. Era qualcosa di imperdonabile.
Quello che più mi sorprese, in quel momento. Fu lo sguardo, che si scambiarono Rupert e Sophie.
Essi vedevano, qualcos’altro in quell’azione. Un qualcosa che li preoccupò.
“non faccio nulla di male, so badare a me stesso” dissi, rivolgendomi hai loro sguardi preoccupati.
Sophie fece per aprir bocca, ma Rupert con un gesto gentile la zitti.
“lo sappiamo” disse solamente, stirando un sorriso sulle sue labbra.
Sophie ha questo punto, inarco le sopraciglia, rivolse un’occhiata a Rupert. Come ha dire:
“che hai intenzione di fare?” lo stesso Rupert, annui ha quest’occhiata.
Il suo sguardo, era molto eloquente, voleva dire: “lascia fare ha me”.
Cosi Sophie, lascio definitivamente perdere.
Di quella scena, sia Arthur, che John e Frank non la commentarono, ne ci aggiunsero altro era una cosa che riguardava, solo Rupert e Sophie, ed me in parte.
La camla di fine intervallo suono, richiamandoci definitivamente in classe. Rimuginai su quella scena, per tutte le ore di questa giornata scolastica.
Continuavo a chiedermi, cosa aveva fatto preoccupare Rupert e Sophie. “che cosa c’e che non va in me?” scrissi sul mio diario.
Me lo chiesi, finche qualcosa non richiamo la mia attenzione. Fuori dalla finestra, appollaiato su di un platano lontano. C’era uno scoiattolo, di quelli soliti abitare il bosco. Era grigio, pomposo e con striature bianche sul pelo. Sgranocchiava vorace, fra i due incisivi una ghianda.
Spettacolo che già avevo visto, alzai più su lo sguardo.
Notai il cielo, e le mie fantasie sul volo tornarono a distrarmi da tutto e da tutti.
Stavolta ero su un aeromotore, guidavo io. Avevo indosso gli stessi occhiali, che indossava Amelia. Portavo una divisa scura dell’aeronautica con parecchie medaglie al petto.
Volavo attraverso pareti scoscese di montagne altissime, i ghiacciai erano sotto di me. Stavo volando, sin dove arrivavano le aquile. Ed il panorama; all’orizzonte era magnifico.
Una radura, compatta e rigogliosa di un verde chiaro pazzesco. Solo una striscia sottile, rinvangava quella predominanza di verde. Era un fiume, tutto curve si faceva strada fra quel verde.
Piegai il volante in basso, scesi sin ha sfiorare con le ruote dell’aereo l’acqua limpida di quel fiume. Che sensazione fantastica, gli alberi mi sfrecciavano attorno, come delle figure scure e indistinte. Mi fecero sentire cosi vivo, o forse parte di un gran disegno. Che infondo, non capirò mai il suo utilizzo, ne la fine o l’inizio. So solo che esiste.
Sembro provenire lontana, la camla. Perfino il trambusto che ne seguì. Cosi come la voce di Sophie:
“andiamo subito a casa di Frank”.
Senza rispondergli, afferrai il mio zaino e gli seguì. Visto che l’intero gruppo, mi aspettava fuori dall’aula. Chissà cosa sarebbe successo, a casa di Frank. Forse un’aria felice e di unione sperai.
Fu questo a convincermi ad essere partecipe, alle loro chiacchiere per strada. Arrivammo, in men che non si dica ha casa di Frank.
Era una casa vecchio stile, il tetto spiovente, le mura esterne colorate di un gialli vivo, risaltava rispetto al grigiore umido delle case attorno. Era un giallo chiaro, simile ha quello dei canarini.
Un portico s’apriva sul davanti, comprendeva solo una vecchia cassapanca in legno. Frank che faceva d’apri pista. Apri la porta di casa, invitandoci da padrone di casa, gentilmente ad entrare.
Rupert e gli altri, fecero del resto come se fossero ha casa loro. Solo io e Sophie, fummo accorti al non esagerare. Come fece Arthur, che si intasco parecchie caramelle posate su un contenitore in porcellana, proprio dietro la porta d’ingresso.
Tutto sommato era una casa normale, come la mia. Solo che io, nel retro non avevo un gazebo in ferro battuto, ne avevo una staccionata, che delimitava il prato sul retro.
Frank ci mostro il seminterrato , e negli anni avvenire. Divenne da laboratorio per fabbricare razzi per Arthur, a luogo dove fumarci qualche sigaretta e bere qualche birra.
Dopo quella breve visita, al suo speciale laboratorio. Non mi sfuggi fra l’altro, il distillatore di Whisky. Poggiato su un tavolo, proprio al centro del seminterrato. La sopra c’erano tanti barilotti di vetro, pieni di polvere di vario colore.
Frank, infine ci porto sul retro di casa. ando per una porta finestra, dalla cucina. Il giardino di Frank, era immenso, se si contava il gazebo subito attaccato alle mura della casa, al capanno degli attrezzi, ed infine tutti quelle listarelle che costituivano la staccionata, impediva hai vicini di sbirciarci dentro. Capivi quanto quel giardino, si era grande, ed era molto curato. Ah dimenticavo, del piccolo albero, con un’altalena fatta con un copertone di un camion. Era un bel giardino, semplice come l’erba verde, tagliata che lo ricopriva.
Ci rimboccammo le maniche, per svolgere quell’ammasso di compiti che ci attendeva. Tutti seduti su delle sedie in plastica, disposte attorno ad un tavolo da sei sotto il gazebo.
Scherzavamo troppo sotto il gazebo bianco, non riuscendo ad essere abbastanza seri. Comportamento che si deve avere, quando si fanno i compiti ha casa. John e Arthur continuavano ha ridere, facendo battute su Frank, senza che questi si accorse delle loro allusioni scherzose.
Nel mentre, Sophie seduta accanto ha me. Tentava di aiutarmi coi compiti, sembro non notare la mia pessima calligrafia.
Anzi, non mi fece pesare tutti quei errori, li disseminavo dappertutto. Rupert, ben sapendo quello che stava facendo Sophie, con me, e che quindi era impegnata. Copio i compiti già svolti da Frank. Che, quando senti le battute di John e Arthur. Non volle far copiare, i suoi compiti hai due.
Non si accorse purtroppo che, Rupert li ava ugualmente gran parte delle risposte alle domande di storia.
Cosi in quell’atmosfera di dolce gioventù, per la prima volta in vita mia. Non ebbi difficoltà, a completare i compiti a casa.
Capitolo 6;
Pericolo.
La sera stessa, quando tornai a casa. Mi senti leggero, gonfio come un palloncino di Elio.
“dove sei stato?” chiese mia madre, vedendomi entrare dalla porta d’ingresso.
“da amici” risposi, cosi felice di poterlo dire ad alta voce.
“che io sappia, tu non hai amici. Sei cosi stupido..che non mi sorprenderebbe, se non combineresti nulla nella tua vita” proruppe mio padre, i pantaloni ancora sporchi del lavoro.
Capì che quell’aria, non faceva per me. Sparì per le scale, rinchiudendomi nella mia camera da letto.
Ecco, ogni qualvolta sono felice. Arriva sempre, qualcosa che mi riporta a terra. Quel palloncino gonfio di Elio. Si sgonfio in un sibilo, senza rumore.
Raggiunsi l’armadio dove nascondevo la pallina da tennis. Appoggiai la schiena alle traverse del letto, lanciai la palla contro il muro. Lasciandola rimbalzare una
volta sul pavimento, ed un’altra sul muro liscio e libero, poi ancora il pavimento, ed infine torno nella mia mano.
All’inizio facevo fatica ad intercettarla, alle volte mi sfuggiva dalle mani. Quando rimbalzo lontana dalle mie mani, mi rabbui con me stesso. Mi stavo alzando da terra, per andarla a prendere.
Quando senti distintamene in cucina, rompersi un bicchiere di vetro, o qualcosa di simile.
Caracollai giù per le scale, lasciando perdere la pallina. Proprio non avevo notato, dei capelli lunghi davanti alla porta d’ingresso. Andai invece in cucina, preoccupato per mia madre. Appena entrai dalla porta aperta:
“non preoccuparti, mi sono spaventata. Qualcuno ha bussato alla porta” disse mia madre, guardandomi appena. Per chinarsi, e sparire dietro il tavolo in legno, dove mangiavamo di solito.
Rimasi interdetto per un momento, mi svegliai solo quando senti mio padre fuori dalla stessa casa: “e tu chi diavolo sei?” a quelle parole, totalmente incuriosito. Mi spostai verso il corridoio dell’ingresso, solo allora notai chi c’era dietro il vetro, incastonato nella porta d’ingresso; era Sophie.
Ma che ci faceva qui? Mi domandai, annusando aria di pericolo. Apri la porta, prima che Sophie potesse rispondergli.
“e una mia amica” intervenni, il viso rosso di rabbia di mio padre, si notava perfino senza luce del sole.
Nella notte ancora giovane, vidi il viso di Sophie senza paura. Quasi ha sfidare, quello di mio padre. I due sembravano cosi decisi, a non abbassare lo sguardo, tanto che ha stento Sophie mi senti chiedergli:
“come mai sei qui?” col tono più garbato che conoscevo.
“hai dimenticato il tuo diario, a casa di Frank. Sono venuta ha restituirtelo” spiego Sophie, in effetti aveva il mio diario di scuola con se.
Arrossi quando mio padre, sbruffo disappunto dalle narici del suo naso adunco. Decidendo che quel gesto, era più che sufficiente ha commentare la presenza di Sophie sul portico; per mia colpa.
Attesi sin quando mio padre, entro in casa prima di parlare.
“non dovevi venire” dissi, sporgendomi verso di lei.
Sophie, mi rispose inarcando le sopraciglia. Nella notte appena visibili.
“ti ringrazio davvero, ma non potevi ridarmelo domani mattina” aggiunsi, comunque presi il mio diario dalle sue mani.
“ti accompagno” dissi, visto che Sophie fissava accigliata la porta d’ingresso alle mie spalle.
Evidentemente, non provava simpatia per mio padre. C’era d’aspettarselo, da come l’aveva accolta.
“ok” mormoro poco dopo, girando i tacchi.
Prima di rivolgere un’altra occhiata dubbiosa, verso la porta d’ingresso.
Mi permise di accompagnarla, sin al limitare del nostro terreno. Camminammo nel buio, visto che l’unica fonte di luce nell’arco di metri. Era una lampada, appena sopra la porta d’ingresso.
“in realtà, hai ragione tu..”
“mi capita, alle volte” risposi d’istinto.
Soffoco una risata Sophie, fermandosi proprio dove il manto d’asfalto della strada, confluiva sullo sterrato che portava verso casa.
Si volto, verso di me per guardarmi, gli occhi azzurri brillarono umidi, riflettendo la debole luce delle stelle.
“conti molto, per me..noi; voglio solo dirti che, non devi isolarti. Qualunque cosa succede. Tu, non sei solo. Promettilo Scott, non isolarti”
Giurai d’essere sul punto di piangere, sapere che ero importante e non solo per una persona. ( di certo Rupert sapeva, cosa avesse in mente Sophie. Quando ad un’ora cosi tarda, mi aveva riportato il diario dimenticato a casa di Frank)
“promettilo” continuo Sophie, afferrandomi per le mani. Le sue erano caldissime, le mie fredde.
In quel momento, al solo sentore delle lacrime. Avevo d’istinto abbassato la testa. Con quella presa sulle mani, non potevo far finta che Sophie non fosse davanti a me. In cerca del il mio sguardo.
“te lo prometto” giurai, prima di notare un sorriso incresparsi sulle sue labbra.
Mi abbraccio e sparì nella notte tenebrosa.
Tornai in casa, tenendo il diario in bilico nella mano destra. Non mi ricordavo, stranamente d’averlo tirato fuori dallo zaino, quando ero a casa di Frank. Al di là della mia innocente sbadataggine. Non ricordavo proprio d’aver usato quel diario. Quindi, come lo aveva trovato Sophie?.
Per avere una scusa, per venirti ha trovare. Disse una vocina, nella mia testa. See, ma figurati. Perche Sophie e gli altri, ci terrebbero ha farlo? Domando
scettica, un’altra voce. Quella più pessimista, fra l’altro. Perche sono tuoi amici, disse piena di speranza la vocina che aveva parlato per prima.
Seppur flebile, non potei non darle ragione. Quando col mio gioco d’equilibrio, su una mano. Qualcosa di tondo e luccicante, cadde dall’interno del diario. Per rimbalzare sulle assi del portico di casa. Chinandomi per raccoglierlo, non mi sfuggi lo stemma dell’aeronautica stampato sul davanti della spilla. Sorrisi fra me e me, mentre entrai in casa per la cena.
La mattina dopo, ero cosi felice e di buon umore che fischiettai specchiandomi sullo specchio del bagno. Le solite pulizie dentali e facciali, di ogni mattina. Afferrai lo zaino, già lasciato precedentemente sullo stipite del bagno.
Con una mano in tasca, uscì di casa. L’odore dei fiori, e quello forte del fieno. M’investirono in pieno, con la loro potenza d‘effusione. Non appena apri la porta di casa.
Era una mattina fantastica, dagli accesi colori, dal cielo di un limpido chiaro. Ispirai quell’odore nelle narici, saltellai i tre gradini del portico, e con un o leggero m’inoltrai per strada.
Le mie fantasticherie stavano cambiando. Ora velieri volanti, si aggiravano sopra la mia testa. Le vele spiegate, e la ciurma sulle cime.
Ci stava per essere uno scontro, fra un’altra nave…quando Sophie, irruppe nelle mie fantasie.
Apparve nella solita traversa, camminava col suo o energico verso me..
Intanto, i due velieri si davano battaglia. I cannoni sparavano, mentre le navi si disponevano in parallelo. La classica manovra, dell’abbordaggio.
Con delle corde, legate agli alberi. Alcuni pirati si lanciavano, da una nave all’altra. La battaglia mi coinvolgeva…eppure Sophie, era li affianco ha me.
Di certo non potevo ignorarla, non dopo quello che mi aveva detto ieri sera. Scrollai la testa, e la battaglia sopra la mia testa; cesso. Dissolvendosi nell’aria.
“ciao” la salutai, perche mi sembrava che Sophie. Mi avesse già salutato.
Infatti la stessa, non rispose al mio saluto. Camminammo per la nostra strada, in un silenzio assorto. Peccato aver fatto scemare quella battaglia, pensai.
“senti, io devo dirtelo Scott..”
“qualcuno di voi, mi ha preso il diario dallo zaino” era strano il suo silenzio, perfino per me.
“non ti scoccia, vero?” chiese, un’po sorpresa Sophie.
“no, e stato un bel gesto” risposi, cercando nella tasca dei pantaloni la spilla dell’aeronautica.
Sfiorai quel metallo freddo, e mi dissi che, non c’era niente di male. Se qualcuno, mostrava amicizia nei miei confronti.
“meno male” respiro a fondo Sophie.
“la mappa, come sta vedendo?” le domandai, ripensando al bel veliero sopra la mia testa.
“bene, anche se vorrei completarla al più presto possibile” rispose Sophie.
“perche?”
“non amo, le cose lasciate a metà” spiego Sophie, accettando tutto con un vivo sorriso.
“stavi facendo uno dei tuoi sogni ad occhi aperti?” chiese Sophie, subito dopo.
Sfido i miei occhi, solo per un istante. Divertita torno, ha sorridere. Quella scena, in più quel bel giorno.
M’ispirarono buon umore, tanto che mi arrischiai ad uscire dal mio guscio protettivo. Dove l’io più vero, sempre si nascondeva.
“c’erano due velieri” dissi, annuendo alla sua domanda.
Sembro parecchio interessata Sophie, mi chiese solo con lo sguardo di continuare ha raccontare. Cosi le raccontai per filo e per segno. Le conciliate non che complicate, fasi di abbordaggio. Finche per lo meno, tutto cesso all’arrivo di Sophie. E il mio racconto fini, mi ritrovai senza niente da dire. E profondamente imbarazzato.
“ti sei fermato, perche mi hai visto” osservo dopo qualche o Sophie.
Annui ancora.
“non puoi continuare comunque?” chiese quasi subito Sophie, come se volesse sapere a tutti i costi come la battaglia finiva.
Notai il suo sguardo, non potevo lasciarla cosi, ha metà fantasia. Dovevo concluderla in qualche modo. Chiusi gli occhi per qualche secondo. E l’immagine dei due velieri, mi torno in mente..
“il capitano dei pirati, si trova al timone della sua amata bagnarola. Sta vedendo che i suoi uomini stanno perdendo, dal cassero di poppa. Nessuno riesce ha salire, sul ponte dell’altra nave..una nave del governo. Cosi il capitano rapido, decide. In un istante, o vita, o infinita gloria nel morire combattendo, urlo. Ruoto
il timone tutto a sinistra. Le due prue, sbattono fra di loro, e si incagliano. Tremendi scossoni, si ripercuotono in tutte due le navi. I pirati, alla vista dello squarcio sulla prua dei nemici. Si rivitalizzano, e continuano il loro assedio. Finche alcuni soldati, si arrendono lanciandosi giù dalla nave..cosi il pirata, ebbe un’altra importante vittoria da cui celebrale” conclusi, da tempo avevo aperto gli occhi.
Ma sembrava che non potessero vedere la strada davanti a me, no. C’era solo un veliero distrutto che lentamente, si stava inabissando. E un altro che ha largo, proseguì la sua folle avventura.
“whauu bella storia” commento entusiasta Sophie, sembrava anche lei vedere ha largo i due velieri. Uno oramai inghiottito dalle acque, l’altro una macchiolina indistinta a largo.
“ragazzi che vi prende?” chiese Arthur, schioccandoci davanti hai nostri visi le sue dita.
Tornammo in noi, quasi subito. Attorno ha noi, c’erano tutti e quattro i nostri amici. Ci guardammo curiosi. Non mi senti, comunque di raccontargli quella storia. Lo capì, ad una mia occhiata Sophie. Che anzi, si affretto ha inventare una bugia.
“stavamo pensando alla mappa” disse affabile.
“alla mappa?” chiese vacuo Frank, rivolgendo lo sguardo da Sophie a me. Come ha chiedermi conferma.
“cercavo di ricordarmi, tutti i posti che conosco” risposi, copiando lo stesso tono di Sophie.
E la discussione, cesso d’esistere. Anche perche Arthur, propose di andare ad esplorare il bosco, quello stesso pomeriggio.
Ci dicemmo tutti d’accordo, basto solo una occhiata per metterci d’accordo.
Fu forse quella storia, una delle poche cose che condividi solo con Sophie. In quei giorni, non c’era nulla che l’altro ci nascondeva.
Ci ritrovammo pochi minuti dopo, davanti all’entrata di scuola. Già sapevo, cosa avesse combinato Arthur, al gatto dei vicini. O di come John, aveva stracciato in corsa campestre un ragazzino promettente, nel campo d’atletica. O di come la madre di Frank, aveva avuto ottime impressioni su di me e Sophie.
“forse i miei, partono per la montagna” esordì Rupert, quando ancora Arthur si stava lanciando nella descrizione, precisa di come avesse riempito la cesta di vimini, dove dormiva beato il gatto dei vicini. E di come infine lo stesso, era saltato in aria per lo spavento, del botto che ne consegui.
“figo, mi manca la tua piscina” disse John, i suoi occhi luccicavano per un istante.
Colsi solo, per un attimo il sorriso smorzato di Rupert, prima che egli parlasse
ancora:
“potete venire tutti, però ancora non so quando partono”
“oh bhè Rupert, noi non e che scappiamo” disse in modo sarcastico John.
“già sai dove trovarci, nel caso” aggiunse Arthur, strizzandoli l’occhio.
Filammo tutti in classe, semivuota. Coma al solito, prima che arrivasse la solita maestra di Geometria. Controllo i nostri compiti, per mia fortuna non controllo i miei. Temevo gli avessi sbagliati, anche con l’aiuto di Sophie.
La giornata scolastica, fini come era iniziata. Col buon umore ancora, sparso in tutto il copro.
Ed eravamo solo noi sei, ancora per strada. Stavamo correndo verso il bosco, senza compiti per il giorno successivo. Visto che era sabato, mollammo gli zaini alla radura dietro la curva della strada.
Le nostre esplorazioni, erano uniche. Chiacchieravamo felici, sotto quei alberi. E visto che, non avevamo le radioline con noi. Ci spostammo in gruppo, io capofila.
Li stavo conducendo al rigagnolo, o cosi come lo chiamava Sophie.
Il luogo in se, era facile da trovare. Bastava dirigersi, nell’entro terra del bosco.
Svoltai attorno, ad un grosso tronco di quercia alta. Quando Rupert, si stacco dal gruppo nelle retrovie. Per raggiungermi, una pacca sul braccio mi segnalo la sua presenza. Non lo avevo ringraziato ancora, per la spilla.
“devo ringraziarti” dissi, saltando una radice, troppo esposta dal terreno di quella quercia.
“non so di che stai parlando” rispose, accigliandosi in modo eloquente.
Sorrisi, non c’era nient’altro da dire. Ne Rupert, avrebbe accettato i miei ringraziamenti.
“non dista molto” dissi, solo a Rupert per rassicurarlo.
“hey fratello, la camminata e lunga” attacco Rupert, una canzone che conoscevo a mala pena, ma che da li ad due giorni, sapevo ha memoria.
“i sassi, sul sentiero spento..” proseguì Arthur, alle nostre spalle.
Mi prese per le spalle Rupert, cantammo assieme solo noi. Per quanto mi riguarda, solo qualche sonetto. Per il resto improvvisavo, leggendo dal labiale di
Rupert. Solo poi si aggiunsero gli altri.
E con quell’aria di allegria, e giovinezza cantante. Rupert mi guardo in viso, sembro dirmi:
“che va tutto bene”
Finalmente il rigagnolo, si parò dietro un cespuglio di rovi secchi. L’acqua placida, bassa abbastanza da vedere il fondo.
“d’estate è sempre bassa, ma in inverno raggiunge quell’altezza” dissi, ha un Rupert che alla vista dell’acqua. Aveva tolto il suo braccio, attorno al mio collo.
Si stava calando, per l’argine rialzato, e arido di quel fiume. Erano pochi metri, per arrivare all’acqua del rigagnolo.
Ne immerse una mano, curioso.
“com’è, fredda?” chiese John, sporgendosi dalla sponda. Per rivolgersi ha Rupert, di sotto.
“un’po, comunque e molto limpida” studio ancora il fondale, la punta della sua scarpa destra sfiorava il pelo dell’acqua. Che proseguiva lenta, inesorabile col suo sciabordio.
Eravamo sull’argine più spoglio, dall’altro lato altri alberi crescevano, e sembrava fossero vivi, la loro unica attività. Era quella di tenerci i loro occhi, puntati addosso. Dovunque andassi, quei tronchi ti mettevano in soggezione. Come un esercito accampato al di là della collina, attendevano i momento opportuno per attaccare.
I pochi vicino alle due sponde, si congiungevano coi loro rami. Se li guardavi dal basso, assomigliavano ha dita protratte in avanti, per afferrare al volo quanti più raggi solari possibili.
Altra terra secca, venne smossa quando Sophie, raggiunse Rupert.
Guardandosi ha destra, e ha sinistra.
“sai dove inizia?” mi chiese, ero ancora sull’argine lontano.
Accanto a me, John e Frank. Arthur aveva raggiunto Rupert, pochi secondi dopo l’arrivo di Sophie.
“no” risposi, guardai alla mia destra.
Visto che l’acqua di quel fiume scorreva, verso sinistra. Dove curvava dolcemente, per essere inghiottita dall’oscurità fitta del bosco.
“bhè scopriamolo, no. Anche se non credo, la fonte arrivi da fuori città” osservo Frank, osservazione che fra l’altro illumino il viso di Sophie.
I quattro amici, si guardarono. Subito dopo guardarono me. Alzai le spalle, la fonte di quel fiume, era un mistero anche per me.
Senza aggiungere altro, seguimmo il corso del fiume al contrario. Arthur, Rupert e Sophie camminavano in fila indiana sulla sponda del fiume. Io, John e Frank, camminavamo sull’argine.
Arthur durante il tragitto, fischietto la canzone, cantata un attimo fa. Sophie si guardava attorno, ero sicuro che stesse mandando ha memoria, quei luoghi e i segni particolari.
Ciò che facevo io, in quel bosco per orientarmi. Sophie, stava imparando dal maestro.
Solo che, più seguivamo il fiume, più mi sembrava che il bosco ci stesse inghiottendo. Gli alberi da radi, si fecero più folti. Iniziavano ad crescere in modo esponenziale, come le loro radici affioravano dal terreno come piccoli arbusti. Alcune di queste, erano abbastanza grosse da non poter essere scavalcate con entrambe le gambe, ma solo lasciandosi scivolare prima una gamba e poi l’altra.
L’oscurità iniziava ha scendere, non perche stava tramontando. Quello era solo la conseguenza, dei rami nodosi di quei alberi; tutte quelle foglie ricoprivano il cielo sopra noi.
Come se stessimo guardando quel cielo, sotto una coperta.
Raramente raggi solari avano, e assumevano l’effetto che si ha. Proprio quando ci si nasconde, sotto una coperta di lana. Le maglie dove si congiungono i fili, mostrano dei piccoli spazzi vuoti. Ecco, questa era la nostra coperta, distesa su quel bosco. Una coperta di foglie, clorofilla e resina.
La stessa aria, sembrava far fatica ha filtrare, attraverso tutto quel fogliame. Ci inoltrammo sempre di più, seguendo il rigagnolo. Metro dopo metro, sembrava rimpicciolirsi. Tanto da divenire, un debole filo d’acqua.
“non mi piace” mormoro John, aveva paura.
E non era il solo, quell’atmosfera metteva i brividi. Perfino gli animali, evitavano quel luogo. O per lo meno, i loro versi non si sentivano in quel posto.
“cosa diceva, il tuo oroscopo oggi?” chiese Frank, sentivo i due parlare alle mie spalle.
Un tempo Frank, o Arthur avrebbero preso sul ridere, questa parte del carattere di John. Ma i due, in quel momento, di scherzare non ne avevano il coraggio. Si guardavano attorno, come se i loro più oscuri incubi. Abitassero in quel bosco.
Solo Rupert e Sophie, non mostravano di provar paura. Io del resto, seppur l’ambiente attorno. Non era certo quello più confortante, mi fidavo di quel
bosco, in tutti questi anni mi aveva protetto, accudito quando nessuno l’aveva fatto.
“diceva niente, tranne che hai gemelli. A loro capiteranno cose brutte” rispose John, la sua voce per l’effetto ovattato del bosco. Era calata, sin ad arrivare, ad un flebile lamento.
“nessuno di noi e dei gemelli” mi rivolsi a quei due, ero certo che nessuno fosse dei Gemelli.
Sophie, era dei Pesci. Io Sagittario, Arthur Toro, Rupert Leone, John Acquario, e infine Frank era della Vergine. Nessuno di noi era dei Gemelli.
“giusto John, nessuno di noi e dei Gemelli” rispose Frank, rassicurato da quella notizia.
Anche lui era arrivato alla stessa mia conclusione.
“oh mio dio” grido Arthur.
Temendo il peggio, mi sporsi dall’argine. Non fui l’unico, preoccupati com’eravamo. John perse l’equilibrio, nella fretta di sporsi, rotolo giù dall’argine. Il solo Rupert, riuscì ha fermare il suo rotolare. L’aiuto ad alzarsi quasi subito.
Frank ha questo punto mi lancio un’occhiata: “scendiamo” sembro chiedermi. Annui, un attimo dopo eravamo sotto. Mentre John, lentamente si puliva i pantaloni. Li chiesi, se si era fatto del male. Questi abbozzo un sorriso, mormorandomi che: “ci vuole ben altro, per farmi male”
“si, può sapere perche Arthur, hai gridato in quel modo..ooh” si blocco John, lui come me non aveva notato quella specie di bocca rocciosa, che si faceva strada dal terreno sottostante. Dove gocciolando usciva, quel flebile rigagnolo.
Era uno spettacolo spaventoso, perche dentro quella bocca l’oscurità sembrava regnare.
Nessuno tra Rupert, o Frank, o Arthur sembrava voler parlare. Fissavano spaesati, quella bocca rocciosa. Spuntava dal terreno, come se prepotentemente avesse lottato per millenni col terreno, prima di poter vincere facile, e affiorare totalmente dal terreno.
Era innaturale quello spettacolo, eppure di per se quella bocca ci attirava. Un rumore di ramo spezzato, ci fece sudar freddo, il cuore mi balzo in gola allarmato.
“scusate” disse Sophie, e perfino la sua voce sembrava innaturale nel suo perdersi nella cavità di quella bocca.
“aspetta” le dissi, visto che Sophie si era troppo avvicinata alla bocca rocciosa. Sembro un grido d’allarme, quello che usci dalle mie labbra.
L’aveva notato perfino Rupert: “questo non è posto per noi” le disse, riuscendo non so come ha rimanere calmo.
Era la mia peggio paura, essere risucchiato dall’oscurità totale, e di non poter più vedere la luce.
“e solo una caverna” disse Sophie, non era spaventata minimamente da quel posto.
“potrebbe scendere ha strapiombo” osservo Frank, allungando il collo verso la caverna.
Rimanendo però fermo, ha pochi centimetri da quell’apertura.
“non credo” rispose Sophie, scrutando da vicino, molto vicino l’oscura cavità di quella grotta.
Ed ancora, avanzo di un altro o verso quella cavità. Arrivando dove la roccia iniziava, aveva vinto sul terreno, si isso su una specie di scalino rugoso. Si stava avvicinando troppo, ha quella oscurità; mi dissi. E non ero l’unico, ha pensarlo. Il solo Rupert, era in allarme quanto me.
Ci guardammo entrambi, annui hai suoi timori.
“senti Sophie, possiamo ritornarci domani con delle corde, e qualche lampada”
le dissi, sperando di riuscire ad allontanarla da quell’oscurità.
“Scott ha ragione, Sophie se magari scivoli e cadi. Noi non potremmo salvarti, almeno non subito” osservo Rupert, eravamo una squadra io e lui.
“io ho delle stelle di fuoco, se volete” mormoro Arthur, proprio quando Sophie si stava allontanando dalla cavità rocciosa.
“fantastico Arthur” rispose Sophie, rivolgendoci un’occhiata sprezzante.
Lei ha quanto sembra, non provava nessun timore. Mentre sia io che Rupert, lanciammo un’occhiataccia al povero Arthur, che venne incenerito all’istante. Quando ci o accanto, trafficando con le mani nelle tasche dei pantaloni. Ne riemerse poco dopo, con otto stelle di fuoco e un accendino zippo.
La sola Sophie, aiuto Arthur ad accendere quelle stelle. Rivolsi un’altra occhiata a Rupert, lo stesso sembro rispondermi che non c’era oramai, niente da fare. Sophie, non ha mai lasciato le cose ha metà, in tutta la sua vita. John e Frank, rimasero interdetti quando infine sia Rupert che io, ci avvicinammo ad Arthur e Sophie, vicini alla cavità.
“devi comunque spiegarmi, perche lo fai. Cosa ti incuriosisce?” chiese Rupert, sporgendosi con un piede oltre lo scalino rugoso di pietra.
“voglio solo sapere se ho ragione” rispose Sophie, stella alla mano e accesa.
Si avvicino ha Rupert, per lanciare la stella dentro la cavità. Le scintille spruzzanti da un’estremità, illuminarono una specie di tubo liscio, che scendeva dolcemente ancora più giù nel sottosuolo. La totale assenza di stalattiti o stalagmiti, mi fece pensare ad una falda acquifera. E quando Arthur, mi o un’altra stella spruzzante con tutte le sue scintille. Entrai nella caverna, al mio braccio si aggrappo subito Sophie. Finalmente capì perche quella caverna era cosi interessante per Sophie.
“vuoi solo sapere se hai ragione, vero. Credi che questa sia una falda acquifera?” le chiesi, anche se già sapevo la risposta.
“esatto” rispose Sophie, aggrappata ancora al mio braccio.
Un debole fascio di luce, illuminava solo pochi centimetri di roccia davanti ha noi.
Sapevamo che gli altri quattro, erano subito dietro di noi. I loro i, rimbombavano in quelle pareti concave e lisce. Oltre al rumore di i, in lontananza si sentiva il gocciolio costante dell’acqua.
Dopo quella leggera discesa all’inizio, la caverna proseguiva perfettamente dritta. Seppi che ci stavamo allontanando troppo da casa. E la cosa, come già mi capitò una volta; non mi preoccupo.
Avevo cinque amici, su cui contare. Sapevo che dentro quella caverna, non poteva succedermi niente di dispiacevole.
Nessuno sembro voler rompere quel silenzio, la caverna non solo ci aveva inghiottiti. Ma, aveva fatto si che non avessimo pensieri. Quello che più ci importava, era vedere dove mettevamo i piedi.
Le scintille di quelle stelle, iniziavano a cadermi sulla mano. Scottandomi appena, quel calore era poco doloroso. Solo, dava fastidio.
“Arthur ce ne serve un’altra di quelle stelle” parlo per me Sophie.
Mentre la stella che avevo fra le mani, la lanciai poco più avanti. Cosi almeno da avere il percorso illuminato, solo per qualche momento.
Accadde in un attimo, quando notai che la stella scese ancora più giù, quando invece doveva essere sul nostro stesso piano. E non si fermo, scese ancora. Per fortuna che avevo ancora attaccata al braccio Sophie. Mi bloccai istantaneamente, cosi anche Sophie. Per quello strattone, quasi rischio di cadere in quel buco.
“whuuuu c’e mancato poco” mormoro Sophie, ebbe il tempo di finire la frase quando da lontano dei i in corsa provennero dalle nostre spalle.
“Arthur no..”
Swamm, Arthur c’era caracollato addosso. Facendoci scivolare in quel buco. Fu la prima volta, che pensai di poter morire.
Delle immagini indistinte, mi ronzavano attorno. Ogni tanto dei capelli biondi, irruppero nella mia visuale. Stavo cadendo nel vuoto, ma non a peso morto. Il nostro più che cadere, era uno scivolare. Chiusi d’istinto le braccia, le portai al petto. Tentai di stabilizzare, la folle discesa. Fini, solamente col aumentare la velocità d’avanzamento. Chiusi gli occhi, senza sapere cosa mi sarebbe successo.
Quando un rumore sordo, di un copro che ferma la sua corsa, provenne ha poca distanza da dove ero io.
Temetti per la vita di Sophie, e prima di riuscire ha gridare il suo nome.
Venni lanciato, fuori da quello scivolo. Dei sassi cozzarono, contro le mie gambe, alcuni di questi erano anche appuntiti. Fin quando coi piedi, non andai a sbattere contro una parete. La stessa proruppe, lo stesso suono di prima. Era li che Sophie, era andata ha sbattere.
Qualcosa nella mia testa scatto, mi alzai subito. Scoprendo che la mia testa, vorticava come se fosse ancora nello scivolo.
Barcollai per un istante, prima di riuscire ha scorgere Arthur, uscire ha velocità sostenuta dallo scivolo. Non ci pensai due volte, sporsi un braccio verso lui..e in qualche modo, riuscì ad fermare la sua folle corsa.
“tutto ok” dissi, quando lo aiutai ad alzarsi.
Non lo guardai in faccia, cercai Sophie doveva essere per forza li con noi. Temevo il peggio, che non si fosse fermata. Che Sophie, aveva continuato ha scendere, e scendere ancora sin al centro della terra.
Tornai a respirare, quando notai la stessa seduta su una roccia quadrata e increspata. Si teneva, dolorante il ginocchio destro. Stava perdendo sangue, corsi subito da lei. Volendomi sincerami che stesse bene.
“fammi vedere” le dissi, prendendoli delicatamente le sue mani premute sul ginocchio.
Sophie obbedì, vidi il taglio era di cinque centimetri o poco più, sangue caldo affiorava dalla ferità. Seppi quello che dovevo fare: “Arthur” chiamai, due i alle mie spalle mi dissero che Arthur era li, pronto ad aiutarmi.
“tieni, premi forte contro la ferità” le dissi, dandoli un fazzoletto di lana che non usavo mai, e che di solito veniva dimenticato nella tasca dei jeans, sul davanti.
“Scott..” rispose in lacrime, Arthur.
“tranquillo, non hai fatto niente di male. O solo bisogno, che tu lo faccia” cosi dicendo, li premetti le sue mani sul ginocchio di Sophie.
“e tu dove vai?” domando Sophie, al posto di Arthur.
“ha cercare dell’acqua, dobbiamo pulire quella ferità prima di tutto” risposi, mi guardavo solamente attorno.
Se quella era una falda acquifera, di acqua c’e ne era in abbondanza.
“allora portati Arthur, con te” rispose Sophie, quando oramai mi stavo allontanando, da dove erano i due.
“Scott, mi hai sentito!” aggiunse Sophie.
“si, ma non ti lascio sola” risposi, mentre mi stavo infilando in un apertura non poco vicino da dove eravamo scesi.
Potetti solo costatare, che scendeva ancora più giù di quanto già non lo fossimo.
Proseguì il mio cammino, senza aver paura. La semioscurità, mi costringeva a camminare attaccato alla parete rocciosa. Proseguì a tentoni in quel tunnel, come quello precedente sembrava privo di difetti, era liscio come un tubo per l’acqua. E ciò, mi fece sperare per il meglio.
Camminai ancora per poco, prima di notare che il mio piede sinistro, toccava solo l’aria, strabuzzai meglio gli occhi. Quello che riuscì ha vedere, era solo oscurità.
Mi appoggiai meglio alla parete, e col piede sinistro scesi fin quando, la punta
dello stesso piede tocco dell’acqua. Più o meno, a pochi centimetri più in basso da dove ero ora. Mi tolsi la maglietta a maniche corte. Rapido la immersi completamente nell’acqua, quando fui sicuro che fosse bagnata al punto giusto. Corsi indietro, bastarono pochi secondi prima di ritornare alla luce.
Quello che più mi preoccupava in quel momento, era Sophie. E non la presenza di quella luce, e di quei massi tutt’attorno. Notavo solo Sophie, sul masso quadrato e liscio. E Arthur in ginocchio, davanti alla stessa.
Corsi da loro, con la mia maglietta zuppa d’acqua. Sophie mi noto quasi subito.
“già di ritorno” disse, forse grata di riavermi li.
Annui, posando una mano sulla spalla di Arthur che smise di premere col mio fazzoletto, sulla ferita di Sophie. Tolse con delicatezza Arthur, quel fazzoletto. Dispiaciuto per ciò che aveva combinato.
“ottimo lavoro” li dissi, per tirargli su il morale.
Cosa che stranamente funziono, perche Arthur mi sorrise.
“chiamo gli altri magari, riescono ha sentirmi” disse speranzoso, avvicinandosi all’uscita di quello scivolo.
Quando lo stesso fu lontano, Sophie parlo:
“e stato divertente..ah” sussulto di dolore Sophie, quando poggiai la maglietta bagnata sulla ferita.
“scusa” li mormorai, pulendoli la ferita piano.
“dovremmo rifarlo, un’altra volta” continuo Sophie, come se non fosse stata interrotta.
“si, e stato uno so” risposi, e di per se, era vero.
Dopo la paura della caduta, quando avevo capito che non mi sarei sfracellato al suolo. In me s’era fatta avanti l’adrenalina, ed infondo allo scivolo l’ilarità. Non so come poterlo spiegare meglio, ma ero calmo, felice in qualche modo. Come se non potessi, mai più provare dolore, e paura.
“efedrina” disse Sophie, pensavo stesse delirando per il dolore, o la paura di essere bloccati in quel posto.
“che?” li chiesi, stavo finendo di pulirli la ferita.
Ero troppo concentrato, per accorgermi che stava ridendo.
“efedrina, la sostanza calmante. Il corpo la rilascia, quando si fa uno sforzo
fisico eccessivo. O in alcuni casi, con la paura o una forte emozione” spiego Sophie, mi chiesi come faceva ha sapere queste cose.
Non glielo chiesi, ora stavo piegando la mia maglietta, cosi che la parte sporca. Quella che avevo usato, per pulirgli la ferità. Stesse all’esterno, mentre all’interno. Dove avrebbe poggiato sulla ferita ancora aperta, era pulita.
“devo stringere un’po” le dissi, andoli attorno alla gamba la mia maglietta. La feci are, attorno alle sue secche gambe per una volta, appena sotto il ginocchio.
“d’accordo” rispose Sophie.
Quando presi i due lembi, per farci un nodo stretto. Non disse nulla Sophie, nemmeno quando strinsi forte.
“pessimo giorno, per mettersi in pantaloncini corti” disse invece, scatenandomi delle risate allegre.
Solo in quel momento, alzai lo sguardo dalla sua gamba ferita.
Eravamo in una caverna, vera è propria. La stanza rocciosa, assomigliava hai tipici corridoi che portano ad altre stanze. Altre aperture correvano attorno ha quelle pareti, alcuni aggi, erano cosi stretti che nemmeno Arthur, se si chinasse non sarebbe riuscito ha arci.
Era una stanza comunicante, e la presenza di quelle rocce, nell’esatto centro mi fecero scoprire la presenza di luce in quella caverna.
“sembro che in tetto sia crollato” disse Sophie.
Mi alzai circospetto, mi piaceva quella caverna. Era un ottimo rifugio, difficile che mio padre. Mi sarebbe venuto ha cercare qui.
Ed era cosi grande, molto più grande della villa di Rupert. Sia in ampiezza, ma soprattutto in altezza.
Piante rampicanti tendevano i loro rami, oltre quell’apertura calando per alcuni metri dentro quella caverna.
Il cumolo di massi, poteva aiutarmi ha raggiungere quei rami. Mi issai su una pietra parecchio grande, se mi sarebbe crollata addosso, mi avrebbe come minimo rotto una gamba. Fu facile, arrivare in cima.
Ma anche da la sopra, quelle rampicanti erano più in alto, di qualche spanna.
Mi alzai in punta di piedi, allungandomi più che potevo con le braccia. Le mie dita, sfioravano quei rami. In precario equilibrio, tentai di tendermi ancora di più. Ma ogni volta che toccavo quei rami, essi come animati da vita propria, si spostavano da tutt’altra parte. Poi con somma fatica, riuscì a stringere una mano attorno a quel ramo.
Appena mi abbassai con i piedi, quel ramo non tenne il mio peso. Si srotolo ha terra, inutile.
Sbruffai, soffocando un’imprecazione. Alzai lo sguardo, altri rami simili come quello, che era appena caduto, proruppero da quel buco. E se tutti, erano cosi flessibili..
Un rumore di pietre cozzanti su altra pietra, mi riporto alla realtà. Era Sophie, che si era alzata ha fatica dalla sua seduta liscia. La guardai, mi guardava in un modo intenso. Come se mi stesse dicendo:
“sono con te, mi fido. Dimmi solo cosa posso fare” mi disse questo Sophie, la faccia dura, contratta, la tempra forte.
“se riesco ha prenderne abbastanza, possiamo farci una corda” dissi, deciso.
Al momento, quella era l’unica soluzione venutami in mente.
“d’accordo, io le intreccio” rispose Sophie, afferrando il ramo sottile del rampicante da terra.
“Arthur” chiamo Sophie, più in basso da me.
Usci fuori dallo scivolo Arthur, aveva le ginocchia scoperte sbucciate. Come se avesse tentato, di scalare quello scivolo, non riuscendoci.
“si?” grido, e la sua voce venne amplificata rimbalzando dalle pareti.
“sei riuscito ha chiamare gli altri?” chiese Sophie.
“si, gli ho detto che stiamo tutti bene” rispose affermativo Arthur.
“digli di tornare indietro” disse Sophie, indicando con la mano l’apertura sul soffitto.
“costruiremo una corda, loro ci posso aspettare là” aggiunse, e Arthur da buon soldato, riferì subito.
Afferravo quanti più rami alla volta, li lanciavo alle mie spalle. Dove sapevo che Sophie, seduta a terra, intrecciava con quanta rapidità poteva. Arthur l’aiutava, mettendosi dall’altra estremità.
Bastarono dieci minuti, prima che la corsa prendesse forma. Altri venti, che le urla di Rupert, e gli altri scesero dall’apertura del soffitto, o pavimento per loro.
“siamo qui Rupert” urlo Arthur, alzando il naso all’insù.
Erano tutti e tre là, scorgevo la chioma bionda e distinta di Rupert, e altre castane. Il loro sorrisi, stirarono le loro facce tese. Ora che potevano vedere, coi
loro occhi quanto stavamo bene.
“il piano qual è, come fate ha risalire?” domando Frank, la sua voce si perse al di là della vastità del bosco alle sue spalle.
“vi lanciamo questa corda, e voi la legate attorno ha un albero” rispose Sophie, seduta ha terra.
La gamba ferita, stesa davanti ha se.
“d’accordo” rispose John, staccando con uno strattone forte, la rampicante che cercavo di afferrare, e lasciandola cadere nel vuoto, inerme.
A mia volta, la posai dove Sophie stava ancora intrecciando le prime. Un’altra mezz’oretta, e la corda era pronta. Sembra incredibile, eppure avevamo trovato un modo per uscire da quella caverna.
Ricordo il fatto d’essere restio, ad andarmene. Quel posto, poteva diventare il rifugio. Che tanto, mi serviva per potermi nascondere. Una seconda casa, dove sentirmi al sicuro. Perche pochi sarebbero, cosi stupidi da entrarci.
“Scott, gliela puoi lanciare..la corda!” sembro parlare, epoche addietro Arthur.
Tornai in me, lasciando perdere per un attimo le pareti rocciose, tutti quei tunnel, o perfino l’acqua che scorreva li vicino. Afferrai la corda dalle mani di Sophie,
me la porgeva gentilmente.
Una volta presa un’estremità, la lanciai con tutta la forza che avevo, per aria, dove un astuto John uso un ramo secco per afferrarla. Spari non appena ebbe preso quella corda John, per nostra fortuna abbastanza lunga. Da poterci issare su senza problemi, era lunga al punto giusto da sfiorare quei massi. Ci muovemmo solo quando John fece segno ha Rupert, che con un cenno affermativo. Mise il via, alla scalata.
Parti per primo Arthur, mingherlino, fece fatica e più, più volte lo vidi sul punto di rinunciare alla salita. Non lo notai solo io, Frank e John incitavano Arthur come meglio potevano. Rupert, si sdraio a terra ha pancia in giù, mezzo busto sporgeva dal buco sul soffitto. Sorridevano, incoraggiante all’indirizzo di Arthur ha pochi centimetri, dalla sua mano tesa.
Fu una fase concitante, mentre Rupert e gli altri issavano Arthur per quei pochi centimetri. Devo ammetterlo, fu un lavoro di squadra; eccezionale.
Mi voltai a guardare Sophie, ora toccava ha lei. Non ero sicuro, che c’e l’avrebbe fatta.
“c’e la faccio, non ti preoccupare” mormoro Sophie, andomi accanto, zoppicava un poco.
E con un balzo, si isso sulla corda che rapida si drizzo tesa. Con enorme sforzo, Sophie avanzo sulla corda. Oscillando paurosamente, fu per questo che bloccai la corda tenendola con una mano.
Almeno ora, non oscillava più, sospirai. E come Arthur poco prima, Rupert e la sua mano aiutarono Sophie ha salire.
Respirai tranquillo, erano tutti salvi. Infondo, era proprio quello che volevo.
Rupert col pollice in alto, mi disse che ora toccava a me salire. Volsi un’occhiata attorno, sicuro che quel posto forse non l’avrei più rivisto.
A torso nudo, mi issai con braccia e gambe sulla corda. Gli addominali ancora non del tutto sviluppati, lavoravano come mai avevano fatto. Braccia, s’impegnarono come potevano. Le gambe assecondavano quei movimenti. Automatismi, vincenti.
Non guardai indietro, sapevo che l’altezza mi avrebbe impedito di concentrarmi sull’obbiettivo finale, salvarmi. Cosi guardai solo in avanti, dove la mano di Rupert. Era il salvagente, lanciato al naufrago. Fui al sicuro, quando strinsi la mia mano nella sua. E lentamente, con uno sforzo congiunto toccai il terreno.
Madido di sudore, crollai a terra, stanco.
Ripresi il fiato, come stavano facendo Arthur e Sophie, che nella caverna aveva dimostrato tempra forte. Notai il colore bianco, delle facce di Frank e John, tornare lentamente al colore roseo di sempre.
“sicuro, che nessuno di voi è ascendente Gemelli?” chiese John.
Lo guardammo tutti allibiti, poi incredibilmente Sophie inizio ha ridere a crepapelle. Un attimo dopo, mi aggiunsi alla sua risata. Stavamo ridendo tutti, come da puri pazzi.
Sapevamo tutti che l’avevamo scampata bella. Poteva finire in un modo molto peggiore, e non solo con una ferita di cinque centimetri.
Ridendo a quel modo, per la tensione accumulata. Ci stavamo insomma, sfogando a quel modo.
“come ti viene in mente di pensare, in questo momento all’oroscopo?” chiese Frank, sarcastico.
“l’importante e che stiamo, tutti bene” disse Rupert, smettendola di ridere.
“e meglio tornare ha casa, sta cominciando a fare buio” dissi, fra le foglie fitte s’intravedeva il cielo arancio scuro.
“Scott ha ragione, devo ancora finire i compiti di lunedì” parlo Frank.
Ci guardammo tutti, prima di scoppiare ancora a ridere. Poco ci mancava, che John attaccò con il “vai con la secchia per Frank”. Volevamo solo tornare ha casa, dopo quella piccola avventura.
Dopo soli pochi minuti, eravamo lontani dalla voragine, dalle rampicanti, e ahimè dalla caverna.
Stavamo seguendo il fiume, sino al punto dove sapevo orientarmi, per tornare alla radura dove avevamo mollato gli zaini.
Lungo il tragitto aiutai Sophie, almeno trovavo il calore necessario, per non provar freddo.
La temperatura stava calando molto in fretta, anche se quelle foglie costituivano una certa cappa. Dove il calore di tutto il giorno, poteva aleggiare ancora per un’po.
Anche se senza volerlo, iniziavo ha tremare un poco.
“lascia ce la posso fare” disse Sophie, catturando l’attenzione di John e Rupert.
“hai fatto abbastanza, non ti preoccupare” disse Rupert, volendomi aiutare in una velocità sorprendente, prese il mio posto affianco a Sophie.
Fermammo quella camminata, solo per quel motivo. E Arthur approfitto, per voler riparare ha un danno che non aveva commesso. Si sfilo la sua felpa per darmela.
“non ho freddo” osservai, alla felpa stropicciata che Arthur tendeva davanti a
me.
“piantala Scott” rispose lo stesso Arthur, credo di non averlo mai sentito cosi serio, da quando lo conosco.
Accettai la sua felpa, che fra l’altro, per ovvie ragioni, mi veniva stretta. I polsi uscivano dalle maniche di qualche centimetro.
Era chiaro, eravamo diventati amici inseparabili. Non capita tutti i giorni di uscire, sani e salvi da una caverna senza corde per arrampicata o altro.
“l’acqua l’hai trovata quasi subito” osservo Sophie, aggrappata al collo di Rupert.
“si, hai visto quell’apertura sulla destra dello scivolo; pochi metri avanti, anche se non ho visto bene. Ero come sbucato in un pozzo” risposi.
“un vaso di raccolta” mormoro Frank, davanti a me.
“l’acqua delle falde, si raccoglie in un punto. Per poi trovare la strada per uscire, l’acqua non la puoi fermare” disse risoluto, lo stesso Frank.
Parlo come se avesse imparato ha memoria, quella frase da un’enciclopedia.
“mi chiedo solo, tutti quei tunnel dove conducono” dissi poi, se era vero che l’acqua si raccoglieva in un punto. Gli altri tunnel ha cosa servivano? Impossibile che l’acqua scorresse in ognuno di quei tunnel, pensai.
“forse, gli ha scavati tutti una società segreta” ipotizzo Arthur.
“si, certo Arthur e gli elfi esistono, e perche no, anche i lillipuziani” rispose John, secco.
Scatenando nel gruppo, altre risate.
Capitolo 7;
La punizione.
Ad accompagnare Sophie ha casa, ci pensarono Rupert e gli altri. Ci salutammo, tutti da gran amici. Con abbracci calorosi, e pacche sulle schiene confortanti. Prendemmo i nostri zaini, e ancora un’altra volta, mi costrinsi ha vedere l’immagine triste, sfuocata dei miei veri amici allontanarsi dalla curva dove li guardavo.
Con timore corsi verso casa. Era tardi, molto tardi. Sapevo che mio padre, mi avrebbe sgridato per bene. Ogni scusa sembrava, fosse buona per gettar rabbia sul figlio.
Velocemente, nella sua desolazione, la mia casa si staglio. Nel prato attorno alla stessa, li dove l’asfalto finiva, dando cosi l’inizio al manto sterrato.
Sali a piè pari, i gradini del portico. Aprendo la porta d’ingresso, poco tempo dopo.
“ragazzo, vieni qui!” tuono mio padre, la sua voce proveniva dalla cucina.
Zaino in spalla, raggiunsi la cucina. Mia madre non c’era, l’unica persona presente era mio padre. Seduto su di una sedia, vicino al tavolo vuoto.
I suoi occhi ridotti a fessure, mi fissavano. Concentrandosi sulla felpa stretta di Arthur, che indossavo. Era chiaro, che non fosse mia.
“si” dissi, timoroso all’inizio.
“dove sei stato?” chiese in tono brusco.
Sapevo dentro di me. Che mi stava per dare una punizione, per essere arrivato tardi. Mi preparai al peggio.
“in giro” risposi subito, cerando d’essere quanto meno il più rispettoso possibile.
“vai in giro al posto di restare ha casa, al posto di studiare!” rispose, arricciando le labbra arrabbiato.
“io..” mormorai a malapena, quello che sembrava un pio-pio accennato.
Mio padre, mi lancio un pezzo di carta piegato in due. Lo conoscevo, sapevo che sarebbe arrivata prima o poi. Speravo solo d’essere promosso, benché l’anno scolastico finiva per la prossima settimana.
“chissà se ti promuovono quest’anno” disse mio padre.
Ma io stavo leggendo, quel foglio sulla tavola. Diceva che i maestri, volevano urgentemente vedere i miei genitori, per la mattina seguente. Scopo; consegna anticipata della pagella.
“forse e perche ti bocciano sul serio, ecco perche vogliono vederci” aggiunse mio padre, guardandomi malignamente.
Non risposi, al suo sguardo, ne alle sue insinuazioni. Voltai le spalle, feci per andarmene.
“aspetta, aspetta non ho ancora finito” blocco mio padre.
“se ti bocciano, o se mi dicono qualcosa, una verifica andata male, o un’interrogazione sbagliata. Vedrai cosa ti attende, quando torni a casa” minaccio, col suo dito indice tozzo.
Annui, deglutendo. Dentro tremavo di paura, attanagliava ogni parte del copro. La mia testa, lentamente si stava preparando al fallimento che da li ha poche ore, era inevitabile.
Dormi irrequieto, i miei sogni erano animati dalla caverna, dove potevo leccarmi le ferite, dell’imminente mattina seguente.
Arrivo troppo presto l’alba, dopo una cenetta intima coi miei che discutevano dei loro affari, senza tenermi in considerazione. Andai subito a letto, spaventato per
il giorno seguente.
Ci alzammo a mattina presto, sebbene andavamo ha scuola con l’auto di papà. Mi ero messo i pantaloni migliori, e una camicia blu ha maniche corte. Su detta di mia madre, mi vesti a quel modo. La stessa mi aiutava, ha vestirmi. Avevo dei problemi, coi bottoni della camicia.
Vestito e pulito, ero pronto per accettare qualsiasi cosa accadesse. Presi posto nel sedile dietro, papà e mamma stavano davanti. Il tragitto casa-scuola, fu più breve del solito.
Sfrecciammo rapidamente, oltre la traversa dove mi veniva incontro Sophie, anche quell’angolo dove delle volte ci attesero Rupert e gli altri.
Ed eccola là, la scuola, un edificio vecchio in mattoni. Col tetto spiovente, a parte quel pezzo di terrazzo sul retro, dove la caldaia era stata posizionata.
Quel tempo dal scendere dall’auto, incamminarsi per il viale, ed infine entrare ha scuola. Volo via, mentre io volevo essere da un’altra parte. Al sicuro dalla rabbia di mio padre, le sue minacce sono sempre state serie. Pensavo di non avere, nessuna possibilità.
Senza sapere come, eravamo già nell’ufficio della preside. Dietro la scrivania in mogano, sedevano tre persone. Il maestro d’Italiano, Storia, e Geografia. Al suo fianco la preside, una donna snella, che dava proprio l’idea ha guardarla in viso, d’essere severa. Dall’altra parte, la maestra di Matematica, Geometria e Scienze.
“buongiorno” si salutarono i grandi, con strette di mano.
Io per loro, non avevo affatto importanza. E siccome, c’erano solo due sedie dal lato opposto dove sedevano preside e maestri. Mi sistemai in piedi, e in disparte. Non ho il benché minimo ricordo di quell’ufficio, gli oggetti di arredo per esempio. Ricordo soltanto, la scrivania con tutte quelle persone spalmate su due lati.
“vi abbiamo convocato, per gli scarsi risultati di vostro figlio. Probabilmente..”
“togli il probabilmente” interruppe il maestro d’Italiano.
Chinai il capo, facendo finta di non sentire nulla. Ero in una situazione, di forte disagio.
“vostro figlio, quest’anno sarà bocciato” concluse la preside, volgendo lo sguardo dalle mie parti.
Intercettai i suoi occhi per poco, dentro ci trovai pena. Abbassai la testa, ancora di più per non vederci altro.
Senti mia madre trattenere un sospiro, mio padre digrigno i denti, voltandosi verso di me per guardarmi di rabbia cagnesca.
“vedete non fa miglioramenti, anche se gli ultimi compiti che ha consegnato
erano migliori” s’aggiunge la maestra di Matematica.
“sembra che non voglia impegnarsi, nemmeno ha scrivere bene. Saprete che ha una pessima calligrafia incomprensibile, suppongo. E poi l’ultimo compito di storia, me lo ha consegnato con le risposte a casaccio” concluse il maestro d’Italiano.
“ho rinunciato alla mia carriera lavorativa per seguirlo” borbotto mia madre in lacrime, trovandosi in una situazione in cui non voleva mai trovarsi; la colpa è solo la mia.
Mio padre, li cinse un braccio attorno alla vita.
“forse..suo figlio, a qualcosa che non va. Alle volte nascono, bambini sfortunati” provo ha dire la preside, un modo goffo per ingoiare quella pasticca dolorosa.
“intende forse dire, che mio figlio è ritardato?” chiese burbero mio padre.
“forse si” rispose la preside.
Nel mio isolamento, ebbi uno strazio al cuore. Nel vedere mia madre cosi, disperata.
Fu ha questo punto che mio padre, si alzo dalla sedia. E senza rivolgere la parola, sia alla preside che maestri. Intimo ha mia madre di alzarsi, mi afferro
per una mano e strattonandomi uscimmo dall’ufficio.
Quella era stata un’onta sull’onore, per mio padre. Difficile da digerire.
“mio figlio ritardato..” continuava ha borbottare, mentre imboccammo il viale scolastico. C’erano altri studenti, coi loro genitori. Tutti li, per la consegna anticipata delle pagelle.
Incrociai Rupert e i suoi genitori, proprio all’ingresso del parcheggio affianco alla scuola. Lo vidi a malapena. Lo stesso, sembro preoccupato del mio atteggiamento.
Lo lasciai dietro le spalle, coi suoi genitori. Mio padre era deciso ha mettere più metri possibili, da quella scuola, da quella realtà.
Nelle orecchie sentivo i deboli singhiozzi di mia madre, disperata. Desiderai con tutto me stesso, di non essere li. Di non aver nessuna persona importante, da poter deludere.
Cosi entrai in macchina, partimmo schizzando da quel parcheggio. Al primo Stop, mio padre inchiodo, facendo bruciare un’po le gomme dietro. Si volto verso di me, il viso paonazzo, le corde vocali in rilievo sulla gola.
“non uscirai più di casa, per tutta l’estate. E vedrai come ti insegnerò ha riempire, quella testa bacata che hai” grido, da far tremare i finestrini dell’auto.
“e il prossimo anno, andrai al collegio fuori città” aggiunse voltandosi verso il volante.
Alzai gli occhi spaventato, relegato, rannicchiato nel sedile dietro. Il collegio voleva dire solo una cosa, non potevo più avere la possibilità d’inoltrarmi nel bosco. Ne di rivedere gli altri, niente Rupert e nuotare nella sua piscina, ne una Sophie ad aiutarmi ha fare i compiti, ne le stelle di fuoco di Arthur, ne le risate di John o quelle di Frank.
Una volta entrato in quel collegio, non sarei più uscito. Avrei dormito la, nel dormitorio maschile, lontano da mia madre e da mio padre. E di sicuro, non sarebbe stato meglio più di quanto non lo fosse ora. Infondo quella era la punizione peggiore, mai inflittami.
Mia madre non disse nulla al riguardo, singhiozzo asciugandosi le lacrime col suo fazzoletto di seta.
I cicli di studio con mio padre, iniziarono subito rientrati in casa. Mamma fece finta di niente. Si diresse in camera sua, e là si rinchiuse.
Mio padre mi trascino dalla macchina parcheggiata, affianco alla casa. Fin in cucina, prese una sedia e senza troppi complimenti, mi sbatte sopra. Poi andò in camera mia afferro, quanti più libri poteva. Non l’ho mai visto, cosi fuori di se. Torno giù in cucina poco dopo, poso i libri di testo sul tavolo, trascino la sedia dove ero seduto io più vicino al tavolo. Si mise davanti a me, e si sfilo la cintura…
Furono giorni molto duri, sia per il dolore fisico, sia per quello mentale. Avevo
lividi ovunque, e ogni rumore mi spaventava a morte. Stavo tutto il giorno chiuso in camera mia, non dovevo più tornare ha scuola. Mio padre per l’anno successivo, mi aveva già iscritto al collegio.
Quei giorni assolati, io li vivevo guardandoli dalla finestra della mia camera. Mamma, non mi rivolgeva più la parola, nemmeno uno sguardo, ne a cena, ne a pranzo. Le uniche occasioni, nel quale doveva per forza stare in una stanza dove c’ero anch’io.
Per il resto, mi esercitavo più che potevo nel migliorare la mia pessima calligrafia. Alla lunga, la mano destra iniziava ad intorpidirsi. Più mi sforzavo, più non avevo miglioramenti in nessun campo. Col l’unico risultato che mio padre, quando tornava da lavoro. Si infuriava sempre di più. Andandoci pesante, con le mani.
La notte, al posto di dormire. Mi appollaiavo sull’infisso della finestra aperta, piangendo per il dolore alle mani. Ogni qual volta sbagliavo, la cintura di pelle colpiva inesorabilmente.
E più avevo paura, più sbagliavo ancora..sangue fresco, gocciolava dalle nocche e più in giù.
“va tutto bene..va tutto bene” mormorai consolandomi con me stesso, col risultato di piangere di più.
Costretto in quel limbo di terrore, non avevo più la forza d’uscire dal mio guscio.
Vivevo solo nelle mie poche fantasie, non sorridevo più, e avevo persino perso l’appetito. Usavo solo la mano sinistra, ben presto riuscì ad imparare ad usarla per mangiare. Visto che la destra, era quella più punita.
Ma mio padre, non si fermo solo alle mani, non importava il luogo, bastava solo punire i miei errori, quando mi interrogava, o mi dava delle espressioni prese dal libro, da risolvere.
Le lezioni, iniziavano sin dal tardo pomeriggio e finivano poco prima di mangiare.
Sembrava non esserci più via d’uscita, dovevo vivere la mia vita cosi. Mi stavo rassegnando, al dolore e al resto.
Ma dopo qualche settimana, venne qualcuno ha bussare alla porta di casa. Andai ad aprire io, era Rupert, ed era solo.
Mio padre non era in casa, mia madre era chiusa in camera sua. Non ero felice di vederlo, davanti alla porta di casa. Ne che mi avesse cercato, bussando alla porta. Ero spaventato, cosa mi avrebbe fatto mio padre. Nel vedermi alla porta di casa, ha parlare con Rupert?
Non lo sapevo, ma era meglio non rischiare. Sfiorai i palmi delle mie mani, coi lividi in rilievo, alcuni neri, altri erano ancora viola. Fui accorto comunque, nel nascondergli dietro la schiena.
“che ci fai qui?” li domandai, preoccupato.
Fu sorpreso Rupert, della mia reazione alla sua vista. Probabilmente, Rupert si era aspettato un’altra accoglienza, molto più calorosa di questa.
“e tutto ok Scott, stai bene?” chiese Rupert, che ora mi scrutava attentamente tutto il copro, palmo a palmo.
“si…ma t-tuu devi andartene. Se mi vuoi bene” risposi, non incrociai il suo sguardo.
Semplicemente guardai a terra, desolato.
“dicono che..”
“ti prego Rupert” lo interruppi, la vista mi si sfuoco da altre lacrime. Decidendo che quelle lacrime, avrebbero fatto si che Rupert mi avrebbe ascoltato. Lo guardai, quasi sfidandolo ha deridermi.
Dio quanto ero stupido, inutile in quel momento. Non meritevole della sua amicizia.
“come vuoi tu” rispose infine Rupert, nel suo sguardo c’era un qualcosa di triste, di sconfitta.
E abbassando le spalle, se ne andò dal portico di casa mia. Crebbi che quella fosse l’ultima volta, che vidi la sua chioma bionda, o le sue poche lentiggini sulle guance, o la sua ampia falcata.
Rientrai in casa, chiudendo la porta alle mie spalle. Sprofondai nel tappeto d’ingresso, piangendo, riversando amare lacrime; proprio come la sconfitta, dipinta sul volto di Rupert.
Ma non c’era più tempo per piangere, l’auto di papà stava parcheggiando nel vialetto di casa. Ed io dovevo farmi trovare pronto in cucina, pronto per un’altra lezione privata. Stavolta mio padre, si presento con una bacchetta di legno molto spessa. Scoprì fin da subito, che faceva più male della cintura.
“stupido! Fai gli stessi errori di ieri!” sbraitava mio padre.
Ad ogni parola, mi muovevo irrequieto sulla sedia. Come a voler, trovare il modo di proteggermi da quell’attacco verbale, dai lividi che si creavano ogni giorno. Scappare non potevo, le prime volte che ci provai. Fu peggio, che costringersi ha rimanere seduto su quella sedia.
Quando proprio sembrava che non c’e la facevo più, quando sembrava stessi per cadere in un oblio oscuro. Ripensavo all’oscurità morbida, e accogliente della caverna.
Quando stavo proprio male, immaginavo di rintanarmi là ha leccarmi le ferite. Che da tempo, avevo imparato ha curare con bende che trovavo nell’armadietto
del bagno. Oltre questo, non riuscivo ad imparare nient’altro. Era come se avesse dei blocchi, ogni qual’volta leggevo qualcosa di nuovo. Essi subito dopo, si adoperavano per cancellare quella parola dalla mia mente.
Non erano giorni belli, alcuni non me li ricordo nemmeno. Ricordavo solo che la sera, stavo chiuso in camera mia. Ripensando alle giornate, appena vissute.
In un cantuccio del mio cuore, volli ancora rivedere qualcuno fra Rupert, Sophie, Arthur, Frank e John. Anzi, meglio che fossero tutti davanti alla porta di casa. Cosi da chiedermi, d’andare con loro nella caverna e cosi rinchiudermi per sempre la sotto.
La mattina seguente, mi svegliai al solito orario. Papà era andato ha lavoro, mamma stendeva i panni lavati sul retro. Mentre io facevo colazione, le mani non mi facevano molto male. Fissai le bende nel loro tenue candore bianco, per un istante. Seduto al tavolo in cucina, immergendo il cucchiaio nella mano sinistra, nel latte coi cereali.
Fini quasi subito il mio lauto pasto, ricordandomi di pulire la tazzina e cucchiaio nel lavabo della cucina. Speravo almeno, che mia madre a questo punto mi rivolgesse la parola. “magari se fossi, più accorto, su tutto ciò che faccio” mi dissi fra me e me.
Dirigendomi in camera mia, rifeci il letto. E stavo mettendo in ordine la stanza, quando qualcuno busso alla porta di casa. Fu la volta mia di rompere, o per lo meno quasi, un oggetto per la sorpresa.
Fino ad allora, non pensavo che i miei desideri; si avverassero.
Fu però più svelta mamma, lei andò ad aprire. Mi trascinai sulle scale, in modo molto composto. Fermandomi all’ultimo gradino.
Potei godere la scena, dal pianerottolo d’ingresso.
Alla porta c’era un uomo, alto, dinoccolato, di mezz’età, portava pantaloni alla zuava elegante, ed un panciotto con sotto una t-shirt della Marvel. Il risultato era pazzesco. Quei due stili, mischiati rendevano molto indosso all’uomo affascinate, nei suoi capelli biondi, un biondo molto chiaro. Qualcosa nel suo viso, mi era famigliare. Avevo già visto quei lineamenti delle guance, del viso.
“buongiorno, sono Colin. Il padre di Sophie, sono venuto ha riportare, ha suo figlio la maglietta che ha usate per bendare mia figlia” parlo con voce gentile, quel Colin.
E il sorriso, che fece ha mia madre. Era quel tipo di sorriso, che hanno le persone buone.
Ora sapevo che era il padre di Sophie, ne capivo meglio la somiglianza alla figlia. Il viso scarno, ma pieno di vita nella sua riduzione. Le ciglia perfette, dritte, come la forma tonda dei occhi. Solo il colore era diverso, quel blu chiaro di Sophie, non era rispecchiato nel verde acqua marina dei occhi del padre. Ed il naso era diverso, quello del padre era più acuto, con una leggera gobba sulla punta. Quello di Sophie, era perfettamente dritto, e minuto, quasi non si vedeva fra gli occhi e la bellezza gaia del viso.
“Sophie..mio figlio, non me ne ha mai parlato” rispose mia madre, dubbiosa.
Forse credeva che quello fosse, uno scherzo di cattivo gusto.
Di questa risposta Colin, non ne fu sorpreso. Anzi, allargo un altro sorriso. Tendendo le mani, che prima aveva nascosto dietro le braccia. Fra quelle mani, aveva la mia maglietta lavata e stirata. Ora, pensai. Mia madre non poteva negarlo, quella maglietta era mia. E come poteva, un uomo sconosciuto essere entrato in possesso della stessa. Se non come già aveva spiegato; semplice, non poteva.
“la ringrazio, per riaverci riportato la maglietta” mormoro mia madre, prendendo la maglietta dalle mani di Colin. Per poi stringerla una, in gesto di congedo.
A quel gesto di congedo rapido, Colin rimase un attimo interdetto. Sulla soglia d’entrata, visto che mia madre. Non aveva fatto cenni equivoci, sul fatto che poteva entrare.
“mhh, speravo di ringraziare suo figlio in prima persona..sa, ha fatto un ottimo lavoro” disse Colin, in uno slancio d’improvvisa speranza allungo il collo oltre la figura esile di mia madre.
Sperando che ha quelle parole, in qualche modo, apparissi di grazia magica sullo stesso pianerottolo dell’ingresso.
Mi ritirai d’istinto da quell’ultimo gradino, indietreggiando di qualche piccolo
o.
“si è davvero, preso cura di sua figlia” chiese mia madre, ora voleva sapere tutti i dettagli di quell’avventura.
Colin annui vistosamente:
“l’ha aiutata, quando era caduta in una specie di grotta, lei, poverina si era fatta male. Ma suo figlio, si è preso cura di lei, e ora so che se non fosse stato cosi. Mia figlia, avrebbe di sicuro perso una gamba” rispose Colin, esagerando fin troppo.
Un taglio di cinque centimetri, non può farti perdere l’uso di una gamba. Funzionarono quelle parole, convinsero mia madre. Forse quel finto gesto eroico, mi ritraeva hai suoi occhi non più come un caso senza speranza. Anche se, ovvio era del tutto falso, una menzogna bella e buona.
“se le cose stanno cosi..Scott, vieni e per te” non potetti di certo far finta, di non aver sentito.
