Il Ponte Del Diavolo 5b1v2i

Titolo | Il ponte del diavolo

Autore | Alberth Mayhem

ISBN | 9788891160232

Prima edizione digitale: 2014

© Tutti i diritti riservati all’Autore

Youcanprint Self-Publishing

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www.youcanprint.it

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Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

Alberth Mayhem

Il Ponte del Diavolo

Romanzo

Il Ponte del Diavolo

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Copyright, Notizie Legali ed Esonero di Responsabilità

Titolo | Il Ponte del Diavolo

Autore | Alberth Mayhem

Prima edizione digitale dicembre 2013 vers.1.0

Seconda edizione digitale settembre 2014 vers.1.1

eBook realizzato da Alberth Mayhem

© 2014 by Alberth Mayhem

Proprietà letteraria e artistica riservata in tutto il Mondo

Foto di copertina, retrocopertina e progetto grafico © 2014 by Alberth Mayhem

Alberth Mayhem è lo pseudonimo dell’Autore Alberto Msiano

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Durante la stesura del libro non sono stati maltrattati animali.

Il romanzo “Il Ponte del Diavolo” è un’opera di pura fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto della fervida immaginazione dell’Autore o, se reali, sono utilizzati in modo del tutto fittizio. Ogni riferimento a cose, luoghi, fatti realmente accaduti o persone viventi o scomparse è da ritenersi del tutto casuale e comunque non riferibile alla volontà dell’Autore.

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www.ilpontedeldiavolo.net

Il Ponte del Diavolo

A Michela, mio Eau de Parfum,

dolce di testa, intensa di cuore

e speziata di fondo.

1

Il ritmo incalzante dei bassi, proveniente da un vecchio impianto audio, riempie la taverna adibita da tempo a palestra. Pare quasi che la pressione sonora di quel cupo bum–bum-bum, caratteristico della musica techno, voglia cacciar fuori l’odore umido e stantìo della fatica.

Frrrr, frrrr, frrrr. Rebecca sta completando il suo programma di allenamento al vogatore. Lo possiede da un paio d’anni, da quando cioè è riuscita a comprarsene uno usato insieme ad un piccolo corredo di attrezzatura ginnica. La gente adora acquistare armamentari all’ultimo grido per tenersi in forma tra le mura domestiche, salvo poi svenderli impolverati quando le cantine diventano troppo sature. Non potendo permettersi l’abbonamento costante ad una palestra tradizionale, Rebecca ha approfittato delle svendite nelle cantine. E’ orgogliosa della sua “sala torture”, come la definisce scherzosamente sua madre, perché l’ha attrezzata completamente da sè con i risparmi frutto di qualche lavoretto svolto durante gli studi universitari.

«REBECCA! HAI FINITO DI ALLENARTI? Vieni su che è quasi pronta la cena!»

Veramente avrei ancora le ultime due serie da cento metri e un po’ di defaticamento, pensa tra sé Rebecca prima di rispondere «HO QUASI FINITO MAMMA!»

Dal piano superiore Luisa, la mamma di Rebecca, prosegue urlando il copione che va in scena quasi ogni sera. «CHIAMA A CENA ANCHE TUO PADRE!»

«Diamine, ma vai fuori tu a cercare tuo marito!»

«COS’HAI DETTO? NON CAPISCO CON QUEL BACCANO DI MUSICA! »

«HO DETTO CHE VADO SUBITO, cavolo!»

Dieci minuti dopo, Rebecca si aggira nell’ampio cortile fra le serre edificate accanto alla casa, con la speranza di trovare il padre in quelle più vicine.

«Beccata!» La voce di Giordano, il padre di Rebecca, pare essersi materializzata alle sue spalle senza farsi annunciare da nessuno scalpiccío premonitore.

«Papà! Mi hai spaventata, non ti avevo sentito.»

«Sfido io, con tutti i ventilatori accesi come potevi sentirmi?» Dopo una sbuffata di pipa aggiunge «tu piuttosto, con quel fare guardingo, cosa credevi di rubacchiare qui? Guarda che ti ho vista prendere una manciata di ribes.»

«Si dà il caso che abbia appena finito l’allenamento e debba integrarmi con le vitamine.»

«Integrati bene, mi raccomando, che domani mattina mi devi dare una mano a caricare il camion.»

Rebecca lascia cadere nel vuoto l’allusione al compito che l’aspetterà l’indomani e prosegue, «beh io vado a cena papà, tu se vuoi rimani pure qui a tenere a bada i ladri di frutti di bosco.»

«Finisco il tabacco e arrivo.»

Un invitante profumo di pollo al curry e olive pervade la cucina di casa Carinci, arrossata dal sole che garbatamente accarezza le pareti e i mobili bianchi prima di coricarsi per la notte.

Rebecca, ingollando l’ultimo boccone della sua cena, afferra il telecomando e aziona il mute del televisore.

«Papà, io domani mattina sarei un po’ stretta coi tempi. Non posso aiutarti a caricare il camion.» Continuando a fissare il piatto ormai vuoto prosegue, tradendo un impercettibile tono di delusione, «domani avrei il colloquio con la banca. Te lo ricordavi, vero?»

«Ah…certo! Sì, è vero…vedrai che andrà benone.»

«Papà! Te lo eri scordato, non tentare di ingannarmi, dài.»

«Hai ragione, scusami, me ne ero dimenticato. Comunque è alle dieci, no? Avresti tutto il tempo per darmi una mano.»

Scorrono troppi secondi di silenzio premonitore, Luisa li riconosce ed emerge dalla schiuma delle pentole nel lavello fissando i due, in attesa della tempesta verbale che prevede scatenarsi da Rebecca verso suo padre.

«Ma dove vivi papà? Scendi dalla luna! Siamo col culo a terra grazie alle tue splendide intuizioni commerciali! Domani ho una possibilità di avere un lavoro e, sebbene sia quasi impossibile che me lo diano, voglio evitare di arrivare trafelata, spettinata e magari con gli aloni sotto le ascelle! E detto tra noi, un lavoro vorrebbe dire uno stipendio! Dinero! Biglietti pregiati! Lo capisci vero che ci darebbe un po’ di ossigeno?!»

Giordano accusa il colpo, fissa Rebecca, non replica. Con espressione colpevole chiede alla sua unica figlia di non infierire ulteriormente.

Luisa ritorna nella schiuma con sollievo pensando che sarebbe potuta andare peggio.

Rebecca, con tono più accomodante, sèguita, «piuttosto papà, dài una parvenza di pulizia al Fiorino che, se non ti dispiace, dovrei usare per andare al colloquio visto che è l’unico mezzo di cui disponiamo.»

2

Ore nove e quarantacinque del giorno successivo. Un furgoncino bianco con una leziosa insegna “Carinci Frutti di Bosco – Coltivazioni Bioecologiche” viene fatto are nel parcheggio riservato della Walser Privatbank AG. Nonostante i diversi posti liberi vicino all’ingresso dell’imponente edificio in stile littorio, il veicolo si infila in uno stallo esageratamente distante dall’entrata. Appena il motore si arresta, ne esce una ragazza minuta che si avvia con piglio deciso verso la guardiola, avvolgendo sottobraccio una cartellina nera.

Due operai, alle prese con la sistemazione di un tombino, non fanno nulla per mascherare un istintivo sguardo famelico verso quell’invitante paio di gambe slanciate dai tacchi alti e fasciate fino al ginocchio da un tubino in viscosa color antracite.

La ragazza si annuncia alla reception, «buongiorno, mi chiamo Rebecca Carinci e ho un appuntamento per le ore dieci con il dottor Mario Perozzi.»

«Si accomodi pure su quelle poltrone, ora lo avviso,» risponde cordiale l’addetto.

Cazzo! Cazzo! Cazzo! Sono troppo agitata, le gocce non stanno facendo effetto. Dovevo prenderne il doppio. Respira profondamente, respira profondamente, diamine! Tanto sei in anticipo e ti faranno aspettare chissà quanto. E poi sei perfetta no? Taglio e tinta fatti l’altro ieri, trucco leggero effetto acqua e sapone, tubino professionale, niente pendagli vistosi, unica concessione alla femminilità le decolletè Brian Atwood. Speriamo non si accorgano che sono imitazioni. Dài che sei la migliore! Devo solo decidere se recitare la parte della santarellina,

della simpaticona o…

«La dottoressa Carinci?»

La ragazza tutta compunta, accovacciata su una poltrona che potrebbe ospitare almeno due persone della sua taglia, trasale visibilmente. Gli occhi, fino a quel momento chini sulla cartellina nera, scattano in direzione della voce inquisitoria ma tutto sommato gradevole che l’ha chiamata, mentre una mano sinuosa decolla velocemente a pettinare la frangia del caschetto nero, finita un po’ troppo sugli occhi.

«Sì?»

«Molto lieto, sono Mario Perozzi, responsabile Mercati Emergenti.» La grande e molle mano del dottor Perozzi stringe morbidamente quella esile ma fortemente innervata di Rebecca che è scattata all’impiedi.

«Piacere mio, Rebecca Carinci.»

«Si sente bene?»

«Chi io? Sì si, mi scusi ma ero sovrappensiero e mi ha colta di sorpresa.»

«Stia tranquilla che di norma qui non mangiamo nessuno. Almeno finchè ci portano soldi. Ah ah ah!» ride accomodante il dottor Perozzi.

Rebecca cerca di riscattare la falsa partenza rispondendo con fermezza all’ironia, «attenzione allora ad eventuali bocconi avvelenati.»

«Però, che schiettezza, dottoressa Carinci! Lo sa vero che sono già in modalità “selezione ON” ?» risponde serio il dottor Perozzi.

Dannazione! Questo è uno quadrato. La simpaticona non va bene, ripieghiamo sulla santarellina. L’espressione smarrita della ragazza manifesta chiaramente che avrebbe voluto essersi morsa la lingua un attimo prima.

«Scherzo eh, signorina. Diciamo che finchè non saremo arrivati nel mio ufficio, manterrò disattivata la modalità selezione, ok?»

Un accenno di sorriso disegnato da due labbra carnose e impreziosite da un leggerissimo velo di lucidalabbra si delinea sul volto di Rebecca, mentre i suoi occhi scuri scrutano in profondità il volto apparentemente bonario del selezionatore, quasi a volerne carpire in pochi secondi l’essenza più intima. Mi sbagliavo, non è proprio quadrato quadrato, facciamo una via di mezzo tra santarellina e simpaticona, speriamo di imbroccarla ’stavolta.

«Mi segua, prendiamo l’ascensore e saliamo. Mi fa piacere vederla finalmente sorridere dopo che l’ho fatta trasalire. Anzi, mi scusi se l’ho colta di sorpresa quando era in sala d’attesa.»

L’ascensore è ampio almeno il doppio di quello degli ospedali, tutto foderato in legno, forse radica. Decisamente radica, sembra la pipa di papà.

«A cosa pensava in particolare, prima?»

«Ad essere sincera niente di speciale, immaginavo di dover aspettare un bel po’ visto che ero in anticipo, tutto qua.»

La mano sinistra di Rebecca si appoggia delicatamente sulla superficie lucida e fredda della radica. «Sarà pur lussuoso questo rivestimento ma secondo me è più adatto ad un casinò di Las Vegas degli anni Cinquanta che ad una banca.» Ma dove guarda questo dottor Perozzi? Omioddio! Proprio non lo capisco, attiro l’attenzione sulla mia mano da futura bancaria ultraprofessionale, unghie né corte né lunghe con smalto neutro e anellino discreto, e lui ne ha approfittato invece per sbirciare nella camicetta? Ok, niente santarellina-simpaticona, viriamo su simpaticona-svenevole.

«Mi permetta, dottoressa, ma si era candidata ai Mercati Emergenti o al Marketing, data questa propensione all’interior-design?»

Con due occhi da cerbiatta, Rebecca fissa il suo possibile stipendio fisso mensile e suadente replica «sto seguendo lei no?! Il gran capo dei Mercati Emergenti.»

Dlin.

Le porte scorrevoli si aprono. La targhetta, appesa sulla porta in fondo all’ampio atrio, rivela che da là in poi il gioco si farà serio. Gli undici decimi le permettono di leggere distintamente infatti “dott. Perozzi Mario – Area Mercati Emergenti”, nonostante la porta dell’ufficio stia ad una decina di metri.

Introdotta nell’ufficio, Rebecca guadagna l’unica sedia imbottita posta di fronte all’ampia scrivania direzionale, ingombra di carte e fascicoli che sommergono un laptop e un telefono.

Il dottor Perozzi è in piedi, gambe larghe, mani intrecciate dietro la schiena, sguardo rivolto oltre l’ampia finestratura che dà sul cortile interno.

«E così suo padre produce frutti di bosco?»

«…?» Silenzio interrogativo da parte di Rebecca.

«E come sono, buoni?» prosegue continuando a darle la schiena.

Quello era più o meno il ventesimo colloquio di lavoro che Rebecca affrontava e ormai era avvezza e preparata a tutte le domande e idioti giochini psicologici cui veniva di volta in volta sottoposta. Aveva anche seguito un corso di programmazione neurolinguistica per metterla in quel posto proprio a quei selezionatori che si illudono di vivisezionarti in base alla postura, al tono di voce, allo sguardo e a tutto quel mucchio di cazzate. Però quella domanda, apparentemente buttata lì a casaccio da un tizio che parla dandoti la schiena, la spiazza.

«I migliori. Sono indubbiamente i migliori di tutto il nord-est,» spara con fierezza. Un tiè! le rimane invece soffocato in gola, producendo fortunatamente un suono gutturale incomprensibile.

«Come vede dottoressa, la mia postazione dà sul cortiletto interno. L’aver fermato il furgoncino volutamente lontano dall’ingresso, nonostante i molti posti liberi vicino alla guardiola, rivela che lei, consciamente o inconsciamente, tenta di nascondere qualcosa.»

Ma pensa te, ora lo strozzo. «Con tutto il rispetto, dottor Perozzi…»

«Mario, mi chiami pure Mario.»

«…dicevo…con tutto il rispetto…Mario…no, non mi riesce di chiamarla per nome, mi scusi. Ci siamo incontrati per la prima volta cinque minuti fa. Tolgo il dottore e la chiamo Perozzi, ok?» Il dottor Perozzi rimane imibile mentre Rebecca prosegue con una leggera concitazione, «sono stata convocata dalla banca per un reciproco colloquio conoscitivo, e sottolineo re-ci-pro-co. Se mi ha convocata ne deduco che abbia giudicato valido il mio curriculum. Pertanto credo che dovremmo parlare del lavoro, piuttosto che di mirtilli, furgoni e di dove io abbia parcheggiato.»

Rebecca attende un cenno dal selezionatore mentre questi invece se ne sta là, eretto come un gigante stoccafisso appeso, così lei riprende la parola, «eppoi, insomma, chissà quante persone sta valutando in questo momento, per un unico posto. Diciamo che mi imbarazzava parcheggiare un vecchio Fiorino sgangherato accanto a tutte quelle Mercedes e Bmw ultimo modello. Va bene come risposta per i suoi giochetti da strizzacervelli, Perozzi?»

«Bene? Direi benissimo. In pochi secondi il tono di voce di una bella ragazza di provincia ha sollevato la sua maschera di apparente sfrontatezza mostrando un’indole molto sensibile e forse anche un po’ schiva, rivelando che se serve sa

comunque tirar fuori le unghie. Ciò rivela un conflitto irrisolto in lei.» Perozzi piroetta la sua mole sulla poltroncina dirigenziale oltre la scrivania snocciolando il risultato della sua analisi, «con una cura maniacale della persona e dell’abbigliamento, uniti a una gestualità volutamente ammiccante, vuole accaparrarsi a tutti i costi questo benedetto posto di lavoro…»

«Ma come si permette!» lo argina Rebecca indispettita.

«…e con quest’ultima mia provocazione, che io chiamo di livello uno, quindi molto bassa, esplode il suo senso di inferiorità represso. Lo fa con una discreta aggressività che, se liberata più spesso, a mio avviso le sarebbe di gran giovamento.»

«Senta, non volevo aggredire nessuno. Indubbiamente lei sa il fatto suo, se è convinto delle sue impressioni non sarò certo io a cambiargliele. Comunque non è che voglia questo lavoro a tutti i costi. Come le ho già rammentato, la lettera di convocazione parlava di “favorire una reciproca conoscenza”. Per cui io mi sono recata qui certamente per farmi conoscere, ma soprattutto per conoscere voi.»

Il sorriso compiaciuto di chi la sa lunga si disegna sulla mimica di Perozzi, «mai giocato a poker, dottoressa?»

«…?»

«Non risponde?»

«Non capisco cosa c’entri il poker…comunque è capitato.»

«Com’è l’azienda? La migliore di tutto il nord-est anche quella?»

«Come scusi? Ma di quale azienda parla, della banca?»

«Nossignora. Mi riferisco alla “Carinci Frutti di Bosco di Carinci Giordano e Ci Esse Enne Ci”. Come va?»

Questo gioca sempre più sporco, sta cercando deliberatamente di disorientarmi attaccandomi su più fronti, ma dove diavolo vuole arrivare?

«Cara dottoressa, è molto abile a bluffare, lo riconosco, ma prima di fregare Mario, o il Perozzi come vuole chiamarmi lei, ce ne vuole. Crede che basti venire qui tirata a lucido, lanciare languidi sguardi e accavallare un bel paio di gambe, tra l’altro da copertina, per avere il posto? Dimenticavo, e ostentare anche un paio di eleganti scarpe firmate, in modo da far percepire un certo status? Eh no!»

Il dottor Perozzi, abbandonandosi allo schienale, alza le mani al cielo ed esclama al soffitto «benedetta gioventù!» seguitando all’istante «le mie informazioni rivelano che le acque in cui naviga l’azienda di papà sono, come dire, agitate.» Poi, ergendosi in piedi in tutti i suoi centotrenta chili di vita sedentaria e deliziosa cucina, si porta lentamente davanti alla scrivania, appoggia le natiche sul piano in nobilitato di quella che fino a un istante prima pareva essere la sua trincea e, con fare quasi paterno, esclama «ragazza mia, la tua preparazione è ineccepibile. Ventiquattro anni, maturità e laurea col massimo dei voti, senza fuori corso. Stage estivi di lingua inglese, tedesca e russa all’estero. Buone doti

di quell’arte chiamata “sapersi arrangiare” coltivata con lavoretti vari. Buon eloquio, ottima presenza. Sei la migliore candidata finora.» La grande e calda mano di Perozzi si appoggia sulla spalla di Rebecca, risale strusciando le dita fino al collo, per poi sfiorarle maliziosamente il lobo dell’orecchio, «e non sei affatto nella posizione di poter fare la schizzinosa con me. Di questi tempi farebbe molto comodo a casa il tuo stipendio. Dico bene, chéri?» le sussurra all’orecchio, cingendole sfacciatamente la nuca con ormai entrambe le mani sudaticce e sfidando l’espressione fattasi tèrrea della ragazza.

Perozzi va in bagno, eccitato come un adolescente foruncoloso alla prima festina di Capodanno fuori casa, quella festina che si ricorda per tutta la vita in quanto non ci sono genitori e verranno finalmente anche le ragazze. Pensa a quelle gambe da copertina, alle labbra turgide, a quel corpo fresco, minuto ma sinuoso, innervato e ben proporzionato, al profumo inebriante, dolce di testa e speziato di fondo, al portamento fiero e per certi aspetti provocante per nascondere sbrecciati avamposti di timidezza…Uuuh! Da saltarle addosso!

Tutto quel turbinìo di sensazioni, con sullo sfondo la consapevolezza di tenere il coltello dalla parte giusta, lo portano a socchiudere gli occhi per alcuni piacevolissimi istanti e dare briglia sciolta alla mano insieme a lascive fantasticherie, liberarando così le pulsioni sapientemente celate fino a quel momento. «Ahhhh, ahhhh, siii.» Un rantolo quasi impercettibile disperde un lussurioso orgasmo onanistico in quel metro quadrato di estrema privacy che può diventare la turca di un cesso di servizio.

Il dottor Perozzi esce dalla toilette con le gote un po’ arrossate e un sorriso tra l’ebete e il soddisfatto stampato in faccia nel pregustare i sublimi piaceri che nei prossimi mesi quel succoso bocconcino sui tacchi alti verrà obbligato a dispensargli. Fa capolino in ufficio con la fronte imperlata e lucida, Rebecca è rimasta inchiodata nella stessa posizione di cinque minuti prima, pallida, in trance.

«Dottoressa! Il posto è suo. Caffè?»

3

L’ultimo podcast del deejay olandese Armin Van Buuren martella nel cervello di Rebecca mentre corre sulle colline sopra Manzano. Ha bisogno di non pensare, di stordirsi, di sentirsi forte. Sta tenendo un’andatura elevata. Sui sei chilometri ha già migliorato di venti secondi rispetto a due giorni prima.

Concentrati sul ritmo, sulla respirazione, sulla falcata. E’ questo quello che ci vuole ora!

Arrivata sulla sommità di una collina, nel punto più panoramico del percorso, l’iPod smette di vivere.

Dannato Steve Jobs! Con tutti i miliardi che hai, potevi fare un mp3 con più batteria, no?

Rebecca si ferma, strappa dalle orecchie le cuffiete ormai mute e umide di sudore. Abbraccia con lo sguardo la distesa della pianura friulana sotto di sé. Respira ansimando. Dopo alcuni secondi urla con tutto il fiato che ha nei polmoni: «MONDO DI MERDA!» Poi scoppia in una risata isterica e riprende a correre con un ritmo forse ancora superiore.

Mi sto spaccando i polmoni! Ma tanto questa sera salto l’allenamento con i pesi.

L’aria immobile di fine agosto sembra quasi fresca a quell’andatura. Lungo

l’ultima discesa, la strada lambisce la lussureggiante magione dei De Dietrich, ricchi imprenditori nel settore delle costruzioni. Ostinatamente la ragazza non accenna a rallentare, nemmeno giù per il forte pendio. Ogni volta che il piede rimbalza a terra, Rebecca avverte una scossa, quasi una fitta ai tendini delle caviglie. Segno che oggi ha forzato troppo, ha corso di rabbia con i muscoli contratti.

Dai piedi della collina sta saledo un grosso SUV che sterza nel vialetto privato dei De Dietrich tagliando maldestramente la strada a Rebecca. La ragazza, colta di sorpresa, tenta di evitare il mezzo. Ci riesce ma per una combinazione data dall’affaticamento, dalla velocità e dal brecciolino sul ciglio della strada, scivola nel poco profondo fossato che costeggia la banchina.

Dal fuoristrada, fermatosi immediatamente, scende con stizza la conducente, elegante e altèra dietro un paio di Gucci da sole brillantinati.

«Signorina! Si è fatta male?»

«Beh…fortunatamente non molto direi…qui nel fosso c’era un po’ d’erba che ha attutito la caduta.»

«Sia chiara, si è fatta male o no? Se sta bene io proseguo oltre, che ho altro a cui pensare.»

Rebecca, ranicchiata nel fossato, le urla «ma vuole che la prenda a sberle? Mi ha quasi investita e mi tratta a questo modo?»

«Lei, come pedone, avrebbe dovuto tenersi sul suo lato sinistro. Comunque ammetto di aver valutato male i tempi, mi sembrava lontana…Su, afferri la mia mano che l’aiuto a risollevarsi.»

Questa sarebbe l’irragiungibile signora De Dietrich, perenne puzza sotto il naso, milioni che le grondano dalle orecchie…Ora come ora preferirei avere dei genitori come questi: pezzi di merda ma ricchi da fare schifo. Almeno oggi avrei potuto mandare a quel paese quel Pirlozzi Perozzi senza alcuna remora per la perdita di un misero stipendietto.

«Sto abbastanza bene, credo di avere solo una botta sul fianco ma erà.»

E’ la prima volta, in tanti anni, che Rebecca viene a contatto con un membro di quella facoltosa famiglia. Merito, o colpa, della differenza di ceto che ovviamente ha impedito a entrambe di frequentare ambienti comuni.

La innaturale vicinanza delle due donne, data da quella breve presa tra due mani così diverse, costringe di fatto la signora De Dietrich a guardare in viso Rebecca, abbassandosi al suo livello.

«E’ di qui? Del paese?»

«E brava la nostra indovina! Un dono di natura da tenere in gran conto!»

A quella risposta sardonica la signora rimane interdetta. Rebecca prosegue «le sembro ironica? Beh, lo sono. Stavo correndo, quindi ero a piedi, quindi è

difficile che fossi arrivata da Milano o da Bòston, le pare? Ops scusi, ora mi sono ricordata che lei non mi aveva vista bene. Mi guardi con attenzione, vede che non ho il macchinone sotto di me? Né le ali dietro la schiena? Secondo lei di dove potrei essere, se non di qui?»

«La sto osservando, infatti, e il suo viso non mi è nuovo, i suoi occhi hanno un che di familiare, per questo le ho chiesto di dove fosse.» Il tono di voce della signora ha perso le spigolosità iniziali, acquisendo curiosità mista a sorpresa.

Ma guarda questa, pochi istanti fa mi avrebbe lasciata nel fosso e ora sembra quasi che io le interessi.

«Sono di qui, ci vivo dalla nascita, però è impossibile che ci fossimo già incontrate prima d’oggi. Penso dipenda dal rango, dagli ambienti che frequentiamo che per forza di cose non sono gli stessi.»

«Sì, cioè no, non era a questo che volevo arrivare. La sensazione è quasi di averla già conosciuta, oltre che di averla già vista. Non so, sarà lo sguardo, gli occhi, fa niente, scusi. Anzi mi scusi per tutto, ero un po’ distratta. Sto vivendo una fase molto delicata della mia vita…ma questo a lei non può minimamente interessare, quindi non mi voglio autoassolvere.»

«Tutti abbiamo le nostre preoccupazioni, piccole o grandi, sono l’antidoto contro la noia di vivere. Mettiamola così: vede a terra le nostre ombre lunghissime che scendono a valle? Ecco, di conseguenza dedùco che abbia avuto il sole negli occhi e questo le abbia impedito di notarmi per tempo. Quindi accetto le sue scuse. Ora vado.»

«No, aspetti! La riaccompagno a casa, almeno.»

Rebecca ormai nel vento si limita solo a un «sto beneee» che si disperde giù per la collina.

La signora De Dietrich rimane per alcuni istanti a fissare la ragazza che sta correndo con la velocità e l’eleganza di una gazzella giù dalla discesa. «Eppure quegli occhi li conosco.»

4

«REBECCA! VIENI SU! LA CENA E’ PRONTA.»

«Arrivo mamma, qualche minuto che mi faccio una doccia veloce.»

Rebecca entra in cucina con i capelli ancora umidi, portando con sé l’aroma dello shampo al fiore di tiarè.

«Va bene che oggi sei la festeggiata, ma farsi desiderare per quasi mezz’ora…»

«Scusa mamma, ma ho avuto un contrattempo e ho dovuto rallentare un po’. Ma cosa si festeggia?»

«Il tuo contratto di lavoro, che altro?» precisa Giordano.

«Papà, mi hanno presa per due mesi di prova. Solo alla fine, se tutto sarà di loro gradimento, mi confermeranno con l’assunzione. Comunque avete ragione, possiamo festeggiare visto che il periodo è retribuito.»

Mentre serve l’antipasto a base di burgul, Luisa esclama «vorrà dire che, se ti confermeranno, festeggeremo di nuovo tra due mesi.»

Finita la cena, a metà fetta di Saint Honorè, Giordano se ne esce con «ma praticamente cosa farai in banca? Da quello che ho capito non sei una cassiera, giusto?»

Rebecca temeva quella domanda, anticamera di ulteriori interrogativi sull’ambiente di lavoro, sui colleghi e sul capo. Il preludio che avrebbe potuto portarla su un terreno molto scivoloso su cui avrebbe preferito non avventurarsi, visto che aveva già deciso di tenere per sé il fatto che il dottor Perozzi pareva avere tutte le intenzioni di sfruttare le difficoltà economiche della famiglia per approfittare di lei. Non aveva ancora deciso come comportarsi al riguardo ma preferiva vedersela da sola senza caricare i genitori di ulteriori preoccupazioni. Cerca pertanto di mantenere un certo contegno rispondendo con relativa tranquillità, «papà, è molto semplice, sto in un ufficio in cui investiamo i soldi dei clienti. Di quei clienti che vogliono rendimenti alti, accettando anche possibili perdite alte.»

«Praticamente gente che ha tanti soldi da poterne buttare un po’?»

«Grosso modo è così.»

«Beh, se ne conoscerai qualcuno direttamente, proponigli di investire nella mia azienda. Investimento rischioso, però in prospettiva il biologico sarà un settore di sicuro sviluppo. Se lo trovi, ti becchi anche la provvigione.»

«Papà, per favore! Quelli investono in mercati emergenti che si chiamano Cina, Russia, Brasile e via discorrendo. Paesi con ritmi di crescita elevati. Il tuo ritmo di crescita è così elevato che le banche ti stanno chiudendo i rubinetti.»

Interviene Luisa. «Rebecca! Non rivolgerti così a tuo padre, non ne hai il diritto! Piuttosto, per cambiare discorso, parlaci dei tuoi colleghi. Mi auguro che il clima non sia da classico ufficio con segretarie pettegole, che non fanno altro che pugnalarti alle spalle per metterti in cattiva luce coi superiori per poter fare carriera.»

Rebecca d’istinto sta per rispondere “magari!”, ma riesce a trattenersi e uscirne indenne, «no mamma, niente arrivismi esasperati. L’area, il reparto, in parole povere, è formato da una decina di persone. Io sostituisco l’assistente del capo.»

«E’ in maternità?»

«No, almeno non credo. In quel caso mi avrebbero fatto affiancare da lei per un periodo.»

Giordano, per scacciare quel velo di tristezza che gli ha suscitato l’infelice provocazione di Rebecca, alza il bicchiere ed esclama «al tuo nuovo lavoro!»

Tlin, tlin, tlin. Gli sguardi si intrecciano mentre i bicchieri si scontrano con garbo.

«Scusami papà per quello che ho detto prima, comunque un finanziatore, seppur piccolo, lo hai di fronte a te. Almeno per i prossimi due mesi avrò un’entrata e, per poco che sia, potrò darti una mano.»

Gli occhi di Giordano si inumidiscono, si alza e va a stringere a sé la sua bimba che ricambia l’abbraccio con almeno pari intensità. Anche Luisa si unisce cingendo il marito e la figlia. Con una lacrima che le riga la guancia sussurra «ce la faremo ad uscirne, se teniamo unite le nostre forze, ce la faremo.»

Per qualche istante, Rebecca sente che il boccone che ha ingoiato in mattinata è stato temporaneamente ricompensato da questo momento di fragile ottimismo esternato dai suoi. In mezzo a queste considerazioni si chiede però se riuscirà a reggere i prossimi giorni, viste le non rosee premesse al lavoro.

5

«Buongiorno Mario, questo è il dossier che hai chiesto ieri. Se qualcosa non ti è chiaro, sono di là.»

«Grazie Evi. Ah senti, hai conosciuto la mia nuova assitente? Ti presento la dottoressa Rebecca Carinci.»

«Rebecca, questa è la dottoressa Evelina Brondani, è il capo dell’area promotori, nonché vicedirettrice della banca e praticamente…lo posso dire Evi?»

«Dì pure quello che ti pare, tanto poi ne rispondi.»

«Ecco, dicevo, praticamente il suo compito è di frustare i promotori finchè non portano in banca il budget mensile.»

«Che carino! Questa mi mancava, Mario.»

«Molto piacere dottoressa Brondani,» esclama Rebecca trattenendo a stento una risatina e contemporaneamente alzandosi educatamente per stringere la mano a quella dirigente che cerca di cammuffare i suoi cinquant’anni suonati con capelli troppo corti e troppo platinati.

Le mani delle due donne sono ancora a contatto e Rebecca fatica a sostenere lo sguardo insistentemente indagatore della vicedirettrice. Le mani non si staccano come ci si aspetterebbe, anzi sembrano aggrapparsi sempre di più una all’altra finchè un angolo della bocca della dottoressa Brondani si piega repentinamente verso il basso, trascinando con sé la guancia e costringendola a socchiudere istintivamente gli occhi grigio ghiaccio.

«AHI! Ma porca miseria, mi ha quasi stritolato la mano!»

«Mi scusi, mi scusi tanto dottoressa Brondani, non era mia intenzione.»

«No, beh, lo credo. Solo che la sua stretta è stata eccessiva.»

«Mi perdoni, mi creda, io non volevo…» Inventati qualcosa diamine! «…è che qui, Perozzi, finora mi ha fatto stringere solo mani di uomini energici. Si vede che la mia mano, inconsciamente, si è presa delle contromisure.»

«Sarà. Anche se non mi immagino energica una stretta di mano del burroso Perozzi.»

«Sempre carina con i complimenti, eh?»

«Ti avevo avvisato, Mario, che ne rispondevi delle tue battutine. E benvenuta a bordo, Rebecca.»

La fustigatrice di promotori esce di scena con un o da generale.

«Rebecca, hai appena conosciuto Herr Führer.»

«Uh, la chiamate così? E’ tanto cattiva?»

«Lavorativamente parlando, è un drago. Non si discute. A livello personale è, beh...anzi pensandoci bene non è corretto che ti influenzi andando a crearti pregiudizi. Comunque, cara Rebecca, la tua non è stata una bella partenza con la Evi. Ma le hai stritolato la mano di proposito?»

«Stiamo ancora discutendo di quella stretta di mano? Le chiederei di metterci una pietra sopra!»

«Ti sei sentita perforata da quello sguardo, vero? Lo fa con tutti i nuovi. Vuole segnare il territorio e fare in modo che anche chi non è direttamente sotto di lei sia comunque deferente nei suoi confronti. E la stretta di mano, uh se adora far vedere quanto sia energica. Soprattutto con gli uomini.»

Rebecca intanto ha ripreso a consultare la documentazione che le è stata assegnata ed evita di rispondere.

«Ho capito, ho capito, discorso chiuso. Però ti avverto, pensaci bene prima di metterti di traverso davanti alla Brondani, quella morde. Io ormai sono qui e nessuno mi muove fino alla pensione, ma tu hai potenzialmente una carriera da percorrere.»

Il primo giorno di lavoro scorre liscio, siparietto del Führer a parte. Inaspettatamente Perozzi è molto cordiale, a tratti protettivo, ma tutto sommato professionale. Non c’è una virgola in lui che possa collegarlo al Perozzi del giorno prima, a quei momenti in cui Rebecca è stata sfiorata, toccata, al punto da percepirne la malcelata eccitazione unta da voglie lussuriose.

«Rebecca, visto che è il primo giorno per te qui con noi, mi sento in dovere di invitarti a pranzo.»

Ecco, mi sembrava tutto troppo bello. Meglio che non gli dia corda già da oggi.

«Grazie Perozzi, ma ho già un impegno per il pranzo.»

«Si tratta di qualcosa di importante? Non si può rimandare? Saremmo una bella tavolata, con tutti i nuovi colleghi del reparto che hai conosciuto oggi.»

Che stronzo, si rimette a giocare al gatto col topo. Prima mi invita a titolo personale, poi fa finta che voleva chiamare tutto l’ufficio per farmi credere di essere prevenuta. Vorrei vedere, dopo ieri, chi non sarebbe prevenuto. Idiota!

«Perozzi, mi rincresce ma non posso essere della partita. Porti le mie scuse anche a tutta la tavolata.»

Per il momento Perozzi desiste.

SMS: Ciao Mauro! Ti va se pranziamo assieme? Ho iniziato oggi il nuovo lavoro e sono a Udine. Scegli tu il posto. Io esco all’una e mezza.

Pochi minuti dopo, il display del telefonino di Rebecca si illumina. Che bella sorpresa Rebecca! Vediamoci alla vecchia posta, si mangia bene. E’ a 10 minuti da dove 6. Lo trovi su Google Maps. A dopo!

6

La sala da pranzo della trattoria è frequentata da uomini in giacca e cravatta, qualche uomo in tuta da lavoro oltre ad alcune donne in tailleur.

Ad un tavolo una giovane coppia, formata da uno degli operai in tuta e da una ragazza in tailleur gessato nero, sta chiacchierando amichevolmente.

«Allora Rebecca, finalmente ce l’hai fatta a trovare un posto!»

«Diciamo che per due mesi mi pagano, poi vedremo se mi confermeranno.»

«Intanto ti hanno presa, è un buon inizio. Se non andavi bene non ti avrebbero fatto fare neppure la prova, no?»

«Mah, può essere. So solo che là dentro non ce n’è uno a posto. In un giorno e mezzo ho incontrato certe personcine che…»

«Dài racconta, fammi ridere.»

«Ad esempio questa mattina mi hanno presentato una tipa che chiamano Herr Führer.»

«Singolare come soprannome!»

«Già, ma io ancora non sapevo di questa nomea da gerarca nazista. Insomma è successa una cosa strana, tutta in un attimo. Mentre ci presentiamo stringendoci la mano, mi ha fissata dritta negli occhi, con superiorità e insistenza, sembrava quasi volesse metaforicamente rivoltare i miei pensieri come un calzino e contemporaneamente dirmi “tu qui dentro sei l’ultima delle cacchine”.»

«E tu?»

«Io ho sostenuto lo sguardo, ma ad un certo punto, e bada che si tratta di frazioni di secondo, mi sono sentita come fossi nuda davanti a lei, una sensazione sgradevole di inadeguatezza, che già normalmente io mi sento in difetto in contesti nuovi. Fatto sta che per difesa ho d’istinto serrato fortissimo la mano.»

«Apposta?»

«Mi è un po’ difficile da ammettere ma praticamente sì. Si è trattato, come ti dicevo, di una sensazione strana, brutta, mi sentivo minacciata da quello sguardo e dovevo difendermi. Un lampo e la mano mi si è chiusa come una morsa, volevo che staccasse quegli occhi dai miei. Lei ha fatto una boccaccia e per il dolore le si sono socchiuse le palpebre, poi io ho mollato la presa. Naturalmente ho escogitato in fretta una scusa per giustificarmi, anche perché lì c’era il mio capo.»

«Mi mancavano i tuoi aneddoti, Rebecca. Capiti sempre in situazioni che…»

«I signori hanno scelto?» Un uomo brizzolato e baffuto irrompe nei discorsi della coppia brandendo un piccolo block-notes e una biro.

«Dunque, per me lasagne con radicchio di Treviso.»

«Anche per lei, signorina?»

«No, per me qualcosa di meno amaro, prenderò i maltagliati con sugo di cinghiale.»

L’uomo, strizzando l’occhio a Mauro, aggiunge con tono affabile prima di allontanarsi con la comanda, «permettetemi di accompagnare i vostri piatti con un buon cabernet sauvignon, offerto dalla casa.» La coppia di clienti accetta sorridendo.

«Ma vieni spesso qui che ti trattano così bene?»

«Ci vengo qualche volta, probabilmente vorrà tenermi buono visto che fra qualche giorno saremo qui a montargli i pannelli fotovoltaici. Tornando a noi, invece, come sono i tuoi colleghi?»

«Anche tu con queste curiosità banali, come mia madre?»

«Che c’è di strano? Anche se è una domanda di rito, semplicemente sarei contento per te se l’ambiente fosse buono.»

Rebecca, per il momento, non vuole parlare dell’atteggiamento del suo capo. Come ha già fatto con i genitori, cerca di divincolarsi dall’argomento, «ascolta, parliamo invece di cose serie. Questa domenica vieni in canoa? Ho già sentito Luca e Andrea, sarebbero liberi.»

«Certo, anche perché sono l’unico del gruppo che da inizio stagione è uscito ogni domenica e voglio mantenere il primato.»

«Speravo accettassi, così mi farai un po’ da cuscinetto con quegli altri due scalmanati.»

«Mmm, ambivo a qualcosa di più del cuscinetto.»

«Sciocco, scherzavo. A che ora ricominci il lavoro?»

«Diciamo che oggi pomeriggio sono libero, ho preso mezza giornata.»

«Ah, e dove vai di bello, se posso chiederti?»

La voce di Mauro perde un po’ della baldanza che aveva fino a quel momento, «ad essere sinceri ho preso il permesso per...»

«Per?»

«…per te.»

«In che senso, scusa?»

«Vedi Rebecca, la mia pausa sarebbe dalle dodici alle tredici. Mi hai chiesto di pranzare assieme e siccome la tua pausa è all’una e mezza…»

«Veramente? Ma ci stai provando?»

Mauro la guarda negli occhi e con la voce ormai tremula sussurra «sì…Rebecca, mi piaci.»

Le braccia di entrambi si protendono sul tavolo e le mani, dopo aver zigzagato tra i calici, si intrecciano dolcemente incuranti del brusìo e degli sguardi degli avventori.

«Anche tu mi piaci.»

«Era da un po’ che volevo dirtelo ma mi è sempre mancato lo slancio temerario, anche perché ci sono sempre Luca e Andrea fra i piedi…»

Rebecca, sorridendo, lo interrompe, «ho trovato uno più timido di me?»

«Mi spiace l’aver messo in risalto un mio lato negativo.»

Rebecca si allunga sul tavolo appoggiando delicatamente l’indice sulle labbra di Mauro. «Ssst, va tutto bene così.»

Arrivata a casa a sera, Rebecca viene accolta da Luisa con un’espressione torva, preoccupata.

«Mamma, che c’è?»

«Una brutta notizia. Oggi è arrivata la raccomandata.»

«Quella raccomandata?»

«Purtoppo sì. A breve ci sarà l’ingiunzione di pignoramento.»

«Ma quelli della banca non avevano accettato di posticipare le scadenze e darci ancora un po’ di tempo? Coi soldi che avrebbe incassato papà, ora che inizia ad allargare un po’ il giro, e con le mie prospettive di lavoro avremmo potuto fare qualcosa!»

«Cosa ti devo dire, sono dei bastardi. Vieni qui, tesoro.»

Avvolta dall’abbraccio della madre, Rebecca chiede singhiozzando «e papà, come l’ha presa?»

«Lui? Lui è tranquillo, sai com’è fatto. Dice che le cose si sistemeranno, che dobbiamo pregare e avere fede, che i miracoli esistono.»

«Ma è andato in banca a piantare un po’ di casino? Non possono prendersi tutto, casa e serre, se l’ammontare del debito è inferiore al valore degli immobili. Saranno sui centocinquantamila quelli da restituire. Solo la casa vale di più. Sono delle bestie!»

«Conosci tuo padre, non è fatto per le litigate. Comunque ha già parlato con l’avvocato. Il dottor Martinis lo ha rassicurato dicendo che nella malaugurata quanto probabile ipotesi in cui non si riesca a rientrare in breve, riuscirà a far are qualche mese tra perizie, controperizie, udienze, opposizioni e rinvii prima che le serre vadano effettivamente all’asta.

«Mamma, mi sento così impotente. Ce la faremo?»

«Non lo so amore mio, non lo so. Comunque tu non pensarci, cerca di stare serena per concentrarti sul tuo lavoro. E dimmi, com’è andata oggi?»

«Normale.»

«Che significa “normale”?»

«Dài mamma su, niente di speciale, vado lì, lavoro, torno a casa a vivere aspettando il giorno di paga.»

«Già una routine?»

All’occhiataccia di Rebecca la madre taglia corto. «Ho capito, scusami. Andrai a correre ora?»

«No, ceno subito perché ho le prove col coro.»

«Ma di solito non le fate più tardi?»

«Oggi anticipiamo visto che poi io devo uscire e rientrerò tardi.»

«Vuoi evitare tuo padre? Non è giusto nei suoi confronti.»

«No mamma, semplicemente esco con un ragazzo.»

«Chi?»

«Mamma, siamo alle solite?»

«Non agitarti. Sai che se ci interessiamo a te lo facciamo per il tuo bene.»

Rebecca si scosta dal materno abbraccio che per un attimo le aveva fatto da scudo verso le sassate del mondo esterno e si porta repentinamente sulla soglia della cucina. «Io non mi agito! So solo che ho quasi venticinque anni e che, se non mi mollate un po’ sulle mie gambe, continuerò ad avere un sacco di insicurezze, complessi di inferiorità e…»

«Cos’è questa storia dei complessi? Da quando avresti complessi, tu?»

«Da sempre.»

«Ma cosa dici?»

«Non lo so mamma, mi sto accorgendo che ci sono cose che minano la mia autostima, ne sto prendendo coscienza negli ultimi tempi.»

«E sarebbe colpa nostra, che cerchiamo in tutti i modi di preoccuparci per te? Inoltre ti abbiamo fatto fare le migliori scuole che potevamo permetterci. Anche a Mosca ti abbiamo fatta studiare. Sei un’ingrata!»

«Non è questo il punto, non cambiare le carte in tavola. E comunque per Mosca mi avete pagato il viaggio, là mi sono arrangiata come ho potuto.»

«Ho capito, ho capito. Sei come la figlia della parrucchiera, anche tu hai grandi sogni, grandi progetti per la tua vita. Ne parlavamo proprio oggi al salone, e siamo giunte alla conclusione che, a meno che i nostri figli non siano dei veri geni o a meno che non si riducano ad andare al Grande Fratello o simili boiate, prima o poi debbano venire a patti con la propria mediocrità adattandosi ad un lavoro normale e mal retribuito.»

«MAMMA! NON FARMI BESTEMMIARE!»

«Cos’hanno le mie gallinelle da beccarsi così tanto?» Una voce maschile, non molto profonda, pacata e vagamente canzonatoria, preannuncia l’ingresso di Giordano in quel patetico strascico di malintesi post-adolescenziali.

«Chiedilo a tua figlia. Noi stiamo perdendo la casa e lei pensa a…»

«Luisa, Luisa, fatti stringere un po’ che sei così bella quando ti àlteri.»

«Ti ci metti anche tu ora? Diamine, sei sbronzo? Hai l’alito di vino!»

«No, sono solo allegro, guarda, sono perfetto,» aggiunge Giordano mimando una gru in equilibrio su una gamba sola.

Rebecca cerca di approfittare del diversivo per raffreddare gli animi. «Ciao papà, la mamma mi ha detto della lettera, mi dispiace molto.»

Serafico, Giordano le risponde «e per cosa? La vita è altro. Questa è una sciocchezza rispetto alle cose veramente importanti, e comunque se avremo fede ne usciremo alla grande.»

Dopo quella frase, bagnata di vino e irrazionalità, Rebecca sente il sangue pulsarle alle tempie e vorrebbe affondare i canini nella giugulare del padre. Giusto per vederlo arrabbiato, almeno una volta nella vita. I tre capisaldi del carattere del padre, costituiti da un coacervo di filosofico, religioso ed etilico, l’hanno sempre fatta imbestialire e sono spesso stati campo di aspre battaglie e altrettante struggenti riappacificazioni tra lei e Giordano. Rebecca non è miscredente, in certi casi tuttavia non è nelle sue corde affidarsi totalmente al destino, a Dio, sperare in bene, annegare nell’alcol il disappunto senza are al contrattacco, senza mettere i ferri in acqua, senza affrontare la vita a muso duro, come cantava Pierangelo Bertoli. Lei è razionale, manichea, e per celare al mondo esterno le sue insicurezze a volte riesce a diventare sfrontata e aggressiva.

L’atteggiamento prevalentemente ivo del padre, in sèguito alla notizia del pignoramento delle serre e della casa, è uno di quei pretesti che porterebbe normalmente Rebecca allo scontro frontale con Giordano. Constatata l’allegria alcolica del padre e l’umore nero della madre, Rebecca decide che non è il momento di impugnare l’ascia di guerra e opta per mordersi un labbro e sgattaiolare via, anche perchè si sta facendo tardi per i suoi impegni serali.

«Se è così, allora auguri! Io vado.»

Luisa la rimbrotta, «e salti la cena?»

«Il coro mi sta già aspettando. E comunque non stare in pensiero per il dopo, non esco con un galeotto e nemmeno con un maniaco sessuale.»

7

E’ tonificante la frescura che si avverte le sere d’estate entro gli spessi muri in pietra di certe chiese. Uno potrebbe andarci proprio per ritrovare un po’ di sollievo dalla canicola di agosto. Non era così invece per i ragazzi scalpitanti che attorniavano la consolle dell’organo. Loro erano lì per le prove dei canti che avrebbero dovuto intonare in occasione della commemorazione della Madonna della Cintura, appuntamento religioso culmine della festa popolare in programma la settimana successiva. Una ventina tra maschietti e femminucce. L’età andava grossomodo dagli otto ai sedici anni.

Appena entrata in chiesa, Rebecca sente il vociare dei ragazzi provenire dalla cantoria, la struttura in legno istoriato che sovrasta la bussola d’ingresso, deputata ad ospitare i cantori e gli strumentisti.

Dall’alto qualcuno avverte sottovoce i chiassosi compagni, «sssst, è arrivata!» Il vocìo diminuisce senza cessare del tutto.

Rebecca sale a balzi le strette scale che permettono di raggiungere il manufatto e viene accolta da una ventina di “ciao” e “ciao Rebecca”.

«Ciao ragazzi, scusate se vi ho fatto aspettare qualche minuto. Ora cominciamo. Intanto Marco e Alex, scendete immediatamente dalla pedaliera! Quante volte vi devo dire che i pedali dell’organo non sono fatti per camminarci sopra?»

Quell’organo è uno dei pochi a trasmissione meccanica rimasti integri e funzionanti nella zona. Uno Zanin originale del 1908. Contrariamente agli organi

a trasmissione elettrica, dove la pressione di ogni tasto o pedale aziona un elettrocomando che a sua volta apre il flusso d’aria nella canna corrispondente, negli organi a trasmissione meccanica esiste proprio un collegamento fisico tra tasti, pedali e canne. Naturalmente i tasti sono più duri da premere, dovendo vincere una resitenza maggiore, e più rumorosi, essendo collegati a bacchette e bacchettine di metallo. Però Rebecca ama quell’organo. Lo sente un po’ suo. Qualche anno prima era stato smontato e restaurato da una ditta specializzata. Lei aveva seguito i lavori quasi giornalmente, le sembrava un dovere non abbandonare lo strumento in mano a degli sconosciuti. L’aveva visto smembrato pezzo per pezzo, cinquantasei tasti, ventiquattro pedali, quattordici registri, settecentoventi canne, i mantici e centinaia e centinaia di bacchettine e meccanismi. Il fatto che poi fosse stato ricostruito fedelmente le era sembrata quasi una magia. Aveva adorato le mani grinzose, callose ed esperte dei due restauratori. Aveva apprezzato la delicatezza e la maestrìa con cui avevano rimesso a nuovo e riassemblato ogni componente. Per questo le dava ai nervi chi trattava con superficialità il “suo” organo.

L’amore e la dedizione per la musica, per il canto e per il coro dei ragazzi glielo aveva trasmesso don Angelo, il parroco che aveva fondato anche la scuola parrocchiale di musica, con tanto di maestri provenienti dal Conservatorio di Udine. Tuttavia ultimamente si era sorpresa spesso a considerare il fatto che il dedicarsi anche alla musica non era stata una sua libera scelta. Piuttosto era stata messa su quei binari a otto anni proprio da don Angelo che non si sa sulla base di cosa avesse deciso, in accordo coi genitori, di iscriverla al corso di pianoforte. Lei frequentava la parrocchia, faceva da chierichetta a Messa, alcuni coetanei frequentavano già la scuola di musica, per cui si sentì quasi in dovere di accettare. Non era stata una decisione nè un desiderio nato da lei. Poi si era apionata, d’accordo, però ultimamente aveva preso coscienza di come questo lato della sua vita fosse nato dalla volontà di altri. La stessa cosa era capitata per la scuola. In terza media lei non sapeva neanche chi fosse, cosa volesse e cosa non volesse. Non aveva gli elementi per capire a fondo cosa fossero un liceo, un istituto tecnico, le facoltà universitarie, men che meno che influenza avrebbero avuto quelle decisioni sulla sua vita futura. Anche allora aveva deciso qualcun altro per lei. Era estremamente combattuta dentro di sé per determinare se alla fin fine le decisioni che avevano preso altri al posto suo fossero state legittime o illegittime, giuste o sbagliate. Questi pensieri la turbavano ormai da alcune settimane.

Finite le prove di canto, Rebecca congeda i ragazzi e saluta frettolosamente le mamme che chiacchierano con il sacrestano venuto a chiudere la chiesa. Si avvia a piedi in direzione opposta a casa sua, dove l’aspetta una Skoda Felicia al riparo dalle lingue delle pettegole del paese.

«Ciao Rebecca, sali.»

«Ciao Mauro.»

La Felicia si muove verso Cividale del Friuli.

«Dove andiamo?»

«Una sorpresa.»

«Avrei fame.»

«Non ti porto in ristorante, avevo in programma qualcosa di più interessante, anche perché il posto dove voglio andare chiude presto. Magari dopo andiamo anche a mangiare.»

«Dài, dimmi dove mi stai portando.»

Mauro continua a reggere il volante con la destra mentre con la sinistra mima una pistola, sparando in direzione di Rebecca. Bang!

«Non ci posso credere, poligono?»

Mauro annuisce teatralmente con il capo mantenendo gli occhi sull’asfalto davanti a sè, «yesss, ti va?»

«Perché no. C’è una prima volta per tutto.»

8

«Lei non è socia ma è con me. Questa sera fa alcuni tiri di prova. Non ti preoccupare Nello, ci basta un’arma sola.»

Nello, il responsabile armeria del poligono, scruta Mauro da sopra le lenti sottili e allungate degli occhiali da lettura, poi annota sul registro: Smith&Wesson 686, 48 cartucce calibro .357Mag, ore 20:57, socio: Paganin.

«Io consegno il ferro a Mauro Paganin. Tieni sott’occhio la ragazza e non fate cazzate. Sei tu responsabile anche per lei.»

Mauro e Rebecca guadagnano l’area di tiro. Fortunatamente in televisione danno una partita della Nazionale e, a quell’ora, c’è solo una coppia di esaltati quarantenni indaffarati a provare pistole da softair palesemente fresche di negozio.

I ragazzi scelgono istintivamente la linea di tiro più lontana da quella già occupata dai due signori, come farebbe una coppietta di innamorati scegliendo il tavolo più appartato entrando in un bar ai primi appuntamenti.

Mentre posiziona il bersaglio con il joystick elettrico, Mauro tranquillizza Rebecca, «non preoccuparti per Nello, è sempre burbero quando vede facce nuove.»

«O forse voleva solo riportare sulla terra il ragazzetto eccitato che si porta le tipe al poligono per fare colpo,» lo provoca Rebecca.

«Non abbassi mai la guardia, eh? Guarda che sei l’unica con cui ho voluto provare a condividere l’emozione del poligono, e mi fa piacere che tu abbia accettato. Contenta? Ora vieni qui che provo a spiegarti qualcosa.»

«Risparmiati il manuale delle Giovani Marmotte. Dài che ho voglia di sparare! Non voglio sorbirmi tutta la teoria balistica dalla A alla Zeta.»

«E poi sarei io il giovinetto eccitato! Allora facciamo così, non ti dico niente, tu mi osservi e poi tenti di fare la stessa cosa, ok?»

«Perfetto.»

Bang! Bang! Bang! I colpi sordi, attutiti dalle cuffie antirumore, rimbombano nel cervello di Rebecca, mentre i proiettili vanno a perforare il bersaglio in fondo ai venticinque metri della corsìa.

Osservando accanto a sé il monitor che inquadra il bersaglio ravvicinato, Rebecca esclama «però! Tre colpi e tre centri! Non ti credevo così bravo.»

Con un espressione più da Fred Buscaglione che da Clint Eastwood, Mauro replica a Rebecca «sciocchezze, piccola, sciocchezze,» e soffia di traverso sulla canna.

«Che scemetto!»

«Vieni qui, mettiti davanti a me, prendila in mano.»

Rebecca si posiziona davanti a Mauro, appoggia la schiena al petto di lui, divarica leggermente le gambe e impugna la pistola. Le mani di Mauro avvolgono quelle di Rebecca e silenziosamente la guidano nella giusta posizione, aiutandola a collimare il bersaglio.