E cosi di malavoglia, perche odio i complimenti, e alla stregua anche i ringraziamenti. Scesi le scale.
Non meritavo il prefisso d’eroe, non avevo fatto nulla di speciale. Come già citato sopra, non amavo le congratulazioni, anche se nella mia vita. Ne ho collezionate poche.
Avanzai sulle scale, rendendomi finalmente visibile al padre di Sophie. Che si accese, in un sorriso, che mi fece arrossire.
“vi lascio soli” bisbiglio mia madre, andomi affianco sulle scale. Non mi sfuggi, il suo sorriso, ne che fosse ritornata ha rivolgermi la parola.
Una volta arrivato sul pianerottolo, Colin mi guardo dalla cintola in su, curioso. Mentre io, li rivolgevo occhiate veloci, con la testa bassa.
“vieni..” provo ha prendermi per una spalla.
Quel gesto rapido, mi fece spaventare d’istinto. Era li che mio padre, mi afferrava nelle poche volte, in cui tentai di scappare ad una delle sue lezioni.
Con un balzo all’indietro, sfuggi al contatto mancato con la sua mano. Ora Colin, aveva un’aria preoccupata. Indietreggiai ulteriormente da lui, col cuore a mille, nella mia testa avevo ancora le immagini della cinghia in pelle, alzarsi per poi abbassarsi velocemente.
“tranquillo, non voglio farti niente. Volevo solo portarti fuori, visto che è una bella giornata” concluse Colin, col tono più pacato che avessi mai sentito. E cosi dicendo, si fece da parte abbastanza per farmi sgusciare fuori dalla porta d’ingresso.
Era da molto tempo, che non camminavo sotto il sole. Tanto che i miei occhi
dovettero abituarsi, alla luce. Un rumore di i, mi porto, ancora in uno stato d’allerta. Più o meno, l’unico stato che avevo fra quelle mura.
“mia figlia, mi ha parlato molto di te” esordi Colin, nella sua preoccupazione per me.
Assomigliava in modo perfetto alla figlia, stesso indugiare sul mio viso. In modo triste, e afflitto.
Non risposi, annui soltanto. Perche mi comportavo cosi? Come se quell’uomo, mi avrebbe sul serio fatto del male? Era come se, quella parte di me, spaventata da tutto. In quei giorni, aveva preso il sopravvento su ogni mio pensiero.
Io volevo fidarmi di quell’uomo, dei suoi modi gentili, o di come ora assorto mi fissava, da una distanza che egli reputava di sicurezza. Ma quella parte di me, continuava ha dirmi: “non puoi fidarti, di nessuno. Devi contare su di te, per resistere” in qualche modo, li davo pienamente ragione.
Mi stavo isolando dal mondo, proprio come temeva Sophie.
“perche..e-ee..v--enn..uto” balbettai confuso.
“volevo prima tastare l’ambiente” rispose Colin.
Cosa voleva tastare?
“oh ieri ho sorpreso mia figlia, parlare con una radiolina militare con altre quattro persone, che reputo ragazzi dal tono maschile della voce. Dicevano, che in qualche modo ti avrebbero liberato. Ora il piano, non lo ben capito. Ma, mi chiedevo il perche c’e ne fosse il bisogno. Mia figlia, mi ha raccontato un paio di cose. Ma volevo sapere la tua versione”
Era davvero troppo, li stavo cosi ha cuore che mi avrebbero fatto scappare da questo terrore. Si, decisamente e una cosa ch’erano disposti ha fare. Sorrisi dopo diversi giorni, col risultato di contrarre molto i muscoli della mascella.
Immaginai quei cinque, studiare un piano con quelle radioline. La scena che mi raffigurai, fu molto sosa. Che mi ritrovai ha ridere a pieni polmoni. Ciò porto nel mio cuore; leggerezza.
Anche se i cinque, rischiavano tanto per liberarmi. A quei tempi, non so se mio padre si sarebbe controllato. Lui non toccava mai, i figli degli altri. Ma da come l’avevo visto in questa nuova luce, negli ultimi giorni, poteva benissimo farlo.
“dica ha sua figlia, che non c’e ne è bisogno. Sto bene, non deve rischiare di finire nei guai per me, ne del resto gli altri” risposi, deciso.
“io credo, che sei molto importante per lei” rispose comprensivo Colin.
“la prego” sospirai, ma qualcosa al margine del viale sterrato mi fece spaventare. L’auto di mio padre, stava arrivando di gran carriera.
“deve andare via” aggiunsi, terrorizzato.
E prima che potesse dire altro, corsi in casa. Proprio mentre mio padre, in modo del tutto burbero, scendeva dalla macchina per allontanare Colin in modo brusco.
Le mie azioni, vennero pagate a caro prezzo. E mio padre, non avrebbe finito cosi presto. Se non fosse intervenuta mia madre. I due si spostarono in cucina, le loro grida facevano tremare le pareti.
“non dirmi come devo educare mio figlio, donna!” senti poco dopo, salire dalle scale.
Io che mi ero rifugiato in camera mia, non trovai altra uscita se non la finestra della mia camera. E prima che pensassi, ha quello che stavo per fare. Afferrai un maglione pesante, e balzai fuori dalla finestra. Proprio quando mio padre, entro in camera mia aprendo la porta con un calcio, deciso ha finire ciò che aveva iniziato. Ebbi solo il tempo di vedere i suoi occhi, ridotti ha fessure, cercavano la preda. Che scaltra, e agile si calo dalla grondaia sin a terra.
Sparì nella notte, corsi nel bosco immergendomi fra le foglie e i rami di quel bosco, la mia seconda casa. Anzi, la prima casa. La dentro c’era solo un posto, che mi poteva proteggere, la caverna. E senza pensarci, nella notte mi orientai verso essa.
Capitolo 8;
La caverna.
Fu facile per me, orientarmi alla cieca. Certo che, la mappa di Sophie ora mi sarebbe stata utile. Al solo pensiero, di cosa avrebbe detto Sophie sull’accaduto, piansi.
Come mi avrebbero giudicato tutti quanti, un pazzo, un malato di mente, o sul serio ero ritardato in fondo.
Eppure all’orizzonte, non vedevo nulla oltre che il scappare. Era stata la decisone di un attimo, un chiaro, lampo, limpido atto. E la prospettiva, di iniziare da capo una nuova vita, lontano. Era troppo allettante.
Il piano era, riposarsi per quella sera nella caverna. Poi il giorno seguente, allontanarmi definitivamente da quella città. Voltare le spalle ha tutti, e soprattutto ha chi mi voleva immensamente bene. Era un’azione cosi drastica, perfino per me, nella mia disperazione lo era.
Non trovai mai il coraggio di farlo.
A perdifiato, giù sull’argine del fiume. Segui il suo corso, ci vollero pochi minuti per i miei occhi, per abituarsi alla debole luce.
Raggi di luna filtravano fra le fronde, il buio mi avvolse comunque. Ma almeno, quel pallore bianco, creava quel po di luce, Il disco screziato di panna, il medaglione perfetto, il gioiello ancestrale del cielo. Mi servì, ad arrivare alla bocca della caverna.
Dentro quelle pareti lisce, il buio totalmente mi avvolse. Come un sudario scuro, col suo alito freddo fra il mantello. Non provai paura, ma una sensazione di non essere più in pericolo.
Andando a tentoni, arrivai sino allo scivolo. Dove mi lanciai, poco dopo. La folle discesa, duro troppo poco.
Quando toccai il fondo, mi sentivo più in forma, da quando ero scappato sin a quel luogo. L’atrio grande, se vogliamo chiamarlo cosi. Non era un posto, abbastanza riparato. La tonda luna, sorgeva con uno spicchio dal buco del soffitto crollato. Mi infilai nell’imboccatura, dell’unico tunnel che conoscevo. Per intenderci, quello dove sapevo ci fosse dell’acqua. Stesi il maglione, a terra e su quel giaciglio di fortuna, mi addormentai. Non del tutto, una parte di me rimase in allerta per tutta la notte. Col gocciolio costante, li vicino ha scandire il tempo dei miei sogni.
Con l’arrivo della mattina, capì quanto quella caverna fosse il posto ideale per me. La luce solare, inondava le pareti col suo calore. ando attraverso il groviglio di rovi, e rampicanti pendenti dal soffitto, a calde ondate contigue.
Mi alzai dal maglione, che aveva portato comodità alla mia schiena. La stessa che scricchiolo, quando l’allungai. Per andare a bere, un’po d’acqua pura.
Col l’ausilio del sole, riuscì ha vedere ciò che non avevo visto la prima volta. Quel tunnel, finiva in un pozzo.
L’acqua arrivava a pochi centimetri da dove, il tunnel si fondeva col pozzo. E scendeva per parecchi metri nel sotto suolo. Dove un piccolo foro s’intravedeva, e sicuramente faceva sgorgare, o riempire quel pozzo.
Mi chinai per berla, e scopri ch’era fresca al punto giusto. Dopo cinque o sei, grossi sorsi. Tornai indietro, l’atrium. Che d’ora in poi, chiamerò cosi. Era dieci volte, più accogliente con il sole e la sua luce, millenaria, il fuoco che non si è mai estinto.
Le rampicanti scendevano dall’apertura, catturarono ancora la mia attenzione. C’era ancora la corda, in evidenza fra quei rami. L’avevamo usata tempo fa, per issarci sul soffitto. E sembro essere ata un’eternità. La lasciai li, poteva essermi utile per risalire.
E visto che avevo fame, la usai subito. Per quel giorno, potevo adattarmi alle more selvatiche.
Conoscevo un posto, in quel bosco che ne era pieno. Mi spostai sotto quei alberi, conoscevo già la mia destinazione. Una radura ha pochi metri, da quel posto.
Sapevo ch’erano tutte commestibili, e succose. Mi dedicai alla loro raccolta, alla raccolta della colazione. Duro a mala pena, dieci minuti.
La radura dove mi trovavo era un spazio poco sgombro, i cespugli crescevano a macchia nel suo interno. Gocce di rugiada, bagnarono foglie e steli d’erba. Dove raggi di sole, scendevano obliquamente coprendo quella radura, col suo calore irradiato. Li ci trovai un ero, cinguettante.
Il piccolo probabilmente, non sapeva volare. Dal modo in cui agitava le ali, perlomeno sembrava.
Guardai sui pochi rami, che ricoprivano il limitare di quella radura, alla ricerca di qualche nido. Non trovandolo, lanciai al cinguettante uccello qualche mora. Che avevo raccolto in più.
La natura doveva fare il suo corso. Ero sicuro, che in quel modo, un’po traumatico, quel erotto poteva imparare ha volare.
Lasciai il piccolo, con le sue fatiche. Io, dovevo occuparmi delle mie.
Mi raffigurai bene il piano della mia fuga, prima di tutto decisi di andare verso il Sud. Ho sempre amato il caldo, e la bella stagione. Magari al mare, visto che ancora non ci ero andato. Sicuramente, Sophie l’aveva visto il mare, intendo. Lei poteva dirmelo quanto fosse bello…..
Bloccai quei pensieri all’istante, sapevo che mi avrebbero portato tristezza e nostalgia, nel cuore. È, tutte e due, sono distrazioni da non potersi concedere.
Camminai in tondo, nell’Atrium della caverna. Riflettendo su come muoversi. Se di giorno, o di notte. Se rubare il cibo, o mendicare hai lati delle strade. Andare dritto ha destinazione, o fermarsi a tappe di città in città. Non sapevo quanta distanza, dovevo percorrere per arrivarci. Che direzione prendere, per evitare le grandi metropoli, su questo ipotetico cammino.
Camminando in tondo, cosi concentrato, non mi accorsi ch’era già mezzogiorno. Lo seppi, quando lo stomaco reclamo un pasto decente. Le more per l’amor di Dio, erano buone. La cosa che più mi mancava, era qualcosa di sostanzioso. Come la carne, o le patate.
C’era un solo posto, che conteneva entrambe. Nella mia mente, si raffiguro una lunga staccionata, una casa piccola in legno. Sopraelevata rispetto, alla città.
Se proprio dovevo rubare, meglio Sam che qualcun altro. Chi gli avrebbe creduto, che qualcuno rubava nella sua dispensa? Probabilmente i poliziotti, avrebbero pensato che ci fossero dei ragazzini li vicino, che si stessero facendo beffe dell’anziano Sam. E non prendendo quel crimine sul serio, avrebbero lasciato cadere tutte le accuse.
Con l’adrenalina martellante nel petto, mi avvicinai alla staccionata sul limitare del bosco. Rimasi in attesa dietro un tronco, al riparo, totalmente nascosto. Respirai piano, e iniziai ha sudare freddo per l’impresa che mi aspettava.
Una volta scavalcata la staccionata, c’erano cento metri, metro più metro meno per arrivare al portico di Sam. Tutti tenevano le loro scorte di cibo in cucina, perfino Sam. Ne ero sicuro.
Sbirciai dal mio nascondiglio, dovevo solo aspettare che Sam si allontanasse ha sufficienza, dalla sua casa. Rimasi fermo, attendendo il buon momento.
Fin quando, una banda di bambini in bicicletta, apparvero nel mio campo visivo. Stavano risalendo la collina, sprezzanti del pericolo. Stavo per avvertirgli, uscendo dal mio nascondiglio per portargli in salvo. E l’avrei fatto, se Sam non usci di casa come una furia.
Assomigliava scarsamente ha quei anziani, lenti, perfino col suo accenno di gobba. Quando corse dietro i bambini, sovraeccitati. Sembrava un giovane, da come correva. Giurai di vedere dei tizzoni rossi di rabbia, nei suoi occhi. Sarà la rabbia, ha farlo scattare in quel modo, come se avesse trent’anni in meno?.
Il momento, era troppo ghiotto per non agire. Mentre i bambini, avranno avuto sette anni o poco più, correvano per la collina. Dai loro visi, e occhiate che si lanciavano. Capì che per loro, era solo un gioco. Meglio del Luna Park, o parchi a tema.
L’attrazione principale “scappa da Sam”. Non aveva eguali, e nemmeno si pagava il biglietto d’entrata.
Al massimo, ci si becca uno stemma sulla chiappa. Sorrisi fra me e me, mentre con grazia scavalcai la staccionata.
Guardandomi attorno, per vedere la sagoma ricurva di Sam. Scendere dalla collina, fantastico. Se mi sbrigavo avevo tempo ha sufficienza, per entrare e uscire senza essere visto.
Corsi rapido verso la casa in legno, si avvicinava di più ad ogni falcata…ero vicino, saltai i gradini del portico. Tesi la mano sulla maniglia della porta d’ingresso. Ed ero dentro..
La puzza di vecchio e cavoli, mi fece storcere il naso. Anche la polvere, che copriva ogni mobile dell’ingresso. Non avevo tempo per guardarmi intorno, superai con un balzo l’ingresso, correndo oltre la sala, che si apriva sul davanti dell’ingresso. Eccola li, la cucina, dove sapevo, o meglio speravo ci fosse la dispensa di Sam.
Apri ogni cassetto della cucina, e dei suoi mobili mangiati dalle tarme che facevano parte dell’arredamento. Dentro quei cassetti, ci trovai di tutto. Afferrai una pila portatile, e dei fiammiferi. Mi sarebbero serviti per accendere un fuoco. Aprendo un cassetto, sotto il piano cottura, trovai impilate una nell’altra pentole di tutte le dimensioni. Ne afferrai una particolarmente piccola. Decidendo che la dispensa, non poteva essere in uno di quei piccoli cassetti. Guardai meglio attorno, in quella cucina.
C’era una porta di legno, sul l’unico lato dove non c’erano mobili..apri quella porta, senza troppi complimenti..
Eccola li, la dispensa di Sam. Afferrai cose a casaccio, tendendo un orecchio all’ingresso. E, proprio mentre stavo uscendo dalla dispensa, con la pentola piena, di cibo sostanzioso. Con orrore, notai Sam ed un bambino. Mi si chio le vene, nel vedere come Sam tenesse per le spalle quel bambino. Come se per egli fosse, un trofeo di battaglia. Non ci pensai due volte. Sbattei forte la porta della dispensa, al solo sguardo terrorizzato di quel bambino. Avevo preso coraggio, il viso roseo e magro, gli occhi lucidi per il pianto disperato. Non potevo lasciarlo nelle mani di Sam, e pensare solo di salvare la mia pelle.
Quel rumore di porta sbattuta, sorprese Sam che mollo il bambino dalla sua presa. Quell’attimo d’interdizione li fu fatale.
“scappa!” dissi al bambino, che rapido si divincolo ulteriormente dalla stretta di Sam, scappando per la porta d’ingresso ancora aperta.
“tu..”digrigno i pochi denti che li rimanevano Sam, la faccia rossa di rabbia, burbero Sam si avvicino alla cucina, credendomi di sbarrarmi ogni via d’uscita. E poteva essere cosi, se in quella cucina vecchia e impolverata non ci fosse una finestra aperta.
“non mi scappi” sussurro disgustosamente in modo eccitato Sam.
Saltai sul davanzale, con la pentola piena non fu facile. E prima che le sue mani mi prendessero saltai giù. Senti le sue dita, sfiorarmi i pantaloni o cosi mi sembro.
Corsi a perdifiato giù dalla collina, aiutato anche dalla leggera discesa, lontano dalle grinfie di Sam. Non fui comunque lontano non sentire la sua minaccia: “ti troverò prima o poi, e vedrai..quello che ti faccio” subito seguito da un urlo di sconfitta, più terribile di qualsiasi altro urlo.
Scavalcai rapido la staccionata, non arrischiai di guardarmi alle spalle. Forse Sam, mi stava ancora seguendo.
Il bambino e la sua banda, osservavano il tutto da dietro la medesima. Quello che avevo salvato, mi rivolse un cenno del capo. Risposi al cenno, con un sorriso. Se non ci si aiuta in queste situazioni, quando lo si può fare. Dopo quel cenno, la banda di sei bambini, si allontano in sella alle loro biciclette. E nel guardargli mentre si stavano allontanando, ebbi una strana sensazione di dejavu.
Quel momento mi sembrava, molto famigliare. Scivolai al riparo fra gli alberi, solo allora mi concessi il lusso di sospirare. C’e l’avevo fatta.
E per il cibo, era apposto. Non dovevo preoccuparmi, per settimane. Visto che la pentola era piena di patate e altre verdure. Afferrate ha casaccio, nella dispensa di Sam.
Tornai alla caverna, con quel ben di Dio fra le mani. Fu difficile, scendere per lo scivolo, con la pentola piena in grembo, e via giù a folle velocità..
Furono giorni felici, dovetti controllare la scorta di cibo. Visto che di acqua, ne avevo in abbondanza. Con l’ausilio della pila, esplorai quei tunnel. Alcuni di questi erano crollati, altri erano cosi stretti da non potermi infilarci dentro, nemmeno se strisciavo per terra, per intenderci. Pochi potevano essere esplorati.
Ad esempio c’e ne era uno, che proseguiva per chilometri perdendosi fra rocce calcaree e stalagmiti. Uno che finiva, in un’altra piccola stanza rocciosa stranamente calda. Un’altra ancora si srotolava per metri, con mille altri tunneltraverse. Non arrischiai di inoltrarmi di più, la paura di potersi perdere era eccessiva. Anche se, in tutta onesta. Mai nella mia vita, mi ero perso. Quei tunnel simili, però potevano facilmente illudermi.
Mi ci vollero quattro giorni, per esplorare completamente quei tunnel. E avrei continuato la mia esplorazione, se la pila di Sam non si scarico d’improvviso.
Decisi dunque, di salire in superficie, il bosco aveva dei segreti per me. La notte, mangiavo solo patate, il pomeriggio mi accontentavo delle more, e qualche carota cruda. Cosi si scandivano, le mie giornate di liberta assoluta. Era ciò che più desideravo, potermi occupare di me da solo, niente scuola, niente papà, niente amici.
E in quella solitudine, mi senti stranamente spensierato. La calma, nasceva dall’assenza della paura. E dalla lontananza, dalla vita di città. Senza tutte quelle preoccupazioni, sul chi sono, e quali sono i miei reali problemi.
Imparai che nella caverna e nel bosco, questi pensieri non mi sfioravano nemmeno. C’ero io, e l’ambiente calmo, desolato, finalmente un posto da poter chiamare casa. Dove non importavano i miei fallimenti scolastici, ne la delusione, ne la pena.
Contavo su di me, e ciò mi diede più autostima. Finche rimanevo da solo, ero al sicuro da quei brutti pensieri.
Le settimane si fo assieme, diventando un lasso di tempo indefinito. Scovai altri posti, scopri come l’acqua sgorgava nel fiume dalla caverna.
Dall’imboccatura ci si allontanava di qualche metro, prima dell’inizio dello scivolo di pietra. Bastava seguire quei piccoli tre solchi, che assomigliavano molto ha dei binari del treno, nella roccia.
Quei solchi finivano in una specie di crepa sulla parete, correva zigzagando sulla parete destra, l’acqua sgorgava da quella fessura, e ancora mi chiesi come l’acqua faceva ha sgorgare da li, quando pochi metri sotto c’era un pozzo pieno della stessa acqua. Rimuginai molto su questo mistero, e della mia nuova scoperta, anche a tarda notte, accanto al falò che accendevo nella caverna.
Il fuoco mi dava più sicurezza, scaldava l’ambiente e allontanava probabili animali che abitavano nel bosco. Sebbene le uniche creature vive, erano uccelli e qualche scoiattolo.
Le prime volte, non ero cosi bravo. Sprecavo un sacco di fiammiferi all’inizio. Poi accumulai un’po d’esperienza, e bene o male, ogni sera avevo un bel falò hai piedi. Stesso fuoco, che usavo per bollire due o tre patate.
Quello era proprio uno stile di vita, molo salutare.
Rimandavo, ancora l’idea di partire, andare lontano. Credo che mi sentivo molto bene qui, nella caverna, mi risultava difficile abbandonare quell’unica certezza. Al massimo, se sentivo qualcuno nelle vicinanze, potevo nascondermi in uno di quei tunnel.
Tornai alla caverna, verso tardo pomeriggio non avevo scoperto niente di nuovo. Non era stata una perdita di tempo, comunque. Visto che nell’inoltrarmi nel bosco, raccoglievo legna secca per il fuoco. Lanciai la legna attraverso il buco del soffitto della caverna.
Poi feci il giro inverso, ritornando all’entrata della stessa. Raggiunsi lo scivolo, e mi lanciai giù. Era uno so, piegare i gomiti, e le braccia, per scendere come un proiettile lanciato a folle velocità. Il fischio delle orecchie, dava il mal di testa, ci feci comunque l’abitudine. Comunque durava pochi secondi, fin che non venivo sparato fuori dallo scivolo.
Fermandomi con molte difficoltà, frenavo coi talloni, e con una buona dose di fortuna. Sfioravo con le ginocchia la parete, che avrebbe bloccato la mia corsa in un modo poco delicato.
Stavo cercando altre soluzioni, per non sfregare troppo con le suole delle scarpe. Di li ha qualche mese, rischiavo di spaiarle, le mie amate scarpe.
L’intenzione era costruirsi una specie di slittino, o tavola che evitasse di frenare coi talloni. L’idea mi venne in mente, ricordandomi di quelle poche volte in inverno. Quando bambini si lanciavano dalle colline, o in qualsiasi discesa che avesse abbastanza neve, coi loro slittini. Avevano tutti, due specie di manopole che spuntavano dalla struttura dello stesso, toccando ha terra quelle manopole riuscivano in qualche modo, ha frenare il loro intercedere.
Ed io ero sicuro di riuscirci, quel giorno oltre la solita legna per il fuoco. Presi in più, dei legni non troppo spessi, ma molto lunghi.
Per prima cosa, divisi i legni per il fuoco, da quelli per lo slittino. In due gruppi simili.
Sistemai la legna per il fuoco, nella solita nicchia. Circondata da molti sassi, cosi da creare un limite d’espansione al fuoco. Costruì con quei legni, una specie di
capanna coi legni più sottili, li misi in mezzo alla nicchia, poi sopra ci misi quelli più spessi. Presi una manciata di foglie, che strappavo dalle rampicanti, che avevo tolto dal buco del soffitto. Cosi almeno, entrava più luce, e quei rami rampicanti cosi flessibili, privi di foglie, potevano essermi utili come spaghi, per costruire lo slittino.
Accesi il fuoco con un fiammifero e attesi, che la fiamma arrivo ha lambire i rami più spessi. Finito questo lavoro, mi dedicai al gruzzolo di rami per lo slittino.
Divisi ulteriormente quelli lunghi, e li misi da una parte. Controllai che fossero tutti della stessa lunghezza, la metodicità, o il semplice gesto minuzioso. Mi mise in una sorta di limbo, sovrappensiero iniziai a lavorare allo slittino.
Il lavoro manuale sfoga, il lavoro di pensiero ti calma. Intrecciai i rami rampicanti attorno ad un ramo, e cosi via. Inizio ha nascere la parte piatta dello slittino. Con gli ultimi rami che mi avanzavano, cercai due rami simili. Il resto lo lanciai nel gruzzolo di rami per alimentare il fuoco.
Con un nodo corsoio complicato. Attaccai quei due bastoni per frenare, sulla parte centrale. Finita l’opera, allontanai lo slittino rozzo. Per scrutarlo meglio, non era uno slittino di quelli moderni, ne quello più bello e irresistibile. Quello che importava, era se funzionava bene o no, era questo che importava.
Lo volli provare subito, ma era scesa la notte. E il fuoco oramai scoppiettava, pronto per essere usato per cucinare, le solite tre patate. Andai al nascondiglio dove c’era la pentola ripiena di patate e poche carote.
Svuotai la pentola, da tutto. Andai al pozzo, riempiendola d’acqua per metà. Poi afferrai la pietra rettangolare e liscia, che usavo come piano cottura. Lanciai la pietra nel fuoco basso, appoggiai delicatamente la pentola su di esso. E attesi che l’acqua arrivasse, al suo punto di ebollizione, poi ci lanciai dentro le patate.
Sapevo quando erano pronte, la pelle raggrinzita si spaccava. E quando accadeva, spostavo velocemente la pentola dal fuoco, lasciandola semplicemente scivolare piano-piano lontana dal fuoco. Una volta fatta questa manovra, attendevo mezz’oretta. Finché la pentola, e l’acqua che conteneva. Divenne abbastanza tiepida, da poter afferrare quelle patate senza problemi. Per infine divorarle, in grossi bocconi.
La notte, dormi con la schiena rivola al fuoco. Lo slittino stretto fra le braccia. Non mi addormentai subito. Ci misi il solito tempo, dedicato hai soliti pensieri.
Ne rivolsi soprattutto a quelli che erano i miei ex amici. Ora, delle figure distanti da me.
Proprio come Sophie temeva, il mio isolamento per tutto ciò che non andava in me.
Con un fremito ricordai, la terribile esperienza con mio padre. Ne portavo ancora i lividi. Col are dei giorni, dal nero stavano lentamente sbiadendo al color roseo della carne. Mormorai, un buona notte a me stesso. Prima di scendere negli abissi incantati dei sogni.
Quando mi svegliai, scopri che nella notte. Mi ero sdraiato sullo slittino.
Del fuoco, rimaneva nient’altro che cenere. Assonnato ancora, mi alzai dal giaciglio di fortuna. Il maglione, oramai serviva solo a questo. Sbadigliai vistosamente, e stiracchiandomi la schiena. Incespicai col o, verso il pozzo d’acqua.
Quel posto assomigliava molto, ha un serbatoio d’acqua costruito dall’uomo. Di quelli che vedi, una volta arrivato in città. Quelle grosse cisterne in acciaio rilucente, alle volte hanno sopra scritto i nomi di quelle città.
Mi risulto affascinante, come ogni altro giorno. E magari da qualche parte su quel serbatoio, c’era su scritto la Caverna. E Pensare che quella e solo opera della natura.
Allungai il viso, verso l’acqua a pochi centimetri, da dove ero inginocchiato. Tesi le mani a coppa, e del liquido fresco. Sgorgo fra falangi, unghie e carne. Sveglio definitivamente il mio viso.
Una volta sveglio, e ben riposato, tornai indietro.
La colazione, non aspettava altro che finire nel mio stomaco. Sali sulla corda, mi arrampicai sin al tetto della caverna.
I cespugli di more, erano la ad aspettarmi, come ogni mattina. E eri cinguettanti veleggiavano intorno, con il loro trillo allegro.
Il bosco stesso, assonnato come me. Si stava svegliando, prima le piante. Stiracchiarono le loro dita nodose, scrollando le foglie, o steli all’indirizzo di qualche breve soffiata di vento. Al richiamo del sole, fiori sbocciarono, spargendo per aria il loro nettare delizioso. Poi gli uccelli, davano cambio hai vari gufi e barbagianni, tubarono appena quando entrarono nelle loro tane per dormire. Usignoli cinguettavano, le rondini svolazzavano in giro tranquille, con le loro code a V. Ma le allodole, bhè le allodole. Offrivano il loro spettacolo canterino, agli spettatori più assorti, o i più facili da abbindolare.
Unite allo sgranocchiare, dei scoiattoli dentro i loro rifugi. Immaginavo che papà scoiattolo, tornava a casa col cibo, suo figlio doveva ancora andare ha scuola. Ed eccolo, che sale sulle scale della loro tana, entra nella camera del figlio, adorna su tutte le pareti di poster di band scoiattolo famose. Con uno squittio apre le tende della finestra, e sveglia quel suo figlio scoiattolo scapestrato. Una volta svolto il suo compito, lo scoiattolo padre si abbandonerà sul suo divano davanti alla tv, guardandosi vecchie partite di calcio di quando lui, ancora poteva far parte della squadra, è preoccupato. Ed ecco che arriva mamma scoiattolo, la più bella scoiattolo al mondo, con la sua coda pomposa di un bianco quasi accecante. Carezza la testa ha suo marito, e li mormora squittendo “vedrai che c’e la faremo”.
Mi lasciai cullare da questa cacofonia, e da questa mia folle immaginazione, per un attimo.
Perdendomi forse in ciò che è fondamentale, la bellezza del risveglio dal mondo dei sogni. E un’po come tornare alla vita, e non più essere etereo come quando si sogna. Come scoprire infine di avere un corpo, un’esistenza. Quando si sogna, si vaga nel mare sconfinato e indissolubile delle stelle.
Ingurgitai una manciata di more, raccolsi quelle più grandi e succose.
Come ogni giorno, mi dedicavo alla ricerca della radura, che tanto desideravo trovare.
Cosi camminai, fin dove il giorno prima ero arrivato. Spingendomi ancora oltre, speravo che, cosi facendo, riuscissi ha trovare tale posto. Se ero fortunato (non è mai stato cosi), da li a qualche giorno. Avrei ricoperto, l’intero bosco a piedi. E non c’era modo, che quella radura. Mi si nascondesse ancora, e ci speravo veramente.
Sembrava seguissi un sentiero, tracciato per me. Da qualcuno che mi volesse bene.
Ed era questo che cercavo, in quel bosco. Anche l’avventura, certo.
Quei alberi fitti mi avvolgevano nelle loro spire clorofilliane, riparandomi dallo sguardo d’inadeguatezza verso la gente. Ero molto vergognoso, di me stesso; camminai ancora..
Piante, alberi secolari, foglie secche, l’odore forte di pino che si alzava dalle fronde appiccicose. Eppure la radura, si nascondeva ancora hai miei occhi. Sembrava aver sentimenti propri, e in quei sentimenti si prendeva gioco di me. Non lo sopportavo.
Fui costretto, a tornare indietro sui miei i. Tornai infine alla caverna. Un’po stufato, se solo ricordassi un qualcosa di quella sera. Ma niente, ero cosi disagiato d’aver completamente dimenticato tutto. Ed era un peccato, quel posto, per raggiungerlo valeva ogni male al mondo. E se il prezzo, era rivivere quella stessa situazione. Bhè, ero proprio disposto ha farlo.
Ciò però, andava contro il piano originale. Già, ma allora cosa dovevo fare?. Mi domandai fra me e me.
E senza accorgermi, stavo scendendo dallo scivolo. Senza slittino, me lo ero scordato da basso.
Arrivai al solito modo sotto, frenando con le suole delle scarpe. Me le toglievo raramente, solo quando dormivo. Per il resto, le avevo sempre hai piedi.
L’Atrium accogliente, come al solito. Lasciava intendere, che quel posto era abitato da tempo.
Il maglione a terra, la pentola mezza vuota di cibo, poco più in là. La nicchia di sassi, dove un cumulo di cenere. Via via aumentava. Lo slittino affianco a queste cose.
Decisi che era ora, di spostare la cenere. Ma senza un qualcosa che mi aiutasse ha raccoglierla, fui costretto a sporcarmi le mani.
A grosse manciate, spostavo la cenere dove c’erano tutti i massi divelti dal tetto roccioso. Ebbi l’accortezza, di lasciare nella nicchia un sottile residuo di cenere.
A lavoro finito, le mie mani erano nere. Troppo sporche per mangiare con esse, decisi che era arrivato il momento di farsi un bagno. Nuotavo sin da piccolo, i miei raramente mi portavano da Zia Murriel. Caso vuole, che zia Murriel ogni
estate. Piazzava una piscina, sul giardino nel retro. Era là che avevo imparato ha nuotare, nel pozzo misi soltanto in pratica ciò che sapevo, e che mai si scorda. Sebbene ano gli anni, un’po come andare in bicicletta.
Prima di lanciarmi in acqua, mi tolsi maglietta e pantaloni. Rimasi in mutande, sicuro che le mie nudità erano nascoste da chiunque in quel luogo. Mi lasciai scivolare in acqua, coi talloni. Non toccavo il fondo, sguazzai sul pelo di quell’acqua, pura, traslucida.
Lasciando sulla superficie, delle chiazze scure, formate da granelli di cenere. M’immersi sott’acqua, la stessa acqua era stupenda, che quasi mi invogliava ha farlo. Presi tre lunghissimi respiri, e poi scesi. Un altro mondo, mi si schiuse davanti agli occhi, un mondo silenzioso, scesi ancora dove la debole luce faceva fatica ha fendere l’acqua, ma il mio copro no.
Gli stessi granelli di cenere, danzavano davanti hai miei occhi. Piccole bolle, invece salivano a spirale, uscivano dal mio naso piano-piano.
Sapevo quello che facevo, e quando finalmente toccai il fondo con le mani. Mi rigirai nell’acqua, come se la gravità laggiù fosse inesistente, con le gambe mi detti una spinta che velocemente mi porto ha galla. Irruppi sulla superficie acquosa, piccole gocce d’acqua sgorgarono dai miei capelli lunghi sin al mento, tornai a respirare con gioia. I polmoni ringraziarono, con deboli fitte al petto.
“oh, ragazzi lo trovato” parlo, non poco lontano dal mio viso. Una voce squillante e, eccitata
Quel silenzio colmato dai miei pensieri, che ero abituato ad avere. Si spezzo
come lo fa, una maledizione.
Apri gli occhi, spostando coi palmi delle mani, tutte le goccioline che si erano accumulate sulle palpebre; era Arthur e dal sorriso d’acciaio a trentadue denti che mi rivolse. Capì che non era sorpreso di vedermi li, ma solo felice. Nelle sue mani, appallottolati come fagotti c’erano i miei vestiti.
“Scott! Ci hai fatto preoccupare” un trambusto alle spalle di Arthur, mi fece capire che non era solo. Una chioma bionda, catturo tutta l’attenzione su di se.
Apparve infine Sophie, mentre stavo uscendo dall’acqua. Tremavo un poco, quando afferrai i miei vestiti, in modo brusco dalle mani di Arthur. Lo stesso, parve sorpreso dalla mia reazione.
Non ho mai avuto il tempo, per elaborare quella rabbia che scuoteva il mio copro. Ma forse, era solo perche. Avevo associato allo stare da solo, con la felicità. E per me, andava bene cosi. Ora loro, erano riapparsi. Cosa mi sarebbe successo, d’ora in avanti. Tornare alla realtà, era sinonimo di ritorno alle origini?.
Senza dire niente, percorsi il tunnel sin all’Atrium. La, come sospettavo. C’erano tutti, avevano dei strani sacchi a tracolla. John e Frank, ne avevano uno in più di Rupert.
“che hai sulla faccia?” chiese Rupert, indicandomi la fronte con un indice teso.
“nulla” biascicai, appiattendomi il più possibile la frangia.
“come nulla, quelli sono lividi. E anche freschi” disse sgomento Frank.
“e allora?” gli domandai, arrabbiato nel tono.
“stavo cosi bene qui..come mi avete trovato?” aggiunsi, fissandomi le mani come se fossi da tutt’altra parte.
Alzai lo sguardo appena, per vedere Rupert e Sophie che si scambiarono occhiate inequivocabili. Il classico: “parli tu, o lo faccio io”
“bhè, tu sai che ti sono venuto ha trovare..ecco, quando mi hai cacciato sono tornato subito a casa.” parlo Rupert, ma non c’era delusione nel suo tono. Infondo l’avevo cacciato, senza dargli spiegazioni.
“cosi c’e ne ha parlato, allora mi era venuto in mente un piano. Se tuo padre, ti teneva rinchiuso in casa. Noi ti avremmo liberato” intervenne John serio.
“Arthur, avrebbe creato un diversivo. Poi noi saremmo entrati in casa tua. Ed eravamo pronti per attuare il piano. Stavamo discutendo degli ultimi dettagli, quando mio padre ci scopri” disse Sophie, Arthur annui al solo sentirsi nominato.
“poi il resto lo sai, suo padre è venuto da te..ma ci ha chiesto, di non intervenire”
spiego Frank “perche ci avrebbe pensato lui, cosi il giorno dopo e tornato ha casa tua. Ci racconto che c’era solo tua madre, e che non voleva parlare qualunque cosa fosse successa” aggiunse tutto d’un fiato lo stesso Frank.
“per un fortuito caso, abbiamo incontrato per strada, dei ragazzini delinquenti che ti avevano visto; ne parlavano per strada, ad alta voce quei incoscienti. Dicevano che avevi rubato, qualcosa dalla dispensa di Sam” gongolo per la mia sfacciataggine John, i suoi occhi brillavano di colmo rispetto.
“cosi abbiamo pensato che ti nascondevi da qualche parte. Allora ti abbiamo cercato dappertutto..ma io, lo detto ha Rupert che secondo me, ti nascondevi qui..”
“Dio Arthur, hai avuto ragione lo sappiamo tutti” sbotto John.
Ora sapevo il come, ma il perche mi sfuggiva. Non glielo chiesi, sembrava poco carino. Anche perche quella realtà, tutte le cose che quei ragazzi erano disposti ha fare per me. Mi fecero cambiare idea, forse ritornare alla realtà non era un dramma; e di certo non lo è, se hai degli amici come quelli che avevo io.
“cosa volete fare adesso?”
“non è ovvio, stiamo con te” rispose con fare sciocco Rupert, i loro intenti erano evidenti.
“solo che, non posso chiedervelo” dissi serio.
“appunto, non lo hai fatto” intervenne Sophie.
“e le vostre famiglie?” continuai.
“oh, loro diciamo che credono che stiamo ha dormire da un’altra parte. Si, credo che almeno ci dobbiamo fare vedere ha casa, almeno una volta ogni tanto. Cosi da non creare sospetti” rispose Frank, massaggiandosi il mento.
“staremo stretti, e anche volendo c’e poco cibo” trovavo complicazioni, come scuse per non avergli tutti li.
Perche ero sicuro, che mi avrebbero chiesto tutto quello che mi era successo. E rivivere quei istanti, era come far riaprire ferite sanguinolente, e chiedere alle piastrine di non far il lavoro, di cui sono destinate ha svolgere. Rivivere quella paura, era peggio che far incubi ogni giorno.
Quando una figura vicina alla famiglia, o alle volte e la famiglia stessa, fa queste cose. Inizi ad avere una paura fottuta, ha chi puoi dirlo che tu padre ti picchia, all’altro genitore; cosa poteva fare mia madre, visto ch’era di una taglia inferiore rispetto ha mio padre. Denunciarlo alla polizia, figuriamoci non avevo fiducia nemmeno dei Maestri, che sono pagati dallo Stato. Perche altre persone, del tutto sconosciute mi avrebbero salvato?. Puoi avere solo incubi, perche senza attenzioni, ti lasci uccidere dal dentro.
“di questo, non ti devi preoccupare. Rupert, penserà ha tutto” rispose bonariamente John, girando per l’Atrium della caverna.
Guardai il solo Rupert, proprio davanti ha me. Il suo sorriso, era di quelli confortanti.
“e poi qui c’e abbastanza spazio per tutti” aggiunse Arthur, in confronto ha quell’Atrium, sembrava uno gnomo da giardino.
Non potei, dirgli nulla. Accettai questa situazione, anche se storsi il naso continuamente.
“dai Scott, non fare cosi. Siamo amici, e ci divertiremo un mondo qua” noto il mio animo poco convinto Sophie, mi sorrise anche lei, quando la guardai, da amica. Come tutti gli altri, del resto.
“ok, che si fa ora” accettai definitivamente, la loro amicizia.
E nell’accettazione, mi vennero tutti ad abbracciare. Calorosamente. Mi erano mancati tutti, e ora che lo capivo. Ero li per li per piangere.
“io avrei un certo appetito” provo ha dire John, mortificato si tasto la pancia.
Proprio in quel momento, aveva iniziato ha brontolare rumorosamente.
“qui ho solo patate non cotte, ma se ti piacciono delle more. Conosco un posto
che ne è pieno” risposi, servizievole.
“mi stai salvando la vita” mormoro grato John.
“per cosi poco” li tesi una mani, che John strinse nella sua.
Gesto senza bisogno d’essere ne commentato, ne cercato.
Salimmo mediante la corda, che avevo usato ogni giorno per quella risalita. Stavolta mi portai con me, lo slittino. Decisi ha provarlo, il prima possibile.
“l’hai costruito te?” chiese Arthur, cosi eccitato e cosi vicino allo slittino, lo scrutava palmo a palmo. Persino il suo apparecchio hai denti, brillava d’eccitazione.
Scruto l’oggetto, come se fosse la cosa più preziosa al mondo. Alzo lo sguardo, e lo pianto su di me. Ed i suoi occhi ora, luccicavano speranzosi.
“non lo ho mai provato, ma..” non ebbi il tempo di finire la frase, che Arthur mi strappo letteralmente dalle mani lo slittino. Sempre con fare delicato, ma una delicatezza che dava all’impazienza. Come ha rivelare per lui, quanto si, lo slittino era prezioso. Ma anche che, non vedeva l’ora di provarlo per primo.
Guardai la sua sagoma gracile, arrampicarsi con foga sulla corda. Non vedeva proprio l’ora di provarlo, e tutta quella fatica che giorni prima aveva fatto per
issarsi sul tetto, ora era solo un flebile lamento.
“non ha mai avuto, uno slittino tutto per se, in inverno usava sempre quello vecchio di suo fratello” spiego Frank, nonostante tutti quei battibecchi con Arthur. Lui gli voleva bene, un mondo di bene.
John mi guardo con impazienza, mi ero bloccato all’entusiasmo di Arthur. Dovevo accompagnarlo, ancora alla radura delle more.
Sali sulla corda, subito dopo Arthur. John mi seguiva, affamato. Non parlammo del tutto lungo il tragitto, infondo per me era un bene che John, non volesse indagare su come mi ero procurato quei lividi.
Nessuno ci segui, e quando svoltammo oltre una quercia dal tronco nodoso, e con grosse incisioni fra la corteccia. John si trovo davanti agli occhi, tutto quel ben di Dio. Soprafatto dalla fame, si lancio verso i cespugli bassi, a capofitto come una figura sosa dei cartoni animati.
“morivi proprio dalla fame” osservai, lasciandolo fare.
La testa di John, infilata fra quei cespugli. Solo le spalle e il busto, erano visibili. Era una visione molto divertente. Soffocai una risata:
“non ti immagini, cosa devo fare per essere sempre e costantemente in forma. Lo so che un’alimentazione sana fa bene al corpo. Ma togliermi il latte, e rimpiazzarlo con lo yogurt, e troppo” borbotto John, ficcandosi in bocca quante
più more potevano entrarci.
“yogurt e latte, non sono la stessa cosa?” chiesi, il latte da quello che ne sapevo, faceva bene alla salute, pensai.
“identici, ma io..diciamo che esageravo col latte. Ci mettevo otto cucchiai di polvere di cioccolato” rispose John, un’po imbarazzato.
“polvere di cioccolato?” chiesi vacuo, ha casa mia si mangiava solo il latte e fette biscottate con su marmellata abbondante.
“dio, non sai cosa sia? Ma dove vivevi..tu ce ne metti due cucchiai nel latte, cosi lo rendi più gustoso” spiego John, allibito come quando seppe che non sapevo chi fosse Harry Potter.
“e fa male” conclusi.
“se si esagera si, ma che ci posso fare. Lo amo, quel sapore. Quando lo versi nel latte, bastano solo girare per due volte col cucchiaio, ed il latte da bianco a ha un marroncino color cappuccino” disse con aria del tutto sognante John.
Non li dissi, che non sapevo che cosa fosse un cappuccino. Chissà cos’avrebbe detto.
Lo guardai semplicemente pensando: se lo dici tu.
“e meglio tornare” dissi, ad un John con le mani impastate di succo di More.
Ed era molto appiccicoso, come la marmellata.
“hmm, di già..aspetta ne prendo un altro paio” e cosi dicendo John, si riemerse ancora nei cespugli di more.
Sbuco fuori con la testa, e le mani stracolme di more. In pochi minuti, aveva quasi snudato un cespuglio da tutte le sue more. La mia colazione salutare, di li ha poco, era destinata ha estinguersi del tutto.
Tornammo alla caverna, stavolta discutemmo della polvere di cioccolato. Scopri che c’erano molto marche, diverse l’una dall’altra. Sia in gusto, che nella finezza della polvere.
“due cose che sono molto importanti, deve amalgamarsi alla perfezione col latte; cosi anche il gusto, ne risente. Io preferisco, quella che vendono all’Emporio. Ma Rupert, dice che è migliore quella che fa il suo cuoco. E io ci credo! Ma siccome non posso permettermi, un cuoco privato. La mia preferita, rimane quella che vendono all’Emporio” disse John, le more dalle sua mani in una velocità pazzesca, diminuivano sparendo dentro le sue fauci.
“e questo, non ti da fastidio? Doverti adattare, intendo.” chiesi curioso.
“che, stai scherzando. Sono felice per Rupert, ma non se la a cosi bene come
sembra. Certo, può permettersi di tutto. Sai quante volte ha chiesto, ad uno di noi di fare cambio, d’essere i figli dei suoi genitori. I suoi genitori sono cosi severi. Non gli fanno vivere, ciò che lui vuole vivere. Mi capisci?” rispose John.
“perfettamente”
Ed ecco, cosa ci legava e che ci lego alla fine. Entrambi non amavamo i nostri genitori, entrambi avevamo grandi amici su cui contare. Entrambi eravamo infelici, l’unica differenza e che Rupert lo viveva da dentro, ed io all’infuori di me isolandomi sempre di più.
Scivolai dietro a John, sullo scivolo. Andando ha sbattere, con le gambe tese contro la parete di roccia. Cosi si fermo John, una volta che venne sputato fuori dallo scivolo. Io frenai al mio solito modo.
Trovammo tutti, appena accanto al cumulo di massi crollati. Seduti in semicerchio attorno, allo slittino che Arthur guardava da vicino. Sembrava sfiorare col suo naso minuto, ogni legno di cui era costruito.
Rupert che godeva la scena, in alto, appoggiato ad un masso rivolto e particolarmente pesante.
Rivolse un sorriso sia a me, che a John.
“ce ne avete messo di tempo” osservo felice.
“e che avevo, molta fame” mormoro John, unendosi al semicerchio attorno allo slittino.
Percorsi l’Atrium dietro John. Solo poi decisi di arrampicarmi, fino al masso dove stava seduto comodamente Rupert.
“e molto goloso” affermai, nessuno poteva sentirci in quel momento.
Da basso si alzo, il vociferare di Frank e Arthur. Discutevano di cose, che neanche sapevo esistessero.
In tutta risposta Rupert, fece una smorfia di sofferenza. Dovevo chiedergli scusa, per come lo avevo cacciato da casa mia. Lo osservai attentamente per qualche secondo, li affianco. Concentrato sui suoi amici, cosi importanti per lui.
“ti devo delle scuse, non dovevo cacciarti in quel modo” dissi, affinché solo lui potesse sentire quelle parole.
Divenne stranamente serio Rupert, quando rapido volto lo sguardo verso me. Era un’emozione indecifrabile, quella che si accese sul suo volto e nei suoi occhi blu scuri.
“si bhè, non abbiamo entrambi dei ottimi padri” e nel dirlo, i suoi occhi indugiarono sui lividi sul mio volto.
Stessi lividi, che gli altri facevano finta di non notare.
Tocco ha me, fare una smorfia di sofferenza, e annuire. Tornammo entrambi, ha guardare Frank e Arthur, ed ora John accendersi nella discussione pepata, iniziata dal solo Frank.
“fidati, e meglio di slittino, quello di mio cugino. Altro che il tuo Frank, e Arthur”
“slittino che non hai mai provato” osservo sprezzante Frank.
“già..già come puoi dirlo allora?” domando Arthur, tormentandosi le mani in grembo.
“oh..due contro uno, non è uno scontro alla pari” borbotto sconfitto John.
“anche questo è un bel slittino, Scott come lo hai costruito?” chiese Sophie, afferrando lo slittino per osservarlo meglio.
“già Scott, non pensavo te ne intendessi” s’aggiunse fiero Frank.
Io che ero del tutto occupato nelle mie fantasie, senza tempo. Guardavo il solo Rupert, dopo aver adocchiato i ragazzi. Mi fu impossibile evitarlo, ero preoccupato per Rupert. Alla sua sofferenza nascosta, al “ottimi padri” non potei non notare, nei suoi occhi il brillio della tristezza.
Come svegliandomi da un sogno, incrociai le facce curiose di tutti.
“ho solo tentato di copiare, quelli che si usano quando nevica” risposi.
“e molto simile” mormoro Frank, indugiando col mento all’infuori.
“funziona, anche bene” disse Arthur, parlando fra se e se.
“se lo vuoi, te lo regalo” risposi, se gli piaceva cosi tanto.
Perche non poterglielo regalare? Sgrano gli occhi Arthur, come se non stesse credendo alle sue orecchie.
“ma..n-oon..posso, e tuo..cioè l’hai costruito tu” provo ha rispondere Arthur, ma le sue parole. Erano flebili, poco credibili.
“appunto, ne posso costruire un altro” dissi, sorridendoli in modo gentile.
“ah, allora ok. Ti ringrazio Scott” chino il capo Arthur.
Sophie li o, lo slittino. Annuendo verso me; come ha dire: “sei stato gentile”.
Scrollai le spalle. Non sono mai riuscito ha dar un valore, alle cose materiali. in quei giorni comunque, imparai quanto valore avevano i miei amici.
“figurati” gli dissi.
Calo un silenzio strano, io che mi guardavo le punte delle scarpe. Non mi accorsi, dell’eloquenza col quale mi guardavano tutti. Solo quando Rupert, mi diede una leggera gomitata; me ne accorsi.
“che c’è?..oh Arthur, non è l’unico ha volerlo” provai ad ipotizzare, in un modo molto cauto.
Un largo sorriso si stampo sul viso di Frank, e questo basto come risposta.
Mi alzai di scatto, dalla seduta rocciosa che condividevo con Rupert.
“prendo anche un’po di legna per il fuoco” aggiunsi, visto che c’ero.
Rupert a quel punto, si batte le mani. Quel suono venne triplicato, rimbalzando sulle pareti spoglie. Facendoci sussultare tutti, di quella inaudita potenza. Frank osservo quel fenomeno come se riuscisse ha vedere le onde del suono che si espandono nell’aria.
Lo lasciai assieme a Rupert, John e Arthur. Perche, quando mi ero mosso verso la corda. Sophie si era alzata, di fretta e furia.
“vengo con te” disse soltanto, e fra quelle parole ci lessi che; Sophie voleva parlarmi da sola. Di qualcosa d’importante, dal modo in cui mi segui. Senza il benché minimo sforzo di sopra.
Da sotto provenivano delle voci, Frank stava parlando: “ e il modo in cui il suono, sposta la sua energia. Di particella in particella, siccome le pareti sono spoglie, e irregolari la sua espansione e ottima..anche la costituzione della caverna è..”
“d’accordo Frank, vuoi piantarla. La scuola è finita da un pezzo” borbotto John, nel suo modo stanco e annoiato.
“solo perche sei nervoso per non aver fatto colazione, come al tuo solito. Mi tratti cosi, stavo solo dicendo ciò che so” rispose tranquillo Frank.
“perdonami, e che sono in vacanza..siamo in vacanza”
A questo punto le loro voci, non furono più udibili. Assieme ha Sophie, ci stavamo allontanando in rispettoso silenzio dalla caverna.
Nessuno dei due, volle esporre ciò che più gli premeva dire. Camminammo, alla ricerca di legni che andavano bene, sia per il fuoco, che per la costruzione di altri slittini.
Di quei rami e legni, il bosco per ovvie ragioni ne era pieno. Alberi spezzati, o
che erano morti, semplicemente per il tempo, rivolti nella terra in cui vivevano. Quel luogo ne era pieno.
Cosi che ogni tanto, potevo ignorare gli sguardi, che mi lanciava una Sophie curiosa. Abbassandomi a terra cosi da raccogliere, la legna che mi sembrava migliore per entrambe le cose.
In quei momenti, quando mi accovacciavo a terra. Sophie si fermava con me alle mie spalle, tenendomi d’occhio. Scrutando i lividi sulla faccia, sul collo, sulle mani. Ovunque Sophie guardava, c’era una parte di me che provava ribrezzo, per me stesso, e per quella situazione.
Cos’avrebbe pensato, Sophie notando quei lividi? Mi spaventava, qualsiasi risposta.
Dopo la decima volta, in cui mi fermavo per raccogliere da terra, altri legni. Sbottai nel modo più gentile che conoscevo.
“che c’e, perche mi guardi cosi?”
Eravamo sotto un grande albero secolare, al riparo dal sole. Al sicuro, tranne che per una coppia di scoiattoli, appollaiati su di un ramo in alto. Coi loro occhi acquosi, ci scrutavano curiosi e intelligenti. Il mio sguardo, non era capace di reggere il suo. Lo abbassai quasi subito, quando i suoi occhi incrociarono i miei. Sospiro dal naso Sophie, non era un gesto d’impazienza. Era più dispiacere, per la mia situazione.
“vorrei solo che questi lividi, si fossero rimarginati” bisbigliai, perche non c’era nient’altro da dire, perche Sophie sembrava non voler rispondere alla domanda. O forse, attendeva che io dicessi qualcosa. Fu, a quel punto che i suoi occhi si infiammarono.
“tu ne parli, come se fosse colpa tua. La colpa è di tuo padre, punto” sbotto, visibilmente arrabbiata.
“e cosa cambia?” gli domandai.
“cosa, cambia..” trattenne il respiro Sophie.
“si, se è colpa mia, o invece sua. Che cambia? Nulla io rimango cosi in entrambi i casi, a parte qualche livido” risposi, serio.
Apri la bocca per parlare Sophie, ma poi si morse il labbro inferiore. Voleva trovare le parole giuste.
“Scott, tu non sei inadeguato, ne tanto meno stupido. E se anche lo fossi, hai delle persone che ti vogliono bene..”
“e se queste persone, le deludo” la interruppi.
“allora, ti vorremmo bene comunque. Non ci importa nulla dei tuoi sbagli, non lo capisci” continuo Sophie, prendendomi una mano. L’altra stringeva i pochi legni,
che fin ora avevo raccolto.
Alzai lo sguardo, al contatto con la sua mano. E il suo viso, sincero, ovale apparve nel mio campo visivo. Occhi scrutavano i miei, con la speranza mascherata in scintilla nelle sue pupille.
Mi chiesi, come fe Sophie ha capire il mio stato d’animo. Non ebbi il tempo di chiederglielo. Perche Sophie, mi prese per una spalla dicendo:
“vieni, ci devi costruire dei signori slittini” sorrisi sereno, per la prima volta in quel bosco. Mi lasciai guidare, e non condurre.
Tornammo alla caverna, stanchi, col peso dei rami fra le braccia. Avevo insistito, per portargli tutti io. In uno slancio di galanteria, anche se in quei giorni. Sophie, non la vedevo come una ragazza. E diciamocelo, il come si comportava, o come si sentiva ha suo agio in un gruppo di soli maschi, non aiutava. Anche perche, noi stessi ci sentivamo bene con lei.
Lasciai i legni dal buco, avendo l’accortezza di guardare prima di lanciargli. Sophie mi aspettava all’ingresso della caverna. Mi sorrise, andava tutto bene. E il mio umore, di questo ne risenti. Divenendo migliore, via via che scendemmo dallo scivolo.
Frank e John, ci accolsero come i veri padroni di casa. Ci vennero incontro, tutti sorridenti all’uscita dello scivolo. Mancavano Arthur e Rupert, e stavo per aprir bocca per dirlo, quando Frank accorgendosene disse: “Ar e Ru’, sono andati in esplorazioni” informo gongolante Frank.
Sophie inarco un sopraciglio “in esplorazione?”.
“si, per quei tunnel” rispose John, e cosi indico le aperture alle sue spalle.
“la metà, sono crollati” osservai.
“oh lo sappiamo, ma quei quattro no” disse John, e Frank annui vistosamente affianco ha lui.
I due ci scostarono, nel mezzo dell’Atrium.
“abbiamo ammassati, tutti i sassi là” aggiunse John, sdraiandosi su un sacco a pelo blu, che doveva essere il suo.
Infatti, il pavimento della caverna, era totalmente sgombro. A parte i massi, sotto l’apertura crollata del soffitto. Ora che il pavimento era pulito, e liscio. La caverna sembrava, più accogliente.
Fui molto sorpreso, perfino Sophie. Che, seguendo lo spirito d’iniziativa, dei due. Andò ha raccogliere il legni, che precedentemente avevo lanciato giù dal soffitto.
L’aiutammo tutti, ad ammassarli da una parte. Molto vicino, ha dove erano stati
sistemai i sacchi a pelo di tutti, e un maglione tutto raggrinzito.
“qui sei il capo, dicci cosa dobbiamo fare” disse John, quando torno con gli ultimi legni fra le braccia. Li deposito in quel mucchio, davanti hai miei piedi.
Rivolsi un’occhiata ha Sophie, che annui felice.
“iniziamo a dividergli, quelli corti e sottili vanno per il fuoco. Gli altri, sono perfetti per gli slittini” impartito l’ordine, i tre si diedero da fare. Li lasciai al loro lavoro, felici d’essere utili.
Io dovevo, strappare quante più rampicanti potevo. Ne lasciai qualche rametto, cosi da dare un’po di colore all’ambiente, se no troppo grigio e uniforme.
Scesi dall’altura di quei massi, in mano portavo lunghi rampicanti, molto flessibili. Tornai dai ragazzi, mucchi divisi di rami già mi aspettavano.
I tre mi sorrisero gai, per il loro ottimo lavoro. Svolto in cosi breve tempo, fra l’altro.
“qualcuno mi vuole aiutare a strappare, tutte queste foglie” dissi sorpreso, non mi aspettavo tutta questa collaborazione.
Sophie si offri di aiutarmi, John e Frank si occuparono di preparare il fuoco.
“abbiamo fatto gli scout per due anni” disse John, quando Frank si propose d’occuparsi del fuoco.
Ed io, li avevo guardati in un modo cespuglioso, quasi con sospetto.
Nel piazzarsi, proprio in mezzo hai sacchi a pelo con qualche legno abbastanza grosso, lo stesso John mi fece l’occhiolino sornione.
“ok” risposi ridendo.
Un gruppo lavorava al fuoco, e un altro agli slittini. Gli uni poco distanti, dagli altri. Lavorando cosi a stretto contatto, ci fu facile scambiare qualche parola. Un bel cambiamento sostanziale, da quando facevo queste azioni in completa solitudine.
Avevamo io e Sophie, finito di disboscare le foglie dai rami rampicanti, le foglie le conservammo in un mucchio. Per John e Frank, sarebbero utili. Li stessi, erano stati più veloci di noi, si sedettero sui loro sacchi a pelo. Non prima di aver aggiunto, tutte quelle foglie alla grande nicchia, che avrebbe contenuto il fuoco.
Afferrai i primi due legni, per il fondo piatto. Con naturalezza, ci feci are in mezzo hai due, un ramo rampicante. Poi con l’estremità di un altro, feci un nodo.
Sophie seduta affianco, prendeva nota curiosa. Quasi non capendo come avevo fatto quel nodo, accorgendomene glielo feci vedere con un altro ramo,
lentamente. Andò, lo stesso ramo ad unirsi hai due di prima. La guardai come per chiedergli “hai capito?”.
E lei, in tutta risposta disse: “oh, ora si che ho capito” e cosi dicendo, afferro due legni, due rampicanti e si mise subito ha lavoro. Quasi autosufficiente, aveva già trovato il modo di fregare il maestro, e diventare più esperto di lui, tutto questo con qualche consiglio, ovviamente.
Era impressionante, la sua intelligenza, unita ad un attenzione hai dettagli, quasi maniacale. Esulto, quando uni finalmente due rami. Da li in poi, Sophie lavoro ha o spedito.
Sorrisi e alzai lo sguardo verso John e Frank, i due scrollarono le spalle. Prima di cimentarsi anche loro, nell’impresa.
L’aria silenziosa della caverna, di un silenzio che alla lunga diviene opprimente. Venne riempita dall’aria di risate, richieste d’aiuto, e delucidazioni, le mie e di Sophie. Che oramai aveva la padronanza dell’intreccio, e della costruzione di slittini quanto la mia, o superiore. per quanto sia John che Frank, s’impegnarono. Finirono i loro due slittini, dopo di me e di Sophie.
Gli aiutai io, visto che Sophie sicura dei suoi mezzi. Si offri di costruire, sta volta da sola, l’ultimo slittino che mancava.
La loro lentezza, non era un ostacolo per nessuno. E con il mio aiuto, i due finirono i loro slittini, molto entusiasti.
Nel mentre dai tunnel, erano finalmente arrivati Arthur e Rupert. Il primo sembro felice di vederci li, l’altro inarco le sopracciglia curioso.
“non vi immaginate, quello che abbiamo scoperto..no, avete” disse Arthur, bloccandosi.
John con fare orgoglioso, alzo il suo slittino, per farlo ammirare hai due nuovi arrivati.
“si, Scott ci ha aiutati a costruirli. Dite, non sono eccezionali” rispose gongolante John.
“dobbiamo provargli subito” disse Frank, battendosi un pugno sul petto.
Il suo slittino, era posato sulle sue ginocchia, perfettamente in equilibrio.
“io dico di si, aspettate prendo il mio” accetto l’invito Arthur, che non vedeva l’ora di quel momento. I tre amici si guardarono, con fare complice. Qualcosa mi disse che, non si sarebbero limitati ha provargli.
E cosi sparirono, arrampicandosi frettolosamente sulla corda. Gli slittini incastrati, fra l’ascella e un braccio. Solo Rupert rimase, si sedette poco distante da dove ha gambe incrociate era seduta Sophie, in grembo aveva un altro slittino quasi finito.
“ gli hanno costruiti loro?” chiese Rupert, guardando con interesse una Sophie stranamente in silenzio.
“sono degli ottimi alunni” risposi, un’po orgoglioso.
“ho forse, sei un ottimo insegnante” commento Rupert, sorridendomi.
Ottenendo come unico risultato, il mio arrossimento veloce.
“si bhè, può darsi” bisbigliai.
“non lo vuoi provare anche tu?” chiesi, cambiando discorso in modo affrettato, ma cosi inequivocabile.
I complimenti verso me, proprio non mi piacciono.
“ora no, lasciamo che si divertano” rispose Rupert, come se i suoi amici fossero dei bambini.
E aveva ragione, perche pochi secondi dopo apparve John ha cavalcioni sul suo slittino, lo sentimmo distintamente frenare poco prima di arrestarsi ad un pelo dalla parete davanti allo scivolo.
“fantastico, Ru’ devi provarlo anche tu” disse, prima di risalire sulla corda tutto eccitato.
Infine arrivarono Frank e Arthur, che nel mezzo dello scivolo, avevano urlato come si fa sulle montagne russe, hai vari Luna Park, tristi nella notte con tutte le loro luci ammiccanti, ove l’unico diletto e quello della fregatura. Fra gli odori, di vomito e segatura fresca.
Risi a crepapelle, e con me si aggiunsero Rupert, e una Sophie allibita da quell’atteggiamento. Alla fine, convenimmo di provarli anche noi. Sophie mi regalo lo slittino che aveva da poco finito.
La ringraziai, poco dopo segui Rupert sulla corda. Lo slittino sotto l’ascella, avviluppato al braccio.
In quel momento, eravamo sul serio dei bambini. Lanciarsi ha folle velocità, sdraiati su quei slittini, e lanciarsi nel vuoto cosmico. Col la forza d’avanzamento, che ci spettinava i capelli, e il terribile fischio della velocità rimbombava nelle orecchie, non era nulla in confronto agli urli che cacciavamo dalle bocche, sprezzanti del pericolo.
Erano momenti pazzeschi, incredibili, ci sentivamo come senza tempo. Un qualcosa che superava, con un baldo la staccionata della rude esistenza. E cosi trovarsi di fronte hai Giardini Sacri, ove una luce fievole, dava un senso di sfuocato ad ogni cosa. Ma quella luce fievole, ti calmava istantaneamente.
Dimenticammo tutto, chi eravamo, il nostro ato, perfino ciò che volevano in definitiva essere. C’era solo quel momento, intenso, bello, adrenalinico. Solo
questo contava, uscire come palle di cannone dall’imboccatura dello scivolo, e frenare al millimetro con le due manopole, con un debole stridio sdrucciolavano sul pavimento liscio di quello scivolo.
Per poi guardarci alle spalle, quando si sentiva dall’uscita dello scivolo, un copro scivolare sordo, e del suo grido vivo. Il tempo di spostarsi, che Rupert uscì sparato a velocità, il doppio della mia. E con freddezza di chi non ha paura, calcolare lo spazio giusto di frenata. Sfioro il muro di pietra, davanti a se.
Le andai incontro, sorrideva entusiasta di tutto. Sporsi una mano verso lui, lo aiutai ad alzarsi.
“credo che non la smetteranno mai” disse indugiando alle sue spalle, mentre un piccolo, ma eccitato Arthur scivolo fuori in sella al suo slittino. I capelli tutti arruffati, di chi è amico o amante della felicità, come il suo sorriso metallico a trentadue denti.
“il bello di sentirsi vivi” risposi, ostentando una contentezza che non era mia.
“già” mormoro Rupert, volgendo lo sguardo ad un Arthur, veloce si stava spostando dallo scivolo. Prima dell’arrivo di John e il suo urlo, usci dalla bocca dello scivolo, e i suoi rumori rimbombavano su tutte le pareti.
“e incredibile, sento il cuore impazzirmi nel petto. E come quando corro più veloce che posso, e sento vibrare ogni fibra del mio copro, le gambe che ammortizzano il peso del busto a terra. Le arterie che sembrano esplodere sul collo, per quando sangue dentro ci scorre veloce. Il petto che si dilata e rapidamente subito dopo, torna alla sua posizione originale..” non riuscì ha
concludere la frase John, ne sembrava trovare le parole giuste.
Eppure quando si rialzo dal suo slittino, e ci venne incontro. Non mi sfuggirono i suoi occhi, brillanti. Solo allora mi ricordai, di tre parole che avevo letto su una locandina di un film, incastrato fra qualche servizio fotografico e qualche intervista, nella rivista gossip preferita di mia madre.
“noi siamo infinito” mormorai, volsi una mano sul petto.
Là scalpitava, battendo un ritmo tutto suo. Il cuore, vivo, ancora giovane. Come se bussasse, alla porta di qualcuno di speciale, e questi ci invita ad entrare accogliente, e con un gran sorriso.
“esatto, come se non potessi mai morire, e lanciarmi da quello scivolo con questo slittino. Farlo continuamente, per sempre” rispose John, volgendo un cenno al suo slittino.
Purtroppo si cresce, e lo si fa rapidamente. La vita, non guarda in faccia ha nessuno, va avanti in modo convulso. Desiderando solo arrivare, aumentare, forgiare altri lineamenti.
Diverrai marito o una moglie, un padre e una madre, un nonno e una nonna e cosi via. E non avrai altro termine se non questo, per tutta la tua intera, fottuta vita. Di generazione in generazione, vita dopo morte.
Forse la vita dell’umanità avrà una fine, magari fra qualche millennio. Ma mi
piace pensare che, almeno questo dono abbia il potere di scalfire il tempo. E non il contrario, piegarsi col are degli anni.
“ il punto è che poi cresceremo, e alla fine queste cose non ci piaceranno più” disse Rupert.
L’aria attorno alla caverna, si raggelo. Nessuno dei presenti, ed io, non trovammo argomenti forti per mettere in discussione quell’affermazione.
Arrivarono infine Frank e Sophie, i due sembravano sorpresi da quel cambio repentino d’umore.
Prima di scendere da quello scivolo, erano tutti contenti e felici. Ora eravamo stranamente muti, coi sguardi assorti. Nell’infelicità di credere nel crescere, che quelle cose poi non ci sarebbero più piaciute.
Che non potevamo ancora sentirci cosi, come in quel conciato momento pieno di vita.
Fu strano per Sophie e Frank, vederci li nell’Atrium in piedi coi slittini in mano.
E li sguardi riflessivi, cosi persi nel vuoto triste; il lascito di qualsiasi vita, e il suo ghigno.
“vado ha prendere l’acqua, per la cena” bisbigliai, abbandonando per terra lo
slittino.
Per prendere la pentola con poche patate rimaste. Stava calando la sera, e tutti bene o male avevamo una certa fame.
Percorsi l’intero atrio, circumnavigando i massi caduti. Dirigendomi verso il pozzo d’acqua. Lasciando i tre indietro, nel loro silenzio irreale e pensieroso. Sophie e Frank, si guardarono attorno non capendo il perche di quel silenzio.
Ci penso Sophie ha ravvivare l’ambiente, quando Rupert le spiego il motivo di quel silenzio.
Io ero già di ritorno, con la pentola piena d’acqua. Qualcuno aveva già uno scoppiettante fuoco nella sua nicchia.
“non mi spaventa per niente crescere, sapete. Lo trovo fantastico, quante cose posso fare da grande, quale straordinaria avventura posso vivere nel mio futuro. Lo so che è dura, lasciare indietro le certezze di questi anni. Ma siamo vivi, qui e adesso, io vedo te o posso toccarti; possiamo ricordarci di queste sensazioni. E se proprio, non vogliamoci perdere. Possiamo tenerci in contatto.” disse Sophie, quelle parole ci fecero dimenticare tutta l’infelicità o la paura di crescere.
E quella speranza di tenerci in contatto, porto sollievo nei nostri maschi cuori. La prospettiva era allettante per tutti.
“qual è il piano?” chiese Rupert, ci voltammo tutti ha guardarlo.
“fra dieci anni, saremo qui ha raccontarci cos’è cambiato” rispose semplicemente Sophie.
Quel sorriso promettente, si sposto sulle nostre labbra. Non lo persi quell’appuntamento, nessuno lo perse.
Rincuorati da quella promessa, ci dedicammo alla cena. Mentre timide stelle, fra le fronde facevano capolino. E l’aria dolce, serale scendeva, come debolmente lo faceva la temperatura.
“voi cosa farete poi?” chiese Arthur, e cosi facendo ruppe quell’imbarazzante silenzio calato come la sera. Nel dire “voi” indico con un dito sia me che Sophie.
Frank tolse gli occhi dal fuoco, e li poso curioso su di noi. Rupert dalla sua seduta privilegiata, abbasso lo sguardo dalle stelle pensieroso, per poi posarlo con delicatezza su di noi. John infine, sdraiato sul suo sacco a pelo, alzo ha malapena lo sguardo.