«Rilassati, ti aiuto io. Inspira ed espira profondamente che mi sembri in apnea. Ecco, ora guarda il mirino, fallo coincidere col punto che vuoi centrare.»

«Va bene così?»

«Sì, bene.»

«Ecco, ora sul grilletto, così, senza irrigidirti troppo. Immagina di essere il proiettile e di volerti conficcare là nel centro. Attenta che quando spariamo picchia un po’ il contraccolpo. Pronta?»

«Pronta!»

«Allora blocca il respiro e spara!»

Bang!

Il colpo è troppo alto ma comunque vicino al centro del bersaglio.

«Bravissima!»

«Grazie ma…mi hai aiutato tu.»

«La mira l’hai presa tu, ci sai fare.»

I due sparano per oltre mezz’ora. Ad ogni colpo, Rebecca sente una scarica di adrenalina, una sferzata di energia, di potenza, di invincibilità. Quell’arma in mano le dona una sensazione nuova, appagante, piena.

Quando escono dal poligono, alla prima boccata d’aria carica di ossigeno fresco, Rebecca considera che si era ormai assuefatta all’odore acre della polvere da sparo là dentro.

«Lo so che non è merito del mio charme, bensì dell’orgasmo da sparo, ma hai una espressione stupenda, oserei dire sognante, sei bellissima Rebecca.»

L’adrenalina che lei aveva già in corpo si combina ora con i feromoni e le serotonine, la chimica che scatena l’attrazione. Come reazione evidente, Rebecca avverte un’accelerazione del battito cardiaco. Già stava su una vetta, ora è come se fosse ancora più in alto, sospesa nel vuoto. Vuole assaporare ancora un po’

quella strana alchimia corroborata anche dall’adulazione per lei che ha letto negli occhi di Mauro, così rintuzza la brace, «diciamo che c’è anche una minima percentuale, attorno all’uno per cento, dovuta al tuo charme.» Cosciente che a quel punto Mauro pende dalle sue labbra, scocca l’affondo, «già che siamo a Cividale, ti andrebbe una eggiata in centro?»

Dopo pochi minuti in auto, i due abbandonano la Skoda Felicia di Mauro in un parcheggio nei pressi del centro storico di Cividale del Friuli, attraversano a piedi l’Arsenale Veneto, il torrione che costituisce la porta ovest della città, per poi lasciarsi inghiottire dalle suadenti penombre di quelle viuzze cariche di fascino e di vestigia del tempo ato.

«Adoro eggiare in questa piccola cittadina, soprattutto di notte, adoro queste strette stradine di ciottoli e porfido che sbucano con mille prospettive nelle piazze con i palazzi antichi, e poi la zona vicino al fiume Natisone, oh è adorabile.»

«Anche a me piace molto Cividale.»

«E scommetto che non sai perché viene chiamata anche Città Ducale.»

«Beh, evidentemente c’era il Ducato, o il Gran Ducato, giusto?»

«Gran Ducato mia nonna! Quello era di Parma, Piacenza e Guastalla. Qui c’era il Ducato in epoca longobarda, per essere esatti si tratta del primo ducato che fondarono i Longobardi prima di stabilirsi più a ovest, a Pavia. Di qui ci sono ati un po’ tutti: i Romani che la chiamarono Forum Iulii, i Patriarchi di Aquileia, gli Ungari, i Franchi, i Veneziani. Ecco, visto che stiamo ando

davanti al caffè Longobardo, ricordati che i Longobardi governarono la città per circa duecento anni fra il cinquecento e qualcosa e il settecento e qualcosa. Giù di là svolti a destra e troverai l’Ipogeo Celtico: questo ti fa capire che prima dei Romani ci sono ati pure i Celti, o i Galli o chi per loro che non è ancora chiaro. Qui sono custoditi gelosamente oltre duemila anni di storia, è straordinario!»

«Sei molto colta, oltre che molto…»

«Molto?» lo sfida pungente Rebecca.

«Molto bella,» precisa Mauro in ambasce. Con naturalezza la mano destra di Rebecca incontra la mano sinistra di Mauro mentre continuano a camminare ammirando gli scorci che sta regalando loro quella notte galeotta. In prossimità del monastero delle Madri Orsoline, la stradina accenna ad una lieve discesa e il porfido lascia spazio a dei piccoli ciottoli bianchissimi, ravvicinati e molto levigati. Rebecca inizia a correre strattonando Mauro.

«Ehi, ma che fai? Così ci distruggeremo le caviglie!» Mauro non può far altro che assecondare la corsa di quella giovane puledra ribelle. Sfrecciano sotto la Porta Romana, un varco carraio incorniciato in pietra, oltreano un secondo varco in mattoni a sesto ribassato oltre il quale le luci spariscono quasi completamente e svoltano a destra. Dopo un centinaio di metri, i due si fermano in prossimità di un parapetto in pietra che delimita uno strapiombo di circa trenta metri sul fiume Natisone. In quel punto di Cividale, denominato Borgo Brossana, la piccola cittadina si è ormai addormentata e il silenzio è rotto solo dall’ansimare dei loro polmoni e dal delicato e costante scroscio provocato da una piccola cascatella che il corso d’acqua ha scavato proprio lì sotto, in corrispondenza di un’ampia ansa.

I due, sporgendosi oltre il muretto, guardano laggiù in basso, attraverso la vegetazione che ricopre la scarpata e ostacola un po’ la vista, per scorgere i deboli riflessi della luna incresparsi sui flutti.

Mauro stringe contro il suo petto massiccio Rebecca, appoggiata a lui di schiena come poco prima in poligono. Si lascia cullare per qualche secondo dalla voce di lei che prima lo prende in giro sul fatto che ha il fiatone e che sta perdendo la forma, poi gli descrive con trasporto ed emozione i preziosi stucchi che racchiude il Tempietto Longobardo, aldilà del cancello in ferro battuto a fianco a loro.

«Sei una sognatrice. Starei ore ad ascoltarti, ad ascoltare la ione con cui racconti qualsiasi cosa, con cui assapori la vita.»

Rebecca si volta, gli sguardi si incrociano accompagnandosi in breve ad una languida serie di baci alla se. I corpi iniziano a strusciarsi, Rebecca gli trasmette la sua eccitazione con il respiro palpitante che si rompe mordicchiandogli il lobo di un orecchio, nel contempo preme provocatoriamente il pube contro la patta ormai lievitata di Mauro. Le mani di lui si insinuano temerarie sotto la maglietta di lei fino a slacciare il reggiseno, liscio, in raso, così da avere il via libera su quei seni che si è immaginato migliaia di volte ed ora finalmente si materializzano a contatto con la sua pelle.

A bassa voce Mauro riesce solo a biascicare un «dovremmo andarcene da qui, qualcuno potrebbe vederci.»

Rebecca si riabbasa maldestramente la maglietta bianca sulle cui paillettes azzurre di un fiordaliso riverbera la luce della luna. «Vieni con me.» Sale in piedi sul parapetto, abbastanza largo da poterci camminare, e obbliga Mauro a seguirla. Percorre il muretto per una ventina di metri, poi in un punto che sembra

conoscere molto bene, salta scomparendo nel dirupo in mezzo ai rami e al fogliame che tappezza tutta la parte scoscesa fino alla riva del fiume.

«Dài Mauro, salta anche tu esattamente dove ho saltato io, fidati, in mezzo ai rovi c’è un sentiero che scende fino alla spiaggetta.»

Mauro, ormai preda di un’eccitazione formidabile, salta irrazionalmente nel buio della macchia, immaginando già di scorticarsi perlomeno le tibie. Contrariamente ai suoi pronostici, atterra invece su un pietrone levigato e squadrato di circa un metro per un metro, due metri più sotto. Le gambe non erano pronte per un balzo simile e naturalmente gli cedono facendolo lungo su quel rupestre piedistallo. Anche il respiro per un attimo lo abbandona.

«Sbrigati piaga, vieni giù di corsa che sennò mi smonto, cazzo!» Le parole di Rebecca lo fanno rinsavire e l’orgoglio virile gli permette di superare l’ime e andare a prendersi il trofeo tanto agognato.

Rebecca è impaziente. Mauro vorrebbe saltarle addosso ma qualche rimasuglio di ancestrale cavalleria lo trattengono dal dare libero sfogo ai suoi istinti animaleschi.

Rebecca lo rassicura, «va tutto bene. Guarda che la mia verginità è evaporata a sedici anni,» infine sussurra attirandolo a sé «lasciamoci andare.»

Pochi attimi dopo, sulla spiaggetta che lambisce l’ansa del fiume, lo scroscio della cascatella accompagna quei due corpi che si amano selvaggiamente fino a cadere esausti ed appagati uno di fianco all’altra sulla sabbia morbida.

«Mauro, sto bene con te. Prima, quando sei atterrato su quella pietra, ti avevo dato quasi per spacciato, ma sotto sotto ho sempre ritenuto che tu ti distinguessi dalla marea di debosciati che mi circonda, ora posso dire che le mie sensazioni hanno trovato conferma. Questa serata è stupenda. Grazie.»

«Non mi devi ringraziare, è reciproco. Sei un sogno ad occhi aperti. Uh, guarda là, sul ponte, c’è gente ferma.»

Rebecca si volta a sud-ovest, la direzione in cui scorre il Natisone. Ad una breve distanza si staglia imperioso contro l’oscurità il Ponte del Diavolo, illuminato da vecchi ma potenti fanali ai vapori di mercurio. Un manufatto di due arcate sorrette da un pilone centrale poggiato su un grosso macigno in mezzo al fiume, macigno che la leggenda vorrebbe essere stato collocato dal diavolo in persona che, invocato dai popolani, costruì il ponte in una notte soltanto chiedendo in cambio l’anima di qualcuno del paese.

«Dici che da là ci abbiano visti, o sentiti?»

«Ne dubito, saranno circa quattrocento metri, per di più a venti-trenta metri più alti di noi. Le sagome che vedi apparterranno a qualche coppietta di sfigati che guarda distrattamente l’acqua scorrere mentre si sbaciucchiano.»

9

Rebecca è in ufficio alla sua scrivania. Sul monitor scorrono le videate del corso di autoapprendimento che obbligatoriamente deve seguire. Dalla porta aperta sul corridoio entrano attutiti i rumori della frenetica attività lavorativa degli altri uffici: squilli di telefono, brusìo, tacchettini di sandali che vanno e vengono dalle stanze attigue. Per Rebecca è difficile rimanere concentrata sul lavoro quest’oggi, dato che non può fare a meno di volare con la fantasia alla sera precedente, alle sensazioni che ha provato con Mauro, alla sua dolcezza unita al suo vigore, concludendo che non vede l’ora di poter essere di nuovo con lui. Forse si sta innamorando.

«Come va, dottoressa?» La voce del dottor Perozzi si materializza dietro a lei mentre le larghe mani paciose le si erano appoggiate sulle spalle e si stavano già muovendo con voluttà attorno al collo e alla nuca facendola trasalire.

«Ma cosa sta facendo?» inveisce Rebecca scostandosi di lato e volgendo uno sguardo piccato verso il suo superiore.

«Oh nulla, cercavo solo di alleviarti la tensione cervicale,» precisa sornione Perozzi, mollando la presa.

«Macchè tensione e tensione, la smetta di toccarmi!» In quel momento, se avesse avuto la sua pagaia per le mani, gliel’avrebbe spaccata in testa.

Il taschino del dottor Perozzi inizia a cantare Super Truper degli Abba. Lui si porta la mano al petto ed estrae un Nokia a cui zittisce la suoneria premendo un

pulsante. Rebecca si rifugia puerilmente in quell’intromissione fortuita per cercare un minimo di riparo all’imbarazzante situazione. «Non risponde? Magari è importante.»

«Tranquilla dottoressa, lasciamo il mondo di fuori per qualche secondo. Adoro provocarti, sei così intrigante quando ti arrabbi, quando mi attacchi per difenderti.»

Rebecca lo fissa torva e sbigottita, non sa che pensare, se dargli del pazzo, se tentare di legnarlo, se scappare via.

«Comunque,» prosegue suadente il superiore, «l’invito a pranzo di ieri è ancora valido. Oggi però saremo solo io e te. E accettare sarebbe una decisione molto saggia da parte tua.» Pronunciando queste ultime parole, Perozzi estrae dalla tasca laterale della giacca un foglio piegato diligentemente in quattro e lo posa sulla scrivania di Rebecca. Dopodichè, ciondolando, esce di scena scomparendo oltre la porta dell’ufficio.

Rebecca, ammutolita, solleva un lembo del foglio e tenendolo discosto con il braccio semi-teso lo apre agitandolo, come si farebbe con un fazzoletto da naso, immaginando che possa contenere chissà quale feticcio o messaggio osceno di quel maiale. E’ sorpresa invece di trovare una banale stampa in bianco e nero di un documento qualsiasi, almeno in apparenza. Lo avvicina per esaminarne il testo, tenendolo ormai con entrambe le mani. Dopo aver letto l’intestazione del tribunale, il destinatario Carinci Giordano e le prime righe della missiva, le muore in gola un «nooo!» urlato sottovoce. Perozzi le aveva appena consegnato una fotocopia del frontespizio relativo all’imminente ingiunzione di pignoramento recapitata il giorno prima a suo padre.

Ormai era palese come il suo capo volesse tenerla sotto scacco facendo leva

sulla compromessa situazione economica della famiglia, che tra l’altro dimostrava di conoscere molto bene.

Che fare? Correre a denunciarlo all’ufficio del personale? Ma che prova era una fotocopia di un documento di suo padre? Poteva scappare a casa e mollare il lavoro, ma cosa avrebbe potuto raccontare ai suoi? E poi alla sua famiglia servivano i soldi. D’accordo che l’avvocato aveva prospettato che sarebbero trascorsi dei mesi prima di veder scattare effettivamente le ganasce sulle proprietà, ma servivano anche a lei tempi lunghi per accumulare un po’ di denaro. In quanto tempo avrebbe trovato un altro lavoro, soprattutto così ben retribuito dopo l’eventuale conferma?

Merda, questo stronzo sta cercando di incastrarmi!

In quel frangente, per non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, l’unico rimedio era cercare un’evasione mentale, rifugiarsi da qualche parte in cerca di sollievo e distrazione. Pensare ad una storia di Mazzoni le parve l’ideale. Mazzoni era un ragazzo che aveva conosciuto ai tempi delle superiori, quando andava a scuola a Udine. Aveva un anno più di lei. Rebecca lo aveva perso di vista da diverso tempo ma ricordare i suoi assurdi racconti nei momenti negativi le aveva sempre risollevato l’umore. Mazzoni non era iscritto al liceo come Rebecca ma, da apionato di elettronica e informatica, frequentava l’istituto tecnico a fianco e prendeva la stessa corriera di Rebecca, sulla quale tutti conoscevano Mazzoni. C’era sempre qualcuno che teneva il posto a Mazzoni nell’ultima fila. Il nome sembrava nessuno lo sapesse. Tutti lo chiamavano sempre Mazzoni. Forse sulla carta d’identità alla voce nome e cognome c’era scritto Mazzoni Mazzoni.

Mazzoni aveva sempre delle storie improbabili da raccontare, storie che lui asseriva essere vere e probabilmente lo erano visto che non era uno sbruffone e non era neppure il tipo che si metteva al centro dell’attenzione a raccontare i fatti suoi. Le storie assurde uscivano spontanee, in mezzo ad un discorso, erano semplicemente risposte a domande che altri rivolgevano a lui. Non era il tipo che

si piazzava in mezzo al gruppo a spararla grossa per attirare gli sguardi su di sè, normalmente era riservato, studioso, bravo a scuola e considerato dai compagni di classe un secchione geniale.

Una delle storie improbabili fu ad esempio quando un lunedì, in corriera, gli chiesero come avesse trascorso il fine settimana dato che non lo avevano visto in giro, lui rispose placidamente che era stato in piedi quarantotto ore di fila al Flash! con tanto di doppio afterhour. Venne fuori quindi che lui, allora quindicenne, faceva il P.R. al Flash!, una discoteca trendy dove in quegli anni avano musica elettronica e girava parecchia roba chimica. All’udire il racconto, Rebecca all’epoca credette che fosse troppo grossa per essere vera, un quindicenne per due giorni di fila in discoteca, dal venerdì sera alla domenica sera. Invece anni dopo ebbe casualmente conferma da un altro frequentatore della discoteca che era tutto vero e che lui stesso aveva ricevuto gli invitiriduzione dal ragazzino Mazzoni.

Rebecca, seduta alla sua scrivania, ripensa a quella volta in cui in prima superiore aveva notato Mazzoni con un lettore CD portatile. Siccome tutti erano ancora rimasti al walkman a cassette, lei era naturalmente incuriosita da quell’aggeggio che prometteva grandi migliorie. Si fece coraggio e gli rivolse la parola per la prima volta. «Che musica ascolti?» Lui la guardò, si tolse gli auricolari e glieli ficcò nelle orecchie senza aprir bocca. Rebecca sentiva rumore e una cassa che picchiava insistente in quattro quarti. «Ma che roba è?»

Riprendendosi le cuffiette, Mazzoni le rispose rivolto al paesaggio che scorreva oltre il finestrone della corriera, come assorto nei suoi pensieri. «Coccoluto. Il futuro.»

Rebecca sorride ricordando che, pochi mesi dopo, la ione per la musica elettronica l’avrebbe travolta seppellendo nella polvere le sue cassette piratate degli Iron Maiden, Ac/Dc e Litfiba, sostituite via via da singoli o DJ-set di Claudio Coccoluto, Leo Mas, Gemolotto, Fabrice, i Ramirez e Gianni Parrini.

La storia di Mazzoni, avvolta dalle sonorità dell’adolescenza, ha momentaneamente sortito l’effetto desiderato e Rebecca riesce a recuperare qualche brandello di tranquillità che dura fino alla pausa pranzo.

L’abitacolo della Mercedes CLS è intriso di un profumo fresco, maschile, con note di talco che tentano di coprire l’olezzo del sudore del dottor Perozzi. Aleggiano anche residui di Arbre Magique al pino silvestre sepolti da qualche parte, probabilmente sotto i sedili.

Perozzi, nell’avviare l’auto, inserisce l’aria condizionata alla massima potenza, col duplice scopo sia di raffrescare l’abitacolo arroventato da cinque ore sotto il sole d’agosto, sia di asciugarsi il sudore delle ascelle e del collo. Nutre anche la remota speranza che dalla camicetta della dottoressa Carinci spuntino i capezzoli inturgiditi dal gelido getto delle bocchette. Almeno avrebbe potuto scorgere qualcosa, visto che dopo il giorno del colloquio, Rebecca aveva sempre indossato camicette castamente abbottonate e tailleur pantalone.

Mentre l’auto incede morbida verso il ristorante, Perozzi si slaccia la cravatta e sbottona il colletto troppo stretto della camicia.

«Oggi dottoressa, per accoglierti degnamente alla Walser Privatbank, ti offriamo un pranzo da gourmet al Metropole.»

A Rebecca quel nome ricordava un albergo lussuoso in centro città, un quattro o cinque stelle. Visto che era distante anni luce dalle sue possibilità, non aveva mai considerato che fosse dotato anche di ristorante all’altezza.

Lungo il tragitto, Perozzi si dimostra affabile e cordiale coi suoi larghi sorrisi, nessun riferimento a quanto successo durante la mattinata in quei maledetti cinque minuti in ufficio. Le racconta invece per sommi capi la sua carriera alla Walser e di quanto avesse dovuto sgomitare per raggiungere la posizione attuale. Rebecca si limita a fissare il traffico fuori dal finestrino oscurato. In breve, la Mercedes arriva a destinazione e varca il parcheggio riservato ai clienti del Metropole.

«Guarda che bene che ci trattano, parcheggio esclusivo, sorvegliato, personale sorridente…il minimo, con tutti i soldi che molliamo qui ogni mese.»

Un parcheggiatore in livrea apre lo sportello di Rebecca per farla scendere, mentre un altro guadagna il posto di guida per parcheggiare l’auto. Rebecca e Perozzi vengono accolti dentro il ristorante e avviati al tavolo loro riservato.

La grande sala da pranzo è occupata per meno di metà della capienza complessiva. In apparenza sembrano tutti uomini d’affari intenti a discutere trattative importanti o festeggiare chiusure di contratti. Grandi vetrate con serramenti in legno, lampadari in cristallo e boiserie a profusione conferiscono all’ambiente un’atmosfera da club inglese per soli uomini. Sensazione fortunatamente smorzata da qualche donna disseminata qua e là tra i tavolini.

«Rebecca, ora raccontami tu qualcosa. Non vorrei annoiarti troppo con le mie chiacchiere.»

Rebecca, fino a quel momento distratta e ammaliata dallo sfarzo che trasudano l’ambiente e le persone attorno a sé, viene costretta dalle parole del dottor Perozzi a riportare l’attenzione al perché e al come sia arrivata fin lì. Punta lo sguardo sul suo interlocutore ed esclama con tono accusatorio «dove l’ha preso questo?» sbattendo la raccomandata del tribunale sul tavolo.

«Oh, questo foglietto,» minimizza il suo capo, «beh, c’è tanta gente che mi deve dei favori. Suvvia Rebecca, non focalizziamoci sul ato. Dobbiamo vivere il presente e divertirci. Siamo qui per festeggiare, no? La banca vuole accogliere come si deve la nuova assitente del responsabile Mercati Emergenti. Cameriere!»

Un ragazzo sui ventidue anni, italiano, con doppio petto bianco panna e papillon nero, si avvicina servizievole al tavolo.

«Il dottore comanda?»

«Champagne.»

«Il dottore si affida a me o ha qualche preferenza particolare?»

«Oggi la graziosa e preparatissima dottoressa Carinci che siede qui con me deve essere trattata al meglio. Per cui ci procuri velocemente un “Louis Roederer Cristal” e, se la dottoressa gradisce un menù di pesce, portateci qualcosa di adeguato.»

Rebecca, che aveva frequentato un corso per sommellier e conosceva il costo e soprattutto il rango di quella bottiglia, deve apprezzare obtorto collo la fine attenzione che il dottor Perozzi le stava riservando, unita ai modi galanti che stava adottando da quando erano usciti dalla banca.

Rebecca opta per un antipasto di datteri di mare, la cui pesca è vietata in Adriatico ma che sottobanco il Metropole è comunque solito smerciare ai migliori clienti abituali. Aggiunge poi la classica aragosta, dal momento che non ne aveva mai assaggiata una, nemmeno nel breve soggiorno di studio in Russia, dov’era un piatto molto richiesto. Perozzi si limita a dei gamberetti di fiume con polenta come antipasto, seguiti da un astice alla piastra.

«Allora Rebecca, mi dovevi raccontare qualcosa di te, coraggio,» la invita il suo superiore.

Visto che l’attacco diretto di poco prima non aveva sortito alcun effetto, Rebecca decide di dimostrarsi temporaneamente accomodante, portando la conversazione in territorio neutrale in modo da prendere tempo e studiare qualche altra strategia. «Mi tolga una curiosità, Perozzi.»

«Chiamami Mario e dammi del tu, ti prego,» la interrompe Perozzi.

«Oh mi scusi…scusami Mario, è che devo ancora abituarmi,» risponde sorridente Rebecca per poi proseguire «ho apprezzato la scelta dello champagne, volevo sapere se è casuale o frutto di conoscenza in materia.»

«Diciamo che è un mio hobby, un piacevole e costoso hobby. Il Louis Roederer l’ho scelto in omaggio ai tuoi studi in Russia, visto che questo champagne…»

«E’ stato creato proprio da un tale Louis Roederer per regalarlo ad uno zar,» lo interrompe Rebecca.

Un sorriso compiaciuto e meravigliato si dipinge sul volto di Perozzi.

La conversazione prosegue scendendo nei dettagli delle mansioni che acquisirà Rebecca, una volta confermata dopo la prova di due mesi. Rebecca cerca anche di farsi dire che fine abbia fatto l’assistente che lei sostituisce, ma Perozzi con abilità non le risponde e cambia discorso.

Alla fine del pasto, della bottiglia di champagne e delle coppe di “Lacrima Christi” consumate con il dessert, Perozzi si avvicina con la sedia al fianco di Rebecca e le cinge le spalle come se fossero de-facto una coppia. «Ti è piaciuto il pranzo, chéri?»

Rebecca, irrigidita, non risponde e cerca, senza attirare l’attenzione degli altri tavoli, di allontanare quella piovra viscida.

«Reggi bene l’alcol, piccola,» incalza divertito Perozzi, «pensavo fossi più tollerante a questo punto,» indicando la bottiglia vuota.

«Se speravi di ammorbidirmi così, mi spiace deluderti,» sottolinea sarcastica Rebecca, pensando agli ettolitri di vino o birra ingurgitati alla fine delle uscite in canoa con i suoi amici.

«Fa niente. A questo punto possiamo andare ugualmente.» Perozzi si alza con calma dal tavolo e, come suggerisce il galateo, aiuta Rebecca ad alzarsi scostandole da dietro la sedia. Si dirige poi verso una porta diversa da quella da cui erano entrati e la invita a seguirlo.

Attraversate alcune sale e un paio di corridoi, raggiungono la hall dell’albergo associato al ristorante. Il portiere, senza che Perozzi proferisca verbo, gli consegna la scheda apriporta di una camera. Perozzi china impercettibilmente il capo in segno di ringraziamento e, allungando al ragazzo delle banconote arrotolate, chiede «e la valigia?» Immediatamente il portiere fa comparire un borsone da viaggio in pelle nera che porge a Perozzi, scusandosi per la sbadataggine.

Perozzi si volta in direzione di Rebecca e, con tono maledettamente risoluto da non ammettere repliche, la apostrofa «dottoressa, saliamo a discutere di quella fotocopia a cui prima sembrava molto interessata.»

Rebecca, in preda ad un’ansia crescente dovuta alla mossa imprevista dai risvolti ignoti, non riesce a disobbedire, così si avvia verso l’ascensore già aperto.

Perozzi e Rebecca salgono all’ultimo piano e si dirigono verso la stanza loro assegnata che si rivela essere una junior suite allestita in modo molto kitch. Le ampie finestre sono parzialmente schermate da taffetà e damaschi viola e prugna, le imbottiture delle sedute sono di un fucsia vivo. Tutte le parti in legno sono verniciate con porporina argentata. La moquette, a pelo lungo, è prugna. Il letto, più grande di un normale matrimoniale, è zebrato in bianco e nero. Rebecca era abituata alle anonime camere dei due o tre stelle in cui aveva pernottato, grandi molto meno della metà di quella. I suoi i incerti si fermano due o tre metri oltre la soglia. Dietro di sé sente la porta accostarsi con decisione, poi Perozzi oltrea la ragazza e si precipita con sicurezza al mobile bar versando del whisky in due tumbler con ghiaccio. Ne porge uno a Rebecca, «vediamo se con questo ti sciogli un po’ di più, visto che il Cristal non ha funzionato.»

Rebecca riacquista un minimo di padronanza del suo agire ed esclama risoluta «no! Perozzi, ho già capito dove vuole arrivare ma non è il caso di continuare. Ora io esco da quella porta, torno al lavoro e dimentichiamoci di questo episodio.» Perozzi sorseggia il suo drink, si siede con calma sul letto e con tono

divertito si rivolge alla sua sottoposta, «bambina mia, tu non hai capito niente. Vuoi bene al tuo caro papà e alla tua cara mamma, vero?» Rebecca, ancora in piedi di fronte a lui, annuisce impercettibilmente col capo, tenendo lo sguardo rivolto ai soffici peli prugna della moquette.

«Ti sei aggrappata a questo lavoro consapevole che prima o poi saresti dovuta entrare in una camera da letto, lo avevi capito dal primo giorno, vero? D'altronde non ho fatto niente per nascondertelo. Sei una ragazzina molto intelligente e dovresti aver capito anche che sono in stretto contatto con chi ha in mano le carte di tuo padre. Se fai la brava posso fare in modo che all’asta ci si arrivi per le lunghe. Così avrete più tempo per rientrare dal debito. Se sarai ancora più brava, ma questo lo approfondiremo in seguito, potrai forse aiutare la tua famigliola a rientrare dal debito molto in anticipo rispetto a quanto si potrebbe ragionevolmente preventivare. Ora spogliati, dannazione! E fammi vedere come sei fatta.»