Guardai Sophie, incerto. Io non sapevo che fare, non avevo dei talenti specifici che lasciavano in qualche modo, sperare per un mio bel futuro. Probabilmente, il massimo che avrei concluso nella mia vita, sarà quello di lavorare in carpenteria come mio padre. Pensai, pessimista.
Sophie ha quella domanda, guardo le sue gambe bianco latte. Aveva tirato fuori dal suo sacco a pelo. La mappa del bosco arrotolata, e una matita. Col la quale, adesso stava aggiungendo la caverna nell’esatto centro del foglio, un cuore
pesante, un cuore di pietra, spaccato nei suoi ventricoli, un punto di rottura, un punto di depressione nel foglio, e lo disegno anche bene.
Era fedele all’originale, c’erano perfino sei omini stilizzati al suo interno, guardavano dal buco del soffitto. Corrugando ogni tanto la fronte, aveva continuato il suo disegno, senza lasciarsi distrarre molto facilmente. Fin quella domanda, per lo meno.
“mi piace dipingere, pensavo di andare alla scuola artistica” rispose Sophie con un’aria trasognata.
Tutti ci dicemmo, che aveva scelto la strada giusta. Che Sophie, sarebbe diventata l’astro nascente della pittura. C’era da scommetterci, le cose andarono cosi negli anni ha seguire.
Io del resto, avrei frequentato un collegio, e le possibilità future in un collegio sono poche. Dovetti sostenere i loro sguardi, quando risposi: “non lo so ancora, ma c’e ancora tempo per decidere”
Quando in realtà, mi stavo arrendendo a quella mano, che aveva tracciato l’unica direzione da intraprendere per la mia vita.
Di questa risposta, ne fu molto sorpreso Rupert. Perplesso mi fisso per un istante, prima che abbassai lo sguardo, tentando sfuggire alla sua perplessità. Sapevo perche Rupert lo era, infondo gli avevo fatto capire quanto amassi il volo. Ricordo ancora quella fantasia su Amelia e il suo aereo da turismo grigio.
Non sapendo che fare, mi portai affianco ha Frank. L’incaricato per tenere il fuoco vivo, e se serve alimentarlo con altra legna. Io intanto appoggiai la pentola sul fuoco, lanciandoli dentro le ultime patate che rimanevano.
“non e molto” bisbigliai ad un Frank, seduto accanto a me.
“per oggi andrà più che bene” rispose lo stesso, picchiettando con un altro ramo, un tizzone mangiato completamente dal fuoco, ma ancora parecchio ingombrate nella nicchia.
Rimasi incantato per un attimo dalla danza del fuoco, di come fiamme rosse e arancio avvolgessero la pentola d’acciaio scaldandola, di come l’acqua bolliva, e tutte quelle patate cuocere galleggiando.
Il lento bop dell’acqua in ebollizione, si fece mano a mano più intenso.
Mentre grottesche ombre, venivano lanciate verso le pareti della caverna, cosi convesse da rendere quelle ombre più grottesche e ondulate. Mi persi nella mia immaginazione, stavolta ero ad un bivacco proprio in una caverna. Solo che alle pareti, non c’erano solo ombre. Ma disegni, geroglifici amici, ero nella preistoria..nell’oscura foresta, si alzo il ruggito di una mastodontica creatura..
Una gomitata di Frank, mi fece tornare alla realtà.
“mi sa che sono pronte” disse, indicando le patate cotte nella pentola. La pelle marroncina, in più punti era spaccata; erano pronte.
Portai la pentola fuori dal fuoco, usando come due presine, le maniche del mio maglione. Dovemmo attendere tutti, prima che l’acqua si raffreddasse. Poi togliemmo le bucce che lanciammo nel fuoco ancora , e mangiammo le nostre patate piene di carboidrati.
“sapete ragazzi che ci vuole?” parlo John, addentando un’intera patata bella grossa.
Eravamo tutti intorno al falò, sui sacchi a pelo e sul mio maglione.
“che cosa John?” rispose Arthur.
“una bella storia di paura”
“che?”
“una storia di paura Frank, ho hai ancora paura?” stuzzico John, innocente.
“racconta, allora” mormoro Frank, inghiottendo la sua patata.
Cosi John inizio ha raccontare, la sua voce si fece cadente, quasi un brontolio da far venire i brividi. Solo la voce, perche la storia non era un granché. Parlava di lupi mannari e vampiri.
Alla fine della storia, ci impegnammo tutti ha far finta che ci fosse piaciuta. Facendoli dei complimenti non veritieri.
Purtroppo però, John lo capì, e anche fin troppo lo capì. Visto che Frank non s’impegnava lontanamente ha far finta.
“si, si, ok non sono bravo ha raccontare storie, d’accordo” borbotto John, allargando le braccia come ha dire, che lui proprio non ci poteva fare niente se non era bravo.
“solo in questo, non sei bravo?” lo stuzzico Frank, di rimando.
“tu sei in cerca di rogne” rispose John, incrociando le braccia.
Ridemmo tutti a crepapelle, sia per l’espressione di John, che per altri futili motivi. Andammo avanti per minuti, quando Rupert attacco con la sua storia del terrore.
Ci trovammo tutti ha fissarlo concentrati, li stomaci quasi pieni per l’abbondante cena, e anche l’aria di famiglia allargata, col suo calore confortante.
Era una storia di brividi, parlava di esperimenti sugli umani, in un’isola segreta. Solo che, qualcosa andò male, in un test con un umano. Questi impazzi, ammazzo tutti i dottori e scienziati che abitavano in quell’isola.
“li mangio uno dopo l’altro, spolpando il midollo delle loro ossa” concluse in tono lugubre Rupert, le occhiaie sotto gli occhi, faceva paura.
Un’immagine che ti fa provare ribrezzo, ti vengono i brividi sulla pelle se ci pensi troppo.
“Dio Ru’ dove l’hai sentita questa?” chiese Frank, il suo viso non era dei migliori.
Anche lui stava pensando evidentemente, ha quell’orribile immagine di un uomo che spolpa le ossa di un altro uomo.
“me l’ha raccontata mio zio” spiego Rupert, distendendosi sul suo sacco a pelo.
“quello che lavora, nell’aeronautica?” chiese Arthur.
“proprio lui” affermo Rupert.
Ora capivo da dove veniva quella spilla che Rupert, mi regalo. Ora che ci penso, quella spilla era a casa. Negli altri pantaloni, che peccato. Era proprio bella.
Per un istante, l’unico suono presente. Fu, lo scoppiettare del fuoco, quando lo stesso Arthur interruppe quel silenzio dicendo:
“teniamo caldo l’argomento”
Ci guardammo tutti, come dicendoci se avevamo storie belle. Quello era il momento di raccontarle, nessuno sembro voler prendere l’iniziativa. Cosi Sophie scatto su:
“Scott, si inventa belle storie”
“no, sono solo immaginazioni” risposi, prontamente facendo il modesto.
“e poi non ne ho di paura” aggiunsi.
“va bene qualsiasi storia” disse Arthur, speranzoso.
Aveva quel modo di giungersi le mani sul petto, ed seduto sul suo sacco a pelo, si sporse col busto verso me; mi stava proprio pregando o era una mia immaginazione. Più tardi imparai, che quella posizione Arthur la assumeva solo quando, voleva qualcosa, ma non voleva dirtelo apertamente, ne pregarti, perche alle volte e umiliante farlo. Non sto parlando di pregare Dio, ma solo un altro uomo qualunque.
Guardai in aria, lassù verso il cielo stellato. Poi mi venne in mente, era stato un sogno che avevo fatto tanto tempo fa.
“d’accordo, ma se fa schifo. Ditemelo” dissi, guardandoli fermamente uno ad uno.
Annuirono tutti, quando ai in rassegna nei loro occhi, mi misi comodo sul maglione e iniziai:
“a mille e più leghe dalla terra, c’era un pianeta. Ancora giovane, si era appena formato. La vita, ancora non si era del tutto sviluppata, la vita umana intendo. Perche feroci animali, dalle sette zampe dominavano quel pianeta. Questo finche tre fratelli, scoprirono quel mondo inesplorato per sbaglio. I tre si misero in testa l’idea, di esplorare quel mondo lontano. E dopo anni, in cui progettarono l’astronave speciale, partirono finalmente per l’avventura, per le stelle e l’infinito.
L’unico rumore che gli accompagna, e il silenzio dell’esterno, senza gravità galleggiano per mesi sull’astronave. Tentando di restare uniti, e fermi nelle loro condizioni. Prima fra tutte, quella di non sfruttare, ne inquinare eccessivamente quel pianeta giovane, ancora puro. Fin qui, tutto bene.
Il viaggio procede lento, ma procede..tutto inizia bruscamente ha cambiare, quando i tre fratelli atterrarono su quel pianeta. E dopo le fasi concitate dell’atterraggio, scendono ha dare un’occhiata. Quello più sprezzante del pericolo, alla vista di quei mastodontici esseri. Va alla caccia dell’esemplare, più bello e più feroce del pianeta. Volendoci fare con la sua testa un bel trofeo, da portare in patria come dono. Curioso e sprezzante del pericolo, il primo dei tre fratelli muore. Inghiottito in un sol boccone, dalle fauci aguzze della bestia feroce” ripresi fiato, guardando di sottecchi i miei ascoltatori. Si erano messi tutti comodi sui loro sacchi a pelo, chiudendo gli occhi totalmente immersi nel mio racconto, continuai:
“il secondo dei due fratelli, seguendo la scia del primo. Segui l’istinto di gloria e di brama che voleva provare. Cercò in lungo e in largo. Finche non trovò, in un vulcano, un diamante grezzo di un color pallido rosa, e sublime, lucente, solo gli Dei possono permettersi tanta bellezza, di cento o duecento carati. Gli occhi gli brillarono, quasi non ci credeva alla sua fortuna, tese le mani per afferrarlo, era ha pochi i da lui, incastonato su di una roccia di magma raffreddato. La terra inizia ha tremare, crepe si aprivano dovunque in quel cratere, gas uscì dalle fenditure soffiando via tutta la pressione, proprio come fa una pentola a pressione con la sua valvola di sfogo. Le vampate di vapore, erano troppo calde per la sua pelle, bruciò ad un o dall’arrivo, per poco non conquisto la sua brama, la sua gloria.”
“il terzo, più umile e molto curioso. Esplora quel pianeta, ma egli si mostra rispettoso per quelle creature, e per la natura fatata di quel luogo. Finalmente, dopo anni e anni di ricerca. Riesce ha scovare, degli indigeni che hanno sempre abitato quel pianeta. Ma che mai si erano fatti vedere dai fratelli, ne da chiunque uomo avesse messo piede su quel pianeta.
Gli indigeni di quel posto, vedendo come il fratello più piccolo dei tre, ha differenza dei due oramai morti. Sia pieno di rispetto e amore, anche se c’e qualcosa che non lo rende felice. A sprecato tutta una vita, alla ricerca di quel popolo. Allora il capo di quei indigeni, chiede al piccolo fratello, se c’e qualcosa che possono fare per lui. In segno di rispetto, per quel pianeta. Cosi il fratello piccolo, chiede se può tornare indietro nel tempo. Cosicché i suoi due amati fratelli, siano ancora vivi. Il capo indigeno, dopo lunghe riflessioni, e molti conciabili con tutta la tribù, concede questo dono al fratello più piccolo. Ad una condizione però, lui non doveva rivelare al mondo, ne hai suoi amati fratelli. L’esistenza di quel popolo. E cosi fu, il fratello torno indietro nel tempo. Visse la sua vita, coi suoi fratelli. Ogni tanto, di notte essi lo trovavano ha guardare sognante il cielo. Un piccolo globo di luce, il pianeta che ha visitato, ma che non può più vederlo. Si deve accontentare, di quella distanza. Cosi morì, di vecchiaia negli anni avvenire”
Conclusi il mio racconto, in un momentaneo silenzio. Nel quale tutti riaprirono gli occhi, Sophie stava piangendo, Arthur mi guardava con tanto d’occhi, Frank annuiva vistosamente compiaciuto, John come Rupert sorrideva al mio indirizzo. Lo stesso Rupert, inizio ad applaudirmi.
Ebbi il primo applauso, di complimenti sinceri a dodici anni, e mi piacque un sacco. Come se quei applausi, colmassero una specie di vuoto dentro.
Arrossi perfino, mormorando un “grazie” appena udibile.
“meglio andare a dormire, domani dobbiamo tornare ha casa. I miei genitori partono, avremmo tutta la casa per noi” disse Rupert, infilandosi nel suo sacco a pelo.
Ci dicemmo entusiasti per quella notizia, ci sdraiammo delicatamente vicino al fuoco.
Frank assieme a John, furono i primi ad addormentarsi. Il loro debole russare, era un segnale preciso.
Rimanemmo svegli, e con gli occhi totalmente spalancati, io, Arthur, Sophie e Rupert. I pensieri diversi di ognuno, non ci facevano prendere sonno.
Guardai Arthur affianco ha me, come ha dirgli: “nemmeno tu, riesci ha dormire”.
“bhè, almeno sappiamo cosa puoi fare nel futuro Scott” mormoro Arthur.
“che cosa?” gli chiesi curioso.
“ma non è ovvio, lo scrittore” rispose per Arthur, Sophie affianco allo stesso.
“hanno ragione” un bisbigliare al mio orecchio sinistro, era Rupert.
“ma va” dissi scettico, prima di rigirarmi nel maglione e abbandonandomi definitivamente, al mondo dei sogni.
Capitolo 9;
A casa di Rupert.
Quella mattina mi alzai, per primo. Raggi di sole filtravano dall’enorme foro sul soffitto. Sbadigliai facendo il più piano possibile, cosi da non svegliare i miei amici.
Andai al pozzo, come ogni mattina mi lavai la faccia per bene. Oramai sveglio e bello pimpante, non che avessi dormito comunque bene.
Il ricordo di ieri sera, di noi sei attorno al falò, a raccontarci delle storie. Era vivo in me, come quel falò. Che ora emetteva un alito di fumo, saliva a spirare, andando incontro al cielo.
Rivolsi un’occhiata hai cinque amici, provai una fitta dolce al cuore. Nel guardargli uno ad uno, era un moto di incommensurabile desiderio di protezione. Come se mai volessi vedere, i loro volti trasfigurati dalla sofferenza o, che le loro guancie fossero solcate da lacrime.
Era un’emozione complessa, quella che provai nel vederli in quei sacchi a pelo variopinti. Con quei volti, che trasudavano pace.
Volsi le spalle a loro, arrampicandomi sui massi caduti, da li alla corda intrecciata. Spinta di gambe, e braccia che si piegano e estendono. Decisamente,
quell’azione era un ottimo esercizio fisico.
Il bosco attorno alla caverna, come un qualcosa di vivo. Mi diede il buongiorno, con veloci soffi di vento, e l’odore mordace di polline per aria, o quello della resina dei pini, o come quei animali, che affollavano la moltitudine di rami.
Era un nuovo giorno stupendo, fitte di azzurro s’intravedevano dal cielo. La calura non era eccessiva, anzi, sotto quelle foglie e cortecce, si sentiva la frescura delicata. Pio pio lontani, e altri cinguettii mi portarono ha fantasticare ancora un’po su quel bosco. Dovetti tornare a terra, relegato nella prigione del mio corpo.
Infondo la mente umana e in grado di fare viaggi, che il copro non può intraprendere.
L’obbiettivo poco lontano, già il profumo zuccherino, si sentiva a distanza. Col le suole delle scarpe affondai nel terreno umido, per poco non inciampai in una radice esposta. Recuperai l’equilibrio all’istante. E continuai a scivolare fra quei alberi, ancora per un’po..
Fischiettavo gaio, sotto quella coperta verde e marrone. Piccoli rombi di luce, fra una foglia e l’altra, attirarono la mia curiosità. Fra le braccia, portavo in dono le ultime more dei cespugli, per i miei amici. La caverna era vicina, quando senti sei voci chiamarmi. Provenivano tutte dalla caverna.
Mi precipitai, e con poche falcate sali la china che portava al soffitto. Non fu certo una eggiata, arrampicarsi fra quei rovi, o edere, o rampicanti.
Ma quando sporsi il viso, al di là della spaccatura, non fui più felice di vedergli tutti svegli. Mi resi conto, di quando fosse imponente la caverna, l’altezza dal soffitto sino a terra, superava i dodici metri o poco più.
I cinque vagavano per l’Atrium, li guardai ancora per un po nella loro agitata preoccupazione. Sorrisi fra me e me, forse per loro importavo di più, di quanto io non ho mai fatto.
Finalmente mi decisi, a farmi notare. Mossi leggermente una mano, tenendo le braccia più strette che potevo al petto. Fu John ad notarmi per primo, fischio forte con le dita in bocca. E quando tutti lo guardarono, egli indico con la testa verso il soffitto.
“ci hai fatto preoccupare” grido Sophie, da la sotto.
Assomigliava hai nani delle caverne, che conoscevo per quelle poche fiabe che avevo letto all‘asilo. E poi l’ambientazione tutt’attorno, aiutava la mia immaginazione, essendo molto realistica.
“scusa” li risposi.
“dove sei, stato?” chiese Rupert.
“a prendere la colazione” risposi, sperando che il bel gruzzolo di more fra le mie braccia fossero ben visibili, hai cinque laggiù.
“aspetta, ho un’idea..” disse un’intraprendente Frank, prese la pentola.
Con ancora un’po d’acqua, rimasta da ieri sera. La svuoto per terra, con un rapido movimento dei polsi. Corse alla corda, pendente dal soffitto, ci attorciglio fra le due maniglie della pentola, l’estremità di quella corda.
Intuì cosa dovevo fare, quando Frank smise con le sue operazioni. La corda era legata, ad un albero li vicino, abbastanza forte e spesso di tronco da reggere i nostri pesi. Stessa corda che si srotolava per terra non tesa, solo quando Frank lascio la pentola vuota. Questa si tese con uno schiocco, l’afferrai da dove ero io, e iniziai a tirar su con una mano. Più saliva, più la pentola ondeggiava da una parte all’altra. Come un pendolo, destra e sinistra, sinistra e destra.
Finché non andò ha sbattere, sull’estremità sinistra del soffitto crollato. Lo stridore del metallo, riverbero per un momento nell’aria. Dove si spense poco dopo.
Appoggiai la pentola delicatamente a terra, svuotai tutte le more al suo interno.
Nel mentre, John e Frank, Arthur, Sophie e Rupert si davano da fare coi loro sacchi a pelo. Li piegarono con cura, senza far pieghe, li arrotolarono dentro i loro involucri di tela.
Io già stavo, calando piano la pentola, quasi piena di piccole more. Notai, con curiosità che, essendo non più vuota. La pentola, non aveva più il suo movimento a pendolo per aria.
Ma bensì, stava ferma sul suo asse, mentre scendeva.
Fu Arthur, il primo ha finire col suo sacco a pelo. Fu, infatti lui ha sciogliere il nodo attorno alle maniglie della pentola. Afferrarla, e con o incerto, scese da quei massi caduti.
Districandosi bene, con le minute gambe.
“Dio, sto morendo di fame” brontolo John, lanciandosi affamato sulla pentola che Arthur teneva in equilibrio sulla testa. Nonostante ciò, arrivava sotto il petto di John.
Scesi da quell’altura, per inoltrarmi nell’imbocco della caverna, e poi giù dallo scivolo.
Intanto gli altri, s’erano disposti attorno alla pentola, voraci per la colazione i cinque diedero sostanza alle loro bocche, sfamando lo stomaco brontolante con more zuccherine e di stagione.
Erano squisite, anche quando ne presi un paio per me. Il succo all’interno, esplodeva appena ne addentavi una, riversando acqua zuccherata direttamente sulle papille gustative.
“grazie..Scott, sono squisite” a stento si riusciva ha capire John, la sua bocca era talmente piena di more, che la loro forma era ben visibile sulle guancie, e che
ora erano molto butterate.
“si, davvero. E stato un gesto carino” disse Sophie, guardando a sottecchi John.
“figuratevi” risposi a tutti.
Visto che mi sorrisero fra un boccone e l’altro, ringraziandomi. Li guardai mangiarsi quelle more, tranquillo.
Pensai alla settimana appena ata, nella quale. Nella solitudine, non mi scopri totalmente solo. Anzi, sembravo essere un’altra persona, autosufficiente. Ma poi quei cinque, mi scovarono. Sapevo che d’ora in avanti, sarà tutto diverso. Tranne per una cosa, potevo essere io che vivevo la mia vita. E non un’altra persona, nella sua disperazione.
Sacchi a pelo in spalla, li slittini gli avremmo lasciati li. Come la pentola di Sam, e il mio maglione. Stavamo per lasciare la caverna, e per me era solo un arrivederci. Quando ci arrampicammo per la corda, uno ad uno. Pensai solo a questo, che nel cambiamento; infondo nulla cambierà. Tornerò a vivere in quella caverna, e la prospettiva mi attizzava di molto.
Casa di Rupert, ci attendeva quasi ha festa.
Percorremmo il bosco, allontanandoci di più dalla caverna. Ogni tanto, buttavo un occhio dietro le mie spalle. Vidi l’imboccatura d’entrata svanire, quando superammo gli argini alti del fiume. Coperta dal fitto fogliame, e il terreno brullo
ricolmo di foglie.
Due mani mi presero per le spalle, e mi voltarono lo sguardo davanti. Era Sophie, forse si aspettava che avessi quell’atteggiamento, nell’allontanarci dalla caverna.
Definitivamente non fu più visibile, poco dopo. Quando solo tronchi d’alberi, erano attorno a noi. Come se ci stessero osservando con le loro chiome, immobili e disinteressati di tutto, tranne per la loro clorofilla.
Solo allora Sophie, lascio andare le mie spalle. Infondo a quella bizzarra fila di ragazzi. John fischiettava un motivetto, ogni tanto Arthur o Frank ci inserivano ritornelli di qualche canzone che solo loro conoscevano.
Stavo tornando al mondo reale, certo non era il silenzio desolato del bosco al quale ero abituato. No, c’era il folle, vivo, l’ostrica che aperta e marcia al suo interno, sovraffollato mondo oltre quei alberi, Atlantide inondata dal pattume, oltre quei alberi un altro mondo, oltre le pareti rocciose.
Andai avanti, fanalino di coda. Superammo il covo dei contrabbandieri, la paura per quello che mi aspettava più avanti, attanaglio le mie viscere. Mi chiesi se, mio padre mi aspettava sulla strada.
Strinsi le mani in grembo, avevo il presentimento di tornare il ragazzino di prima. Certo che uscissi da quel bosco, sarei gravosamente; tornato alla realtà. E, la realtà; non mi è mai piaciuta.
Calai le palpebre, cercai di controllarmi..mi dissi che:
“andrà tutto bene, ci siamo noi con te” mormoro una voce, che non proveniva da me.
Era stata Sophie ha parlarmi, il suo sorriso colmo di conforto, riluceva bianco nell’ombra delle piante.
Annui, tirando su aria dal naso. Stavo per mettermi a piangere, per fortuna Sophie era intervenuta prima. Bloccando sul nascere, quella voglia di piangere.
Gli altri fecero finta di non vedere, ne sentire nulla. Li fui grato per questo gesto, come se quello fosse un momento intimo fra me e Sophie.
Con il cuore rincuorato, e l’anima come il copro felice di quella vicinanza. Entrammo nella radura al di là del guardrail e della curva della strada. Il sole ci abbaglio, per un’po almeno finché i nostri occhi si abituarono alla luce forte, perche ora non aveva più intralci per irradiare questa parte del globo.
Ci voltammo verso i nostri amici, li guardammo uno ad uno. Consapevoli che potevamo, vivere un intero giorno, con la reciproca compagnia. Ci sorridemmo radiosi, per quella possibilità incredibile.
Sarebbe stato diverso, negli anni avvenire. Ho sempre voluto, non accorgermene. Facendo finta di nulla, come se volli essere legato per sempre a quelle immagini, e sensazioni.
Un altro sguardo attorno, basto per farmi sentire pronto. Scavalcai il guardrail, il chiudi fila di sempre.
Avevamo una strada da percorrere, una strada che portava alla civiltà, distante miglia dalla natura selvaggia, e l’istinto essenziale per viverci.
Come già detto casa di Rupert, ci aspettava. Col suo sfarzo ostentato, con la sua immensa cucina, John non vedeva l’ora di mangiare altro. Come la piscina;
“la prima cosa che faccio e lanciarmi ha bomba in piscina” decanto Arthur gioioso per strada.
Frank alle sue spalle scosse la testa, velocemente Rupert ci lancio un’occhiata a me che ha Sophie. Alzammo gli occhi al cielo, coi visi innocenti nella nostra infanzia quasi finita. L’unico nostro interesse, era divertici senza la gravosità sulle spalle; della responsabilità.
Potevamo fare qualsiasi cosa, ma quando c’inoltrammo nella zona residenziale, più esclusiva di quella città. E la sagoma della casa di Rupert, imponente si innalzava in lontananza. Belammo come agnellini soddisfatti.
Il cancello elaborato, le due torrette hai lati del cancello con dei leoni appoggiati seduti sopra. La villa bianca, con i suoi archi, e i tendaggi di lino trasparenti, svolazzanti dalle finestre lasciate aperte.
Sembrava una visione al di là dell’arcobaleno, un sogno di mezz’estate col suo folle fascino, come la notte coi suoi veli scuri, ti ammaliava, ti soggiogava senza il benché minimo sforzo.
Simon, il maggiordomo non si aspettava proprio di vedere sei ragazzi, tutti sporchi e cosi sorrisi radiosi. Nascose abilmente quella sorpresa, quando ci venne di persona ad aprire il cancello. Poco prima fu lo stesso Rupert, ha suonarlo, quel camlo.
“il signorino Rupert, ha portato i suoi amici a casa sua” disse Simon, aprendo il cancello.
“non ci sono i suoi genitori, sa com’è. Ne approfittiamo” rispose un John malizioso, che non vedeva l’ora di andare nelle cucine.
Fu il primo infatti ha filare dentro, oltre il cancello diretto alla casa. Sembrava scolpita da un unico blocco di marmo. Visto che la maggior parte della superficie, ne era ricoperta.
“capisco, è tempo di far baldoria” mormoro Simon, complice strizzo l’occhiolino ha tutti.
Entrammo per il viale sterrato, non proprio come quello di casa mia. Ove i sassi che lo componevano sembravano disposti in disordine, e con molta fretta. No, piuttosto quel viale sterrato era perfetto, alla giusta misura d’altezza, nemmeno un sassolino sembrava fuori dall’idea di perfezione che hanno gli aristocratici. O come del resto, quelle siepi di rose sul giardino davanti. Era veramente l’entrata per i Campi Elisi.
Seguimmo l’ombra di John. Già arrivata al portico con le alte colonne. La porta d’ingresso era aperta, in quel luogo nulla era cambiato dalla mia ultima visita. La scala col suo tappeto, e il corrimano, e i soffitti alti con quei affreschi. Era tutto cosi pulito, che l’intera casa risplendeva di luce propria.
“volete darmi i vostri sacchi a pelo?” chiese Simon, molto servizievole.
Cosi che i sacchi a pelo, vennero impilati accanto alla porta d’ingresso. Calo il silenzio, a parte quel piccolo trambusto in cucina. John, si stava dando da fare.
Quel luogo per l’amor di Dio. Era bello, magnifico, una benedizione. Ma era freddo, quasi una visione astratta. Non aveva quel calore tipico, che ha una casa.
“adoro la tua casa, vorrei venirci ad abitare” disse Arthur, il naso all’insù vagava sui affreschi sul soffitto.
Mostravano una copia del paradiso, ove angeli volavano su nubi bianche, come guanciali soffici e bianchi. Le loro arpe, i loro piccoli archi avevano un che di dolce, etereo. In mezzo, sorgeva il sole, coi suoi raggi stilizzati, ed obliqui tentavano di fendere le nubi, con scarso risultato, ottenne solo che alcune nuvole vennero rischiarate di un rosa pallido. Era questo il grande affresco sul soffitto dell’ingresso, e della sala.
“lo sai Arthur, che qui sei sempre il benvenuto” rispose Rupert, con uno sorriso che faceva intendere le più belle cose.
“a proposito di questo, dovrei andare in bagno..” disse Frank, stringendosi le mani sulla vescica.
“anch’io” s’aggiunse Sophie, lei non fu cosi rude come Frank. Anzi, attese diligentemente sulla porta, senza dar sfogo alla sua sofferenza interna, sempre se era arrivata al limite come Frank.
C’eravamo tutti dimenticati, che era una ragazza. E che per ovvie ragioni, non poteva fare i suoi bisogni nel bosco. Ce ne accorgemmo solo in quel momento, e la guardammo tutti cosi sorpresi. Possibile mai..
“il bagno..al piano di sopra, la prima porta a destra” rispose Rupert, colto in contro piede dalla sua nuova intuizione.
“grazie” disse Sophie, salendo le scale.
Camminando dove il tappeto, non copriva i gradini di marmo, ovviamente.
Frank rimase sull’ingresso, perplesso come noi.
“certe volte, mi dimentico che è una ragazza” osservo Frank, dando voce hai nostri pensieri.
E come decidendosi alla fine di raggiungerla, sali le scale e andò a destra.
“andiamo ha vedere cosa sta combinando John, in cucina” propose Rupert.
Al mio sguardo che vagava, verso le scale.
Decisi comunque di seguire, Rupert e Arthur verso le cucine. ando per la sala da ricevimento, e quella per il pranzo.
Ed infine eccole là, le tanto amate cucine di John. Egli stava seduto dove, in un tempo poco prima, ci eravamo seduti io e Sophie, e Rupert. Dall’altro lato del piano di marmo, dove Bob dava sfoggio della sua arte culinaria. Di cui avevo già fatto schiavo, John.
Davanti ha un piatto colmo di pasticcini, e biscotti ripieni. L’affamato e..
“mai sazio John” come lo definiva Arthur, amichevolmente.
Dava fondo alle scorte di Bob, salutammo il cuoco. Perfino Sophie, quando torno dal bagno, seguita da Frank poco dopo.
“e ora che si fa” disse Arthur.
“io, avrei una voglia di bagno. Ho dei costumi da bagno per tutti..” e cosi dicendo Rupert, indugio su Sophie, l’intuizione di prima l’aveva colto un’altra volta, per un attimo la stessa prese su un cipiglio come ha dire: “la pianti di guardarmi cosi”.
“si, ecco..vado ha prendergli per tutti” concluse Rupert, come se non si fosse mai interrotto.
Fece per andarsene, quando li dissi: “aspetta, ti aiuto”.
Rupert annui, e mi attese sulla soglia della porta battente della cucina. Superammo la sala da pranzo, quella delle cerimonie che si apriva al panorama piatto della radura fuori città. Guardandolo, pensai ha quanto fossi stato stupido. Volevo attraversarlo, per scappare per sempre. Non mi ero accorto, di quanta strada dovevo fare, ne delle fatiche che avrei portato a termine. Quei forti pensieri, si potevano scorgere sul mio viso, perche quando salimmo le scale, e Rupert o in mezzo calpestando il bel tappeto, mi chiese:
“che c’e?” volgendo il capo, alle sue spalle. Visto ch’era un gradino, avanti ha me.
“non ho mai considerato sino in fondo, quanta strada avrei dovuto fare se volevo scappare” risposi sincero.
“ha piedi sono bei chilometri, ma in bicicletta potrebbero sembrare meno” enuncio Rupert, qualcosa mi fece capire che ha questa possibilità di fuggire, ci aveva pensato anche Rupert.
“tu perche vuoi scappare?” gli chiesi, non riuscendo a controllare le mie ipotesi.
Rupert si blocco, davanti ad una porta in legno massiccio, la mano destra attorcigliata alla maniglia in ottone. Volto lo sguardo verso me, e fra quelle pupille ci trovai la tristezza.
Quella che celava hai suoi amici, infondo era lo stesso comportamento mio.
“scusa, non dovevo chiedertelo” mormorai dispiaciuto, chinando il capo.
“no, hai il diritto di chiedermelo. Come io lo posso fare con te” rispose Rupert, costringendomi cosi ad alzare il capo.
“allora perche non lo hai fatto?” gli chiesi, di getto.
“per lo stesso motivo tuo, che ora mi stai chiedendo scusa. Per il dispiacere di vedere la tua tristezza” rispose Rupert, c’era una nota di dolcezza nella sua voce.
“hai ragione” affermai.
Ci guardammo per un attimo, occhi negli occhi. E dio, se eravamo simili, e ci riconoscevamo cosi distintamente, e lo facevamo a pelle.
“sai, perche abito in questa casa? Mio padre e un truffatore, ha mandato in banca rotta famiglie intere. Costringendo innocenti ragazzi, alla miseria, ha vivere d’espedienti. Lo odio, per quello che ha fatto, e che mi ha chiesto..lui vorrebbe che prendessi il suo posto in banca, ma io..non voglio..”
“tu vuoi volare come tuo zio” lo interrupi, era strano che sapessi conoscere quel ragazzo, quando lo conoscevo da cosi poco tempo.
Ma come già citato sopra, ci riconoscevamo oltre le nostre pupille diverse, oltre la nostra pelle che avevano subito un trattamento diverso.
E lo stesso Rupert, non ne sembro sorpreso. Sorrise, e apri la porta definitivamente. Entrai dopo lui.
Nella stanza, appena entrati. Si notava chiaramente, la differenza d’arredamento rispetto al resto della casa. La mano di Rupert, la vedevo in ogni cosa, dallo stile normale dell’armadio, della scrivania lunga senza complicate incisioni, o rifiniture in oro. Le pareti erano totalmente prive d’affreschi, i soffitti era alti comunque. Credo, che Rupert non potesse farci niente, comunque il suo distacco, la sua presa di posizione rispetto allo sfarzo della villa, lo si notava, ed era un modo fermo, convinto.
Sintetizzava ciò che mi aveva detto Rupert, prima di entrare. Cioè che ha lui, quella ricchezza che poteva avere. Non gli interessava minimamente. Per farlo ci vuole coraggio.
“ecco qui, il mio mondo. Quello che vorrei, ma mio padre..bhè lui vuole che studi, che vada ha fare un master in chissà quale posto. Cosi da imparare ha imbrogliare la gente come lui” brontolo Rupert, allargando le mani in gesto teatrale. Lo guardai sereno, a me non importava che razza di padre aveva.
I suoi occhi brillarono di rabbia repressa, si potevano vedere chiaramente le fiamme ardenti del suo essere, ribollire nelle sue viscere, cosi per uscire ad ampie vampate. Alcune, uscirono ha quelle parole. Altre serbarono rancore per un paio di anni.
“e un bel mondo” risposi.
Ci guardammo ancora, grati per la nostra somiglianza.
“e poi, non c’importa che razza di persona sia tuo padre. A noi, importi tu. E di certo non ti giudicheremo male, per colpa di tuo padre” aggiunsi, oramai ci sguazzavo in quel campo.
L’essere amici, il fare gruppo, il confortarsi ha vicenda con pacche sulle spalle, e fantastiche battute da farti rovesciare dalla sedia.
Lo dissi ad un Rupert, che stava per iniziare ha piangere.
“ma lo sai, che sei proprio una brava persona” rispose Rupert, schernendomi.
Ci mettemmo a ridere, in quella stanza piena di silenzio del mondo di Rupert. Un piccolo satellite, orbitante attorno ha quella casa.
“i costumi sono qui” disse poi, aprendo l’anta dell’armadio.
Dove ripiegati finemente, e impilati uno sopra all’altro, stavano i suoi costumi da bagno. Molti simili, e siccome avevamo quasi tutti la stessa taglia. Sia io che Rupert, ne afferrammo sei.
Sei costumi simili a pantaloncino, ma con diversi colori.
“cambiamoci subito” propose Rupert, afferro un costume dei tre che teneva fra le mani.
Ed io, che ho sempre avuto un certo pudore di vedere qualsiasi copro nudo, femminile o maschile. Usci dalla stanza, dove Rupert già si stava spogliando, chiara mi fu la scena da uno spiraglio della porta che stavo per chiudere. Vagai per quel corridoio come uno stupido, mi sorprese quanto fossero lunghi quei tappeti, o come ogni tot metri, spuntavano dei tavolini rotondi in cristallo, con sopra brocche in porcellana piene di fiori finti.
Per non parlare poi di quelle porte simili, non volevo cambiarmi nel corridoio dove chiunque poteva are, e quindi quel qualcuno poteva vedermi nudo.
Ne apri una a caso, e mi ci infilai dentro. Velocemente mi abbassai i pantaloni, senza rendermi conto dove ero entrato.
Solo quando, riuscì saltellando su un piede, a sfilarmi una parte dei pantaloni lunghi. Il mio occhio sinistro cadde, su una zampa di leone intagliata in un legno massiccio e molto lucido. Alzai lo sguardo, coi pantaloni calati, una gamba libera dai pantaloni, l’altra ancora avvinghiata hai jeans logori. In mutande, gli occhi mi caddero su un tavolo, il più bello che avessi mai visto. Era al centro esatto della stanza, sormontato da libri dalle varie forme, il solito tappeto, stavolta orientale ricopriva o quasi, l’ampiezza di quella sala.
Era magnifica, il silenzio dentro ci viveva, sembrava carico di sapienza, e quei libri sulla scrivania erano pochi, in confronto ha quelli posizionati sulla grande libreria, i veri muri di quella sala. L’odore agre dell’inchiostro, e della carta stampata, era un odore che sapeva di antico, ma anche di nuovo, di fresco, di inebriante.
Quattro lucernari sul soffitto, facevano entrare abbastanza luce, per rendere quella stanza mistica. Contribuendo cosi, ha quella sensazione che si aveva nell’entrarci. Qualcosa di oscuro, che nasconde al suo interno la verità, come la perla racchiusa nella conchiglia. Come un Harem D’Oriente, il più segreto, luogo inaccessibile, ove il profano non e preso in considerazione, dove i festeggiamenti prendono il posto, al Sacro, per cui sudiamo, e alle volte bestemmiamo.
La sapienza alleggiava fra quei scaffali, l’aria ne era satura.
Un libro attiro la mia attenzione, era vecchio, le lettere sulla spalla della copertina erano in oro, sebbene non riuscissi a leggerle. Il libro era sull’ultimo scaffale della libreria alla mia sinistra.
Mi attiro soprattutto, perche sembrava essere stato preso e riposto da poco in quello stesso scaffale, e in un modo frettoloso. Visto che sporgeva in fuori, più dei libri al suo fianco.
Una scala, anche questa di legno, correva appoggiandosi ha dei binari, incassati in quei scaffali. Era una libreria vecchia, pensai. Quando feci scorrere la scala, sin ad arrivare allo scaffale in questione. E senza chiedere il permesso, sali il primo gradino.
Scrollai la gamba ancora non libera dai jeans, i costumi da bagno gli avevo poggiati a terra, una volta entrato in quella stanza.
Avanzai per quei gradini, finché non raggiunsi l’ultimo scaffale. Nemmeno uno strato di polvere, era depositato su quelle superfici. Afferrai il libro, e lo tirai a me. Questo struscio appena col fronte della copertina, con l’altro libro affianco.
Scesi dalle scale, incuriosito dalla rilegatura abbastanza semplice di quel libro. Guardai il titolo sulla spalla, questo recitava: L’uomo e il Volo.
Nemmeno mi accorsi, nel mio studiare meditabondo quel libro. Di aver preso una sedia attorno al tavolo sormontato con le zampe di leone, ne di quanto questa sedia in effetti era comoda. Sprofondai, in quei cuscini di cui era imbottita.
Sfogliai le prime pagine, guardando le foto di cui era pieno quel libro. C’erano raffigurate strane macchine, c’e ne era una disegnata da Leonardo in persona, poi c’erano quei due fratelli di cui uno era sdraiato sulla parte centrale di un aliante dalle grosse ali, l’aereo di Amelia, e altri Jet supersonici di nuova generazione.
Erano magnifici quei esemplari, tutti quei uomini e donne, forse non si sono mai accorti del patrimonio che ci hanno lasciato. Come potevano sapere dove le loro scoperte, si fossero spinte col progresso?.
Da Leonardo hai giorni nostri, il mondo era cambiato, nel mezzo erano ate guerre, carestie, attentati e altro ancora. Era diversa perfino la visione del mondo, che ne abbiamo ora. Che e schifoso, ed è una merda viverci, e ci si muore in questo mondo. Schifoso, come se la vita fosse influenzata da dove abitiamo. Ma forse, se penseremo solo ha una nuova scoperta. Potremmo dar il via hai prossimi sognatori, hai bambini che ancora non sono nati. Cosa lasceremo? Solo questa frase: “ figliolo, il mondo fa schifo, e la vita è una merda” Dio sarebbe deprimente, dove sta la magia della scoperta, o dell’avventura, se tutto e uno schifo, dov’è la bellezza? E ancora, come potremmo continuare al continuo spettacolo dell’ampliamento dell’intelletto umano?.
Mi chiesi questo, sfogliando con contegno distaccato quel libro.
“non dovresti essere già cambiato” parlo Rupert, facendomi cadere quasi dalla sedia.
“ti ho spaventato, scusami” aggiunse, davanti alla porta della libreria.
Raccolse i costumi, lasciati precedentemente a terra da me. Poi senza dire niente, sul fatto che, non mi aveva dato il permesso di poter leggere quel libro. Andò ha raccogliere i miei jeans, proprio sotto la scala che avevo usato.
Imbarazzato, e rosso in viso, afferrai al volo il costume che mi lancio. Poi in
silenzio usci, dalla libreria. Mi denudai definitivamente, indossando il costume da bagno.
Segui Rupert fuori, mi aspettava appena dietro la porta della libreria. E assieme, scendemmo per le scale, diretti in cucina dove gli altri attendevano impazienti.
“c’e ne è voluto di tempo, dove siete andati ha prendergli in Cina?” sbruffo, col suo solito fare da bonario John.
Rupert li diede un costume, senza rispondergli. John andò subito ha cambiarsi dietro la porta della dispensa di Bob. Poi tocco ha Frank, Arthur e infine Sophie con lo stesso procedimento dei tre.
Solo che gli altri erano tutti ha torso nudo, tranne Sophie che si era tenuta la sua canottiera bianca addosso.
Coi costumi infilati, ruzzolammo nel retro della villa. Dove un edificio rettangolare, conteneva la bella piscina.
Sul fondale dei mosaici in piccole piastrelle blu e nere, infondo alla piscina dall’altro lato da dove si entrava, una fontana bianco latte, ovviamente in marmo. Acqua pulita, fuoriusciva dalla bocca della stessa fontana, una sorta di Dio con le ali, prono su di una donna col viso stupendo, i due erano stretti in un abbraccio particolare su di un piedistallo. Le mani di lei, si stringevano sul collo di lui all’indietro. La loro posa, ferma, risoluta, divina li manteneva distaccati pochi centimetri da quel bacio, che ovviamente si stavano per dare. Ah che scempio, un bacio mancato, ma cosi bello infine.
Sulle pareti altri affreschi, raffiguravano tutti Dei. Muscolosi, bellissimi, divini, colmati da ogni possibile ricchezza affianco. Infine il bordo vasca, era in piastrelle rosse con fughe grigie.
Cosicché quando tu entravi in quella piscina, fra gli affreschi, i mosaici sul fondale, la stessa fontana. Tu proprio non sapevi dove buttar l’occhio, fra tanta bellezza, ne venivi quasi soprafatto.
“Perseo che uccide Medusa” e cosi dicendo Rupert, indico una scena piuttosto cruenta.
Solo a me e ha Sophie, gli altri in quella piscina c’erano già entrati da tempo. Tanto che, non li risultava più magnifica.
Ricordo che in quei momenti. Non seppi decidermi, se era meglio la libreria o, la piscina. E come darmi torto, l’unica cosa bella che ho conosciuto era la radura della lavanda. In quanto ha bellezza, era sullo stesso piano sia della piscina che della libreria.
L’edificio della piscina, comprendeva degli spogliatoi. Fu la che abbandonammo pantaloni, solo per Sophie. Mentre noi altri, lanciammo tutti i nostri indumenti alla rinfusa.
Non indugiammo oltre, Arthur si lancio per primo in acqua, facendo quanti più schizzi possibili. John lo seguii subito dopo, assieme a Frank. I tre iniziarono ad affondarsi ha vicenda. Ritornando ancora bambini, o forse non abbiamo mai
smesso d’esserli.
I tre in acqua, stufi di affogare le stesse persone. Iniziarono la loro protesta sostenuta. Ci arrivarono ha bordo piscina, altri schizzi d’acqua. Stavolta volutamente, per invitarci ad entrare. Rupert mi lancio un’occhiata, annui in segno d’intesa.
Ci tuffammo all’unisono in acqua, e prima di riemergere. Ebbi il tempo, di prendere una boccata d’aria. Due braccia lunghe, mi spinsero sott’acqua. Sgusciai da quella presa, con due potenti sgambate, feci il giro attorno al copro di John, come lo si fa con una boa.
Lui non se lo aspettava, in mezzo ha quel trambusto. Mi arrampicai sulla sua schiena, ebbe solo il tempo d’esclamare un “hey” per la sorpresa. Prima di andare giù a picco, spinto dalle mie braccia. Lo lasciai andare quasi subito, John riemerse sputando acqua ha spruzzi. Mi guardo con uno strano sorrisetto.
“no” dissi, indietreggiando cauto.
“insubordinazione” esclamo John, con quanto fiato aveva in gola.
Gli altri tre, istantaneamente si fermarono coi loro giochi. Si guardarono ha vicenda, come se non sapevano che fare, poi rivolsero un’occhiata verso me.
I nostri sorrisi, si stavano trasformando in lealtà. Mentre facevamo gli stupidi in acqua, io con sei mani che molto teneramente, mi riempivano i polmoni d’acqua.
Altri schizzi, e ripagavo con la stessa moneta. Reagì, ma ero solo; era comunque un gioco.
Insensato era quel pensiero, che si stava formando nella mia testa. Meno male che non ero scappato; mi sarei perso tutto questo.
Il momento dei giochi finiti, faticammo ha respirare da quanto avevamo riso. La milza mi doleva, il cuore era una macchina copiatrice lanciata hai massimi giri. Ci calmammo in modi differenti. Rupert si isso sul bordo piscina, Frank dovette andare ancora in bagno.
“fa sempre cosi, quando entra in acqua, li scappa sempre la pipì” spiego Arthur, nuotando ha cagnolino sempre nel solito punto. Attorno ha John, che faceva il morto sul pelo d’acqua. All’appello mancava Sophie.
Saggiamente, si era tenuta lontana da quei giochi. Dell’acqua smossa dall’altra parte della piscina, mi disse che stava nuotando. E lo faceva anche bene.
Le gambe assecondavano, le braccia che come delle pale di un mulino. Spostavano l’acqua, ruotando in senso orario, creando solo dell’indistinte increspature sul pelo dell’acqua. Il suo non era nuotare, no, era scivolare delicatamente nella materia acquosa. Sembrava cosi leggera, e piena di grazia.
Senza pensarci due volte, la raggiunsi. Non ero un ottimo nuotatore come lei, ma comunque riuscivo a stare a galla, il che era un tutto dire.
La raggiunsi a metà vasca, dove la calma finalmente mi trovo. Seguendo Sophie, copiando il più possibile il suo stile libero, sin dall’altra parte della piscina.
Ed ancora, non ci fermammo. Semplicemente andammo entrambi sott’acqua, rigirandoci con una capriola, affinché le nostre gambe non toccarono il bordo in piastrelle. Slanciammo le nostre gambe più che potemmo. Schizzammo come pesci sott’acqua, con altre tre sgambate, e poi senza fiato riemergemmo. Nello spazio fra una bracciata e l’altra, volgemmo il nostro sguardo verso l’altro, sorridenti accettammo la compagnia reciproca in quella nuotata.
Entrava più luce nella piscina, sia dal tetto ove un lucernaio, era incastonato fra il tetto e le pareti. Sia anche dalle vetrate orientali, erano state aperte totalmente. Fu Rupert ha farlo, e quando torno Frank dal bagno. I quattro si unirono alla nostra nuotata.
Non era una gara, andavamo tutti alla stessa velocità, una volta imparato quel ritmo, non lo mollammo più. Ci sentimmo come quando ci lanciavamo, con gli slittini sullo scivolo della caverna.
Una bracciata dopo l’altra, fianco a fianco fra i miei amici. Ci sentimmo più uniti, quasi eterei, non di quel luogo più o meno. E poteva benissimo esserlo, perche al ritorno di quella vasca. Con le vetrate aperte, e dalle finestre del tetto. Sembrava che stessimo nuotando, verso il sole, verso quelle nuvole, candidi guanciali rosa, per angeli che si depositavano sopra per dormire o osservare gli umani dall’alto.
Era cosi che ci sentimmo, a trascendere quell’acqua cristallina.
Andammo avanti per ore, o forse minuti o secondi, non lo so. Sta di fatto che ci fermammo, solo quando fummo esausti, le gambe vivacemente protestavano, erano più pesanti di prima. Notai. Quando ci fermammo ha riprendere fiato, a bordo piscina. Le vetrate aperte, erano davanti a noi.
E quello spicchio di verde fuori, la campagna e il resto, sembrava far parte di un dipinto ad acquarelli.
Ci sorprese notare, il fiatone dei nostri compagni. Anche se noi stessi avevamo il fiatone, non importava. Meglio gli altri che noi, meglio i nostri amici che noi.
Mi tirai su a bordo piscina, le gambe pensanti ricaddero in acqua. Quel momento era stato complesso, tanto che lascio qualcuno ha bocca aperta sull’ingresso della piscina. Simon e Bob, erano venuti ha dare un’occhiata. Forse credevano, che poteva succederci qualcosa di grave.
Si sbagliavano, perche nulla di grave era successo. Solo la poesia dell’unione, che d’amico ti scalda il cuore, come una coperta di lana quando fa freddo. Ecco cosa era successo.
Non notai la macchina fotografica, che teneva Bob in quel momento. Senti solo un debole click, che non mi preoccupo per niente.
Guardavo l’orizzonte, guardavo il cielo. Perdendomi nei pensieri di quel momento, e non ero l’unico ha voler elaborare quell’emozione. Chissà che facce avevamo, chissà perche poi quei sorrisi che, fra un pensiero e l’altro ci rivolgemmo.
Gente in acqua, altra seduta sul bordo piscina, quel silenzio duro in eterno. E non ci peso, e non era imbarazzante. Un’po come quando si riesce ha stare da soli, ma in compagnia.
“che momento ragazzi” borbottai, nel cuore e nello stomaco nascevano pesanti blocchi di cemento caldi.
Sophie inizio ha piangere, era rimasta in acqua con Arthur, Rupert, e John. Frank era seduto con me a bordo piscina. Scivolo oltre Rupert, si isso sul bordo vasca, e mi abbraccio con una forza che non pensavo potesse avere. Ne che la dolcezza di quel gesto, potesse comprendere in se anche la forza calda.
Di forza sino a quel momento, ne avevo conosciuta una. Cioè la forza di una cintura, delle mani, dei pugni. Non ricordo nemmeno se mia madre, mi abbracciava da piccolo.
Ero sicuro che, dalla terza elementare in poi, aveva smesso.
“ehm..signorino Rupert..mi scusi, ma il pranzo e pronto” disse un Bob, avvicinandosi ha quella parte di piscina.
“come, è già ora di mangiare” rispose uno scioccato John.
“ma il tuo unico pensiero, e il magiare?” scherzo Frank, col fuoco.
“uuhh questa e una risposta troppo pesante” commento Rupert uscendo dall’acqua, mi fece l’occhiolino. Capi cosa intendeva.
“qui ci vuole, la secchia per Frank” esclamo Sophie, sorprese tutti.
Il richiamo comunque, era inequivocabile.
Come Frank che in modo giocoso scappava, nuotando al centro della piscina, o di come tutti ci lanciammo al suo inseguimento, anche correndo a bordo vasca. In quei momenti concitati, si rideva soltanto. E quando, finalmente John riuscì ha bloccare Frank in un angolino della piscina.
Era riuscito ha scapparmi in acqua, ora era in trappola attaccato alla parete.
Ora Arthur e John, lo prendevano per braccia e gambe. E questi non la smetteva di ridere, nemmeno quando venne lanciato in acqua, come un fantoccio. Dove con, un forte splash atterro, ed infine affondo.
Nuoto fino al bordo più vicino Frank, li tesi una mano per aiutarlo ha salire. Fu una scelta sbagliata. Frank mi trascino in acqua, e grido all’amico John “insubordinazione”.
Inequivocabilmente venni tirato in mezzo, ricevetti una buona dose di spruzzi d’acqua, e qualche lancio in acqua come un sacco di patate.
Vennero più o meno tirati tutti in mezzo, perfino Sophie, o Rupert, e Arthur, e John. Il momento stava degenerando, in una lotta uno contro uno. Quando un forte fischio, ci blocco istantaneamente.
Guardammo dall’altro lato della piscina, Simon con due dita in bocca. Aveva chiamato su di se, la nostra attenzione per il pranzo.
Uscimmo di malavoglia dall’acqua, il viso severo di Simon ci fece desistere ha scherzare con lui. Mormorammo scuse, quelle più sincere quando li ammo accanto. Per prendere gli accappatoi dalle sue braccia. Perfino Rupert, che sembrava dispiaciuto più di tutti.
Ci incamminammo tutti e sei verso la villa, otto se si contavano anche le due figure più grandi ch’erano rimaste indietro. Per chiudere le vetrate e i lucernari, Bob e Simon apparvero poco dopo. Quando ancora bagnati fradici, coi costumi che ancora gocciolavano. Eravamo fermi, davanti alla porta sul retro.
“mangiamo fuori, cosi almeno non sporchiamo casa” dissi, era il mimino da dire.
“ma sii, che c’importa. Possiamo portare fuori un tavolino, e sei sedie” il tempo di dirlo, che Bob e Simon tornarono fuori con un tavolino, abbastanza grande per noi sei, ritornare dentro in casa, per portarci le sedie.
Tocco ha noi spostare tavolino e sedie, nel prato davanti alla piscina. Appena fuori dal sentiero sterrato, che dal portico sul retro portava alla piscina.
Altre colonne ricoprivano quella facciata, e un’impotente terrazzo usciva dalla struttura marmorea della casa, come se fosse un rigetto delle meglio cose di quella villa.
Dalle tende di lino bianco, che svolazzavano dal terrazzo, alle colonnine che tenevano in piedi le balaustre, dove due gerani in fiore erano baciati dal sole.
In breve le sei sedie, vennero disposte attorno ha quel tavolino in plastica.
“ricordi Ru’, quando lo usavamo per vendere le granite in agosto” ricordo Frank, barbato dall’accappatoio bianco. Uguale ha quello che indossammo tutti.
“o di come ci misi dentro un minicicciolo alla signora Whawerly” sussulto di risate Arthur.
“e..poi, mi segue per tutta la strada con la sua ciabatta..” trattenne altre risate Arthur.
“dovresti finirla però, di prendertela con quella vecchia” ribadì serio Rupert, o almeno ci tento d’esserlo. Almeno finche, Arthur non gli rivolse il più innocente dei sorrisi.
Sghignazzarono quasi tutti, conoscevo di vista la signora Whawerly. Era un’anziana signora, che non si era mai sposata, ed era il bersaglio preferito di Arthur. Scopri poi che si trattava della sua vicina di casa, quella del gatto fatto
saltare in aria.
Il pranzo fu ottimo, Bob si era superato. Pasta al sugo, con chili e chili di formaggio grattugiato sopra.
Fu forse il primo pranzo, che ai a non essere concentrato solo sul piatto davanti. Anzi, per tutto il tempo piluccammo il cibo. Parlando di questo o di quell’altro. Per lo più erano i nostri, progetti estivi.
“pensavo, e se costruiamo una carrucola” propose Frank, mangiando quattro maccheroni, infilzati alla sua forchetta.
“una carrucola..di..che..stai parlando Frank?” chiese John, faticando ha deglutire la sua grossa forchettata di pasta.
“per la caverna” bisbiglio Frank, nei paraggi c’era Simon con orecchie in allerta.
“intendi dal soffitto crollato?” dissi.
“e poi, come fai ha risalire” intervenne Sophie.
Gli sguardi si concentrarono tutti su Frank.
“con dei pesi….oppure..avete presente le cinghie che usano nelle miniere per tirar su le rocce” fece Frank.
“quelle che hanno due ruote all’estremità, e che se le tiri da un lato di muovono?” domando Arthur.
“esatto, pensavo ha una roba del genere” confermo Frank.
“basta solo che qualcuno stia sopra, e tiri” disse John.
“Frank, non credi che sia un progetto troppo complicato?” chiese Rupert.
“non serve, la caverna va bene cosi com’è” aggiunsi, a queste parole Frank assunse un’aria contrariata.
Come se iniziava ha credere, che per noi non era abbastanza in gamba per farlo.
“non e che non lo apprezziamo, vogliamo solo che non fai troppa fatica. Tutto qui” intervenne Sophie.
Il viso di Frank, s’illumino.
“oh ma se è per questo, non dovete preoccuparvi” rispose convinto.
Continuammo a mangiare
“dobbiamo ancora finire di esplorare il bosco, la mappa non è ancora finita” parlo dopo qualche piccola forchettata Sophie.
E aveva ragione, ci trovammo tutti d’accordo.
“solo che io, devo tornare a casa. Mia madre, vorrà vedermi. Almeno sa che non mi è successo niente, e non si preoccupa” rispose John, c’era un certo imbarazzo nella smorfia del suo viso.
“va bene John, ci vediamo nel tardo pomeriggio qui a casa mia” fece gesto di non preoccuparsi Rupert, con le mani.
“anch’io, non sarò dei vostri” mormoro Frank, intuimmo tutti il perche.
“bene, allora siamo io, Scott e Sophie, e Arthur” elenco Rupert, come se la mancanza dei due nel gruppo coeso, era roba di poco conto.
In verità, non era cosi. Quello era il suo modo, per non far pesare ha nessuno quella distanza, soprattutto per cose cosi inevitabili.
Chiacchierammo ancora, sazi al sole, ci stavamo addormentando beatamente. E
con le pance piene, ci si può solo addormentare beatamente.
Sbadigliai sonoramente, slacciandomi l’accappatoio, al sole si stava bene. Dopo che Frank e John, ci avevano salutato con grandi pacche sulle spalle. Chissà come, ero rimasto solo con Sophie al tavolo.
La sua mano fredda, tocco il mio costato. Facendomi sussultare, aprendo gli occhi.
Solo allora mi accorsi, d’essere solo con lei.
“perche tuo padre ti picchiava?” mi chiese, ed i suoi occhi erano cosi seri da non ammettere bugie, come se Sophie avesse atteso quel momento da tanto tempo.
E me lo chiese cosi, di getto, l’impazienza una sola sfumatura della sua voce.
La guardai, incredulo. Mi basto solo un giorno, per dimenticare i lividi, solo poche ore per il dolore. Ma quella mano, là sul costato era fredda. Dove un tempo fiotti caldi di sangue colavano.
“non so di che stai parlando” risposi in fretta, spostando lo sguardo da un’altra parte.
“pensi che io sia stupida, guardami. E rispondimi; pensi che io sia stupida. O che noi lo siamo, che Rupert, o Frank, o Arthur e John siano stupidi” rispose Sophie,
c’era qualcosa di duro nella sua voce.
Quasi delusione, o forse sperava che avrei parlato. Se mi avrebbe stuzzicato ha dovere.
La guardai negli occhi, no, quella era solo la mia sconfitta riflessa nei suoi occhi. Il volersi, chiudere testardamente in se stessi. Dove l’unico antidoto alla sofferenza, sono finte pacche sulla spalla e parole vuote; le mie.
“non voglio parlarne” dissi, davanti alla sua insistenza.
“ok..” ispiro ha fondo Sophie, nella sua tristezza per me. E nel comprenderla, ebbi uno strazio al cuore.
“ricordi, quando ti ho detto di non chiuderti in te stesso?” continuo.
“non lo mai dimenticato” le mormorai.
“allora perche, ti comporti come se l’avessi scordato” pungolo Sophie accalorata.
“e complicato” risposi, le mani aggrappate al bordo vertiginoso della sedia.
La paura di rivelare la verità, era tremenda..cosa c’e che non va in me?.
“prova ha parlarmene, fai finta di raccontarmi una delle tue storie..”
Alzai lo sguardo, sgranando gli occhi, alla dolcezza dei suoi occhi, le guance rilassate, l’azzurro mite delle sue pupille.
“si, lo so che è la tua vita. Immagina, usa la tua fantasia” concluse Sophie, cogliendo il mio sguardo per quello che era.
“io non posso” mi presi le mani fra i capelli.
“perche non puoi? Vedrai che una volta liberato, tutto ciò che ti tieni dentro, starai meglio” rispose Sophie, comprensiva nel tono.
E quando scosto delicatamente le mie mani dai capelli, con le sue, fu dolce. Parecchie ondate di quella dolcezza, invasero il mio copro. Era come rigenerarsi.
Fu cosi che le raccontai tutto, partendo da molto lontano, concludendo hai giorni nostri.
Ciò che più temevo, erano le fitte di dolore che riversavo nel mondo, attraverso il mio pianto. Raccontai tutto a Sophie, descrivendo tutto come fosse una storia inventata, tutte le botte, le percussioni, i giorni senza mangiare, le ripercussioni psicologiche, la voglia di non vivere più, la tristezza, la solitudine. Le mani mi
tremavano, il mio copro iniziava ha sussultare dal terrore.
E se, liberando quei orrori. Non avrei più smesso di piangere? E se rimarrei per sempre quel ragazzo, cosi disperato? Cosa mi sarebbe successo.
Sophie ascoltava in silenzio, non m’interruppe mai in quei lunghi minuti, nei quali misi a nudo la mia anima. Non la guardai in viso, nemmeno per un istante.
Solo quando conclusi, azzardai una rapida occhiata.
Lacrime bagnarono i suoi occhi, umidificando le sue guance rosee.
Anch’io piangevo, anche Arthur e Rupert alle mie spalle lo stavano facendo. E quando, simultaneamente sei braccia mi strinsero. Seppi che non avevo solo nuovi amici, ma anche una nuova famiglia su cui contare.
Quel pomeriggio, lo ai in una sorta di limbo. C’erano momenti nei quali ero completamente lucido, altri in cui volevo stare da solo.
E mi allontanavo dal gruppo, quando vagammo nel bosco ad esempio. Lasciavo che i tre, andarono avanti, coi loro canti e chiacchiere. Il mio fantasma col suo sudario, stava indietro, si nascondeva dietro agli alberi, sotto i cespugli di rovi.
Ebbi questo distacco, e nessuno fece nulla. Anzi, sospetto che sia stata Sophie ha dire, sia ha Rupert che Arthur, di lasciar perdere. Di far finta di non vedere il mio
comportamento.
Eppure, ero irrispettoso, e dava sui nervi il mio continuo nascondermi. Cosa dovevano provare, quando si voltavano per parlarmi o ribadirmi qualcosa, e non mi trovavano?
Dio ero proprio una merda; fu forse dopo la sesta volta che mi fermai con la testa appoggiata ad un tronco nodoso di un albero, particolarmente ricurvo. Fu a quel punto, decisi che quei amici. Non meritavano questo trattamento. Persi due forti respiri, voltai le spalle al tronco, per correre verso le loro voci. Corsi a più non posso, destreggiandomi fra quei alberi in una sorta di slalom.
Più correvo, più mi avvicinavo alle tre indistinte voci.
“ulalla ulala uhlalaala” cantavano allegri, tenendosi per mano.
Sbucai all’improvviso, da dietro un basso albero. I tre erano li, davanti a me. Come bloccati fra quei archi arborei, sopra le nostre teste. L’odore agre di pino forte, misto ad altri odori vivi.
“posso cantare con voi?” dissi, soltanto.
Un sorriso si accese sul volto di Sophie.
“ma certo” rispose Rupert, allargando le braccia.
Ripresi fiato, uno strano sorriso affioro fra le mie labbra. Guardai Sophie, Rupert ed infine il piccolo Arthur. Era tutto tornato alla normalità, camminammo ancora, cantando contro tutti e tutto. La nostra allegria sbocciava, e col suo calore ammorbidiva tutto al suo aggio. Come il balsamo, lenisce, distende.
E fu il tramonto, e fu tempo di correre a casa, o alla caverna per me. Stavo proprio per prendere la strada della caverna, lasciando che i tre tornarono nelle loro rispettive case.
“ma che fai, non torniamo ha casa?” chiese Arthur “ha me va bene, un’altra notte nella caverna” aggiunse poi.
Sophie rivolse un’occhiata ha Rupert, i loro piani erano altri. O per lo meno quelli di Rupert.
“non c’e ne è bisogno, tu Arthur devi tornare ha casa, tua madre se la prenderà con me, se non ritorni ha casa. E credo che anche Sophie, voglia tornare ha casa sua. E Scott, può venire ha dormire ha casa mia” parlo Rupert, e quel suo tono autoritario lo vidi usare poche volte.
Sophie annui, quando Arthur le rivolse un’occhiata per costatarne la verità.
“sicuro, non ti disturbo?” chiesi, rivolgendomi al solo Rupert.
Per me la caverna, andava più che bene.
“certo che no, non disturbi” rispose.
Non ci credevo, come in un sogno. Mi stavo allontanando da quel bosco, su una strada al tramonto, in compagnia dei miei amici, o almeno una parte del gruppo. Mi senti per la prima volta partecipe, e non solo uno spettatore.
E bhè, era un gran bel avvenimento.
Capitolo 10;
I grandi progetti estivi di Frank.
Faceva caldo, l’afa era insopportabile. Facendoti sudare il doppio del normale, ma soprattutto facendoti credere che il cielo, premesse sulle tue spalle tentando con insistenza di schiacciarti al suolo, come una sottiletta. Scaricando cosi i suoi bollenti spiriti.
L’agio lo trovai, andando in cucina. Volli bere qualcosa di fresco, speravo che Bob con tutto quel caldo stesse preparando qualche granita, fatta solo di spessi strati di ghiaccio.
Rupert dormiva nella sua stanza, io in quella degli ospiti.
“e stata usata poche volte” mi racconto Simon, mentre frettolosamente e con mani esperte. Cambiava le lenzuola.
Io avevo tentato d’aiutarlo, ma questi sembro non voler accettare il mio aiuto, e diciamocelo lo rallentavo solamente nel mio aiuto.
Che quel letto non fosse usato, lo capì appena mi distesi sopra. Detti la buona notte a Rupert, sul corridoio sormontato dal tappeto, e da tutti quei fiori finti. Il materasso era cosi duro, mi faceva male perfino la schiena da quanto era duro, un blocco di marmo, provai e riprovai a trovare una posizione migliore.
Rigirandomi fra le lenzuola; con quel caldo poi, tutto quel movimento mi stava uccidendo. Decisi di addormentarmi sul pavimento. Stranamente fresco, più di qualsiasi superficie.
Molto prima dell’alba, ero già sveglio. Avevo dormito bene, quella casa poteva sembrare severa, col la sua etichetta e bel modo di presentarsi. Era comunque calda di notte, soprattutto. Quando fasci di luce lunare, filtravano dalle finestre lasciate aperte. Tanto l’aria fuori era cosi calda, che si sperava almeno in un alito di vento. Cosa che non fu.
“Bob” provai ha chiamarlo, non vedendo l’enorme pancione coperto dal grembiule bianco. Non era nemmeno dietro al piano cottura; sua postazione fissa.
Un trambusto, oltre la dispensa attiro la mia attenzione. Come se qualcuno si fosse alzato di fretta e furia, da una sedia. La, oltre la dispensa, dopo un armadio con molti scaffali, pieni di forchette, coltelli, piatti di varie portate, piatti decorativi in porcellana, servizi da sette, servizi da dodici, bicchieri per l’acqua, bicchieri per il vino, bicchieri sottili per lo champagne, bicchieri tozzi per il brandy, e altro ancora.
Dopo quell’armadio, c’era una porta in metallo lucida, era semiaperta. Una nube fresca, riuscì ha trovare la via di fuga attraverso quello spiraglio. Ghiaccio in polvere, investi la mia faccia. Quando il pancione di Bob sbottonato, apri la porta in metallo. E prima che potesse dire qualcosa, dissi:
“c’e posto per un altro”
E con un sorriso Bob, m’invito ad entrare. Smisi subito di grondare sudore, la cella frigorifera era abbastanza grande da poter contenere entrambi. Una sedia sgangherata, era stata appoggiata ad una coscia di prosciutto, più larga del mio quadricipite.
Sbruffo Bob, nonostante si stesse bene in quella cella. Non la finiva di sudare, dalla fronte, fin giù sul collo dove rivoli li scendevano sul petto, e ancora più in giù, fino a valle. Il faccione rotondo, non era più roseo, ma bensì rosso più di un peperone.
La sedia sgangherata, fece un sinistro scricchiolio. Quando sbruffando ancora, Bob si lascio cadere sopra, agitandosi la grossa mano sul volto.
“qui per fortuna si sta bene..non ho chiuso gli occhi tutta la notte, non ho dormito nemmeno per un minuto..sono sceso qui per far un pisolino, macché con tutto questo dannato caldo” sbruffo ancora Bob, tentando in tutti i modi di raffreddarsi.
“il pavimento era abbastanza fresco” feci, come a dire che io per quel caldo, avevo trovato un rimedio efficace.
E certo, potevo dirgli che lui soffriva il caldo più di me, per la sua stazza. O che certe persone riescono ha sopportare il caldo, e altre no.
“a dire il vero, non ci ho pensato” mormoro Bob, grattandosi il mento oramai divenuto una cascata grondate di sudore.
“ti ringrazio, di non aver dato tutta la colpa al mio eccessivo grasso” aggiunse riprendendosi dai suoi pensieri Bob.
“figurati, non sei comunque grasso. Mia zia e grassa” risposi, gentile.
Gli occhi porcini di Bob, ora erano animati da uno strano bagliore. Asciugandosi la fronte Bob, continuo ha parlare.
“io l’avevo capito, ch’eravate dei ragazzini speciali…guarda qui” e cosi dicendo Bob, tiro fuori dalla tasca interna del suo grembiule una foto, in bianco e nero.
Una piscina sullo sfondo, l’acqua cristallina rifletteva i raggi del sole, i mosaici, e gli affreschi degli Dei sulle pareti, potevano essere l’elemento essenziale in quella foto, la cosa ch’era più in risalto, che catturavano l’attenzione col loro fascino. Ma non era cosi..a bordo di quella piscina, non ci credetti.. C’erano sei ragazzi, divisi fra dentro l’acqua, o sul bordo piscina. Ero io, quello a bordo piscina, quella era la mia gamba, il mio ginocchio a riemergere in acqua.
Avevo uno sguardo pensieroso, distante, con gli occhi, due palle vitree rivolte al cielo. Uno strano sorriso fra le labbra, a metà fra il pianto e la dolcezza.
C’erano Rupert, John, Arthur in acqua i loro sorrisi erano uguali hai miei, guardavano tutti il cielo. Il sole stava d’innanzi ha noi. Sophie piangeva, quella foto era riuscita ha catturare quel fatidico momento.
Ero stupefatto, quella era una bella fotografia. Incentrata su di noi.
“l’hai scattata tu?” gli chiesi, restituendo l’istantanea ha Bob.
Lo stesso scosse la testa: “tienila tu; si l’ho scattata io..sai non ho mai avuto amici con qui condividere questi momenti. Sai grasso com’ero, da bambino tutti mi evitavano, e possibilmente mi prendevano anche in giro..vai vai vai, corri e rotola, vai grassone vai” canticchio amaramente nel ricordo della sua triste infanzia Bob, giurai di aver visto una lacrima scendergli dal viso.
E cosi Bob, si alzo dalla sedia, che per l’occasione emise un altro debole scricchiolio sordo. Uscì dalla cella frigorifera, non prima di voltarsi sull’uscio per dirmi:
“non stare troppo dentro per troppo tempo, il freddo fa male alla testa” e poi spari, dietro la porta. Lasciandola accostata come prima.
Rimasi solo, forse per troppo tempo. Rimasi solo con quella foto, che forse non basterà a descrivere ciò che provavamo in quel momento.
Eppure la nitidezza dei nostri visi, si stagliava su quella carta spessa e porosa, si notava, si capiva, ci si innamorava di quella foto all’istante. Per Dio, eravamo noi quelli al centro di tutto. Come potevamo non vederci le nostre emozioni, dipinte con l’inchiostro?.
Ma forse quella foto poteva ricordarcelo, forse se avremmo scavato in quel cantuccio del nostro stomaco. Ci potevamo ancora trovare quei mattoni caldi, piantati dentro.
Usci dalla cella, quando senti la voce assonnata di Rupert invadere la cucina.
“Scott..e-e sveglio” sbadiglio sonoramente, sembrava aver dormito come mai aveva fatto in vita sua.
Completamente rinfrescato, e di buon umore, lo raggiunsi. Bob ci servi la colazione leggera, per l’occasione.
“quanto mi mancano, le more di ieri” brontolo Rupert, quando mi sedetti accanto ha lui.
Soffocai una risata, bevendo l’aranciata fresca che mi porse Bob.
Finimmo di fare colazione, in assoluto silenzio. Io del resto, ero assorto per i fatti miei. La foto, balugino nella mia testa. Torno ha farlo, ogni tanto in quel giorno.
Rupert invece non pensava ha nulla, lui semplicemente, faceva colazione cosi, assonnato che quasi non capiva il significato dei suoi gesti meccanici. Era assente, troppo assonnato per formulare una frase sensata, figuriamoci un pensiero. Lo imparai fin da subito, lui faceva colazione cosi. Poi destandosi, e svegliandosi completamente.
“andiamo incontro agli altri” disse Rupert, alzandosi dalla sua seduta.
Feci altrettanto anch’io, ed entrambi ringraziammo Bob per la colazione. Questi chino il capo, in segno di gratitudine. Uscimmo di casa, ando per la sala da pranzo, e quella del the o ricevimento che dir si voglia.
Ci sorprese la figura dinoccolata di Simon, all’ingresso. Ci attendeva, era evidente. Lo salutammo animatamente, forse più Rupert che io.
Non mi sfuggi l’occhiolino d’intesa fra i due. Lo stesso Simon, ci apri la porta di casa. La sua figura stese sull’uscio, finche non fummo lontani, abbastanza da non poterlo vedere.
Si sudava, facendo qualche metro o poco più. L’afa non solo aleggiava dal cielo, ma veniva su dall’asfalto, dal catrame dei marciapiedi, dalle lamiere colorate delle auto. Come onde danzanti su quelle superfici, era peggio che stare in un forno a microonde. Solo che il Timer, andava avanti per ore.
Quelli che potevano evitarlo, quel caldo intenso. Se ne stavano, rintanati negli angoli di ombra in casa, stazionavano davanti hai ventilatori, azionati al massimo. Chi non se li poteva permettere, provava ha refrigerarsi con una bella doccia fredda. Con però il risultato deludente, di aver più caldo di prima.
Col la calura, e difficile trovare agio, soprattutto questo caldo insopportabile. Troppo afoso, troppo sparso e cosi pesante, perfino il venticello che soffiava era caldo. Col freddo, e un’altra cosa. Ti puoi coprire con strati e strati di indumenti, per combattere il freddo. In definitiva, la mia conclusione fu; il freddo lo si può sopportare, il caldo no.
A meno che non hai in casa, una cella frigorifera abbastanza grande da dormirci dentro.
“con questo caldo, non esce nessuno” noto beffardo Rupert.
E aveva ragione, niente bambini sovraeccitati per la fine delle scuole, niente anziani per strada. Li vedevi dirigersi con la loro camminata faticosa, all’edicola della piazza, la prendevano un giornale, scambiavano qualche parola col proprietario, e poi dritti ha casa, o se non avevi più moglie, andavi al circolo bocciofilo cittadino. Unico ritrovo forse, per persone che superino la sessantina d’anni.
Giravamo per strada, in quella bolla d’afa. Sei ragazzi, e quando proprio c’incrociammo su quella strada. Erano si, tutti sudati come me e Rupert. Ci sorridemmo gai comunque, nonostante il caldo.
Non arrischiammo per questo, ad abbracciarci. Vorrebbe dire che, nel contatto il calore della pelle dell’altro, si sarebbe aggiunta alla tua temperatura. Era una cosa stupida da pensare, ma tacitamente decidemmo cosi.
“Frank, che hai nello zaino?” chiese Rupert, indicando i legacci neri attorno le spalle di Frank.
Ed ora che lo notavo bene, il viso di Frank era strano, si muoveva come ha scatti nervosi.
“ohh non dovevi chiederlo” brontolo Arthur.
“ci ha fatto la testa cosi, da quando siamo arrivati ha casa sua” s’aggiunse John, aveva un che d’ilarità nella voce, e nell’occhiata che rivolse ha Frank.
Rupert, inarco le sopraciglia non capendoci nulla.
“non..e-e vero, non..vi ho fatto una testa cosi..” disse Frank, camminando come una trottola impazzita avanti e indietro.
“sono..stato sveglio tutta la notte” si calmo un poco, quando Rupert in qualche modo blocco il suo movimento energico, allora collegai.
“hai bevuto qualcosa, con tanto zucchero?” gli domandai.
Mi sorrise Frank, troppo eccitato perfino per parlare. John, si mise ha ridere a crepapelle.
“ahaaah Frank la secchia, strafatto di Red Bull” disse, lacrimava da quanto rideva.
“siii e dovresti provarla..e troppo forte, tutta questa energia, sento che sto per esplodere..ma coraggio, la caverna ci aspetta” e cosi dicendo Frank, s’incammino verso il bosco, ha o spedito.
Ora che ci penso, era l’unico che il caldo, lo sopportava senza sbruffare ne sudare.
Lasciandoci indietro con John, che non la finiva di ridere. Noi increduli, ci guardammo non sapendo se lasciarci andare come stava facendo John, per la situazione divertente. O preoccuparsi per Frank, e divenire almeno un’po responsabili.
La sua voce alta, tonante grido dalla fine della strada. E finalmente, ci mettemmo ad inseguirlo.
Rupert e Arthur, aumentarono leggermente il o. Mettendosi affianco ha Frank, in modo che assomigliavano agli scudieri attorno al Re. Rimanemmo io e Sophie, indietro al gruppo. John ridendo seguiva gli scudieri e il Re, da pochi i.
“quanto dura l’effetto?” domandai ha Sophie, guardando avanti ebbe un moto di divertimento.
“dipende, da quanto ne ha bevuta. Di solito un paio di ore” rispose.
“e tu lo sai perche?” chiesi con fare insinuante.
“se intendi, per esperienza personale. Ti sbagli. Il copro umano, ci mette poche ore ha smaltire lo zucchero” spiego Sophie, un’po duramente.
“sei molto intelligente, io queste cose non le saprò mai” dissi, rimediai all’istante alla mia stupida insinuazione. Ed era assolutamente vero.
Rivolse un’occhiata verso me, era un qualcosa di dispiaciuto, e di ringraziamento per quel lieve complimento.
“invece ti sbagli, tu hai delle cose che io non posso avere” mi disse Sophie.
La guardai negli occhi, come ha capire cosa intendesse dire. Io che cosa avevo, che Sophie non aveva?.
“hai una buona manualità, un ottimo orientamento, e spirito d’osservazione. Ma, soprattutto una strabiliante fantasia” aggiunse Sophie, contandole con le dita.
La mia fantasia, cos’era?! Strabiliante, see macché. Sophie diceva cosi solo per farmi un complimento. Feci finta di aver capito, i suoi finti complimenti. Che proprio non mi sembrava d’avere una buona manualità, e buon orientamento.
Solo sulla fantasia ero d’accordo, si ne avevo tanta. Ma non pensavo fosse strabiliante. Ma solo dovuta, perche ero ancora un bambino.
Ero sicuro che, nel crescere. L’avrei persa, definitivamente.
Le strade fuori città, iniziarono ad essere percorse. Alle nostre spalle, ci lasciammo tutte le case, i negozi, la scuola. Davanti a noi, come in un sogno. Si dischiudevano gli ampi spazi, ed infine il verdeggiante bosco, che conteneva il mio mondo, il nostro mondo.
Agili come scoiattoli, ci arrampicammo sul guardrail, lo scavalcammo con un balzo. L’ombra delle piante ci avvolse, la calura la sotto non era eccessiva. Anzi, si stava al fresco.
Era proprio un altro mondo, dal silenzio depressivo cittadino, e la sua desolazione. Al bosco, che in silenzio mai riusciva ha stare. Perfino le foglie, sembravano voler dire la loro, fermentando d’attività. Al di là di qualche uccello, e scoiattoli coi loro versi acuti.
“bene, almeno qui si sta freschi” brontolo Arthur, asciugandosi il sudore sulla fronte col palmo della mano.
“siii..andiamo alla caverna yhuuu” disse Frank, gli effetti del troppo zucchero nel suo copro, non erano ancora finiti. Aveva gli occhi iniettati di sangue, da quanta energia aveva in copro.
E siccome per Frank, in quel momento non potevamo fare altro. Decidemmo di seguirlo ancora, e tenerlo d’occhio per tutto il tragitto.
o dopo o, scivolammo nel regno incontrastato della natura, e questa ci faceva are con insofferenza e menefreghismo totale. E meno male che fosse cosi.
Continuammo ad immergerci fra alberi, e le nostre piste. Quelle che oramai conoscevamo tutti a memoria.
Superammo il covo dei contrabbandieri e l’albero morto, fin ad arrivare al rigagnolo del fiume. Lo seguimmo fin l’entroterra, fin quando gli argini dello stesso si alzarono.
ed eccola li, l’entrata della caverna. Oscura, come una bocca sinistra inghiottiva e sputava la sua saliva.
Entrammo senza aver paura, l’oscurità era più fitta, ciò porto altro fresco al contatto con la nostra pelle. E ciò ci mise di buon umore. I i riecheggianti, il gocciolio senza fine, era ciò che traghettava nel nostre figure, verso la pancia del mostro buono, che vive nell’armadio.
“ah starei qui tutto il giorno, ragazzi” disse John, calandosi nello scivolo con uno swham infinito.
Attendemmo il tempo necessario, cosi che John si togliesse dall’uscita dello scivolo.
Il successivo ha lanciarsi fu Arthur, poi tocco ha Frank, Rupert, Sophie e infine io.
Fu divertente, piegare i gomiti e strusciare sul liscio pavimento di quel tubo.
Vorticando al suo interno, la velocità che si acquistava al suo interno, toccava i massimi livelli nell’esatta metà dello scivolo, o almeno cosi sembrava. Una volta uscito fuori, frenavi al momento giusto.
Nell’Atrium c’era già un certo trambusto, non normale per quella caverna. Era Frank ha produrlo, chino ha terra, e un’po distaccato dall’esatto centro pieno di massi caduti.
Tiro fuori lo zaino, una corda molto sottile di quelle che si usano per l’arrampicata, un moschettone, ed infine una carrucola.
Attendemmo tutti, le sue istruzioni. Che arrivarono subito.
“allora Scott, trova un appiglio per questa corda” mi disse, lanciandomi la corda sottile.
Rapido sali fin al soffitto, l’idea era quella di creare una certa inclinazione fra il sotto suolo e il suolo. Era molto complicato, perche poi apparve Sophie, teneva fra le mani una specie di ruota, con degli intercapedini dove poter far are la corda.
“e troppo eccitato, in questo momento. Si dimentica alcune cose” spiego la sua apparizione Sophie, come ha prendere le scuse per Frank.
Mi fu difficile, trovare una sistemazione per quella ruota. Per mia fortuna Frank, aveva pensato ha tutto, previdente. La ruota, aveva una specie di scatola appena
sopra al suo asse, che si apriva e chiudeva, una volta aperta si poteva vedere lo spazio per un sostegno al suo interno.
Quello spazio era obliquo, e perpendicolare alla ruota.
La soluzione che mi venne, fu semplice, bastava costruire un tre piedi. Ma abbandonai l’idea quasi subito.
Il mio sguardo a quel punto, cadde su Sophie, la stessa inarco le sopraciglia al mio sorriso di vittoria.
Afferrai la corda, che pendeva giù dal soffitto, la feci are attraverso lo spazio obliquo. Feci un nodo stretto, tornai all’albero dove era aggrovigliata la vecchia corda di rampicanti. E semplicemente la alzai un poco sul tronco. Cosi che la ruota fosse bella tesa. Sophie la tenne in alto per me, cosi da non far fatica.
Nel mentre i quattro di sotto, si stavano dando da fare, per costruire un tre piedi. I legni li ricavarono dai loro slittini, per questo Arthur ebbe una faccia imbronciata per tutta la durata di quei lavori.
Con l’aiuto di Sophie, feci are la corda sottile di Frank, attorno alla ruota, poi lanciammo l’altra estremità giù, tenendola ben salda alla ruota.
Lo stesso procedimento lo fecero giù, fu John ha lanciarmi l’estremità ante dalla ruota di sotto.
In definitiva, era la stessa corda, con le sue due estremità che s’incontravano su una ruota.
La stessa corda, era perfettamente lunga al punto giusto, cosi da non far fatica quando la riportai alla ruota, dove Sophie teneva bloccata l’altra estremità.
Solo la tirai un poco, per far un nodo, il più stretto che potevo. Cosi fu impossibile che quella corda, uscisse dai suoi binari.
Quando finimmo con quel lavoro, il bosco fu invaso da urli di vittoria, e soddisfazione. Sophie mi abbraccio felice, quella era stata la nostra prima conquista, la prima impresa, una delle tante alla fine.
Funzionava da Dio, la corda era cosi tesa nell’aria; come la corda di un arco.
Decisi poi d’infilare un bastone sotto la ruota, lo incastrai sulla scatola, e lo piantai nel suolo. Almeno tutto il nostro peso non andava ha finire tutto, sulla corda fatta di rampicanti. Pensai; c’era il rischio che poteva spezzarsi, col lungo utilizzo.
Ma ora bhè, morivamo dalla voglia di provare quella carrucola. Frank, dal suo zaino tiro fuori un’altra piccola corda. Attacco il moschettone alla carrucola, nello stesso ci fece are la corda che teneva in mano, ch’era più spessa di quella tesa fra il soffitto e il pavimento.
Finito questo lavoro, o la corda, che ora aveva le sembianze di un lazzo. Di
quello che si usano, per catturare i cavalli selvaggi.
Fu Arthur, il primo ad usarlo. Si sedette dentro al lazzo, che assunse col suo peso la forma di una goccia. Lo tirai su, facilmente visto il peso minuto di Arthur. Bastava tirare un’estremità, e la corda stessa scivolava attorno alla ruota senza intoppi. In un baleno Arthur, fu su.
Tocco ha Rupert, Frank e John. Il più pesante di tutti, comunque ci raggiunse sul soffitto. Non che fosse grasso, no, no era solo un’po alto rispetto agli altri del gruppo.
“geniale” mormoro Frank, indicando il legno appoggiato alla ruota e piantato nel terreno.
“divisione dei pesi” risposi, come se niente fosse. E forse, un’po troppo modesto.
Provammo infine la discesa, era fantastica.. La sensazione che si ha seduti ed aggrappati a quella specie di altalena. E simile a quella del volo, guardi giù e vedi il pavimento della caverna che ti viene addosso, sei in caduta libera. Solo che non hai minimamente paura, di schiantarti al suolo. C’e solo la forza di avanzamento che ti culla, spettinandoti i capelli, e costringendoti un poco ha chiudere le palpebre.
C’e solo la grazia eterna del volo, e non puoi aver paura in quel momento. Finche tutto finisce, la carrucola fa a sbattere sulla ruota.
“devi solo mettere i piedi ha terra, per frenare prima”
Proprio come si fa, con le altalene.
C’era un nuovo gioco nella caverna, cosa potevamo fare se non la spola fra sopra e sotto. Proprio non volevamo interrompere quella giostra, senza gettoni. E devo ammetterlo, era un’attrazione piuttosto divertente.
Finche lo zucchero nel copro di Frank venne assorbito, e lui dopo il terzo giro. Crollo esamine a terra, solo per fortuna accadde quando ancora era coi piedi al suolo.
Ci avvicinammo al suo copro disteso, ha pancia in giù sul pavimento roccioso della caverna.
“sta solo dormendo” costato John, tastandoli il polso.
“chissà com’era stanco” mormoro preoccupata Sophie.
Ci guardammo tutti, quell’attrazione pendete sulle nostre teste. Non poteva nascere, ne farci divertire a quel modo, se Frank non ci avrebbe lavorato su, tutta la notte. Eravamo infinitamente grati ha Frank, lo guardai. Era tenero nel suo stare esamine sul terreno, assomigliava ad un bambino soddisfatto, che ha ricevuto la sua poppata prima di andare ha dormire.
“non so voi ragazzi, ma io un pisolino me lo schiaccio” disse John, sedendosi sul pavimento della caverna.
“una eggiata ce la possiamo fare” propose Arthur, quando Sophie rivolse un’occhiata prima a me, e poi ha Rupert.
Evidentemente Arthur, non voleva stare fermo. Soprattutto dopo quel momento gaio di poco prima.
“ma si, e poi Scott deve trovare la sua radura” esclamo Rupert, affermativamente.
Potevamo inoltrarci ancora nel bosco, ne dedussi che Sophie di quella radura che tanto avevo cercato. Ne aveva parlato, con tutti.
Perche nessuno sembrò sorpreso alle parole di Rupert. Ed era scontato che fosse cosi. Come già detto, in quel primo anno in cui ci conoscemmo, non c’erano segreti fra di noi.
Fu solo quando, iniziammo ha frequentare scuole diverse, e collegi. Che piccoli solchi, ci allontanarono giorno dopo giorno.
Hai tempi non importava, e a volte odiavo ammetterlo. Ma quelle persone, che alla fine non vidi più per un sacco di tempo. Le amavo, ancora tutt’ora provo profondo affetto per quei cinque. Quando guardo la celebre foto, nella piscina di Rupert. Non posso fare a meno di sorridere, qualche piccola lacrima cade.
Mentre sfioro, quella carta lucida. Affiora questo dal mio cuore, con l’anima spero solo di vedergli ancora dal vivo..
Il mondo arboreo coi suoi cinguettii, copriva il rumore dei nostro i. Calpestando arroganti tutto, foglie secche, aghi di pino, ghiandaie, pigne e rami secchi. Producendo fra l’altro, deboli scricchiolii.
Parlavamo, chiacchieravamo, ridevamo. Era la vita, o forse l’infanzia che ho sempre desiderato di vivere.
Io, non potevo tirar fuori vecchie storie goliardiche condivise con qualcuno di speciale. Vi siete mai sentiti tagliati fuori da un discorso, per questo motivo? Accade, di solito, quando inizi ha far parte di un gruppo bello e coeso. Ti trovi la, non in mezzo all’attenzione di tutti, piuttosto sei solo un’altra persona del tutto inutile, che ingrossa le cerchia della società. E sei perlomeno felice, vivi, puoi parlare, ascoltare, vedere e toccare. Sei li, spettatore e respiri.
E non puoi partecipare, non puoi, e te ne accorgi fin da subito. Quando l’anima più scherzosa e buffa del gruppo dice:
“oh Rupert, questa qui dobbiamo raccontargliela. Ti ricordi al campeggio estivo..quando John, rubo la parrucca della maestra di Religione..”
“ho ancora nella mente, quel buffo ricordo di John che balla, attorno al fuoco davanti alla nostra tenda..”
“e poi la maestra, si materializza alle sue spalle..ricordi, ricordi come sbianco il povero John” e cosi dicendo Arthur, si sganascio dal ridere.
“o di quella volta, che spaventammo ha morte Emily” prosegui Rupert, uno strano sorrisetto maligno li deformo per un istante le sue labbra.
Perche poi Rupert, si ricordo che la con noi c’era un’altra ragazza, e che c’era la possibilità che questi si arrabbiasse della malignità verso il suo sesso.
Non accadde, Sophie continuo ha camminare sotto quel manto verde e omogeneo.
“ci misi un serpente finto nel sacco a pelo, temo che da quel giorno, ancora c’e la ha morte con me” mormoro Rupert, oramai sicuro che Sophie non avrebbe detto nulla.
“e lo credo bene, visto lo spavento che gli hai fatto prendere” rispose Arthur.
“ma piantala, non eri tu che ridevi più di tutti quando accadde” disse Rupert, da quale pulpito proveniva la paternale.
Qualcosa catturo la mia attenzione, fra quel marrone del terreno, e qualche raro ciuffo d’erba. C’era un piccolo cespuglio, con dei fiori viola in cima.
Non ci credevo, mi dissi ch’era stato un brutto tiro da parte della mia
immaginazione.
Tornai comunque sui miei i, dovevo esserne sicuro. Arthur fu il primo ha notare, il mio brusco cambiamento di direzione. Camminavamo tutti uno affianco all’altro. Ero invaso dall’ossessione, quel fiore viola, lo sognavo ogni notte, appariva rapidamente e poi si dissolveva.
“Scott che hai visto?” domando Rupert, informato prontamente da Arthur.
Ma io non lo senti, corsi, non sapendo dove andare chiaramente. Eppure dal cespuglio, non avrò fatto qualche o.
Fermo su uno spiazzo fra quattro alberi, che disegnavano una X se li guardavi dall’altro, dai tronchi storti, la corteccia vecchia lasciava intravedere dai solchi che aveva lungo tutto il tronco, la corteccia viva e pulsante sotto.
I miei amici, si erano messi al margine di quello spiazzo, piccolo. Mi guardarono, come se fossi un malato di mente. Li lasciai perdere, al momento. La mia preoccupazione, era un’altra.
Guardai a destra, no niente lavanda, altri alberi, rami e foglie. Guardai a sinistra, altri alberi, rami e foglie. Guardai indietro altri rami, alberi e foglie. Guardai in avanti, incrociai il viso di Sophie, ovale, con un bel colorito rosa. Ed ecco, quel viola che cercavo.
“e qui da qualche parte” dissi, avvicinandomi a Sophie.
Dietro di se l’albero che costituiva un vertice della X.
“che cos’è qui, Scott?” domando Arthur, non capendoci niente del mio comportamento.
Si fece più vicino ha Rupert, che si guardava intorno. Proprio come avevo fatto io prima. Solo quando Sophie gli rivolse un’occhiata, come per dire: “non fai nulla”.
Rupert noto il motivo della mia ossessione. Sorrise e scosse la testa, quante ossessioni potevo avere?
Nel mentre, mi stavo arrampicando velocemente di ramo in ramo, andai più in alto, fin dove mai mi ero spinto. Cauto, aggrappato al tronco di quell’albero, la corteccia s’incastrava perfettamente sotto le mie unghie. Non me ne preoccupai. Sali ancora, finche i miei amici, furono coperti dalla mia vista dai rami bassi, e le loro foglie.
L’altezza eccessiva, non mi spavento. Dovevo solo riemergere da quel mare frondoso, innalzarmi, spalancare le ali. E finalmente, volare.
Ero sul ramo più in alto in quel momento, forse il cielo lo si può toccare con un dito.
Concentrai il mio sguardo verso le chiome a punta o a cespuglio irregolare.
Cercavo degli spazi vuoti, grandi abbastanza da contenere una radura. Strizzai gli occhi, tenendomi ben saldo con una mano, appoggiata al tronco. L’altra mi aiutava col l’equilibrio. Visto che il ramo, su cui posavo i piedi. Era sottile, tanto da non poter mettere i piedi a piè pari. Ma solo uno davanti all’altro.
Le foglie lontane, sembrarono essere scosse. Il fenomeno aumentava comprendendo nella sua onda, altri rami, altre foglie.
Era una brezza, smuoveva le particelle d’ossigeno e anidride carbonica, mista ad altri gas.
Mi tenni ben saldo con la mano, mentre quel ramo iniziava debolmente a oscillare. Trovai quello che cercavo, annotai nella mente. Solo la direzione da intraprendere, da quel punto.
Scesi trionfale, leggiadro fra un ramo e l’altro. Quando toccai terra, mi senti un’po stufo di appartenere al mondo terreno. Era stato emozionante, starsene lassù con le intemperie che sbattono sul tuo viso. Era stato un momento unico, desideravo molto volare.
Sophie era sbiancata in un primo momento, ma ora, vedendomi. Li, sano e salvo. Vi torno, sul suo viso perfino il sorriso. Stava per dirmi qualcosa; quello che doveva essere un ammonimento. Fu solo aria smossa, dalla sua bocca aperta.
Rupert la interruppe, con un movimento brusco della mano.
“da che parte” disse serio, o forse influenzato dalle stesse mie ossessioni.
Arthur balbetto, Sophie era indecisa se essere scioccata, per essere stata interrotta a quel modo, o essere sconvolta dal comportamento indecifrabile di entrambi.
In realtà, ci si poteva arrivare chiaramente. Bastava che Sophie, guardasse alle sue spalle, ed ero sicuro. Lo avrebbe capito. Ma siccome, io e Rupert ci intendevamo ad alti livelli. Fu lui l’unico ha capire.
Li indicai con un cenno del capo, la direzione da prendere. Appresa la direzione, Rupert parti subito stoico e primo.
Sophie decisa d’essere sconvolta, quando mi guardo. Sbattendo le palpebre un paio di volte.
“l’ho trovata la radura” dissi, ed indicai con una mano un punto alle sue spalle.
La stessa si volto, dandomi la schiena, sussulto di sorpresa quando noto il cespuglio viola. Anche Arthur finalmente capi, ed insieme seguimmo Rupert. Che nel bosco, sembrava inghiottito.
Non mi preoccupai, sapevo che non si era allontanato dalla direzione che gli avevo dato.
Era come tornare a nuova vita, gli alberi si diradavano. Come quando sei al caldo nell’utero, e una forza immane ti spinge, prima la testa, poi il busto e infine le gambe.
Ne riconobbi un paio di quei alberi, quando li ai accanto. Entrava molta luce, le chiome folte rimasero indietro. E quel senso di mistero alleggiante nel bosco, pure.
E, come il più bel sogno. Davanti hai miei occhi, si dischiuse la radura che tanto sognavo di rivedere.
Nel dischiudersi ha noi, un forte bagliore accecante, si fece per un momento. Dopo bhè, potemmo godere della bellezza di quel posto.
Complesso, nei colori accesi, che sembravano dar vita alle più belle nostre fantasie. Il viola della lavanda, quei raggi obliqui del sole, ed il polline dei soffioni che sembravano fatine danzanti, come in assenza di gravita.
E poi ancora farfalle, a profusione scivolavano ha spirale, senza materia, tanto che per le nostre orecchie non producevano rumore. Ed ancora sul margine, un salice piangente, si estendeva al limitare di quella radura. Copriva parzialmente ciò che c’era dietro.
Era come se tutto il bosco, si fosse adoperato come meglio poteva, per far si che quella radura non fosse sconosciuta all’uomo. Che nessuno, poteva assaporare gli odori delle corolle fertili, o delle margherite, perfino le fatine, o le farfalle non dovevano essere viste dall’uomo.
“questo posto è magico” bisbiglio Sophie, e con fare da bambina.
Sorrise, e si lancio correndo nel bel mezzo di quella radura. Noi fermi sul margine estremo, era cosi grande che copriva l’ampiezza intera della mia casa. Le mura fatte dal fitto del bosco, era un quadrato se lo si guardava dall’alto, era uno spiazzo dove si accumulava la magia dei colori.
E si chino Sophie, su un cespuglio di lavanda, ne annuso il fiore viola e ha forma di spiga. Quei cespugli erano sparsi qui e là, sopra al manto erboso della radura.
Arthur sorrise in mondo ingenuo, si lancio anche lui nella radura, annuso qualche fiori di lavanda, e poi assieme ha Sophie girarono quel posto, seguendo le farfalle per nulla disturbate dalla nostra presenza, per aria.
I due iniziarono ha cantare, in modo sciocco.
“Here comes the sun, tu turù”
Rupert li segui, col loro canto. Ma prima di far un altro o, mi prese per mano e mi trascino da quei due, che iniziarono ha danzare in cerchio.
Che costa stava succedendo alla mia vita? Stava svoltando, o mi era concesso sperare nel meglio?
Che prezzo hanno i sogni, di poter star bene. Non ne ho idea, ma quando finimmo per rotolarci in quella radura. Pensai solo; adesso.
Importa il momento, più di ogni altro dolore terreno. Importa l’amicizia che c’e, e non quella che verrà. Importa la vita, solo l’infanzia. Il resto e solo noia, e anzianità.
E pensai ancora, e ancora a tutto questo. E magari, non voleva dire nulla. Eppure sapevo ch’era importante. Dannatamente, fottutamente importante. Importa il momento, non c’e altra spiegazione nella vita.
Pensai a ciò, disteso fra la lavanda e farfalle, e qualche altro sconosciuto insetto. Accanto a me, Rupert. Dio quanto eravamo giovani in quel momento. I nostri visi distesi, morbidi come l’ambra delle nostre guance, i capelli folti e mai pettinati, le fronti coperte, i nasi puliti, le mani piccole, i polsi invisibili, i figli della pioggia, i figli della nuova generazione.
Quando tutto cambierà, non ci saranno questi giochi. Ballare in cerchio, in una radura dispersa.
Dio quanto male mi fa, al solo pensiero.
Diverrà tutto un bisogno, diverremo inutili numeri sulle pagine di statistica. E non importa, se diventi architetto, o malinconico scrittore, o stuntman, o pilota d’aerei, o che sei la giovane promessa dell’atletica, o perfino uno scienziato. Avremmo soltanto i nostri bisogni, quelli degli altri, cari da sfamare.
Dimenticandoci, di quando non c’importava nulla. E spensierati ridevamo, non preoccupati per tuo figlio o figlia.
“dove cristo sono? E tardi” quando non li vedi tornare subito ha casa, dopo scuola. Infondo loro sono giovani, che ne sanno del mondo. Non l’hanno ancora scoperto. Che ne sanno i bambini, di omicidi, guerre, carestie. Nulla, ha loro basta la spensieratezza. Ridere, già, in una radura, distesi al sole, baciata dall’incredibile bellezza della vita.
Importa il momento quindi, basta solo viverlo.
Chiusi gli occhi, verso il sole. Il sottile strato di carne delle palpebre, lasciava traare quella forte luce.
“ragazzi dobbiamo portare, gli altri qui” disse Arthur, al suo fianco Sophie si rigirava inebriata nella lavanda.
“si, ma solo Frank e John. Non dobbiamo dire ha nessuno, dove si trova questo posto” risposi, molto ingenuamente. Speravo di proteggere quel posto, conservarlo cosi com’è. Solo per noi sei.
“i grandi, potrebbero inquinarlo” mormoro Rupert, leggendo ciò che pensavo con un’occhiata.
Ci bastarono pochi minuti, per tornare alla caverna. Ci bastarono altri interminabili secondi, per scendere planando dall’altalena, altri ancora si
bruciarono per svegliare sia John che Frank.
Il primo balbetto, poi si alzo come un pupazzo caricato ha molla. John, alto, dinoccolato, già attivo anche da appena sveglio. Situazione diversa, invece per Frank. Rupert lo scuoteva debolmente per le spalle. Ma questi brontolo soltanto: “Ma’..g..li h-o fatto…i co…mp..it..i tranq..uil..la.”
Era più un farfugliare incomprensibile, quello di Frank.
“che c’e, che è successo?” chiese John, lui al momento non ci capiva niente.
Nessuno gli aveva spiegato, perche l’avevamo svegliato. Ci penso poi Sophie, al momento andavamo di fretta.
“devi vederlo, Scott ha trovato la radura che cercava” spiego, rivolgendosi al solo John.
Che parve sorpreso da quella notizia.
Finalmente Frank, si decise ha svegliarsi. La fronte aggrottata, le ciglia cespugliose, le palpebre calanti ancora. Era proprio crollato nel sonno.
Fu Rupert ha spiegargli, cosa avevamo trovato.
Ci bastarono pochi secondi, per trovare quel posto. Altri per esplorarlo, per arrampicarsi sui rami bassi del salice, sul limitare di quella radura.
Come se quel posto, fosse un nuovo parco giochi in technicolor. Quei colori cosi accesi, appunto non potevano essere normali in natura.
Quel viola irruento, quel verde chiaro e delicato, le milioni di sfumature delle ali delle farfalle, ancora danzanti nell’aria, no, tutto questo non poteva essere normale. Era solo la nostra fantasia, da bambini di dodici anni, era solo un’illusione ottica.
Quei colori, quel posto poteva esistere in quel luogo; le nostre menti.
Eppure quelle sensazioni, di tatto quando ci stendevamo ancora di schiena fra quei cespugli, sembravano vere. Gli odori nelle nostre narici, sembravano normali. Forse eccessive si, ma comunque inebrianti e normali.
Godemmo per ore, della bellezza di quel posto. Era bello, guardare dal basso le farfalle contendersi il cielo, al pari di aquile e falchi; in quanto ha leggiadria, certo.
Erano forse curiose, credo non avevano mai visto degli umani. Fu per questo, che ci danzavano attorno, come per studiarci da vicino. O magari solo per vedere, se eravamo delle brave persone, e se le avremmo lasciate in pace per quel giorno.
Ne parlammo nell’assolato silenzio del bosco attorno, cosi esteso forse, da sviare da quella radura. La gemma, il diamante incastonato negli anni lavorato, e perfezionato.
Inspirai quell’odore, chiudendo gli occhi. Lasciandomi trasportare dall’emozione, ero in pace, rilassato al sole.
“avevo altri progetti per la caverna” butto giù Frank.
“progetti?” domando da qualche parte fra i cespugli John.
“si, progetti. Per renderla la nostra Tana” rispose Frank.
E cosi dicendo, elenco le migliorie che volle fare. Una comprendeva persino una scala a pioli.
“abbiamo già una carrucola, che cosa ce ne facciamo di una scala!” esclamo Arthur.
“per diversificare, almeno abbiamo due modi per risalire” affermo Frank, infervorato.
“ce ne basta uno, di modo Frank” rispose Arthur.
“ci serve comunque altro cibo, e un secchio per raccogliere acqua dal pozzo” intervenne nella discussione Sophie.
“ecco, ecco il cibo..ne abbiamo molto bisogno” disse rapido John.
“per te o anche per gli altri” l’apostrofo Frank, in modo sarcastico.
“Sophie ha ragione, cibo e acqua sono essenziali; direi, un avamposto” aggiunse Rupert, le mani piegate dietro la nuca.
Lo guardammo tutti, un’po allibiti dalle sue parole. Rupert, che non poteva rendersene conto, di quelle occhiate. Penso che il nostro improvviso silenzio. Era dovuto, all’insicurezza di quel piano. E poi, per che cosa ci serviva un avamposto. Mica siamo nel medioevo, ne il nostro regno o in minaccia d’assedio.
“tu Frank, sei bravo ad progettare cose nuove, Scott ti può aiutare ha costruirle. E noi potremmo essere dei buoni aiutanti” continuo Rupert.
“ma perche proprio un avamposto, ha che ci serve?” domandai, tornando in posizione seduta.
“l’hai detto tu, che dobbiamo proteggere questo posto” osservo Arthur.
“io non ho mai detto nulla del genere” protestai.
“era sottointeso Scott, e la stessa cosa che vogliamo noi” disse Sophie, con fare logico.
Nessuno a parte me, poteva sapere il perche mi ero scaldato cosi tanto. Sapevo cosa voleva dire costruire un avamposto.
Ne implicava che avremmo ato più tempo fuori, all’aria aperta. Che nella caverna.
“se hai paura, guarda cosa hai fatto con un paio di rami rampicanti” disse Rupert, come se io in quel momento. Avessi paura di non riuscire, a costruire un avamposto.
Altre erano le mie paure, in quel momento.
“o come hai costruito i nostri slittini” aggiunse emozionato Arthur.
Guardai Sophie, John ed infine Frank. Lo stesso alzo le spalle, come se mi stesse dicendo: io sono con te, se tu sei con me.
“ok, penso di avere il posto adatto” risposi, coinvolto nei progetti di Frank in quel luogo.
“iniziamo subito allora” propose Arthur, energico come sempre.
“no, no..ci serve del tempo” disse Frank, pensieroso.
“e legna, chiodi” iniziai a elencare.
“martelli, attrezzatura per tagliare” continuo lo stesso tono Frank.
“dobbiamo organizzarci, insomma” sbadiglio John, come se quell’avamposto fosse la cosa più semplice da costruire.
“di legno ne ho in abbondanza a casa, abbiamo tolto il parquet nella sale per il the, e usato. Ma non credo sia marcio” disse Rupert.
E considerando, quando fosse ampia quella sala. Quel legno ci sarebbe bastato, anche per altri progetti. Pensai.
“credo che ha mio padre, non dispiacerà regalarci i suoi chiodi. Invece tu Arthur, puoi prendere la cassetta degli attrezzi di tuo nonno”
Cosi iniziammo ad organizzarci, tutti contribuirono alla assurdità di quel progetto che però, ci coinvolgeva nel suo fascino.
Il posto che avevo in mente, non era molto lontano da quella radura. Era forse l’unico albero, che non cresceva in altezza, ma solo in larghezza del tronco.
Assomigliava, se lo si guardava da lontano, ad un cespuglio troppo cresciuto, e un’po contorto.
Dai rami più bassi, ch’erano più o meno grandi come i nostri busti, e spessi altrettanto, e quelli più in alto, a loro volta spessi abbastanza da costruirci una erella.
Il bello era che quei rami principali, nascevano dal tronco molto vicini l’uno dall’altro. Sembrava una scala a chiocciola.
“questo albero e perfetto” mormoro Frank, girando attorno al tronco per due volte.
L’albero in questione, fioriva dal terreno brullo, ed in mezzo al nulla. Una piccola radura desolata in mezzo allo spiazzo vivo del bosco tutt’attorno. In confronto a quella della lavanda, quello spiazzo era piccolo. Ma abbastanza grande per un avamposto. Ed anche riparato, da possibili visitatori non ben accetti.
“questo potrebbe, diventare il nostro campo base.” disse Rupert, serio.
“dobbiamo anche ripulirlo” osservo Sophie, indicando qualche copertone mollato là ha caso, da persone che non avevano il minimo rispetto e educazione.
Alla vista di quei copertoni, prendemmo sul serio l’idea difendere con ogni mezzo il nostro bosco, dai grandi, li stessi non potevano vedere o riconoscere, la bellezza di quel posto.
No, loro semmai ci vedevano lo spazio perfetto, per disboscare e costruire un gran magazzino, o un bel grattacielo; che tanto alla fine diventavano solo delle opere incompiute.
Dopo il nostro sopraluogo, protratto per tanto. Dovettero ritornare a casa, i miei amici.
“i miei, sono già tornati. Temo di non poter invitarti ha restare” si scuso Rupert, come se mi stesse dando la più tremenda delle ingiustizie.
“tranquillo, nella caverna ho tutto” li risposi, dandoli delle pacche amichevoli sul braccio. Era importante per me, tutte quelle preoccupazioni sul lasciarmi solo. Erano confortanti.
“ma ti lasciamo soli” apostrofo Sophie, forse voleva che mostrarsi un minimo di dispiacere in più.
“ci vedremo domani mattina” risposi, con fare rassicurante.
Ci salutammo alla solita radura, affianco alla strada. Non li segui con lo sguardo, stavolta mi allontanai dalla radura, forse meno triste del solito.
Domani sarà un gran giorno, mi ripetei stendendomi nel silenzio della caverna. Mi accontentai di qualche mora trovata qui e là nel bosco. Mi addormentai quasi subito.
Furono dei giorni molto convulsi, molto faticosi. ammo dei giorni, a fare la spola dalla casa di Rupert al bosco. Trascinando sulle spalle, le listarelle del parquet antico, che un tempo ricopriva il pavimento della sala per il the, come delle croci sulla via faticosa che portava alla santità.
Arthur riuscì ha sgraffignare la cassetta degli attrezzi di suoi nonno, John porto quanti più chiodi, di tutte le dimensioni, ma soprattutto quanti ne aveva in casa. Finimmo con le schiene madide di sudore, a lavorare aggrappati su quei rami, nei pomeriggi della nostra esistenza.
Il sole cuoceva, tanto da poter usare i cofani delle auto, per abbrustolire qualche uova. Appollaiati su quei rami, si lavorava senza sosta.
Arthur e John, alle radici dividevano le listarelle, e ne avano solo una ha Rupert, un’po più in alto. Lo stesso alla fine, ci ava quella listarella. Ed infine io e Frank, le assicuravamo con qualche chiodo, di listarella in listarella.
Il primo giorno fu, quello più difficile. Ma, una volta imparato il ritmo, lo tenemmo sino alla fine. Lavorando ad un ritmo spedito.
Le ore scivolavano via, come quando mandi in avanti il nastro della WHS. I minuti volarono letteralmente, fra Sophie che ogni tot ci diceva di fermarci,
portandoci da bere.
Ah se potessimo decantare la contentezza dei nostri cuori, in quei momenti. Quando esausti, ci appoggiavamo al tronco dell’albero, che forniva il fulcro per il nostro avamposto. Col sudore sulle fronti, e le mani con qualche scheggia sui polpastrelli. Conobbi più quei ragazzi in quei momenti di pausa, che in altri giorni. Al di là della condivisione di base che c’era, avendo una sola borraccia era normale arsela di mano in mano, un sorso a testa e via di nuovo a lavorare.
Basto una settimana per concludere, solo il pavimento del nostro avamposto, pochi giorni per costruirci una sorta di balaustra fatta totalmente in legno. Taglio il legno necessario Rupert, usando le ultime listarelle del suo pavimento. Ed era anche bravo, come taglialegna.
Tanto che fra di noi, inizio ha girare una certa canzone: “perche Rupert, e la sua sega”
Ci si sfotteva a vicenda, nei pochi minuti quando Sophie si allontanava per andar ha prendere da bere.
L’ultimo giorno, arrivo addirittura con una corda, di quelle che si usano per il gioco del tiro alla fune. Fu il progetto di Sophie, uso un copertone, e costruì un’altalena, in quello che oramai divenne il nostro parco giochi.
Pulì lei stessa quel luogo dalla sua sporcizia, la buttava la dove doveva stare. Nei cassonetti per strada dell’immondizia. E non in un bosco.
Finimmo l’avamposto, in un pomeriggio come tanti, senza nuvole. Le gambe a penzoloni, dalla balaustra costruita interamente da Rupert.
I visi sudati al sole, ed ha una certa altezza sembra più caldo il sole. Nonostante fossimo stanchi, nonostante fosse ata una settimana dall’inizio di quel cantiere. Ci sentimmo soddisfatti, e tutti sorridenti ci demmo delle pacche sulle spalle, facendoci congratulazioni a vicenda.
“siamo una bella squadra ragazzi” disse Frank, orgoglioso del nostro avamposto. Per arrivarci su, l’idea era quello di costruire una scala a pioli.
Ma visto ch’eravamo molto stanchi, rimandammo all’indomani.
“bene, quando posso farlo saltare in aria” rispose Arthur, tutti si accorsero che stava scherzando, tranne Frank.
“oh Arthur, piantala di pensare hai tuoi stupidi scoppi” brontolo stufo.
Gli amici di una vita, si guardando complici. La Secchia per Frank, stava per prendere inizio.
“meglio tenerci alla larga” disse, affianco alle mie spalle Sophie, che ora lo notai.
Portava una sacca sulle spalle, era una sacca di tela sgualcita e un’po rattoppata. Scendemmo dall’avamposto, destreggiandoci fra quei rami grossi. Ci lasciammo cadere a terra, scivolando giù dal tronco. Andammo diretti all’altalena di Sophie, fu la stessa ha muoversi una volta scesa, verso essa.
“che ti porti dietro?” chiesi curioso, ed indicando la sacca di tela che Sophie portava sulle spalle. Sembrava piena di mattoni, ma non pesanti.
“un regalo” mormoro Sophie, e in un modo inequivocabile mi lancio un’occhiata, si slaccio la sacca, l’apri velocemente davanti hai miei occhi. Lei davanti a me, seduta sull’altalena nell’esatto centro.
Erano sette libri, uno più grande dell’altro.
“sono tutti di Harry Potter, cosi quando ne parliamo non ti sentirai escluso” spiego dolcemente Sophie.
Ebbi un moto di commozione, non meritavo un regalo, e poi per cosa? Non ho mai ricevuto regali. O almeno, fino a quel momento.
Sophie del resto non si sorprese, delle mie lacrime. Erano quei libri, un segnale preciso da parte di Sophie. Voleva rendermi più affine al gruppo, coinvolgendomi in quella piccola discussione che i cinque ogni tanto avevano.
“io..non..po--sso, non posso accettarli” risposi, balbuziente e in lacrime.
“devi per forza, se non vuoi più essere solo” lancio un ultimatum Sophie.
Che nell’aria vaneggio, assomigliando molto ha una tragedia annunciata.
“ok” accettai, senza pensarci troppo.
Amavo i miei nuovi amici, non volli privarmi della loro compagnia.
“e poi come faremo senza di te? Da quel che ne so, Frank ha molti altri progetti” disse Sophie, ora felice più del solito.
Mi lancio la sacca con dentro i libri, le sorrisi pronto ha condividere qualsiasi avventura con quei ragazzi, appollaiati sul nostro avamposto.
Capitolo 11;
Sempre in giro.
L’estate si faceva sempre più largo, fra l’ambiente ancora confuso della primavera. Gli uccelli migratori, non sapevano che direzione prendere, volavano in cerchio fra le nuvole. Prima di decidersi, ha cercar riparo nel bosco.
Fra le fronde, correvo come un dannato. Mi piaceva un sacco, districarmi fra i tronchi, che mi venivano incontro, o meglio ero io a correre verso loro.
Praticare lo slalom, manco fossi un’atleta olimpico.
Come John, che in quell’estate era cresciuto di altri cinque centimetri. Anche se noi, non c’e ne accorgemmo proprio di quel cambiamento. Iniziava ad avere un fisico sportivo. Prorompenti braccia, agili e affusolate le sue gambe.
Era mia convinzione, e anche dei seguenti Rupert, Frank, Arthur e Sophie. John, sarebbe diventato un pluripremiato atleta. Che ancora, non aveva scelto ha quale sport dedicarsi.
“ho intenzione di andare al ginnasio sportivo” mi dichiaro, in una calda mattina John. Nella quale stavamo entrambi cercando qualcosa da mettere sotto i denti, per la colazione. Le more da tempo orami erano finite.
In quei attimi di ricerca, capi meglio John, non che già non l’avevo inquadrato. Solo, le sue ioni, o se vogliamo cosa ci accumunava.
Come ad esempio, avevamo entrambi un amore spiccato per i fuori strada; per il resto nient’altro. Era poco, ma comunque ci riuscì facile essere amici. Che tanto condividevamo, qualcosa di più intenso che ioni comuni.
In quei giorni, scoprì molto dei miei amici. Il dinamismo di Rupert, il sarcasmo di Sophie, più sottile e fino da capire, il buonismo di Arthur semplice, paffuto come il suo viso, l’eccentricità di Frank e i suoi progetti. Portati avanti col nostro aiuto, o senza.
In breve la caverna ebbe, una sistema per aspirare l’acqua dalla riserva sottoterra. Una specie di capanna, costruita con quattro pali, tenuti in piedi dai sassi che raccoglievamo nelle esplorazioni nei tunnel. Ed un tetto appoggiato hai quattro pali, vennero costruite sei brande, vennero portati sotto quella capanna, oggetti che appartenevano hai miei amici, e che per loro erano importanti.
Quella specie di capanna venne chiusa, su tre lati da teloni verde scuro. E con quei oggetti riposti al suo interno, e le brande disposte dovunque c’era spazio sotto quella capanna. Quel posto assomigliava molto ad una casa.
C’erano i petardi, stelle filanti, e ogni sorta di altro esplosivo di Arthur, una manopola del gas di qualche moto vecchia di John. Le spille sullo zaino di Rupert, ora ricoprivano parzialmente quei teloni. Il bollitore di Whisky, che oramai apparteneva ha tutti gli effetti a Frank, era stato disposto in un angolo della capanna. Sophie, appese con delle graffette le due mappe, che ebbe portato successivamente ha termine. Più altri suoi disegni, tappezzavano quei teloni. Su
uno spazio libero, ci misi la foto senza tempo. Scattata da Bob, il cuoco.
L’immagine veniva adocchiata ogni volta, quando si usciva dalla capanna o si entrava. Quello spazio lo usavamo solo per dormire, quasi spesso dormivo da solo.
“i nostri si stanno incazzano, credo sospettino che non dormiamo ha casa dell’altro” disse un giorno Frank davanti al falò .
Le fiamme guizzanti dai tronchi morti, riempivano l’ambiente appena fuori la capanna deboli scoppiettii.
Come volevasi dimostrare, la madre di John, chiamo quella di Frank. Cosi da ricordare suo figlio, che quella mattina doveva andare ha prendere il latte.
Solo che la madre di Frank, sapeva che suo figlio dormiva dalla stessa. Inutile raccontarvi del guaio che accadde, le due madri ben sapendo con chi i figli avano i pomeriggi. Informarono gli stessi genitori che i figli, li mentivano su dove andavano ha dormire ogni sera.
E per questa imprudenza, vennero messi in punizione.
Lo seppi il pomeriggio seguente, avevo accompagnato i miei amici sino al limitare del bosco. Grazie ha Sophie, mi disse che era riuscita a convincere suo padre ad uscire perche:
“dovevo vedere te, all’inizio era poco convinto. Ma poi mia mamma, lo ha convinto in qualche modo. Solo che non posso fermarmi tanto” concluse il racconto Sophie, sedendosi sulla sua brandina.
“credo che sia restio, perche siete tutti maschi” convenne Sophie.
E, in effetti aveva ragione. Stavo per dirglielo, la stessa lo lesse nello sguardo che gli lanciai.
“ok..forse sono un’po maschiaccia, e allora?” sbruffo Sophie.
Allargai le braccia come a dire: niente. Sono sempre stato di poche parole.
“quindi non so quando potremmo mancare. Magari qualcuno di noi riesce, a sgattaiolare fuori di casa. Ma non è detto” continuo Sophie, guardandomi di traverso.
“sono abituato ha stare da solo, tranquilla” le risposi, al suo sguardo.
Avevo indovinato, da cosa era dovuto.
“non vuoi tornare ha casa, non ti manca dormire sotto un tetto di tegole?” chiese Sophie, la sua era una supplica.
“stai scherzando! Non ci torno, in quell’inferno” risposi, nervoso.
“allora denuncia l’inferno” disse infervorata Sophie.
Spalancai la bocca un paio di volte, prima di dire: “e che cambia?”
Allarmata Sophie, sprofondo nella sua brandina.
Sorprese il mio tono di noncuranza, perfino me.
“per vivere, una vita normale” borbotto Sophie, una mano sul cuore.
“la sto vivendo adesso” dissi.
“oh no Scott, questa non è vita. E lo sai anche tu, se fai finta di non accorgertene e un altro conto. Ma quello che fai qui, e scappare. Tu stai scappando Scott.” disse Sophie, che abbandono la sua branda per seguirmi fuori dalla capanna. Mi ero allontanato da quelle parole dure, ma cosi vere.
E non me ne convincevo, e non trovavo pace.
“Scott guardami, se vuoi possiamo fare le cose con calma. Vieni ha casa mia, e se vorrai mio padre ti può accompagnare dai tuoi genitori” disse Sophie,
venendomi affianco.
La schiena rivola alla capanna, lo sguardo vagava verso il soffitto crollato della caverna. Annui, una forte contrazione blocco la mia mascella. Non riuscì ha parlare.
Ce ne era bisogno di quell’incontro, non potevo far finta che la caverna sia la mia casa, e che i miei amici erano la mia famiglia.
Simbolicamente, ed anche per un valore affettivo era cosi. Ma la realtà era ben diversa. Avevo una casa con mura di cemento, estratto, lavorato dall’uomo. E non una casa fatta di granito e altri minerali, fatta e nata dalla natura milioni di anni fa, e scavata, lavorata dall’acqua.
Ero figlio unico, e non il sesto di sei fratelli, e una sorella.
Senza provar nulla, mi lasciai trascinare da Sophie. Oramai divenuta esperta, nel districarsi fra il verde del bosco.
Casa sua apparve troppo in fretta, era una costruzione di un piano. Con un ristretto giardino sul davanti.
Un vialetto in lastre di cemento, sormontava l’erba bruciata del giardino. Fiore di begonie invece davano vita al portico, comprendente un bel dondolo in ferro, altri fiori erano piantati in vasi di plastica dovunque sul portico.
“mia madre spera di attirare le farfalle, che abbiamo visto nella radura” spiego Sophie, contenta.
Incespicai sul portico, fra quei fiori, guardai Sophie.
“si Scott, gliene ho parlato. Solo delle farfalle, e non il posto preciso dove le abbiamo viste” rispose Sophie, molto perspicacemente.
Apri la porta di casa Sophie, entrai dopo di lei. L’ingresso era grande, si arriva su una sala altrettanto grande e piena di luce. Le pareti dipinte di un giallo chiaro, contribuivano ha dar più luminosità alla stanza. Solo il soffitto era bianco.
Dalle pareti, spuntavano scaffali sovraffollati di fotografie, vecchi cimeli di famiglia. Ed infine una libreria, non piena e ricca come quella di Rupert, certo. Ma anche questa, non aveva nemmeno uno scaffale vuoto.
Tranne per l’ultimo in basso, dove uno spazio vuoto, poteva comprendere esattamente sette libri.
Tentai di dire, quanto quella casa era bella. Ma venni bloccato, da una voce melodiosa.
“Sophie, tesoro sei tu?” chiese la voce femminile, proveniva dalla cucina.
Divisa dalla sala, solo da un lungo bancone in granito. Scopri subito dopo ha chi
apparteneva quella voce, quando segui Sophie in cucina.
Era la madre di Sophie, aveva la stessa forma degli occhi di Sophie. Ed era la copia più cresciuta della figlia. Era bella, cosi cuoi capelli castano chiari tendenti al biondo. Perfino gli occhi, erano dello stesso colore .
Fu sorpresa di vedermi, ma non lo disse, lo mostro solamente sgranando le pupille. Sua figlia le andò incontro, cosi che un abbraccio le uni braccia e petti, sussultai di tenerezza perfino io.
Lo spettatore di quell’abbraccio.
“mamma questo è Scott” presento Sophie, in un modo che non era lontanamente informale.
Ora nella sua voce, c’era solo la felicità. Ed altro, non poteva esserci dopo l’abbraccio. Mi avvicinai, alla madre di Sophie hai fornelli della cucina. Notai, quando fui vicino. Che una bacinella era piena di piselli. E li affianco sul ripiano della cucina, una scatola di legno di piena di baccelli.
“ciao, Scott” disse la madre di Sophie, togliendo la mia curiosità dai baccelli, per portarla su di se.
Da vicino, era più bella, se vogliamo. Aveva ancora lentiggini, da ragazza sul viso. Questa la rendeva, più giovane di quello che era. Appena accennate, sulle guance, che sembravano non essere ancora sviluppate.
“ciao mamma di Sophie” risposi guardandola negli occhi.
“oh, non chiamarmi mamma. Dio, e cosi da vecchia. No, no chiamami Arianna e meglio” rispose Arianna.
Che mi tiro ha se, stringendoci in un abbraccio. E che imbarazzato, era cosi rigido fra le sue braccia. Certo per me, quella donna era ancora una sconosciuta.
Eppure, il suo profumo, quello dei suoi capelli. L’avevo già sentito da qualche parte. Il tempo di realizzarlo, che nel mio cuore. Qualcosa di caldo e morbido, si posiziono là. Divenni sciolto, con le spalle e tutto il resto.
Ancora oggi, mi chiedo perche Arianna, mi aveva abbracciato. Con cosi tanto trasporto, ed aveva atteso, finche non mi fossi sciolto completamente.
Quell’abbraccio fini, distolsi le braccia e il copro da Arianna. Tornai affianco ha Sophie.
“su andiamo, ti faccio vedere la mia camera” dissi Sophie.
Annui, seguendola come il fido cane. Superammo la sala, tre porte nascevano sulla parte sinistra della casa. Sophie apri la porta all’estrema destra. E mi trovai in un altro mondo.
Disegni, un mucchio di disegni tappezzavano le pareti. Case a picco sul mare, una città costruita su alberi, due velieri nella fase conciata della battaglie, una radura piena di lavanda ed infondo un salice piangente, un albero bitorzoluto, che in cima aveva una specie di terrazza. Sei figure indistinte erano, seduta su essa. E poi ancora, farfalle, alberi, fiori, paesaggi di mare che non conoscevo.
“sono molto belli” mormorai, accennando ha quei disegni con la testa.
Dovetti girarmi di spalle, per vedere Sophie seduta ha gambe incrociate sul suo letto. Sorrise ringraziandomi per quel complimento, cosi che io potei curiosare in giro.
Oltre i disegni, quella camera comprendeva, una scrivania in ordine. In un angolo, c’erano appoggiati dei pennelli, e molti acquarelli.
Tre mensole, poste in obliquo stavano proprio sopra alla scrivania. L’armadio era ammontato, assieme al letto. Anzi lo sovrastavano.
Era questa la camera di Sophie, francamente mi piaceva. Soprattutto perche era piena di colore.
“perche tua madre, mi ha abbracciato?” le chiesi, poggiando le mani indietro sulla scrivania.
“credo che papà, gli abbia detto tutto di te” rispose Sophie.
Stemmo a guardarci, occhi negli occhi per un’po di tempo. L’uno davanti all’altra, due figure che col tempo diverranno diverse, che riusciranno ha suscitare interesse in altre persone, di differente sesso, o perche no, di uguale sesso.
“hai deciso di denunciarlo, o no?” chiese infine Sophie, era di questo che voleva, urgentemente parlarmi.
Era per questo mi aveva portato li? Strano, non avevo notato la fretta di portarmi nella sua camera.
“non voglio rovinare una famiglia, la mia” aggiunsi, guardandomi i piedi.
“e che vuoi fare allora?” stavolta l’apprensione la notai, nel tono della voce.
“tornare a casa” risposi calmo, sperando che la mia calma si spostasse su Sophie.
La stessa, quando alzai lo sguardo. Mi fissava, come ha volermi decifrare i pensieri.
“non staro molto in casa, uscirò la mattina e pomeriggio, sarò sempre in giro. E se voi siete ancora in punizione, starò li dove sono sempre. Frank mi sembra, aveva altri progetti” spiegai meglio.
“e quando inizierà la scuola?” chiese scettica Sophie.
“andrò in un collegio, il problema non si pone” risposi in fretta, che di quella questione non ne volevo parlare. Creava ancora subbuglio in me, andare in collegio mi metteva molta paura.
“l’hai deciso tu di andarci, giusto?” i piani di Sophie, erano altri.
Mi squadro, ancora dal letto.
La risposta era cosi evidente, che evitai di rispondergli. Sophie continuo comunque, come se io avessi risposto.
“vivi la tua vita Scott, fai ciò che vuoi, mangia qualsiasi cosa, viaggia, differisci dai luoghi comuni, segui ciò che vuoi e prendilo. Fuma, bevi, e perche no, drogati. Perche se vuoi vivere la tua vita cosi, lo puoi fare Scott. Puoi deciderlo tu. Fai quello che vuoi, ma ti prego Scott..vivi, fallo ne varrà la pena” e cosi dicendo Sophie, mi si avvicino, mi prese le mani. Andando alla ricerca dei miei occhi, cosi fissi a terra.
“drogarsi e, un’po eccessivo” le mormorai.
“e della tua vita che si parla, puoi farne ciò che vuoi” rispose Sophie.
“non è arroganza?” chiesi.
“la vita è questione di arroganza” disse Sophie, nello stesso momento una voce maschile, che già conoscevo già. Irruppe dal corridoio, Sophie mi lascio le mani, e corse fuori dalla sua camera. Il papà di Sophie, l’attendeva sullo stipite della porta.
Colin, attendeva che sua figlia l’aiutasse con la borsa della spesa. Fu un gesto scontato, dargli una mano.
“c’e Scott? Quando sei arrivato ragazzo?” aveva la stessa vivacità di Sophie nella voce Colin.
“pochi minuti fa papà, può stare ha dormire da noi?” butto li Sophie, afferrando una busta di plastica gialla dalle mani del padre.
Che interdetto mi guardo dallo stipite della porta, lo stesso sguardo indagatore della figlia.
Quando mi avvicinai per prendere, due sacchetti che Colin, aveva accatastato davanti alla porta di casa.
“non ha importanza, ci vado adesso a casa” risposi, che proprio ha quella famiglia non volevo essere un disturbo.
“ok, ti accompagno allora” rispose Sophie, amichevolmente.
“se vuoi restare, sei il benvenuto. Ma non ti assicuro che, il divano sia altrettanto comodo” intervenne la madre di Sophie.
“grazie mille, ma preferisco cosi” dissi, rivolgendomi hai due genitori. Che ora si lanciavano occhiate fra di loro. Mi ricordavano qualcuno che già conoscevo.
La spesa venne portata in cucina, dove Arianna si diede da fare ha smistarla. Era tempo di andare, ma chissà per quale motivo. Non riuscivo a muovermi da quella cucina. Non mi riuscì a girare i tacchi, aprire la porta e andare a casa.
Decisi che potevo guadagnare del tempo, aiutandoli a sistemare tutto quel ben di Dio. Ben presto, non ci furono più sacchetti da svuotare. Ben presto, dovevo tornare a casa.
“ti accompagno in macchina, se ti va” disse Colin, in mano aveva ancora le chiavi della sua macchina.
Parlo come da un’altra dimensione, parve che ci misi un’eternità ha rispondergli.
“la ringrazio, vado da solo” risposi.
Di certo non potei notare, lo scuotere in diniego della testa di Sophie. Di certo non potei notare in quel momento, la pietà delle mie condizioni riflesse negli occhi di Arianna.
“insisto” disse serio Colin, capendo fin troppo bene i messaggi lanciatoli da figlia e moglie.
Cosi mi ritrovai dieci minuti dopo, davanti alla mia vecchia casa. Il viaggio in macchina, era durato poco. E non perche Colin, ci andava pesante con l’acceleratore.
Lo stesso parcheggio sulla strada sterrata, mise già l’auto in posizione di partenza, col muso rivolto verso l’asfalto. Mi accompagno comunque, fino al portico.
Non dissi niente, avevo la gola secca. E mi dimenticai di ringraziarlo, per il aggio in macchina, e anche di avermi accompagnato fino alla porta di casa.
Mi poso una mano sulla spalla, per farmi coraggio. Bussai alla porta, attendendo.
Venne ad aprire mio padre, più stempiato di quando ero scappato. Erano ate settimane, e la sua sorpresa nel vedermi li, sulla porta della sua casa. Si manifesto, con uno sbuffo poco regale, ed il suo guardarmi schifato dalla punta dei capelli, hai piedi.
Si fece da parte per farmi are, in un primo momento avevo creduto che mi avesse sbattuto la porta di casa in faccia. Entrai, chinando il capo.
Stavo per salire le scale, quando la voce scaldo l’atmosfera altrimenti gelata.
“non vede suo figlio da settimane, e nemmeno lo saluta, ne lo abbraccia? Lei e mai stato preoccupato per la salute di suo figlio?” disse uno scandalizzato Colin.
“non ha importanza” intervenni, di certo non mi aspettavo le campane a festa per il mio ritorno.
“come non ha importanza, sei suo figlio” biascico Colin, incredulo.
“lei non è nessuno, per dirmi cosa devo o non devo fare” rispose burbero mio padre, le vene del collo in risalto facevano paura, i pugni chiusi e perpendicolari hai fianchi, lo specie di ticchettio sulla guancia, pure.
“la prego, se ne vada” intervenni ancora.
“ok, ci vediamo Scott. Grazie per averci aiutato con la spesa” disse Colin, amareggiato guardo di sottecchi mio padre sulla porta. Che distolse lo sguardo, quando mi avvicinai per salutare Colin, con un abbraccio.
“per qualsiasi cosa, chiama” ed indugio ancora su mio padre, che faceva finta d’ignorarci.
Una volta che se ne fu andato, mio padre chiuse la porta e senza degnarmi di uno sguardo, torno in cucina.
Sali le scale, andai in camera mia. Non la trovai cambiata, era come l’avevo
lasciata. Solo che mancava un maglione nell’armadio, e la finestra era chiusa.
Necessitavo di un bagno, cosi andai sparato in doccia. Misi a lavare mutande, e canottiera, erano sporche, sudice.
Finita la doccia, e duro un bel po. Scesi in cucina, per la cena.
Mamma mi accolse, con più calore di papà. Mi saluto come se esistessi, perche nei giorni seguenti, mio padre ostentava l’ignoranza della mia esistenza. Piuttosto che chiedermi di argli l’acqua quando pranzavamo. Si alzava dalla sua sedia, e faceva da se.
Per il resto niente punizioni, niente botte. Non potevo dire che andava tutto bene. Ma la mia esistenza, iniziava a farsi normale. Anche se in effetti, ignorare l’esistenza di tuo figlio. Normale non è.
Feci come avevo detto ha Sophie, avo quanto più tempo possibile fuori. E con i miei amici ancora in punizione, mi dedicai alla lettura dei libri regalati da Sophie. Li leggevo nella caverna, appoggiato con la schiena ad un sostegno della capanna. O attorno al falò, che la sera accendevo. Quando le rare volte, avo la notte fuori casa. Che tanto, hai miei genitori non importava, era come se fossi morto.
Quei libri, riempirono i miei sogni, di magia, folletti, e elfi. E quei sogni, di magia avevano tutto.
Come sfrecciare nel cielo, a cavallo di una scopa. O sul dorso di un drago, anche meglio.
M’immergevo nelle lettere, nelle frasi, nelle descrizioni del paesaggio. Anche se me ne dimenticavo, dopo qualche ora. Era sempre stato questo, il mio più grande problema.
Più mi concentravo, più mi stancavo prima a leggere. Era come non avere abbastanza spazio nella memoria, per salvare quei libri, ed a ogni evenienza rileggerli nella mia mente.
Anche se non mi disperavo molto, infondo quello che più importava era che vivessi quelle frasi, e non ricordarsene.
Oltre hai libri, c’era il bosco, la radura, l’avamposto da migliorare. C’era da stare fuori, all’aria aperta.
I miei amici, li vedevo raramente. Ma comunque, in quei momenti ero felice. E li vivevo pienamente quei momenti.
“Scott, sei qui?” la voce di Rupert, mi chiamo dal bosco sotto di me.
Ero sull’avamposto, le gambe a penzoloni oltre la balaustra. In grembo il terzo libro, altro capitolo.
Lanciai lo sguardo giù, la ci trovai Rupert che, notandomi mi sorrise, e venne incontro arrampicandosi per raggiungermi. Ci salutammo con un cinque con la mano.
Piegai l’angolino estremo, della pagina che stavo leggendo. Preparandomi ha far, qualche chiacchiera con Rupert.
Ma egli, aveva altri piani. Porto la radiolina, che in un secondo momento notai. Sulla bocca, e premendo il classico tastino sulla spalla sinistra; parlo: “raga’ siamo sull’avamposto” informo gli altri Rupert.
Lo guardai, aveva un che di strano nei capelli. Troppo brizzolati, dalle ultime volte che l’avevo visto.
Distolse lo sguardo Rupert, cercava con gli occhi, i nostri compagni. Quando un botto d’esplosione, porto la mia attenzione verso il bosco.
“dio, Arthur..ti sembra questo il momento, di far baccano!” esplose in egual misura col petardo Frank.
“Frank, piantala dobbiamo festeggiare. Ricordi, siamo tornati in liberta” l’apostrofo John, ammonendolo col l’indice per aria.
“vuol dite che, possiamo far qualcosa tutti assieme?” domandai, speranzoso.
“qualunque cosa” rispose Rupert, e forse quei suoi capelli brizzolati, o i suoi occhi luccicanti. Mostrarono un lato di Rupert, molto energico e delinquente.
“oh c’e il bel bardo Scott” saluto, in modo sarcastico John.
Li rivolsi un cenno col capo, in risposta.
“dai, vi muovete o no?” protesto Sophie, dal basso.
Guardai pieno di sconcerto Rupert, che si limito ha sorridermi in modo ebete, ed a scrollare le spalle. Raggiungemmo i compagni da basso, ci abbracciammo sereni. Quello era il nostro mondo, e aveva le nostre regole.
“dove si va?” chiesi al gruppo, che appena gli abbracci erano finiti. Si misero in moto, verso l’entroterra del bosco. ai affianco ad un piccolo foro fumante nel terreno, segno che Arthur da li era appena ato.
Al momento speravo, che il posto dove dovevamo andare. Non comprendesse l’uso eccessivo di petardi, o che in qualche modo il posto e i petardi coesistessero.
“in giro” rispose alla mia domanda John, in un modo che per egli doveva essere misterioso. Quando invece, era solo una imitazione comica.
“sempre in giro” aggiunse Frank.
E da fargli eco fu, il rumore di un accendino , la micia sfrigolante di scintille, un braccio elastico che si allunga e ritrae, rapido, indolore. Seguito dal leggero sussulto dell’aria, dell’esplosione.
Capi che i cinque, volevano fare i pazzi assieme. Ed io, in questa occasione ero solo partecipe.
Raggiungemmo la grande strada madre, parlando animatamente con quale marachella iniziare.
Fu John, il primo ha proporre la prima marachella:
“andiamo al circolino” propose, con una certa eccitazione sinistra dipinta sul viso, e negli occhi.
Per intenderci, il circolino era il classico posto frequentato dai vecchi pensionati, della nostra città.
Era un edificio rettangolare, un unico blocco di cemento vomitato da chissà quale macchinario.
Filammo sugli spalti, anche questi in cemento. Per farlo, ammo oltre i campi di bocce, gli anziani già in assetto da gioco, ci guardarono curiosi, filar sugli spalti.
Qui Arthur, con abile maestria, tiro fuori dalle tasche dei suoi pantaloni un pacchetto nuovo di “mitragliette”. Le mise con fare circospetto, tutte vicine.
Tre di noi in piedi, coprivano la vista agli anziani di sotto, gli altri tre, si stavano dando da fare.
Quando Arthur, accese la miccia. Corremmo come forsennati, fiondandosi giù dagli spalti, John il più pazzo, o nei campi di bocce. Proprio quando uno di questi anziani giocatori, aveva tentato di colpire il boccino con la sua boccia marrone. Assesto un bel calcio alla boccia, cosi che questa volo per aria. Il tempo che la pallina pesante tocco terra, che le mitragliette di Arthur iniziarono ha scoppiare in rapida successione.
“quei vecchi, non hanno ancora capito cos’è successo” starnazzo John, ridendo come un pazzo si accascio a terra, in un parcheggio sperduto nella nostra città. Correndo come pazzi sorammo traverse, calpestando siepi e aiuole, superammo cassettoni dell’immondizia.
Aiutai io lo stesso John, ad alzarsi. Ed eravamo pronto per la prossima, bastardata; (atemi il termine).
Tocco ad Arthur, la sua vittima fu la oramai celebre signora “Whawerly”.
Dieci minuti dopo, eravamo cauti sotto la finestra che dava sulla sala, della sua casa. Arthur si diede da fare, appoggio qualche petardo sugli infissi di quella finestra. La sagoma bitorzoluta e anziana della signora Whawerly, poltriva sulla
sua poltrona davanti alla tv accesa.
arono i minuti, volarono via come millisecondi. Perche al segno di Arthur, Frank andò ha suonare al camlo, quando noi eravamo per strada. Correndo come pazzi, i botti li sentimmo dopo pochi metri, le urla della signora Whawerly pure:
“pidocchiosi ragazzini, se vi prendo..arghhh!”
Corremmo ancora per strada, Frank alle nostre spalle lancio un urlo. Ci sentivamo più amici, più in cima.
“solo per il brivido di quella piccola fiammella, che veloce accende la miccia, e brucia, brucia quel filo sino all’innesco, e poi bum!. Ha quel punto, c’e solo bisogno di scappare amico, solo da scappare. La signora Whawerly, mi ha beccato una volta, ad accendere petardi nella cesta dei suoi gatti, non vi immaginate cosa ha fatto…mi ha rincorso per cinque isolati, con una scopa in mano…si, devi scappare prima che arrivi il botto” bastarono le parole di Arthur, per spiegare il brivido, il divertimento di quel gesto che alla fine era stupido.