Rebecca afferra a due mani il drink prima rifiutato e lo manda giù d’un fiato, con la speranza di annebbiare la mente e di rendere meno amaro quel calice. Poi si piazza davanti al suo superiore e, con glaciale distacco, si toglie meccanicamente la giacchina nera gessata, la camicetta celeste, si sfila le decolletè Brian Atwood imitazione. Si slaccia la sottile catenina alla cintola e anche i pantaloni gessati scivolano giù. Rimane immobile, bella e statuaria, coperta solo dal suo intimo, con il sesso a cinquanta centimetri dalle narici di Perozzi rimasto seduto sul bordo del letto. Sta per proseguire slacciandosi il reggiseno ma Perozzi la interrompe. «Ferma così!» E’ estasiato, ammira e riammira quel corpo scolpito da ore e ore di esercizio fisico, ventre piatto, addominali appena accennati, spalle toniche quasi mascoline, anche le braccia e le gambe, che ora può vedere completamente, presentano una muscolatura definita ed equilibrata. Gli occhi di Perozzi sono lucidi, il volto rubizzo sprizza felicità e stupore da ogni poro, come un bimbo di fronte al giocattolo tanto ambito la mattina di Natale. «Gìrati lentamente e fatti vedere dietro,» Rebecca obbedisce ruotando sul posto. Perozzi ha così modo di ammirare la vita molto snella e fluida che esalta ancora di più quel sederino alto, pieno e liscio, che si era immaginato fin dal giorno del loro primo incontro. Lo sguardo sale lungo la schiena ad ammirare i dorsali, il trapezio, la muscolatura delle spalle e il collo sottile valorizzato dal taglio corto

dei capelli neri. Lo sguardo ridiscende accarezzando di nuovo i glutei per poi are in rassegna le cosce così sode e agili in armonia col resto del corpo. «Rigirati lentamente verso di me.» Ora è il turno di osservazione delle caviglie, sottili, e dei piedini, curatissimi: un trentasette perfetto per il metro e sessantacinque di Rebecca e per la sua corporatura minuta. Lo sguardo di Perozzi si sofferma un istante sul triangolo degli slip per poi proseguire fino a soppesare i seni parzialmente nascosti dal reggiseno. Il giusto completamento per quel corpo da favola. «Perozzi ha ancora occhio per le belle ragazze,» si compiace da sé. «Cara la mia Rebecca, sei un bocconcino fantastico.»

Alla parola “bocconcino”, Rebecca prova un malcelato ribrezzo verso quella lùbrica situazione e soprattutto verso quell’uomo. Perozzi si alza in piedi. Rebecca, che è scalza, si sente in balìa di quell’omone che la sovrasta di trenta centimetri buoni ed è largo tre volte lei. La sensazione è amplificata dal fatto che Perozzi sta tra lei e una delle due grandi porte finestre che danno probabilmente su un balcone, proiettando una considerevole ombra su Rebecca.

«Vado in bagno a darmi una rinfrescata. Tu nel frattempo togliti quell’anonimo completino acquistato in un franchising del centro commerciale e scegli qualcosa di più cònsono da là dentro. Le misure dovrebbero essere tutte giuste.» Rebecca segue con lo sguardo l’indice di Perozzi e individua su una poltrona la borsa nera consegnata poco prima dall’inserviente.

«Non uscirò dal bagno finchè tu non sarai pronta. Il genere di abbigliamento che troverai nella borsa ti farà capire quali saranno i ruoli d’ora in avanti. Mi auguro di aver ben riposto la mia fiducia in te e che di conseguenza ti comporterai a dovere. Prenditi tutto il tempo necessario per prepararti al meglio con tanto di accessori e maquillage. Quando sarai pronta mi chiamerai e solo allora uscirò dal bagno.» Perozzi guadagna la ritirata e prima di chiudere la porta dietro di sé aggiunge «per farmi uscire dovrai urlare “esci porco!” e guai a te se ridi!»

Rebecca ormai non si stupisce più di niente. Si aspettava di essere pseudo-

violentata già da un bel pezzo e invece si ritrova ancora inviolata ad armeggiare tra sandali e stivali con tacco vertiginoso, calze a rete, miniabiti da poliziotta e infermiera, frustini, manette, tubetti di lubrificante e trousse di trucchi dai toni marcati. Sorride tra sé considerando che non ci sono più i maniaci di una volta. Ma con chi avrebbe potuto condividere una situazione così surreale? Esclusi categoricamente i familiari, escluso Mauro e i compagni della canoa, esclusi quelli della parrocchia e Linda la sua ex compagna all’università emigrata in America. Si sente improvvisamente sola. Una storia di Mazzoni in questo frangente non servirebbe granchè. Il wisky ha smesso da un pezzo di fare effetto, così prima di terminare la vestizione, ne tracanna un paio di abbondanti sorsate direttamente dalla bottiglia. Dal borsone estrae a caso il miniabito da poliziotta, giacchina in sintetico elasticizzato, più simile ad un top anziché ad una giacca vera e propria visto che sparisce appena sotto il seno, aderentissima, molto scollata, celeste, con il colletto e i polsini delle maniche corte neri. Shorts neri sgambati, anch’essi aderenti, ornati da un cinturone con borchie cromate a cui sono già appese un paio di manette. Autoreggenti a rete e ai piedi, visto che la bassa temperatura dell’aria condizionata lo permette, calza un sofisticato paio di stivali in cuoio nero con piattaforma, chiusi da una stringatura incrociata che arriva fin dietro al ginocchio. Si trucca con matita nera su tutto il contorno occhi, ombretto blu sfumato in un grigio-azzurro, accenno di cipria, lucidalabbra. Infila le mani in un paio di guantini corti in finta pelle a mezze dita. Dovrei essere pronta…sembro una troia!

Picchiando un relativamente morbido manganello contro la porta del bagno esclama, con il tono più deciso e autoritario di cui è capace, «ESCI, PORCO!»

Perozzi si presenta completamente nudo, le carni chiare, il pelo brizzolato, una pancia enorme sotto a flaccidi pettorali. Per trattenere le istintive risate, Rebecca si sforza di rimanere più seria che può.

«Mi scusi agente, ma mi hanno rubato i vestiti,» si giustifica Perozzi con uno sguardo implorante.

Rebecca non sa esattamente cosa debba fare ora. Forse lo deve colpire con il manganello? Di già? Ma piano? Forte? Quanto forte? E dove? Nel dubbio, rimane immobile.

«Agente, la prego, non mi arresti per atti osceni in luogo pubblico!»

Colpisco? Non colpisco? Lo ammanetto? Intanto risponde accomodante, «va bene, per questa volta non l’arresto.»

Non l’avesse mai detto.

SCIAFFF!

Una sberla a mano aperta investe il visetto di Rebecca facendola traballare sulle zeppe degli stivali, poi un’altra sberla le fa perdere completamente l’equilibrio distendendola sgraziatamente sul tappeto prugna.

«STRONZA! HAI ROVINATO TUTTO!»

Rebecca sente le guance in fiamme. La tensione accumulata fino a quel momento, l’alcol in circolo, il dolore e il pensiero di Mauro la fanno scoppiare a piangere. L’ultima volta che aveva pianto era alla morte della nonna, dieci anni prima.

«Sei una sciocca, era tutto perfetto, ti eri preparata benissimo e hai rovinato

tutto. Fammene un’altra così e ti faccio licenziare prima ancora che ti confermino, cagna!» Rebecca, attònita e ammutolita, intanto si è tirata a sedere su un divano, raccogliendosi tutta accovacciata contro un bracciolo. Si sente così inadeguata, così fuori posto e così indifesa in quella situazione. Riesce a darsi un contegno trattenendo a stento le lacrime ma non i singulti. Perozzi si è ormai quasi completamente rivestito e all’udire quei singulti la apostrofa nuovamente, «cagna! Smettila di frignare! Non dovevi perdonarmi, non subito, me la devi far sudare la tua gnocca, hai capito! Quando ho la schiena e il culo rossi di manganellate, allora me la devi dare. Ma è tanto difficile? Perché cazzo ti ho dato frustini e manette secondo te? Hai mai sentito parlare di sadomaso? Che cosa vi insegnano a scuola oggigiorno? Solo a chattare su Facebook e a televotare i reality? Cristo Santissimo! Che schifo! A questo punto me ne vado. Da solo.» Perozzi sta uscendo dalla stanza vestito di tutto punto mentre Rebecca è ancora sul divano con il mento tra le ginocchia e le mani premute sul viso. «Rivèstiti in fretta. Lascia la stanza com’è, verrà il ragazzo a sistemare e portarsi via la roba. Manderò un taxi a prenderti nel parcheggio qui sotto. Per oggi ne ho abbastanza delle tue scenate. Perciò non farti vedere in ufficio fino a domattina!»

10

Rebecca è sì sconvolta ma allo stesso tempo sollevata dal fatto di non esser dovuta finire a letto col suo capo. E in che modo maldestro poi! E’ consapevole che si tratta solo di una vittoria di Pirro, ha solamente rimandato l’amaro calice, ma per il momento si sforza di farsi bastare la misera conquista. Si accorge anche di aver pregato con tutte le sue forze dentro di sé affinchè quella tortura finisse. Forse le preghiere qualche volta vengono ascoltate, chissà!

Rebecca si ritrova quindi con una parte di pomeriggio inaspettatamente libero e con tanta adrenalina in corpo da smaltire. Non ha voglia di tornare a casa anzitempo, soprattutto per non doversi inventare delle scuse con i suoi. Come antidoto per esorcizzare le brutte sensazioni che ancora la pervadono, pensa a Mauro rendendosi immediatamente conto però che è come aceto sulla ferita, visto l’orrido di meschinità in cui sta precipitando alle sue spalle. Forse potrebbe correre da lui, solo per sentirlo vicino, ma non se la sente di disturbarlo sul lavoro, anche perché lui ha già consumato un permesso per pranzare con lei.

Inoltre, sfortuntamente non fuma e non abusa di alcolici infrasettimanali, uno svantaggio quando si vorrebbe trovare qualcosa per distendersi all’istante.

Le balena un’idea: andare a scaricarsi in poligono, a Cividale. Un modo alternativo per sentirsi vicina a Mauro. Durante il tragitto verso Cividale col Fiorino di Giordano, prova a distrarsi ricordando una storia di Mazzoni.

Al poligono non trova il signor Nello, il tizio della sera prima, ma un giovane ragazzetto brufoloso e dai capelli ispidi poco più che maggiorenne. Per farsi consegnare un’arma, Rebecca si era già preparata una storia da raccontare al

custode. Avrebbe spiegato che Mauro le aveva detto “vai pure e dì che ti segnino a mio nome e che mi assumo tutte le responsabilità e non preoccuparti che telefono e avviso che andrai”. Poi avrebbe aggiunto che forse Mauro si era scordato di telefonare quando il signor Nello sarebbe caduto dalle nuvole, augurandosi così che la fe are ugualmente.

Il ragazzo brufoloso la accoglie scusandosi all’istante, «mio padre è dovuto andare via improvvisamente per una commissione. Mi ha detto di lasciar entrare solo quelli che conosco, e lei non la conosco.» Rebecca si era preparata una storiella ormai inutilizzabile ma si accorge del malcelato imbarazzo del ragazzo nel trovarsi a tu per tu con una sconosciuta e avvenente fanciulla, così ne approfitta per tentare lo stesso. «Come ti chiami?»

«Kevin.»

Rebecca prosegue carica di sicumèra, «bene Kevin, non ci siamo mai visti ma io sono socia da molto tempo, ho una gara a breve e mi scoccerebbe non potermi allenare adesso, dato che ho preso appositamente un permesso dal lavoro. Ero qui anche ieri sera, alle otto e cinquantasette, come puoi verificare sul registro.» Il ragazzo scorre la pagina del giorno prima e all’orario indicato legge “Paganin”.

Rebecca continua la sua farsa giocandosi il tutto per tutto, «io mi chiamo Paganin, trovi?»

Il ragazzo, ansioso di fare bella figura, annuisce senza associare quel cognome ad un altro socio che a questo punto dimostra ugualmente di non conoscere. L’ostacolo è ormai superato e Rebecca chiede la stessa pistola della sera prima, con trenta cartucce calibro 357 magnum. Tra sé e sé si è già autoassolta per quello che sta facendo, dando la colpa alla spiacevole giornata che le è capitata.

A Mauro dirà che voleva allenarsi per dimostrargli tangibilmente quanto avesse apprezzato l’originale invito della sera precedente. Ed era vero, tra l’altro.

Il ragazzo ritorna con la pistola e le munizioni. Rebecca allunga venti Euro strizzandogli l’occhio, «tieni pure il resto», come se inconsciamente con quel gesto volesse furbescamente comprarsi la sua complicità o il suo silenzio.

Pochi istanti dopo, Rebecca si porta sulla stessa linea di tiro che aveva occupato con Mauro. E’ eccitata e agitata. I polsi le tremano leggermente. Con il joystick posiziona un bersaglio nuovo e lo osserva ingrandito e immacolato nel monitor alla sua destra. Poi scruta il bersaglio reale a venticinque metri. «A noi due.»

BANG! BANG! BANG!

Nessuno dei tre colpi raggiunge il bersaglio, però la potenza degli spari, il suono secco, i contraccolpi che si ripercuotono su tutto il corpo e l’odore acre che si sprigiona nell’aria, la inondano di brividi e di piacere dal cervello lungo il filo della schiena fino al basso ventre, sconnettendola dalla realtà.

BANG!

Il quarto colpo, è sul bersaglio. Non vicino al centro, ma è sul bersaglio. Ora i polsi hanno smesso di tremare, sono saldi, un tutt’uno con mani e avambracci. Rebecca divarica meglio le gambe, scioglie la muscolatura irrigidita delle spalle e del collo roteando la testa e ondeggiando la schiena come un serpente che danza. Ha di nuovo il controllo su di sé e la mente vuota e tesa al bersaglio.

Devo solo aggiustare la mira. Che figata sparare!

BANG! BANG! BANG!

L’ultimo colpo è vicinissimo al centro del bersaglio.

Sono grande!

Quaranta minuti dopo, Rebecca esce dal poligono leggera come una libellula. I cattivi pensieri sono temporaneamente sublimati in qualche buio anfratto.

Rebecca arriva a casa poco prima delle diciotto, l’orario in cui abitualmente rientra dal lavoro. Per preservare il più a lungo possibile quello stato di spensieratezza, le viene naturale salutare frettolosamente la madre e indossare la tenuta da corsa. «Ciao mamma, oggi giornata pesante, vado a correre prima che mi i la voglia.» Cinque minuti dopo si sta già inerpicando sulle colline che iniziano le loro gibbosità ai limiti dell’abitato. L’iPod è rimasto a casa, visto che era scarico.

Pazienza, correrò senza cuffiette, tanto ho ancora il rimbombo degli spari nelle orecchie, me li farò bastare.

Il profumo del mosto proveniente dalle cantine aleggia sulle colline sopra Manzano, rendendo l’aria dolce e vitale. Mentre corre, Rebecca considera che è già la fine di agosto.

Anche quest’anno l’estate è volata via in fretta, dannazione.

Rebecca ha sempre accostato l’aria di vendemmia alla fine delle vacanze scolastiche e all’imminente ritorno a scuola.

Ho sempre creduto che non fosse possibile pensarlo, però ora mi viene da dire che quelli della scuola erano proprio bei tempi, anche se tutto sembrava così difficile al liceo, tante materie, tante ore a studiare. Col senno di poi posso affermare che vedevo i problemi troppo ingigantiti. In realtà era una pacchia. Non dovevo preoccuparmi di mantenermi, di salvare la famiglia dal pignoramento, di respingere i maniaci sessuali. Però, se potessi tornare indietro, sceglierei un istituto tecnico e non quel cavolo di liceo che mi hanno imposto mamma e papà. Hanno sempre deciso loro per tutto. Terminati i cinque anni, se avessi avuto ancora voglia di studiare, mi sarei iscritta all’I.s.e.f. e sarei diventata personal trainer per VIP.

Rebecca, d’un tratto, si ferma tra i filari di un vigneto spoglio. I pensieri si accavallano nella mente.

O forse ero io che non mi decidevo su niente. Anche ora sono sempre insicura, mi sento sempre in difetto rispetto agli altri. Ma che vita sto facendo? Perché devo tirarmi dietro questi complessi di inferiorità?

Si accovaccia, si cinge il capo con le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Come se inconsciamente cercasse di abbracciarsi, di consolarsi, di rassicurarsi. Gli occhi chiusi.

Anche questa volta il momento di felicità è già sparito. Sono una stupida. Non

riesco mai a concentrarmi sulle cose belle, a mantenermi in uno stato d’animo postivo. Sono venuta a correre senza pensieri, leggera come una piuma dopo aver sparato. E ora eccomi qua, come una cretina, a recriminare il ato e ad aver paura del futuro. Devo smetterla di comportarmi così o non andrò da nessuna parte.

BANG!

Dannazione! Ma questo cos’era? Uno sparo? Ho le allucinazioni?

BANG!

Un secondo colpo di arma da fuoco eccheggia. Gli spari improvvisi hanno il potere di far rialzare Rebecca e distoglierla dalle sue congetture. Si rende conto di aver corso senza meta, distratta dalle sue preoccupazioni e di essere finita nella sconfinata proprietà dei De Dietrich, composta da colline a vigneto e bosco che circondano come baluardi l’ampio parco e la villa.

Ma porcaputt…i colpi vengono dalla villa dei ricconi.

Tra i pampini e i tralci massacrati dai vendemmiatori, Rebecca riesce a scorgere distintamente la lussuosa casa là in basso, a circa trecento metri. Sul vialetto d’ingresso c’è il SUV che per poco non la investiva due giorni prima. Dietro al SUV è immobile una seconda auto, scura, anonima. Un uomo esce correndo dalla casa, sale sull’auto scura e schizza via a tutta velocità.

Cristo Santo! E ora?

Mentre la mente di Rebecca cerca di recuperare qualche brandello di razionalità, le sue gambe hanno deciso di precipitarla giù dalla collina. Scavalca con agilità la rete metallica che delimita il parco e corre verso il portico dove probabilmente sarà posizionato l’ingresso principale. E’ terrorizzata ma l’istinto la spinge a fare qualcosa. Scoprendo la porta spalancata, si ferma impaurita ad una decina di metri. Si guarda attorno con circospezione ma non vede nessun segnale che possa rivelare la presenza di qualcuno oltre a lei. Avanza.

Nell’ampio atrio decine di angioletti Thun, schierati dentro un grande acquario senz’acqua, si affannano per attirare l’attenzione dei visitatori ma Rebecca procede oltre, verso la sala da pranzo, deserta. Fugacemente si affaccia alla cucina, acciaio, mestoli e coltellacci a terra, disordine, nessuno. Un lamento proviene dal soggiorno dove scorge una donna stesa sul pavimento. Le si avvicina con cautela, evitando di calpestare un coltello da cucina con la lama parzialmente arrossata. Le mani della donna premono il petto e si confondono in una grande macchia rosso scuro che si è propagata ormai su gran parte della camicetta blu elettrico. I palmi aperti non riescono a trattenere il sangue che continua a spandersi copiosamente attraverso le dita, lordando senza remore il costoso tappeto in pelo di capra tibetana di cui è ricoperto gran parte del pavimento della stanza.

Rebecca non riesce a urlare, talmente è terrorizzata. Si inginocchia. La donna è la signora Lorraine De Dietrich, la tipa altezzosa da cui stava per essere investita due giorni prima. Appare esanime, senza più forza. Dalla bocca esce solo agonìa impiastricciata. Gli occhi, vitrei, sono l’unica parte in lei che riesca a trattenere ancora un minimo di vitalità. Dai rantoli soffocati, Rebecca si rende conto che la signora sta morendo dissanguata, si alza di scatto e fa per andare a cercare un maledetto telefono in quella fiera dell’orrore.

Un sussulto della donna, unito a un lamento più forte degli altri, obbligano

Rebecca a fermarsi rivoltandosi indietro. La signora De Dietrich annaspa per attirare la sua attenzione, gli occhi sembrano implorarla affinchè si avvicini. Rebecca si inginocchia una seconda volta, l’altra sembra sul punto di voler parlare. Rebecca accosta l’orecchio alla bocca calda e schiumosa. Lorraine fa appello a tutte le poche forze rimaste per sussurrare qualcosa che ha l’aria di essere molto importante. Rebecca percepisce solo dei suoni confusi che fatica a decifrare. Le uniche parole distinte sono “… spada infuocata … giustizia divina … tutti i demoni … Montecastello.” Rebecca si scosta leggermente per guardarla negli occhi e dirle che non sta capendo niente, ma proprio in quell’istante la signora reclina di lato il capo e dal suo corpo scompare tutta la tensione.

Oh merda! Ma questa è morta! E’ MORTA! Rebecca, in preda ad una crisi isterica, libera il suo terrore con barriti acutissimi.

Oddio che bel casino! E se mi accusano di averla uccisa? Non posso rimanere qui. Dannazione!

Scappa via da dove era venuta. Scavalca la rete di confine e correndo si fa inghiottire dai vigneti. Venti minuti dopo è sotto la doccia, a casa.

11

«Mentre ero nelle serre ho sentito diverse sirene correre su e giù per il paese. Ma non ho ben capito dove andassero. Dev’essere successo qualcosa di grosso, visto il dispiegamento di forze.»

A Rebecca cade la forchetta nel piatto. Fissa inebetìta suo padre, autore della frase che ha appena udito. Luisa, di spalle impegnata ai fornelli, aggiunge «sì sì, le ho sentite anch’io. Ho telefonato alla Mirella e secondo lei andavano verso la collina.» Giordano riprende, «da quelle parti ci sono solo un paio di aziende vinicole e la tenuta dei De Dietrich.»

«La Mirella ha detto che ha contato almeno tre auto della polizia, due dei carabinieri e un’ambulanza,» continua Luisa portando in tavola un piatto di bistecche di manzo impanate. Scorgendo il piatto di Rebecca ancora quasi colmo di spaghetti, esclama «non mangi, Rebecca?»

«Io…io…non ho molta fame.»

«Ma ti senti bene? Sei così bianca.»

«Sì sì, cioè no, non molto, scusate ma devo…» coprendosi la bocca con le mani, Rebecca corre in bagno in preda a violenti conati di vomito.

Luisa la segue allarmata. «Oddio, Rebecca!»

Giordano le rincorre entrambe. «Luisa, calmati. Sta solo vomitando. Vieni, usciamo e lasciamola tranquilla.» Poi, rientrato in bagno, accarezza Rebecca sulla testa. «Va meglio ora, piccola mia?»

«Un po’ meglio. Deve avermi fatto male la doccia ghiacciata dopo la corsa.»

«Tranquilla, non è niente, resta qui un altro po’. Torno in cucina a rassicurare la mamma.»

Ma tutte a me devono capitare. Glielo dico che ero là? Non ne hanno già abbastanza di problemi? Meglio che stia zitta. E se qualcuno mi ha vista? Probabilmente la polizia sarebbe già qui a interrogarmi. Devo calmarmi. Non ho ammazzato nessuno, sono semplicemente entrata in casa e uscita. Non ho toccato niente. Però ho camminato sul pavimento. Cazzo! Ok, butto via le scarpe. Devo comportarmi normalmente, fare le cose che farei normalmente, è meglio così. Inutile andare a cercarsele.

Dopo pochi minuti, Rebecca esce dal bagno e ritorna in cucina. «Mamma, papà, mi sono ripresa. Sto bene. Ora esco che ho prove col coro.»

Attraversando il sagrato della chiesa, Rebecca intercetta i discorsi delle mamme che hanno accompagnato i bambini alle prove. Ormai si parla già di qualcuno che è morto dai De Dietrich. Dicono che attorno alla villa ci siano la stampa, le televisioni e tanti curiosi. Tra sé e sé considera che tanto interesse è normale, dopo tutto si tratta di una famiglia molto in vista.

Mentre accompagna con l’organo i canti dei bambini, le risuonano nella mente le ultime parole di Lorraine: spada infuocata … giustizia divina … demoni … Montecastello. Rebecca sa che Montecastello è una piccola località in collina, a ottocento metri d’altezza sopra Cividale del Friuli. Arroccato sulla sommità dell’altura si trova un monastero di Gesuiti con accanto un santuario dedicato alla Madonna Nera, meta di frotte di pellegrini. Sovente, pronunciando “Montecastello”, la gente del posto si riferisce al complesso monastico più che alla località in sè.

Lei si ricorda anche che nella cripta del santuario c’è una statua dell’arcangelo Michele che, brandendo una spada infuocata, schiaccia sotto i suoi piedi il diavolo sconfitto. Ma perché Lorraine ha voluto rammentarle in punto di morte quelle parole apparentemente didascaliche e del tutto insignificanti?

«Sono finite le parole, maestra!» Un bambino riporta Rebecca nel presente, costringendola a realizzare che da qualche minuto stava suonando senza il sottofondo delle voci dei bambini. Segno che le strofe del canto sono finite da un pezzo e che lei stava seguitando a ripetere la melodia ad libitum.

«Avete ragione, volevo ripetere un aggio che non mi era riuscito bene,» cerca di giustificarsi Rebecca. Le prove terminano, ma non l’angoscia di Rebecca. Fuori dalla chiesa si parla di omicidio della signora Lorraine De Dietrich. Rebecca saluta frettolosamente tutti dirigendosi verso casa.

Mentre cammina, controlla il telefonino dove trova un messaggio molto dolce di Mauro che termina con “…e non vedo l’ora che sia domenica per rivederti, anche se in canoa saremo insieme agli altri. Buonanotte dolce sogno”.

Mentre invia un messaggio di risposta a Mauro, Rebecca giunge in prossimità del cortile di casa propria. Solleva gli occhi dal display per aprirsi il cancelletto

pedonale e si accorge che il cancello carraio è insolitamente spalancato. Nel cortile c’è un’auto scura. Una grossa Mercedes. Nessuno dei parenti e conoscenti di famiglia ne possiede una.

Ma chi diavolo può essere a quest’ora?

Rebecca entra in casa, sente parlottare nel soggiorno.

«Uh uh, mi è sembrato di averla sentita arrivare,» Luisa si precipita tutta concitata all’ingresso per accogliere Rebecca. «Vieni vieni di là, ti stavamo aspettando.»

«Mamma, chi c’è?»

«Oh su, tante storie. Un signore che ci ha fatto una sorpresa.»

Rebecca avanza guardinga verso il salotto e rimane di sale nello scorgere, spaparanzato sul divano, Perozzi che chiacchiera amabilmente e beve vino con suo padre.

«Il dottor Perozzi credeva di disturbare venendo qui senza preavviso. Ma non disturba affatto, anzi è un piacere poter conoscere il capo di nostra figlia. Vero Rebecca?» seguita giuliva Luisa. E Giordano aggiunge «non ha fatto altro che magnificarci la tua preparazione e la tua serietà sul lavoro. Dice che sei proprio quella che cercavano e che farà il possibile coi piani alti per accorciare il periodo di prova e farti assumere quanto prima.»

Riprende Luisa, «e guarda cosa ci ha portato. Per papà tre bottiglie di Champagne e per me questa bellissima confezione di fiori. E poi è così simpatico e a modo. Oh come siamo contenti che sia venuto a trovarci. Vero Rebecca?»

«Eh? Certo certo, sì. Buonasera dottor Perozzi.»

«Ciao Rebecca,» le risponde Perozzi, sfoderando un largo e cordialissimo sorriso. Poi, rivolgendosi ai genitori, «ah, che figlia splendida avete. Ha un solo difetto, le ho già detto che può chiamarmi semplicemente Mario, ma si incaponisce ad appellarmi con dottore o dottor Perozzi. Eh eh eh. Sarà la fin troppo buona educazione che le avete impartito, o più semplicemente è solo un po’ timidina.»