Altri danni, altri petardi, altre marachelle. Come la genialità di Frank. Consisteva nel mettere:
“una bella merda fumante di cane, in un sacchetto di carta. Bruciarlo sul portico di qualsiasi casa, e suonare al camlo” spiego Frank, quando normalmente camminavamo per strada. Sicuri che nessun anziano, ci stesse ancora rincorrendo.
“quale sarà la nostra vittima?” chiese Sophie, particolarmente divertita.
La fissammo tutti sconcertati, che una ragazza potesse divertirsi con quelle scemate. Soprattutto una di mite carattere, come Sophie. Ci sorprese, il suo atteggiamento.
“che c’e, è divertente” spiego Sophie, con fare innocente hai nostri sguardi.
Difficile fu reperire, le materie prime. Il sacchetto di carta, lo prese John entrando in un piccolo Market. La cacca di cane, fu più difficile trovarla e metterla dentro al sacchetto.
Riuscimmo con un’ottima dose d’intelletto, tentando d’essere innocenti per non destar troppi sospetti. Anche se, sei ragazzi accovacciati attorno ad una cacca di cane. Può far venir alla mente, strane domande.
Per nostra fortuna, le poche persone che avano su quella strada, non si insospettirono molto, o semplicemente pensavano annoiati: “a me che importa, non solo un loro genitore”. ando oltre, ci lasciarono nel nostro cattivo progetto.
C’era una certa malizia, in quei gesti. Quasi risentimento, per motivi illogici verso gli adulti.
La nostra vittima, fu la famiglia di un ragazzo che amava fare il bullo, con quelli
più piccoli di lui.
Insomma, si meritava questa nostra piccola vendetta. Fummo io e Frank, ad sistemare l’involucro di carta pesante, e con un odore non dei più buoni. Quelli che avevano commesso tale scemenza, divertente.
Appoggiai cauto il sacchetto di carta, sul tappetino davanti alla porta d’ingresso di quella casa.
In mano, avevo l’accendino imprestatomi per l’occasione da Arthur. Rivolsi un’occhiata ha Frank d’intesa, lo stesso annui in risposta, era pronto. Accesi la pietrina, erutto dalla sua bocca argento vivo delle scintille. La fiamma si creo, dal nulla sembrava. Avvicinai quella piccola fonte di calore, al sacchetto ripieno di carta. Questo prese subito fuoco. Fu ha quel punto che Frank, suono al camlo.
Corremmo per il giardino della nostra vittima, gli altri ci aspettavano fermi sul marciapiede li davanti.
Eravamo talmente stronzi da goderci, proprio in presa diretta. La scena del bullo, che sorpreso quando apri la porta, caccio un urlo. Senza pensarci su, inizio ha pestare il sacchetto tentandolo di spegnerlo. Ma questi no poteva sapere, che ha contatto con le fiamme la carta si disintegra. Ben presto, la sua scarpa destra fu sporca del contenuto del sacchetto. Oramai solo cenere, e qualche pezzo del contenuto dello stesso, era finito in giro sporcando l’ingresso di quella casa.
Ci sganasciammo dalle risate, non trattenendo la nostra idiozia, e sfacciataggine. Il bullo noto le nostre sagome dimenarsi dal ridere, fermi sul marciapiede. Fece
due più due, chiaramente.
Aveva una certa espressione concentrata nel viso, assomigliava molto ad un babbuino. Questo lo ricopri di altre risate di derisione, da uno sprezzante Arthur, che era solo un terzo dell’altezza del bullo.
Prima che questi ci raggiunse, afferrai Sophie per un braccio e corsi via. Il bullo s’era mosso con rapidità sorprendente, con i riflessi pronti Rupert afferro tutti e li trascino via.
Ora correvamo più veloci di prima, in campo aperto. Nulla poteva il bullo, di stazza troppo pesante. Lo lasciammo all’angolo di una traversa, il fiatone corto, e la faccia burbera di chi grida vendetta!.
Sophie teneva il mio o, non affondai la corsa, andai solo ad una velocità sostenuta.
Ma quando mi voltai, per sincerarmi che i miei amici fossero lontani dalle grinfie del bullo. Notai John, superare in un battito di ciglia Arthur, poi Frank, ed infine Rupert.
Ci guardammo per un millisecondo, lanciandoci la nostra sfida. Aumentai l’ampiezza della falcata, il ritmo con qui sbattevo i piedi per terra, lasciai indietro Sophie. Che venne ha sua volta superata da John.
Eravamo solo io e lui, in una sfida all’ultimo metro. Mi stava dietro John, e
anche facilmente, aumentai ancora la velocità. Spinsi, con le gambe e le braccia a stantuffo, il battito del cuore impazzito.
Ma più spingevo, più mi stancavo, più John mi raggiungeva. Era una battaglia persa, più la distanza aumentava, più perdevo terreno.
Mi lasciai superare da John, alla fine di una strada che portava fuori città. Avevamo corso per qualche metro o poco più, forse duecento o trecento metri.
Ampie valli si dipanavano attorno ha noi, più in là, sulla striscia dell’orizzonte l’ombra della grande e dirompente metropoli.
Quella che sembra non dormire mai, ne sottoterra fra i suoi cunicoli. Soltanto i barboni per strada, sembrano trovar pace, sulle grate che gettavano aria calda.
Fini a carponi, l’ebbrezza della corsa, pago il suo prezzo..per il quale, ora a carponi la mia lingua, gonfia e rossa. Penzolava al di fuori delle labbra.
Respiravo a rantoli, mandando giù saliva, e tentando di calmare tale gittata cardiaca impazzita.
Con un’po d’orgoglio, notai che anche John era nella stessa mia situazione. Solo che lui, era disteso di schiena sul cemento del marciapiede, le braccia li scendevano sul manto stradale senza forza. Dove la nostra corsa, era finita. Gli altri arrivarono dopo, tutti col fiatone corto. E le magliette stropicciate.
Ci guardammo euforici, del tutto privi di rimorso per ciò che avevamo combinato.
“andiamo nella caverna, ho proprio voglia di rilassarmi” disse John, ancora disteso sul marciapiede sporco.
Col respiro tornato calmo, una figura mi si parò davanti al sole, era una figura indistinta. Era Rupert, tendeva la sua mano destra verso di me.
Accettai il suo aiuto, per alzarmi. Lo guardai, mormorando un “grazie”. davanti a noi, il mondo si dischiudeva, la faccia più aperta, più naturale, più vasta, ma oscura.
Perche nessuno di noi, hai tempi era andato oltre quella pianura. Vedevamo solo l’ombra di quella vasta città, quei grattacieli che da lontano sembravano piccoli mattoncini impilati.
Guardai sognante, i grattacieli che si perdevano nella foschia. I fumi tossici, eruttati dalle industrie li vicino.
La mano di Rupert, si poggio sulla mia schiena. Era tempo di andare, alla caverna.
“presto alla Bat-Caverna” uggiolo Arthur, gli occhi paurosamente fuori dalle orbite.
Era adrenalina, no, era solo idiozia giovanile.
Con piglio sereno, attraversammo tutta la città, su stradine vuote. Poche macchine per strada, oramai erano tutti in vacanza, al mare o in montagna.
Dissi ciò che pensavo, al gruppo.
“pensa che i miei quest’anno, volevano affittare una barca per attraversare l’oceano” esordì Rupert.
Lo guardammo increduli, cosa sarebbe stato, cosa avrei dato per fare una cosa del genere. Che prezzo hanno i sogni, delle cifre con al minimo sei zeri?
“oh, ragazzi, era solo un viaggio palloso verso un paradiso fiscale. E questo che fa mio padre” brontolo Rupert, un’po risentito verso il padre, come sempre.
Decidemmo simultaneamente, di non continuare a guardarlo in quel modo. Lo lasciammo sbollire nel suo brodo, per strada c’era una lattina calpestata dalle poche auto che avano. Iniziai a prenderla a calci, un’po per attenuare quell’aria tesa.
“e stasera, devo pure sorbirmi un’altra inutile festa..ho perso un mare di soldi, l’altro ieri in borsa..o, che bel tailleur, lo adoro” brontolo ancora Rupert, imitando alla perfezione il verso aristocratico.
John soffoco le risate, tossendo molto rumorosamente. Arthur e Frank, continuarono ha rivolgere sguardi cupi verso Rupert.
Ora lo stesso, mi aveva raggiunto per strada. Li ai la lattina che stavo prendendo a calci. Fu un gesto fatto, senza pensarci.
Speravo che nel argliela, sarebbe stato agli occhi di Rupert. Un segno di profonda amicizia. Che tanto ci legava tutti, con grossi fili indissolubili.
Accorgendosi del mio gesto amico, Rupert mi lancio uno dei tanti suoi sorrisi grati. Prendendo ha calci la lattina, scivolo sulla strada. Producendo un suono sordo e metallico.
Quei fili che ci univano, erano come nervi, comunicavano in silenzio con la persona vicina. Cosi ci era facile capire la sofferenza del nostro amico, e provandola sulla nostra pelle, ce ne dispiacevamo all’unisono.
Era questa la forza indissolubile che ci univa, l’amicizia pura, quella che diventa lealtà, fiducia e amore.
Potevo sentire, la felicità di Sophie. Cosi come l’eccitazione energica di Arthur, pochi minuti fa. Percepivo nel mio corpo, come se fosse una mia emozione, l’ilarità emanata da John . O l’accuratezza dei pensieri di Frank.
Queste sensazioni, queste emozioni. Ora, non erano nulla in confronto al dispiacere di Rupert. Riflesso su di noi, era si anche peggio. Ma quella
condivisione emotiva, riusciva in qualche modo ha farci, pesar di meno tale emozione.
“stasera tutti ha casa di Rupert” propose Sophie, approvammo tutti alla sua proposta.
“ragazzi non posso chiedervelo” rispose Rupert, senza poco crederci.
Anzi, sembrava che ci stesse pregando di non lasciarlo solo. Lo senti nel mio petto, mentre guardavo i suoi occhi nocciola chiari.
“appunto, non c’e l’hai chiesto” esordi Arthur.
“siamo stati noi ha proporlo” concluse Frank.
John come me, si limito ad annuire ha Rupert. Ci raggiunsero in strada, tranne Sophie che ci guardava scambiarci la lattina, sul marciapiede.
Era divertente lasciarsi scivolare sotto la suola la lattina, e con la punta arla al nostro compagno più vicino.
“raga’ non sapete quanto sia bello stare sempre in giro con voi” disse Rupert, particolarmente romantico.
“siamo sempre in giro!” urlo John.
“sempre in giro” borbottai.
Arthur mi prese per le spalle.
“sempre in giro” urlo anche lui.
Capitolo 12;
La grande festa a casa, Agliardi.
“non sapevo che di cognome, Rupert fe Agliardi” osservo Sophie, per l’occasione era vestita in modo elegante.
Il suo modo elegante di vestirsi risulto, una gonna bianca sotto le ginocchia, e una maglietta a maniche corte tutta stropicciata. Hai piedi le solite scarpe sporche che portava sempre. I capelli corti, erano stati sfoltiti pochi minuti fa.
Stava bene con quel taglio scarmigliato, glielo dissi osservandola meglio: proprio non mi riusciva di vederla come una ragazza.
Del resto il mio modo elegante di vestirmi, era mettersi una t-shirt non stropicciata, e dei pantaloni in tinta uguali.
“il colore grigio ti sta bene” osservo di rimando Sophie.
Eravamo entrambi davanti, all’elaborato cancello di villa Agliardi. Le statue sui piloni del cancello, al calar delle tenebre. Mettevano un brivido sinistro. Eppure la casa, era magnifica. Specialmente al tramonto, tutto quel marmo bianco del portico, risaltava del rosa pallido del tramonto.
Il sole, sembrava are attraverso la stessa casa. Gli ultimi baluardi di luce solare, dalla porta d’ingresso i suoi raggi ancora caldi accoglievano gli ospiti. E che accoglienza, mancavano solo qualche fanfara, che tanto qualsiasi re o regina potevano partecipare ha quella festa, o gala. Come dopo mi preciso Rupert.
“aspettiamo gli altri, o entriamo?” chiese Sophie.
“forse, sono già dentro” ipotizzai, guardando l’orologio digitale.
Ancora non riuscivo a leggere, le lancette di un orologio normale. Per questa mia difficoltà, ero stato più e più volte punito dai miei insegnanti, e deriso dai miei compagni di classe.
“giusto, entriamo” prese l’iniziativa Sophie, avanzando di un o verso il cancello aperto.
Due figure adulte, la sorarono.
“che graziosa sei tesoro, e lui chi è il tuo cavaliere..aha” trillo una donna, nel arci accanto.
Legata al braccio, di un bel giovine alto. Egli aveva un che di distaccato, come se di quel gala non gliene importasse nemmeno. La donna prosegui col suo eterno e affascinante accompagnatore, sul selciato per l’occasione illuminato da candele tozze e poggiate dentro dei bicchieri di vetro. Gesticolando, e mettendo in ben risalto, le sue collane d’oro, e braccialetti tintinnavano nella notte
scintillante che scese.
Sophie mi guardo, non mi ero ancora mosso dal cancello aperto. E avvicinandomi mi prese per un braccio.
“vieni oh mio cavaliere, accompagnati alla porta” trillo Sophie, alla stessa maniera della donna ata pocanzi. Risi, divertito dall’imitazione perfetta.
“spero che stasera, partecipano anche i Lord John e Frank, ed il paggio Arthur” continuo Sophie, gesticolando da perfetta persona aristocratica.
“hai un grosso talento, sicura che non sei di questo mondo?” domandai, la pancia mi doleva dalle risate trattenute.
“sicurissima, mi sto solo divertendo” rispose Sophie, con fare deciso mi condusse sul portico colonnato.
All’ingresso ci fermarono, cercammo gli altri nella sala piuttosto affollata. Nell’aria musica classica, veniva sparata da graziose casse acustiche.
Gente di rango sociale alto, girava per la sala d’ingresso. La villa, sembrava più tirata ha lucido per il galà.
Cocktail elaborati, danzavano su tondi vassoi argentati. Tenuti a mezz’altezza, da camerieri che si esibivano in sorrisi finti, ma cordiali.
Uomini in smoking bianchi, uomini in giacca e cravatta, uomini in compagnia di belle donne da farti girar la testa al solo guardare gli spacchi vertiginosi delle loro gonne. (quasi tutti erano accompagnati da donne) alti uomini, sorseggiavano i loro drink, bardati da vestiti militari da cerimonia. Quelli per intenderci, con molte onorificenze portate al petto, fieri.
Donne in abiti da sera, donne voluttuose, donne sexy volteggiavano districandosi fra la società leggiadre come ninfee, nei loro vestiti bianchi. Tutte accompagnate, da uomini che non notavano niente, oltre la bellezza delle loro compagne. Anzi, alcuni sbavavano non accorgendosene.
Era il lusso, come non lo avevo mai visto. Cosi sfrenato, cosi ammagliante da desiderar solo questo.
Quella visione di gente, appoggiati col le braccia sul regimano della scala in marmo. Mi senti cosi piccolo, fra quei adulti che ci guardavano dall’alto in basso.
Tanti erano pacatamente stronzi, altri erano finti, come vuoti dentro. Per loro esisteva, una cosa; soldi, soldi, soldi, e soldi. Pochi si sentivano come fuori luogo, oltre noi, alcuni militari. Essi se ne stavano in un angolo, parlando fra di loro. Di chissà quale posto sperduto, dove avevano combattuto.
A rompere quello stato di visione, fu Simon; il maggiordomo si occupava, solo di ricevere gli ospiti alla porta.
“ragazzi, Scott vi aspetta di sopra” mormoro Simon, ebbe solo il tempo di finir la frase.
Prima che altri ospiti, attendevano d’essere accolti.
Col braccio incastrato ha quello di Sophie, seminammo gli adulti in quella sala. Salimmo le scale, c’era solo un posto dove Rupert poteva stare nascosto. La sua stanza.
Condussi io Sophie, verso la camera di Rupert. La porta dischiusa, si apriva sul corridoio quasi deserto. Se non per quattro persone che parlavano ridendo, oltre quella porta.
Bussai per presentarci hai nostri amici, seduti ovunque nella stanza cosi diversa dal resto della villa.
I quattro notandoci braccio nel braccio, ci squadrarono sorpresi. O forse stavano tutti notando, la nuova luce che Sophie irradiava.
Di nuova fattura, risaltava con la sua gonna lunga. E quel suo nuovo taglio di capelli, le donava sul viso.
Dovettero, i quattro riprendersi dallo shock del cambiamento. Dovettero farlo, velocemente. Sophie iniziava ha scaldarsi, vedendosi guardata a quel modo dagli altri.
Fu Rupert, ha prendere l’iniziativa.
“vi piace come festa?” ci chiese, riuscendo ha trovare un tono quanto meno normale della voce.
Ciò fece si che, il fatidico ghiaccio si ruppe. E, il braccio attorno ha quello di Sophie, ricadde sui fianchi.
“e pittoresco” risposi, era l’unica osservazione che mi sentivo di fare.
Tutta quell’atmosfera, era totalmente nuova per me.
“pittoresco..” mormoro Frank, seduto sulla scrivania di Rupert.
Come se stesse tentando, di dar ragione alle mie parole. Cosa che risulto facile, quando Sophie. Fu più esaustiva di me:
“pittoresca, e la parola giusta. Per definire questa festa, le tante persone eleganti, ma che hanno diversi comportamenti, o il modo di far discorsi di certi uomini. Quello di spettegolare di certe donne”
“gala, questo è un gala” corresse Rupert, come se per egli quella definizione fosse di poco conto.
Comunque si chiamasse quel momento, festa, ricevimento, o gala. Era noioso, e per un ragazzo, due di queste definizioni. Nascondono fra di essi, la noia. Certo, dipende da che ragazzo sei, da come ti hanno cresciuto i tuoi. In sostanza, basta aver il padre ricco. Per non trovar noioso i gala, o i ricevimenti.
E anche qui c’e discordia, visto che Rupert odiava queste cose.
Ciò, col proseguo del galà, li fece rendere conto di quale fosse il nostro scopo. Per il quale, eravamo lì in quella villa.
Ci tenemmo alla larga dagli adulti, possibilmente ci riuscivamo. Ma la gente dell’alto rango sociale, sovraffollava quella casa.
Quasi tutte quelle teste pseudo coronante, si fermarono a conversare con Rupert. Egli in quei momenti era un ottimo attore, recitava la sua finta cortesia in risposta alle domande che molti li facevano.
“proseguirai la carriera fortunata famigliare, o hai altri progetti per il tuo futuro?” li domando, un uomo gonfio come un tortino ripieno di crema.
I bottoni ricamati d’oro, nel panciotto. Minacciavano di liberarsi dalla loro stretta, come dei proiettili di pistola.
“pensa se colpisce qualcuno in testa” mormoro affianco a me John.
“potrebbe ammazzare qualcuno” osservo Arthur , poco più in là.
“o stendere un orso” osservai.
“sempre se l’orso, non se lo divori prima” aggiunse Sophie, sarcastica.
Sussultammo di risate, nascose in modi goffi e poco credibili. Cosi che, l’uomo panciuto si accorse di noi. Stretti alle spalle di Rupert.
Ora che lo guardavo in faccia, notai che portava un paio di baffi a manubrio grigi, un’po stinti. Aggrotto la fronte quell’uomo, come ha domandarsi se stavamo ridendo di lui o meno.
“non ho ancora deciso, credo che ci sia abbastanza tempo” riporto con abile maestria dentro al discorso di poc’anzi Rupert.
“lei che crede?” domando poi, l’uomo ci stava ancora fissando, col suo cipiglio sia indagatore, sia contrariato per ogni possibile battuta fatta, e rivolta al suo fisico.
Cosi Rupert, trascino via l’uomo. Nel farlo ci rivolse un occhiolino, sapevamo che aveva colto il motivo del nostro ridere. Lo vedemmo in compagnia dell’uomo, disperdersi fra la marea di persone, i drink scorrevano di mano in mano. E nell’aria c’era la pace, l’atmosfera calma data soprattutto dalla musica. Ritmica, con poche percussioni.
“dite che ci abbia sentito” mormoro preoccupato Arthur.
“non credo, non dovremmo preoccuparci” rispose John, portandosi le mani dietro la nuca.
Per nulla preoccupato.
“era sul serio grasso, tanto da aizzare un orso” ridacchio Frank.
Infondo dove sta il problema? Non eravamo cosi crudeli, per lo meno non ci sembrava in quei momenti.
“e voi chi siete?” domando, una donna bionda e molto elegante.
Forse la più elegante, di tutte le donne presenti. Il suo vestito per le grandi occasioni, blu chiaro, era cosparso di pietre preziose. Cosi che il luccichio dei lampadari, di rimando animava la pieghe di quel vestito. Catturando e concentrando su di se, tutta l’attenzione del galà.
“signora Agliardi, sono Scott, e Sophie. Gli amici nuovi di Rupert” presento John, con fare molto servizievole, arrossi un poco quando la guardo negli occhi.
L’espressione della donna, non cambio di una virgola. Rimase severa, e rigida nello squadrarci dalla testa e i piedi. Provando un’po di disgusto anche, disgusto che riuscì in fretta ha nascondere. Quando apparve Rupert, probabilmente avrà
lasciato il panzone, al banco del buffet; pensai fra me e me, maligno.
“Ma’, sei magnifica” disse Rupert.
Fu ha quel punto, che la madre di Rupert, si esibì nel suo sorriso smagliante. Fu comunque un sorriso tirato, mentre ancora squadrava sia me che Sophie con lo sguardo.
Non mi riuscì ha sostenere quello sguardo, mi faceva sentire cosi, inadatto. Provai come la sensazione, o il bisogno estremo. Di andarmi a nascondere, nella caverna. Che davvero, ero inadatto a quel luogo.
La sola Sophie, aveva coraggio di sostenere quello sguardo altezzoso. Quasi sfidando, la padrona di casa.
Fortuna vuole, che altri richiedevano la presenza della donna di casa, che con grazia lascio il vestito strusciar a terra. Senza degnarsi di un saluto.
“secondo lei, dovrei frequentare altre amicizie. Ma voi, siete i migliori che sono riuscito a trovare” e quelle parole di Rupert, scaldarono il galà che oramai stava divenendo freddo.
L’accoglienza fu quel che, il proseguo da quelle parole fu ben diverso.
Ce ne stavamo tutti e sei, in un angolo della villa. Parzialmente nascosti, da un
lungo tendaggio bianco. John aveva sgraffignato qualcosa dalle cucine, Frank aveva portato bicchieri colmi d’acqua o succhi di frutta.
Nel nostro angolo isolato, parlammo fra di noi. Facendo anche il verso, ad ogni persona che ava li accanto. Impossibilitati ad entrarci.
Oppure prendevamo in giro, molto malignamente tutti gli invitati:
“guarda che faccia da pesce lesso, ha quello li” oppure “dio, quella parrucca la portava mia bisnonna” ecc..ecc..
Ridevamo, rendevamo il galà alla nostra misura. Tanto che, si poteva benissimo credere. Che alla villa, erano prese parte due feste. Una molto vasta, con molti invitati. L’altra accogliente, e con pochi intimi.
“dai, questo e troppo..” soffoco risate Rupert, portandosi le mani sulla pancia.
Io che dal ridere troppo, dovevo andare in bagno. Mi assentai un attimo, che proprio non c’e la facevo più. Scavalcai la sala d’ingresso, scivolai sulle scale. Stando ben attento, ad districarmi fra le figure adulte degli invitati, e dei camerieri.
Al piano di sopra, cercai il bagno. Fu facile trovarlo, c’era una piccola fila indiana davanti ad una porta in legno massiccio. Attesi il mio turno pazientemente, una volta svuotata la vescica. Usci dal bagno, ricordandomi di lavarmi le mani. Detti il via libera, ad un anziano sessantenne.
“grazie figliolo” disse, quando lo aiutai ad entrare in bagno, fu l’unico sorriso grato rivoltomi a quel galà.
“dovere” risposi.
Ora il corridoio fuori, era parzialmente deserto. E chiuso, tranne per le finestre, hai capi di quel corridoio. E una porta socchiusa, curioso mi avvicinai. Per chiuderla.
Ma quando inevitabilmente, ci buttai un’occhiata dentro, non potei scorgere un’imponente armadio, affianco ad uno specchio altrettanto imponente, e antico.
Quasi rapido, i miei piedi si mossero come dotati di intelligenza propria. Entrai nella stanza, lasciando la porta totalmente aperta.
Era magnifica, bella, quasi magico con la sua cornice ricamata d’oro. Non mi specchiai, solo mi persi nel ricamo della cornice. Finché, con la porta aperta si creo aria corrente. Questo perche, anche la porta finestra era aperta. Mi affaccendai a chiuderla, ma qui ancora un’altra volta.
Fu inevitabile, non scorgere il panorama oramai a riposo, con la notte e la luna. La quale può dar pace, col suo ausilio.
Le colline scure, in lontananza lo spicchio di bosco. Con le sue cime di alberi, spavaldi, andavano alla conquista dell’altezza. Il fruscio delle foglie, era udibili
sin li. Come scricchiolio mormorato appena, dei suoi tronchi.
Furono le stelle a colpirmi, la magnificenza infinita dell’universo.
Ero sul terrazzo sul retro della villa. Vasi in granito, contenevano fiori dai colori vivaci fra il giallo e l’arancione.
Le mattonelle ricoprivano gran parte del pavimento, tranne che il parapetto che era bianco e totalmente privo di altre onorificenze. Due sdraio bianco, erano poggiate in dispiego, l’una vicina all’altra.
Mi accorsi solo dopo, della figura seduta su una di quelle sdraio. Totalmente in ombra, mi fu difficile scorgerla. Individuare magari, se fosse una uomo o donna. Solo un tenue bagliore rosso, si spostava dalla sua mano alla sua bocca. Stava fumando, cospargendo l’aria dell’odore acre di tabacco, e nicotina.
Quell’odore, mi andò di traverso nel naso, facendomi tossire e annaspare.
“ohh..merda, ragazzo. Mi hai spaventato” boccheggio, quello che chiaramente dal timbro di voce, era un uomo.
“mi scusi” risposi, che tanto in quel momento. Avevo occhio solo per le stelle.
Quelle miliardi, e mai specificate fonti d’energia. Quei diamanti, che se ne seguivi il tragitto. Divenivano collane, orecchini dei più sfarzosi, quanto senza
prezzo.
Forse, il reale possesso di una stella. La possono avere, solo gli angeli.
“mai chiedere scusa, e la regola” disse l’uomo, si stava alzando dallo sdraio.
Era alto, e aveva un fisico prorompente, i pettorali battevano contro il petto stellato della sua divisa da ufficiale.
Mi fu dal principio chiaro, che fosse un eroe quaggiù in patria. Ma anche che era solo. Me lo dissero i suoi occhi, quando si volto totalmente verso di me. Due pupille grigie, come i capelli, era anziano, ma non molto. Mi sorprese che ha quell’età, di fisico stava come una recluta quando ha finito il duro addestramento.
“come ti chiami?” mi domando, poggiandosi sul parapetto di quel terrazzo.
“Scott” risposi.
“come lo scrittore?” chiese ancora, fumandosi la sua sigaretta lontano.
“mi scusi, quale scrittore?” di rimando.
“ragazzo” sbraito “non chieder mai scusa” ribadì serio.
“d’accordo, lo scrittore chi?” chiesi, un’po brusco.
“Scott Fitzgerald, il grande Gatsby; tenera è la notte” rispose l’uomo, accennando al cielo notturno.
“non credo che i miei, abbiamo letto questi libri” dissi, convinto.
“lei come si chiama?” chiesi, cambiando discorso volutamente. Che dei miei genitori, non volevo parlare.
“Jethro” sbuffo altro fumo dalle narici, l’uomo dell’esercito, pluripremiato Jethro.
“il suo nome e, dovuto ha?” chiesi, che razza di nome è Jethro?!.
“e dovuto alla scarsa fantasia dei miei genitori” rispose Jethro, prendendola sul ridere.
“o alla troppa fantasia” risposi, trascinato forse dalle sue risate.
“hai senso dell’umorismo” osservo Jethro.
Mi guardo ancora negli occhi, e in tutta la mia figura. Mettendomi in soggezione, un poco.
“quanti anni hai?” chiese, accigliandosi.
La sigaretta, oramai arrivata al filtro, e non più utilizzabile. Venne lanciata giù dal terrazzo. Senza risentimenti, per quel gesto poco garbato.
“dodici, signore” risposi, chiedendomi perche era cosi interessato a me.
“mhm, sei ancora giovane..quale scuola frequenterai il prossimo anno?” non capivo il senso di quelle domande. Un’po mi indisponevano.
“perche, me lo chiede” dissi, invece di rispondere a quella domanda.
“sono solo curioso” nella sua risposta, non c’era un briciolo di verità.
“sta mentendo” dissi, senza metter freno alla bocca.
Lo stesso sorrise far se e se.
“ok, non vuoi rispondere alla mia domanda? Te ne faccio un’altra più semplice; cosa ti piacerebbe fare da grande?” rispose Jethro.
Forse sul serio, era solo curioso. Magari l’avevo interpretato male io.
“non ho ancora deciso” dissi, per guadagnar tempo.
Visto che da grande, con ogni probabilità. Prenderei il posto di mio padre, alla carpenteria.
“se vuoi un’idea; vai ha fare l’aeronautico” mormoro Jethro, staccandosi dal parapetto.
Venne affianco a me, mi mise una mano sulla spalla, e se ne andò. Quella scena mi lascio senza parole. E poi, Jethro non mi aveva detto perche. Credeva, fossi ottimo per andare ha studiare aeronautica.
Non me lo disse chiaramente, si lo so. Ma era, cosi sottointeso. Cosa avevo visto in me, per dire una cosa simile?
Stetti su una di quelle sdraio per tanto tempo, tentando di dar una risposta a quella domanda. Quando forse, era solo, semplicemente una cosa a pelle.
Cosi chiara e lampante, senza però capire il come esattamente.
Si, mi dissi. E andata chiaramente cosi, visto che non è. Che avevo fatto dei sensati discorsi con Jethro.
C’erano le stelle, non ne conoscevo quasi nessuna. Sapevo individuare, la stella polare, e la cintura d’Orione.
Era magico starsene la seduti, con quella trapunta lassù. Ogni ricamo una stella, ogni lembo una costellazione nuova e sconosciuta.
I minuti arono, mentre stavo li ad specchiarmi su quella trapunta. Forse Scott Fiz..quello scrittore lì, ha ragione; mi dissi. “tenera e la notte”.
Ed io di quella tenerezza, quasi ne divenivo il profeta. Come quando tentai di specchiarmi con la luna.
Che con tutte quelle parti più scure, assomigliava ad una piccola terra lontana. La parte riemersa dal mare, era quella più bianca. Parti più scure, erano i mari. Dove magari, lassù i pescherecci non torneranno. Dove le navi sembrano ferme, immobili. Delle statue, che aggiungono colore al sacro dipinto.
Le tende di lino, strusciavano a terra. Si muovevano nella notte dolce. Non era stato il vento, o l’aria corrente ha farle muovere.
Piano, piano mi ero perso in quella contemplazione.
Non mi accorsi, di una figura femminile accanto a me. Sophie, era li, mi aveva cercato magari in tutta la casa. E ora, mi veniva ha fare compagnia su quella sdraio. Sedendomi sulla punta più estrema.
Stavo piangendo, Sophie se ne accorse subito. Ma, invece che chiede il perche del mio pianto. Mi fece solo compagnia. La sua vicinanza, mi calmo un poco.
“perche non posso, avere il futuro che desidero?” e ancora “perche cazzo, ho queste difficoltà..se non fossi cosi stupido, ritardato..” venni bloccato dalla mano di Sophie, premeva sulle mie labbra, tenendole chiuse. Tanto che dovetti, respirare dal naso.
Cosa non va in me, perche sono esploso a quel modo. Perche sto piangendo, coraggio Scott. Non lo sai? Vuoi di più dalla tua vita, ma il massimo dei tuoi sforzi. Si rifà ha niente; si parla dell’ambito scolastico.
“tu, non sei ne stupido o ritardato. Non lo sembri, nemmeno” rispose dolcemente Sophie, togliendo la mano. Per abbracciarmi, stringermi forte dietro le spalle. Era l’abbraccio, più simile ha quello i una madre. Mi sfogai sulla sua spalla.
Ero frustato, solo, disperato e anche spaventato. Ora che mi ero cosi bene abituato ad avere amici. Non sono mai riuscito, a star senza di loro senza provar tristezza. Di quell’abbraccio, ne venivo rincuorato.
“sai, tu e Rupert siete tanto simili” disse Sophie, al mio orecchio.
“che, intendi?” le domandai, quando ci sciogliemmo dall’abbraccio materno.
“che anche lui non può fare, quello che vuole” rispose semplicemente Sophie.
Mi asciugai le lacrime, e la guardai con fare curioso. Fu cosi che Sophie, mi racconto della scenata che aveva appena assistito:
“il padre di Rupert, e venuto ha prenderlo nel nostro angolo. Credo volesse presentarlo, ha qualche importante politico. Ma lui, ha detto che voleva stare con noi. Suo padre la trascinato ha forza fuori, allora noi l’abbiamo seguito..suo padre, continuava ha ripetere che Rupert, diverrà un bravo banchiere, a chiunque. E quando quell’importante politico, chiese ha Rupert se voleva intraprendere la carriera di banchiere..”
“gli ho detto che non volevo truffare la gente, che non volevo fare il suo schifo di lavoro” apparve anche Rupert, su quella terrazza.
“esatto” concluse Sophie, il racconto.
“credo che starò in punizione per un’po” confesso amaramente Rupert.
“ne valeva la pena” apparve infine John, seguito dagli altri.
“certo, amico. Noi stiamo con te” dissi, forse io e Rupert. Eravamo molto simili, me ne ero già accorto. Ma ora, bhè, ne avevo la certezza.
Capitolo 13;
L’attacco all’avamposto.
Rupert, ebbe ragione. Fu messo in castigo, per pochi giorni dai suoi genitori. Intanto giugno, era arrivato alla sua fine.
Altri uccelli migratori, venivano ha fare scalo nel bosco. Rondini, oche e altre specie. Tornavano dai luoghi caldi, dai deserti, dove in inverno si sta bene. Abitavano il bosco, lo riempirono dei loro richiami d’amore.
Rendendolo più vivo, di quanto non fosse mai stato. Le allodole s’erano spostate, per l’occasione nei campi limitrofi al bosco. Sembravano non sopportare tutto quel trambusto, o forse era solo un gesto di cortesia verso quei stremati uccelli dal lungo viaggio.
Del resto noi altri, amavano quella nuova concezione del bosco. Quasi avesse cambiato vestito.
Ci dicemmo convinti del nostro avamposto, ci dicemmo che eravamo contenti della caverna.
Cosi, quando proprio sull’avamposto non ci si poteva stare, per via del caldo eccessivo. Potevamo trovar rifugio dal calore, sotto quelle mura. E magari, perche no. Nuotare nel pozzo d’acqua.
Iniziammo perfino a giocare, agli uomini della caverna. John andava in giro fra i cunicoli, portandosi sulle spalle, un ramo abbastanza spesso, che doveva assomigliare ad una clava. A mio dire, assomigliava più ad una stampella ricurva.
Nonostante quel piccolo particolare, era un imitazione piuttosto riuscita. Soprattutto per il modo, in cui si trascinava in giro. Camminando, piegato con la schiena in avanti, e con un sorrisetto ebete sulla faccia.
“assomigliava molto ha una scimmia” osservai.
“io..scimmia” grugnì John, mollando la finta clava a terra.
Per iniziare ha saltar su un cumolo di macerie, e battersi pugni forti sul petto.
“uuhhaaahaauu” attaccarono quei due scemi di Arthur e Frank.
C’era da spanciarsi dalle risate, alla scena dei tre su quelle macerie di minerali. A far finta d’essere delle scimmie.
Sophie si teneva le mani sulla pancia, rotolandosi ha terra. Fu ha quel punto che John, lascio il cumolo di macerie. Per muoversi, o per meglio dire saltellare in modo scimmiesco verso Sophie.
Accompagnato dai versi gutturali di Arthur e Frank. Iniziarono ha muoversi attorno, a noi due.
Erano sul punto di prendersela con noi, la classica lotta o scambio di finti pugni e solletichi. Quando, d’improvviso il vento cambio. Per esperienza sapevo, che quello non era un buon segno.
Mi alzai da terra, serio guardai in alto verso il soffitto crollato.
Non c’era bisogno di dire nulla, che tanto la mia preoccupazione. Si trasporto sui sguardi dei miei compagni.
Sali su quello che oramai chiamavamo molto sarcasticamente: “impianto di risalita” John mi tiro su, tirando la corda inferiore verso di se. Fu una salita rapida, perche anche io l’aiutavo, tirando verso di me la corda superiore.
Basto arrampicarsi su di un albero vicino, una volta arrivato sul tetto della caverna.
Basto dare un’occhiata a Est, per dare prova di verità alle mie preoccupazioni. Il vento non cambia la sua direzione improvvisamente, senza portar aria di tempesta.
Un monsone, nero come la pece si estendeva coi suoi neri artigli verso il bosco. Nuvoloni carichi di pioggia, e caricati positivamente e negativamente. La natura dava spettacolo, della sua irruente forza distruttiva.
Scesi rapidamente dall’albero, da li a poco si sarebbe scatenato l’acquazzone estivo, un classico. Di quelli violenti, o almeno cosi sembrava dalla minaccia di quei nuvoloni. Portavano caos, e distruzione su vasta scala.
Si rischiava d’essere da li a poco, bagnati fradici e in pericolo. Sotto la moltitudine di alberi, di quel bosco. Era come stare costantemente, sotto dei parafulmini.
Informai gli altri di ciò che avevo visto, John si fece scuro in volto. Trascino su prima Sophie, poi Arthur, Frank e infine se stesso. Il vento iniziava a diventare, non più solamente poche folate veloci. Ma costante, e molto forte.
Gli scoiattoli sgattaiolavano nei loro tronco-rifugi. Gli uccelli in sintonia con la natura, erano volati via prima che sentì il vento cambiare. Notarlo ci mise più paura, corremmo nel bosco, attraverso sentieri, rami caduti, radici che sporgevano dal terreno.
Anche se avevamo corso, con quanta velocità avevamo nelle gambe. Non riuscimmo a non evitare, la cascata d’acqua che si investi.
Avevamo da poco scavalcato il guardrail, sulla strada. Quando con uno scroscio, l’acqua scese.
Grosse gocce, ci bagnarono, bastarono pochi secondi per inzupparci completamente i capelli e i vestiti. Come se l’acqua venisse buttata giù, a grosse secchiate.
“ci vediamo quando smette” dissi, i classici nostri cinque di mani in segno di rispettoso, e amico saluto.
Un ultimo sguardo hai miei amici, che in fretta si stavano allontanando correndo come diavoli lontani dalla pioggia. Ma la pioggia era ovunque, aveva il dono dell’ubiquità. L’unico riparo era un tetto i tegole e muratura.
Volsi le spalle alla città, dove bambini tentavano di raggiungere le loro case. Alcuni si ricoprivano le teste con fogli di giornale, altri correvano in bicicletta giù dalla collina. E corsi anch’io verso casa, già bagnato fino al midollo. Le calze nelle scarpe erano zuppe.
Tuoni in lontananza, cadevano nel bosco. E quando ne vidi uno, colpito in pieno, spezzandolo e bruciandolo. Mi si strinse il cuore, era impotente. L’unica cosa che potevo fare. Era tornare ha casa, con la coda fra le gambe.
Altri boati devastanti, sconquassarono la città e la pianura circostante. Dei forti flash, o bagliori di luce, coloravano per pochi millisecondi il cielo. Abbattendosi zig-zagando ovunque violenza voleva.
Arrivai a casa, che tanto da come ero bagnato. Ora stare sotto un tetto, per cerca riparo, non faceva differenza con stare all’aria aperta.
Sul portico mi tolsi le scarpe, rovesciai l’acqua coagulata all’interno, al di là dei tre gradini. Tolsi la maglietta, codesta materia zuppa di altra materia liquida. Strizzai anche questa oltre i tre gradini. Zampilli d’acqua, uscirono dall’esatto
centro.
Tentai d’asciugarmi il più possibile, prima di entrare in casa. Nonostante, i tanti accorgimenti, lasciai qualche goccia sul pavimento.
Raggiunsi il bagno, dove con una pezza sporca. Mi asciugai maggiormente, i capelli, la faccia, le gambe e i piedi.
Una volta finito quell’azione di asciugatura. Toccava stendere i panni, li accatastai alla meglio vicino alla caldaia nel pian interrato. Ci si accedeva da sotto la scala, attraverso una porta. Per oltrearla, dovetti chinarmi un’po col capo. Una volta dentro, procedetti al buio, cercando l’unica fonte di calore. Mi fu facile, stenderci vicino i miei vestiti bagnati.
Assicurandomi che, inavvertitamente quei panni non potessero prendere fuoco. Sali le scale, trascinandomi in mutande, sino in camera mia.
Dove mi misi addosso, dei capi asciutti. La pioggia, batteva sulla finestra. Un tic abbastanza forte. Immaginai quelle grosse gocce farsi strada nel terreno, e infine raggiungere la falda acquifera.
Il mio pensiero, quando appoggiai il mio bel sedere sull’infisso delle finestra. Andò alla caverna.
Auguravo, speravo non piovesse tanto. Sapevo che, a quel punto raggiungere l’Atrium della stessa. Sarebbe stato difficile. Come già avevo imparato, l’acqua
trova sempre il modi di proseguir il suo cammino. E se questo cammino, come supponevo comprendesse la caverna. Bhè, non c’era niente da fare. Solo attendere su quella finestra, per poi quando tutto fosse finito. Contare i danni, ed in evenienza ripararli.
Il tempo minaccio di non finirla più, a tarda sera pioveva con la stessa intensità. Solo i tuoni e lampi, s’erano spostati a Ovest. In lontananza, sentivi il botto e potenza distruttrice. Mi davano cosi impressione, da farmi alzare i peli delle braccia.
Sospirai quando uno di questi, forse ritardatario ha muoversi col gruppo coeso. Cadde vicino, esattamente in giardino. Prima la luce, forte, abbagliante precipito sul terreno, ridotto a pantano, alla velocità in cui non potevo correre, nemmeno John. Poi, dopo, esattamente tre secondi, perche li contai, senza volerlo neanche fare. Un botto, ma non come quelli deboli ch’ero abituato ha sentire dai petardi di Arthur.
Questo qui fu più tremendo, assordante. Anzi, c’e ne furono due, ha farsi eco fra loro. Mi rifugiai sotto al letto, per lo spavento. Tremarono perfino i vetri delle finestre, da l’onda d’urto che si creo. Roba che, se Arthur potesse creare chimicamente. L’avrebbe fatto, senza pensarci due volte. solo per il bum! già, il maledetto, non che euforico bum!.
Dormi poco bene, quei tuoni seppur lontani. Continuavano ha produrre boati tremendi. Infondo la velocità con cui si espande il suono, e seconda solo ha quella della luce.
L’avevo capito realmente, quando contai quei tre secondi. Per me prima, velocità della luce, e velocità del suono. Erano, solo numeri che non mi dicevano niente.
Il mondo di per se, e stupendo quando si sveglia con te. Con tutti gli uccelli canterini che tornano dai loro nidi, che avevano lasciato incustoditi.
Quando scoiattoli si concedono l’ebbrezza, di mettere fuori la testa pelosa dai loro rifugi.
Quando c’e il sole, ma anche alcune gocce d’acqua cadono giù dal tetto. O di come il verde degli alberi, e dell’erba sembra più vivo del solito, con più colore, di un‘intensità magnifica. Perfino il cielo, sortisce quell’effetto. Il blu, e più vivo del solito.
Ed io stupefatto, osservavo tutto questo dal portico. Prima che mia madre, mi chiamo per la colazione.
Più tardi, camminavo nel pantano. Diretto al bosco, per l’immane compito della conta dei danni. Ahimè, molti alberi erano stati letteralmente divisi in due metà, le foglie praticamente inesistenti, bruciate al solo contatto, come il tronco e i rami. Era sinistra quella visione, prosegui oltre il covo.
Ad altri, mancavano qualche ramo. Solo in pochi erano vivi, e senza neanche un graffio. Era come assistere al fenomeno di un bombardamento militare. E aggirarsi in una città deserta, e totalmente morta.
La sotto le fronde da mendicare, il pantano era più molle. Le suole delle scarpe, affondavano di pochi centimetri nel terreno. Saturo d’acqua.
Che fosse cosi, lo capi quando da una certa distanza dal rigagnolo. Senti il suo scorrere più veloce di prima.
Non mi sbagliai, la gittata dell’acqua era aumentata di molto. Certo, con tutta l’acqua che è caduta. Pensai fra me e me.
D’improvviso un pensiero, che mi fece provar paura. S’insinuo nella mia mente, mi fece correre verso la caverna. Segui il fiume, che alla sorgente assomigliava per velocità col quale l’acqua superava ogni cosa, ad un torrente.
Tanto che non arrischiai d’usare lo scivolo, per via della possibilità d’affogarci dentro da quanto fosse inondato. Arrampicandomi sul tetto, per fortuna costatai che: “l’impianto di risalita” non presentava danni strutturali.
Sgomento quando mi sporsi, dal buco sul soffitto. Scopri che una parte d’acqua, sgorgava dentro l’Atrium.
Forse; pensai. La quantità d’acqua, riversata nel pozzo. Era stata eccessiva, a quella che poteva uscire dal rigagnolo. E quindi non trovando altra via d’uscita, l’acqua si riversava nell’Atrium.
Non ci pensai due volte, mi calai giù.
Nella capanna c’erano troppe cose preziose per noi. Dovevo salvarne il più possibile.
Toccato terra, ero già in azione. Per prima cosa, arrotolai i pantaloni sulle caviglie. L’acqua arrivava a quell’altezza.
Siccome, fluiva con molta insistenza, dal tunnel che portava al pozzo. Il livello era destinata a salire.
Solo un debole gocciolio, scandiva il mio incessante lavoro. Dal soffitto crollato, e dalle rampicanti, gocce più o meno grandi contribuivano ha riempire d’acqua quel posto.
Staccai spille, foto, mappe, afferrai i libri, i petardi, i fiammiferi e tutto ciò ch’era di nostra proprietà. Strappai un telo dalla parete della capanna. Accatastai alla rinfusa tutti quei oggetti sopra.
Con quella saccoccia sulle spalle, ero pronto per risalire. E non fu molto facile, tirare con una mano la corda, e con l’altra assicurava la saccoccia sulle spalle.
Fu faticoso, ma neanche tanto. Perche il sollievo d’aver salvato, quei preziosi che quei oggetti erano per noi. S’irradio nel copro, lasciandomi dimenticare l’esistenza della fatica, o il sudore.
Saccoccia in spalla, raggiunsi l’avamposto. Fiero di ciò che aveva fatto. Sensazione destinata a scemare, alla vista dell’avamposto divelto. Alcuni rami, non avevano retto il peso della pioggia, o forse perche colpiti da fulmini.
Sta di fatto che, gran parte dell’avamposto era crollata. Le listarelle, si erano schiodate, dall’impatto con quei rami caduti. Alcuni di questi, tre per la precisione, era attaccati ancora alla corteccia, con piccoli filamenti di corteccia. Viva.
Era un incubo, praticamente la maggior parte del corrimano era distrutto, o pendente nel vuoto. Forse qualcosa, si poteva recuperare. Ma comunque quei pezzi, non bastavano ha ricostruire l’avamposto.
La tramezze fra ramo, e pavimento. Erano da risistemare, e magari d’aumentare in grandezza o numero. Cosi da renderlo più stabile al tronco. Mi misi al lavoro, mollai la saccoccia in un angolo dello spiazzo, il più asciutto che mi riuscì di trovare.
Con i calcolati, mi arrampicai sull’avamposto. Il pavimento scricchiolo appena, non compatto. Per prima cosa, quei rami, ch’erano spessi quanto il mio petto. Dovevano essere staccati dal tronco.
Provai ad avvicinarmi. Ha uno dei tre, il più vicino s’era spezzato, poco più in alto dell’avamposto. Sali ancora più in alto.
Fortunatamente il ramo non si era spezzato, dal nodo che collegava al tronco. Ma bensì solo pochi centimetri più in là.
Abbastanza da potermi sedere sopra. E, con la sola forza delle gambe. Spinsi al suolo quel ramo, nel cadere a terra trascino con gran fracasso parte dell’avamposto intatto.
“ops, non ci avevo pensato” mormorai fra me stesso. Quasi ridendo.
Nel cadere perpendicolare, quel ramo quasi si impalò nel terreno. Stette tremante per qualche secondo dritto, prima di cadere con un rumore sordo di lato.
Liberai schiodando il corrimano fatto da Rupert, pendeva inerme nel vuoto. Salvai il salvabile.
Ero sul punto di liberare l’altro ramo attaccato alla corteccia, con qualche filamento esile, assomigliava ad un tubo dell’acqua, di quelli che si usano per le zone domestiche.
Quando cinque voci, chiamarono il mio nome.
“sono qui” gridai, di rimando.
A molti metri più in alto sull’avamposto, le loro cinque figure erano indistinguibili. A quell’altezza, i miei amici assomigliavano tanto hai tipici nani da giardino. Tarchiati, con le loro capigliature buffe, e i visi ovali con i nasi in evidenza, su tutto il resto.
“state attenti, libero questo” li gridai, in perfetto equilibrio su di un ramo che tanto grande da sostenere il mio peso non era.
Riuscì a liberare comunque quel ramo, che si spezzo ulteriormente quando cade al suolo, tipo copro morto.
Scesi con molte difficoltà, le suole ancora sporche di fango. Non mi assicuravano una buona presa. E per arrampicarsi, ciò era fondamentale.
“Dio, che danni..” biascico Frank, poggiando un piede sul primo tronco che avevo liberato.
“assomiglia molto ha una treccia” sghignazzo John, indicando l’ultimo ramo da liberare.
Sorrisi sereno, almeno avevi i miei amici li con me. E c’era perfino Rupert. Ciò mi rese ancora più felice.
Gli abbraccia tutti con trasporto, ed essi mi risposero allo stesso modo. Il caldo potere della solidarietà. Quel potere, aumento quando Arthur, indico il fagotto a terra, e appoggiato su di un piccolo alberello.
“che cos’è?” mi chiese.
“sono le nostre cose che c’erano nella caverna, forse non potremmo tornarci per un’po” risposi, con noncuranza sorprendente.
In altri tempi, mai avrei abbandonato la possibilità di poter nascondersi nella
caverna. Era un pensiero inaccettabile, non arci almeno qualche minuto al suo interno. E ora, ora invece non me ne importava. Avevo un avamposto da ricostruire, e cinque amichi che mi avrebbero aiutato. E non perche ero io ad aver bisogno d’aiuto, ma solo perche quell’avamposto era l’unica nostra possibilità d’avere un rifugio in quel bosco.
Al momento, stavo liberando il corrimano di Rupert dalle listarelle, che con quei due crolli di quei rami, s’era creato un certo groviglio.
I cinque mi guardarono, forse sorpresi da tanta devozione. Non che avessi rischiato l’osso del collo, per prendere i nostri oggetti.
“l’avreste fatto anche voi” li dissi; Rupert mi sorrise.
E subito dopo, stavamo già lavorando come una squadra. Al ripristino dell’avamposto.
“pensavo, che adesso ci serve un posto dove stare” disse un affaticato Arthur, trascinava fra le sue braccia delle listarelle più grosse di lui.
C’era uno strano brillio di desiderio nei suoi occhi, quando scarico le listarelle nel mucchio che via via si stava creando.
“vada per una casa sull’albero” borbotto Frank, alle mie spalle.
Rendendo più entusiasta Arthur, nell’arco dell’intera giornata. L’energia che aveva in copro, quel ragazzo minuto, dava al fantascientifico.
John dal basso lancio un’occhiata a Rupert, il biondino stava schiodando quante più assi poteva riutilizzare. Lo stesso accorgendosi dell’occhiata, sorrise e scrollo le spalle.
Avevamo un nuovo progetto, un nuovo lavoro. O come meglio giudico John: “l’avamposto e in fase di rinnovamento”.
E fu cosi, ogni giorno tentavamo nell’impresa; migliorare l’avamposto. Ecco che piano piano, un muro stava crescendo. Subito dopo gran parte del tetto, stava nascendo e cosi via.
La casa venne costruita, sul lato sinistro dell’albero, i rami da quella parte ci permettevano maggior punti d’appoggio. Siccome vicini, l’uno dall’altro.
Segammo, inchiodammo, legavamo sudando. Era cosi, ma a noi piaceva. La fatica, si trasformava alla fine della giornata in sommo piacere. Quando guardi qualcosa prendere forma dalle tue mani, e ti trovi stanco dopo ore di lavoro. C’e questa gioia immensa, che sale dallo stomaco e s’irradia nel petto, facendoti istantaneamente sorridere.
Non era certo un trilocale con camino, ne come la villa di Rupert. Ma con un’po d’immaginazione, poteva essere, quella casa qualsiasi cosa.
In quella radura, era una visione singolare. Vedere una piccola casa, poggiata al tronco sulla parte sinistra dell’albero. E le altri parti, sui rami. Che facevano assomigliare quell’albero, a un cespuglio con poche foglie.
Poteva avere dei soffitti alti, o il corrimano ripristinato, poteva diventare di marmo bianco. O quella rete, che dal terreno, che ti aiutava ha salire. Propendendosi coi suoi lacci fin al pavimento dell’avamposto. Poteva essere la scala, sormontata dal tappeto orientale. L’avevamo lasciata, perche ci sembrava che completasse quella visione bizzarra. E poi, poteva tornarci utile, pensai.
Bastarono sette giorni, esatti per finire con la nostra impresa. Ora toccava, arredarlo.
Alle pareti inchiodammo qualche scaffale. Che tanto di martello e chiodi, stavamo sviluppando un certo talento.
L’ambiente, o l’unico locale di quella casa. Abbastanza grande da contenere sei eccitantissimi amici. Venne reso, più famigliare. Ognuno porto da casa sua, oggetti inutilizzati. Come cuscini per sedersi a terra, oppure pouf, libri, poster.
E per questa fase, basto appena un giorno, e lavoro finito. Sorseggiammo, le nostre bibite gassate, seduti su quei grossi cuscini, che Frank aveva trovato in casa sua. Un grosso pouf grigio, posizionato in un angolo, era invece di Rupert. Le pareti erano piene di poster, John si era dato da fare assieme ad Arthur ha staccargli dalle pareti delle loro camere. Le spille di Rupert, come le due mappe di Sophie. Trovarono un posto di prima qualità, su quelle pareti, vicini alla finestra che io e Frank, avevamo deciso d’aprire.
Alla fine quella casa, assomigliava al nostro rifugio di un tempo, non tanto sicuro, ma era una casa comunque.
Con tutti quei cuscini variopinti sul pavimento, quel pouf gigante relegato in un angolo, gli scaffali pieni dei nostri libri preferiti.
“manca un bagno, una cucina che questa può diventare la nostra dimora” disse Arthur, ovviamente era il più entusiasta di tutti.
“oh come siamo dolci” commento sarcastico John, il tempo di finire la frase che Arthur, afferro uno dei tanti cuscini davanti ha se, lo lancio, colpendo in piena faccia John. Facendoli macchiare pantaloni e maglietta, della bibita gassata che stavamo bevendo.
C’e la ridemmo da matti, su quei cuscini, dentro quelle pareti, sotto quel tetto. Costruito forse con qualche eccessivo pericolo da me e Frank, avevamo usato parte delle listarelle del pavimento, prima più largo e esteso, ora la sua estensione si avviluppava solo sulla parte sinistra dell’albero.
“e bello essere amici vostri” commentai, finendo di bere la bibita dalla bottiglietta di plastica. Per poi distendermi, su quei cuscini.
Chiusi gli occhi, e mi lasciai assaporare da quelle parole veritiere e belle. Mi godetti quel momento. Quando il silenzio scese, ma non per l’imbarazzo, no. Quel silenzio, era riflessivo.
“raccontaci una storia” propose Sophie, sdraiandosi affianco.
Gli altri seguirono il suo esempio, finimmo sdraiati spalla contro spalla, in un mistico cerchio. Nel quale tutti guardavano il soffitto, dove raggi del sole filtravano fra le piccole fenditure. Mi lasciai catturare dalla luce, e iniziai a raccontare…
Capitolo 14;
I figli degli alberi, o forse di nessuno.
I giorni corsero veloci via, il tempo a volte e folle. Scorre con una velocità insostenibile quando ci si sente bene. E quando le cose non vanno, rallenta, diviene quasi infinito.
Parlai al gruppo di questo fatto, eravamo ovviamente tutti nella casa sull’albero. Seduti dovunque, chi come Sophie leggeva un libro. Chi come John provava la comodità di quei cuscini. Chi come Arthur, sgranocchiando biscotti mentre giocava ha carte con Frank.
All’appello mancava solo Rupert: “domani devo andare ad iscrivermi alla scuola, per il prossimo anno” ci spiego ieri.
“e perche sei calmo, e non hai preoccupazioni. Sembra che il tempo aumenta o diminuisce, ha nostro piacimento. Ma non è cosi, il tempo ha un valore definito. A un preciso numero. E solo che ci sembra che cambi, da come ci sentiamo” spiego Frank, e dall’esultanza che ebbe poi.
Capimmo che aveva vinto un’altra mano.
“o forse è solo l’estate che dura poco, rispetto all’inverno e all’autunno. Lo so che la stagioni durano tutte allo stesso modo. Ma dio, non sembra cosi..” rispose
John.
“tu non mi ascolti vero?” chiese Frank.
“si che ti ascolto, sto solo dicendo la mia. Mi sembrava, il momento delle confidenze” rispose John, senza essere aspro. Ma adottando il classico, suo sarcasmo.
“la volete piantare voi due” sbruffo Sophie.
Che con uno scatto nervoso, usci dalla casa col libro aperto fra le mani. La senti chiaramente sedersi fuori, sulla specie di balcone costruito all’esterno.
“si innervosisce molto, quando legge” commento Arthur.
“e molto permalosa..” rimugino Frank.
“ragazzi, e solo che quando si cala nel suo mondo. Non vuole essere disturbata” risposi, cercando di fargli capire che Sophie, era tutt’altro che permalosa o nervosa.
John inarco le sopracciglia, perfino Frank sembrava non capire:
“quando tu Frank, stai che ne so..ricordi quando stavamo tagliando il legni per il tetto. E Arthur ha fatto scoppiare dei petardi, ricordi come ti sei sentito?” li domandai.
“infastidito” rispose Frank “oh” aggiunse poi.
“scusate io ancora non riesco ha capire” disse John, alzando la mano come si fa ha scuola.
“e semplice John, quando tu ti alleni. Perche non vuoi essere disturbato?” gli chiese, Arthur con fare risoluto.
John ci penso su un attimo, poi capi perche Sophie quando leggeva, si comportava in quel modo.
Come già detto, era il suo mondo. E andava rispettato, andava al di là della semplice comprensione del testo. Era istintivo, volare la dove gli eventi di un capitolo iniziavano. E quando lo si fa, ci si scopre diversi.
“come se non venisse presa in considerazione, ciò che mi piace” mormoro John.
“un atteggiamento snob” disse Arthur, mischiando le carte.
Pronto per essere battuto, un’altra volta da Frank.
“vado a svuotarmi la vescica” si alzo su John, stropicciandosi i jeans un poco.
Ed usci, diretto dietro qualche albero.
Frank e Arthur, iniziarono la loro partita. Li osservai un momento curioso, al momento non capivo a che gioco stavano giocando.
Non riuscendo a farlo, usci anch’io. Sul balcone della casa, da li la radura si vedeva quasi tutta. Non che fossimo particolarmente in alto, solo quello era un posto privilegiato, e al sole.
Posto perfetto per leggere qualche libro, raggiunsi Sophie. Le gambe le scendevano a penzoloni oltre la balaustra, bianche come il latte e cosi magre. Un’altra pagina volo via leggera.
Nella concentrazione del suo volto, ci vidi tutto ciò che mi animava. Tutto ciò che mi faceva impazzire della letteratura; la fantasia. La amavo, ne andavo pazzo, era molto più che una droga.
Infondo fantasia, e il rinnovamento continuo di un oggetto che aveva recentemente preso vita.
“tu mi conosci” mormoro indistintamente Sophie, guardandomi di traverso solo con un occhio, e per un secondo, prima di sorridermi e rivolgere la sua attenzione al libro. Le ciglia leggere, le palpebre sbattevano come ali di farfalla,
impercettibile movimento, come il suo polso che rapido girava un’altra pagina.
“e ciò che provo, quando leggo” risposi, ed era vero.
Sophie mi lancio uno sguardo sorpreso, mentre scendevo dalla rete. E m’inoltravo nel bosco. Alla base del tronco, presi un secchio di plastica con dentro tre borracce vuote.
La caverna disabitata, pareva più sinistra di quando l’avevo conosciuta. Ora non c’era niente. La capanna era andata distrutta. L’innalzamento dell’acqua, aveva trascinato i suo resti nell’entroterra di quei cunicoli.
La carrucola rimaneva in piedi, nonostante tutto. Per cui, mi fu facile scendere dal soffitto crollato. Raggiungere il pozzo, e raccogliere quanta più acqua potevano portare al loro interno le borracce.
Ed ero già di ritorno alla casa, non prima d’essermi guardato intorno. Per molto tempo, quelle pareti rocciose e irregolari, erano divenute la mia dimora. E non potei fare a meno di costatare, che a quel posto ero legato, molto di più che alla casa sull’albero.
Gli altri sembravano non capirlo, e ci mancherebbe non avevano vissuto ciò che io avevo affrontato. Non avevano bisogno di un posto, che li fe sentire al sicuro, e cosi nascosto. Importava si, un rifugio, ma da condividere con gli altri.
Io ero l’unico, a capire la bellezza di quel posto. Bisbigliai un “grazie” alle
pareti, al soffitto. Come se fossero vivi, e che nel loro vivere. Si erano presi cura di me, senza chiedermi nulla in cambio.
Quando tornai alla casa sull’albero. Non credevo di poter trovarci già Rupert. Era troppo presto, l’aeronautico era molto lontano da qui. E, ha meno che, egli non possedeva un elicottero, era impossibile coprire quella distanza in qualche ora.
Il viso strapazzato e tirato di Rupert, spiego tutto. La delusione della sua voce, gli occhi tendenti al lucido.
Con se portava una borsa ha tracolla, di quelle fatte in pelle e molto vecchie.
Vidi tutto ciò, quando sali la rete, i punti dove s’intersecavano le corde, erano grandi appena per infilarci dentro la punta della scarpa.
Arrivai allo stipite della porta, che mancava in realtà. O meglio, era il telone che avevo usato come saccoccia. E che ora, faceva da tenda.
“oh” dissi sorpreso, trovandomi proprio davanti hai miei occhi Rupert.
Le boracce nel secchio, che mi ero trascinato su. Sbatacchiarono sorde, quando John si offri di metterle al loro posto.
“ciao Scott” saluto Rupert, una nota triste nella voce. Senti solo questo.
“già di ritorno..” notai un’po dietro le spalle di Rupert, Sophie che scosse la testa impercettibilmente. Troppo tardi.
“si, sono già di ritorno dal ginnasio, il mio stronzo padre mi ha fregato; figliolo, avrai più possibilità in questa scuola. Sarai presidente di sto cazzo! Ma vai affanculo stronzo..ah ora potete scommetterci, io non torno ha casa. Se lo posso scordare entrambi” scoppio Rupert, e le parole che disse poi, erano troppo spinte e volgari per citarle qui.
Posso dire che, nel mentre sfogava la sua rabbia. Tiro fuori dalla borsa a tracolla, una coperta, del cibo, qualche bottiglia di Coca-Cola. E qualche vestito, di ricambio.
“Ru’ che vuoi fare?” intervenni, ancora fermo sullo stipite della porta.
Quando Rupert, girava per la stanza indaffarato a buttar fuori il veleno, che ancora aveva in copro. Le suole delle sue scarpe, producevano un rumore sordo al contatto col pavimento. E quando alzava la voce di qualche ottava, l’albero stesso sembro entrare in uno stato di frenesia rabbiosa, e vibro coi suoi rami, con le sue radici dal basso. Come animato da quella rabbia, all’ingiustizia solita farsi strada nei grandi.
Gli altri come me, osservavano la scena dalle loro posizioni invariate.
“mi trasferisco qui” fu la sua risposta, secca.
Lo guardai un altro po, la decisione fuoco fatuo nel suo volto. Non ammetteva niente. Era solo un capriccio; pensai.
E quando i bambini fanno i capricci, bisogna far finta di niente. Ignorargli del tutto, come feci io con Rupert.
Gli altri seguirono il mio esempio, in quel modo riuscimmo anche ad essergli vicini. Era gravo non tener conto del volere di tuo/a figlio/a. E, il padre di Rupert per lo stesso. L’aveva combinata grossa.
Seduto su un cuscino particolarmente comodo, attendevo semplicemente che Rupert fini di svuotare il suo bagaglio.
Sophie leggeva, al suo posto. John era sdraiato sul pouf, Frank e Arthur giocavano a carte.
E in quel silenzio, sostanzialmente non facemmo nulla. Sophie da tempo, era ferma sulla stessa pagina. Frank e Arthur, lanciavano le carte ha terra, a casaccio. Quel silenzio, annullo ogni dolore.
arono i minuti, e noi ancora fermi. Rupert continuava ad imprecare sottovoce, con molta meno foga di prima.
Finché non decise d’uscire dalla casa, calpestando parecchi cuscini al suo aggio, ed uscì. All’improvviso come animati dallo spirito dell’amicizia. Si
mossero simultaneamente, John, Frank e Arthur.
“certo che è proprio una bastardata” commento solamente John, andando dietro con gli altri due, alla figura di Rupert già fuori.
Sia io che Sophie, ci guardammo d’intesa. Lei ha pochi cuscini da me, si alzo. Piego un angolino della pagina, che più e più volte aveva tentato di leggere. Non riuscendoci fra l’altro.
Rimuginai, alle parole che disse Sophie poco tempo fa: “sai, voi due siete simili più di quanto tu creda”.
“cosa stai pensando?” chiese Sophie, raggiungendomi.
Si sedette accanto a me, incrociando le gambe.
“che infondo siamo figli di nessuno” risposi drastico.
“o forse, siamo solo figli degli alberi” disse Sophie, risoluta.
Cospargendo nell’aria il suo buon umore.
“o delle caverne” proposi sorridente.
Sophie si scuri in viso improvvisamente, repentino fu il cambio d’espressione sul suo volto. Scruto il mio, di volto. Che rapidamente nascosi. Quei suoi sguardi, erano in grado di traarmi da palmo a palmo. Ed io ne avevo una paura fottuta, essere cosi fragile, e quindi farglielo capire, la vedevo più come un’altra sconfitta personale.
“tu andrai al ginnasio o?” chiese Sophie, lascio quel “O” aperto. Appeso nel baratro insondabile del nostro futuro.
Feci di no, con la testa.
Accigliata Sophie proseguì: “che significa no? Che scuola frequenterai?”
“il collegio, fuori città” risposi, la verità mi sfuggi dalle labbra, prima che potessi ricacciarla dentro.
“sono stato bocciato quest’anno” mormorai pieno dall’imbarazzo.
Si porto le mani sulla fronte Sophie, sospiro stanca o forse l’avevo fatta preoccupare ulteriormente della mia situazione.
“perche, non mi parli di queste cose? Perche ti ostini ha tenere tutto dentro?” domando, con ancora le mani ha coprirle il viso. Ciocche di capelli, coprivano solo i polpastrelli delle stesse mani come cascate di puri raggi solari. Nell’intercapedine fra dito e l’altro, sgusciavano fuori le sue pupille azzurre.
Guardavano me, anche nell’oscurità. Tentavano di salvarmi anche in quel posto.
Alla mia non risposta, dipano ulteriormente le dita. Cosi che le sue pupille azzurrine, poterono guardare direttamente le mie nocciola, catturandole con poca fatica.
“non c’e un motivo, e che sono abituato a risolvere qualsiasi cosa da solo” dissi, ed ero sincero.
Per troppi anni, ero stato abituato a vivere cosi. Superare qualsiasi cosa da solo, l’emarginazione, lo sconforto di deludere i tuoi genitori, l’autostima che vacilla, la stupidità che pensi d’avere.
“speravo stessi cambiando, con noi” rispose Sophie, e c’era una profonda nota di delusione nella sua voce; notai. Mi si strinse il cuore.
“ma io sono cambiato, ti prego di credermi Sophie. Mi sento realmente diverso” le dissi, portandomi una mano sul petto.
Notai il suo non essere cosi convinta, certo se solo potesse vedere nel mio cuore saprebbe che non stavo mentendo.
“ok, facciamo cosi. Risponderò ha qualsiasi domanda mi farai, e lo farò sinceramente” aggiunsi, questo non poteva dimostrare nulla.
Ma, dimostrava ha Sophie che con lei, ero sempre stato sincero.
“risponderai a qualsiasi cosa ti chiedo, e lo farai sinceramente?” parve ancora poco convinta Sophie.
Risposi affermativo, concentrandomi solo sui suoi occhi.
“d’accordo. Perche ti piace cosi tanto la caverna?” inizio Sophie, guardandomi come se mi stesse quasi sfidando, a dirle la verità. Cosa che volevo fare, realmente. Ma che lei credeva, non avrei fatto. Strano, da quando per lei sono diventato un bugiardo?.
Ci pensai un attimo, prima di rispondergli:
“le sue mura, hanno un effetto calmante su di me. Quando sono la sotto, e come se mi sentissi al sicuro. Come se la sotto, non potessi essere toccato” risposi, ovviamente sincero.
Rivolsi un’occhiata eloquente a Sophie.
Come a dirle, che prima di sfidarmi a essere sincero. Doveva pensarci due volte. Perche con quei sorrisetti, non concludeva niente. E certamente non avrebbe dimostrato, il contrario.
La sincerità, era l’unica cosa in cui credevo, essere molto importante. Ed ancora
tutt’ora, lo credo fermamente. Sebbene mi accingo ad omettere molte cose.
“e la nostra amicizia per te, quanto importa?” continuo Sophie, stavolta era tranquilla.
“a molta importanza, quasi quasi vi amo tutti” risposi.
Sophie rimase in silenzio verso la mia risposta, mi fisso con intensità.
“che c’e non mi credi?” la stuzzicai.
“si che ti credo, solo che….lascia perdere” rispose Sophie, scostandosi i capelli dalla frangia.
“allora questa casa, non ti piace” disse Sophie, guardandosi attorno.
“si che mi piace, ma solo perche ci siete anche voi” risposi, senza pensarci due volte.
Questa era, ora che ci penso. La mia prima dichiarazione di vero amore, ero la seduto su quei cuscini, cuore in mano, attendendo d’essere salvato o rifiutato. E per la seconda scelta, non s’impara mai a sopportarla.
Le altre domande che Sophie mi rivolse, erano state fatte. Perche egli, potesse conoscermi meglio. Come ad esempio: “quando sei nato?”
Io che mi ero sdraiato totalmente su quei cuscini, sbadigliai un’po stanco. Prima di rispondergli un:
“oggi”
“come, oggi?” fu sorpresa Sophie.
Quasi credesse la stessi pigliando in giro.
“si, oggi. Non e mica il ventitre?” di rimando, e il fatto fu che non mi riusciva di non ridere di quella situazione. Era quasi comica.
“e tu non mi dici quando sei nato” protesto Sophie, colpendomi scherzosamente con un cuscino, sulla faccia.
“solo perche non do molta importanza, a quando sono nato” risposi, sulla difensiva.
“hmm” disse solo Sophie, accettando quella mia risposta come la verità.
“e cosi importante?” chiesi scioccamente, tirandomi sui gomiti.
“ma certo che lo è, se no come fai ad aspettarti dei regali” rispose Sophie.
“io, non ho mai ricevuto dei regali per il mio compleanno” dissi, come a dire che di regali, non ne volevo. Sophie inclino la testa di lato, mi guardo con un moto dolce al contempo stesso triste.
“nemmeno a Natale, Pasqua..”
“mai” risposi.
“oh Scott, mi dispiace” mormoro quasi in lacrime Sophie.
“non capisco, perche e cosi importante. Ricevere dei regali” dissi, proprio non riuscivo ad arrivarci.
“e solo una prova, che al mondo c’e qualcuno che ti vuole bene” spiego Sophie.
“tendo a chiudermi in me stesso, proprio per questo motivo” infondo una piccola parte di me, l’aveva sempre saputo.
Un muto stupore, si dirado sul viso di Sophie. Quel silenzio, lo presi come invito
a continuare.
“quando mi mancava un abbraccio da parte di mia madre, sopperivo questa mancanza con delle parole, o gesti..come quando ti scaldi le braccia. O, quando mi voglio calmare perche sto iniziando a piangere, bastava concentrarsi sul respiro, sui battiti del cuore. Scambiavo i miei sogni, con la fantasia d’ogni giorno” parlai, senza nemmeno capire chi parlava. Se io, o qualcun altro dentro di me; quel qualcuno dava l’impressione d’essere molto lontano. Come se parlasse nella caverna, del mio copro.
Fu veloce Sophie, ad abbracciarmi. Furono forti, le sue braccia nel cingermi sotto il collo.
Sentivo il suo profumo, cosi dolce e invitante, t’apriva l’anima e il cuore andava per i fatti suoi. Magari sognante, d’essere sempre abbracciato a quel modo. Oh com’erano morbide le sue braccia, o le sue guance schiacciate sulle mie. Come il suo naso che mi sfiorava il mento. O le sue mani, le sue dita come una gabbia al quale, nessuno vorrebbe scappare. Cosi leggere, cosi bianche.
“oh, abbraccio di gruppo” apparve John, precipitandosi ed cosi unendosi alle nostre due figure.
In breve si aggiunsero, gli altri. Per fino un calmo Rupert.
“sei convinto a rimanere qui?” gli domandai, quando ci sciogliemmo dall’abbraccio di gruppo.
“convintissimo assolutamente” rispose Rupert, non mi sorprese per niente la sua risposta.
“bhè, allora ci servono altre coperte” sottolineo Sophie.
“ragazzi, non serve che mi facciate compagnia” protesto esilmente Rupert.
“e inutile, ricordi quand’ero io nella tua situazione” feci.
“possiamo essere molto testardi, si ricordo” borbotto Rupert sommesso, una mano fra i capelli.
Il sorrisetto che le increspava le labbra, voleva dire: “d’accordo, se volete restare potete farmi compagnia” era un qualcosa di arrendevole.
Più tardi eravamo hai piedi dell’albero, la casa coi suoi lineamenti quadrati. Sembrava più sinistra, con le ombre danzanti delle nostre figure, lanciate su di essa dalle fiamme. Avevamo accesso un falò, roba tipo campeggio estivo dei castori, o dei lupetti.
Quel genere di cose che si fanno, con dei marshmallow sciolti nelle fiamme. Era un tale goduria, sentire il caramello con lo zucchero sciogliersi sulla lingua. E quelle nostre chiacchiere, scambiate attorno al fuoco. Erano interminabili, e del tutto prive di noia. Come le grasse risate.
C’era sempre un nuovo argomento da tirar fuori; finché:
“credo che per il compleanno, mi farò regalare qualche miccia. O magari, dei fuochi d’artificio” ci confesso Arthur. La sua fantasia, più eccitante.
Perche diciamocelo; chi comprerebbe mai, ha suo figlio dei fuochi d’artificio? Solo le persone, non sane di mente.
Attorno al falò, iniziarono ad uscire i nostri sogni più sfrontati, quelli più bramosi.
“invece, io vorrei una moto di quella costum. Magari un Harley vecchia” disse John, chiuse gli occhi per dar corpo alla sua fantasia. Quando lo vidi, annuire deliziato nel suo essere. Mi fu facile vedere, quello che vedeva John dietro le sue palpebre. Una moto rombante, e nera.
“oh sarebbe bello uno studio, dove poter dipingere” mormoro Sophie.
“pilotare un aereo”
“un laboratorio tutto per me” conclo con aria sognante, Rupert e Frank.
Il crepitio delle fiamme, copri il nostro respirare. Non riuscì a scacciare quei pensieri.
Quei desideri, c’e l’avevamo stampati nella memoria. Sotto forma di fotografia, in movimento. Viva all’interno della cornice bianca, ricca di dettagli.
Mangiucchiai il mio marshmallow, deliziato dal momento. Noi sei attorno al fuoco, sopra di noi imperiosa la casa sull’albero. Dall’altro lato il bosco, pieno di grilli, e qualche lucciola. Il loro cicalio, dava il ritmo alla nostra serata. Le piante ferme, impiantate al suolo, le foglie che rilasciavano anidride carbonica.
Le stelle che fra quei spicchi di cielo, spuntavano come funghi. Un giorno ci sono, e l’altro no.
Quella epica coreografia, non aveva una ballata. Quelle milioni di entità, stavano lassù ad illuminare debolmente.
Luminarie economiche le stelle, non hanno bisogno d’elettricità per accendersi. Come i nostri cuori, che alle volte una spinta, la si bisogna dare.
Ora però, tutti rapidamente stavano finendo le loro fantasticherie. E altrettanto rapidamente, stavano tornando laggiù attorno a quel fuoco.
Dovevo tergiversare, guadagnare tempo o forse, se facevo finta di niente. Sarei stato esamine dal dichiarare il mio più forte desiderio; essere normale.
Ma sembrava troppo drastico da dire, soprattutto in quel momento cosi dolce e riflessivo. Non volevo essere io, la colpa per aver rotto quell’atmosfera. Con i
miei inutili desideri.
“e tu Scott?” chiese Frank, leccando dal suo bastone le ultime particelle di marshmallow sciolto.
“io?”
“si, tu. Cosa vorresti per il tuo compleanno” disse John, lanciando il suo bastone nel fuoco, che crepito.
“quand’è a proposito?” chiese Arthur.
Dio che imbarazzo, tutti quei occhi puntati su di me. Che innocenti chiedevano qualcosa, sul mio conto.
“e oggi, il mio compleanno..e non so cosa vorrei, o almeno non con esattezza” dissi, tentando di essere normale il più possibile.
Alzai tedioso lo sguardo, verso i miei amici, di fronte, di fianco a me
“dodici giusto?” chiese con uno strano sorrisetto John.
La sua anima giocosa, trascinando con se il suo copro. Ruzzolo contro di me,
prima che potessi annuire alla sua domanda. Mi afferro l’orecchio sinistro, e lo tiro dodici volte, cantando allegoricamente.
“perche e un bravo ragazzo..”
L’aria venne scossa da risate, quando riuscì a togliermi di dosso il pesante corpo di John. Non ci riuscì, finché lui non lo volle.
“allora, il regalo che non sai con esattezza se volere o meno, qual è?” chiese Rupert, mettendosi più comodo a terra.
Bhè, in effetti, ho sempre desiderato avere..
“un aquilone” dissi, sorridente.
E chiusi gli occhi, proprio come fece John prima di me. Ed ecco, a voler dimostrare la mia fantasia, d’improvviso. Catapultato in un’altra realtà..una collina verde e tonda, l’erba fresca e appena tagliata mi arrivava alla caviglia, spargendo al vento quel suo profumo d’istinto. Ed io che corro giù, con uno spago fra le mani. Era incredibile.
“sai che ti dico, perche non costruirli?” disse Frank.
Mi risvegliai dalle mie fantasie, lo guardai con fare docile. Lo stesso mi sorrise affabile.
Capitolo 15;
Gli aquiloni, di tutti i colori, giù dalla collina volano.
Impercettibile a volte è, la mattina. Quel suo buon profumo cosparso nell’aria, o quei suoi colori. C’erano pochi fiori in quel bosco, la maggior parte si riversava su quelle radure, il polline delizioso. Ove api s’affaccendavano, nel loro immane lavoro.
I colori forti dei petali, fra il giallo e il bianco delle margherite, il rosso dei fragili papaveri. E non ultime, le farfalle. Facevano da cornice a tutto ciò.
Si poteva osservar tutto, dalla casa e il suo piccolo balcone tutt’attorno. M’ero svegliato presto, anche se andammo a dormire tardi. Riuscì ad alzarmi, districandomi fra quel groviglio di gambe e braccia dei miei compagni, nella notte chissà perche eravamo finiti vicini. Le coperte stropicciate, e attorcigliate sui cinque copri. Dormivano beati; John addirittura russava.
Appoggiandomi con la schiena, sulla parete della casa. Mi lasciai accarezzare, dal sole del primo mattino.
Ascoltavo deliziato quella cacofonia di suoni, il ronzare basso delle api. Gli uccelli in festa cinguettanti, davano la sveglia hai loro cuccioli. Molto meglio d’essere in platea. E quella melodia, valeva il prezzo del biglietto.
Sgranchii le gambe, sfiorando con le punte i pali di sostegno del corrimano. Le mani andarono dietro la nuca, sbadigliai al mattino. E quel sbadiglio per un attimo, prese parte alla melodia. Confondendosi fra i cinguetti, e il russare di John.
Non dovevo preoccuparmi per la colazione, visto che Rupert aveva provveduto a tale bisogno. Portando nella sua borsa, un pacco di biscotti intero da dodici porzioni.
L’unica cosa di cui dovevo preoccuparmi, era starmene lassù sdraiato al sole.
I suoi raggi, si perdevano fra le fronde di quei alberi. Chiusi gli occhi, riposando più del sonno della notte. Sentivo i muscosi che si scioglievano di più. L’endorfina veniva rilasciata ad ampie ondate, dal sistema centrale, fin alle zone periferiche.
Ero preso, da quella sensazione. Quando un rumore, molto lieve di i dall’interno della casa. Guadagno l’uscita, discostando la tenda dell’ingresso.
Rupert dovette ripararsi dalla forte luce, che lo investi, con entrambe le mani. Schermo quella luce per un attimo, sbadiglio anch’egli rumorosamente. Ed infine stiracchiandosi la schiena al sole. Volse il suo sguardo alla sua destra, individuandomi. Bastarono pochi secondi, prima che l’informazione dai suoi occhi, o al cervello direttamente. Sussulto, prima di rivolgermi un gran sorriso.
“stai una merda” commentai, quando ci demmo il classico cinque del buongiorno.
Ed era vero, in quel momento Rupert non aveva una bella aria. Aveva dormito su di un lato, la guancia destra era stropicciata. Come se il cuscino, dove aveva poggiato la testa, si fosse stampato sulla sua pelle. I capelli biondi assomigliavano ad un cespuglio di begonie poco curato. Alcuni ciuffi stavano in piedi, fregandosene della gravità. Le palpebre incrostate, la t-shirt li lasciava scoperto un fianco asciutto.
“senti chi parla, devastato” di rimando Rupert.
“ma se non mi avevi nemmeno notato” risposi, ridendomela.
“dovevo solo connettere, non ho dormito cosi da una vita” rispose Rupert, con la sua attenuante.
“hai ragione” risposi, perdendomi con lo sguardo verso la radura, ancora viva e laboriosa.
“sembra un altro mondo, senza auto, senza il paesaggio cementificato a dismisura” disse ciò che stavo pensando in quel momento Rupert.
Tanto che non c’era bisogno di commentare, o per lo meno. Non mi senti d’aggiungere altro.
“raccontami una storia” sembrava una formula d’espressione, che si usa spesso. Come il “ciao” o il “come stai?”. Era questo che stava divenendo: “raccontami
una storia”.
Una cosa normale da dire, tanto scontata. Come i ciao, che non si dicono più. Sostituiti dai vari “wee come ti butta?” o “yo brother, come c’e la iamo?”.
“di primo mattino?” domandai, inarcando le sopraciglia.
“Scott, vedi di non rompere. Sono perfettamente in grado, di godermi le tue belle storie” rispose bonario Rupert.
“d’accordo, ma solo perche hai detto che le mie storie sono belle” dissi, mi beccai un pugno amichevole sul braccio sinistro. Quando Rupert si accomodo, affianco a me.
“volo, sto volando. Spalanco le ali piumate di marrone e bianco. Due potenti ali, che sbatto due volte prima d’innalzarmi nel cielo. Tocco le nuvole, le fendo con un’ala inclinandomi un poco, direzione sud. La metà calda, che mi aspetta al di là del mare, deserti cristallini, dalla sabbia bianca. Respiro e ispiro dal mio becco, tanto leggiadro quant’è vero che sono il re di questo cielo. Proprio cosi..la mia non è arroganza, no, sono negligente a volte. Come i miei occhi, che scrutano il terreno sottostante. I buffi bipedi, che si sbattono con le loro vite. Coi lavori regolari, turni doppi o di notte..ah loro che non ne capiscono di vita. Quando non hanno mai provato la libertà del volo, i muscoli alari distendersi, quando incontri una corrente ascensionale..o la possibilità di vedere interi continenti, distendersi hai tuoi piedi. Come i fiumi e i mari, o le alte montagne, altezze che potrei superare volendo. Ma oggi no, questo brivido non me lo posso concedere, non oggi, no questa sfida ambiziosa la supererò al ritorno. Quando avrò stomaco pieno, e un’po di riposo..volo, sto volando su questo continente, perche sto andando a caccia” conclusi ispirando a fondo.
“dovresti trascrivere queste storie” commento Rupert, la gamba destra piegata ad angolo acuto.
“che?”
“mi hai sentito” ammoni Rupert.
“e come potrei?! Fare lo scrittore, intendi che è questo che devo fare della mia vita?” dissi, forse un’po troppo scettico.
“esattamente, tu hai un talento, un qualcosa che ti fa brillare gli occhi mentre dai vita alle tue fantasie. Proprio come riesci ad emozionarmi ogni volta. Mi ci perderei, e non sto scherzando, nelle tue storie” rispose Rupert, cosi molto convinto sia nel tono, che nello sguardo. Riuscì in questo modo a convincere anche me, perfino il mio scetticismo.
“grazie amico” non potei aggiungere altro.
“figurati” mormoro Rupert.
Assieme guardammo gli altri, rinvenire dai loro sogni fatati. Uno ad uno, prima fu Sophie, poi Arthur, Frank e John.
Arzilli e gai, iniziammo la giornata con la colazione. Che per John, era abbondante. I nostri progetti, le nostre avventure presero forma in quel momento.
“ci servono della stoffa colorata, per gli aquiloni” come sempre il primo a fare piani, era Frank.
Lui era la guida, lui era la mente, lui era semplicemente Frank. E non vorrei altro ragazzo, se non lui alla guida delle mie idee. Perche, potete scommetterci il suo genio porterà ha termine qualsiasi missione gli affidate.
“possiamo usare quella dei cuscini” propose Arthur, fra le mani si rigirava un cuscino blu, esaminandolo attentamente da angolo a angolo.
“scherzi, no, no i cuscini rimangono cosi. Nulla da cambiare in questa casa” rispose John, prevalendo in modo un’po duro, sul piccolo Arthur.
“e che amo questo posto” chiese comprensione John, quando tutti lo fissammo curiosi.
“che ne dite, se chiedo ha mia madre? Lei ha un sacco di pezze accatastate nello sgabuzzino inutilizzate” propose Sophie, e la sua proposta risulto fattibile più di quella di Arthur, che poso a terra il cuscino blu. Come sempre entusiasta.
C’incamminammo verso la città, dopo qualche minuto. In cui con le borracce in mano, ci lavammo faccia e mani. Cosi per rinfrescare, la pelle abbronzata. E una
cosa che ho sempre amato, alzarmi la mattina. E prima di far colazione, lavarsi la faccia con l’acqua fredda. Ti svegli istantaneamente sembra, puoi perfino sentire il rumore che fa un computer quando lo si accende. Il tuo cervello dall’interno, si aziona cosi.
La città era lontana, ma non per noi giovani. Quei rami s’intrecciavano fra di loro, come le mani di due amici inseparabili, si cercano, crescono e si danno la mano. Finché un tuono, cambia tutto dall’origine. Sconquassa con la sua forza, cosi che quelle mani divengono annerite, poi si spezzano da sole, ed infine divengono polvere.
Ad accompagnarci, le nostre provvidenziali chiacchiere. Hai tempi ci sembrava, che se smettessimo di parlare e dire la nostra. Sarebbe stato una totale, e disastrosa perdita di tempo.
Tanto non c’era da spiegare nulla, quanto oramai ci conoscevamo perfettamente.
“hey, quello è uno scoiattolo” esclamo Arthur, il suo squittio di voce si espanse acuto fra quelle mani nodose. Le dita, raggrinzite ma giovani.
Ci fece sussultare tutti.
“dio Arthur, potresti esclamare in un modo che non ci faccia spaventare?” disse Frank, una mano portata al cuore.
“e come dovrei fare, ad esclamare per non prenderti in sorpresa” rispose Arthur.
“annunciati” chiara e semplice la soluzione di John.
“annunciarmi?” perplesso Arthur, rivolse un’occhiata a John.
“si, tipo..hmhhm, ragazzi vorrei dirvi una cosa..LA C’E UNO SCOIATTOLO!” urlo John, facendoci sussultare tutti, di risate stavolta.
Che vero mattacchione era John. Mi dissi fortunato. Potevo godergli tutti, negli anni migliori. Quando i fiori sbocciano d’improvviso, dal giorno e la notte, fermentavo e aprono i loro folli petali, dentro il nucleo, le corolle gialle ancora acerbe. Come i cuori, troppo piccoli, troppo ancora giovani per capire la realtà della vita, no, non il suo significato. Ma solo ciò che è in ogni giorno, in ogni ora; e solo tempo.
Quando ancora non c’erano le futili preoccupazioni, di mettere in piedi una vita. Quando non c’era, il bisogno di dimenticarsi come ci chiamavamo. Quando ancora le donne, non sarebbero diventati grattacapi da risolvere. Cosi alla fine per poterle sposare, e dargli tutto l’amore ch’eravamo capaci di dare, o provare.
Hai tempi, non sospettavamo minimamente in come ci saremmo trasformati. A mendicare baci in bocca hai margini delle strade. A comprar fiori, diamanti. Tutto perche, proprio non sopportiamo l’idea, che le nostre compagne potessero sentirsi come scontate, cosi da renderle infelici. E noi, non potevamo permetterlo; quindi rapidi uscivamo, capotto sulle spalle. Diretti dal fiorista di turno, che oramai era divenuto di famiglia. Dai tanti soldi che li davo, li dissi una volta scherzando:
“e come avere due mogli, ma tu sei quella con cui ho divorziato” e lui “Bhè, sei molto tirchio come marito, lasciatelo dire. Nemmeno gli alimenti per nostro figlio mi i”
Già, non sospettavamo nemmeno quello che da li, a pochi anni sarebbe successo.
Ciò che più aveva importanza, era camminare nel bosco. Uniti, amici. E l’unica cosa di cui preoccuparsi, erano come costruire degli aquiloni. Era chiara occasione di vita o di morte.
Casa di Sophie ci apparve, davanti alle nostre figure. Ci assicurammo che i genitori della stessa, fossero svegli prima di entrare, cosi da non disturbare nessuno.
Una volta sicuri, dal marciapiede basso. ammo per il vialetto, che portava fin sotto il portico.
Ci mettemmo tutti alle spalle di Sophie, quando busso alla porta di casa sua. Sembrava un gesto strano, come se fosse un’estranea in quella casa.
Ci spiego egli stessa, poco dopo il motivo di quel gesto.
“e per buona educazione, e se ripeti questi gesti sempre. Ti verrà scontato fargli, dovunque”
Questa è una bella idea.
Idea che infatti usai, con i miei figli.
Venne ad aprirci Colin, portava una vestaglia di quelle che usano i ricchi magnati, o proprietario terriero. Ove su quel terreno, cresceva un bel castello.
Mi fermai un istante, a fantasticare su vecchi castelli, con feritoie, canali, ponte levatoi, e molte torri.
“buongiorno padre, e permesso” si schiarì la gola nel dirlo Sophie, quasi regale era.
E questo si allacciava, alla fantasticheria del castello. La mia mente, iniziava ad aggiungere particolari. Come arcieri sulle alte mura, o gli abitanti del castello impegnati coi lavori che più erano utili per sbarcar il lunario.
“buongiorno figlia mia, certo che puoi entrare” rispose da prassi Colin.
Invitandoci cosi ad entrare tutti, con quel suo sorriso largo e promettente. Entrammo in casa, solo quattro di noi sembravano non sapere che fare, si spostavano come un branco braccato dal cacciatore. Tutti compatti e un’po timorosi.
“i vostri piani per questo bellissimo giorno, quali sono?” ci chiese Colin, lo
seguimmo in cucina, dove sul ripiano dove avevo sistemato i sacchetti della spesa. C’era una macchina da scrivere, parecchi fogli bianchi erano posati sulla sinistra, della splendida, e vecchia macchina da scrivere.
“volevamo costruire dei aquiloni” rispose Sophie.
Mentre Colin si stava per sedere, davanti alla macchina da scrivere blu, dello stesso colore degli occhi di sua figlia, le lettere in risalto, sui bottoni bianchi. Che battuti premevano sul foglio bianco, arrotolato, tutte le lettere dell’alfabeto con un pizzico di inchiostro sopra.
La risposta di Sophie, era cosi breve e diretta. Da far bloccare Colin, poco prima di sedersi sulla sedia. Le braccia dritte, ancora attaccate al reggischiena, si volto verso noi sei, e ci guardo. Uno ad uno, i suoi occhi brillavano emozionati. Subito dopo si posarono sulla macchina da scrivere, e poi ancora su di noi, indecisi.
Notai, sorridevano i sui occhi. Desiderosi forse, ti poter tornare bambini. E come combattuto dal dovere o dal piacere, rivolse ancora un’occhiata alla macchina da scrivere. Dandoci per un momento le spalle.
“si, costruiamo aquiloni” disse infine Colin, e come poter dire di no. A quell’auto invito? Non volevamo, rovinare il suo desiderio.
Cosi, ci spostammo tutti in giardino, con tutto il necessario per costruire i nostri sette aquiloni. Al nostro gruppo, s’era aggiunto un altro ragazzino.
Seduti a gambe incrociate, intrecciando due legni fra di loro. Spago e bastoni, li trovammo nello sgabuzzino. Ed era vero che la mamma di Sophie, aveva una pila di pezze di stoffa, accatastati in un angolo dello sgabuzzino.
Scoprimmo che Colin, era simpatico. Molto meglio di John, i due finirono con l’essere uno la spalla dell’altro comico. Ciò non ci distolse dall’obbiettivo finale. L’unica pausa fu, quando la madre di Sophie preparo un frullato alla fragola squisito. Poi, via di nuovo a lavorare.
Parlai poco con gli altri, tutti troppo presi dal padre di Sophie e la madre. Erano forse i genitori, che non avevamo mai avuto. Ricordo che, ci sentivamo in qualche modo gelosi nei confronti di Sophie.
Lei aveva dei genitori magnifici, e ha noi cosa ci rimaneva?.
Gli aquiloni vennero, comunque completati. Dai colori più sgargianti e variopinti. Tanto che se li accostavi, assomigliavano ad un mini-arcobaleno.
“tocca fargli volare ora” disse Arianna, dal portico di casa.
“conosco il posto perfetto” rispose Colin, che lanciò un’occhiata alla moglie.
Che annui sorridendo, aveva capito il desiderio di suo marito, senza che questi lo lasciasse intendere ha parole. Telepatia, magari?.
“dove papà?” domando Sophie, col suo aquilone giallo.
“c’e una bella collina fuori città” ci spiego Colin, filando in casa.
“intende quella dove abita Sam?” bisbiglio Arthur intimorito, al solo pensiero.
“credo di si” mormoro Rupert.
“ragazzi non mi piace, oggi succederà qualcosa di grave al mio segno zodiacale” disse John, il suo aquilone blu era il più grande di tutti.
Io avevo optato per il bianco, mentre Frank tocco il verde, Arthur il rosso, e Rupert il marrone. Come l’aquila della storia, sembrava essere fatto apposta.
“oh ma finiscila John, non rovinare tutto questo buon umore, con le tue superstizioni” rispose Frank, la prendemmo tutti sul ridere.
Anche perche John, non poteva ribattere alcunché. Colin era già di ritorno, la sua vestaglia aveva lasciato posto, ad un maglioncino leggero e un paio di jeans. Afferro il suo aquilone grigio da terra con una mano, nell’altra le chiavi della sua auto.
Cinque minuti dopo, eravamo tutti e cinque assiepati sui sedile dietro, mentre la sola Sophie se ne stava seduta sul lato eggero.
Chissà che visione strana era, vedersi are accanto quell’auto con sette persone, assiepate dentro. Con altrettanti sette aquiloni colorati; era una visione che dava dell’incredibile, filo folle e pazza.
Oltre la cromatura dell’auto, al suo interno c’erano sei ragazzi e un adulto, che giocavano ad essere bambini. E ciò è incredibile, ma infondo e da pazzi.
Colin guido, la città, il suo centro vivo, si stava allontanando. La natura al di là del parabrezza, oltre un vetro sporco.
“ho sempre amato gli spazi aperti” disse un gongolante Colin alla guida.
Era sul serio un bambino, imprigionato in un corpo d’adulto. Le facce sceme che ci faceva dallo specchietto, erano studiate solo per farci ridere. Anche quel suo modo buffo di guidare, con aria sognante; era sul serio, il padre che non ho mai avuto. Quello che ti spiegava le cose indicandolo con le dita delle mani. Quello che mostra pazienza, e ascolta ciò che il\la figlio\a vuole essere. E lo aiuta in tutti i modi.
Era questo il Colin, descritto in poche parole. Al di là del suo fisico, o la sua faccia ovale, alle orecchie proporzionante al viso, al mento tondo con una fossetta sopra. Alla secchezza della sua colonna vertebrale.
Risi poco in quel viaggio, non perche tutto non era divertente, quella situazione o il contesto nel quale ci muovevamo. Anzi, era divertente.
Ma era come se fossi bloccato; non è da vigliacchi voler cambiare il proprio padre, con un altro che non aveva i tuoi stessi geni?
Questo pensiero, non è forse molto simile, al rinnegare le tue radici. Mi faceva schifo, pensare a queste cose.
Il mio viso, si poso sul finestrino, fuori c’erano i tanto amati spazi aperti di Colin. Campi, prati, distese d’erba verde e bellissima, che seguiva il terreno con le sue dolci colline.
Inondato dal sole, il panorama sembrava ave colori più vivi. La totale assenza del vento, rendeva tutto fermo, come una cartolina, o foto d’autore. Pacato nella sua immobilità.
Colin parcheggio, sul limitare della strada. Dove l’erba pretendeva, di distendersi col suo manto sull’asfalto.
L’immane battaglia, che va avanti di anno in anno. Purtroppo non ottenendo, un risultato parziale che consegnasse la vittoria sia alla prima fazione, che alla seconda. Una lotta impari, se non ci fosse stata la mano dell’uomo, a tagliar quei ciuffi d’erba quando invadevano l’asfalto.
Scendemmo dall’auto, i nostri aquiloni fra le mani.
Il rumore di portiere chiuse, fu come il gong all’inizio delle olimpiadi; decreto
l’inizio dei giochi.
Fu un inizio piuttosto pessimo, nessuno di noi era riuscito a far volare il proprio aquilone. Che al momento, se ne stavano sul terreno, esamini, copri morti e inutili.
“qualcuno di voi, l’ha mai fatto volare uno” disse John, tenendo il suo aquilone per lo spago, e lasciandolo cosi ondeggiare davanti a se.
“quando ero piccolo si” rispose Colin, non perdendosi d’animo.
Si sposto col suo aquilone, lontano dalla strada.
“il problema e che c’e poco vento” osservo Frank.
Sia Arthur che Rupert, assieme ad Frank, John ed io. Rimanemmo fermi, affianco all’auto di Colin.
“ragazzi sappiamo, divertici comunque” rispose Sophie, lanciandosi in una corsa verso il padre. Stando ben attenta, ad allentare lo spago attaccato all’aquilone.
Funziono per qualche secondo, l’aquilone decollo per qualche metro. Ma quando Sophie si fermo, scese inevitabilmente in picchiata.
“ceri quasi figliola” incito Colin, al principio non notammo l’aquilone grigio in alto, zigzagava nel cielo come senza peso.
Animati da quella vista, raggiungemmo Sophie e Colin. Eravamo su una dolce discesa, corremmo giù con dietro i nostri aquiloni. Che si comportavano come quello di Sophie poco prima.
Aiutati dall’esperienza di Colin, riuscimmo a far decollare i nostri aquiloni.
“il trucco è, dargli corda piano, fargli salire trascinati dal vento..cosi Rupert, con calma” ci incito ancora Colin.
Seguendo le sue istruzioni minuziosamente, sette aquiloni volarono alti nel cielo. Trascinati in alto dalle correnti. Che sì, qua non c’erano. Ma lassù qualche movimento doveva esserci.
Era stupendo, starsene la sotto. Con un filo fra le mani, e all’altra estremità un aquilone fatto di stracci e due semplici legni.
Leggiadri, infiniti. I bei aquiloni, di tutti i colori, volavano giù dalla collina.
Fini che io e Rupert, iniziammo a tirar su un certo teatrino. Robe tipo:
“Mayday, ci stanno bombardando”
“io dal radar, non vedo nulla”
“la, fai fuoco a ore dodici, sono proprio davanti a te”
Quant’è brutto crescere…
Capitolo 16;
D.S.A.
Il tempo di cambiare, può portare innovazione, o cose nuove. Ma può essere anche drastico.
Alla fine scordammo la sensazione gaia e felice, dei sette aquiloni volanti. Sentire lo spago tremare un poco, quando le correnti si facevano a tratti più intense.
Anche per Rupert, accadde troppo presto. Dovevamo tornare a casa, e al più presto se non volevamo rischiare, lavate di capo.
Era il crepuscolo, quei sette fili vennero riavvolti, delicati quei aquiloni scesero. Dolcemente ondeggiando, sin quando l’aria calda che li sosteneva. Non fu abbastanza forte da sospingere il loro esile peso.
Eppure stavano cosi bene lassù, fra lo screzio rosa che avevano assunto le nuvole. O l’arancio intenso, caldo assunto dal cielo.
Dovemmo ripiegare verso l’auto di Colin. Ovviamente, tutti mogi e abbattuti. Le quattro portiere vennero aperte e poi chiuse, quando ci arrampicammo sui sedili. La chiave giro nel quadro, il motore si accese. E quel silenzio, nato solo per assaporare il momento appena vissuto. Era un silenzio che già avevamo provato.
Era lo stesso, identico silenzio adiacente alla nuotata in piscina. Quella pesante sensazione di vivere qualcosa di magico, al quale non sapevamo dare senso, ne un preciso scopo. Troppo piccoli, per comprendere. Che, detto banalmente; stavamo vivendo.
“ah, non mi divertivo cosi da una vita” disse Colin, guardandoci complice dallo specchietto uno ad uno.
“lei, dove ha imparato a far volare aquiloni?” chiese Frank, stretto nel sedile fra me e John.
“per favore, dammi del tu..vediamo, ho imparato a far volare aquiloni. Più o meno alla vostra età. Sapete non è che avevo molti amici” rispose Colin.
“perche scusi, insomma lei è..scusa, tu sei figo” disse John, provammo tutti una certa stima nei confronti di Colin.
Che prima di rispondere, lancio un’occhiata verso di me, dallo specchietto retrovisore. Duro poco, tanto che solo io notai l’occhiata, un’po indagatrice e molto seria.
“avevo difficoltà a scuola, non importava quanto studiassi. Le lettere mi ballavano davanti agli occhi. Era molto difficile, stare al o coi miei compagni” alle parole di Colin, provai una tremenda paura.
Schiacciato alla portiera, lo sguardo perso oltre il finestrino…
Come faceva Colin a sapere, ciò che io ogni giorno provavo?
Eppure di queste cose, non ne ho mai parlato con nessuno. E sul serio, erano difficoltà? Non era mai stata colpa mia? Cioè nel senso, non ero cosi stupido come mi credevo?
Domande che mi feci, e ancora: bhè che importa se tu sia stupido o meno. Che sia colpa tua o no. Hai affianco amici stupendi, proprio per questo motivo non ti lasceranno mai solo. Perfino nelle tue difficoltà, o imperfezioni.
Ciò mi rincuoro, ma solo un pochino. Ero sgomento, qualcuno riusciva ha capirmi fino quei livelli. Come se avesse vissuto le mie stesse esperienze. Era chiaro fosse cosi, Colin era me da adulto. O molto più verosimilmente lui da bambino era come me.
Quindi Colin, poteva cancellare questa parte di me. Insomma lui non ha lo stesso modo di comportarsi, come il mio. Lui scrive libri, ed è cosi figo. Come lo aveva definito John.
Ovvio si, se lui sapeva di queste difficoltà. Avrà trovato un modo, per cancellarle.
Quello che sapevo però, e che non volevo affrontare questa discussione adesso. Non era ne il momento, ne il luogo.
Colin ci accompagno uno ad uno a casa, lo ringraziammo tutti per quel pomeriggio, magico.
La famiglia di Rupert, accolse lo stesso a braccia aperte. Quando Rupert suono il camlo di casa sua. Rupert e sempre stato cosi, disposto ha dimenticare il torto subito. Soprattutto quando suo padre, li disse che per il prossimo anno egli l’aveva iscritto all’aeronautico. Per quel gesto si merito un abbraccio, caloroso.
Dopo quella bella scena, la macchina prosegui la sua marcia. Casa di John, Frank, Arthur e infine la mia.
Salutai molto frettolosamente, il padre di Sophie e la stessa. Senti l’auto allontanarsi dal vicolo, scendere giù verso la città.
Non pensai a niente, ne provai nulla di altrettanto complicato. Solo dietro i miei occhi, rivedevo come era stato accolto Rupert a casa. Con quei caldi abbracci, e quei sospiri preoccupati: “non lo fare mai più, potevo morire se ti succedeva qualcosa.” come se Rupert, per i suoi genitori. Fosse la cosa più preziosa al mondo.
Sentimenti che purtroppo non potevo confermare nei miei genitori. Infatti da quando sali i tre gradini del portico, e afferrai la maniglia della porta. La trovai chiusa. Solo un biglietto sul vetro della stessa recitava: “siamo andati dalla zia per il week-end”
Ahimè per i miei genitori, non valevo nemmeno un cacio.
Fantastico, avevo due giorni interi per me. Infilai la mano sinistra, nella tasca dei pantaloni. Ne riemersi con le chiavi in mano, apri la porta di casa e filai dentro.
Insalata veloce, una bella doccia, ed ero pronto per tornare alla mia vera casa. Che fortunatamente, stava su un albero.
Quella notte fu magica, camminare all’ombra della luna, col canto delle cicale attorno. L’aria stessa, sembrava attutire i miei piedi che sbattevano sul terreno soffice.
Si stava da Dio, fra quei insetti ronzanti, e altri animali sbattevano le loro ali neri e avano del tutto invisibili.
I miei pensieri, andarono su ciò che mi aveva detto Colin. Perche era chiaro, che in quel momento. Si stesse, rivolgendo solo a me.
L’atmosfera calma, contribuì a dare un certo inizio-fine hai mie pensieri. Se veramente queste mie difficoltà, avevano un nome. Avevano di per se, anche una definizione. E per me, con quel significato, c’era la speranza di poter comprendere in appieno i miei limiti, e quindi migliorarmi.
Ci speravo, quando finalmente mi addormentai. Sul balcone della casa, la Nuit chiamava a se ogni amante, ogni uomo nei suoi spacchi vertiginosi. Ed io cadì hai suoi piedi, sognante.
Scossoni, il mio copro veniva scosso delicatamente, o meglio due mani erano strette fra il mio braccio destro, e non molto delicatamente. Da quella presa venivo scosso.
Ero disteso a pancia in su. Con le gambe divaricate, e in allungo. Borbottai qualcosa, rigirandomi di schiena. Ma ancora, qualcuno mi percuoteva. La mia testa, che intanto continuava a battere sul pavimento, come farebbe un batterista con la sua bacchetta. Decise di lasciar perdere. Assonnato com’ero ancora..
Aspetta, questa luce che filtra fra le mie palpebre. Dove ha origine? Mi ero addormentato da pochi minuti..ma soprattutto, chi è colui che continua ha rompere?
Borbottai ancora; lasciatemi in pace, vi prego. Sto cosi bene, ora che posso dare un senso hai miei fallimenti. Poterli ricondurre ad una sola spiegazione.
Alla terza percussione, del mio copro inerme. Il cervello mando l’incipit, di doversi svegliare.
Il segnale venne rapidamente inviato, alle zone periferiche. Alzai la schiena di scatto, spaventando un poco il percussionista della mia testa.
Sbadigliai, appoggiando il busto alla parete della casa. Ancora ad occhi chiusi, borbottai un: “chi sei?”
“Rupert, non è forse una bella giornata oggi?” trillo gaio.
“immagino che hai perdonato tuo padre” volli una conferma, di ciò che sospettavo.
Uno strano sorrisetto affioro sulle labbra di Rupert, lindo e pulito. Ed anche molto scamiciato. Dalla canotta intima bianca, e un costume da bagno al posto dei jeans che portava di solito.
“diciamo che per il momento, si” rispose Rupert.
“e per questo motivo, ti porta al mare” ipotizzai, stirandomi la schiena.
Provando quel tipico sollievo, di ogni vertebra quando si allunga.
“al mare?” domando Rupert, vacuo come non capendo l’intuizione della mia ipotesi.
“al mare, si. Se no, perche porti un costume da bagno a quest’ora” dissi risoluto, indicando con un cenno del capo, tutta la sua figura.
“oh non stai cosi fuori come sembra” mormoro malizioso Rupert.
Lo guardai sorpreso.
“da quel che mi ricordo, non avevi mai usato la malizia nei miei confronti.”
“bhè, che vuoi che ti dica. E da poco, che ti scambio come un fratello” rispose Rupert, che non provo minimamente imbarazzo nel dichiararsi.
Anzi, per lui fu semplice. Come una cosa che era chiara, e cosi da non esserci bisogno di dirla ad alta voce. Quanto infondo è scontata.
“il sentimento è reciproco” accettai, visibilmente felice di quel titolo.
“mhm, che dici corsa fino a casa mia” propose Rupert, tormentandosi il mento.
Era chiaro ora, la sua piscina era aperta gratuitamente per i suoi migliori amici.
“faccio colazione, e poi ti straccio” dissi spavaldo.
“ma sentitelo! Ora che sei mio fratello, fai lo spavaldo con me?” rispose Rupert.
Nel mentre, ero entrato in casa. Avevo afferrato dalla credenza, la scorta di biscotti per le emergenze.
“tecnicamente, se sarei tuo fratello. Sarei il maggiore” risposi, e non mi sorprese la malizia della mia voce.
Dallo stipite della porta Rupert, incrocio le braccia. Da perfetto sornione rispose: “se le cose stanno cosi, per essere veramente fratelli. Ci manca una cosa da fare”
“che cosa?” chiesi, addentando un biscotto dando le spalle a Rupert.
Pessimo sbaglio, da parte mia.
“questo” rispose solamente Rupert, slanciandosi verso me. Per placarmi a terra. Il pacco aperto dei biscotti, fece una parabola discendente in aria. I nostri corpi ruzzolavano fra i cuscini, stile lotta greco-romana. Nel quale sia uno che l’altro, tenta di prendere il dominio dell’altro, sempre ridendo come pazzi. In quei cambi di posizione.
Bloccai Rupert ha terra, li tenevo saldamente i polsi delle mani, e le mie gambe attorcigliate fra le sue. Credevo di aver vinto, ma all’ultimo momento con una tecnica sorprendente, Rupert si libero.
Ora era lui sopra di me, e mi teneva saldamente a terra.
“ok..ok, basta” dissi, avevo tentato di liberarmi, ma con scarso successo.
Rupert mollo la presa, si alzo, e protese la sua mano destra per invitarmi ad
alzarmi.
Cercai i biscotti, che nella lotta erano finiti sotto il peso di uno dei due. Mangiai solo briciole dal pacchetto.
“hai una forte presa, fratello” commento Rupert, guardandomi i polsi tesi davanti al suo viso.
Sicuro, che non me lo stesse facendo notare. Perche voleva delle scuse da me. Era come un complimento, un’po paraculo con quel “fratello” all’appendice. Risposi cosi:
“chi ti ha insegnato quella tecnica, fratello”
“John, ogni tanto ci mostra cosa impara nei suoi allenamenti” rispose Rupert, pronto ad ritornare a casa.
Ed era molto strano, la sua felicità nel tornare a casa sua. Non era mai stato troppo eccessiva, come in quel momento.
Non rivelai i miei sospetti, finché la strada col guardrail non fu in vista.
“perche sei venuto, solo tu ha cercarmi?” chiesi, sospettoso.
Si blocco Rupert, fermando la sua camminata. Le braccia, caddero sui fianchi. Fu una scena quasi comica, la canottiera intima stropicciata e il resto. Perfino il suo sbruffare.
“Sophie ti ha organizzato una festa” spiego Rupert.
Lanciandomi un’occhiata, come ha chiedermi. Che ne pensi? Sei felice, di questa notizia.
“che scusa?” fu la mia reazione, colto alla sprovvista.
“una festa a sorpresa, per il compleanno” fu più esaustivo Rupert, non che prima non lo fosse stato.
“ma..non c’e ne e bisogno, cioè..sto bene cosi” risposi.
Eppure perche, sotto-sotto ero felice?
La stessa felicità, non sfuggi a Rupert.
“però ti piace, come sorpresa” disse comprensivo, si avvicino.
Mi guardo negli occhi, prendendomi per una spalla.
“siccome, doveva essere una sorpresa. Dovresti far finta, d’esserlo quando arriviamo a casa mia” disse, supplicando quasi.
“si, credo di riuscirci..ma quanti siamo? Solo noi, giusto?” mi preoccupava, essere il festeggiato, un’po in ritardo davanti a sconosciuti.
“solo noi, fratello” rispose Rupert.
Sospirai di sollievo.
Ma un’altra preoccupazione, prese posto della precedente.
“non mi avrete fatto mica, un regalo” dissi, quando Rupert mi spinse via. Non mi rispose, si limito a sorridermi con fare complice. Anche perche, pensavo di non dovermelo meritare.
Eravamo fermi, davanti alla villa di Rupert. Il cancello, sormontata dalle due statue di pietra. La villa col suo splendore, infondo. Coi suoi tendaggi, di lino candido.
“incute un’po timore” disse Rupert, fermo davanti al cancello.
“no, scherzi. Amo la tua casa” risposi, quasi subito accostandomi a Rupert.
Ci guardammo negli occhi, per un istante.
“sei pronto?” mi chiese.
“andiamo” risposi, sicuro per la prima volta nella mia vita.
Rupert allungo il braccio, verso il camlo. Simon, venne ad aprirci il cancello, personalmente e, con il suo o allungato dato dalle gambe lunghe di cui era dotato.
“buongiorno signorino” l’etichetta, imponeva questo saluto. Ma di certo, non diceva nulla sul caldo sorriso, espresso dal viso di Simon. Ne anche:
“auguri Scott”
Era sorpreso, quasi non ci capivo niente. Dissi un “grazie” solo per il mio buonsenso.
Cosi scortati, raggiungemmo gli altri nel locale della piscina. Fuori dalla struttura, era stato sistemato un ombrellone quadrato, dall’ampiezza superiore della nostra casa sull’albero. Sotto di esso, un tavolo di plastica bianca, adorno di snack, e ogni ben di dio creato per l’occasione da Bob.
Lo stesso era sotto l’ombrellone, con gli altri.
Mi ritrovai a piangere di felicità: “non dovevate ragazzi” dissi, quando uno ad una, mi abbracciarono.
“oh dio, ricordi..stiamo testardi” disse John, dandomi pacche sulla schiena.
“bhè, festeggiammo allora” risposi.
Detti il via hai festeggiamenti, che si spostarono in piscina. Ove schiamazzi, spruzzi d’acqua, tuffi e vari affogamenti. Rubarono il tempo alla festa.
E come festa di compleanno, era stupenda. Anzi, non ho mai festeggiato un compleanno cosi, in tutta la mia vita.
Il cibo era squisito, le nostre chiacchiere erano continue risate.
Anche quando ci trovammo bagnati al sole, sebbene eravamo sotto il gran ombrellone.
“perche ci avete messo tanto tempo?” domando John, lanciandosi sugli snack a mano bassa.
Rupert mi lancio un’occhiata, dall’altra parte del tavolo. Proprio davanti a me.
“insubordinazione” rispose Rupert.
“oh, insubordinazione, ingrata” aggiunse Arthur.
“dobbiamo allora, mettere le cose in chiaro” abbaio John.
Qui, la piega del discorso. Non stava prendendo, una bella piega per me. Tentai una fuga divertita, John mi raggiunse nel giardino. Mi tiro su come un fantoccio, con una facilità sorprendente.
Scalciai il più possibile, ma l’arrivo di Frank fu fondamentale, mi prese per le gambe e per me non c’era più niente da fare.
Venni lanciato di schiena in acqua, ridendo da matto. Usci dalla piscina, cercando di restituire la stessa moneta.
Frank per evitare, d’essere spedito in acqua. Si lancio egli stesso. Rimaneva solo John, che ahimè era il doppio di me. E per alzare il corpo intero di John, c’e ne voleva.
Riuscì comunque, ad intercettarlo prima del bordo piscina. Lo tirai giù in acqua, vendetta ottenuta, tornai fuori dall’edificio della piscina.
Il tempo era magnifico, faceva caldo al punto giusto. L’afa non era tanto eccessiva. E sotto quell’ombrellone, si stava da dio. Seduti attorno al tavolo, bandito, ripieno di brocche piene di succhi di frutta saturi di zucchero. Ma soprattutto grossi cubetti di ghiaccio affogati in quei liquidi, da tutti i colori. Tornai al mio posto, inzaccherato e col fiatone.
“pan per focaccia?” chiese semplicemente Sophie.
Annui, versandomi da bere.
Senti il liquido fresco, scendermi dalla trachea. Raggelandomi un poco, lo stomaco.
Frank e John, tornarono dalla piscina. Continuandosi a spingere, per il viale che dal retro della villa, portava all’edificio della piscina.
Riprendemmo fiato, mangiucchiando tutto quel ben di dio. Chiusi gli occhi, stravaccandomi su quella sedia. Respirai e ispirai.
Tentavo di mandare a memoria, tutto quello che provavo in quel momento, ed anche prima.
Erano dei sentimenti viscerali, fedeltà verso i miei amici, complicità intrinseca. Bastava una sola occhiata per intenderci. Il volersi bene, restando uniti per sempre. O forse, solo per quell’estate.
E poi i nostri discorsi assurdi, le tali leggende metropolitane. Quelle storie scabrose, farcite da fantasie che proprio non c’entravano con la realtà di quei fatti.
Ovviamente quei particolari fantasiosi, ci facevamo morire dal ridere. Erano storie assurde, con doppi sensi a carattere sessuale.
Fini che la mattina divenne pomeriggio, totalmente privi di stanchezza. La festa di compleanno di Scott, durava ancora.
“saremmo nei libri dei record” dissi Arthur, scherzoso.
“si, certo. Lo chiami tu, il giudice dei Guinness. E dilli che hai anche, un arto in più” rapida, venne la risposta di John.
Ora rintanati tutti in piscina, la temperatura era piuttosto salita nelle ultime ore.
A corpo morto, stavo sul pelo dell’acqua. Apparentemente tranquillo. Strano che in quel momento di pausa. Ripensai ha Colin, e le sue difficoltà. Molto simile alle mie. Scossi la testa, fra me e me. Dimenticandomi ch’era immerso in un liquido. Un’po di acqua, mi andò di traverso. Entrando dal naso, e non volendo uscire più.
Ciò avvenne, quando Bob ci chiamo per il pranzo. John, che da tempo era fuori dall’acqua, non attendeva altro.
Affamato segui Bob, che aveva dato disposizioni. Per mangiare in casa, nella sala da ricevimento. Visto che i genitori di Rupert mancavano all’appello. Solo allora notai.
“ora che ci penso, non vedo i tuoi genitori” dissi ha Rupert, lui assieme ha Sophie aspettarono me, per seguire gli altri in casa.
Stavo salendo sulla scaletta in acciaio, quando Rupert mi rispose.
“sono andati fuori per il week-end” rispose Rupert, scrollando le spalle.
Come se ciò fosse di poco conto, per lui.
“lo sai che anche i miei, sono andati via per il week-end” confessai scioccamente, entrando per una porta a vetro della piscina.
Sophie rimase per un istante allarmata dalla notizia, comunque si limito ad esprimere il suo allarme, solo utilizzando i suoi occhi azzurrini.
“no, scherzi. Potremmo dormire tutti qui” rispose eccitato Rupert, quasi non ci credeva che per sua fortuna. Non ava il week-end, in quell’enorme casa da solo.
“o sulla casa sull’albero” proposi.
Sicché Rupert alla mia proposta, squadro la mia intera figura inarcando le sopraciglia. Intano eravamo già nella sala da ricevimento.
“e solo che, non voglio crearti disturbo. Rifare un altro letto, delle bocche in più da sfamare” in fin dei conti era vero, sotto-sotto era ben diverso.
In realtà, in quella casa. Mi sentivo come fuori luogo, fra quelle mura, i soffitti affrescati, i mosaici della piscina, l’esistenza stessa della piscina interrata. Era quel qualcosa, che sapevo non poter ottenere in una sola vita. Magari due, o forse trecento vite potevano bastarmi, ma chi può dirlo. Non sia mai, che mi abitui alla vita, e alla fine me ne innamori. Tanto da non poterne farne ha meno.
“tu, fratello. Di questo non devi preoccuparti” rispose Rupert bonario, facendo gesto con la mano di non doversi preoccupare.
“fratello?! Da quand’è che vi chiamate cosi?” domando Sophie, alle nostre spalle.
Prettamente curiosa, credo. Rupert mi lancio un’occhiata divertita, con un briciolo di complicità nelle pupille.
Ci dividemmo, cosi che Sophie potesse prendere posto a tavola fra di noi. Dall’altro lato del tavolo, Frank, Arthur e John. Aizzato dal buon odore che proveniva dalle cucine.
“da stamattina più o meno” spiegai, il sole ci baciava le spalle da quel lato del tavolo.
Sebbene le tende di lino, fossero tirate, davanti alle grandi vetrate. Erano comunque, fatte di una membrana trasparente. Per tanto il sole filtrava, comunque. Arthur e gli altri, non furono sorpresi da quella notizia. La sola Sophie, ne fu sorpresa. Forse, essendo ragazza. Non che ci sia, niente di dispregiativo nell’esserlo. Non comprendeva, il profondo legame che c’era fra me e Rupert. Andava al di là del sangue, o dello stesso colore di pelle. Era un legame, che aumentava di giorno in giorno. Era un qualcosa che ti veniva da dentro, una sincronia, un uguaglianza strana sentita a pelle.
Arrivo il pranzo, servito da un Simon, piuttosto allegro. Svolazzava fra il tavolo da sei, molto servizievole.
Il pranzo fu delizioso, squisiti quei piatti, davano alla perfezione di gusto e di presentazione. Riso allo zafferano, con altre erbette. A cui non sapevo dare un nome. Qualche boccone di carne al sangue per secondo. E, per finire il celebre milk-shake alla fragola di Bob.
Quel frullato, gli era valso la nostra stima più elevata. Quasi eccessiva.
“sentite, secondo me Bob. Potrebbe renderti saporito, un piatto di cavallette e ragni fritti” esordi John, la stima per quel cuoco. Si manifestava più su John, che su di noi.
“cavallette e ragni fritti, sul serio John?” domando schifato Arthur, alla solo idea che dentro al suo frullato ci fossero realmente cavallette e ragni tritati.
“li mangiano sul serio, lo hanno fatto vedere alla tv” rispose sulla difensiva John.
“e poi, il mio era solo un paragone di fantasia” aggiunse poi, come a voler dire di non prenderlo mai sul serio. Un’po imbronciato, nessuno aveva capito che il suo era solo un paragone.
“questo genere di schifo, potrebbe raggiungerlo il vecchio Sam” disse Frank.
“me lo immagino, in casa sua. Intento ha bollire qualche cavalletta per farne uno stufato succoso” esibì John, ridendo con la cannuccia del suo milk-shake in bocca.
“bleah, stiamo ancora mangiando, possiamo parlare d’altro?” Sophie, aveva immensamente ragione.
La soglia di ribrezzo, da tempo era stata superata.
“a proposito di Sam, ho ancora la sua pentola.” dissi, mormorandolo fra me e me. Solo adesso me ne ricordai.
“non penserai di restituirgliela!” rispose John, sicuro che se gli avrei detto di si. Sarebbe stato valutato, come atto di totale, pura insubordinazione. E chiaramente
l’avrei deluso, concetto di fondo. L’importante era sfuggire all’insubordinazione.
“no, certo che no” mi affrettai a mettere, le cose in chiaro.
“non l’avevi abbandonata nella caverna?” chiese Frank, curioso.
Benché la sua mente, mai l’aveva tradito, soprattutto la sua memoria.
“si, ma lo ritrovata” dissi, ed era vero.
La notte prima, al posto di andare subito alla casa sull’albero. Feci una fermata intermediaria, alla caverna. Più precisamente al pozzo, fu la che trovai la pentola di Sam. Arrugginita e tutta graffiata, galleggiava, ferma immobile sul margine del pozzo. Cosi l’avevo raccolta, e portata alla casa.
“possiamo farla esplodere” salto su Arthur, fu troppo energico nel suo saltar sul bordo della sedia. Frank, seduto li accanto. Per essere stato colto in contropiede, si rovescio addosso metà del suo milk-shake.
“oh Arthur, la vuoi finire col tuo voler far saltar in aria tutto!” rispose Frank, un’po pepato. Per essersi sporcato, in quel modo assurdo quanto sciocco.
“perche no, io dico che sarà forte” intervenne John.
Dall’altro lato del tavolo, continuammo a lanciarci occhiate. Qui la situazione, poteva sfuggirci di mano. Pensammo, e lo si leggeva chiaramente sui nostri volti.
Una cosa è, far esplodere qualche petardo in un bocciofilo. Un’altra era addirittura, far saltar in aria una pentola. Nemmeno sapevo se fosse fattibile. Ne quanto quell’impresa, fosse realizzabile per un gruppo di ragazzini. Che non avevano altro da fare, che fare la guerra hai grandi e alle loro stupide regole.
“lavati le mani prima di cena” “vai a dormire, che è tardi”
A quei tempi, ci infastidiva molto. Soprattutto il loro tono, da persone adulte con quelle odiose loro frasi; ad esempio:
“alla vostra età, pativo la fame. E già avevo aiutato mio padre col suo lavoro” frasi che sicuramente dicono, quanti sacrifici fa un genitore. Per non far mancare nulla a suo figlio. Ma alla fine, risultano odiose. Come se in quei sacrifici, c’e risentimento. Se no, perche rinfacciarli sempre queste frasi? Come se i grandi hanno il privilegio di soffrire, ed i bambini? Loro non soffrono, forse patiscono più la sofferenza di una guerra, che i grandi. Loro sono impegnati con le loro pedine sulla scacchiera, intenti a mangiare la Regina, e far fuori il Re.
“ragazzi, state esagerando. Non vi pare” disse Rupert, il nostro scambio di sguardi. Aveva approvato solo una cosa da dire.
“che?! Io non credo, dai cosa succederebbe di male” quasi implorava Arthur, le mani giunte in grembo. Il viso del tutto innocente, di qualcuno che mai si sognerebbe di far male a una mosca.
Quando in realtà, Arthur se avrebbe potuto legare un minicicciolo sulla schiena di una mosca. L’avrebbe fatto, senza aver ripianti particolari.
Silenzio dall’altro lato del tavolo, Rupert ci stava riflettendo.
“Rupert, non ci starai pure pensando. E da pazzi, ragazzi. Un giorno facciamo volare aquiloni, e il giorno dopo i terroristi” intervenne allibita Sophie, lancio il suo essere allibita nello sguardo prima a Rupert.
Poi i suoi occhi, si spostarono sui nostri volti. Che assunsero dei sorrisi colpevoli. Solo per aver ipotizzato quell’azione.
Perfino io non venni risparmiato, anche se era il mio compleanno. Dopo averci messo in riga, Sophie si alzo dalla sedia. Allontanandosi dalla sala da ricevimento, ci rivolse un’altra occhiata severa. Che non ammetteva, altri ripensamenti. Una volta convinta che, non avremmo attuato quel piano. Solo allora Sophie, uscì dalla stanza.
Probabilmente stava andando in bagno. Di altro parere era Frank.
“e andata ha sbollire un’po”
“ammettiamolo, è stata un’idea stupida” disse Rupert, mettendo una parola fine a quell’avventura mai iniziata.
“perfino pensarlo, scusate. Nella mia testa, sembrava un’idea pazzesca” confesso meramente Arthur.
Il più dispiaciuto del tavolo. Visto che, era stato lui ha dare il là alla discussione.
“certo che le donne, sono strane” sbuffo John.
“già, sono criptiche. L’hai sentita prima, cos’altro voleva dire che un giorno facciamo volare aquiloni, e un altro facciamo i terroristi” disse Frank.
Solo io, forse anche Rupert. Avevamo colto il significato di quella frase.
“sono due cose diverse, due emozioni differenti, dei contro sensi” spiego Rupert.
A quelle parole, l’altro lato del tavolo. Ci guardo come non capire.
Eppure era cosi semplice.
“due lati di una moneta, la calma di un aquilone in volo, e la rabbia, o il clamore di un’esplosione” venni in soccorso a Rupert.
Ora John, aveva la bocca aperta. E con aria, talmente ebete ci fissava. Tanto assurdo era quel momento, che ci mettemmo a ridere. Sia io che Rupert.
“vedrete quante donne, avrete hai vostri piedi all’università” mormoro Frank.
La mia festa fini a tarda sera, ovviamente dormivamo tutti nella villa di Rupert. Tranne Sophie, che doveva tornare ha casa.
Mi offri io di accompagnarla, e qualcosa mi disse che Sophie, ci sperava molto nel mio gesto gentile.
Salutammo tutti, Sophie abbraccio ognuno dei ragazzi mormorando un: “non fate cazzate” si stava trasformando nella nostra madre. O era molto probabilmente, la persona più responsabile del gruppo.
Fuori sulla strada, tentai di ringraziare Sophie come si conviene. Appena apri bocca, Sophie mi zitti:
“non credi che il silenzio sia magico, le macchine che non ano, il caos del mercato, senza questi rumori la natura viene fuori. Puoi ascoltare senza ostruzioni, le foglie che catturano il sole, gli uccelli che cinguettano e volano dovunque..”
“vuoi che stiamo in silenzio?” li chiesi, per esserne sicuro d’aver capito le sue intenzioni.
“magari” rispose Sophie, con sguardo eloquente.
Camminammo su quei marciapiedi, assaporando quel silenzio ch’ero abituato a vivere. Oppure no..
Già era diverso quel silenzio, era totalmente privo di pensieri. Guardavo solamente, assaporavo ogni forma e colore che mi stava intorno.
Studiai meglio da vicino Sophie, la linea dritta del suo naso, le linee tonde delle sue guancie, i capelli corti sulla fronte liscia e quasi nascosta da quel biondo raro, e splendente, le sue lentiggini invisibili. Se non si guardava il suo viso ovale, da vicino. Erano praticamente, inesistenti. Quelle macchioline rosse, piccole imperfezioni. Che da tali, rendevano uniche qualsiasi cosa.
“grazie, per aver organizzato il mio compleanno” non riuscì a mantenere, la richiesta di Sophie.
Una smorfia del suo viso, di protesta. Mi fece capire, che proprio non dovevo proferir parole. Almeno in quel momento.
Camminammo, in quel silenzio assorto. Ove i piccoli dettagli, del paesaggio. Si manifestavano a malapena, hai nostri occhi attenti.
Come nella caccia al tesoro, ogni piccolo indizio, saltato fuori da un cespuglio, o dall’irregolarità del marciapiede. Poteva esserci utile, per arrivare al luogo primogenito, senza fermate, ne ritorno.
I campi Elisi, al di là del tramonto. Ove Ninfee, con la pelle del color lunare. Accoglievano, chi ancora cercava la pace.
Casa di Sophie, era in vista. Quando ammo per la traversa, che in diagonale, divideva quel quartiere in due.
Accompagnai Sophie, sin sotto il portico di casa. Quando la stessa apri la porta, feci per andarmene.
La sua mano mi trattenne, e con fare interrogativo mi fisso, stringendomi un poco con la sua stretta il polso. In quel momento, fu come se fossi messo a nudo, come se Sophie potesse vedere il tormento della mia anima. Ed anche quei pensieri sulla sua naturale bellezza, fatti su di lei in quel momento.
Perche ora arrossivo, di pudore..perche evitavo chiaramente i suoi occhi, e ancora, perche ora che la sua mano era stretta sul mio polso. Il cuore batteva all’impazzata?.
“dove vai? Devo ancora darti, il mio regalo” disse poi Sophie, con sospetto.
Lascio il polso, con il quale mi teneva fermo sul portico. Ed entro, senza ulteriore indugio la seguì. Tentando di decifrare, quel che avevo provato prima. Era un’emozione forte, ora vedevo Sophie in un’altra luce. Credo sia iniziato tutto al galà. Avevo covato quell’emozione, senza saperlo..e perche me ne stavo accorgendo adesso?.
Dio, che tormento fra i miei pensieri, forse perche la stavo guardando da molto da vicino. Era proprio come essere su un’altra dimensione. Dove ogni rumore e ovattato. Un’altra persona camminava nel salotto prima, e poi verso la camera di Sophie. Femminile, che lasciava intravedere il suo carattere. C’erano nuovi disegni sulle mensole, e sparpagliati sulla scrivania.
Non mi accorsi in principio, della scatola rossa in plastica. Stava proprio sulla scrivania, davanti alla sedia reclinabile in stoffa, ed in alcuni parti in plastica.
Sophie lascio il o, rimanendo sullo stipite della sua camera, quando entrai nella stanza. Ora mi guardava con una certa tristezza negli occhi.
Sulle prime pensai, che stesse soffrendo per qualche strana malattia. O che stesse male, per motivi che voleva tenere per se. O comunque, qualcosa che centrava con la sua persona, qualche pensiero, o sentimento ad esempio.
Rimasi fermo, immobile in mezzo alla stanza. Quasi li stavo chiedendo, il motivo del suo soffrire.
“stai bene?” gli domandai preoccupato.
Sophie stiro un sorriso, poco convinto in risposta. Annuendo, si avvicino alla mia figura. Mi aspettavo che mi stesse per abbracciare, non so perche adesso. Ne sentivo tanto il bisogno.
Si fermo, davanti alla scatola rossa dandomi le spalle. Era di plastica, ed aveva dei brillantini posati nella vernice rossa. Dapprima quella scatola, mi sembro poco importante nel contesto della sua camera. Risaltava meno dei suoi disegni, meno della sua figura esile, con quelle sue pupille acquose di un azzurro color mare cristallino.
Ma, dopo un’attenta osservazione. Scopri che quella, scatola, era l’elemento nuovo in quella camera. L’ultima volta, non c’era.
Intuizione, quasi astrale. Quella scatola rossa, doveva essere il mio regalo. O poteva esserlo la sedia reclinabile. Per l’amor di Dio, anche quello era un bel regalo.
Hai tempi, bastava fosse fatto col cuore. Era quello per me, il valore inalienabile.
“il tuo regalo” disse Sophie, inclinando la testa verso la scatola.
Si volto verso di me, e mi sorrise. Stavolta fu un sorriso genuino, gaio. Che comunque, non cancello. I miei dubbi iniziali.
“coraggio aprilo” incito.
Mossi un o incerto verso la scrivania, la scatola di plastica rossa davanti a me. E Sophie affianco, studiava la situazione, quasi sulla mia spalla.
La scatola, aveva due ganci sulla parte frontale. Si sganciarono con un click, quando li tirai leggermente in alto.
Sotto il coperchio, stentavo a crederci, c’era una fantastica e nuova macchina da scrivere. I tasti delle lettere erano ancora bianchi e non usurati, del colore dell’avorio. E l’intera struttura era rossa. Tranne il carrello dove si inserivano i fogli di carta.
Quello era nero, come l’inchiostro impregnato sulle lettere, che andavano a sbattere sul foglio.
Era troppo, chissà quanto quel gioiello fosse costato.
“non posso” dissi, e quasi schifato mi allontanai da quella macchina.
“che c’e non ti piace il colore? Posso cambiarlo” rispose Sophie, gentilmente.
Intuendo ch’era questo il problema.
“no, il colore è stupendo” dissi sincero.
“e allora perche non la vuoi?” chiese Sophie, appoggiandosi sul bordo della scrivania, e incrociando le braccia. Quando lo faceva, prometteva aria di tempesta.
“e troppo per me, chissà quanto hai speso” risposi tentando di rabbonirla.
Continuai:
“non è che, non apprezzo il gesto. Ma hai visto, gli ultimi voti che ho preso nei temi in classe. E come, ad esempio. La mia grammatica sia pessima. Non so i verbi, le congiunzioni, sbaglio a mettere gli accenti, le virgole, i punti. Non so quando le H, ci vanno o meno”
“le H, vanno messe quando si vuole usare il verbo avere” spiego Sophie, in un lampo.
“terza persona singolare, del verbo indicativo. O seconda o terza persona plurale dello stesso verbo” aggiunse il padre di Sophie, appoggiato allo stesso modo della figlia poco prima, sullo stipite della porta.
“ciao Colin” lo salutai, per buona educazione.
“ciao Scott” saluto Colin, con un sorriso a trentadue denti.
“sai, ora che ci penso i tuoi genitori hanno fatto una grande scelta. Il tuo nome e molto originale” aggiunse Colin.
Finalmente entrando nella stanza.
Studio attentamente, e molto da vicino la macchina da scrivere.
“ottima scelta, per iniziare e ottima” fu il giudizio finale di Colin.
“per iniziare a fare cosa?” chiesi, sentivo che la mia voce in quel momento era fuori dal coro.
Come se ciò che volevo, non fosse preso in considerazione. Come se la mia esistenza fosse solo fumo, in quella stanza.
“ma a scrivere naturalmente!” esordi Sophie.
Colin annui, compiaciuto dalla prontezza in risposta della figlia.
“che?” feci lo sprovveduto.
Anche se credere nell’estro dello scrittore in me, non era la prima volta che veniva tirato in ballo.
“non fare il finto tonto, Rupert ci ha detto tutto” rispose Sophie.
“tutto cosa?” ancora, imperterrito con la mia inutile scena. Come voler negare l’evidenza.
“quello che ti ha detto Rupert, in privato” rispose imperterrita Sophie, i suoi occhi buttavano scintille nell’aria.
“se posso intromettermi. Mia figlia, non ha mai avuto cosi tanto credo in altri, che non fero parte della famiglia.” intervenne Colin, che in un primo momento.
Sembrava voler fare lo spettatore, ora si schierava dalla parte della figlia. Lo guardammo entrambi, come se ci stessimo accorgendo solo adesso della sua presenza.
Sophie, prendendo la palla al balzo, lanciatali dal padre; prosegui.
“esatto, le tue storie sono stupende. Soprattutto alla tua età, e cosi ripiene di fantasia. Riescono anche ha essere vere. E non sono solo io e Rupert, ha credere in te” disse Sophie, e i suoi occhi ora non ardevano più.
Erano miti, calmi. Dava dell’incredibile che, qualcuno avesse una cosi tanta fiducia nelle mie capacità.
Guardai sia Sophie, che suo padre. La prima tentava di convincermi su cosa credeva veramente. Il secondo, m’implorava quasi di darle ragione.
Titubante guardai il padre e figlia, ancora. Cosi sicuri, e schierati contro quello che possiamo definire con: scarsa autostima verso le mie capacità.
“e se vi deludo, tutti voi. E se non ci riesco, non ci avete pensato” ribadì scettico.
Fu allora che padre e figlia, mi rivolsero occhiate di tenerezza da far piangere.
“figliolo, tu hai solo delle difficoltà nel leggere e nello scrivere” disse Colin, i suoi occhi umidi non mi sfuggirono, perche colmi di dispiacere.
“che cosa ho?” domandai, non avevo capito cosa intendesse con quella frase Colin.
“sei dislessico” aggiunse Sophie, anche lei sul punto di piangere.
“disle-cosa?” che lingua stava parlando Sophie, era uno scherzo?
No..i loro sguardi erano seri, non come quelli che ti stanno per prendere per il culo.
“dislessico” ribadì Colin, parlando molto pianto cosi che potessi capire, quella nuova parola sconosciuta.
“ e quindi?..io, sarei disle-cosa. Che significa?” chiesi, da li a poco stavo per morire.
“tranquillo, non è una malattia. Non morirai” disse Colin, notando il mio allarmismo.
“cosa significa per me?” domandai allora.
Sembra quasi un paradosso, padre e figlia ora non sapevano decidere chi doveva parlare per primo.
“che hai solo delle difficoltà, ti capita mai di far fatica ha studiare? Si, Sophie me ne a parlato. Ricordi poco niente di quello che leggi. Tutte queste difficoltà. Sono dovute alla D.S.A.” spiego Colin, quell’accezione sul fatto che la figlia gli aveva parlato, l’aggiunse per causa della mia breve occhiata verso la stessa figlia. Sedendosi sul letto, l’unico di quella camera.
Vacillai, erano troppe informazioni. E non poteva, di certo essere vero o forse, lo ero; ritardato?.
Se fosse cosi, non avrei necessità d’avere un futuro. Essendo ritardato, non ne avevo bisogno. Mi allettava il vivere la mia vita, senza preoccupazioni, ne cercarmi un lavoro. Lo so, e molto da stronzi, e da sciocchi. Pensare che la mia vita, si risolvesse, con quella ch’era in fin dei conti una scusa.
“non sono ritardato” mormorai, questo lo sapevo.
“non sei nemmeno stupido se per questo, o ignorante e ne svogliato. Hai solo queste difficoltà. Che col tempo inizierai ha superare” Colin, mi aveva sentito.
Lo fissai, grato. Forse non aveva ragione, ma quante volte mi hanno detto, o mi sono detto queste parole. E poi la pazienza che uso nel dirmele quelle parole, aumentarono l’affetto che provavo per quell’uomo. Divenne col tempo il mio mentore, riguardo la scrittura ed anche la letteratura. Anche se, ci piacevano gusti differenti, riuscimmo comunque ad essere amici. E sembra strano, essere amico del padre di una tua amica.
“lei mi può aiutare” era una richiesta? Ebbene si. Ma a parlare non ero stato io. Ma quella parte di me, che non voleva oziare sulle scuse dei mie difetti. O no, sarebbe stato troppo facile.
Sorrise, forse come non l’aveva fatto mai Colin. La speranza, quando si avvera. E meglio della felicità, da provare a pelle.
“sarà un gran onore” rispose Colin, non vedeva come me l’ora di iniziare.
Tornai a casa, con forse il regalo più bello che mi potessero donare; la speranza di avere, il futuro che desideravo.
Più di tutto desideravo, redenzione, riscattare la mia vita. Partire da zero. Non che, la macchina da scrivere mi dispiaceva. Anzi, ne ero contento di quella
scatola di plastica rossa.
Stavo prendendo la via di casa, quando mi ricordai che Rupert e gli altri. Mi aspettavano nella villa Agliardi.
Decisi che era meglio, lasciar la macchina da scrivere a casa. Solo quando l’appoggiai delicatamente sotto il letto, manco fosse il tesoro più inestimabile al mondo. Probabilmente perche associavo quella speranza, intrinseca nell’oggetto in questione.
Solo allora, tornai alla villa. Ove tutti mi aspettavano, fuori in giardino nei sacchi a pelo.
Ah la notte dei desideri, dava spettacolo. Con le meteoriti, e i fuochi artificiali lassù nel cielo stellato.
Ha farci da compagnia, o solo perche qualcuno le aveva maledettamente relegate in quel posto.
Capitolo 17;
Lezioni private.
“fratello, c’e ne hai messo di tempo” saluto Rupert, quando mi vide arrivare. Scortato da Simon.