Luisa, sempre più giuliva, «oh, la nostra piccola ci teneva così tanto a lavorare in banca.» Rebecca lancia un’occhiataccia alla madre in segno di disapprovazione per quello che ha appena detto. Luisa, noncurante di ciò, prosegue i suoi sproloqui. «Rebecca, perché non ci avevi ancora parlato del tuo capo? Che cara persona.»

Perozzi è visibilmente soddisfatto di come siano andate le cose fin lì, lancia una rapida occhiata al quadrante del suo Daytona e decide di congedarsi, «bene signora Luisa, signor Carinci, è ora che tolga il disturbo,» e rivolto a Rebecca aggiunge «anche perché domani ci attende una giornata impegnativa.»

«E’ stato un piacere, torni, torni a trovarci quando vuole, Mario. E tu Rebecca, su, accompagna il dottor…accompagna Mario alla porta.»

Dopo i convenevoli e le strette di mano, Rebecca riluttante accompagna Perozzi fino in cortile. Quando ormai la distanza dall’interno le garantisce che i suoi non possano sentirla, con tono inquisitorio si scaglia contro Perozzi. «Ma come le è saltato in mente? Cosa voleva dimostrare con questa piazzata.»

Perozzi, serafico, le risponde. «Oh Rebecca, sei così arrapante quando ti arrabbi. Volevo conoscere mamma e papà, tutto qui. Che c’è di male? Non penserai mica che abbia voluto ingraziarmi la tua famiglia, lusingarli con la mia possibilità di influenzare la tua rapida carriera in banca, col duplice scopo di costringerti a non deluderli piegandoti ai miei voleri e contemporaneamente rendermi ai loro occhi il capo ideale e far apparire poco credibili le tue possibili lamentele sul mio conto che potresti rivolgere loro un domani? Beh, se pensi questo, sei in malafede.»

Rebecca sta per esplodergli in faccia qualche ingiuria ma Perozzi le posa imperiosamente l’indice sulle labbra. «Ssst. Non rovinare tutto. E’ stata una piacevole serata. Ora ognuno a casa propria e ci vediamo domani.» Quando sta ormai salendo nell’abitacolo della Mercedes, Perozzi rivolge a Rebecca un’ultima stoccata. «Ah, non sapevo che eri molto attiva in parrocchia. Bene, brava. Non vedo l’ora di farmi frustare da una suoretta sui tacchi a spillo. Il solo pensiero mi provoca già un’erezione. Buonanotte Rebecca.» Lei dal canto suo, di tutto quello che le frullava per la mente, riesce solo a mormorare un «maledetto!» prima di voltarsi e rincasare. Il lampeggiare di una volante, che sfreccia ad alta velocità, colora di blu per un istante la facciata di casa Carinci. Rebecca sussulta, deve ancora far sparire le scarpe.

Però devo stare attenta. Si ricorda infatti di un articolo di giornale su “Unabomber”, il tale che imboscava ordigni nei supermercati e nelle spiagge affollate di Veneto e Friuli. Gli inquirenti avevano fatto appostamenti posizionando microtelecamere nel cortile dell’indagato, filmando che di notte si infilava nel capanno degli attrezzi per alterare con la lima le lame delle forbici che verranno poi ascritte quale corpo del reato. Teme di essere già sotto

osservazione, così non va a bruciare le scarpe in cortile ma le porta in camera da letto, anche per non insospettire i suoi nel vederla armeggiare con esse in giro per casa. Spegne la luce, spalanca la finestra. Con un taglierino asporta parti di suola, poi con l’accendino ammorbidisce la gomma della suola e con le dita, fasciate in un fazzoletto, plasma e modifica un po’ l’impronta e il bordo esterno delle scarpe.

Anche se viene fuori che ho lo stesso numero di chi è stato nella villa, li sfido a sostenere che ero proprio io con queste scarpe. E se mi chiedono come mai siano bruciacchiate, risponderò che accidentalmente ho camminato dove mio padre è solito bruciare le cassette di legno vuote, accanto alle serre.

Rebecca si gira e si rigira nel letto come un galletto allo spiedo. Il silenzio, il buio e il verso di una civetta che comincia la sua giornata, non fanno altro che ingigantire i mostri che affollano i suoi pensieri. Lorraine che le muore a pochi centimetri di distanza. Le statuine Thun che dall’acquario osservano serafiche. Tutto quel sangue. La paura di venire scoperta e indagata e, nell’eventualità, non sapere come difendersi. E poi le serre di papà, la banca che ha revocato i fidi così all’improvviso dopo che a parole si erano dimostrati possibilisti sul concedere una proroga. E come avranno fatto ad ottenere dal giudice una sentenza in quattro e quattr’otto? E poi quel maniaco di Perozzi. Che mossa astuta ha escogitato? L’ha battuta sul tempo. Come le è capitato troppe volte nella sua breve vita, ha esitato indecisa sul da farsi. In questo caso non sapeva se avvisare i suoi della piega presa dal rapporto col suo capo e, nel dubbio, ha lasciato correre un po’ di tempo. Frattanto Perozzi, con la sua sortita, ha reso più difficile qualsiasi tardiva contromisura. Esitare nei momenti clou è sempre stato uno dei miei punti deboli. Ma è colpa del mio carattere?

Rebecca si tormenta chiedendosi se il suo carattere si sia plasmato su quello dei genitori, come sostengono gli psicologi. Riuscirà a cambiare, a superare il clima di rassegnata speranza che regna in casa? E’ corretto l’atteggiamento di Giordano che lascia sempre correre, perché se hai fede le cose si mettono da sole sul binario giusto ed è tutto tempo perso incaponirsi contro questo o quello?

Come si sarebbe comportata l’indomani con Perozzi? Lo avrebbe assecondato? Vale la pena compromettersi fino a quel punto per i soldi, per cercare di rabberciare con il fazzoletto di carta del suo stipendio la barca di suo padre che affonda? Ed è giusto tenersi dentro tutto? Ma con chi potrei confidarmi? E i rimorsi le avrebbero permesso di sostenere gli occhi del povero e inconsapevole Mauro? Lei ce l’aveva una coscienza? Cos’è alla fin fine la coscienza, se non un’invenzione degli uomini cattivi per comandare a bacchetta gli uomini buoni, come sosteneva Nietzsche al liceo. O avevano ragione Kant e Hegel a parlar tanto di coscienza e morale? Rebecca ormai delira avvolta dal sudore e dall’acre lezzo di gomma bruciata che stenta ad uscire dalla finestra spalancata. Il lavoro sulle suole è venuto male, si capisce che è fatto di proposito, domani dovrò rifarlo meglio.

Un ultimo pensiero la tormenta prima di cadere nell’incubo della professoressa di filosofia che la interroga sull’imperativo categorico di Kant nell’ultimo giorno di scuola: dopo che Perozzi se ne era finalmente andato da casa Carinci, la Mirella aveva telefonato per annunciare che ormai era di pubblico dominio il fatto che tutto il trambusto di sirene e lampeggianti vari era dovuto alla morte di Lorraine De Dietrich. Si parlava già di morte procurata, non accidentale, aveva detto “è stata assassinata”. Chiusa la telefonata, Giordano era diventato immediatamente triste, taciturno, cupo. Uno stato emozionale che non gli era proprio e che Rebecca non riusciva a giustificare, visto che quella donna era per loro una sconosciuta, si sapeva chi fosse ma né con la famiglia né con lei si aveva mai avuto a che fare.

12

Il giorno seguente ci pensa Perozzi a indirizzare i confusi propositi di Rebecca. Pausa pranzo. Di nuovo al Metropole, con meno convenevoli. Perozzi, con sorprendente magnanimità, sostiene di poter aiutare la famiglia Carinci, dice di avere il contatto giusto all’interno della banca di Giordano. Si tratta della persona che gli aveva procurato le informazioni sulle sofferenze della “Carinci frutti di bosco” nonchè la fotocopia dell’ingiunzione di pignoramento, quella che ha usato il giorno prima per far salire Rebecca in camera.

Il contatto di Perozzi ha riferito che il giudice dovrà nominare un consulente tecnico che rediga una perizia di stima prima di mandare gli immobili all’asta. «Alla fin fine, l’importo della perizia viene concordato tra perito e creditore, in questo caso la banca.»

Il dottor Lanzafame, così si chiama l’amico di Perozzi, è convinto di riuscire a fissare un valore di partenza alto, fuori mercato, in modo che l’asta vada deserta almeno per i primi due esperimenti. Così facendo, prima che la base d’asta scenda a livelli convenienti, dovrebbe are diverso tempo e, in base ai calcoli di Perozzi ati da una tabella esplicativa, lo stipendio di Rebecca unito al guadagno di Giordano, possono permettere loro di sfamarsi e contemporaneamente ristrutturare il debito dando a garanzia anche lo stipendio di Rebecca, una volta assunta a tempo indeterminato. Questo permetterebbe di sospendere l’asta prima del terzo ribasso, quello che renderebbe appetibile l’immobile sul mercato.

Rebecca cerca di riassumere, «in pratica potremmo avere quasi un anno di tempo. Se ho ben capito, entro venti giorni dall’esperimento d’asta la vendita può essere sospesa se si trova un accordo fra le parti. Quindi fra circa un’anno, prima di venti giorni dal terzo esperimento d’asta, la banca ci concede un nuovo

fido garantito dal mio stipendio e a fronte di liquidità che avremo frattanto versato mio padre ed io. Con la provvista così creata ripianiamo le sofferenze precedenti e la banca, ritenendosi soddisfatta, comunica al giudice di sospendere l’asta e noi siamo salvi.»

«Esatto, dottoressa.»

«Ma se nei precedenti esperimenti qualcuno dovesse andare ad aggiudicarsi i beni, a battere l’asta?»

«E’ fuori discussione. Di questi tempi in cui già si fatica a vendere, chi è quel pazzo che va a comprare qualcosa oltre i valori di mercato? Chi vuoi che voglia immischiarsi in questa esecuzione, trattandosi inoltre di immobili occupati da persone che minacciano i potenziali acquirenti di demolire tutto prima di essere espulsi a forza. Che minacciano di sfasciare le serre e lasciare i rottami nel cortile, di intasare con sabbia di fiume e sassolini gli scarichi della casa, di evocare con messe nere il serpente Kundalini prima di venir cacciati via?»

«Questo dovremo farlo noi?»

«Ammesso che ci sia qualche scriteriato che voglia acquistare al primo o secondo esperimento, egli avrà diritto a visionare gli immobili e voi reciterete adeguatamente la vostra parte di pazzi furiosi. Ma ti ripeto, è alquanto improbabile che in momenti negativi del mercato si presenti qualcuno.»

«E chi ci garantisce che si riesca a stimare gli immobili con una valutazione fuori mercato?»

«Lanzafame. Vedi, secondo lui c’è stato un errore, dice che ultimamente non è mai successa una cosa simile. Solitamente alla banca non conviene iniziare tutta la trafila dell’asta e tenersi il debito per tanto tempo. E’ più vantaggioso per la banca cercare e trovare un accordo col debitore, se questi è collaborativo. Lanzafame è convinto di riuscire a evidenziare l’errore e a riparare nel modo che ti ho detto, magari forzando un po’ qua e là, e lui è in condizione di poterlo fare. Lo conosco da una vita, non ha mai sbagliato, puoi fidarti.»

A Rebecca pare tutto magnifico, a parte la sottintesa contropartita che dovrà corrispondere in comode rate dilazionate sul letto zebrato ai piani superiori. Si era recata al lavoro con l’idea di mollare tutto e andare a cercarsi un’altra occupazione, ma dopo le convincenti prospettive offerte, decide lì per lì di rimanere sulla giostra, seppure con disappunto e consapevole di sottostare ad un ricatto. Dopotutto “la guerra è la guerra”, come ripeteva spesso la nonna.

Salgono nella stessa suite del giorno prima. Perozzi si ritira nella stanza da bagno e lascia a Rebecca il borsone da viaggio prelevato dalla reception. Aprendolo, viene avvolta da una zaffata di gomma e talco che precede un miniabito in lattice, nero con colletto bianco. Si spoglia completamente per farselo scorrere addosso, tira di qua, tira di là, riesce a malapena a celare il pube e il sedere. Il nero lucido la comprime piacevolmente esaltandone le forme armoniose e toniche. Il largo colletto bianco attorno al collo castiga la mise impedendo la vista del decolletè. Nella borsa c’è anche il copricapo nero con orlo bianco che usano le suore vere per coprirsi i capelli in modo da rendere visibile solo il volto. Un paio di stivaloni, sempre in lattice aderentissimo che arrivano fin quasi a metà coscia, completano il travestimento monacale. I tacchi altissimi la fanno svettare verso l’alto, dandole un’aspetto fiero, da dominatrice. Dal mobiletto bar si versa mezzo tumbler di whisky ingurgitandolo d’un fiato. La gola e lo stomaco bruciano. Giusto il tempo di una ata di lucidalabbra, un velo di fard grigio, un ritocco di matita nera al contorno occhi e la sferzata dell’alcol arriva al cervello. Impugna il frustino, si osserva sulle ante-specchio del guardaroba e si sente ridicola nel compiacersi di quanto sia grottescamente provocante. Si accorge che le manca una croce appesa attorno al collo, ma

fortunatamente nel corredo non era prevista, visto che già così si sente oltremodo blasfema. E’ pronta ad andare in scena.

Squadrando la porta del bagno urla «LURIDO PORCO! DOVE TI SEI NASCOSTO?»

Sciaff!

Una vergata sulla laccatura bianca della porta fa sobbalzare Perozzi che dall’interno del bagno stava in allerta da diversi minuti.

«ALLORA! HAI FINITO DI TOCCARTI LI’ DENTRO? VIENI A FARTI CONFESSARE, PORCO!»

Sciaff! Sciaff!

Rebecca è sorpresa di sé stessa. Non credeva di entrare così velocemente nella parte. Lascia scorrere qualche istante in attesa che Perozzi si decida a consegnarsi, quindi indietreggia sui suoi tacchi altissimi mentre il sangue le sta pulsando nelle tempie. Il condizionatore sta facendo il suo dovere, per il momento non è madida di sudore. L’uscio del bagno si schiude. La voce di Perozzi timidamente lo precede, «arrivo.»

Rebecca lo intercetta fulminea, «eccolo qui, tutto nudo e rosa come un vero maiale.» Lo afferra per un orecchio e lo trascina in mezzo alla stanza. Poi aggiunge autoritaria «ricordati che quando ti rivolgi a me, devi sempre

chiamarmi “Madre Badessa”,» torcendogli l’orecchio e costringendolo contemporaneamente ad inginocchiarsi ai suoi piedi. «Chiaro?»

«Sì.»

«Cooome?»

Sciaff!

«Ahi!»

«Dovevi dire “sì, Madre Badessa.” Chiedi perdono per questa mancanza!»

SCIAFF!

«Mi perdoni, Madre Badessa.»

L’ultimo colpo di frusta, inflitto da Rebecca sulla schiena di Perozzi, lo costringe ad avvicinare ancora di più la fronte al pavimento.

«Diciamo che per questa volta te la cavi con una frustatina.» Rebecca scorge la diagonale rossa che si sta formando sulla schiena di Perozzi e ha un attimo di esitazione.

Cazzo, ma l’ho preso proprio bene! Bah, lui non ha detto di fermarmi.

Intanto Rebecca si volta dirigendosi con solennità verso una delle sedute imbottite di fucsia vivo. Vi si adagia comoda, con le gambe leggermente schiuse.

«Ora vieni al cospetto della Madre Badessa a confessare i tuoi peccati. Cammina carponi fino ai miei piedi e non sollevare lo sguardo, non sei ancora degno di guardare la fonte da cui sgorga la mia virtù.» Perozzi obbedisce scodinzolante, portando il muso a pochi centimetri dalle punte degli stivali neri.

«Baciali! Tutti e due!»

Perozzi obbedisce devoto. Rebecca nota che ciò lo eccita.

Sciaff, sciaff! Due frustate per poi riprenderlo duramente, «non devi eccitarti, porco! Non è ancora il momento.»

«Perdonami, Madre Badessa.»

Rebecca ci stava prendendo gusto, anche perché le sue ultime parole avevano sortito l’effetto contrario a quanto da lei ordinato. Approfitta della situazione per vendicarsi della piazzata di Perozzi a casa dei suoi genitori. «Allora, cos’hai fatto ieri sera mentre te ne tornavi a casetta dopo essere stato da Rebecca? Ti sei toccato? Non mentirmi!»

«Sì…sì, mi sono toccato.»

«Ma bravo, lo sai che non si fa?»

SCIAFF! Frustata fortissima.

«AAAH!….»

Altra frustata. «Non ti ho dato il permesso di parlare.» Ormai Rebecca lo frustava in continuazione appena lo sentiva ansimare.

«D’ora in poi ti tocchi solo quando io ti dò il permesso e non torni più a far vedere il tuo brutto muso a casa di Rebecca.»

Perozzi alza la testa per protestare. «Eh no! Così non…»

SCIAFF!

«Aaah...che male! Senti Rebecca non….»

TUMPF!

Una mazzata in piena bocca, inflittagli da Rebecca col manico del frustino, gli schiaccia violentemente il labbro superiore contro gli incisivi provocandogli un taglio netto, sanguinante. Perozzi si porta le mani alla bocca per attutire il dolore, le ritrae e le vede grondanti di rosso.

«Ehm, Mario…che si fa? Forse ho esagerato. Chiamo un medico?»

«No, ah come brucia, vado in bagno, un po’ d’acqua fredda dovrebbe bastare.»

Perozzi riesce a tamponare la ferita ma il labbro è piuttosto gonfio e violaceo, corre al lavabo.

Rebecca è seduta a gambe incrociate sul letto, i gomiti sull’interno coscia e i palmi delle mani che le sostengono il mento, in attesa di istruzioni.

Dopo pochi minuti, Perozzi esce dal bagno sollevato. «Non è grave, va meglio ora.»

L’atmosfera ormai si è guastata.

«Mario, mi dispiace ma forse mi son fatta prendere troppo…»

«No no, tranquilla, stavi andando benissimo. Solo che dobbiamo prendere un po’

la mano, fare un rodaggio. Il mio labbro guarirà, sono io che non ti ho indirizzata. Sono stato un po’ incosciente ma non volevo influenzarti, volevo godermi la tua spontaneità, vedere come te la cavavi, soprattutto come reagivi dopo l’avvio claudicante del primo incontro.»

Rebecca lo fissa con sguardo interrogativo, come a dire “Ebbene?”.

«Hai la stoffa e la psicologia della donna dominatrice, avevo visto giusto, devo solo spiegarti un po’ di cose, come e dove colpirmi, il linguaggio e l’atteggiamento da tenere eccetera eccetera, ma ci sai fare. Ormai per oggi fermiamoci qua. Vedrai comunque che ci intenderemo a meraviglia e ne trarremo beneficio entrambi.»

Rebecca coglie l’allusione allo scambio reciproco di prestazioni, do ut des. Nonostante tutto, è contenta che Perozzi sia ormai dalla sua parte, in un modo eufemisticamente originale ma quantunque dalla sua parte e disponibile a darle una mano. Pertanto Rebecca, sebbene a quelle spregevoli condizioni, potrà aiutare la famiglia a sistemare i propri guai. Parigi val bene una Messa!, si autoassolve fra sé.

«Allora, prima lezione, la parola di sicurezza. Quando per qualsiasi motivo io o tu volessimo interrompere il gioco, si pronuncia una parola concordata in anticipo. Una volta pronunciata, il rapporto di dominazione cessa e torniamo a essere il capo con la sua segretaria sottoposta di tutti i giorni. Ok?»

«Che parola si usa?»

«Io ho sempre usato Merlot! E’ simpatica e facile da ricordare.»

«A me non piace, usiamo invece Tocai! E’ più di classe, nostalgico, e se te la dimentichi peggio per te.»

«Come vuoi. Ora sarà meglio che ti riporti in ufficio. Andiamo.»

Durante il rientro con la Mercedes, lui la invita ad aprire il vano portaoggetti, «c’è una cosa per te.»

Rebecca apre ubbidiente lo sportellino davanti alle sue ginocchia e, sopra ai documenti dell’auto, spicca una busta bianca. Lui la incoraggia, «prendila, ce ne saranno altre.» Rebecca, prevedibilmente incuriosita, la estrae e si accinge ad aprirla.

«NO!» le intima il suo capo, «non qui, non con me. Ficcatela in borsa e aprila quando sarai sola nella tua cameretta.»

Nel frattempo sono arrivati nel parcheggio della Walser Privatbank, l’auto si ferma in uno stallo a caso, senza entrarvi completamente.

«Scendi. Io questo pomeriggio sto fuori. E’ meglio che non mi faccia vedere con questo labbro da Paolino Paperino. Spero che il weekend basti a farlo sgonfiare.» Rebecca abbozza un sorriso di comprensione e, mentre sta per richiudere la portiera alle sue spalle, Perozzi le lancia il suo commiato. «Hei dottoressa, ti conviene mantenere il segreto,» dicendolo mima con l’indice il taglio della gola. «Quella che sedeva al tuo posto l’ho fatta sparire per colpa della sua linguaccia.»

Il pomeriggio fluisce molto lento. Rebecca non ha compiti specifici da svolgere nelle due ore rimanenti. Potrebbe approfondire qualche news economica, preparare una relazione su qualche nuovo fondo d’investimento, ma non riesce a concentrarsi. C’è quella busta nella borsetta. Perché non dare una sbirciatina? Tanto è sola in ufficio. Potrebbe però entrare improvvisamente qualche collega…oh diamine, io la apro. Va in bagno con la sua discreta pochette nera lucida. Si chiude in una latrina ed estrae la busta. Il lembo superiore è incollato. La esamina controluce, senza risultato. Comunque è leggera e sottile. Non sembra nemmeno contenere qualcosa, o perlomeno se c’è qualcosa è un biglietto sottile, sicuramente non un foglio A4 ripiegato. La picchietta facendo scivolare l’eventuale contenuto verso uno dei lati corti. Poi strappa delicatamente la busta sul lato corto opposto. Dentro c’è un foglietto verde. Cento Euro.

Ritornando alla sua scrivania incrocia nei corridoi Herr Führer, salutandola con un sorriso ebete. Una volta ripresa la posizione di fronte al suo monitor, cerca di trarre qualche conclusione, di capire se sentirsi felice, sorpresa, umiliata, usata, fortunata.

Ripensa alle parole di Perozzi secondo cui lei avrebbe la psicologia della donna dominatrice. Lei che si è sempre sentita timida, inadeguata. Effettivamente però, nella parte sono entrata in un attimo. Forse ci sono aspetti del suo carattere che sono sepolti in qualche anfratto e non aspettano altro che qualcuno, lei, li riporti a galla. Aldilà dei poco significanti, ai fini del ragionamento, risvolti erotici della vicenda, forse la sua natura non è quella di soccombere, di apparire sempre piccola e minuta, inadeguata, forse dentro di lei c’è potenzialmente la virago che non aspetta altro che lasciarsi andare per manifestarsi. Se lasciassi perdere le seghe mentali forse potrei essere veramente me stessa, liberandomi da quella sensazione di inadeguatezza che dalle medie in su mi accompagna.

Frrrrrr, clack. Frrrrrr, clack. Durante la serie di trazioni alla lat-machine nella taverna adibita a palestra, Rebecca decide di infischiarsene se la stanno usando. In fondo cento Euro sono pur sempre cento Euro. Forse mi ha pagata poco. Non

ho assolutamente idea di quanto costi una prostituta sadomaso. Tuttavia sa che riceverà altre “buste”. E quando la banca la assumerà? Perozzi le aggiungerà ancora allo stipendio? Chiude gli occhi per lo sforzo dell’esercizio ginnico. Rivede Mauro la sera del poligono, la eggiata, la sognante atmosfera e i probabili romantici sviluppi, le scivola la presa sull’impugnatura sudata e i pesi atterrano producendo un tonfo sordo.

Fanculo! Ma come mi sto comportando?

Cambia esercizio impugnando due manubri piccoli.

Driiin! Driiin! Driiin!

Rebecca, rapita dai suoi pensieri e dalla musica techno che fa da sottofondo all’allenamento, non sente che al piano superiore stanno suonando insistentemente alla porta. Però si allarma quando in taverna entra sua madre con il viso tèrreo.

«Mamma! Cosa ti succede?»

Luisa si scosta e dietro a lei appaiono tre carabinieri. Uno tiene in mano un foglio, uno regge la mitraglietta e il terzo, una donna tracagnotta, fa momentaneamente da mera coreografia.

«E’ lei Carinci Rebecca?»

Rebecca è pietrificata, il sudore bollente di un attimo prima le si gela addosso. «Ma che cosa…»

«Non complichi la sua posizione, è tutto nel suo interesse. E’ lei Carinci Rebecca?» ripete meccanicamente il robocop col foglietto in mano e l’accento siciliano.

«Io, sì certo, sono io. Ma cosa…?»

«Miii, abbiamo un mandato di ispezione e perquisizione di questo immobbile, delle serre e della sua auto. I miei colleghi di sopra sono già al lavoro. Può farsi assistere da un legale di fiducia o farsene assegnare uno d’ufficio. Naturalmente non siamo tenuti ad aspettare il suo arrivo. Dobbiamo perquisire anche lei.»

Alzando gli occhi dal foglietto, il robocop sembra rendersi effettivamente conto solo in quell’istante di come sia abbigliata Rebecca. Probabilmente dopo aver pronunciato la parola perquisire e averla associata a lei si accorge infatti che c’è poco da rovistare su quel corpo quasi completamente in mostra, umido e pulsante. Un bianco micro top sportivo, un paio di corti pantaloncini e le scarpe da ginnastica. Il robocop rimane per una frazione di secondo imbarazzato, rielaborando ciò che ha appena detto. Per recuperare contegno precisa immediatamente che «stiamo svolgendo delle indaggini, per il momento non c’è niente di grave e infatti non vi è necessità neppure di ammanettarla.»

Le lacrime di Luisa scuotono Rebecca che si accorge di essere rimasta iva, troppo iva fino a quel momento. Approfitta dell’imbarazzo, finto o vero che sia del robocop, e scaglia con forza il manubrio che ha nella destra contro mister mitraglietta. Cinque chili di ghisa dovrebbero bloccaro per qualche secondo. I cinque chili del manubrio sinistro finiscono invece contro la donna tracagnotta. Una volta creato il piccolo trambusto, Rebecca si dirige fulminea verso l’uscita

sul retro.

Tra sé si augura che, visto che non erano venuti per incarcerare un narcotrafficante calabrese, non abbiano circondato tutta la casa. Fortunatamente le sue previsioni sono azzeccate. Mentre dietro di lei volano intimazioni a fermarsi e minacce di spari, galoppa disperata verso le serre augurandosi che Giordano abbia bruciato, come ogni venerdì sera, le cassette vuote e gli imballaggi di legno. Mentre scappa urla «papààà, papaàààà,» cercando di recitare la parte della ragazzetta spaventata che corre dal papino a cercare protezione. Scorge Giordano esattamente dove desiderava con tutto il cuore che fosse. Il falò si è spento da poco e lui, con il rastrello, stà allargando i tizzoni e la cenere in modo che l’ossigeno consumi completamente le braci. Rebecca cammina attorno a suo padre calpestando volontariamente qualche brace e alzando le mani al cielo in segno di resa.

Al cospetto dei tre militi, arrivati trafelati coprendola di ingiurie, Rebecca piangendo tenta di dare qualche spiegazione al padre rimasto visibilmente disorientato dalla scena.

Il siciliano intanto la redarguisce. «Siggnorina, lei è un’incosciente, ha rischiato la vita! Lo sa che per regolamento avremmo dovuto spararle? Cosa crede, che l’avessimo prelevata e portata in cella? L’ho pure avvisata che stiamo svolgendo delle indaggini e che non abbiamo ricevuto l’ordine di ammanettarla. E lei reagisce così?»

«Sinceramente non le ho creduto, visto l’atteggiamento risoluto e reticente che ha tenuto sin dall’inizio,» risponde Rebecca sulla difensiva.