La sera era scesa, nel suo silenzio profetico. Vanno tutti a dormire, vanno tutti a sognare.
“mi sono fermato a parlare, con Colin” risposi.
“quel Colin, e proprio un figo” disse John, hai suoi fianchi Arthur e Frank, nell’oscurità annuirono.
“quindi dormiamo qui?” chiesi, sedendomi sull’unico sacco a pelo libero, disteso su quel morbido prato.
“certo, si sta bene all’aria aperta” disse Arthur, lasciando cadere all’indietro, sul suo sacco a pelo.
Il tonfo che ne segui del suo copro esile, annuncio un altro dolce suono. Quello dell’acqua della fontana, riversarsi nella piscina. In lontananza un gufo canto col
suo tetro richiamo, scese a caccia affamato. Le cicale e i grilli, si esibivano invece in piccoli concerti improvvisati sotto qualche stelo d’erba. Lucciole, oh lucciole dalle luminarie sulle loro schiene. Volavano in giro, depositandosi raramente sull’erba o su qualsiasi piano solido. Infine il ronzare delle falene, attorno alle luci della villa ancora accese.
Gioioso, per la speranza ritrovata. Senti tutto questo in quel giardino sul retro, e dio sembrava che là si fosse riunito l’intero mondo. Felice per qualsiasi cosa, viva e non.
“di che avete parlato, te e Colin?” più tardi, quando ci stavamo per addormentare sopra i sacchi a pelo.
Mi voltai su un fianco, cosi che potessi vedergli uno ad uno. Meritavano la verità, e non certo perche lo decidevo io. Erano i miei migliori amici.
Li raccontai, quello che avevo capito. Alla fine, erano tutti un’po sollevati. Come se si aspettassero, che li dicessi proprio questo.
“aspetta, ma voi lo sapevate?” li domandai.
“bhè, Sophie la accennato ha Rupert” spiego Arthur, coma ha dire da cosa nasce cosa.
“tanto che ci chiedevamo, se tu te ne sei innamorato Rupert” disse John, col suo solito sarcasmo irriverente.
Allorché Rupert, aggrotto le sopraciglia; già me lo immaginavo assumere quella sua smorfia. “scherzi, sapete già tutti chi mi piace” rispose.
“chi di preciso?” io non lo sapevo.
“Emily” rispose Rupert, come se niente fosse più facile da dire.
“Amy?!scherzi” incredulo Frank si tiro su.
“credete davvero, che mi possa innamorare di una ragazza” scherzo Rupert.
“appunto, son solo altri problemi” completo John.
Ridemmo spensierati, nessuno sembrava comunque stanco da voler dormire.
“Arianna, e una bella donna” appunto Arthur.
“già, ha due gambe che non finiscono più” ci trovammo tutti d’accordo con Frank.
“che ne dite di Amy?” ipotizzo John.
“non pensi di essere, a volte poco coerente” dissi.
“prima si scherzava” rispose John, come ha scusarsi.
“mica ti stavo dando addosso, stavo solo pensando ad alta voce” gli dissi, che non avevo bisogno delle sue scuse.
“si, anche Amy è carina” commento Frank.
“ha una bella pelle” disse invece Arthur.
“credo che con tutti questi spasimanti, Amy scapperà.” commento Rupert, sarcastico.
“sarà, il suo incubo peggiore” aggiunsi.
“oh mio Dio!” urlo John, facendo solo finta d’essere spaventato.
Il suo grido rimbalzo nella notte, finendo sino alla camera di Simon. Che di tutta fretta si alzo, e con furia caracollo giù sino al giardino.
“signorino..sta bene” arrivo col fiatone, della preoccupazione.
John si mise le mani nei capelli, realmente dispiaciuto mormoro: “scusi, stavo solo scherzando”.
Parole che non bastarono ha mitigare il crepacuore di Simon. Torno ha dormire, i suoi sogni non tranquilli.
“ e tu Scott? Chi ti piace?” nel mio cuore, ora lo sapevo. Ma non potevo dichiararlo cosi leggermente, non finché avrei capito quell’emozione nel dettaglio.
“non saprei, se Hermione esisterebbe. E se la incontrassi per strada, credo che proverei qualcosa per lei” dissi, infondo era anche vero.
Ero molto confuso, riguardo all’amore in quei anni.
Frank emise un suono d’approvazione con la gola.
“bhè, se la mettiamo cosi. Anche Ginny, non dovrebbe essere male” mormoro Rupert.
“o Luna” aggiunse Arthur.
“oh bhè, lei sarebbe il top” commento John.
Tornai a distendermi, con la schiena sul sacco a pelo. Guardai le stelle ammagliato.
Chi lo sa, magari i sogni. Diventano stelle, quando si avverano. O quando l’uomo, mostra il suo grande talento lassù si accende qualcosa, o forse le stelle sono le donne che abbiamo amato. Ma che da loro, non abbiamo ricevuto in cambio altro amore.
E stanno lassù, ha ricordarti della tua ione per loro. Stanno là, e si lasciano ammirare da lontano, inavvicinabili. E questo che fanno, quando eggiano per strada. Nel farlo, quasi ti uccidono.
“è ora” sbadiglio Rupert
“ora, di cosa?” chiesi.
“dopo tutto questo tempo, dobbiamo ancora chiedertelo” ammoni John.
“tanto tempo fa, in una terra molto lontana..” sorridevo nella notte, e nessuno vedeva il mio ridere. Ispirai ancora “un ragazzino dodicenne, alto e muscoloso. Ma che ahimè, veniva preso in giro da tutti..ah c’e l’hai piccolo, gli dicevano contro, il suo nome era John” non trattenni più le risate.
E il bello fu che ridemmo tutti, ci sganasciammo a terra, il povero John mi venne sopra.
“affanculo” disse solo, accettando la mia battuta per quello che era.
“oh già nella notte vaga solo sui marciapiedi. E gridava ha Dio, oh Dio misericordioso abbi pietà di me, dammi in grazia un grosso pene. Ti prego Dio, cosi Amy potrà amarmi. Oh Dio!”
“non siete divertenti ragazzi” protesto John, che rideva egli stesso di se.
“al di la dell’orizzonte, affannato e stanco dopo il lungo viaggio. Trovo la sua anima gemella. Come ti chiami bella ragazza; li chiese il nostro impavido eroe. E la donna lo guardo dalla testa hai piedi e li rispose..Armando!”
“la vogliamo finire”
E fini tutto, in un turbinio di colpi. Uno sopra l’altro, le nostre risate arrivavano sino alla Luna, per poi tornare indietro sotto forma di onde lunghe.
Gli addominali per il troppo ridere, ci facevano male. Trovavamo addirittura difficile. Guardarci in faccia, e essere seri per almeno dieci secondi.
“basta” dissi, lacrimavo per tutto quel ridere.
“allora..” ispirai a fondo “quattro barboni, si ritrovano in un campo nomadi… Arthur ti prego, non riesco ad andare avanti con la storia, se continui ha ridere” dissi, se non iniziavo a farlo.
Qualcuno ci poteva lasciare le penne, per il troppo ridere.
“scusa..continua” si scuso Arthur, mettendosi un pugno in bocca, soffocando altre risate.
Mi ci vollero dieci minuti buoni, per continuare con quella storia. E alla fine, sia John, che Arthur, Frank, e Rupert, piangevano proprio come lo stavo facendo io.
Le lacrime difficilmente si condividono, o per lo meno, non come si fa con le risate.
Guardammo tutti il cielo, piangendo in silenzio. Nessuno sembrava voler parlare. E io del resto avevo parlato anche troppo, sarà stata un’ora buona.
Le lezioni, iniziarono sin dal giorno dopo. Quando la mattina, Sophie ci venne ha svegliare tutti. Aveva un che di energico nei suoi movimenti, era felice.
Con quella felicità nel suo essere, mi trascino via dalla villa.
Ebbi solo il tempo di dire:
“ci vediamo nel pomeriggio alla casa” cosi, c’eravamo dati un appuntamento per il pomeriggio.
Le lezioni, erano divertenti. E molto istruttive. Evidentemente quel modo di comportarsi di Sophie, era dovuto solo alla voglia di iniziare subito, questo ciclo di studio. Colin, spiegava come tempo addietro Sophie aveva fatto. Con calma placata, e non si arrabbiava se sbagliavo a scrivere le farsi di grammatica che mi dettava. Avevo molti problemi, coi sostantivi e avverbi di luogo.
Nemmeno sapevo che esistevano.
“quindi alle superiori, andrai in un collegio?” sebbene, quella di Colin realmente non era una domanda. Ma un’affermazione, risposi alla stessa come se fosse una domanda.
Lo guardai, come a dirgli. Che altro potevo fare?.
“ti piace volare, o l’idea del volo in se” come spesso accadeva, Sophie era li con noi.
Seguiva le lezioni private. Anche perche in quella casa. Non c’erano molte stanze private, o separate dal resto della casa. Si, c’era il bagno. Ma andiamo, sarebbe stato molto strano. C’erano due camere da letto, anche quelle non andavano bene. Perche, c’era poco spazio dove poter appoggiare quei libri
accademici. Colin, ne aveva una bella collezione privata.
Al momento eravamo in cucina, unico posto con un ripiano abbastanza grande, da contenere tutta quella cultura stampata su carta.
“non è vero, ha Rupert piace” risposi, sulla difensiva.
“capisco” borbotto Colin, andando avanti ha spiegare la grammatica.
Mi fece fare strani esercizi, con i tappi di bottiglia; riguardo alla matematica. “togline due” o “aggiungi cinque”.
Era come un gioco, e non sono mai stato cosi bravo a contare, senza l’utilizzo delle dita.
Pensai che la questione, il futuro di Scott. Fosse arrivata alla sua conclusione, mi sbagliavo. Quando le lezioni, finirono. Colin insisti per accompagnarmi a casa in macchina. Non volevo per un semplice motivo, i miei non erano ancora tornati dal week-end dalla zia. E mi rendevo conto che Colin, poteva pensare che i miei genitori sul loro ruolo. Lasciavano molto ha desiderare.
Non mi riuscì comunque ha farlo desistere. I piani di Colin, erano altri. E io non li capì subito.
Una volta in macchina, Colin continuo ha farmi domande su quello che avevo
imparato oggi. Era come se dovessi fare, un resoconto dettagliato. Alcune cose me le ricordavo, altre le confondevo, alcune lo ho dimenticate. Tutto sommato, era un gran bel ottimo risultato. Mi sorpresi di questa piccola vittoria.
“i risultati, arriveranno con la costanza” disse Colin, cosi per incoraggiarmi.
Quando parcheggio sul viale sterrato di casa mia, usci dalla sua auto a motore ancora . Era di vitale importanza, non fargli capire che i miei genitori non erano a casa, e che non lo erano stati nemmeno ieri soprattutto.
Per fortuna la mia esplicita, convinse Colin ha non entrare in casa mia. Neanche nel giardino.
Una volta solo, nel portico di casa. Respirai a pericolo scampato, quando l’auto si allontano dal viale sterrato. Infilai le chiavi nella toppa, ed ero dentro.
Siccome non avevo fatto colazione, andai in cucina. Apri il frigorifero, per un’po godetti del fresco irradiato dall’interno. Afferrai una confezione di latte parzialmente scremato aperto. E me lo versai in una tazza, bevvi alla mia salute.
Lavato la tazzina, sali in camera mia. Ora, morivo dalla voglia di provare il contenuto della scatola rossa.
Era fantastico battere parole a caso, sulla tastiera bianca. E sentire quello schiocco a fine corsa, sull’estrema sinistra. Stesso suono proveniva, anche quando battevi lo spazio a capo.
Fino a quel momento, non avevo mai capito il potere delle parole. Il loro significato che ci da peso, esistenza, la stessa che provano milioni di persone, quell’appartenenza ha quel tipo di frase, che descrive te stesso, la tua anima, i tuoi pensieri o sentimenti. Capita anche di riconoscersi, nel modo di agire o comportarsi di un personaggio inventato. E questo il reale potere delle parole.
Soprattutto la fase della creazione dal nulla, come se le varie facce dei personaggi spalmati con l’inchiostro su quei fogli. Fossero partoriti da quelle lettere, prima la testa con molta fatica si faceva spazio, poi i gomiti, infine le mani, il busto, e tutta la loro figura.
Cosi nascevano i personaggi di fantasia, da quel foglio bianco. Dalle lettere che usavo.
Potevo scrivere di farfalle, che quelle dal foglio, volarono in circolo sulla mia testa, riempiendo la stanza. Era un gran potere, da non sprecare.
Scrissi le mie prime storie, quelle che avevo raccontato prima ha Sophie, poi ha Rupert. Infine le ultime che avevo inventato.
Non fu molto difficile, ricordarmele a memoria. Anche perche, ogni tanto queste si confondevano coi miei sogni.
Partorivo qualsiasi forma di vita, e come una madre che si rispetti, ne ero orgogliosa. Mi prendevo cura di quelle forme di vita idealizzate. Le allattavo con frasi nuove, gli davo obbiettivi, un carattere, sogni, e anche sconfitte.
Al pirata detti una nuova avventura, hai fratelli una nuova vita, hai barboni detti una casa accogliente. Qualcuno alla fine perdeva, qualcosa di prezioso in quel percorso. Ma alla fine l’impavido lieto fine, li salvava. Chi si sposerà, chi metterà le mani su qualche sperduto forziere ricolmo d’oro, chi tornerà sul pianeta lontano.
Non mi costava fatica partorire, ne dolore. Era solo la mia mente a fantasticare. Mi lasciavo guidare soprattutto dalla fantasia, mio spasimante e aiutante nel concepimento letterale.
Quelle stesse storie le uso tutt’ora, per far addormentare i miei bambini. Funzionavano, allo stesso modo di un tempo. Infondo sono forse, gli unici capolavori che ho scritto. Anche perche, solo in pochi sanno dell’esistenza di queste storie. I miei amici, e i mie figli. E credo bastino questo gruppo ristretto di persone. Di entrambi mi fidavo, e non ho mai sbagliato a farlo.
Scrivevo da non so quanto tempo, quando qualcuno busso alla porta di casa. Prima di andare ad aprire, mi sporsi dalla finestra della mia camera.
Cinque ragazzi, affollavano le scale sul portico di casa. Caracollai da basso sulle scale, andai alla porta ed apri.
Stavo cosi bene, che la mia felicità. Trao sui loro visi.
Mi feci da parte per fargli are. Entrarono tutti in casa, mentre mi arono accanto, dandomi pacche sulle braccia.
“che ci fate qui?” gli domandai, mentre curiosavano in giro.
La credenza col servizio in porcellana di mia madre, la cucina col suo tavolo in mezzo, il corridoio d’ingresso, perfino il sotto scala, che portava nel seminterrato non venne risparmiato.
“non è chiaro” rispose Rupert, con fare ovvio.
“no, non è chiaro” dissi, eloquente.
“oh ma andiamo, cerchiamo strumenti di tortura” esclamo scioccamente John.
“strumenti di…oh, capisco” risposi.
“le catene sono tutte su” aggiunsi stando allo scherzo.
Finito con la visita, portai i miei amici in camera mia. Anche perche, la camera di mio padre e mia madre. Era off-limits.
“andiamo alla casa” proposi, mentre i cinque, non contenti, vagavano nella mia stanza.
John trovo addirittura la pallina da tennis, sotto il letto.
Ci gioco ha lanciarla, per poi afferrarla al volo. Arthur senza troppi problemi, apri il mio armadio, rovistando al suo interno. Ci trovo oggetti che avevo trovato nel bosco.
C’era uno yo-yo arrugginito, attiro subito l’attenzione di Arthur. Che ci gioco anche lui per un’po.
“dipende, tu cosa devi fare” disse Rupert, sedendosi sul mio letto.
“niente, cos’altro dovrei fare?” risposi semplicemente.
“stavi scrivendo” esclamo Sophie, noto solo lei la macchina da scrivere in bella vista sulla scrivania.
In sequenza una pallina rotolo per terra, uno yo-yo fini la sua corsa rimbalzando sul pavimento. Frank sussulto, Rupert si alzo dal letto. Andò alla scrivania, rimanendo alle spalle di Sophie.
In un attimo cinque ragazzi, spalla contro spalla. Si erano sporsi verso la mia scrivania. Amai molto il loro interesse, verso ciò che scrivevo.
E, senza dire niente. Raccolsi una pallina, lo yo-yo. Lo feci saltare più e più volte.
Quando tutti si voltarono verso me, non potei far altro che sorridergli.
“allora, che si fa questo pomeriggio” dissi, guardandoli uno ad uno.
Essi, rimasero in silenzio. Mi fissavano con questi sguardi stupidi, o forse..si, erano proprio orgogliosi di me.
“non mi avete interrotto, tranquilli. Mi ero bloccato, su una storia..” dissi, incredibile li stavo quasi supplicando di non guardarmi cosi.
Tentando di cambiare discorso, o almeno per fargli parlare.
“non è questo” esordi John.
“e cos’è allora?” li chiesi, sembrava d’essere sotto verifica.
Io seduto, davanti a cinque persone, cinque amici che, non potevano vedere i miei difetti, ma solo i miei pregi. Era quello che stavano facendo ora.
“e che non ci eravamo accorti, di quanto fossi bravo” mormoro in risposta Rupert.
E l’assenso provenne addirittura dai visi di John, Sophie, Arthur e Frank.
“non amo molto i complimenti” dissi, un’po imbarazzato.
“già e vero, alle volte non sopporto quando mi si dice; come sei bello” disse sarcasticamente John, buttando in fuori il mento, e assumendo una posizione da vero Playboy cittadino.
“ok, bell’uomo. Andiamo alla casa sull’albero” rispose Rupert, lasciandosi scivolare un braccio attorno al collo di John.
In un momento, eravamo tutti fuori casa. Saltammo i gradini del portico, diretti verso il bosco.
“dovresti cercare un titolo per quelle storie” disse Frank, annuendo vistosamente. Trovando l’appoggio morale di Sophie.
“una cosa del tipo, le quattro storie di Scott” aggiunse la stessa.
o, in modo molto sarcastico e scherzoso: “il bardo Scott, e le sue cazzo di storie”. fu John, ha farneticare questa specie di titolo.
Mi dissi che non era cosi male. Fra me e me, iniziai a fantasticare. Sul successo o meno, che potevo riscuotere con le mie storie.
Francamente, non lo mai desiderato, ne essere ricco. Che senso avrebbe, con tutti quei soldi in banca. Mi preoccuperei solo di come spendergli, per oggetti inutili, che hanno del loro valore solo la firma di cui sono marchiati.
Il mio interesse, o quello che volevo. Era scrivere qualcosa di bello; punto. Niente di più, niente di meno. Solo questa creazione, di mille parole o poco più. Certo, non che fosse cosi facile.
Pensai a questo, al futuro che si dissipava davanti a me. Anche se ero dislessico, ciò non mi avrebbe fermato. Perche sapevo che, qualsiasi sia il tuo problema, o mancanza, non importa. Puoi trovare il modo di stupire il mondo.
Tu sei intelligente, geniale e anche bello. Sei tutto questo, e di certo non sono gli altri. Non tocca a loro, decidere chi sei. Fottiti dei loro commenti cattivi, ascolta solo quelli belli. Perche vorrà dire che, sulla tua strada avrai trovato altri amici. Non perdere queste fantastica opportunità che è la vita. Solo perche qualcuno, non capisce il tuo talento. Insomma, sii arrogante con te stesso. Credi, prega, ama.
Questi miei pensieri, trovarono un fine. Quando le chiome arboree, divennero il nostro consueto tetto.
Hai tempi, pensavo che qualsiasi cosa. Potesse aiutarmi, nel stupire il mondo. Dalla caverna, alla casa sull’albero, al vecchio covo dei contrabbandieri, al bosco. Tutto poteva aiutarmi nell’impresa.
I giorni arono veloci, sull’albero si scherzava, si giocava, si leggeva, condividendo i nostri sogni, o incubi. I nostri livelli d’intensità divennero, più profondi. Tanto che ci divenne indispensabile stare assieme.
Vivevamo la nostra estate, la più bella che avevamo vissuto.
Le lezioni continuarono, ed ogni giorno diventavamo belle; più interessanti. C’erano un sacco di cose fantastiche da imparare, come l’arte e la poesia.
Mi stavo acculturando, stavo diventando un altro ragazzo. Anche perche, la mia autostima. Stava raggiungendo livelli, accettabili. Fui per sempre grato a Colin, per questo motivo.
Capitolo 18;
La nostra settimana bianca.
C’erano altri giorni, in cui Colin non poteva darmi le sue lezioni. Per questo o quest’altro motivo. Alle volte al padre, si sostituiva la figlia.
Del resto Sophie, come già citato era brava quando il padre. Anzi, le sue di lezioni erano seguite dagli altri. Quasi sempre però, eravamo soli, ed era un altro mondo.
Mi piaceva Sophie, soprattutto stare da solo con lei. Era qualcosa che mi colmava da dentro, una forza se vogliamo, scaturiva da dentro, espandendosi in ogni direzione. Raggi di sole, incastonati nel cuore. Una luce nell’anima, calda e rilassante.
Poi c’erano giorni, che in apparenza si oziava tutto il dì. In realtà non era cosi, la combriccola era sempre attiva. Girovagando per la città, in compagnia di gelati dai vari gusti. Per strada, ridevamo delle nostre storie.
Un qualcosa che gli altri non potevano capire. Cosa che incuriosiva, gli altri nostri coetanei. Alcuni ci seguivano, per strada, sui marciapiedi. Fra i quali Emily e le sue amiche.
“pshh, quella non è Emily” ero da solo con John e Arthur.
Mi voltai appena, verso la figura bambina, poco cresciuta di Emily.
Apparentemente camminava semplicemente ha pochi metri da noi, ma si vedeva da lontano un miglio che ci stava seguendo.
Notai una via laterale, senza uscita. Fra i due negozi di filatelia e oggetti sportivi.
Tirai i miei amici, dentro quell’antro oscuro. Ove cassonetti ripieni d’ogni cosa, puzzavano di spazzatura, ed alcune mosche su quel banchetto ci danzavano. Ed era insopportabile.
Avevamo solo il tempo, di organizzare solo un piano. Arthur tiro fuori dal suo marsupio allacciato alla vita, qualche mitraglietta. Ci nascondemmo dietro ad uno di quei cassonetti verdi.
La figura di Emily ci soro curiosa, guardando ovunque. Tranne dalla parte del nostro nascondiglio.
Ci stringemmo contro il muro sudicio e consunto d’olio e di qualche altra sostanza oleosa. Arthur, con calma e senza far rumore. Col suo zippo in acciaio lucido, accese la mitraglietta, e la lancio proprio sotto i piedi della povera Emily. Senza che questa ne senti, ne vide niente.
Quando i petardi scoppiarono, la stessa fece un salto, più alto della sua statura. Strillo come una pazza, appena rilasciata da un manicomio ed infine scappo da
quella via, i capelli per aria e la faccia sconvolta.
John si piego sulle gambe, ridendo si batteva una mano sulla gamba.
“e bravo il nostro Arthur” gli facemmo i complimenti, per la sua calma silenziosa, simile a quella dei ninja.
“dobbiamo avvertire gli altri” dissi, quello non era stato un unico episodio.
Il fatto che fossimo pedinati, oramai stava diventando un dato di fatto.
“hai ragione, perche la gente non si fa mai i cazzi suoi!” sbruffo John.
“bhè, perche nessuno vuole campare fino a cent’anni” rispose Arthur, affabile usci dal nascondiglio.
Si sporse fuori, oltre la strada per controllare, se la via fosse libera. Quando lo fu, ci fece segno che potevamo uscire.
“certo che salto ha fatto, da quelle piccole gambe mi aspettavo di meno” per strada John, aveva voglia di ridere ancora di quell’avvenimento di poco prima.
Ridemmo prendendoci amichevolmente a spallate, sui marciapiedi. Non
andammo subito al bosco, cercammo prima i nostri amici.
La dove gli avevamo lasciati, poco prima. La sala giochi di Carlo, vicino al centro città.
Un luogo sacro, puro, un campo estivo. Dove puoi sentirti libero di divertirti. Col basso costo di 50 cent’s, per una partita al flipper. Altri 50 cent’s per una partita a bigliardo e cosi via.
Gli avevamo lasciati la, perche Arthur doveva rifornirsi di petardi all’armeria. Ci offrimmo io e John ad accompagnarlo.
Salimmo su quel carro allegorico, con tutte le luci ammiccanti, e il rumore sostenuto e vario delle macchinette. Filammo dentro per la porta a vetro scorrevole, il posto era pieno di ragazzi, dalle più varie età. Alcuni erano anche ventenni.
L’odore forte, e predominante era quello del caramello, e un pizzico di segatura. La sala giochi ne vendeva a chili ogni giorni; intendo le caramelle.
In mezzo alla folla festante, trovammo il resto della combriccola. Stretta in un angolo, il più in disparte dal resto del locale.
Per lo più fatto in legno, e almeno. Le uniche pareti liberi, erano in legno. Tanto il locale ne era pieno, che molte di questi aggeggi elettronici erano addossati su ogni parete, a differenza di quella dietro il piccolo bancone, e quella che si
apriva verso i bagni.
Visto che Carlo, in decenni di attività. Aveva una gran collezione di macchinette.
C’era il classico Pac-Man, il mitico Space-Invaders, Punisher, e altri ancora. Ammobiliavano le pareti, e coi loro bagliori, e suoni attiravano i ragazzini, come falene nella notte vicino ad una lampadina solitaria, ad infilare nella loro bocca, la paghetta settimanale.
Il blocco centrale, la spina dietro, le manopole dai vari colori, come i pulsanti multipli, che nel caso di Street Fighter 3. Ti consentiva, di fare quante più combo possibili. Il record personale di quel gioco, era di novantanove combattimenti vinti di fila. Senza mai venire sfiorato dalla C.P.U. Incredibile.
Rupert era proprio là, premeva bottoni, alcuni a caso. Affianco ha Sophie totalmente disinteressata, e appoggiata ad un Flipper inutilizzato. A differenza di Sophie, Frank era totalmente coinvolto dal duro combattimento. Ripeteva: “vai cosi” oppure “fantastico, si..vai col blu, col blu!” era troppo eccitato a mio avviso. Anche perche Rupert, era ad un o dal record indiscusso della sala. Quel record che negli anni, s’era ritagliato un certo alone di mistero sul quando e sul come fosse stato scritto, da chi soprattutto. Perche nessuno lo sapeva, evidentemente un pioniere, un viaggiatore o per caso sulla strada, e notando l’insegna, e tutte quelle luci, entro e si mise subito ha giocare. Scrivendo quel record, negli annali di quella sala giochi.
“ohh” se ne accorse solo ora John, che con poca grazia si mise davanti a Sophie. Sfiorandoli col sedere l’inguine della stessa, rivolse gli occhi al cielo, quasi stufa di rimanere la ferma. Ora, anche Arthur, incitava Rupert. Io e Sophie, ci scambiammo uno sguardo. Alzai le spalle divertito, dall’espressione del suo
viso.
“vado a prendere da bere” dissi, i ragazzi mormorarono qualcosa che non recepì.
“vengo con te” afferro la palla al volo Sophie.
Andammo al bancone.
“proprio non capisco, tutta questa solfa per un numero, tutto questo clamore per un solo numero” disse Sophie, quando fu un’po lontana dalla combriccola. Alle volte non capiva il nostro comportamento maschile. C’era da sorprendersi?.
“e per il semplice fatto, di mettere il nostro nome in cima a una lista” spiegai.
“solo per motivo d’orgoglio?” rispose Sophie.
“esatto..sei Coca-Cola” ordinai al bancone.
Carlo, si abbasso sotto al bancone, una superficie quadrata sormontata da milioni di volantini di qualche torneo, o associazione Onlus, eccetera. Ne riemerse poco tempo dopo, con sei bottigliette da mezzo litro. Ne afferrammo tre a testa, pagando col residuo delle nostre paghette.
Avevo un certo gruzzolo a casa, papà ogni settimana mi dava pochi spiccioli. Siccome prima, non uscivo mai, ne avevo molti amici, anzi, non ne avevo praticamente nessuno. Tutti quei soldi, gli avevo messi da parte, gli nascondevo sotto un’asse mobile del pavimento, proprio sotto al letto. Ma, con l’avvento della mia nuova vita. Ecco che quei risparmi, si erano col tempo assottigliati.
Tornammo con le nostre bottiglie, proprio quando Rupert. Stava perdendo lo scontro finale, quello che, se avrebbe vinto eguaglierebbe il record. Purtroppo non ci riuscì, il boss era troppo forte.
La classica musica del perdente, s’espanse dalle casse acustiche, e la scritta sullo schermo, decreto lampeggiando due volte K.O.
Notai la delusione della sconfitta, sul viso di Rupert. Li ai una bottiglia, diedi le altre, ha Frank e, ha Arthur. John prese un delle tre che Sophie aveva in mano. La penultima tocco a me.
Una volta finita, la divisione delle bottiglie. Potemmo parlare, hai vari Sophie, Rupert e Frank dell’accaduto. Di ciò che c’era successo, in quel vicolo.
Tocco a me, raccontarlo alla restante parte del gruppo. Nel mentre, sorseggiammo le nostre Coca-Cola frizzanti.
“inizio a preoccuparmi” conclusi il racconto.
Sophie, Frank e Rupert si scambiarono degli sguardi; cosa ci stavano
nascondendo i due?.
“anche a noi, e successa la stessa cosa. La banda di Roy, ci ha seguiti in bicicletta per qualche isolato”
“credo che siano tutti gelosi, della nostra banda” spiego Sophie.
“quel Roy?! Quello che ha ripetuto la terza due volte?” chiesi, conferma.
“proprio lui” affermo Frank.
“dobbiamo fare qualcosa” sussurro Arthur, sorseggiando la sua Cola.
“spero non sia, far saltare altri petardi e far morire di paura la gente” rimbecco un’po dura Sophie.
“oh Sophie, non parleresti cosi. Se non avresti visto l’intera scena” rispose John, prendendo le parti di Arthur.
“molto probabilmente, si. Ma io non c’ero. Lasciamoli fare” propose Sophie.
“in che senso, lasciamoli fare?” chiese Rupert.
“lasciamoci seguire” rispose con fare ovvio Sophie.
Quasi mi andò di traverso in gola, qualche sorso di Cola. Ed e terribile, perche se quel liquido per caso ti entra nel naso. La sua acidità, e le sue bollicine. Ti danno la forte sensazione, di pizzicore al naso. E non puoi far altro che starnutire, o tossire forte.
Frank mi colpi la schiena qualche volta con colpi ben assestati, finché riuscì ha far ritornare quel liquido, dove doveva scendere.
“cosi facendo, scoprono dove andiamo di solito” dissi parlando alla sola Sophie.
“lo so, ma che vorresti fare. La guerra al mondo, perche è geloso?” sbotto Sophie, anche a lei non sarebbe piaciuto. Condividere con gli altri, quello che noi avevamo.
“no, bhè questo no. Stiamo solo attenti, a non farci seguire” risposi, oramai avevo finito di bere. Come gli altri del resto.
Fu quando, mi allontanai un poco dalla combriccola. Che parlava ad alta voce. Buttai la bottiglietta nel cestino della spazzatura. Proprio li vidi, una sagoma femminile, che faceva finta di giocare agli zombie, microscopici pixel di una macchinetta.
Era un’altra amica di Emily e Amy, il suo nome ora non me lo ricordo. Ma ero
sicuro, stava origliando, anche perche in basso sullo schermo del videogioco, imperversava la scritta “insert coin”
Tornai dalla combriccola, i toni ora erano diventati molto accessi.
“facciamo tipo una settimana bianca, lasciamo perdere per un attimo la casa. Almeno finché, non si calmano le acque” era questa frase, che fece scaldare Arthur e Frank.
I due, proprio non volevano darla vinta a nessuno. Rinunciare per una settimana alla casa, era dura anche per me.
“per me va bene, credo che cambiare un’po aria ci farà del bene” approvo John.
“no, io non voglio. Stiamo bene la alla c..”
“shss, andiamo fuori a parlane” bloccai con un cenno della mano Arthur.
Tutti notarono la figura bambina, che ci spiava in modo goffo da dietro la macchinetta. Capendo, il mio comportamento.
Andammo fuori, senza dimenticarci di salutare la figura tozza di Carlo al bancone. Per strada, in tacito accordo non parlammo di cosa fare. Come uscire da quella situazione.
Ci fermammo in un parco giochi in disuso, lercio. Le altalene, erano arrugginite, quasi tutto era di quel colore marroncino scuro.
Tranne le panchine in legno, con su molte scritte offensive. Quelle avevano ato bei momenti, ma ora si stavano consumando nell’aumentare progressivo del tempo.
“quello che volevo dire, era che. Non voglio abbandonare la casa sull’albero” completo Arthur.
“o almeno, non per qualcuno che non riesce a viversi la sua di vita” aggiunse Frank.
Se Frank e Arthur, erano d’accordo su qualcosa. Bhè, innanzitutto quello era un evento irripetibile. Secondo ci disse che, stavamo sbagliando a scappare. I problemi vanno affrontati.
“hanno ragione, e poi nessuno ci dice che. Anche se spariamo noi, non smetteranno di cercare qualunque cosa” dissi.
Frank e Arthur, furono felice della mia presa di posizione.
“sentite, andate voi in settimana..”
“che Scott?”
“si, sentite voi andate. Ci penso io a nascondere la casa. E se qualcuno s’avvicina troppo al bosco, bhè troverò il modo di allontanarlo. Sarò come un guardiano col suo palazzo” dissi di pura convinzione.
Guardai i miei amici, essi non sembravano cosi convinti della mia scelta.
“perche tu solo? Possiamo farlo ha un turno” rispose Arthur.
“no, ci vedranno entrare nel bosco. Sarà facile seguirvi dalla città. Io abito vicino al bosco, mi sarà facile scivolarci dentro senza essere visto” dissi.
“ma perche non puoi venire, senza di te. Che vacanza sarebbe” protesto Sophie, sembro parlare per l’intero gruppo.
E fu molto dolce, da parte di tutti loro.
“sentite, io non voglio condividere con nessuno, eccetto voi, tutto quello che di bello abbiamo costruito. Va protetto, a tutti i costi” risposi con tono calmo.
“non capiamo solo, perche devi sacrificarti solo tu” parlo Rupert, e quando mi guardo. Seppi che aveva capito, perche dovevo essere io a farlo.
Voleva solo che gli altri, lo sentirono dalla mia bocca.
“perche io, so stare da solo. E poi quello che ho detto prima, dovrebbe bastare come candidatura” spiegai, li guardai uno ad uno.
“voi divertitevi, che io farò lo stesso” conclusi.
Ed ancora Sophie, era poco convinta del lasciarmi solo. Fece per protestare, ma li dissi bloccando ogni suo inutile tentativo, non avrei mai ceduto: “e una mia scelta” come a chiedergli, se poteva rispettarla. Mise su il broncio Sophie, in risposta. Anche il giorno seguente, mentre tutti s’affaccendavano ha preparar valigie, per andare a sciare. A quanto pare, con lei venivano anche i suoi genitori, assieme a quelli di John e Frank.
In sostanza, quella vacanza stava diventando una sorta di gita famigliare un’po allargata.
Le poche volte che, rimasi solo con Sophie, in quel giorno di preparativi. Parlammo a mala pena per cinque minuti buoni. Nei quali mi disse:
“non devi per forza sacrificarti, come se fossi quello più debole. Non lo sei più debole. Hai visto che piega può assumere la tua nuova vita”.
Ed io: “il sacrificio si fa, verso qualcosa in cui crediamo. Io credo in voi, vi voglio bene. E se per dimostrarlo ulteriormente. Devo sacrificarmi, bhè, io questo lo farò”
Eravamo entrambi, nella sua cameretta. Sophie fece cadere a terra un maglione pesante. Li scivolo via dalle mani, per colpa di quelle mie parole, divenne sorpresa. Mi guardo, con fare dolce a quelle parole d’amore definitive.
“sei il ragazzo, più in gamba che ho mai conosciuto” mormoro, prima di venirmi incontro per abbracciarmi. Accarezzandomi la nuca, era la prima volta che Sophie lo faceva. Le dita ossee, arono attraverso i miei capelli, e come in un sogno non si bloccarono mai, continuarono quella giga, avanti e indietro. Senti per quel motivo, una fitta dalla punta dei piedi, espandersi sino alla testa. Il mio copro fremeva, col profumo delizioso della sua pelle, si concentrava appena sotto le orecchie quel profumo, che oserei definire divino.
“aspetta ha dare un giudizio definitivo, devi ancora vivere per parecchi anni” le mormorai a quelle orecchie, che tanto piccole, ascoltavano le mie parole. E che in sostanza, preferivo, e amavo.
Sorrise Sophie, staccandosi dalla mia nuca. Rimanemmo comunque a fissarci, occhi negli occhi. Quando infine ci staccammo, con uno schiocco definitivo.
Perche, entrambi stavamo arrossendo?.
Di quel giorno ricordo, solo quell’avvenimento. Nel mezzo c’erano un sacco di parole con Frank, riguardo alla difesa “del nostro territorio”.
Cosi chiamavamo la casa sull’albero, inclusi anche la caverna in quel detto. Cosa che feci io soltanto, in solitaria.
Andi-rivieni continuo, fra una casa all’altra. C’era anche questo, ma in quei momenti non ero in me. Che mi stava succedendo, davvero?
Me lo chiedevo ripetutamente, quando assente aiutavo i miei amici ad infilare i bagagli in macchina. E prima che me ne accorsi, era arrivato il momento triste della loro partenza.
“ti porteremo una cartolina” ci scherzo su John.
“si, si, vedrai che staremo via per poco” aggiunse Frank, il giorno prima era uno dei primi scettici che non voleva partire. E ora guardatelo, eccitato come il solo Arthur poteva essere, e per sempre rimarrà nell’immaginario collettivo. Quel bambino, esagitato ch’era. Col cappotto leggero, abbandonato sul sedile dietro. Saltellava qua e la, attendendo l’ora di farsi qualche bella sciata o discesa col lo slittino.
Rupert in quell’istante, mi prese per le spalle. E mi trascino in disparte, eravamo come una carovana pronta alla conquista del vecchio West.
“tutto ok fratello?” mi chiese, Sophie ci adocchio solo per un istante, mentre parlava con i suoi genitori. Io la guardai appena, ma quando tornai a fissare Rupert. Un sorriso di malizia, li si stampo sul viso.
“non e come sembra” dissi, sviando ogni possibile colpa.
“cos’è che sembra?” chiese, facendo finta di non capire.
Possibile mai che avesse capito, ciò che io mi ostinavo a non capire? Comunque, ora avevo tempo per rifletterci. Una settimana, e un mucchio di tempo.
Il momento della partenza era vicino, i grandi e le loro stupide tabelle di marcia. Pianificare tutto al dettaglio, non e che ci esamini dagli imprevisti.
Strano ancora, quando per amore dei figli. Sono disposti ha frequentare, gente che non è del loro rango sociale. Ma soprattutto, ospitargli nel loro Hotel di proprietà, a costo zero.
Partirono, si allontanarono da me. E quel che ricordo, era la forza dei loro abbracci. Anche il sorriso malizioso di Rupert, quando abbracciai Sophie. Lo vidi da dietro la spalla di Sophie, quel sorriso.
Saltarono tutti sulle loro auto, e come un corteo allegorico partirono.
Tornai a casa, in solitaria. Perche quando i miei amici, se ne vanno. E sempre tramonto? Come se tutta la luce del mondo, andasse via con loro. E l’immensità del mondo, del suo cielo, dei suoi abissi e mari.
In quei giorni, ebbi tempi per pensare al mio futuro. Andare si o meno, in quel collegio. Sebbene quest’anno sono stato bocciato.
Potevo aspettare, un altro anno per decidere. Dovevo anche dirlo hai miei, di queste mie difficoltà. Che oramai avevano un nome.
Devo muovermi, almeno per non restare come un cretino indietro. Quando i miei amici. Avrebbero preso il largo da me, come prima. In auto, verso il tramonto della loro vita. Ed io, impiantato nei miei errori.
Tornai a casa, mogio. Con l’intenzione di dire tutto hai miei genitori. Sperando mi capissero. O forse era meglio aspettare, il ritorno di Colin, lui mi avrebbe dato una mano ha convincergli. Sapevo del loro scetticismo, verso ciò di cui non ne sapevano nulla. Come prima, agli adulti l’imprevisti non piacciono mai. Ma essi, non si accorgono che l’imprevisti, sono parte fondamentale della vita. Arrivi in ritardo a quell’appuntamento di lavoro, lo manchi, eppure conosci la donna della tua vita.
Sali in camera mia, più tardi. Era già scesa la sera, sulle case, sulle strade, sul bosco. Il tetto stellato era là, col suo ricamo. La luna era sottile, come un unghia tagliata. Rendeva tutto il panorama, fuori dalla finestra, sinistro.
Trovando nuova ispirazione, tirai fuori da sotto il letto. La macchina da scrivere portatile, apri il contenitore rosso in plastica. Appoggiai il tutto sulla scrivania, e iniziai con una nuova storia delle mie..
Un panorama da brividi, il vento che fra i tronchi, sussurra la sua maledizione. La voce della caverna..sono io la caverna, buia, sola, triste nelle pareti dove abito. Mi rinchiudo ancora dentro me, più in fondo, più in basso..oh vieni avventuriero, vieni nell’oblio dove ha origine il mondo.
Stavo la a scrivere, in un modo del tutto frenetico. Quando mia madre, entro nella camera. Notai d’essere osservato, in quei momenti potrebbe crollare il cielo, neanche me ne accorgerei.
Era più come un fastidioso ronzio, in un piccolo angolo della mia mente. Quando non potei più far finta, della sua inesistenza. Mi voltai, e alle mie spalle, col suo fiato sul mio collo. C’era mia madre. Aveva una strana espressione nel viso. Concentrata e dura, le sue vene all’infuori sulle tempie, la mascella rigida. I suoi occhi invece, calmi come il mare in estate. Sarà mai l’orgoglio, quello strano scintillio nelle sue pupille. Era proprio orgoglio.
Poi, come succede nei film. Ci guardiamo, e in quel momento. Quando gli occhi s’incontrano per aria, entrambi capimmo, i nostri errori. E nell’altro perdoniamo tutto. Ci abbracciamo, senza dire niente. In quel momento, eravamo mamma e figlio. E, questo amore. Si spreca a spiegarlo con le parole.
“e pronta la cena” disse mia madre, ancora uniti in quell’abbraccio.
Il primordiale posto, dove ti senti protetto veramente, e a casa.
La notte era nefasta fuori, con la sua oscurità. Bestie uscivano a caccia. Demoni scorrazzavano per aria, coi loro sudari neri. Scrissi sino a notte inoltrata, nella camera di fianco. Mamma e papà, stavano parlando.
La mattina seguente, un bel ero s‘appoggio sull‘infisso della finestra. Cinguetto muovendo la piccola testa, sul piccolo quanto inesistente collo a scatti. Il becco dritto e aperto, il corpo piumato di bianco e un tenue marroncino. Rimasi fermo, fissandolo per minuti interi. Chiedendomi che cosa stavano
facendo i miei amici. Magari stavano ancora dormendo, conoscendo John forse era cosi. Gli altri probabilmente, esploravano le montagne. Frank avrà altre sue idee, Arthur farà scappare stambecchi coi suoi petardi. Rupert e Sophie, tenevano d’occhio quei tre, come dei genitori acquisiti.
Sorrisi fra me e me, probabilmente le cose stavano andando cosi.
Mi alzai dal letto, velocemente. C’era un perimetro da proteggere, ed io avevo delle idee in merito. La notte aveva portato, oltre i sogni, qualche consiglio. Colazione veloce, poi afferrai qualche oggetto nel seminterrato e schizzai fuori, verso il bosco. Nessuno oltre mia madre, mi vide sparire sotto quelle chiome folte.
Non potevo muovermi agilmente, con l’impiccio di quei attrezzi. Una rete per la cattura di animali, una corda, una pala per scavare. E un elastico bello spesso, di quelli che si mettono nelle calze da donna.
Fu cosi, che iniziai a disseminare trappole, ad una certa distanza dalla caverna e dalla casa sull’albero. Scavavo a torso nudo, creavo trappole per ore e ore.
Addirittura avevo costruito una fionda, la portavo sempre con me. E, siccome non avevo una gran mira. Quando ero stanco, mi esercitavo col tiro al bersaglio. All’inizio usavo dei sassi piccoli, tentavo di colpire i bersagli che per l’occasione, erano vecchie lattine di Coca-Cola. Che mi scolavo per ricaricami da quel lavoro.
avo tutto il giorno alla casa sull’albero, tornavo a casa solo per mangiare e dormire. La mattina mi alzavo presto, e andavo nel bosco. Portavo con me la
mappa di Sophie, dove avevo segnato tutte le trappole che avevo disseminato. Cosi da non cascarci io stesso. Una volta arrivato alla casa, mi dedicavo hai miei interessi. Leggevo libri che Sophie, aveva lasciato sugli scaffali di quella casa.
Oppure giravo il bosco, esplorandolo meglio. Ogni tanto, portavo con me la macchina da scrivere. Spesso andavo nella caverna, a scrivere. Mi acquattavo in un angolo, e davo vita alla mia fantasia. Tenevo una specie di diario, dove annotavo tutto quello che facevo, o pensavo giornalmente.
Era bello perche ciò, mi aiutava a capirmi meglio. Leggendo i miei pensieri su carta, sembravano meno intricati del solito.
Poi accadde, al quarto giorno di lontananza dai miei amici. Due voci femminili, vagavano sotto quei alberi.
Fortuna vuole che in quel momento, ero appoggiato su un albero. Stavo sistemando un’altra trappola, prevedeva un contrappeso legato sull’estremità della corda. L’altra aveva un cappio, abbastanza grande da farci are un piede. L’idea era grandiosa, e divertente appendere coloro che non erano i benvenuti in quel bosco. Peccato non aver finito quella trappola, in tempo. Smaniavo di vederla in azione. Lasciai attorcigliata la corda al ramo, piegai la mano verso la tasca dei jeans, sul di dietro. Ne estrassi la fionda.
Poi ebbi un’idea, se vogliamo grandiosa. Con le nocciole che avevo raccolto, quella mattina presto. Probabilmente, le avevo rubate a qualche scoiattolo. Che poverino, ora non aveva di che magiare.
Presi la mira, ed era molto migliorata. E lanciai, verso Emily, mancai il
bersaglio, la nocciola sfioro a malapena i suoi capelli.
“cos’è stato?” domando terrorizzata Emily, alla sua amica.
“non saprei” ripose Amy.
“andiamocene” mormoro Emily, stringendosi per le spalle.
“scherzi, mi sono svegliata presto stamattina. Diamo ancora un’occhiata in giro” rispose Amy, che prosegui nella sua ricerca.
Caricai velocemente, e sparai un’altra nocciola, che stavolta andò a segno. Colpi Amy sul braccio.
“ahiaa!” protesto massaggiandosi la zona rossa dove l’avevo colpita.
Le due non mi videro, cosi cambiai ramo. E continuai a bombardarle dall’alto. Producendo dei versi, molto simili a quelli che fanno gli scoiattoli.
Le due terrorizzate, si strinsero spalla contro spalla. Cambiai albero, e le colpi da dietro. Finché le due, non scapparono a gambe levate.
Risi come un pazzo su quel ramo, non riuscendomi a trattenere, scivolai. Caddi
rovinosamente a terra, e nonostante la caduta. Continuai a ridere, divertito da tutto. Solo quando tornai alla casa sull’albero, provai leggermente dolore alla schiena.
Per tutto quel giorno, appena chiudevo gli occhi. Rivivevo quella scena, divertente. L’annotai perfino nel diario, che tenevo nella casa sull’albero. Cosi che una volta, quando i miei amici torneranno dalla loro settimana bianca. Potevano leggere delle mie gesta, delle mie imprese.
Fini il giorno seguente, a piazzare l’ultima trappola. L’annotai con un asterisco sulla mappa di Sophie. Ora sia caverna, che la casa sull’albero erano protette.
Mancavano solo la radura della lavanda. Però quella era ben nascosta. Godetti di quel luogo, soprattutto nel primo pomeriggio. Quando affabile, con una borraccia piena d’acqua, e un ottimo romanzo. Mi sdraiavo sulla terra soffice di quella radura.
Oltre hai ciuffi di cespugli di lavanda, affianco a margherite e farfalle. Guardavo il cielo da quella posizione privilegiata, sospiravo al cambiar del vento caldo. Proprio quando le corolle, spargevano nell’aria il loro tenue profumo. Cosi complesso e bello, perche la bellezza per me. La vera bellezza; e un qualcosa di complesso. Un’insieme di cose, un caleidoscopio di emozioni, e pensieri.
Non basta il colore chiaro dei suoi capelli, ne il colore marroncino della sua pelle. Per questo e unica, ma varia a seconda della persona.
Mia madre, in quei giorni. Mostrava più del solito, il volermi bene. Tanti abbracci, tante smancerie. Al contrario di mio padre, rude. Non si accontentava
mai. Voleva sempre di più da suo figlio, accettare qualsiasi cosa, che non prevedeva nulla di quei futuri che egli voleva per me. Voleva solo dire una cosa; mediocrità. Ecco cosa non mi perdono mai mio padre, l’essere mediocre. avo i miei giorni fuori. Anche se qualcosa, stava cambiando. Lo sentivo, nell’aria. Come la primavera, o l’estate. Quando soffia nella valle, lo scirocco che arriva dall’Africa.
Al quinto giorno, iniziavo ad essere nervoso. Dove erano i miei amici adesso? Si stavano divertendo, mentre io ero qui ad annoiarmi. Che tremenda ingiustizia, quale angoscia!.
Quei giorni lenti, senza i miei amici. Per strada giravo da solo. Da Carlo spendevo tutta la mia paghetta settimanale, con aria triste e lugubre. Arrivai ad uno stato pietoso, al sesto giorno. Quando i miei amici sarebbero tornati.
Impaziente camminavo per marciapiedi, in solitaria. Tiravo calci ad un sassolino, lo vedevo rotolare sul marciapiede. Per bloccarsi poi, fra la congiunzione di cemento del marciapiede, e una piastrella di un vialetto di una casa.
Dove erano i miei amici? Dovevano già essere ritornati dalla montagna. O forse, si erano talmente divertiti senza di me. Che pensavano, fossi per loro oramai non indispensabile. Mi tormento molto quel pensiero. Li volevo cosi bene, da non poter vivere senza loro. Erano divenuti parte fondamentale della mia redenzione. Ero contento, del ragazzo sicuro ch’ero diventato. Questo era certamente, il me che più mi piaceva.
L’altro, quello del ato. Era niente, solo polvere valeva. Eppure ero sempre io. Disprezzavo facilmente una parte di me, senza volerlo. Iniziai ad odiarla, l’insicurezza e tutto il resto.
Insicuri di far qualcosa di accettabile nella mia vita, senza i miei amici. Insicuro di poter stare da solo. Odiavo questo e ancora, insicuro di vivere, insicuro di tutto ciò che mi circonda.
Mi rifugiai nella caverna, adagiato su una parete. Rannicchiato con le ginocchia sul mento, mi dicevo di stare calmo. Di ingoiare quella parte tanto disprezzata in me. Funziono, ero nel mio luogo sacro. Il posto dove poter piangere.
Sfogai l’insicurezza cosi, e mi senti anche sciocco a credere, che Rupert, John, Arthur, e Frank, ed infine Sophie. Mi avrebbero abbandonato cosi facilmente. Non dopo tutto quello che, avevamo costruito assieme.
E poi accadde, swhuam….. grida di spavento, una trappola aveva catturato un’ospite indesiderato. Corsi su, issandomi con la carrucola. Invece che correre direttamente sul terreno, decisi che era meglio non rischiare d’essere visto in quel bosco, da solo soprattutto.
Da quel che ne so, potevo aver preso per una caviglia, un cacciatore, o un ragazzo ubriaco. Di ramo in ramo, mi avvicinai alle grida, che ora sembravano d’aiuto.
Quasi caddi da un ramo, quando vidi che a qualche metro da terra, appeso a testa in giù. C’era un ragazzo biondo, dai capelli brizzolati; Rupert si agitava molto. Come un pesce appena pescato dal fiume. Ovviamente tentava di liberarsi, come meglio poteva. Soffocai una risata, per quella buffa situazione. La faccia contratta e rossa, per il troppo sangue che invadeva il cervello, le vene all’infuori sulle tempie e sul collo, la disperazione dei suoi occhi, le pupille dilatate, e le urla naturalmente.
E poi, con agilità di una scimmia, mi spostai sull’albero, dove era stata posizionata la mia trappola.
“Scott, ti pare normale appendere tuo fratello a testa in giù” disse Rupert, che volteggiava a destra e a sinistra, come un sacco inerme di patate.
“fra le meglio famiglie, si fa cosi” risposi scherzando, lo liberai.
Adagiandolo piano a terra. Ove finalmente, il sangue smise di affiorare solo nella sua testa. Scesi dall’albero, nel mentre Rupert si spazzolava i pantaloni, con grandi manate. Quando si alzo, ergendosi per tutta la sua statura. Ci guardammo, era più scuro, la sua carnagione. Da quando l’avevo lasciato partire. Ed il suo sorriso grande, mi disse che. In quella settimana, si era molto divertito.
Li andai incontro, ero talmente felice di vederlo. E dispiaciuto, per quel inconveniente.
Che al posto di abbracciarlo, li sporsi il cinque di mano. Sicché Rupert parve interdetto, guardo la mia mano aperta, e poi verso i miei occhi. Inarco le sopraciglia, tanto era interdetto.
“voglio solo chiederti scusa, come si deve” mormorai imbarazzato.
Rupert, sembro accettare le mie scuse. Ci abbracciammo poco dopo, comunque.
“gli altri dove sono?” volevo che la mia domanda, fosse solo curiosa. Risulto invece come ansia di rivederli.
“oh” rattristi Rupert “oggi non possono venire, sai disfare i bagagli..”
“capisco, allora è meglio che ti dia questa” risposi, volsi le spalle a Rupert. Dirigendomi alla casa sull’albero.
Rupert rimase indietro, sembrava insicuro di qualcosa. Voltandomi verso di lui, noto che si guardava attorno. Come se temesse, d’essere ancora appeso a testa in giù.
“guarda che mi ricordo, dove ho piazzato quelle trappole” lo scherni, in modo amichevole.
Queste parole parvero bastare a Rupert, che cammino esattamente dove camminavo io. Trovammo subito di che parlare, Rupert mi racconto della montagna, di cosa aveva fatto con gli altri. Come ad esempio sciare, scoprire nuovi sentieri di montagna.
“in realtà, e stato fantastico. Peccato tu non ci fossi, Sophie stava parecchio male” aggiunse malizioso, rivolgendo lo sguardo dalle mia parti.
Vacuo evitai il suo sguardo, facendo finta di controllare se quella era la direzione giusta. Quei occhi blu scuro, studiavano la mia nuca con insistenza. Alla ricerca
di qualche segnale di debolezza, o forse qualsiasi cosa che confermasse la sua ipotesi. Mai avrei ceduto.
“di qua” dissi solamente, circumnavigando a sua insaputa una delle mie trappole.
“una rete che ti tira su, solo che non ti lega dalla caviglia, o ti appende a testa in giù.” spiegai, ando attraverso due tronchi contorti d’albero.
“di preciso, come funzionano” disse Rupert, tenendo agilmente il mio o.
“contrappeso” risposi.
Poi notando il suo silenzio, glielo spiegai nel dettaglio per filo e per segno. Mentre sbucammo nella radura, eccola la casa sull’albero. Un edificio, che nasceva rozzo da un lato, di quell’albero tozzo. Un moto d’orgoglio coloro gli occhi di Rupert, ben capendo che oramai non c’erano più trappole. Si mise al mio fianco, e si arrampico sulla rete che usavamo come scala. Scostai la tenda d’ingresso, entro lui prima di me.
“qui non è cambiato nulla” osservo Rupert.
Ero stato molto accorto, a non sporcare in giro.
“credevi crollasse, hai cosi scarsa fiducia in me!” risposi, lo stavo prendendo solamente in giro.
Non c’era nemmeno il bisogno di spiegarlo. In un attimo, la lotta inizio. Fu allora che, la fionda scivolo dalla tasca dietro dei jeans.
“e questa?” chiese Rupert, prendendola da terra.
“e solo una piccola fionda, abbastanza utile direi..” risposi, ciò dette il via al racconto, di cosa avevo fatto in quella settimana. Soprattutto quello ch’era successo con Emily e Amy.
“sono scappate a gambe levate” conclusi, ridemmo entrambi.
Seduti sul pavimento, ripieno di cuscini.
“domanda, e se qualcuno finisce nella rete che succede?” chiese Rupert.
“di solito le persone cercano aiuto, e poi da qui si sente se hai preso qualcuno. Non c’era bisogno di riempire il bosco, di trappole” spiegai andando verso la bacheca.
Dove la mappa di Sophie, era attaccata. Mostrai a Rupert, dove erano tutte le trappole. Utilizzando la mappa, le indicavo, e poi li spiegavo in cosa consistevano.
“questo posto è super protetto” osservo Rupert, una punta d’orgoglio nella voce.
“e un’po il nostro mondo” risposi, come a dire che andava protetto dal principio.
Ci guardammo negli occhi, sapevamo cosa voleva dire per noi quel posto. Ed era giusto proteggerlo, a quel modo.
“lontano dai grandi e dal loro pessimismo” concluse Rupert.
“e annoiati” aggiunsi.
“oh si, sono sempre annoiati. Corrono sempre, vai a lavoro, timbra il cartellino, sfracellati le palle seduto dietro una scrivania, cerca di fregare quanta gente possibile, e alla fine muori” aggiunse Rupert, troppo sul personale.
“si sta parlando di qualcuno in generale o altro?” gli domandai, tornando seduto davanti a lui.
“sai come mi si stringe il cuore, veder famiglie ridotte alla miseria per colpa di mio padre” rispose Rupert, il disprezzo per quella situazione era evidente. Anche la mortificazione della voce, o le pupille tristi. Fu la prima volta, che lo vidi sotto quella luce; cosi dolce e premuroso. Mai da quando l’ho conosciuto, Rupert mi diede quella nuova impressione. In quel momento, era cosi vulnerabile. Piangeva, ebbene si, ora Rupert piangeva.
Lo consolai, come meglio potevo. Convenimmo tutti e due, di dover far qualcosa per cambiare quella situazione.
“e anche la tua” salto su Rupert, infine.
“la mia?” domandai, come a non capire.
Rupert mi prese per le spalle, mi guardo negli occhi seriamente, e disse in risposta:
“devi dirlo hai tuoi genitori..”
“Rupert..”
“no, fammi finire..dillo hai tuoi genitori, ed anche hai professori. Si, forse verrai non promosso ugualmente. Ma, fra un anno potrai venire all’aeronautico con me. Staremo assieme, ci siamo dentro entrambi” concluse Rupert, ed fu dolce e carino ha dirmi queste cose.
“io, lo volevo già fare con Colin. Ma lui per sbaglio e partito..sai settimana bianca” spiegai.
“già, i ricchi del cazzo” commento ridendo Rupert.
Non volli, rovinare quei suoi sogni. Mi sarei sentito male, ad aprirgli gli occhi.
La verità e che, in un anno cambiano molte cose. E lui molto probabilmente, si farà altri amici. Ed io degli altri. Sapevo anche se, sarei andato all’aeronautico. Le cose cambiavano ugualmente. Lui di un anno davanti a me. Io come al solito, relegato all’ultimo gradino sotto la media. L’ultima pedina, la torre che non si muove quasi mai dalla scacchiera.
“già, fottuti ricci bastardi” grosse pacche sulle schiene, eravamo infondo fratelli.
In attesa, per la mattinata precedente. Mi alzai presto la mattina. Dovevo riarmare una trappola. E intanto, potevo godermi per gli ultimi istanti; la caverna.
Attesi che il sole, fece capolino fra le fronde e la tenue foschia, che si crea con l’umidità della notte, il soffitto crollato, accarezzai le rocce piatte, delle sue alte mura.
Prima di issarmi su, e andare incontro hai miei amici. Furono momenti, in cui provai una forte nostalgia.
Sbucai nella radura, loro cinque erano la. Hai piedi dell’albero, abbronzati come non mai, e cosi sereni, infine belli.
Sophie quando mi noto, fermo hai margini della radura, corse verso di me. Le mie braccia d’istinto facevano spazio per accoglierla, l’afferrarono al volo. Ci
abbracciammo cosi; abbracciai anche gli altri. Ma tutto ciò che avevo per la testa, in quel momento. Era l’odore fresco e mielato, di quei capelli biondo platino. O, il colore marroncino della pelle, che rivestiva il suo copro esile, come un armatura.
Per tutta la mattina non pensai ad altro, eppure una parte di me. Riusciva ad essere partecipe, a scherzare con John e Frank. A osservare il saltellare impazzito di Arthur. O ascoltare Rupert e Sophie, raccontarmi ciò che avevano fatto in quella settimana; la nostra settimana bianca.
Capitolo 19;
Verità, obbligo o, penitenza?
Amavo molto, giocare coi miei amici. Bighellonare sulla strada, tirando calci ad ogni cosa che trovavamo per terra.
Ridevamo spesso, mentre organizzavamo la prossima dormita sotto le stelle. Il fatto era che, giravamo in bicicletta; io usavo quella di uno dei fratelli di Arthur. Era cosi alto il sellino che, non toccavo a terra coi piedi. Per star fermo, dovevo appoggiarmi sulla canna.
E alle volte, quando al fratello di Arthur. Li serviva la sua bicicletta, io salivo sul portapacchi della bici di John. Me ne stavo in piedi su quelle bacchette di verro con due molle, appoggiando le mani sulle spalle di John.
Cosi andavamo in giro, e da la sopra il mondo era più bello del solito. Dopo di che, dovetti dare il cambio ha John, un’po sudato. Pedalavo io, e lui era il eggero.
“siamo quasi arrivati” disse John.
“lo so che hai tirato finché potevi, non preoccuparti” li risposi, e via un’altra sgambata fuori città.
Versi i recinti in legno, di una tenuta su di una collina. Una casa in legno, sul cucuzzolo attendeva intrepidi ragazzi con le loro marachelle.
La salita era faticosa, imprimevo tutta la forza che avevo in corpo, nella pedalata. Sudavo, mi stancavo. Eppure, c’e l’avevo fatta. Ero in cima alla collina, attesi che John scese, con un balzo tocco terra. Prima d’adagiare la sua bicicletta fra le altre quattro.
Sguardi delinquenti avevamo, il piano era quello di farsi rincorrere da Sam. Farlo un’po impazzire, diciamo. Era una cosa stupida da fare, ma ci divertiva un mondo farlo.
Quella non era la prima volta, che lo facevamo. Era forse la decima, da quando la banda era tornata dalla montagna. Sembra strano ma con la loro mancanza, sembrava che anch’io ero partito con loro. Scavalcammo in sincrono la staccionata, cauti ci dirigemmo verso la casa. Come nostro solito piano, dovevamo affrontare l’ultimo tratto in salita erboso, prima d’arrivare alla porta di casa e suonare al camlo, e infine correre nelle più disperate direzioni. Cosi che Sam, poteva prendere solo uno di noi. Sempre se riusciva, ha metterci le mani addosso; cosa mai accaduta in quelle dieci prove. Arrivavamo perfino al punto di vestirci con magliette verdi, cosi da non essere visti. Ci sdraiavamo nell’erba, e proseguendo ad un certo punto a carponi. La figura di Sam, ogni tanto la si vedeva sbirciare dalle finestre di casa.
E noi cauti avanzavamo, finché uno faceva segno di fermarsi. Gli altri trattenevano il respiro, quando accadeva.
Finalmente fummo vicini, uno di noi avrebbe a questo punto dovuto alzarsi, per
andare al camlo e gridare; “vecchio! Te l’abbiamo fatta un’altra volta!” e scappare a gambe levate dal portico.
I piani di Arthur, invece erano altri. Accese qualche minicicciolo, e li lancio verso la casa. Ne lancio due, uno colpi l’infisso di una finestra, rimbalzando all’esterno della casa. L’altro entro dalla finestra aperta. Frank ebbe il tempo di dire; “per Dio Arthur, te e i tuoi stupidi petardi” che il Boom che ne segui fu per poco attutito dalla grida di rabbia di Sam. La sua collera, più che legittima esplose.
Eppure ci appagava molto, scappare dall’uomo vecchio e gobbo, col suo pastone. Il suo “argh” echeggiò su tutta la collina, espandendosi verso il bosco. Dove piccoli uccelli disturbati dal trambusto, presero il volo.
A quel punto, c’era una sola cosa da fare; “scappate” urlo Rupert, destandosi dal manto erboso.
Ci alzammo da terra, chi più agilmente chi meno. E via di corsa giù dalla collina, Sam alle calcagna.
Cacciai un urlo, un urlo di trionfo. Seguito da altri urli eccitati. Correvamo come pazzi giù dalla collina, l’erba bassa, sembrava un tappeto che nella nostra corsa venne sfilato da un’estremità. I i affrettati s’attutivano al contatto col terreno. Era correre, perche non c’era un domani.
Guardai a destra; c’era Rupert e Arthur. Guardai alla mia sinistra, c’era John e Frank. Amavo ricordare quel momento, solo per la bellezza dei loro visi. Cosi goliardici, stirati da un sorriso vivo. E quel momento dolce, si cemento nel mio
cuore.
Più tardi, quando afferrate le biciclette da terra, scendemmo dalla collina, scaltri come ladri. Avemmo il tempo di ridere, e che risate.
Pedalava John, io me ne stavo in piedi sul retro. Asciugando il sudore col vento d’avanzamento, che sbatteva sul mio viso.
Mollammo le biciclette, nei giardini delle rispettive case d’appartenenza. Senza pochi riguardi, quei corpi metallici scassati, vennero buttati incresciosamente a terra.
Sophie ci aspettava alla casa, l’avevamo lasciata seduta sul pavimento. Stava leggendo al momento, il diario che tenevo.
Cosi la trovammo quando, con spallate e grasse risate. Filammo attraverso la tenda d’ingresso.
Con fare stravaccato, John si infogno sul pouf enorme all’angolo. Presi delle lattine di Coca dalla nostra scorta, e le lanciai hai miei amici.
“Sophie, ne vuoi una anche tu?” chiesi gentilmente.
Sophie, in quel momento stesa a terra, diniego, corrugando la fronte. Mordicchiava il cappuccio in plastica della biro, che usava per correggere i miei
grossolani errori grammaticali
“sentite..” disse Sophie, appoggio gli altri fogli che teneva in mano, la biro e il suo cappuccio, e inizio ha leggere.
“e in quel momento, riesco a contare ogni battito del cuore. Nel vedere le loro sagome allontanarsi da me” erano le mie parole, lette con un moto d’enfasi ionale da parte di Sophie.
Era, diciamo la copia perfetta di quando parli col tuo amante. Lo stesso tratto vocale, lo stesso accenno al sensuale, mordicchiandosi l’angolo del labbro inferiore, a mala pena dietro a quel ghigno si scorgono i denti bianchi.
“wuahu, io lo dico sempre. Sarai un gran scrittore” mormoro Frank, oramai nessuno ne era più stupito. Da quelle frequenti mie dichiarazioni d’amore, cosi alla leggera verso la combriccola.
“grazie Frank” ringraziai, sorseggiando la Cola stranamente fresca.
“siamo cosi sentimentali a volte” scherzo John, e per questa battuta si prese un cuscino in faccia da parte di Sophie. Altre risate, commentarono la scena, animando l’ambiente.
Nel mentre, Sophie rimise a posto il mio diario e penna sul ripiano affianco alla macchina da scrivere, rimasta alla casa fin dalla mattina.
“cosa avete fatto, per essere sudati a quel modo?” chiese, ancora in piedi Sophie vicino alla macchina da scrivere.
“siamo andati a trovare Sam..Arthur ha fatto il cretino..”
“hey!”
“e, siamo scappati correndo giù dalla collina”
“ed è cosi divertente?” domando Sophie, non riusciva mai ha capire la parte sosa di quel gesto.
“incredibilmente divertente” puntualizzo Rupert.
“cosi tanto, che non riuscivo ha contare i battiti del mio cuore” aggiunse John.
“hey, guarda che ci sono di diritti d’autore” rimbeccai.
Ci trovammo ancora a ridere in quel luogo, o parte inesplorata della Luna.
Il pomeriggio scemava, e noi. Ci stavamo preparando per la sera. Mangiammo come nostro solito, hai piedi dell’albero. Davanti al falò, che serviva solo come fonte di luce. E si, potevano individuarci facilmente dal fumo che saliva a spirale
per l’aria, chiunque lo poteva fare. Ma, era altrettanto vero che; chiunque non poteva superare le mie trappole. Di questo, ne ero molto sicuro.
“Dio, sposerei Bob solo da come cucina” mormoro deliziato John, addentando il riso freddo, che riempiva la ciotola di plastica chiusa nelle sue mani.
“Bhè, se voi puoi sposare me. E andremmo ha vivere dove vuoi tu” rispose Rupert, scherzando ovviamente.
“oh mio amore, come vorrei proprio baciarti” mugolò John, e quei due iniziarono a fare i cretini attorno al fuoco. Si mordevano gli angoli della bocca, e poi si scambiavano baci per aria.
Sophie mi lancio un’occhiata dall’altra parte del falò, io in risposta le feci segno che hai quei due mancavano qualche rotella. Soffoco una risata, facendo finta di tossire Sophie. Il viso rischiarato appena dalle fiamme danzanti..
Mi alzai di scatto, fu non voluto, ne pensato quel movimento brusco. Provavo spavento, verso quell’emozione.
“vado a raccogliere altra legna” fu la mia scusa, per evitare i loro sguardi interrogativi.
Mi inoltrai nell’oscurità del bosco, in realtà c’era abbastanza legna, l’avevamo ammassata dietro l’albero io e Rupert. Lo stesso che mi segui, nella radura della lavanda, poco dopo l’avvenimento. Ove mi sdraiai, per calmarmi
apparentemente non lo ero, anzi, ero agitato da quei possibili pensieri d’amore. Guardai le stelle, ed erano magnifiche in quella notte. L’obelisco lunare, pallido, esemplare di tenera bellezza, in alto ad di là d‘ogni cosa. Lavanda in fiore, spargeva nell’aria quel suo colore, rischiarato dal bianco lunare, s’espandeva tutt’attorno dei suoi raggi. Era come essere nel bosco incantato, di quelli popolati da Fate che hanno i nomi d’orchidee. Quella visione, cosi intensa a tratti fantastica, era il mio vero sogno di una notte di mezza estate. E niente farfalle, solo qualche lucciola, e insetti, milioni di insetti ronzanti dalle varie forme, e rumori, una cacofonia in Do minore, come Chopin, un piano suonava in quella radura in notturna. Senti dei i dietro me, in quel momento, poi Rupert si sedette accanto. Mi guardo per un istante, e poi parlo:
“ti va di giocare a obbligo o verità?” chiese.
Lo guardai come a dirgli, ti pare il momento di giocare. Assapora l’atmosfera piuttosto, del tempo che scivola via fra le dita, che diviene cenere di un incendio diradato. Che diviene carbone da non poterci far nulla.
“ok, ti obbligo a dire la verità hai tuoi genitori” Rupert prosegui, senza notare il mio sguardo. O meglio, l’aveva notato. Ma aveva fatto finta, di non capirlo.
Poi se ne andò, stranamente mi lascio solo. Disteso su quel tappeto soffice, di qualche stelo d’erba fresca e molti fiori dalle corolle chiuse.
Qualcosa scatto in me, si accese la convinzione. E con quel fuoco dentro, tornai dagli altri. Non c’era bisogno di spiegare quel mio comportamento. Ne quei minuti di combattimento interno, ati a guardare le stelle. Come ad esempio Orione, con la sua cintura tocca l’orizzonte, o come il Gran Carro porta con se solo un’unica direzione, Il Nord. Di come Andromeda risplende, o Venere e infine Marte.
C’era solo da chiedere ha Sophie: “tuo padre, domani e ha casa?”