«Ma insomma,» taglia corto Giordano, da dove sbucano questi? Cosa vogliono?»

«Si sono fatti aprire la casa dalla mamma e poi sono venuti a cercare me, ma non mi vogliono dire il perchè, vero ehm…commissario?»

«Capitàno, sono il capitàno Lentini. Senta, glielo dico per l’ultima volta, non complichi la sua posizione. Abbiamo un mandato. Ci faccia lavorare e non succederà niente. Sia collabborativa e sul rapporto non finiranno i pesi che ci ha scagliato contro.»

«Ma Rebecca, ti prego, cos’hai combinato?»

«Non lo so papà. Io non ho fatto niente.»

«Signorina, è mio dovere avvisarla che qualsiasi cosa dirà potrà essere usata contro di lei.»

«Ho semplicemente detto che non ho fatto niente, come può questa frase essere usata contro di me?»

«Falsa testimonianza.»

Rebecca accusa il colpo: il tono e l’espressione del capitàno lasciano intendere che sappiano qualcosa, che abbiano dei forti sospetti su di lei. Ma come può essere?

Arrivano due tizi con valigette in mano e addosso delle tute bianche in tyvek DuPont, sulla schiena la scritta “Reparti Investigazioni Scientifiche”.

«Capitàno, nell’abitazione abbiamo finito. Qual'è l’auto?»

«Dunque, visto che alla signorina non risulta intestato nessun veicolo, qua dice di procedere con tutti i veicoli che troviamo nella proprietà. Al signor Carinci è intestato un Fiat Fiorino targato UD669156 e un Iveco Turbodaili targato AZ254BB. Eccoli laggiù. Procedete.» All’udire la pronuncia “Turbodaili”, in inglese maccheronico, il capitàno conferma i peggiori luoghi comuni sui carabinieri e Rebecca lo guarda in tralice.

«Signor Carinci, ha dei clienti nelle serre?» chiede Lentini con circospezione.

«No. Sa com’è, a quest’ora…saranno ormai le venti e i miei clienti, che sono quasi tutte donne, sono intente a preparare la cena per le rispettive famiglie.»

«E a chi appartiene allora quella vettura rossa laggiù?» chiede il capitàno indicando una vecchia Renault 4.

«Ah quella, è l’auto di Pacciani.»

«E dov’è ora questo signor Pacciani? Nelle serre?»

«No, le ho detto che non ci sono clienti…beh insomma nelle serre non c’è

nessuno, era questo che voleva sapere, no?»

«Dov’è ora quel signore?»

«Guardi che io non lo so. Qui no, di sicuro!»

«Senta Carinci, la faccenda è seria. Collabbori se ci tiene a sua figghia! Dov’è?»

«Ma per chi mi avete preso, per un delinquente. Venite qui armati, minacciate di sparare a mia figlia, quegli omini bianchi stanno rovistando dovunque, ma si può sapere che volete? COSA CERCATE?»

Rebecca non ha memoria di suo padre che urla a quella maniera, alle guardie poi, non se l’aspettava. Osserva compiaciuta che sotto sotto, quando serve, il suo papà sa fare anche la voce grossa per tenere le parti della figlioletta. Buono a sapersi, cerca di consolarsi tra sè. Approfitta della distrazione delle guardie per spostarsi un po’ dalle braci quasi spente, visto che sta sentendo odore di gomma bruciata. Realizza che è meglio attirare l’attenzione su di sé urlando «Aaaah, bruciaaaa!»

«Ossignore Rebecca, non ti sei accorta delle braci? Povera la mia piccola, sei tutta spaventata e scombussolata.»

Senza volerlo, Giordano stava facendo il gioco di Rebecca.

Imperturbabile Lentini insiste «dov’è ’sto tizio, ’sto Pacciani?»

«Io non so dove sia, mi creda. La macchina è qui perché me l’ha portata stamane. Si tratta dell’auto che usava per andare a caccia. Ha avuto un’occasione e ne ha presa un’altra. Avrebbe dovuto portare la Renault dallo sfasciacarrozze e pagarne la demolizione. Siccome era al corrente che Rebecca aveva bisogno di una macchina per sé, ha pensato bene di regalarcela,» e rivolgendosi a Rebecca, «era una sorpresa di cui ti avrei voluto parlare a cena,» poi di nuovo al capitàno «ed è andato via. Ha detto qualcosa su una battuta di caccia in Romania e che quando tornava avremmo sistemato il aggio di proprietà. Se vuole ho il numero e ve lo fate dire da lui, sempre che vi risponda.»

Lentini si limita a un laconico «controlleremo.»

«Ora che ho collaborato, ci dite una buona volta cosa cercate? Magari vi possiamo aiutare.»

«Tracce, indizi. Come sempre. E anche un paio di scarpe e una pistola.» Tendendo verso Giordano il palmo della mano destra, «mi dia le chiavi di quell’auto.»

«Non ce n’è bisogno, sono nel quadro di accensione.»

Mentre gli omini vestiti di bianco si rintanano nei veicoli e nelle serre, il capitàno e la carabiniera tracagnotta parlottano a bassa voce tenendo sott’occhio Rebecca. Lei percepisce solo un «non può averla addosso.»

Luisa raggiunge il gruppo e si stringe a Giordano singhiozzando.

Uno degli omini in tuta bianca si avvicina a Lentini. «Capitàno, abbiamo quasi finito. C’è anche lo stub da fare?»

«Sì, alla ragazza. Anche le impronte digitali e il tampone salivare. Avete trovato niente di rilevante?»

«Tracce ematiche nella Renault 4. I risultati dei campioni li avremo fra qualche giorno. E in casa ventitrè paia di scarpe numero trentasette, di cui tre di tipo sportivo. Nessuna con l’impronta cercata.»

«Nelle ventitrè paia di scarpe ha contato anche quelle indossate dalla signorina?»

«No, ora procedo.»

La tracagnotta si rivolge a Rebecca, «signorina, si tolga cortesemente la scarpa destra e la consegni al tenente Serafini,» identificando così uno degli omini bianchi. Rebecca avrebbe potuto benissimo sfilarsela dall’impiedi ma, per rimarcare negativamente quell’ingiusto trattamento a cui la stanno sottoponendo, carica di ulteriore tragicità la scena sedendosi svogliatamente sulla terra battuta, imbrattando volontariamente di polvere i pantaloncini neri prima di togliersi la scarpa.

L’omino bianco, Serafini, afferrandola con i guanti anch’essi bianchi, la esamina, la misura con un calibro ed esclama verso il terzetto in divisa «come misure ci

siamo, è un trentasette, ma l’impronta è completamente indecifrabile, sembra fusa, anzi è fusa, abbondantemente.»

Rebecca lo prende come un complimento alla sua scaltrezza, anche perché i piedi le stavano realmente scottando poco prima.

Lentini spiega all’omino bianco «la ragazza è ata sopra le braci, lì,» e con un tono indagatore prosegue «chissà se voleva volontariamente dissimulare le prove. Lo racconterà al procuratore.»

«Anche l’altra scarpa è inutilizzabile,» prosegue Serafini dopo essersi accovacciato a terra e aver fatto sollevare a Rebecca la suola sinistra, come se stesse controllando la ferratura di un cavallo. Poi Serafini si scosta, portandosi a circa tre metri da Rebecca e le lancia la scarpa destra esaminata poco prima descrivendo nell’aria una palombella degna di Arthur Zico. Rebecca, per evitare che le finisca in faccia, la afferra prontamente con la mano destra.

«Come sospettavo, è destrorsa,» giustifica Serafini l’apparentemente maleducato gesto. «Mi porga la mano,» e con un tampone raccoglie il campione da avviare in laboratorio. «Non le faccio male, è solo un test per vedere se ha sparato.»

Quelle parole sortiscono l’effetto contrario all’intento tranquillizzatore dell’investigatore. Rebecca cerca di starsene imibile ma il pensiero corre al giorno prima e si dà della stupida sentimentale per essere ritornata in poligono. Inizia a sudare e a gelare di nuovo.

Dalle retrovie ricompare la carabiniera tracagnotta che porge con aria esclamativa a Lentini il libretto di circolazione della Renault 4. Il capitàno legge

l’intestazione del veicolo e sbotta in direzione di Giordano, «senta Carinci, quell’auto non è intestata a nessun Pacciani. Qui c’è scritto Marizza Severino. Ci sta prendendo in giro?» Giordano si schiocca una palmata di mano in fronte e replica «mi scusi signor capitàno, ha ragione. Quello è il suo nome di battesimo. Ma vede, Pacciani, cioè Marizza, è un tipo un po’ particolare, diciamo che ha frequenti sbalzi d’umore, usando un eufemismo. E fisicamente assomiglia molto al vero Pacciani, il presunto “mostro di Firenze”, grosso così, alto così, pensi che porta anche lo stuzzicadenti in bocca e la barba bianca di tre giorni. Per ironizzare, qui lo abbiamo sempre chiamato “Pacciani” quando ha la luna buona, “compagno di merende” quando ha la luna storta. Ma tutto sommato è un buon diavolo eh! Viene spesso a darmi una mano come uomo di fatica. Più che altro cerco di tenerlo impegnato per qualche ora lontano dai bar, visto che non ha famiglia.»

Le guardie parlottano tra loro finchè Lentini esclama «abbiamo finito.» Si incammina per pochi i verso la camionetta prima di girarsi, «e un’altra cosa, signorina Carinci: in questi giorni stia nei paraggi, mi raccomando.»

Anche gli omini bianchi salgono sul loro furgone con le valigette di campioni e un paio di Puma numero trentasette con le suole fuse.

Una volta sparito all’orizzonte il “ciclone carabinieri”, papà mamma e figlia rientrano mestamente in casa come tre sopravvissuti ad un nubifragio.

In cucina, mentre Luisa prepara la cena e Giordano tempesta di domande la figlia maledicendo le forze dell’ordine e la loro discendenza fino alla quinta generazione, Rebecca cerca di recuperare un minimo di serenità con l’unica cosa che in quel momento avrebbe potuto sortire qualche effetto: mangiare mela grattugiata con sopra una carriolata di zucchero. In bocca sente una consistenza, un sapore e una dolcezza che la rimandano ai tempi in cui da bambina il papà la premiava spesso con quel manicaretto. Anche da adulta quella pappetta marrone, alla vista poco invitante, la faceva sentire protetta, serena, al sicuro,

permettendole di chiudere fuori il mondo cattivo.

«Insomma Rebecca, dicci qualcosa. Ammesso che quelli sono una manica di statali paraculi, perché cercavano una pistola e le tue scarpe?»

Rebecca, con il viso affondato nella ciotola della mela grattugiata, continua a ripetere «non lo so, non lo so! Mi avranno scambiata per qualcun’altra. Ci vorrebbe ancora zucchero qui dentro.» Frattanto medita sul da farsi. Ormai ai suoi deve iniziare a spiegare come stanno le cose. Le faccende di lavoro poteva ancora tenerle per sé, ma questa piazzata dei carabinieri, il probabile interrogatorio che verrà…c’è il rischio di destabilizare mentalmente i genitori e meriterebbero di sapere qualcosa, almeno per dargli una direzione in cui rivolgere la loro preoccupazione.

La pappetta marrone è finita e la ciotola leccata e lustrata tanto da rendere quasi inutile un aggio in lavastoviglie. Rebecca si accinge a iniziare la sua confessione quando un guizzo nel cervello la blocca. Nel trambusto generale quei porci avranno sicuramente imbottito la casa di microfoni. Lo aveva letto in diversi polizieschi e anche su qualche articolo di cronaca. Cazzoni! Non poteva spiegare proprio un bel niente a papà e mamma, almeno non in casa o nei paraggi. Anche scrivere dei biglietti sarebbe stato un rischio se avessero piazzato delle microtelecamere. Uscire in un locale pubblico con tutta la famiglia? Ma non era mai capitato che dopo cena fossero usciti tutti e tre a farsi un drink in qualche locale. La mamma avrebbe immediatamente detto cose tipo “In un bar dopo cena? Noi tre? Ma non ci siamo mai stati!” e addio probabilità di farla franca.

D’un tratto il colpo di genio. «Papà, il Fiorino è quasi a secco. Me ne sono ricordata ora, con tutto ’sto casino che hanno fatto. Domani mattina mi servirebbe per delle commissioni.»

«Non c’è problema, oggi ho incassato qualcosa e domani puoi fare il pieno.»

«No, beh, non è per i soldi, è che ho controllato il prezzo del gasolio su Internet e in Slovenia è sceso ancora. Converrebbe andarci e fare là il pieno. E’ aperto fino a mezzanotte. Mi accompagneresti dopo cena? Dài, col buio e tutto il resto… preferirei se mi accompagnassi.»

«Non puoi andarci domani mattina?»

«NO!»

Luisa la riprende, «perché urli, Rebecca? Datti una calmata.»

«Ops…, scusate. E’ che domani vorrei sbrigare le cose presto per non perdere tutta la mattinata, sapete com’è, con quel prezzo al distributore ci sarà la coda di italiani. Ti prego papà, accompagnami. In mezz’ora andiamo e torniamo.»

«Va bene, se la mamma non si sente abbandonata.»

«Andate tranquilli, ho del limoncello e qualche puntata arretrata di Desperate Housewives che mi aspettano per intontirmi un po’.»

Sorseggiando una Radler nel baretto del distributore Petrol, Rebecca si guarda intorno sospettosa e decide che nei paraggi non c’è nessuna “barba finta” ad origliare. Il posto le sembra sicuro per vuotare il sacco. «Papà, le cose stanno

così: giovedì ero a correre sulle colline e a un tratto ho sentito sparare dalla villa dei De Dietrich…»

«Tu…tu eri là? O mio Dio.»

«Lascia stare Dio e lasciami finire. Ero vicina, dopo due spari ho visto una macchina sgommare via a tutta velocità. Mi sono allarmata, nella villa c’era solo la macchina di lei, della signora. I cancelli erano aperti. Anche la porta era aperta…»

«Ma perché sei andata a…»

«Papààà, senti degli spari, vedi un’auto scappare e sei senza telefono in mezzo alla campagna. Tu cos’avresti fatto?»

«Vai avanti, ti ascolto.»

«Sono entrata e lei nuotava nel sangue. Capii che stava per morire ma non sapevo cosa fare. Mi ha detto qualcosa di incomprensibile e poi è schiattata. Ormai la mia presenza era inutile così sono scappata anch’io come un ladro o un omicida.»

Giordano ha le pupille sempre più dilatate e la bocca sempre più aperta e aciutta. Rebecca prosegue con il rescoconto, «non ho visto anima viva e non so in base a cosa siano arrivati a me. Ma non è tutto: sono stata in poligono qualche giorno prima.» Rebecca mente leggermente sulla data, è stata sia due giorni prima con

Mauro sia il giorno prima da sola. Ritiene necessario non dire di esserci stata anche il giorno prima sennò dovrebbe spiegare a suo padre come mai avesse avuto il pomeriggio libero e ormai le cose si stanno ingarbugliando considerevolmente complicando tutto.

«Poligono? A guardare qualcuno?»

«No, a sparare. Sai quel ragazzo, quel Mauro che viene in canoa, insomma lui spara e mi ha invitata a provare. Ora è un bel guaio perchè potrebbero trovarne traccia nel tampone che mi hanno fatto. Oddio papà, ho tanta paura.» Rebecca si getta in lacrime nel petto di Giordano che la abbraccia in preda al panico. Il panico di un padre che potrebbe vedere la figlia accusata di omicidio e gettata nelle maglie della giustizia e delle prigioni italiane, dipinte dai media ogni giorno a tinte fosche.

«Ma ci sarà un registro, un qualcosa da usare come alibi, no?»

«No. Il fatto è che non puoi andar là se non ti associ. Mauro voleva farmi provare due tiri senza tante formalità e il custode ci ha fatti are segnando solo il suo nome.»

«Comunque ci sono i testimoni.»

«Sperando che facciano il loro dovere e che vengano creduti. Sai com’è, no? Non voglio avere rogne e quindi non vado a testimoniare per terzi sconosciuti.»

«E le scarpe, fammi indovinare. Le hai bruciate apposta, prima?»

Rebecca sorride compiaciuta, «credo sia arduo collegare a me le probabili impronte nella villa e mi auguro di non aver disseminato altre tracce. Sono sicura di non aver toccato nulla con le mani.»

«Ma come avranno fatto a trovarti?»

«E’ un mistero. Potrebbero addirittura avermi pedinata fin da subito e forse ho fatto bene a improvvisare quella scenetta sul cumulo di braci delle tue cassette bruciate, anziché andare a buttare le scarpe nella spazzatura. Un’altra cosa: secondo me hanno riempito la casa e le vetture con microfoni e telecamere, per questo non ho iniziato il racconto a casa o nel Fiorino. Domenica trovati una scusa per portare via la mamma. Assicurati che non siate seguiti e raccontale tutto, magari in un bar o mentre eggiate da qualche parte. Almeno si tranquillizza un po’, o perlomeno si preoccupa per qualcosa, non come fin’ora che vi preoccupavate senza sapere perché erano venuti lì. Ho sofferto molto a vederla piangere e non poterle spiegare niente. Ora andiamo, dobbiamo comportarci come sempre e fare finta di niente. Se ci spiano devono pensare di aver preso un granchio, come effettivamente è. Ah papà, grazie per la Renault che hai recuperato da Pacciani. Anche se non è la mia preferita e non è nelle condizioni migliori, apprezzo il gesto.»

Mentre rientrano dalla Slovenia, papà Giordano esprime una perplessità apparentemente innocente che però manda in subbuglio Rebecca. «Prima, quando eravamo a cena, hai chiesto di fare il pieno a questo trabiccolo.»

«Sì, e allora?»

«Ti ho risposto che non c’erano problemi visto che ho incassato del denaro e tu hai risposto non è per i soldi.»

Rebecca arrossisce, fortunatamente la semioscurità dell’abitacolo nasconde l’inconveniente. Effettivamente, mentre pronunciava quella frase aveva pensato ai cento Euro nella busta bianca. Con calma risponde «e quindi?»

«Niente. E’ che dal tono ho percepito una sfumatura come se…Beh è una sciocchezza e sicuramente mi sbaglio ma è come se i soldi per il pieno non fossero stati un problema. Come se i soldi per il pieno li avessi già.»

Rebecca muore dentro di sé prima di mentire meschìna a suo padre, «non so perché ti sia fatto questa idea. Sai qual è la mia situazione. Sai che ho dato fondo ai miei risparmi per aiutarti a pagare le rate del mutuo. Sai che ultimamente non ho lavorato e mi sono dedicata anima e corpo a trovarmi un buon posto. Con l’espressione “non è per i soldi” volevo dire che ti avvisavo del Fiorino a secco per chiederti di accompagnarmi. Comunque non preoccuparti, appena mi arriva lo stipendio lo versiamo sul tuo conto.»

«Ah, ho capito. Scusa se mi sono fatto venire questa idea astrusa, è che avevi un tono di voce come se…dài lasciamo perdere e scusami ancora, piccola mia.»

Alle quattro del mattino il canto del gallo dei vicini, attraverso la finestra spalancata, sveglia Rebecca da un incubo in cui lei era San Pietro che rinnegava di conoscere Gesù-Giordano dopo che era stato tradito da Giuda e arrestato dalle guardie del Sinedrio. Ho mentito a mio padre, sono una miserabile!

13

Domenica, ore 12:07.

«REBECCA! SONO ARRIVATI I TUOI AMICI.»

Rebecca emerge dalla taverna a balzi di tre scalini per volta sotto un voluminoso borsone sportivo. Sull’uscio di casa saluta i genitori, «ciao! Torno tardi. Andate a prendervi una boccata d’aria e distraetevi, mi raccomando papà.» Esce in cortile, Mauro sta già caricando la canoa e la pagaia di Rebecca sul pick-up di Mirko, in mezzo ad altre quattro corte canoe colorate. In strada una Golf nera con i cerchi cromati e i vetri scuri sta sobbalzando impaziente, vibrando sotto i colpi del potente subwoofer di cui è dotata. Dentro ci sono Luca e Andrea, due pazzi scatenati complici delle uscite in canoa. Rebecca dovrà salire con loro visto che Mauro va con Mirko e il pick-up ha soli due posti.

Dopo circa tre quarti d’ora, la piccola carovana si ferma brevemente a KobaridCaporetto per caricare anche Zoran, l’amico sloveno.

«Živjo Zoran, kako je?»

«Super! Ciao amicci. O apena controlato livelo di acqua. E’ perfeto!»

Andrea lo schernisce, «dài perfeto! Butta la canoa sul pick-up e sali in macchina. Non vedo l’ora di bagnarmi nella Soča.»

Zoran ormai non si meraviglia più quando Andrea lo prende in giro per la sua pronuncia, sebbene abbia mille e un argomento per restituirgli pan per focaccia. Il primo ad esempio è che Andrea non conosce una parola che sia una di sloveno, mentre invece Zoran, e come lui tutti gli sloveni che abitano vicino al confine, comprende perfettamente l’italiano e lo parla discretamente.

Dopo mezz’ora di strada tortuosa costeggiando la Soča, la parte slovena del fiume Isonzo, l’allegro convoglio giunge a Žaga, il punto da cui inizieranno la discesa del fiume.

«Scaricate! Scaricate!» incita Mauro al gruppo.

Mentre tutti si cambiano indossando mute, giubbetti di galleggiamento e caschetti di protezione confondendosi in mezzo a qualche decina di turisti che hanno affittato gommoni per il rafting e che stanno occupando ogni centimetro libero della piazzola di imbarco, Mirko e Luca, i due conducenti, ripartono per portare il pick-up a valle, a Trnovo ob Soči, il punto in cui sbarcheranno nel tardo pomeriggio e da dove avranno bisogno di un mezzo per venire a riprendere la Golf con cui risaliranno a Žaga per iniziare la discesa con le canoe.

I compagni di Rebecca sono concentrati sulle ultime verifiche come registrare le cinghiette delle sedute o stringere il tappo di svuotamento degli scafi. Lei è già pronta e osserva con ammirazione le Dagger dei suoi compagni di avventura, canoe di una plastica dura, resistente, relativamente leggere e dalle linee molto performanti. Tutti possiedono gli ultimi modelli da “rodeo”, come vengono definiti in gergo. Lei, a causa delle sue scarse finanze, ha dovuto ripiegare su una meno pretenziosa Piranha usata. Anche i caschetti degli altri sono bellissimi, in carbonio laccato, duecento Euro l’uno. Il suo consiste invece in una mediocre imitazione in vetroresina. Pazienza, ora ha trovato un lavoro e prima o poi forse riuscirà a procurarsi dell’attrezzatura migliore. Anche il resto

dell’equipaggiamento non regge il confronto, ad eccezione della pagaia in fibra di carbonio: un regalo dei ragazzi che hanno ritenuto di onorare con quel gesto galante l’unica ragazza che, dopo aver accettato di provare una discesa con loro, si sia anche apionata anziché spaventarsi a morte in seguito ad un paio di ribaltamenti con conseguente bagno nella veloce corrente del fiume, come avevano fatto le temerarie precedenti. I ragazzi avevano così premiato l’audacia di Rebecca facendola diventare parte del clan. In pratica tutti avrebbero voluto, prima o poi, portarsela a letto.

Mauro si sta sistemando dentro il suo kayak ai bordi del fiume. Mentre sta agganciando il paraspruzzi al pozzetto e controllando che sia ben assicurato, lancia occhiate furtive a Rebecca che sorride divertita a quello sguardo malandrino più eloquente di mille parole. Avevano infatti deciso di non rendere pubblica per il momento la loro primordiale relazione per non alimentare battutine, sorrisetti o serpeggianti invidie sotterranee.

Nel frattempo sono tornati anche Luca e Mirko dopo aver lasciato a valle il pickup. Ormai tutti sono allineati nella corrente del fiume, come paperelle dietro alla mamma papera. Un assetto ordinato destinato a durare pochissimi istanti prima che ognuno dia inizio alla propria avventura. Il bello del kayak è proprio questo: si è sempre in gruppo ma ognuno è libero di muoversi dove e come meglio gli aggrada.

Ogni discesa in canoa non è mai identica alle precedenti. Anche se si percorre lo stesso tratto di fiume, ci sono diverse variabili che rendono l’esperienza unica e irripetibile, a cominciare dai compagni di discesa. A quell’aspetto Rebecca attribuisce il massimo dei voti: tutti ci sanno fare, spericolati ma non incoscienti, e tutti bramosi di vita e portatori di esuberante vivacità. Zoran tecnicamente è il più bravo, avendo praticato canoa slalom a livello agonistico per diversi anni, non ha però molta fantasia nel creare evoluzioni nuove o nel saper “leggere” le linee della corrente per improvvisarne una. Di solito copia, in meglio, quello che fanno gli altri.

Andrea non ha una tecnica sopraffina ma prova e riprova fino allo sfinimento invidiando la bravura di Zoran. Per cercare di essere sempre un o avanti, compensa parzialmente il suo handicap con uscite infrasettimanali e dirottando da maggio a settembre buona parte del proprio stipendio nei negozi specializzati per avere sempre l’ultimissimo modello di tutto, canoa compresa.

Luca è grosso, sovrappeso, compagnone, con il ventre largo, la fronte larga e il viso tondo come una luna piena. Si poteva dire che scoppiasse di salute. Fuori dall’acqua si spostava in maniera buffa, aiutato in questo per tutta l’estate dalla sua disgraziata abitudine di indossare pantaloncini a “pinocchietto” informi e lunghi che finivano poco sopra le caviglie. Alto circa un metro e sessantacinque per novanta chili di peso, quei pantaloni a guisa di “tubone” biforcuto lo rendevano ridicolo. Date le dimensioni importanti del bacino e le gambe grosse e corte, si muoveva con ettini misurati, frequenti e invisibili, come se stesse su uno skateboard trascinato da una corda di nylon trasparente oppure come i maestri di ju-jitsu che si muovono sotto ampie gonnellone per nascondere i propri i e rendere difficile indovinarne i movimenti all’avversario. Una volta entrato in acqua però, sapeva ammirevolmente sfruttare a suo vantaggio la sua massa per governare lo scafo facendogli fare esattamente quello che voleva, quasi senza l’ausilio della pagaia. Nessuno meglio di lui riusciva a domare la canoa dentro il turbinìo dell’onda.

Mirko è un po’ insipido, ha iniziato da una stagione soltanto ma nel complesso è bravino.

Mauro è potenza e intuito. Ha occhio per individuare le correnti e indovinare i aggi fra i massi affioranti, le figure acrobatiche gli riescono quasi a perfezione al primo tentativo e non si danna l’anima per riprovarle o per aumentarne la precisione.

Rebecca è alla seconda stagione. Non sfigura, non si tira indietro nei aggi difficili cercando l’alternativa facile, la cosiddetta via del coniglio, nelle

evoluzioni acrobatiche è abbastanza brava anche se penalizzata da una canoa dotata di un volume adeguato ad una persona di almeno dieci chili più pesante.

La prima variabile che caratterizza la buona riuscita di una discesa è pertanto la compagnia, e a questo aspetto Rebecca assegna un bel dieci.

Poi c’è il livello dell’acqua: ad ogni suo cambiamento affiorano o si nascondono pietre, massi, salti e cascatelle, modificando i percorsi da seguire, i ritorni di corrente, i punti di riposo dove l’acqua ristagna, la velocità e la portata del fiume. Un aggio che oggi appare facile, potrebbe rivelarsi più arduo con meno acqua, facendo affiorare delle pietre in mezzo al aggio obbligato, oppure lo stesso aggio con più acqua potrebbe risultarne facilitato, tuttavia la maggiore portata e velocità della corrente potrebbero anche ridurre i tempi di reazione e preparazione per il aggio successivo.

I kayak utilizzati dalla compagnia di Rebecca presentano una forma tozza, con la coda e la punta tronche, piatte e schiacciate. Due becchi di papera, uno attaccato davanti e uno dietro. Il fondo degli scafi è anch’esso piatto in modo da conferire reattività e un mix indovinato tra stabilità e facilità di sbilanciamento. Con questo tipo di kayak, di lunghezza attorno ai due metri, non si cerca di scendere il fiume nel più breve tempo possibile pagaiando in mezzo al suo corso. Si punta invece ad infilarsi dove l’acqua effettua salti, cascatelle, riccioli d’onda, i cosiddetti “spot”. Zone magiche dove il fiume si tuffa immergendosi letteralmente nell’acqua a valle e riemergendo alcuni metri più giù, dando origine con tale depressione ad un’onda di ritorno, il ricciolo che delimita l’area dove poter “giocare” e sbizzarrirsi in figure acrobatiche sfidando la portata del fiume a lambire il proprio scafo fino a “impennare” la canoa o tentare avvitamenti e capriole su sé stessi.

Oggi il livello è intermedio, né troppo alto né troppo basso: voto nove.

Un’altra variabile è il traffico. La Soča, la parte slovena dell’Isonzo, è una formidabile attrazione turistica per gli sport in acque mosse. Essendo una domenica di agosto, altissima stagione, in corrente ci sono già diversi praticanti di hydrospeed, oltre a tante canoe e a numerosi gommoni carichi di otto, dieci persone ciascuno. A questi ultimi, essendo meno governabili e più ingombranti della canoa singola, bisogna accordare la precedenza e pertanto non si può impegnare per molto tempo i riccioli a valle delle cascatelle, essendo in molti casi dei aggi obbligati, pena il venire travolti dai gommoni che ovviamente non hanno “freni” per rallentare.

Alla variabile traffico oggi viene affibbiato un voto scarso: quattro.

Variabile climatica. Incide parecchio sulla durata della discesa e sulle sensazioni che essa regala. L’acqua della Soča è sui dodici, quattordici gradi di temperatura anche in piena estate dal momento che il fiume sgorga mescolato a neve sciolta da una grotta in Val Trenta a mille e cento metri d’altitudine, scende abbastanza rapidamente e non ha molto tempo per riscaldarsi. Il caldo atmosferico, la giacca impermeabile e i continui movimenti di braccia e busto innalzano di molto, invece, la temperatura corporea cosicchè gli spruzzi e le parziali immersioni nell’acqua gelida rappresentano un toccasana impagabile.

Oggi il voto al clima è dieci.

Variabile colore dell’acqua. Solitamente è tra l’azzurro e il verde smeraldo ed è limpidissima. Qualche volta può capitare torbida e marroncina a causa di una recente precipitazione in quota. Ci sono stati un paio di temporali nei giorni scorsi ma oggi l’acqua è proprio verde smeraldo e limpida come piace a Rebecca. Promosso anche il colore.

A metà percorso, all’altezza di Srpenica, la Soča rallenta in un’ampia pozza

quasi immobile, prima di piegare a sinistra in un salto che immette in un tratto più impegnativo. Rebecca e i suoi amici ci arrivano perfettamente in sintonia con il fiume, c’è stato ormai tempo sufficiente per ristabilire la giusta confidenza con il livello dell’acqua e le conseguenti reazioni della canoa. I muscoli sono caldi e i nervi reattivi. La compagnia ha riacquisito amalgama e affiatamento.

Rebecca adora questa separazione ideale tra la eggiata e il gioco duro, pochi secondi di stasi prima di sentire nuovamente l’adrenalina e una sana paura irradiarsi in tutto il corpo. Lascia sfilare avanti a sè tutti i suoi compagni, si abbandona al lento fluire prima di rimettere in tensione i nervi e i sensi. Dietro di sé sopraggiungono due gommoni che le mettono fretta. E’ il momento di ripartire entrando in scena con un numero speciale, almeno per lei: il cartwheel, “la ruota” provata più volte in acque piatte ma senza successo. A furia di provare e riprovare la figura, ha capito che la sua tecnica è corretta ma le linee antiquate della canoa e il volume sovradimensionato dello scafo le sono d’ostacolo. Se ci fosse una mano magica capace di imprimerle una spinta maggiore all’inizio della figura, molto probabilmente le riuscirebbe. E’ parecchio che ci pensa su, alla mano magica, e improvvisamente crede di averla trovata e di approfittarne. Prima dell’arrivo dei due gommoni, pagaia con vigore verso il salto dove sono transitati già tutti i suoi compagni. Il aggio è stretto quanto la pagaia, circa due metri, la lingua d’acqua che disegna il salto diventa lunga, arquata e potente fino a un metro e mezzo più sotto. Un attimo prima di cavalcarla, Rebecca sbilancia di taglio lo scafo come fosse un coltello sull’acqua, fulmineamente con la pala immersa esercita le compressioni necessarie a caricare il bacino ed esattamente sul salto inizia l’evoluzione. La velocità che l’acqua assume in quel punto unita alla forza di gravità dovuta al vuoto sotto la canoa, imprimono quella marcia in più necessaria a completare con successo la ruota volante che affonda nei flutti un metro e mezzo più sotto. La mano magica ha funzionato alla grande. Ebbra di eccitazione, Rebecca sfila davanti ai suoi compagni rimasti a guardarla in fila indiana dietro ad un grande masso lì vicino.

«RE-BEC-CA-RE-BEC-CA!» scandiscono a festa battendo le mani aperte sui paraspruzzi tesi come pelli di tamburo.

Verso le sei del pomeriggio sbarcano tutti insieme a Trnovo ob Soči.

Mentre Luca si intrattiene in uno stentato inglese misto friulano con due prosperose e ammiccanti ungheresi divertite da quel maestro di ju-jitsu gocciolante, gli altri si tuffano nell’acqua gelida per sgranchire le gambe ratrappite da oltre tre ore di posizione costretta all’interno degli scafi.

Alcuni minuti dopo, il gruppo risale con le canoe in spalla il sentiero che si inerpica sull’argine, per guadagnare così il piazzale del parcheggio dove li attende il pick-up con il cambio di vestiti asciutti. Come da tradizione ormai consolidata, Zoran fa comparire sei lattine di Radler. Un brindisi liberatorio, mezzi svestiti e mezzi bagnati.

«Anche questa volta abbiamo portato a casa la pelle,» ironizza Luca scontrando la sua lattina con quella di Andrea. «Ah che buona la Radler. D’estate, dopo una sudata, ci annegherei dentro.»

«Hei Zoran, ma com’è che questi parassiti fanno offrire sempre a te?» chiede Rebecca con un grazioso sorriso.

Prima che Zoran risponda, Andrea lo anticipa, «ma come, non lo sai? Mica le paga. Lavora alla Union e quelli della fabbrica chiudono un occhio se i dipendenti portano via qualche lattina. Figurati se dovesse pagarle, se fosse così prodigo. Uno sloveno, ma per favore.»

Rebecca nota il mezzo amaro sorriso di Zoran e cerca di riparare al comportamento cafone di Andrea, per quanto egli reciti la parte dell’antipatico e per quanto Zoran ormai ci sia abituato, «comunque sia, grazie Zoran,» e

scontrando la sua lattina con quella dello sloveno aggiunge «e tuttavia se ogni tanto porti anche una birra vera non mi arrabbio,» stendendolo poi con un’occhiata da cerbiatta. Zoran non può far altro che aggiungere accondiscendente «Dobro! Prosima volta porto pivo.»

Andrea lo punzecchia, «anch’io non vedo l’ora di bere una birra seria!» e qui Zoran trova l’occasione per una parziale rivincita «Niente pivo per te, solo per Rebeca.»

Rebecca offre la mano aperta a Zoran che gli dà il cinque, mentre tutti e due squadrano Andrea con aria di sberleffo.

Nel frattempo, Luca e Mirko confabulano appartati finchè Luca esclama ad alta voce «io e Mirko proponiamo di andare a cena tutti insieme, dalla bionda a Boveč.»

Andrea, appena sente pronunciare “bionda” esclama «io ci sto!» Tutti ritengono sia la giusta conclusione a quel bel pomeriggio e così, raccolte le canoe e atteso che tutti si siano asciugati e rivestiti, la carovana formata dal pick-up e dalla Golf si dirige verso la mèta concordata spandendo dai finestrini odore di neoprene umido.

Giungono alla “Gostilna Marìca” poco prima delle venti. Ora di punta e locale traboccante di chiassose comitive. Tuttavia la “bionda”, la giovane e avvenente figlia della titolare, si prodiga per sistemarli alla meglio su un tavolino da quattro. Mentre tutti sono intenti a scorrere il menù, Luca continua ad accarezzare con lo sguardo il decolletè e il sedere della bionda che si aggira come una trottola con le portate tra i tavoli. E ogni volta che la bionda si sporge in avanti per servire le portate, Luca strattona Andrea per attirare la sua attenzione verso quelle fugaci quanto provocanti visioni.

Sul tavolo dei ragazzi sono ati gnocchi di susine con burro fuso e cannella, carne di maiale alla griglia, patatine fritte e štacanje, vino nero.

All’inizio di ogni discesa in fiume tutti sono allegri e sbruffoni e impazienti di partire, però sotto sotto tutti sono un po’ tesi, un po’ preoccupati per come possa andare. Davanti alla propria palačinka, il dolce che separa l’abbondante libagione dagli assaggi finali di grappe della casa, il viso di ognuno dei compagni di quella tavolata è appagato, rilassato e felice.

Anche Rebecca ha finalmente un’espressione rasserenata. Si sente a suo agio con quella compagnìa. Pur avvertendo nell’aria la vibrazione del desiderio in ciascuno di loro, considera come non si siano mai comportati nè da bavosi lumaconi nè da galanti damerini nei suoi riguardi. Al contrario, la trattavano sempre come uno di loro, a parte qualche accettabile allusione buttata là con voluto doppiosenso, ma fatta sempre con stile. Rebecca si divertiva e al contempo imparava un sacco di cose sull’universo maschile perché nonostante la sua presenza, loro si comportavano da maschi in un gruppo di soli maschi, facendo discorsi da maschi, con battute e apprezzamenti su questa o su quella ragazza, sui seni, sul sedere, sulle presunte capacità amatorie, sulle labbra da pornostàr, sui culi piatti, sulle tette cascanti, sulle tavole da surf, sulle ritoccate e sulle maggiorate naturali.

Arriva Marìca, la titolare, con un vassoio di bicchierini sciabordanti liquidi colorati. «Ecco le grappe,» sporgendosi sul tavolo. Appena la signora se ne va, Andrea commenta «belle grosse, ma è un po’ manzetta.» Luca gli fa eco, «adoro le abbondanti, non mi capacito di come le donne si vedano addosso sempre chili di troppo. Adoro quelle soffici rotondità in più, ma non c’è verso di farglielo capire. E poi le quarantenni, uh-uh, quante ne sanno!»

Non parlavano mai di calcio. Tutti coltivavano vari interessi ma nessuno seguiva

il calcio. Soprattutto non parlavano di tifo sportivo, di sport praticati da terzi, basket professionistico, corse d’auto o cose del genere. Parlavano di sport praticati da loro in prima persona: canoa, mountain-bike, corsa, vela, sci. Non c’erano i patiti di questo o quel giocatore, di questa o quella squadra. Per Rebecca lo stare con loro era un piccolo angolo di paradiso terrestre. Dopo una bella faticata, adorava sentire l’emozione e l’adrenalina che piano piano svanivano rilassando le membra e lasciando spazio alla consapevolezza di aver fatto meglio questo o quel aggio, questa o quella figura lungo il fiume, ai discorsi frivoli, all’alcol, al buon cibo, all’allegra e spensierata euforia.

Al terzo giro di grappe, Luca chiede «ma qualcuno di voi sa come si chiama la bionda?»

Mirko risponde «chiediglielo, no?»

Mauro aggiunge «puoi chiederglielo, ma comunque si chiama Erika, con la kappa.» Rebecca inarca il sopracciglio tradendo una malcelata gelosia, Mauro la intercetta e spiega a tutti, ma soprattutto a Rebecca, che durante il corso di canoa full-immersion frequentato qualche anno prima, veniva lì con tutto il gruppo a fare colazione e tutti sapevano che si chiamava Erika con la kappa. Rebecca si sente una stupida ad aver dubitato di Mauro per una sciocchezza, per una inezia, mentre lei lo sta già tradendo de facto con il suo capo. Nel gruppo tutti sono ancora sorridenti, meno Rebecca che ha visto vanificarsi in un attimo tutto il beneficio di una domenica spensierata. Il fardello si è ripresentato. A fine serata cerca e trova un momentaneo conforto nella Skoda Felicia con Mauro che non aspettava altro dal loro amplesso del mercoledì precedente. Al costo di qualche ora di sonno, entrambi vorrebbero poter dilatare all’infinito quella piacevolissima tregua che li tiene lontani dalle incombenze del giorno successivo.

Mentre contempla l’espressione soddisfatta di Rebecca prossima ormai ad appisolarsi tra le sue braccia, Mauro le sussurra accarezzandole i capelli, «sto

leggendo un libro, autore sconosciuto, un tale Alberth Yallhem. Mi è piaciuto un aggio che più o meno si sposa con questo momento di perfetta serenità che grazie a te sto vivendo.»

«Sentiamo.»

«Vado a memoria: una ragazza si trova a fare compagnia alla nonna nel portico che dà su un ampio giardino. D’un tratto la ragazza chiede alla nonna – tu che sai tante cose, raccontami cos’è la serenità – . L’anziana donna socchiude gli occhi, si abbandona sulla poltrona a dondolo e, con la pacatezza di chi ha davanti a sé l’eternità, le risponde – i sorrisi appagati dei due amanti si rispecchiano ansimanti negli occhi dell’altro, la tensione ionale dei loro corpi si è appena sciolta e l’unico suono percepito è la pioggia estiva che picchietta veloce sulle tegole. Dopo uno scambio di sguardi intensi, si stendono appaiati, vicini, sfiancati. Ora è il bianco del soffitto a riflettersi nei loro occhi mentre si tengono per mano. L’attimo più bello – .»

14

Lunedì Rebecca è al computer alle prese con l’analisi di un fondo del Qatar proposto alla Walser Privatbank da una società lussemburghese. Si è imposta il massimo della concentrazione per non pensare ai problemi personali. D’improvviso sente dietro di sé i i di Perozzi e un secondo dopo le sue mani paciose insieme alle note di talco del suo profumo si posano immancabilmente sulle spalle di lei. Rebecca si irrigidisce. Perozzi, chinandosi, le percorre i fianchi con le mani e, appoggiandole all’orecchio il labbro ancora gonfio dopo l’incidente di venerdì, le sussurra «dottoressa, pranziamo insieme?»

Dopo un liberatorio e gratificante orgasmo preceduto dalla consueta razione di frustate e umiliazioni, Perozzi si chiede come mai Rebecca sia stata così pròdiga e coinvolta oltre ogni aspettativa. «Lo hai fatto per avere più soldi?»

Rebecca risponde titubante, «in realtà no…vorrei chiederti un favore.»

«Suvvia, non esitare a chiedere un favore a Mario. Se posso aiutarti lo faccio più che volentieri, coraggio, dimmi.»

«Avrei bisogno di…di un buon avvocato.»

«Se è solo per questo, tesoro, direi che ho già risolto.»

«Come sarebbe a dire? Non capisco.»

«Stamane mi ha telefonato la signora Luisa, la tua cara mamma. Dopo essersi molto raccomandata sulla riservatezza di quanto stava per raccontarmi, mi ha spiegato tutta la faccenda dell’omicidio e dei sospetti su di te. Dal momento che mi ha reputato così buono d’animo, mi ha chiesto gentilmente una mano visto che, cito parole sue, “siamo disperati e una persona altolocata e di prestigio come lei è la sola a cui mi sia sentita di rivolgermi con fiducia per chiedere aiuto”. Tua mamma è proprio una cara signora, oltre ad avere il suo fascino. E ti vuole molto, molto bene,» conclude Perozzi con un sorriso raggiante accarezzando nel contempo i capelli allarmati di Rebecca.

«Stai tranquilla, veramente. Sarò muto come un pesce e ho la persona che fa per te.»

Il silenzio da parte di Rebecca viene riempito da Perozzi che si colpisce la fronte con una manata per poi aggiungere «ah già, dimenticavo. La persona che ti voglio presentare è considerato il massimo nel suo settore. E giustamente si fa pagare tanto. Come potresti permettertelo? Un bel problema, no?» conclude sarcasticamente. Rebecca sussulta.

«E’ un mio carissimo amico, vedrai che in qualche modo ci aggiusteremo anche sul lato economico,» la tranquillizza poi sornione. «Data l’urgenza della questione, ho già fissato un appuntamento nella pausa pranzo di domani.»

Appena a casa, Rebecca si avventa sulla madre. «Ma come ti è saltato in mente di chiamare il mio capo per cercare un avvocato?»

«Perdonami Rebecca, ma è da venerdì che non dormivo la notte pensando a chi potevamo rivolgerci ed ero giunta alla conclusione che il dottor Martinis,

l’avvocato che segue papà, non faceva al caso nostro visto che tratta principalmente fallimenti e cose del genere e non mi pareva il caso di chiedere a lui il nome di un collega, sai come sono gli avvocati, tutti prime donne, in pochi ti rispondono onestamente “guardi, io non sono ferrato su questo argomento”. La maggior parte sono famelici e si buttano su qualsiasi cosa capiti loro a tiro, come iene sulle carogne. Gli interessa il cliente e una causa da perorare, poi se si arriva da qualche parte favorevole al cliente poco importa a quei bastardi. Inoltre, non sapendo se il tuo caso fosse più civile o più penale e…insomma ho deciso di fare quello che ho fatto, perché? Ho avuto una brutta idea?»

«Diciamo che non me l’aspettavo, ecco. Potevi almeno avvisarmi. Anche perché non serviva spiegargli per filo e per segno in che razza di intrico sia finita!»

«Ha insistito tanto per avere tutti i dettagli in modo da indirizzarci al meglio, si è giustificato dicendo che non voleva fare brutte figure proprio con noi che lo conosciamo da poco. E poi a me sembra una persona molto in gamba e soprattutto riservatissima.» Rebecca evita a questo punto di imbastire un’inutile scenata. Assolve l’ignara madre visto che tutta la famiglia si trova in una situazione più grande di loro ed è maledettamente complicato imbroccare la strada giusta. Tutto sommato anche Rebecca era giunta alla medesima conclusione di Luisa: chiedere a qualcuno che ha certe conoscenze il nome di un buon avvocato. Di fatto la sua famiglia non conosceva nessuno che avesse potuto indirizzarli per questa necessità e l’unico che era venuto in mente anche a lei era stato Perozzi. Avendogli spiegato tutta la faccenda però, Rebecca ora si trovava potenzialmente esposta a ulteriori situazioni di ricatto ma ormai cosa sarebbe potuto capitarle di peggio?

«Avrei voluto avvisarti ma il dottor Perozzi mi ha detto che si sarebbe messo subito all’opera vagliando certe possibilità e che nel mentre non voleva illudere nessuno, soprattutto te. Qualora avesse combinato preferiva parlartene direttamente, per i dettagli e tutto il resto. E’ tanto caro e premuroso. Sembra che tenga molto a te. Ah, e poi non so perché ma ha aggiunto anche che cercava di farci aiutare proprio da un suo amico, molto bravo, al cui onorario avrebbe

pensato lui. Mi ha impedito di aggiungere rimostranze. Ha detto di non preoccuparci, che lui non ha famiglia né figli di cui prendersi cura e che si sarebbe preso volentieri a cuore la nostra situazione. Oh, quanto è generoso.»

Quanto è viscido il verme! pensa fra sé Rebecca, chissà come vuole giocarsela?

15

Il giorno successivo, al Metropole.

«Rebecca, il dottor Petraz, l’avvocato che potrebbe seguirti, mi ha pregato di portarti le sue scuse visto che non pranzerà con noi. Causa contrattempi ci raggiungerà più tardi. Data l’impellenza del tuo problemino, mi sono preso la libertà di dirgli che lo aspetteremo senza indugio anche oltre l’orario della nostra pausa, se sarà necessario. Ho fatto bene?» Rebecca non sa che dire, che pensare, se questo fantomatico avvocato esista veramente o se sia un qualche trucco di Perozzi per arrivare chissà dove.

Finito il pranzo, con un rituale ormai consolidato, Perozzi esce dalla sala ristorante, si avvicina alla reception dell’albergo nelle sale attigue, recupera la borsa nera che gli a l’inserviente e chiama l’ascensore. Rebecca lo segue interrogandosi sul perché Perozzi abbia deciso di ingannare l’attesa dell’avvocato salendo in camera con tutto l’armamentario da sex-shop, come in un giorno qualsiasi. E se l’avvocato fosse arrivato mentre loro erano “impegnati”? Lo avrebbero pregato di aspettare dato che dovevano “finire”?

Mentre l’ascensore sale, a Rebecca si accende una lampadina: l’avvocato avrebbe potuto essere in combutta con questo farabutto maniaco di Perozzi e quindi aspettarli direttamente in camera. Considerato il discorso sui tanti soldi richiesti e sulle possibilità di “accomodare” paventate dal suo capo, a Rebecca pare una situazione decisamente da Perozzi.

Entrano in camera con Rebecca già rassegnata a trovarsi l’avvocato spaparanzato sul letto con una vistosa erezione in mano. Contrariamente alle più nefaste

previsioni invece, la ormai familiare junior suite con il tappeto prugna e le lenzuola zebrate è deserta. Rebecca preferisce non avanzare domande, le cui risposte avrebbero secondo lei potuto essere soltanto foriere di cattive notizie, così sgombra la mente dai pensieri che la assillano e si prepara mentalmente ad entrare nel ruolo che ormai le è stato imposto in quella stanza.

«Rebecca!» Perozzi la riporta al presente, sta armeggiando con le manacce larghe dentro al borsone nero. Ne estrae un oggetto oblungo, una sorta di ogiva in plexiglass viola trasparente. «Ora vai in bagno, ti sciacqui ben benino dietro, ti infili questo, ti rivesti e torni fuori. Su da brava!»

«Ma cosa…»

Perozzi la interrompe, «è così semplice, no? Tieni anche questo tubetto. Crema “Luan”, ti aiuterà. Dài, non fare quella faccia smarrita da santarellina, è propedeutico al sesso anale, lo tieni dentro per un po’ così dopo sarai… diciamo… preparata, ecco. Sarà tutto più facile e divertente, e meno doloroso per te. Non l’hai mai fatto, vero?»

Rebecca, con lo sguardo smarrito nel vuoto, accenna ad un diniego con la testa, senza fiatare.

«Lo speravo. E’ il nostro asso nella manica per far lievitare le tue quotazioni.» Rebecca fissa Perozzi con aria sbigottita. Lui, come di consueto in questi casi, minimizza distraendola, «mi raccomando, prima metti la crema lubrificante, ti aiuterà, anche perché ha una funzione blandamente anestetica e dobbiamo darle il tempo di fare effetto. Su, da brava!»

Rebecca guadagna il bagno spintonata da Perozzi mentre un brivido e mille interrogativi le percorrono la schiena. L’unico accenno al sesso anale nella sua vita risaliva alla terza superiore, al liceo. Per risollevare la noia delle lezioni di filosofia si era comprata, alla libreria Piave di Udine, la “Storia della filosofia greca – da Socrate in poi” di Luciano de Crescenzo. L’autore partenopeo presentava la filosofia in forma maccheronica, godibile, divulgativa. Parlando di Socrate in particolare, si accennava qua e là a rapporti omosessuali tra maestri e discepoli, anche ragazzini. Tali comportamenti del filosofo ateniese venivano giustificati dal fatto che erano ampiamente diffusi nella Grecia classica, scevra da tabù, forzature o grottesche depravazioni.

Rebecca, per non impazzire o peggio tagliarsi le vene per evadere da quella trappola, ingolla l’ennesimo calice amaro teletrasportandosi duemilaquattrocento anni prima e autoconvincendosi che non sta succedendo niente di male. Sono una filosofa discepola e di là c’è il maestro Socrate che mi aspetta per illustrarmi i sillogismi.

Titubante, si spoglia il necessario per accovacciarsi sul bidet e svolgere la prima parte del compito assegnatole: pulizia e lubrificazione. Dopodichè si trova a tu per tu con l’oggetto misterioso da inserire. Lo osserva attentamente, la forma è quella di un uovo allungato attaccato ad un cortissimo stelo sottile che termina in un disco poco più grande di una moneta da due Euro. Un’ogiva con un’impugnatura simile al piede di un calice. La “punta dell’uovo” è arrotondata e il diametro massimo sarà sui due centimetri. Rebecca procede, lo impugna e porta la punta arrotondata a contatto con una delle zone più intime e private di una persona. L’estremità è fredda, rigida, liscia. Chiude gli occhi e inizia a penetrare. Una lacrima pesante le riga il volto. La mente è svuotata, priva di qualsiasi pensiero, tanto è forte lo shock di trovarsi in una situazione simile. La cosa più sensata le sembra quella di spicciarsi affinchè la tortura termini quanto prima. Procede l’inserimento e, in prossimità della circonferenza massima, le guance avvampano mentre una smorfia di fastidio le scompone il volto, un ultimo sforzo le toglie il fiato bloccandole un lamento sul nascere. Una volta che l’ogiva è in posizione, il dolore cessa lasciando il posto al fastidio per quel corpo estraneo che “si sente” ad ogni più piccolo movimento. Rebecca ora comprende meglio la funzione del disco finale rimasto all’esterno: blocca l’ovetto appena

dentro, evitando che risalga ulteriormente, permettendo inoltre una rapida estrazione che Rebecca non sa se augurarsi avvenga al più presto o al più tardi possibile, viste le esplicite intenzioni di Perozzi.

Mentre Rebecca si riveste, avverte una voce sconosciuta parlottare con il suo capo.

Dev’essere arrivato l’avvocato. Era tutto preparato, che bastardo! E io che mi sono consegnata su un piatto d’argento. Dovevo immaginarlo che avrebbe trovato il modo di approfittare ulteriormente di me, visti i precedenti.

Rebecca esce in camera.

L’avvocato Petraz è fasciato da un completo nero sopra ad una camicia bianca in mezzo alla quale spicca una sottile cravatta nera. Gli occhiali da sole, scuri con montatura cromata, sono l’unico particolare che lo fanno assomigliare più all’agente Smith, il cattivo del film “The Matrix”, piuttosto che ad un cameriere ai piani. Come l’agente Smith, l’avvocato è alto, magro, innervato e con la mascella quadrata. Le mani grandi, curate. Al polso sinistro un Omega Speedmaster sopra il polsino della camicia, quadrante nero e cinturino in acciaio lucido.

«Ah Rebecca, eccoti, ti presento il dottor Petraz, principe del foro di Udine,» poi avvicinando la mano dell’avvocato e strattonando la mano riluttante di Rebecca, «dottor Petraz, questa è la dottoressa Rebecca Carinci.»

Nonostante i foschi presagi che svolazzano nella stanza, Rebecca si meraviglia nel ritrovarsi dopo pochi secondi seduta al tavolino in legno porporinato

d’argento insieme all’avvocato che, nell’estrarre speditamente dalla valigetta un blocco di appunti, la invita garbatamente ad esporre il caso.

Parlano a lungo, l’avvocato dà a vedere di essersi informato per bene sulla situazione: in mattinata si è recato a Manzano, ha già parlato di persona con Luisa e Giordano e ha raccolto informazioni in paese. L’avvocato Petraz è deciso, sicuro, intraprendente, rampante, distaccato e molto professionale. Rebecca è stupefatta. Si è anche convinta che sia arrivato tardi perché realmente impossibilitato, egli è quindi alieno dai licenziosi atteggiamenti di Perozzi.

«In pratica non hanno niente contro di lei, signorina, almeno stando alle apparenze. Visto che non ha commesso il crimine, è inutile e controproducente inventarci balle. Ora vedremo se verrà convocata, in alternativa ritengo saremo obbligati a chiedere un interrogatorio di garanzia. In ogni caso, al confronto col P.M., il Pubblico Ministero, cerchi semplicemente di mantenere la calma e tentiamo di capire se hanno evidenze che lei si sia effettivamente recata nella casa dell’omicidio. Poi decideremo il da farsi. Per ogni buon conto la costituzione in giudizio sarà necessaria per tutelarla a tutti gli effetti, visto che lei è iscritta nel registro degli indagati. Gli inquirenti hanno bisogno di un capro espiatorio, se non ci tuteliamo a dovere troveranno certamente il modo di scaricarle addosso qualche barile di merda.»