Sophie annui, compiaciuta. Forse non avevo bisogno di spiegare niente, grazie ha Rupert.
La sera infine calo, col suo lembo, divenne fresca. Con gli insetti romantici per aria, si inseguivano a coppie. I grilli col loro canto, richiamavano l’amore andato. Con violini e viole, orchestrate sotto un unico stelo d’erba, la grande piazza era in fermento. C’era festa in città. Lucciole veleggiavano leggiadre fra il mare arboreo di quella grande città. Tavolini aperti fuori dai bar, gente a eggio su marciapiedi di terra soffice, e pali della luce, e fontane, e formicai dove portare la tua amata per una notte di ione. Più lontana la caverna, emetteva quel suo tipico rauco borbottio.
Sacchi a pelo e noi, sdraiati sopra. Le stelle davano il via alla prossima storia della buonanotte.
Parlai solo io, gli altri ascoltavano ad occhi chiusi. Non so per quanto parlai, ma alla fine. Avevo la gola secca, e qualcuno come John e Arthur sonnecchiavano in pace.
Presi da bere, nella borraccia che tenevamo attorcigliata , ad un ramo basso, non ero il solo ad aver sete.
“e successo qualcosa fra me e te?” domando Sophie, quando mi voltai per tornare al mio posto. Lei era dietro di me. Evidentemente Sophie, mi aveva
seguito sin li senza far rumore.
“no” risposi, asciugandomi gli angoli della bocca.
“eviti di guardarmi, credi sia stupida” continuo Sophie, i suoi occhi studiarono per un attimo i miei.
“e che ho paura” confessai, basto il suo sguardo a farmi confessare tutto, chinando la testa.
“di cosa?” chiese Sophie, i suoi modi di relazionarsi con me erano pacati e miti.
“di tutto, e se i miei non capiscono. E se non posso puntare troppo in alto nella vita..”
Schiaff; Sophie mi aveva rifilato uno schiaffo. Riversando le mie paure, non ero riuscito a controllare quel flusso. Ero proprio andato per quella tangente.
Mi massaggiai la guancia, dove mi aveva colpito, forte. Poi alzai lo sguardo, verso lei; piangeva sommessamente. Piccole lacrime, li bagnarono le sue pupille, senza produrre alcun rumore. Nessuno dei due se la sentiva di parlare. Solo ci guardammo, quando decisi d’abbracciarla.
Un abbraccio fraterno, che ovviamente non decretava niente, era solo un abbraccio e voleva dire solo: io ti voglio un bene dell’anima. Non era
un’accezione nuova, ne voleva essere una dichiarazione, solo un abbraccio. Era questo che ci unì.
“scusa per lo schiaffo, sparavi cazzate; eri incontrollabile” sussurro al mio orecchio destro Sophie.
“e che di certe cose, non ne riesco a parlarne con nessuno” spiegai.
E quando ci sciogliemmo da quell’abbraccio. Sophie mi rassicurò ulteriormente, con un bacio sulla guancia.
“vedrai che andrà tutto bene, non c’e bisogno d’avere paura. Puoi fare ciò che vuoi, non c’e limite che non puoi superare. Puoi arrivare in alto, se lo vuoi” mormoro tenendomi il viso fra le mani calde.
Mi senti cosi fragile in quel momento, cosi stupido. Perche avevo parlato a vanvera in quel modo? Non mi sapevo più controllare per caso?
Sophie torno al suo sacco a pelo, io rimasi vicino all’albero. Come bloccato, mi appoggiai ad un ramo e pensai; avevo mentito ha Sophie, ed era un comportamento meschino. L’uomo per lo meno, lo diventa se c’e in ambito l’amore. Solo che hai tempi, ancora non lo sapevo. Un’altra pausa riflessiva, stavolta osservando il cielo, ed infine riposai sotto cieli stellati, raggiungendo i miei amici.
La mattina si alzo, col suo incendio all’orizzonte. Strano come prima i suoi
raggi, rasserenano il cielo scuro della notte. E solo poi, arriva la palla di fuoco solare, prima uno spicchio, poi emergendo con la sua intera figura onnisciente. Ne parlai della mia osservazione, con Frank. Lui come Rupert, Sophie e Arthur; erano già svegli.
“perche la luce e veloce, e poi non a di certo la massa del sole” spiego, in un modo che definirlo scientifico, trattasi d’eufemismo.
La colazione la facemmo al chiaror del sole, sul prato bagnato dalla rugiada, che condensa nella notte per lunghe ore, e poi tutt’un tratto evapora raggruppandosi su ogni cosa. Avevamo una casa col tetto, ma preferivamo dormire sotto il cielo. Senza un tetto, da farci da intermediario.
Sorrisi e scossi la testa.
“che c’e Scott?” noto il mio sorridere Arthur.
“nulla, e che siamo molto strani” risposi.
“cioè?” mi guardo con fare curioso Frank.
“cioè che, abbiamo un tetto sotto cui stare. Ma nonostante questo, dormiamo all’aria aperta” affermai.
Gli altri si guardarono a vicenda come a dire: “dobbiamo dargli ragione o
meno?”.
“in effetti” mormoro Rupert, pensandoci su.
“voi siete pazzi! Io sono perfettamente normale, non sono strano perche mi piace dormire all’aria aperta” sbotto su Frank, forse prendendosela un’po troppo sul personale.
“ok Frank, siamo perfettamente normali” decreto Sophie, parlando col lo stesso tono, con cui si parla ad un bambino che non capisce ciò che li si sta spiegando. Perche ingenuo, e troppo piccolo.
“ahaaahha il poppante Frank” starnazzo, destandosi John.
“torna ha dormire John” sbotto acido Frank.
“oh ma sentitelo, come scalda i toni. Ragazzi, qui ci vuole..” non concluse la frase John. Semplicemente ci invito ha finirla per lui, con molta eloquenza del viso.
“la secchia per Frank” scatto in piedi Arthur.
Finirono tutti addosso al povero Frank. Nell’ilarità di quel chiassoso momento. Ove il divertimento, come le risate erano piene.
Tranne io e Sophie, lasciammo agli altri il difficile compito. Quando c’era aria di litigio, qualcuno saltava su in modo scherzoso. Portando la pacifica convivenza, a giusti livelli.
“noi dobbiamo andare” informo, quella matassa di copri intrecciati Sophie.
“basta! Basta..” continuava ha ridere Frank, chiuso fra Rupert e John.
Arthur gironzolava intorno, con la sua infinita energia.
“andiamo, lasciamoli giocare” li dissi sereno.
Il bosco di mattina, vive di un’altra luce. Se prima la foschia aveva nascosto con un leggero velo, la vista di quel monumentale verde misto al marrone. Ora la vista era libera, scorgevi il fermento di attività in esso, scoiattoli escono dalle loro tane, per dimenare sembra, la coda pomposa. eri escono dal nido, per andare alla ricerca di cibo, per i loro piccoli.
E noi due, osservavamo da spettatori senza biglietto, quelle fasi concitate. Mandando a memoria, ogni particolare.
Eravamo senza saperlo, sulla strada. Davanti alla casa di Sophie, la stessa attraverso il vialetto di casa. Busso alla porta, sua madre apri la porta.
“ciao Ma’”
“ciao tesoro” i saluti d’accoglienza che ti sa dare una madre, e unica. Soprattutto se sei suo figlio. Ti sorridono, come se per loro. Nulla potrebbe andare storto, ora che il suo\a figlia\o siano sotto la sua protezione.
Il padre di Sophie, era in cucina. Stava facendo ancora colazione. Parlo solamente Sophie, quando giunse alle spalle di suo padre, io avevo troppa paura per parlare. E rischiare di far arrabbiare Colin, per il disturbo che li creavo.
“ok, ci parlo io coi tuoi” mi disse, cosi senza pensarci.
“perche lo fa, cosi semplicemente?” li domandai, erano le uniche parole che mi uscirono dalla bocca. Fin da quando, ero entrato in casa loro.
“gli uomini sono fatti cosi, tu mi hai chiesto aiuto. E io te lo do” rispose Colin, sorridente poso la tazzina nel lavello, e la lavo. Una volta finita quell’operazione, mi fece cenno che lui era pronto. Lo segui fuori, fin verso l’auto. Con noi venne anche Sophie, Colin non ebbe nulla da obbiettare alla presenza della figlia.
Non mi convinceva, tutta questa sua disponibilità. Lo controllai, mentre bussava da solo alla porta di casa mia. Quando saluto amichevolmente mia madre, ed anche quando entro in casa, finche mossi un o verso la porta di casa aperta, mi blocco dicendomi:
“puoi aspettare qui?” lo guardai con fare interrogativo, cosa mi voleva nascondere? Fu la mia domanda, simultanea. Prese in me posto, il sospetto. Iniziavo ad agitarmi, ma quando Sophie mi sfioro la spalla con la sua mano. Mi calmai un poco, annuendo alla figura sul portico di casa. E Colin infine entro, chiudendo la stessa porta alle sue spalle.
“che qualcosa che mi tiene nascosto?” chiesi alla figlia, magari sapeva qualcosa sul riguardo.
“no, Scott. Solo ti vuole risparmiare l’imbarazzo” rispose Sophie, ed era maledettamente sincera.
Iniziai a piangere, nemmeno lo capivo il perche. Non capivo più niente, ero resettato dall’interno. Confuso, triste seduto sul portico di casa. Affianco a me c’era Sophie. Mi consolava come meglio poteva. Intanto i minuti avano, ed io non seppi cosa disse Colin alla mia famiglia.
Rimasi fuori per ore, seduto sui gradini in legno. Immobile, come se non abitassi più in questo copro. Solo adesso comprendo, che quel momento era la mia liberazione. Quell’istante fu importante, non mi avrebbe portato qui, adesso a raccontarvi la storia della mia vita. E non contribuì per niente, sviavo solo col pianto tutto ciò che avevo sopportato.
Il mio momento arrivo poco dopo. Dei i affrettati sull’ingresso, mia madre che apre la porta di scatto. Io che di spalle mi alzo, pronto ad affrontare la mia nuova vita. Guardai mia madre negli occhi, anche lei piangeva. Mi basto guardarla, per capire che mi aveva perdonato tutto, che mi capiva. Mio padre, era di un altro parere, non ci credeva disse solo: “sono tutte scuse per non studiare” credo non potesse accettare il fatto che, non sarei andato ha lavorare con lui.
“figlio mio, mi dispiace” mormoro mia madre, e finalmente mi abbraccio da vera madre.
Capitolo 20;
Redenzione.
Nuovi giorni, dove la mia vita cambio. Il forte desiderio di redenzione, il desiderio di mostrare che ero intelligente. Basto questo a mio padre, per fargli cambiare idea. Li ci vollero un paio di giorni per capirlo, e accettarmi cosi com’ero.
La redenzione e come una valuta, ha più valore all’estero che all’interno.
Erano i giorni nuovi, dei miei rinnovati e spensierati sorrisi. Se ripenso a cosa ho ato. Mi sorprendo a non essere depresso. Nonostante il suicidio, quel meschino atto. Mi abbia fatto a volte suo schiavo, per molto tempo. Non ero mai arrivato, sino a quel fatale atto. La mia opera drammaturgica, non concepiva in se, veleni e fatali amanti. Ne famiglie che non vogliono il matrimonio, con la figlia della famiglia nemica. Ne un palco dove la mia storia, prendeva vita dietro un drappeggio rosso, prima di andare in scena.
E su quel palco, altre figure si ammassavano. Quasi il cinque percento dei giovani. Tanti come me, tante persone che si sentono ingiuste, stupide, e sono additati, presi in giro dalla loro stessa famiglia.
Loro non si abbattono, no, le comparse scalpitano verso la ribalta, e pedalano, corrono per la città, si nascondono nei vagoni della metro, e si innamorano, e sudano, e piangono. E lo fanno, con quella fottuta etera luce dentro.
Gli anima, gli scalda. Riempie quel vuoto che sono abituati ha vivere. Lassù su quel palco, il riflettore sono puntati su di loro. Le star indiscusse, quelle che affondano le mani nei marciapiedi ancora freschi dal cemento, in qualche città dall’altra parte dell’oceano. Da Picasso, a Eisten, ando per Walt Disney e altri ancora. Erano hai tempi, i miei eroi. E fonti inesauribile d’ispirazione.
Ah se solo fossi grande come loro! Pensavo fra me e me.
Nella villa di Rupert, visto che faceva caldo. Troppo caldo, per stare al sole, all’aria aperta.
C’era solo un posto in quella villa, che piaceva a tutti; la grande piscina. Chiesi a Rupert, di raccontarmi la storia di Perseo e Medusa, raffigurati sulla parete dell’edificio che racchiudeva la piscina.
“non me la ricordo” bofonchio Rupert, impegnato a giocare nell’acqua con gli altri.
La sola Sophie, era con me ha bordo vasca. Mi fisso e disse:
“se vuoi te la racconto io”
Accettai subito, mi sdraiai completamente. Sul pavimento fresco, in piastrelle di quella piscina. La mia nuca sfiorava la gamba destra di Sophie; chiusi gli occhi e ascoltai attentamente. Era una storia piena di inganni, di mal torti, e di desiderio
di morte di un figlio, la quale madre amava. Ciò, non so perche, mi fece pensare alla guerra fredda. Molte madri si sono visti i loro figli reclutati, per cosa poi? La crescita del territorio, il petrolio, l’oro, un tradimento, o solo odio?
Non lo dissi a nessuno, quello che pensai. Abbandonato su quel pavimento fresco.
Immaginai il pesante rombo di aerei, con mitra dotati di tutti gli armamenti. E giovani piloti, che impavidi si lanciavano nella mischia, armi spianate e tutto il resto. Non c’e nulla di sadico, ne bello in tutto questo. Fa solo schifo. Come la vendetta, trasforma anche il più gentile degli uomini.
Alla fine però, qualcuno vieni salvato; non tutto e perso! I nostri peccati verranno ripagati.
Mi addormentai, conscio che i miei peccati, e quello di generazioni addietro. Erano li stesso, sbagliamo sempre in questo nei uomini. Alla fine, verremmo tutti perdonati. Certo, chiedendo scusa, e la dove fosse possibile di poter migliorare.
Una mano piccola, e fredda sfioro i miei capelli. Destandomi un poco. Erano tutti usciti dall’acqua, mi fissavano, seduti al mio fianco.
“credo di essermi addormentato” mormorai, alzandomi solo con la schiena.
“sorridevi, che per caso stavi sognando..” stuzzico John, dandomi gomitate sul
braccio con fare molto giovane.
“non credo” risposi, l’ultima fugace visione era quella di due aerei che si davano battaglia in cielo.
“come non credi, vuoi dire che non ti ricordi nulla dei sogni che fai?”
“per dio Frank, tu ci riesci?” di rimando John.
Allorché Frank rimase muto, John aveva ragione. I sogni se sono belli, non si ricordano molto facilmente. Fugaci attimi d’assoluto riposo, ove il cervello crea un mondo su misura, rispetto hai nostri desideri. Al contrario, se sono incubi. Ne ricordi, ogni minimo particolare. Il lenzuolo bianco che nasconde, la parte sotto putrida di un mostro non-vivo ad esempio.
“comunque era solo una fantasia, non credo fosse un sogno. Non ero completamente addormentato” spiegai, sentivo lontano il gocciolio della fontana. Qualche parola sconnessa, di Sophie. Le risate pazze di John.
No, precisamente ero sveglio. Stavo solo, riposando gli occhi. Che sia la mia una mera vergogna, può darsi.
“in cosa consisteva la fantasia?” domando curioso Arthur, sembrava un bambino ha bordo vasca. Senza braccioli, non poteva buttarsi in acqua. Quindi che faceva, metteva in ammollo le gambe, rimanendo in superficie. Era questo che sembrava a bordo vasca Arthur, un tenero bambino dalla pelle bianca.
“pensavo alla guerra, la guerra fredda..” ci rimuginai su, quello che avevo visto. Era una campagna ampia, il verde accesso di tonalità molto forte, tipicamente Inglese, la valle comprendeva perfino delle rotaie per treni, ne ò uno sibilando col suo vapore. Gli alberi privilegiavano star uniti, colorando a chiazze il panorama. L’umidità era forte, manifestandosi specialmente con debole nebbia al primo mattino. Si, era andata cosi la mia fantasticheria.
Solo quando rivolsi lo sguardo, hai miei amici. Mi accorsi, della loro eloquenza nel fissarmi.
“giusto, vi aspettate che condivida con voi, ciò che ho visto” dissi, fra me e me.
“francamente, saresti uno stronzo se non lo fi, fratello” rispose Rupert.
“un fottuto stronzo di fratello” completo John, in modo sarcastico la scialba frase di Rupert. Mancava un particolare, quella parola sull’inizio. E secondo John, quel accezione dava un altro senso alla frase. Anche se sotto-sotto, erano uguali.
“va bene, il vostro fottuto fratello. Vi racconta ciò che ha visto..un’infinita tela blu chiara, due piloti coi loro aerei. Disegnano per aria, le loro scie bianche. Assumono strane forme, più decise delle nuvole, tondeggianti. Come le pennellate, che si fanno con gesti nervosi sulla tela. Si danno battaglia, il primo spara, qualche colpo di mitraglia. L’aria viene scossa da quei rumori, devastanti. Ma che ti fanno sentir cosi vivo. Ad un o dalla morte, sembra strano non esserlo. Il secondo evita, la sua buona dose di proiettili, con una manovra d’istinto. Nel bel mezzo di una campagna, appena fuori Londra, si confonde quasi col cielo terso di blu. Divengono la stessa cosa, ottengono gli stessi colori accesi. Ottenendo una fusione caleidoscopica dei più bei colori di entrambi. Il
secondo pilota, sale di quota, con movimento a spirale. L’altro lo segue, e un nazista..”
“un fottuto nazista” interruppe John, vivacemente.
Sophie li lancio uno sguardo di malo modo, attimo di ilarità generale. Poi continuai..
“e giovane, convinto di far del bene. Gli hanno lavato completamente il cervello. O per paura, di finire come gli altri deportati. O perche, e solo un nazista..fottuto, ok John” sussulto al mio fianco John. Ora che avevo aggiunto quella parola. Era contento; prosegui.
“il secondo aereo scende in picchiata improvvisamente, si stanno per scontrare frontalmente. Non ci sarà scampo, nessuno dei due vorrà cedere. Le dita appoggiate, sul grilletto del mitra. Stanno per essere premuti. Ma il nazista, quando finalmente riesce ha vedere, oltre il cruscotto del suo sfidante. Rimane sorpreso, a bocca aperta letteralmente, confuso… quella è una donna, c’e una donna alla guida. Ed è bellissima. I due uomo e donna, rimangono per un attimo folgorati. Quando i loro occhi s’incontrano. Quasi come un sogno, si svegliano e si chiedono. Cosa stiamo facendo qui? Lo fanno simultaneamente, si chiedono perche? Quante figli e figlie, non avranno più genitori, e viceversa?. Sono io il mostro, che provvederà ha mettere fine alla vita, di quella persona; che magari è simpatica..
Evitano di schiantarsi, tentano troppo tardi. Le loro ali sinistre, si spezzano all’unisono. Precipitando al suolo, giù sempre più giù, i campi aperti stanno procedendo nella loro direzione ad una velocità sorprendente, in quei colori che tanto amavano.”
“tutto qui?” domando Sophie delusa, come ha dire che quella storia li sembrava vuota, senza significato.
“in che senso?” chiesi di rimando.
“dove sta il lieto fine” protesto Sophie, come una rimprovera nei miei confronti.
“bhò, non lo so, il fatto e che non si siano uccisi ha vicenda” tentai.
Tanto basto, al mio fianco convinsi John. Frank e Arthur, Rupert invece erano di un altro parere, quello di Sophie ovviamente.
“va bene, i due riescono a salvarsi. Hanno i paracaduti con loro. Atterrano dolcemente al suolo, poco distanti l’uno dall’altra. Si guardano ancora, occhi negli occhi. Stavolta non c’e solo concentrazione del calcolo, sul come poter abbattere il nemico, ne stupore. Risiede l’amore, rapido come una scintilla elettrica. Più potente di un fuoco d’artificio. Occhi negli occhi ancora, e ancora ingarbugliati da tutti quei fili dei loro paracaduti, goffi si baciano”
Come lieto fine, non era male. Pensai, fra me e me. Rivolsi un’occhiata ha Sophie, come ha dirle: “soddisfatta ora?” e lei in tutta risposta, mi rivolse un sorriso convinto.
Convinta Sophie, di conseguenza erano tutti felici. Erano lontani i tempi, i cui il mio mondo esisteva solo per me. Ora ci si immergevano profondamente anche i
miei amici, ero la aporta. La chiave che apriva ogni cancello, stregato e non. Ero il aggio nella brulla foresta che cambia, e si dischiude davanti hai tuoi occhi, sotto forma di spettacolo contiguo. In cambiamento continuo, sempre in mutamento. I ghiacciai si sciolgono, i mari si alzano, le montagne si spostano, altre crollano su se stesse, e altre eruttano altro materiale. Strato dopo strato, le piccole isole diverranno continenti coi millenni avvenire.
E tutto cambia, tutto muore, tutto tace, tutto rinasce dal basso verso l’alto del paradiso.
Nel pomeriggio, ci sdraiammo all’ombra del grande ombrellone nel retro della villa di Rupert. John come suo solito, si spaparanzo sulla sedia di plastica offertali dal padrone di casa. Sempre stanco, o forse ricaricava le sue infinite energie, gradualmente.
Gli altri chissà dov’erano, Frank e Arthur siccome avevano ulteriormente fame. Perche non li bastava, il pranzo ipercalorico di Bob. Erano in cucina. Il pranzo, comprendeva tre piatti, il primo un delizioso risotto hai funghi. Il secondo, era una specie di pesce che mai, avevo sentito nominare, accompagnato da un’insalata leggera. Il dessert, consisteva in una fetta di torta, ricoperta di gelato.
Eccovi dunque, svelato il motivo dell’improvviso calo di energie di John. Le stava usando, per digerire.
Ma forse in quei anni, il più energico era Arthur. Era difficile vederlo, nell’arco della giornata; stanco, o possibilmente ad un punto molto vicino alla spossatezza. Tranne che, per quando va ha dormire. Di solito, era il primo ad addormentarsi, e l’ultimo ha svegliarsi.
Gli altri, sotto questo punto di vista, erano simili a me. Ci stancavamo, nel giusto tempo. Di certo, non eravamo uragani impazziti come John e Arthur. Ma riuscivamo comunque ha divertirci, come loro.
Cosa che fra l’altro, mi affascinava.
Rupert era in bagno, Sophie era con lui. Non mi preoccupai, non c’era bisogno d’essere gelosi; per cosa poi..
Bhè, gelosi si è quando..
Era meglio fare qualche o, sgranchirsi le gambe. Per ovvie ragioni, non potevo andarmene a farmi un bagno. Decisi che la biblioteca era un ottimo nascondiglio.
Lasciai solo John, col suo russare appena accennato. Quella specie di debole soffio, che li usciva dalle narici.
Entrai in casa, sali le scale a piedi nudi e costume da bagno. Cosi bardato, entrai nella biblioteca privata di Rupert. C’erano molti titoli, fra i quali scegliere. Alcuni che non conoscevo, quasi tutti. Ma che col tempo, ho imparato ad apprezzare. Altri gli avevo già letti, o ero in procinto di farlo. Uno su tutti, infine m’incuriosì.
Afferrai la scala mobile, facendola scivolare sui suoi binari, arrivando proprio allo scaffale incriminato. Basto salire per pochi pioli, per poter mettere la mani
sopra a quel libro. La rilegatura era vecchia, la copertina era bianca, incolore. Era una copia “Dell’Isola del Tesoro”. Scesi con un balzo dalla scala, andai al tavolo posizionato nel centro della sala, feci per sedermi su una di quelle sedie lavorate in legno, quando ancora un’altra volta un oggetto incuriosì i miei occhi, una bella e comoda poltrona.
Era l’ideale, mi lascia cadere sulla sua imbottitura in pelle morbida, che mi avvolse nel suo abbraccio fresco. Sfogliai la prima pagina, lessi ad alta voce. Cosi come Colin, mi aveva insegnato. Alcune parole, le avevo memorizzate male, scrivendole con orrori grammaticali. Senza le doppie, o le “f” al posto delle “t” accadeva che qualche volta, saltavo una parola, andando alla successiva in una frase. Cosa che alle volte privava di logica, la stessa frase. Col l’unico risultato, di non capirci niente di quel testo. Quindi tornavo indietro di un rigo. Leggevo piano, e proseguivo.
Era cosi umiliante all’inizio, e cosi stancante. Tanto che stavo, per mollar tutto indispettito.
Poi però, quell’avventura nel suo corso, mi prendeva, divenni curioso sulla svolta, ed anche dei personaggi, proseguivo ininterrottamente ora, smaniavo d’arrivare all’ultima pagina.
“ho detto che il capitano era debole: efettivamente, no..cazzo effettivamente pareva declinare..sempre più declinare..ho detto che il capitano era debole:effettivamente pareva sempre più declinare, anziché”
“riacquistare le sue forse…le sue forze. Egli si trascinava su e giù per le scale; andava e veniva dalla sala da bar, e talvolta cacciava il naso fuori dell’uscio per odorare il mare” venne in mio soccorso Sophie, la mia parlantina era lenta, si notava quanto andavo a rilento, perfino le difficoltà che continuavo a trovare,
sulla semina infinita di parole nuove.
“vuoi che legga per te?” mi chiese dolcemente Sophie, come una madre quando vedendo le difficoltà nell’allacciarsi le scarpe del figlio, lo aiuta, semplicemente e non perche è un suo diritto, e un dovere aiutare il proprio figlio. Specialmente per una madre. Come del resto è, un figlio. Non e un diritto, ma un dovere che si acquista col tempo.
Ed io l’odiai terribilmente. Perche la sua pena per me, era doppiamente tagliente e più affilata. Era colpa mia, se i suoi occhi diventavano umidi quando mi fissava. Capitava sempre in queste situazioni nel quale, mi mostro debole. Che da solo, non riesce a fare nulla di buono.
“lo so che faccio schifo, non ho bisogno che tu, me lo faccia capire di più!” sbottai, mi alzai dalla sedia mollando il libro aperto sul grande tavolo.
“Scott, volevo solo aiutarti” rispose Sophie, meramente dispiaciuta.
Ma non bastava, le ai accanto senza degnarla di uno sguardo. Giurai d’ave visto una lacrima, scendergli per la guancia. Questa lacrima come veleno, bruciava nel mio petto.
Perche, capitava che mi arrabbiassi cosi su gli altri. E li attacco ingiustamente. Quando in realtà, dovevo attaccare me stesso. Scappai ovviamente, come fanno i vermi. Si rintanano nel fango, dove sono nati.
Non andai a casa, andai nella caverna. Scesi con la carrucola, l’Atrium era il posto tranquillo di sempre, le scoscese pareti fresche, il semibuio alleggiava in quella sala, grotteschi crepe si aprivano nelle pareti, erano cosi piccole, quasi impercettibili, tranne per il tatto quando ci avi sopra un polpastrello, sentivi chiaramente le due placche di diverso minerale scompattarsi.
Ciò non mi bastava, i vicoli sotterranei che creavano labirinti, erano la mia metà. In uno di quello, mi nascosi. Al primo bivio, ero andato a destra. Al secondo a sinistra, o era il contrario..mi lasciavo guidare dalle pareti simili a forma di tubo liscio. So solo che alla fine, ero nella totale oscurità, rannicchiato e addossato su di una parete. Le ginocchia appoggiate sulla fronte, avevo freddo. E non me ne importava più di niente. Piangevo, le mie inutili scuse verso Sophie. L’avevo trattata ingiustamente, lei che più di tutti non meritava questo trattamento.
Piansi ancora nell’oscurità. Dove era la redenzione dei primi giorni? Dov’erano i miei amici, e mia madre avrà il coraggio di abbracciarmi ancora o, mio padre accetterà. Dopo questa patetica scenata, o questa mia alchimia con la caverna.
Buia e sola, che faceva ora da cassa di risonanza al mio lamento. Il calore della terra solidificata, e divenuta minerale. Poteva farmi da padre e da madre.
Stesso calore che disperdevo dal mio copro, divenendo freddo. Troppo freddo. Tremante vagai nell’oscurità assoluta, basandomi sull’istinto. Se solo fossi un pipistrello, potevo emettere ultrasuoni per orientarmi facilmente in quel buio. Ma non potevo, quindi andavo a sbattere con le dita dei piedi contro le pareti di quei tunnel.
La da solo, non potei far altro che fidarmi dell’istinto. Funziono per mia fortuna, nell’Atrium attendeva Sophie. Era da sola, addosso aveva la mia maglietta a maniche corte. Le stava larga di spalle, visto che Sophie era più minuta, rispetto
alla mia corporatura. Nelle mani ossee teneva le mie scarpe con le calze spaiate che spuntavano fuori.
Era molto strano vedere il tuo capo d’abbigliamento, su di una ragazza. Viene quasi trasformato, da quelle linee, da quelle curve cosi differenti dalle nostre maschili.
Alle donne tutto dona, qualsiasi cosa portano addosso. E un altro prezioso, una perla incastonata in una catena infinita, un opale scarlatto attorno al collo. Hanno questo potere le donne, rendere una maglietta bianca consunta e stropicciata, un capo d’alta moda.
In lacrime le dissi: “scusami, e che non so cosa mi prende a volte. Odio essere cosi inutile, umilio me stesso e voi..voi che siete tutto per me. Sul serio, siete dei angeli che mi hanno salvato”
Ora piangeva anche Sophie, le sue lacrime erano grate di tutta quella devozione.
“possiamo abbracciarci ora?” mi chiese poi, asciugandosi le lacrime con un palmo della mano.
Eravamo distanti, pochi i. Quella stessa distanza venne coperta, in un breve battito di ciglia.
Giunti davanti all’altro, ci fissammo negli occhi. Mormorai un “scusa” ancora, ma questo mi si blocco in gola.
Eravamo vicini, le mie scarpe scivolarono via dalle mani di Sophie. Caddero a terra rimbalzando una volta. Ma che stava succedendo? Quale senso dare all’elettricità dei nostri fugaci sguardi, o il fatto che ero felice. Quando le sue labbra sfiorarono le mie.
Duro appena un secondo. Ad occhi chiusi, poi gli aprimmo.
Ci guardammo negli occhi, non capendo le intenzioni dell’altro. Figuriamoci le nostre. Era un casino.
Non ne parlammo ovviamente con nessuno, come se quel bacio. Non fosse voluto, da entrambi. Eppure, sotto-sotto c’era piaciuto. Sciolti da quell’abbraccio tornammo alla villa di Rupert.
Uso per prima Sophie, la carrucola. Ebbi una visione in quel momento, due ali da cherubino spuntarono dalle sue spalle. Prendeva il volo Sophie, l’angelo oramai mi aveva salvato. Aveva eseguito il suo compito, l’aveva fatto egregiamente. Ora poteva tornare, al posto che li spetta. Lassù in cielo.
Di quel bacio, non ne parlai con nessuno. Nemmeno con Rupert, ed eravamo talmente bravi nel nasconderlo. Che non capirono, i pochi sguardi assorti che ci lanciavamo. Li stessi venivano lanciati, al momento sicuro. Tanto che non vennero colti, dall’alto. Talmente bravi, a nascondere la bugia che piega l’evidenza.
Continuammo ad essere gli amici di sempre, scherzavamo, ci parlavamo
normalmente.
Anche se gli amici, non si amano a quel modo. E di certo, non volevo baciare in bocca uno fra Rupert, Frank, Arthur o John. Per lo meno, non avrei provato quel calore, quell’elettricità invadermi da dentro.
Che sensazione magica, e anche umida.
Capitolo 21;
Non capisco la direzione dei tuoi sguardi.
Qualcosa era cambiato però, entrambi non riuscimmo a stare completamente soli. C’era un forte imbarazzo nell’aria, come se da soli non potevamo più vivere. Ci guardavamo i piedi, e mormoravamo parole senza senso. Ed era divenuta talmente insostenibile, quella situazione.
Tanto da decidermi a fare qualcosa. Avevamo ancora le radioline di Arthur. Funzionavano da qualche metro di distanza, le une dalle altre. Quindi bastava, solo avvicinarsi a casa sua.
“Sophie dobbiamo parlare” parlai deciso, sporgendomi verso l’altoparlante della radiolina.
Le mie parole, sotto forma di raggi radio. Rimbalzarono sul prato, espandendosi nel portico della sua casa, poi entrando dalla buca delle lettere, infine giunse nella cameretta sua.
“vieni sul retro” rispose Sophie, sussurrava per non farsi sentire dai suoi genitori.
Non li risposi, feci solo quello che mi disse.
Ci incontrammo sul giardino nel retro, era solo un prato con una smilza staccionata infondo.
La guardai nel suo pigiama estivo rosa, ed ancora l’imbarazzo scese tra di noi. Quando la sua figura apparve, tenue nella notte, quasi senza materia. Dal biondo chiaro dei suoi corti capelli, alla fronte lattea e tonda, al naso con la punta, hai occhi azzurrini chiari, che per effetto del debole scintillio lunare e stellare, accumulavano in se quella luce bianca, come se le pupille come due entità staccate rispetto al copro, brillassero, e alla fine bruciavano dal loro interno. Mi ritrovai a fissarmi i piedi.
Sophie rimase appoggiata sulla soglia della porta sul retro, infondo ero io che dovevo parlare, sotto di qualche gradino.
“cos’è cambiato fra di noi?” gli domandai, e come in quelle situazioni.
Una parte di me, quella piccola, prendeva il controllo. Era come se io non stessi parlando, ma un’identità che era scesa nel mio corpo.
“una cosa importante, credo” rispose Sophie, e arrossi nel guardarmi.
Il fenomeno, era reso più delizioso sotto la luce influente della Luna. Alta, pallida, completa, anche con la sua parte oscura. Dio, quanto volevo afferrarla in quel momento..
“ma tu cosa vuoi? Vuoi me o cosa?” gli chiesi, stavo impazzendo dentro.
“non lo so, e tu cosa vuoi?” fu la sua risposta, indecisa.
Eravamo ad un punto morto, niente spiegazioni, niente miglioramento.
“allora, adesso cosa facciamo” dissi, disperato.
“andiamo avanti” rispose Sophie, come se ci fosse nient’altro da dire.
Ebbi la forza di guardarla in viso, furono i suoi occhi ad infondermi coraggio.
“dobbiamo andare avanti” sospirai.
Dall’uscio Sophie, mi venne affianco. Mi abbraccio cosi, girandomi il suo braccio sinistro attorno al collo. In mezzo all’oscurità appena celata, dalla Luna e stelle.
Due figure si stagliavano ritte su quel prato, abbracciati a quello strano modo. La guardai di profilo, con la Luna e tutto il resto. Qualcosa mi trattenne da darle un altro bacio. Era l’entità, che usciva dal mio corpo. Abbandonava il mio spirito, per far compagnia hai suoi simili, sotto forma di stella.
“credo di amarti” dichiarai, col cuor leggero.
Guardai la Luna, tanto che potevo trasformarmi in un lupo e ululare al suo cospetto. Sophie mi strinse più forte a se. Appoggiandosi con la testa, sulla mia spalla. I capelli corti, le profumavano di lavanda.
“non ho mai capito la direzione dei tuoi sguardi” mormoro arrendevole Sophie.
Era cosi fragile, in quel momento.
“siamo in due” gli feci eco.
“che intendi?” chiese Sophie, alzando un poco la testa dalla mia spalla.
“che alle volte mi guardi, ma e come se fissi un punto lontano. Molto distante da me. I tuoi occhi in quel momento però, guardano solo me.” spiegai.
“in quei momenti, penso” confesso Sophie, un leggero imbarazzo le colorava le guance.
E la risposta hai suoi pensieri, la capivo perfino io.
“pensi a noi” dissi, sicuro.
Fu allora che mi guardo Sophie, alzando la testa delicatamente dalla mia spalla. E mi fisso, ma non con aria sbalordita. Solo mi fisso, dura, seria.
“cos’è l’amore, quando si hanno dodici anni?” mi chiese, e su questo.
Strano da dirsi, Sophie non riusciva ha darsi una risposta. Lei che era d’intelligenza fine; incredibile.
“non lo so, e solo amore” tentai, poco sicuro di quello che dicevo.
“no, sono sentimenti maturi. Troppo maturi” disse Sophie.
Scopri che aveva ragione, eravamo troppo giovani per capirlo. E non c’era altra soluzione, se non quella di andare avanti, sperando infine di capirlo quest’amore.
“sperando che diventando maturi, possiamo capirlo” pensai ad alta voce.
“esatto”
“non sarebbe stato più facile, se me lo avessi detto prima?” la stuzzicai appena.
“era molto importante, che ci arrivassi da solo” si lascio scivolare addosso quello stuzzicata Sophie.
“intanto, dobbiamo dirlo agli altri o no” avevo già un parere sulla questione.
Volli solo sapere, quello di Sophie. Cosi almeno per essere d’accordo, ed evitare inutili fraintendimenti.
“perche farlo, stiamo andando bene con queste bugie” rispose Sophie.
“odio mentirgli, mi si stringe il cuore. Ma anche io, la penso come te” le spiegai.
“lo so che è difficile” mi diede man forte Sophie, dal tono della voce era come se stesse facendo le fusa.
“meglio che vai ha dormire, e tardi” le dissi, accarezzandole il viso, non riuscì a trattenermi dopo quelle vocali, calde e lente uscirono dalla sua tenue bocca. Cosi poi per distaccarla, dolcemente dalla mia spalla. Iniziavo ad aver strani pensieri, non fraintendetemi, nulla di strano. Solo un bacio, quella lieve sensazione nel palato, quel gusto zuccherino sulle labbra, che brucia e brucia. Era questo che più di tutto volevo.
“notte Scott” disse Sophie, sporgendosi sulla mia guancia per darmi un bacio.
“notte Sophie” di rimando, l’accompagnai sull’uscio e attesi, che si richiuse la porta alle spalle. Solo allora andai, sulla strada. In solitaria, una voce usci dalla radiolina.
“anch’io di amo Scott” era la voce di Sophie, un canto soave, una melodia che riscalda il cuore.
Con quella voce nella testa, mi addormentai poco dopo a casa mia. Sul mio letto al buio, quelle quattro parole erano molto meglio di un Carillon. Ovviamente i miei sogni ne risentirono.
Capitolo 22;
La grande battaglia.
Nel bel mezzo della notte, mi svegliai. Un sogno di concentricità paurosa. Era il sogno della mia vita futura. Originariamente, ero sposato, una bella villa. Che mi potevo permettere perche, ero un gran scrittore (ahimè, non lo sono nemmeno ora). E tutto andava sorprendentemente bene, i figli crescevano bene, senza problemi di malattie strane o incurabili. Alla fine, ero al mio funerale. Mi trovavo davanti, sull’altare di una triste chiesa. Dentro in un’urna nera, come l’ebano. Oh dio, e questa la mia fine. Ho veramente..no,sto veramente facendo ciò che voglio?
Mi feci questa domanda nella notte, grazie a quel sogno. Vaneggio nel buio, uscendo dalla finestra quel sogno. Ed entro nella mente di un’altra persona.
Andai proprio io alla finestra, accesi la lampada affianco alla macchina da scrivere. Cosi da dare un’po di luce all’ambiente.
Di nuovo mi domandai, sto facendo ciò che voglio? Sono felice, sto vivendo. Non male o bene, ma solo vivendo.
Era questione di tempo, alla fine mi sarei dato una risposta. Avrei abbracciato per l’ultima volta i miei figli, avrei baciato la mia moglie. E gli avrei sussurrato un “a presto” appena accennato. E infine capì, se avevo vissuto la mia vita. E sicuramente, racchiuso in quell’urna. Mi sarei dato risposta affermativa.
Per farlo, per far si che accadesse. Dovevo muovermi fin da subito. Iniziai con chiedermi, cosa mi sarebbe piaciuto fare.
La mattina seguente, di buon ora. Andai in città, diretto dal gelataio. Un uomo ossuto sulla trentina, mi era simpatico. Aveva quel gran sorriso, che si allargava sin alla punta del naso, quando ti accoglieva appena entrato nel suo negozio, dalla porta battente in vetro.
“oh figliolo, a quest’ora non sono aperto” mi disse, quel sorriso le arrivava, e lo giuro, fin all’inizio delle orecchie. Quei lembi staccati dalle guancie.
“lo so, che e ancora chiuso” risposi, un che d’impaziente nella voce.
“vuoi leccare dal fondo con una paletta?” mi domando egli stesso.
Questo e forse il primo stereotipo per un ragazzo della mia età, il secondo e guidare una mini moto o una macchina, il terzo; stavolta non posso dirlo con certezza, fu: andare al mare.
Alla fine il gelataio fu, gentile. Mi offri un cono gelato enorme. E quella fu, la mia prima colazione peccaminosa.
Quando usci dal retro del negozio, stavo mangiucchiando il croccante del cono. L’alba era ata da un pezzo. C’era solo un posto, dove poter attendere i miei amici. Alla casa sull’albero, quando ci arrivai. Accadde qualcosa di strano, fui
testimone di un furto. Ebbene si, quando scostai la tenda dell’ingresso. Sullo scaffale dove c’erano le scorte di cibo. Appollaiato sulla sommità, ci trovai uno scoiattolo. L’ingrato fra le due zampette, aveva un grosso biscotto al cioccolato. Lo sgranocchiava coi incisivi, con fare nervoso. Mi aveva sentito certamente arrivare, eppure da quel posto non si era mosso. Ingoio un biscotto, e ne afferro un altro. Stetti ad osservarlo, senza far nulla. Anche quando si lancio sul pavimento, ed con un balzo usci dalla finestra.
“ecco cosa succede, alla fine si subisce sempre il mal torto dato” mormorai fra me e me.
Probabilmente, quello scoiattolo in particolare, era quello a cui avevo rubato le ghiande e nocciole dalla sua tana. Ora lui si intrufolava nella mia di tana, e mi rubava il cibo. Come uno scambio di favori alla pari. Espressione si fiabesca, ma anche sosa. E nel genere fiabesco, c’e sempre una morale.
“Scotty, sei qui!” chiamo ha gran voce John, da fuori.
“Johnny, c’e l’hai ancora piccolo o stasera t’è cresciuto” gridai di rimando. In tono scherzoso, usci all’aria aperta.
Erano tutti li, sotto l’albero. Belli, i figli dell’arcobaleno. Accuditi dalle ninfee, protetti da Atlante, scortati da Pegaso, benedetti da Dio e amati da Gesù. Non sono mai stato bravo, in teologia.
Amo solo, tornare a casa. E nel buio delle strade, una luce mi aiuta a tornarci. Sano e salvo.
Ovviamente, mi beccai la mia buona dose di pugni scherzosi e grattate di capo coi gomiti.
“puzzi di gelato” osservo Frank, allungando il collo verso la mia figura.
“sentite, che ne dite se. Andiamo al mare, tutti assieme” feci, invece di rispondergli.
Furono quasi tutti stupiti, dalla mia proposta. Ed era molto assurda. A bocca aperta, rimasero i cinque a fissarmi.
“perche no, non sono mai stato al mare” disse Arthur, dilatando palpebre e sorrise scioccamente come un bambino hai quattro.
“non e stato mai al mare” aggiunsi, come a dirli che non ero l’unico ha volerci andare. Quasi li stavo pregando.
“bhè, possiamo chiedere hai miei, magari ci accompagnano. Certo che senza preavviso..” mormoro Rupert, riflettendoci.
Lo abbracciai d’istinto, perche sapevo che Rupert sotto-sotto aveva già detto di si. Ora toccava convincere gli altri, se mai ci fosse stato bisogno.
“quindi è deciso” dissi felice, e nella mia felicità inclusi i miei amici. Perfino Sophie, la sera precedente era solo un lontano, dolce ricordo.
Solo il tempo, ci farà maturare come pesche al sole. Tenere e succose.
“perche proprio ora?” domando Frank, nella sua curiosità metodica. L’unico che cercava dovunque, risposte esaustive o che almeno spiegassero, la mia proposta al di fuori di un contesto congeniale.
“perche no, scusa. Cosa aspettiamo, non vi pare che vivere sia magnifico” risposi.
Sicché, tutti mi fissarono interrogativamente. Sbruffai, dovevo essere più esplicito.
“ieri sera mi sono chiesto se, sto facendo quello che voglio. E ho scoperto di no, e mi sembra uno schifo buttar la mia vita cosi. Quindi da oggi, farò..anzi, facciamo quello che vogliamo fare. Sono gli unici anni, in cui possiamo permettercelo” aggiunsi, basto come risposta, tranne che per Frank.
“quindi, una di queste cose che volevi fare nella tua vita. Era mangiare un gelato per colazione?”
“no, certo che no. Leccarlo tutto con una paletta di plastica, dal fondo” risposi.
E fu cosi, da quel giorno iniziammo a vivere cosi. Se uno di noi volle fare questo, o quest’altra cosa. Per quanto assurda era, la facevamo.
Come correre nudi sotto la pioggia, con noi non venne Sophie per ovvie ragioni. La nudità femminile, e qualcosa da proteggere, e da non vedere con insistenza. Finirà per non piacerti più, finirai col snobbarla. E questo è, un’atroce delitto.
Oppure quel giorno al mare. Assurdo perche, era una giornata fredda e ventosa. Il mare arrabbiato, si sentiva ha metri di distanza. Ad accompagnarci, non furono i genitori di Rupert. Ma bensì, quelli di Sophie. Tanto meglio, il viaggio in macchina, fu stupendo. Cantammo ad alta voce, John e Colin non la finivano di sparar battute su battute. Si stava stretti nell’auto, eravamo in otto. Su una macchina, una semplice utilitaria. I ragazzi erano dietro, John aveva sulle gambe Arthur. Sophie invece, era sulle mie. Schiacciati nei sedili in mezzo c’erano Rupert e Frank.
Eravamo la più bella famiglia, senza parentela, ne legami di sangue. Tranne che per Sophie e i suoi genitori. Tanto che per me quella gita fuori porta, fu la mia prima vacanza famigliare.
“ragazzi, eccolo là il mare” indico con un dito oltre il finestrino Colin.
Ci voltammo tutti in quella direzione, piuttosto entusiasti. Eccolo il mare, il primo mare della mia vita. Grigio, incazzato, e solcato da onde più o meno alte.
Rispetto alla strada, era più in basso. Qua e la, alcune rocce affioravano dalla sabbia umida. Come una conca la spiaggia, si distendeva, e disegnava una parentesi tonda. Modellata a quel modo, dalle onde marine che ad intervalli
regolari, si abbattevano con rumori sordi sulla battigia. A largo non c’era nulla, solo la linea dell’orizzonte. Confondeva il mare dal cielo, lo divideva quasi di cattiveria. Cosi che anche allontanandoci dalla terra dov’eravamo nati, avremmo trovato altra terra dove poterci seppellire. Tirata, usata, sporcata, mangiata e rigettata terra. Niente cielo, solo altra terra, umile, triste terra.
Vi voglio raccontare di quella corsa, giù dalla scarpata.
Colin parcheggio sul margine estremo della strada, ove dei massi piantati li dall’uomo, bloccavano qualsiasi macchina dal cadere rovinosamente sotto la scarpata. Una sorta di linea di contenimento.
Sophie non riuscì ad aspettare ancora un’po, afferro la maniglia della sua portiera, si diede lo slancio con una gamba, si alzo dalle mie di gambe, e corse fuori. Il vento che entro, appena aperta la portiera, era cosi forte da scompigliarci i capelli. Non c’importava, eravamo euforici. E quando guardai con fare complice i miei amici, nei sedili affianco. Bastarono pochi secondi, per essere all’esterno dell’auto.
Il vento col suo ululato, volle bloccare la nostra corsa, il nostro avvenire. Ma non ci riuscì, non poteva riuscirci.
Corremmo giù dalla scarpata poco ripida, seguendo le orme di Sophie, quasi ha riva. Alle mie spalle John ululo, al vento. Sfidandolo a fare di più. E questi, avendolo sentito accetto la sfida, soffiando stancamente, non accettando la derisione.
Era il “momento”, quello in cui trovi il tuo posto nel mondo. E sai, sai che sei
venuto al mondo per vivere completamente quel momento. Ti lasci andare hai sensi, e nulla in precedenza ti ha preparato, per quell’emotività. La salsedine che ti apre il naso, la sabbia che gratta via la pelle morta dai piedi nudi. Le braccia larghe rispetto al busto, venivano disturbate dal vento. Ed le nostre grida in alto si stagliavano, contro tutto, la grande battaglia. Quella contro lo schifo del mondo, contro i suoi incubi neri. Contro l’ingiusto, il male, la morte.
Non sapevamo hai tempi, che avremmo perso comunque, e già in partenza. Il mondo gira, anche se ci sono carestie nella sua bolla. Anche quando per amore marcio, si uccide la persona amata, anche i figli non vengono risparmiati. Solo perche questa persona, vuole lasciarci. Gesto sciocco e patetico.
Corremmo in acqua, e Dio s’era fredda. Ma non ci importo, superammo i cavalloni, tuffandoci sotto di essi. Era incredibile, sentire quella forza quasi abbracciarci, e arti accanto, sentivi il tuo copro non opporre la minima resistenza alla forza primordiale del mondo.
Uscimmo poco dopo dall’acqua, infreddoliti. Ma cosi vivi. Il cuore batteva a mille, Arianna ci o gli asciugamani, nei quali ci avvolgemmo per poco.
“il primo che arriva alla scogliera, e un figo” dissi, porsi ad Arianna l’asciugamano e corsi verso la vicina scogliera.
Una protuberanza ad uncino, verso il mare. Rocce appuntite, grevi, solcate da milioni di imperfezioni.
In campo aperto io e John, eravamo i più veloci. Chissà perche rallentammo il o, lasciammo indietro Colin e Arianna. Hai loro tempi, correvano anche loro
a quel modo.
Fianco a fianco, alle persone che più hanno cambiato la mia vita. Eravamo infiniti, per sempre giovani. Dei fantasmi senza età, che ano a quel modo, correndo le generazioni andate e quelle future. Discendiamo il tempo, il giorno e la notte, con braccia a stantuffo e gambe col loro ritmo regolare pestavano a terra tutta la loro forza. Cosi come in quel momento. E correvamo e correvamo, la vita mi aveva riservato gioie stupende. Il matrimonio, figli sani e belli. Ma nulla, era cosi emozionante come quel giorno.
Una volta giunti alla scogliera sullo sfondo, Sophie inizio ha piangere. Ci volevamo assolutamente bene, un bene dell’anima, profondo sincero, totalitario. Piangeva, anche perche sapeva che le nostre strade da quel momento, si sarebbero divise.
“abbraccio di gruppo” dissi, stringendomi al copro caldo di Sophie, ne provai piacere.
Si aggiunsero poi John, Frank, Rupert e Arthur. E quel calore aumento, era dentro noi, era attorno, ci colmava, ci cantava la sua ninna nanna, tediandoci della più dolce delle canzoni.
Ricordo le molte foto che Arianna, a nostra insaputa ci fece. Quasi tutte erano stato stampate, copiate e distribuite a sei persone diverse.
Eravamo cosi giovani, cosi assolutamente felici in quelle foto. Nostalgia infame, perche ora mi fai piangere?.
Sophie era bellissima, il primo amore pre adolescenziale non lo si scorda mai. Rupert era il fratello che non ho mai avuto il piacere d’avere. John il cugino che sfidavo in gare d’atletica. Frank, l’altro cugino quello più tranquillo e molto studioso, Arthur il fratello minore che tutti vorremmo.
Gli amavo terribilmente. I loro visi scoloriti, i capelli scarmigliati, le facce poco vissute, e magre e tonde.
Non ho mai avuto amici, come quelli che avevo a dodici anni. Gesù; chi li ha?
Non ho mai vissuto un’estate come quell’anno. Iddio; perche era tutto cosi perfetto.
THE END.
10 anni dopo.
Scesi dal taxi, un’po fuori città. E dio, come quelle strade mi sembravano diverse. Perfino quelle case, erano più vecchie, e grigie. Il cemento aveva assimilato ogni cosa, in quei anni i portici in legno di quelle case. S’erano trasformati, in ingressi che dovevano rispecchiare lo stile “sontuoso”. Nel loro cemento invece, erano deprimenti, piatti come l’asfalto appena fatto.
Volli girare da solo per strada, di notte sotto i lampioni. Pensai alla vita di un tempo, e tutto quello che ne divenne poi.
Ora, vi voglio spiegare cosa m’era successo, in questi anni.
Innanzitutto non andai al collegio, dopo un anno nel quale ripetei la terza. Andai al ginnasio, molto lontano da casa. Avevo trovato, grazie ad una borsa di studio, un alloggio studentesco. Lo dividevo, con un certo Tom. Era alquanto simpatico, non hai livelli di follia di John. Di certo, non potevo nemmeno lamentarmi. In fin dei conti Tom, era un compagno di stanza, molto utile e amico. La verità e che ci coprivamo a vicenda, fra verifiche e difficili tesine di fine anno.
Mi divertì un mondo con Tom, frequentavamo molte feste. Anzi, fu lui il primo ad iniziarmi al circolo vizioso delle feste più In.
L’improbabile Tom, venne ha svegliarmi dal mio poltrire sul letto. Sebbene fosse ancora pomeriggio, stavo schiacciando un pisolino. E venne ha svegliarmi cosi: completamente nudo, con addosso un accappatoio, che in realtà non lo copriva affatto.
“su, op, op non poltrire tutto il giorno cazzo!” trillo con la sua voce baritonale, ad ogni op batté le mani.
“hmm” protestai inutilmente.
“coraggio! Ho una cosa da dirti, e non abbiamo molto tempo” prosegui l’impavido Tom.
“che vuoi? Sono stanco”
“ma le ragazze non aspettano”
“sei completamente nudo, per questo. Per caso siamo di fretta, dunque il motivo di tutto questo trambusto. Mi sfugge” feci il sarcastico, ma oramai l’improbabile Tom. Aveva tutta la mia attenzione.
Mi disse che c’era una festa, in un appartamento extra lusso, di qualche ricco figlio di papà. E di certo, non si poteva dire che entrambi non ci sapevamo divertire. Io del resto seguivo sempre l’unica massima, fare ciò che volevo e quando lo volevo. L’improbabile Tom, mi volle con se perche ero la sua spalla. O forse lui era la mia, sta di fatto che saltavamo a tempo di musica, Tom era scarso in questo. Ma riusciva alla fine ad essere più bravo di me, con la corte alle ragazze. Era specialmente per questo che ci piacevano le feste.
Appena arrivati, mi sembro una festa come le altre. Alcool, belle ragazze, cattiva
musica. Semplice routine basilare per chi va al ginnasio e, a una vita sociale normale.
Solo che non fu, una festa come le altre. La, sul balcone di quell’appartamento all’ultimo piano di quel palazzo vittoriano. Incontrai; Rachel.
Era ed è tutt’ora di una bellezza che per me e sconvolgente. La poverina era cosi sola su quel balcone, che mi avvicinai senza indugiare.
Fronte lattea, ciglia leggerissime, come i polsi minuti, l’incavo del gomito, fin sulle spalle elastiche, sorreggevano un collo che quasi non si notava, per via della bellezza del viso roseo, e due paia di occhi di un nocciola chiarissimo sofisticato per sfumatura, come del resto lo erano le guancie e il naso. Quando parlava, si affidavamo molto all’eloquenza delle mani, la frangia copriva alle volte l’imbarazzo degli occhi, o il debole pallore rosso delle sue guancie, quando li facevo complimenti piuttosto romantici.
“posso farti compagnia se vuoi” le dissi.
Lei si volto, e mi fisso coi suoi occhi screziati, limpidi. Quei suoi capelli mossi, come piacevano a me.
“non c’e ne è bisogno, tranquillo. E grazie comunque per il pensiero” rispose, aveva una calda voce.
Era cosi tenera, nella sua irrequietezza, e nel vestito che li lasciava le lisce spalle
scoperte, finendo con una gonna appena sopra le ginocchia inesistenti. Più tardi, in quella serata. Ne scopri il motivo della sua irrequietudine. La festa era quasi finita, tutti stavano tornando a casa, o nei loro dormitori.
Io del resto, ne ero francamente disinteressato. Visto che ero totalmente concentrato su Rachel. Mi stava raccontando dei suoi amori ati.
“tutti i ragazzi che ho amato, mi hanno usato come meglio credevano. Senza darmi nulla in cambio” glielo lessi negli occhi, qual’era il suo bisogno primario in quel momento. Cosa che mi adoperai subito ha fare.
“io ti darei il mio cuore, se solo bastasse ad avere il tuo amore” le risposi, in quei impeti di pura ione onnipresenti in me.
Calo il silenzio, la musica si spense. Ed io ero davanti a lei, l’avevo conosciuta da poche ore o poco più. L’avevo fatta in quel tempo ridere, insieme c’eravamo raccontati la storia delle nostre vite. Avevamo anche pianto, ma tutto alla fine si rifece a quel momento.
Rachel mi fissava, si copri il vico con le mani. Non era imbarazzo, era solo grata per le mie parole di petto, d’istinto. E per questo non se ne capacitava, del perche l’amassi.
Mi disse: “ok” dopo forse due settimane, stavamo assieme, e ci amavamo dovunque. Importava solo camminare mano nella mano, sui marciapiedi, nei giardini, nelle piazze, sui bordi delle fontane. Avevamo fatto viaggi assieme, avevamo in progressione condiviso, una tenda, poi una casa. E ora ci stavamo per sposare. E tutto procedeva, magnificamente nella mia vita.
Mamma e papà, conobbero Rachel poco dopo Natale. E non ci fu più grata sorpresa, di mio padre che approvava di buon grado il mio amore. Mamma andò in visibilio per Rachel, le due sono amiche più di quanto desiderassi. Ma che ci posso fare! Per amore si sopporta questo e altro.
A, fra parentesi ero uno scrittore. Da poco, avevo pubblicato un libro. Con la gioia di genitori, ma soprattutto di Rachel.
Eccomi qui, adesso nella mia città d’infanzia. In quei anni, mi ero tenuto in contatto con tutti. Ci scrivevamo lettere chilometriche, a vicenda. Quelle lettere piene di sentito affetto, sono rinchiuse nel cassetto centrale della mia scrivania.
Non vedevo l’ora di rivedergli, alti, qualcuno con la barba incolta. Ma soprattutto, volevo abbracciarli.
Andai a dormire in un Motel, per la notte. Dopo la lunga eggiata, arrivai alla villa di Rupert; era disabitata.
Ha quanto pare, Rupert era riuscito ha convincere il padre sul letto di morte, ha fargli restituire tutti i soldi che aveva rubato, alle altre famiglie. Ciò me lo scrisse in una lettera, che mi fece piangere per la sofferenza d’egli.
Ora la villa era disabitata, Rupert s’era adattato al cambiamento. Piuttosto bene, direi. Simon il maggiordomo andò in pensione felicemente, ogni tanto Rupert lo va ha trovare nella sua piccola villetta in campagna. Bob era diventato uno chef pluripremiato, possedeva un sacco di ristoranti in giro per il paese. In quanto alla
madre di Rupert, si era risposata con un ricco petroliere. Rupert infine, era divenuto pilota dell’aeronautica militare. In congedo perche sua moglie stava per partorire. Erano una gran bella coppia, da quello che potei vedere dalle foto che mi mandava in quelle sue lettere. Dove mi racconto, dove s’erano conosciuti. Precisamente, al ballo del diploma, Mary; sua moglie si chiamava cosi. Stava litigando, col suo pessimo ragazzo nel parcheggio scolastico. Fu un colpo di fulmine, Rupert intervenne, e fu normale l’esplosione del loro amore. Basta uno sguardo, la miccia si accende, e poi bum! E quando fa bum! C’e solo da scappare a gambe levate.
John divenne un’atleta olimpico. Aveva partecipato a qualche gara, lo vidi alla televisione. Gareggiava ancora, ed era pazzamente, sarcasticamente sposato; anche lui. Con una certa donna, al quanto sarcastica e pazza come lui. Si chiamava Rory. Conosciuta sui campi dall’allenamento, visto che i due erano formidabili corridori.
Frank divenne laureando in ingegneria aerospaziale. Uno scienziato spaziale, progettava serbatoio per gli Space Shuttle. E nessuno ne fu sorpreso.
Come il successo di Arthur, nel settore delle esplosioni. Per intenderci, quelle che si vedono in molti film d’azione. Sposati entrambi, con due donne che li riuscivano sembrerebbe a tenere ha bada.
Infine c’era Sophie, lei era uno spirito libero. Non una parola sui suoi eventuali amori, trapelava dalle sue lettere, erano quelle che più di tutte. Mi facevano rimpiangere il fatto di dover crescere per capire.
Era diventata una famosa pittrice, le sue opere erano esposte dovunque in gallerie sparse per il mondo.
Dunque, tutti ci preparavamo ad invecchiare dolcemente. Sebbene avessimo ancora ventidue anni. Sposati, con belle case, condivise coi nostri amori.
E non era che l’inizio, di un’altra fase della nostra vita.
Quella in cui, forse ci saremmo visti più spesso. Avevo uno strano sogno al liceo, quello di prendere tutti una casa, si in un’unica via. Invecchiare cosi, sporsi dallo steccato e salutare l’amico, che avevo perso, e ora l’avevi ritrovato. E poterli parlare, davanti a una bottiglia di birra. Mentre con orecchie in allarme, tenevamo sotto controllo i nostri figli.
Era un sogno ricorrente, e cosi fattibile..
Mattina presto, ero già nel bosco. Quel posto, s’era fatto più selvaggio da quando l’avevo lasciato. Vidi alcune mie trappole che avevano funzionato, ricoperte di muschio e fogliame. La natura procede, senza guardarsi attorno, cresce incontrastata dovunque. E prima che te ne accorgi e lei dentro di te, e non tu che la esplori. Sembravano giga-bozzoli, sul punto di far nascere giga-farfalle.
Prima di andare alla caverna, camminai ancora a lungo. Mi fu facile, essendo adulto ricoprire quella distanza, senza sudare o affannarmi. ai dalla radura della lavanda, era rimasta la stessa di sempre. Api, farfalle, dolcezza e spensieratezza dei tempi andati.
Diversa fu la casa sull’albero, ora era troppo piccola per contenermi. Non provai nemmeno a salirci sopra, tanto era poco stabile. Alcune listarelle erano venute
via, per la pioggia o il vento, altre erano mangiate dalle tarme o da altri insetti presenti nel bosco.
“Scott..” una voce limpida, femminile mi sorprese alle spalle.
Mi voltai, incerto. Sorpreso guardai la donna ch’era diventata Sophie. Era..era..
“sei stupenda”
L’impatto fu violento, anche l’abbraccio che ne segui. Ammortizzato forse dal suo seno. Era alta quanto me, portava una t-shirt degli Smiths abbastanza grande di taglia. Sebbene fosse magrissima, come dimostravano i jeans Levi’s stretti.
“e tu, sei quello di sempre. Gentile sino al midollo” mi apostrofo Sophie, piegando le braccia sui fianchi, sporgendosi in avanti. Dopo l’essersi sciolti dall’abbraccio.
“gli altri, sono già arrivati?” le chiesi.
“non ancora credo” rispose Sophie, la guardai meglio e da vicino.
M’immaginai l’improbabile Tom, fargli la corte. Anche io potevo farlo, ma avevo Rachel. E se non volevo perderla, era meglio non far cazzate.
Infondo era una bionda con occhi blu, difficile non innamorarsene.
“che, non ti sarai mica innamorato di me?” domando Sophie, un’po lusingata dai sguardi interessati che li avevo dato.
“no, solo..sei cosi diversa da quando avevi dodici anni” risposi, impacciato.
“hai tempi non avevo le bombette” e cosi dicendo, Sophie si strizzo il seno.
“ti assicuro che, non intendevo quello” le dissi.
“lo so..” sospiro Sophie, il suo sguardo si fece triste, calando a terra.
“c’e qualcosa che non va?” le chiesi preoccupato, dalla sua reazione.
“niente di cui tu, ti debba preoccupare” fu la sua risposta, smorzata da un sorriso.
Risistemandosi i capelli lunghi, se gli era lasciati crescere, ora le ricadevano sulle spalle dorati.
“sicura?”
“posso..chiederti una cosa?” titubante fu la domanda di Sophie.
“certo” risposi affermativo, qualunque cosa per aiutarla ha essere felice.
“ti posso baciare..”
“che?!” soffocai quasi, ha quella proposta inaspettata.
“baciare, sulle labbra”
La guardai allibito, credo sia il termine giusto per definire la smorfia del viso e degli occhi. Rimasi in silenzio, non sapendo che dire.
“io lo so di Rachel, me ne hai scritto nelle lettere che mi mandavi. Non voglio rovinare nulla fra voi. Solo che, ti ricordi cosa ci eravamo detti qualche anno fa?”
Io me ne ero sinceramente dimenticato, totalmente. Gli uomini sono cosi, sono fatti per dimenticare facilmente. Un’po come fa la Natura, dimentica i suoi guai e a via col suo moto.
Però, poi una scintilla scatto nella mia mente, scaldandomi il cuore.
“io non lo so..perche ora, non potevi chiedermelo prima. Quando non stavo con Rachel, ad esempio. O in una di quelle lettere” risposi, prendendomi il viso fra le mani.
La situazione era molto difficile, la scelta poi non ne parliamo.
“speravo che tu lo fi, che mi cercassi quando avresti capito cos’è l’amore” non c’era l’accusa nel suo tono, ne la delusione in quella frase. Quello era solo, un dato di fatto per Sophie.
Lei era li, le scarpe pestavano il terreno con le punte. Prima una e poi l’altra. Manco fosse un adolescente, al suo primo appuntamento. Ed aspetta la sua amata, dietro il cancello di casa. Col nervosismo a mille, ed il viso tendente al bianco. Sa che non può permettersi errori, tutto deve andare stupendamente. Se vuole avere qualche possibilità, col suo rinomato amore.
“non potevi chiedermi, qualcosa di più difficile” dissi, uno spiraglio fra le mie dita, libero la vista degli occhi concentrati su di lei.
“ok..” aggiunsi, calai le mani verso il basso. Presi un lungo respiro, la decisione era presa.
Presi un lungo respiro, e mi avvicinai, Sophie attese accondiscendente. Proprio come fanno le ragazze, al terso appuntamento o poco più se sei fortunato.
Ci guardammo negli occhi, con un balzo tornammo indietro. Ed io ora, stavo
baciando la Sophie ancora bambina, che avevo conosciuto. E lei stava baciando lo Scott, impaurito che aveva amato. E fu, delicato come scivolare in un sogno. Come rinascere, fu solo brusco quando ci sciogliemmo da quel contatto.
Prima avevo sentito la sua mano bambina sul mio petto, poi divenne quella di una donna. E strano, ma mi emoziono più quel bacio. Quando crebbi che fosse la Sophie bambina.
Anche lei mi disse, di aver fatto la stessa incredibile esperienza.
“ti sei messo il profumo” osservo Sophie, quando ancora le nostre facce erano vicine.
Sognavamo ancora quel bacio bambino, ingenuo, cosi delizioso.
“e solo dopo barba, anche tu un tempo profumavi solo della tua stessa pelle” risposi, dando un’occhiata al cielo.
“andiamo alla caverna, magari gli altri sono già arrivati” propose Sophie, voltandosi.
“aspetta!” dissi, Sophie si volto. Aveva fatto si e no, qualche o. Attendeva che io parlassi.
“perche mi amavi prima?” gli chiesi, e una cosa che chiedo ad ogni ragazza con
cui sono stato.
Piccola, perche mi ami?. Di solito le loro risposte, si facevano attendere. Sorridevano indulgentemente, e poi abbozzarono ha qualche breve, ma bella caratteristica fisica o di carattere mio.
Si piego, indietro e rise.
“speravo che cosi, potevo vedere coi tuoi occhi i tuoi pensieri” spiego, l’accenno d’ilarità era perche Sophie credeva fosse una cosa cosi stupida, da non poter portare ha termine.
“i miei pensieri erano normali” dissi, non c’era nulla di speciale.
“no, Scott i tuoi pensieri, le tue fantasie erano fantastiche incredibili” rispose dolcemente Sophie, alla fine della frase piego le labbra in un breve sorriso.
“andiamo dagli altri, e meglio” dissi.
“oh, scusa dimenticavo che ti danno fastidio i complimenti” rispose Sophie, quando oramai ci lasciammo alle spalle la diroccata casa sull’albero.
Non la rividi più, probabilmente sarà crollata. O alcuni bambini l’avevano trovata, come noi l’avranno messa a posto. E grazie alla mappa di Sophie, lasciata in quel rifugio come tutti i cuscini e il grande pouf, avranno la possibilità
di poter amare come noi quel bosco, come l’avevamo vissuto noi, con quel breve accenno di libertà. Solita colmare i desideri dei adolescenti, d’oggi e di ieri.
“perche tu mi amavi?” mi chiese Sophie, poco dopo.
Quando in silenzio, ci stavamo arrampicando verso il soffitto crollato della caverna. Non ci dovetti pensare nemmeno.
“mi hai dato fiducia, mi hai aiutato, sei stata cosi gentile con me. E diciamocelo, eri una bambina niente male”
“scusa?”
“si, ora con quelle rughe..non saprei. Ma prima, sicuramente si” scherzai, per questo mi beccai un leggero pugno sul braccio.
“ma vaffanculo” rispose Sophie, sapeva che scherzavo.
Eravamo arrivati, la caverna sotto di noi. Qualcuno aveva messo una scala, l’aveva appoggiata in obliquo rispetto al terreno. Visto che la carrucola, non c’era più.
La prima cosa che dissi, quando arrivai giù dietro Sophie fu:
“me la ricordavo più grande”
“già, ora sembra un loculo” alle mie spalle spunto un certo Frank, con la barba incolta e tutta la sua figura dinoccolata.
L’abbracciai vigorosamente.
“ok, ok ora tocca a me” venne fuori anche John, abbracciai anche lui.
Poi fu il turno di Sophie, abbraccio entrambi come vecchi amici.
“dio come ti sei alzato” esclamo Sophie, quando tento d’abbracciare John.
Li arrivava al petto, come io del resto.
Imbarazzato John da quella osservazione, mormoro qualcosa che voleva significare: “ho mangiato, sano in adolescenza”
“si, ci ricordiamo quasi tutti come mangiavi hai tempi” l’apostrofo Frank.
Un tempo John, per quell’affronto ha viso aperto. Avrebbe decretato il via alla “secchia per Frak”. Ma ora i tempi dei giochi erano finiti. Grugnì solamente, all’indirizzo di Frank.
Iniziammo a raccontarci, ciò che non ci eravamo scritti in quelle lettere.
Intanto ci guardammo continuamente intorno, ricordavo che mi sembrava immenso l’Atrium, perfino la distanza dal soffitto. Ora ricoperto da una scala di metallo, di un metro appena.
Aspettammo per poco tempo, Arthur e Rupert apparire dal buco del soffitto, per poi scendere dalla scala.
Ed eccoci qui, tutti invecchiati un poco, cresciuti, sul punto di sposarci. Qualcuno di noi pianse, non vi dico chi. Altri nascondevano il tutto con qualche risata imbarazzata.
La prima cosa che dissi a Rupert fu:
“hai un’aria di merda, fratello” le sorrisi, goliardico.
E egli mi abbraccio, dandomi pacche sulle scapole. Il viso da tondo, s’era fatto più affilato. Era di fisico prestante, non hai livelli muscolari di John, ma poco ci mancava.
“senti chi parla, vecchio fratello” di rimando Rupert, ridemmo spensierati.
Arthur era ancora quello più basso della combriccola.
Parlammo per tutto il giorno, e fu veramente come tornare bambini.
Con le nostre chiacchiere, le risate, i nostri piani, gli aquiloni, la piscina.
Forse la vita non fa cosi schifo, lo è solo il fatto di crescere, divenire adulti, per poi morire ha qualche scopo? Per essere felici prima, poi ci attenderanno anni di sofferenza, l’andirivieni all’ospedale?
O forse non smettiamo di crescere mai. E rimaniamo cosi per sempre.