Rebecca, dopo aver esposto i fatti, si è limitata ad annuire e seguire il panegirico dell’avvocato.

«Signorina, non ha che da firmare la procura, ecco qui,» porgendo a Rebecca un plico e una Montblanc argèntea. Rebecca impugna la penna e si accinge a firmare la procura all’avvocato. Petraz bruscamente le blocca il polso della mano destra impedendole di vergare il foglio. «Signorina, non so se lei conosce la mia fama e in caso negativo la scuso con benevolenza, ma l’avvocato Arrigo Petraz è il migliore sulla piazza. Tanto per evitare spiacevoli malintesi, firmando la procura lei si impegna a onorare debitamente i miei servigi. Non voglio apparire

scortese o indiscreto, ma lei possiede una certa disponibilità finanziaria? Perché ci mancherebbe solo che mi metta a difendere una morta di fame!»

Le ultime parole erano state pronunciate con asciutta supponenza, brutali staffilate nei confronti di Rebecca che non si trattiene, scatta in piedi e urla all’avvocato «ma come si permette? Se questi sono i suoi atteggiamenti, i suoi servigi se li può mettere in quel posto! A costo di prendermi l’avvocato d’ufficio non verrò certo a ingrassare il suo portafogli, ne può star certo! Cafone!»

Perozzi corre ai ripari, si avvicina, agguanta delicatamanete Rebecca per una mano e cerca di smorzare i toni e lisciare il pelo a entrambi, come si farebbe con due gatti che si azzuffano nel periodo degli amori. «Vi prego, datevi una calmata. Devi scusarlo, Rebecca, il tempo dell’avvocato è preziosissimo e lui voleva solamente dire…»

«Sì, voleva solamente dire che sono una morta di fame, e l’ha detto infatti. Forse lo hai imbeccato tu, caro Perozzi, chissà? Comunque non ci voglio avere niente a che fare. Io sono innocente e un qualsiasi avvocaticchio d’ufficio lo potrà dimostrare. Non mi serve l’agente Smith principe del foro di Canicattì.»

Petraz, scuotendo il capo, pronuncia con aria austèra, «povera piccola, lei è spaventata e non comprende la gravità della situazione. Guardi che gli inquirenti non sanno che pesci pigliare e non vogliono fare la figura dei fessi. Sarebbe la terza in due mesi. Ultimamente stanno facendo fiasco anche in altri due casi eclatanti. Hanno la stampa addosso che li sta sbeffeggiando un giorno sì e uno pure. Un appiglio come il suo non se lo lasceranno sfuggire, non fosse altro che per riempire qualche pagina di giornale e dimostrare che stanno facendo qualcosa. Non è tutto bianco o nero come vorrebbe credere lei. Quelli vogliono un capro espiatorio e cercheranno di approfittare di lei, se non debitamente tutelata. Vuole rivolgersi al difensore d’ufficio? All’avvocaticchio? Si accomodi, ma non venga poi a piagnucolare che non l’avevo avvisata.»

«Parliamoci chiaro, caro avvocato: io non conosco l’entità delle sue parcelle, comunque sulla morta di fame, mi rincresce ammetterlo, ci ha azzeccato in pieno. Quindi anche se volessi, non potrei pagarla, né profumatamente né a tariffe più basse. Tutta questa situazione è un totale errore. Quindi prenda le sue carte, la Montblanc e il suo grasso portafogli, se ne vada e scusi tanto il disturbo. E scusami anche tu, Perozzi, ma da quanto hai raccontato a me e soprattutto a mia madre, mi ero fatta un’idea totalmente diversa sul chi doveva pagare il conto.»

Petraz decide che è ora di tirare la nassa in secca e si rivolge allusivo a Perozzi, «Mario, non mi avevi parlato di una qual certa moneta di scambio, molto interessante dicevi.»

Perozzi tiene il bordone, «infatti, volevo proprio parlartene or ora. Rebecca, per cortesia siediti, fai un respiro profondo e datti un contegno, per carità. Vedi caro avvocato Petraz, Rebecca ha una cosa che ti può interessare, molto. Conosco i tuoi gusti da anni, ho quello che cerchi e che ahimè sta diventando sempre più raro ormai.»

Un sorriso curioso arrotonda la mascella non più quadrata di Petraz. «Allora è proprio come immaginavi? Te lo ha confermato?»

«Certo, me lo ha confermato poco prima che arrivassi tu e si è già preparata a dovere per offrirtelo.»

«Càspita! Questo cambia tutte le carte in tavola. Al giorno d’oggi un giovane e fresco culetto vergine è merce rarissima e preziosa,» chiosa Petraz allentando il nodo della cravatta e stiracchiando le gambe.

Rebecca si pente di essere stata al gioco sin dall’inizio, di essere stata debole e titubante, di essersi adattata alla situazione augurandosi irrazionalmente che ciò che le sembrava lapalissiano non si potesse concretamente avverare. Le cose non si sistemano mai da sole! Senso di inettitudine, inadeguatezza e vergogna per gli errori commessi la fanno balzare di nuovo in piedi come se la sedia fosse arroventata. «Che cosa? Ma voi due siete pazzi da legare! Eravate già d’accordo. PORCI! Io me ne vado!» Scatta fulminea per guadagnare la porta che però si rivela bloccata.

Perozzi, svelto, la ghermisce strattonandola per un polso con violenza. Mentre Rebecca si divincola rifugiandosi dietro uno scrittoio, gli altri due la fissano imibili dalle rispettive posizioni. Parla Perozzi. «Ascoltami bene, ora tu non vai da nessuna parte. Primo perché ho bloccato la porta e secondo perché se esci perdi il posto, lo stipendio e l’appoggio che sto cercando di dare a tuo padre tramite gli agganci che ho con la sua banca. E in più ci mettiamo sopra una bella condanna per omicidio. Quanto credi che ci mettiamo a fabbricare qualche prova falsa e portare gli inquirenti sulla tua pista con più convinzione? Ora ti spogli con grazia e ti dai in pasto a questi due porci. Ci guadagni l’aiuto che tanto vuoi dare alla tua famiglia e anche la consulenza dell’avvocato Petraz. Non dovrai sborsare un solo centesimo. Lui è d’accordo, vero Arrigo?»

«Certo, non mi dovrà nessun acconto a fronte della sua disponibilità tutte le volte di cui potrei aver bisogno. In cambio avrà i servigi del miglior…»

«…avvocato del foro bla bla bla. Ho capito, ho capito che mi volete incastrare!» taglia corto Rebecca aggiungendo con gli occhi umidi «ma non vi sentite in colpa ad approfittare in questo modo di una ragazza che ha già sulle sue spalle un bel po’ di problemi? Non l’avete una coscienza?»

Petraz ghigna e Perozzi, volontariamente incurante di quell’ultima supplica,

procede spedito come un rullo compressore. «Lo vedi, Rebecca, che abbiamo sistemato tutto. Fa la brava e non deludere mamma e papà, loro contano molto su di te. Se ti vedessero arrivare a casa con il licenziamento e senza avvocato penserebbero che ti sia dato di volta il cervello, che tu abbia combinato chissà quale disastro finanziario in banca se neppure Perozzi che ti vuole tanto bene è riuscito a salvaguardarti.»

Quando era iniziata la tresca perversa con Perozzi all’insaputa dei suoi genitori e soprattutto di Mauro, Rebecca riteneva di essersi degradata oltre ogni limite, di aver toccato il fondo. In questo istante invece scopre come sia possibile scendere ancora qualche gradino più in basso, in luoghi dove parole come rispetto, dignità, coscienza, morale, non hanno significato e neppure esistono.

Petraz, nel frattempo, è rimasto con addosso solo l’Omega Speedmaster al polso sinistro. Perozzi si è limitato a togliersi la giacca e a sfilarsi la cravatta, prepara un doppio whisky per Rebecca. «Tieni piccola, stordisciti un po’, tutto diventerà più facile.» Rebecca ingurgita il liquido giallognolo tutto d’un fiato.

Poco dopo anche Perozzi si è privato dei suoi vestiti e con tono perentorio ordina a Rebecca «spogliati! IN FRETTA!»

Lei obbedisce ormai remissiva. «Accovàcciati!» le intima Perozzi indicando il pavimento vicino ai propri piedi. Petraz la zittisce legandole attorno alla testa un morso simile a quello dei cavalli. Perozzi le cinge il collo con un collare in cuoio borchiato a cui aggangia un guinzaglio. Per questa volta tocca a lei il ruolo di sottomessa.

«Ora inizia il divertimento, caro Petraz.»

Perozzi fiancheggia l’amico e prende attivamente parte al banchetto in modo esattamente opposto rispetto alle inclinazioni che aveva in precedenza mostrato a Rebecca in quella suite trasformata definitivamente ormai in un lupanare.

16

Il giorno successivo Rebecca viene convocata d’urgenza dal P.M. L’avvocato Petraz l’accompagna.

A domanda diretta, Rebecca nega di essere stata nella villa.

«Perché ha fuso le suole delle scarpe sportive?»

«E’ stato un incidente,» risponde Rebecca imbottita di Lexotan. Petraz aggiunge «ci sono anche i carabinieri che possono testimoniare la circostanza. E’ nel verbale.»

Il P.M. prosegue, «signorina Carinci, l’esame dello stub è positivo. Lei non risulta iscritta a nessun poligono o sezione venatoria, non ha porto d’armi e di professione non fa la guardia giurata. Cosa mi dice in proposito?»

«Sono stata in poligono, a Cividale.»

«In gita di piacere o ha anche sparato? Le tracce sono abbastanza evidenti, troppo evidenti per averle accalappiate semplicemente entrando in un poligono.»

Petraz interviene, «la mia cliente è stata in quel poligono e ha sparato dei tiri di

prova. Sui registri non troverete niente ma ci sono i testimoni. E’ tutto depositato in cancelleria. Mi meraviglio che abbiate convocato la mia cliente senza prendere visione della sua memoria.»

«Memoria che avete depositato solo stamani. E chi le dice che io non l’abbia letta?» prosegue laconico il P.M. aggiungendo «ma da quando in qua in un poligono non vengono tutte le persone che maneggiano un’arma?»

Petraz non si fa trovare impreparato, «ha mai partecipato ad una gara di tiro fra alpini in congedo e simpatizzanti?» Il P.M., anziché accusare il colpo, sottopone una serie di foto a Rebecca. «E queste come la giustifica? Ha un testimone anche per queste?»

Le immagini rappresentano una ragazza a figura intera con una succinta tenuta ginnica in mezzo alla vegetazione, in un posto che potrebbe sembrare il parco dei De Dietrich. Sono degli ingrandimenti ottenuti per interpolazione digitale, quindi scalettati e con perdita di definizione man mano che si ingrandiscono sul viso della ragazza, simili alle foto dei paparazzi pubblicate sulle riviste scandalistiche. Nella foto più ingrandita, il volto della ragazza è parzialmente nascosto da vegetazione associabile a fronde di un vigneto. Rebecca esamina con attenzione la foto, sembrerebbe realmente lei; dissimula lo sbigottimento cercando di non tradire nessuna emozione, poi parla. «Signor Pubblico Ministero, riconosco che questa ragazza mi assomigli ma non si può certo affermare con certezza che sia io.»

«Per questo abbiamo disposto la perquisizione al suo domicilio e i prelievi dei campioni. Il luogo in cui è ritratta la ragazza della foto è certamente il parco della villa in cui è avvenuto l’omicidio De Dietrich, ce lo hanno confermato i tecnici.»

«Ma perché l’avete associata a me? Sulla base di cosa?»

«Il suo nome è stato indicato dalla stessa fonte anonima che ci ha fatto pervenire le foto. Ancora non sappiamo con certezza se i campioni di polvere da sparo trovati sulla sua pelle siano compatibili con quelli rinvenuti sulla vittima, ma i tecnici non ci metteranno molto a scoprirlo. Ed è comunque una strana coincidenza che lei sia positiva allo stub, nonostante i testimoni del poligono che asserisce di avere. Anche le suole bruciate sono una strana coincidenza visto che nella villa e nel parco sono state trovate impronte di scarpe sportive femminili numero trentasette, come le sue.»

Rebecca boccheggia come un pesce fuor d’acqua e i nervi sfilacciati le stanno per cedere. Petraz tampona la situazione, «signor Pubblico Ministero, ci conceda cortesemente cinque minuti.»

Rebecca non attende la risposta del P.M. e decide di vuotare il sacco. «Non ci servono i cinque minuti! Io non ce la faccio più, ora racconto come sono andate realmente le cose. Datemi dell’acqua, per favore.» Rebecca espone tutta la faccenda, dalla corsa sulle colline agli spari che eccheggiano, fino ai particolari più dettagliati.

«Ora andiamo d’accordo, questa versione dei fatti coincide perfettamente con quanto da lei riferito a suo padre la sera stessa dell’assassinio, al bar del distributore Petrol, in Slovenia.»

«E lei come lo sa?» chiede Rebecca visibilmente sorpresa. Il P.M. estrae dal cassetto un lungo tubicino sottile attaccato ad una parabola, «con questo microfono direzionale ultrasensibile, noi lo chiamiamo “canna di fucile”.» A Rebecca balza in mente l’ultima pagina de “La Settimana Enigmistica”, quante volte vi ha notato incuriosita la pubblicità di un microfono simile a quello,

insieme alle scarpe che regalano otto centimetri di statura e agli occhiali a raggi X che promettono di sbirciare sotto i vestiti. Uh, ma allora quel coso funziona veramente!

Dopo un breve silenzio, Rebecca prosegue. «Ve lo giuro, è la verità.»

«E’ la verità vera o quella che ha concordato con il suo avvocato? Vedo che ha ingaggiato il migliore della città. Di solito si ingaggia il miglior avvocato quando si è spaventati a morte e si hanno i soldi, oppure quando si è consapevoli di avere torto marcio e si hanno ancora più soldi. Chissà qual è il suo caso? Per ora può andare. Grazie signorina Carinci.»

Dopo cena Rebecca suona in chiesa con il coro dei ragazzini prima di trascorrere un’oretta con Mauro. Rebecca è distante, concentrata forse su qualcos’altro. Mauro ipotizza si sia già stancata di lui. Si sente uno sprovveduto ad averci provato: se Rebecca non aveva il ragazzo voleva pur dire qualcosa, dovevo capire che era strana e lunatica!

Luisa è agitata. Giordano è sereno, dice a Rebecca di pregare, che lui prega con fede affinchè le cose si sistemino. Rebecca si addormenta pensando alla religione, al bene, al male, a Dio, se esite, se non esiste. E se esiste, perché mentre lei cerca di aiutare i suoi, le sta capitando di precipitare in un abisso? Forse le grandi religioni rivelate sono solo un mucchio di superstizioni infondate? Allora a chi credere? A uno Shiva, a un Vishnu, a un Orixàs, a Horus, a Baal, a Dagda, a Odino, alle Krivapete di Cepletischis? Non si potrebbe lanciare una fatwa sul P.M., sui carabinieri, su Perozzi, su Petraz e sulla banca di Giordano? Durante la notte, dalle viscere della terra il serpente Kundalini si insinua dentro di lei a divorarle l’anima guastata. Si sveglia in un bagno di sudore, accende l’abat-jour sul comodino ma non cede al Diazepam là in bella mostra, vuole farcela con le sue forze. Legge, “Fiesta”, di Hemingway. Sono secoli che il libro aspetta di essere ultimato, nell’attesa è rimasto a lungo a prender polvere accanto al letto. Rebecca non si ricorda più neppure di cosa

parli. Apre una pagina a caso, un capoverso a caso che recita “…è facilissimo reagire con freddezza alle cose durante il giorno, ma di notte è tutto un altro discorso.”

Ma guarda la coincidenza!

17

Il giorno successivo, dopo una tirata d’orecchi da parte della Brondani per un piccolo errore commesso, Rebecca rientra nel suo ufficio esplodendo in una reazione isterica irrorata dalle lacrime.

Perozzi si rivela comprensivo, dolce, protettivo, cerca di rassicurarla. Dopo pranzo, in hotel, si limita a consumare con lei solo un rapporto “normale” al termine del quale, sul letto zebrato, Rebecca avvilita lo accusa di averle rovinato l’esistenza non sapendo più con che faccia guardare il suo ragazzo. Perozzi le accarezza i capelli stringendola a sé con un ghigno beffardo.

Lei si scosta stizzita, «ma come fai a minimizzare sempre, non hai dei sentimenti, una famiglia, una donna, non sei innamorato, sposato o cose del genere?»

«No, sono libero e ci tengo a rimanerlo. Un tempo però fui molto vicino al matrimonio, ero innamorato di una donna, e lei era innamorata di me, credo.»

«Davvero? Parlamene, sarei curiosa. Sempre che ti vada…»

Perozzi tracanna una lunga sorsata di whisky. «Era bella, bellissima. Io ero pazzo di lei. Dopo un anno di relazione le chiesi di sposarmi. Lei accettò. Da una settimana avevamo iniziato i preparativi quando giunse l’imprevisto. La banca per cui lavoravo allora mi propose un trasferimento a Milano. Ero promettente, brillante e quel trasferimento poteva significare un trampolino formidabile per la mia carriera. Mi diedero soltanto un fine settimana per pensarci. Ero indeciso sul

da farsi ma lei mi incoraggiò. Mi disse che non c’erano problemi per il matrimonio, si sarebbe semplicemente trattato di spostarlo un po’ più avanti e che comunque nel frattempo lei ci avrebbe dato dentro coi preparativi.»

«Non avrebbe potuto trasferirsi con te?»

«Aveva finito da poco il praticantato e l’avevano presa in uno studio di avvocati grazie alle raccomandazioni di suo padre. Non poteva o non voleva trasferirsi, non se la sentiva di mollare dopo gli sforzi di suo padre anche perchè, va detto, lo studio era molto prestigioso.»

«Non sarà mica stato quello di Petraz?»

«No, Petraz a quel tempo era agli inizi, come me. Dunque, io riuscivo a rientrare da Milano molto raramente. Ci vedevamo e sentivamo pochissimo perché il lavoro mi assorbiva molto. Ero sempre da clienti, cene di lavoro, pranzi di lavoro, straordinari. Sai come vanno queste cose. Alle volte sembravano scuse, le mie, poteva sembrare che volessi coprire una fantomatica tresca con la segretaria ma io lavoravo veramente tantissimo. Lo facevo in vista del matrimonio, come tutti i poveri diavoli cercavo di garantire un buon futuro alla moglie e a eventuali figli che desideravo molto.»

«Ma quale fu il problema?»

«Un giorno mi recapitò una lettera dicendomi che da tempo, praticamente da quando mi ero trasferito a Milano, aveva conosciuto un tizio con cui era nata una relazione e che voleva troncare con me.»

«Che gran putt…!»

«Come tutte le donne. Nella lettera mi chiese anche di spedirle indietro le sue foto. Tu che parli tanto di sensibilità, ti rendi conto di quanto fu meschina? La mia testa stava per scoppiare, riesci a capirmi? Dapprima pensai di correre da lei per scongiurarla di non piantarmi.»

«Madornale errore.»

«Esatto! Per mia grandissima fortuna, mentre pensavo a questi scriteriati propositi, stavo eggiando in San Babila ed entrai in un bar a bere. Quando fui in polvere mi spazzarono fuori, continuai a girare per locali fino all’alba bevendo e vomitando, vomitando e bevendo. Mi trascinai in ufficio in condizioni pietose, senza aver dormito, spandendo ovunque il lezzo dell’alcol e dei succhi gastrici. Un collega di buon cuore mi prospettò la soluzione con lucidità. Mi disse: visto che da subito è andata con un altro, non è che ti amasse molto, quindi è senza mezzi termini una zoccola e pertanto gliela devi far pagare cara. Non puoi assolutamente abbassarti implorandola di ritornare con te. Tra un mese rivivrai la stessa scena, fìdati. Non buttarti via così. Ci penso io.»

«Cosa fece?»

«Il giorno dopo lanciò sulla mia scrivania una busta piena di foto. Mi disse: ti ha chiesto indietro le sue foto? Perfetto, le devi mandare queste. Il dritto si era procurato una cinquantina di foto di ragazze e donne di tutti i tipi. Belle, brutte, magre, grasse, vestite, nude, bianche, di colore, sorridenti, orientali, provocanti, tristi. Considera che non era epoca di Internet quindi si era impegnato molto per recuperarle. Gli chiesi cosa avrei potuto ricavarne? “Semplice, gliele spedisci

con una lettera in cui scrivi: sinceramente non mi ricordo di te, comunque io sono un tipo romantico e per ogni ragazza con cui sono andato a letto tengo delle foto ricordo. Prendi pure la tua foto e ti prego di rimandarmi indietro le altre.” Quel tipo fu un genio! Naturalmente seguii il suo consiglio. Da allora non mi sono più innamorato.»

«Sembra quasi una barzelletta o una leggenda metropolitana.»

«Sia come sia, a me è successo esattamente questo, e se di leggenda metropolitana si tratta, probabilmente sarà partita da quell’episodio. D’altronde all’epoca ero a Milano, una metropoli!»

«Mi spiace molto per come ti siano andate le cose ma tornando a noi, sappi che io non ce la faccio a sostenere tutta questa commedia degli equivoci e delle ambiguità. Sei stato abile a prendermi nella rete, lo riconosco. Mi sono illusa di poter riuscire a giocare questa mano ma mi sto rendendo conto di non esserne all’altezza, sarò all’antica, sarò debole, non lo so, ma tutto questo ha un qualcosa di negativo che mi rabbrividisce, mi fa sentire desolatamente spoglia come la tundra siberiana.» Perozzi, ancora nudo, steso con la testa sul cuscino, continua tetragono nella sua indolenza a fissare Rebecca che blatera specchiata sul soffitto, «inoltre, con le implicazioni nell’omicidio della signora De Dietrich, con le accuse che mi stanno muovendo, gli indizi contro di me e le shifezze che mi fai fare con Petraz…basta! Io voglio uscirne. Sì d’accordo, con i miei sei stato molto astuto nell’ingraziarteli, ma non credo basti a tenermi sotto ricatto. Sto impazzendo, la notte ho gli incubi. Esco da tutto questo, se ciò significa perdere il lavoro in banca me ne farò una ragione e se la dovranno fare anche i miei, spiegherò loro tutto quanto e dopotutto crederanno a me che sono la loro figlia piuttosto che a te!»

«Hai finito?»

«Sì.» Rebecca fa per alzarsi dal letto e rivestirsi ma Perozzi la tiene stretta alle sue molli carni, «non fare gesti avventati. I tuoi genitori sono aggrappati a te in questo momento di bisogno. Non puoi tradirli così, con una vile coltellata alla schiena. Tu quoque? Ho parlato con tuo padre, gli ho prospettato tutto il piano di Lanzafame, di cosa sta combinando in banca per aiutare voi.»

Rebecca lo fissa interrogativa e Perozzi, ricominciando a pasticciare in mezzo alle gambe di lei, «ovviamente ho omesso certi dettagli scabrosi fra noi. Io non ti sto ricattando, non vederla in questo modo. Mi sto semplicemente godendo la vita. Chiamala rendita di posizione, chiamala come vuoi. Io posso farlo e lo faccio, diamine! Gòditela anche tu! Che ti costa? La vita vera inizia dove finisce la nostra zona di comfort, pensaci! Quali ricordi, quali sensazioni ti faranno avere un sorriso appagato quando a ottant’anni trascinerai le tue laide membra aiutandoti con un deambulatore? Che a venticinque andavi ogni merdoso giorno a fare la cassiera in un supermercato per guadagnare una miseria, che la domenica facevi le pulizie di casa e che in agosto, per risparmiare, non trascorrevi neppure una settimana stipata su una spiaggetta al mare e nonostante tutti i sacrifici non riuscisti a ricomprare la casa e le serre dei tuoi, finiti a vivere sotto un ponte sul Natisone? O forse i ricordi più saporiti e speziati saranno che ne hai fatte di cotte e di crude insieme a due loschi maniaci sessuali pur di tenerti stretto ciò che è tuo e della tua famiglia? Non essere patetica, dài! E quali sono i ricordi più vividi e sugosi di quand’eri bambina? Le noiose lezioni a scuola e i pomeriggi sul divano a vedere i cartoni animati? Oppure una bella nota della maestra perché avevi tirato i capelli ad una compagna per farti rispettare, o una rovinosa caduta in bicicletta procurata mentre stavi andando troppo lontana da casa all’insaputa dei tuoi? Non ti brucia dentro l’ansia di vivere, di ficcarti nei casini, di farti assorbire da avventure epiche? Non senti brulicare la fantasia dentro quel tuo piccolo cervellino pieno di filosofia maldigerita al liceo? I sogni, le aspirazioni, dovrebbero impedirti di stare ferma, di dormire, dovrebbero condannarti a correre a perdifiato da un capo all’altro del mondo in cerca di esperienze, di sensazioni, di odori, di sapori, di umori, di gente, dare sfogo ai tuoi impulsi creativi e sensoriali. Hai la fortuna di non far parte dei, inorridisco solo a pronunciarlo, dei “nativi digitali”. Questi bambini d’oggi che dalla culla in poi hanno per le mani telecomandi, consolle di giochini, computer, tv, telefonini e tablet. Tu hai vissuto un breve periodo in cui queste cose non erano così invasive. Sei stata costretta ad usare, anche se per poco, la tua fantasia. C’è ancora da qualche parte lì dentro, la sento. Tirala fuori! I bambini di oggi,

sempre attaccati a qualche aggeggio elettronico, non sognano, non fantasticano. Tutta la loro creatività e curiosità è dentro ai loro giochini. Spegni il giochino e spegni il bambino. Porcomondo!

Ciò che ti ho fatto assaporare in questa stanza non credo sia poi così brutto e spiacevole come lo dipingi. Me ne sono accorto da certe tue reazioni, anche quando eravamo con quel depravato di Petraz, non mi inganni. Negalo quanto vuoi ma è così, partecipavi. L’uomo e soprattutto la donna sono licenziosi per natura, è inutile nasconderlo. E poi, perché privarti di questi guadagni extra. Approposito, tieni qui.»

Perozzi le allunga cento Euro, questa volta senza busta bianca, direttamente nella balza in vinile dell’autoreggente.

«Vedi, un esempio di come intendo il lasciar galoppare la mente. Io potrei pretendere da te qualsiasi cosa senza pagare. Ma il fatto di darti dei soldi, di dovermi in qualche modo sottomettere comprando la tua complicità, è qualcosa che mi pompa sangue al cervello, mi sferza amplificando ulteriormente le mie inclinazioni libidinose.»

Perozzi è incontenibile e Rebecca lo subisce. Lui prosegue picchiettandole con garbo il cuoio capelluto, «gli orgasmi più memorabili nascono qui dentro, nella testolina. Il contatto fisico è secondario. Vivi con consapevolezza le esperienze che la vita ti muove davanti, devi essere fluida ed entrare in essa! Ora come ora, rimanere accanto a me è l’unico modo che hai di aiutare realmente e velocemente i tuoi, consentire la loro salvezza terrena. Ragionevolmente non puoi illuderti di vincere domattina un concorso a premi per sistemare la loro situazione economica. Ce ne sono già abbastanza là fuori che ingrassano le casse dello Stato con i giochi d’azzardo. Quelli sì che sbagliano, a quei poveri cristi è rimasta solo la lotteria come religione in cui sperare, come canta Guccini.

I tuoi genitori ti hanno dato il pane e l’istruzione per ventiquattro lunghissimi anni assolvendo ampiamente al loro dovere, hanno lavorato duramente ma qualcosa o qualcuno in banca si è messo di traverso, ora sono in difficoltà e da soli non possono farcela. E’ il tuo turno di aiutarli, sei chiamata a un compito e lo devi portare in fondo. Oh certo, puoi sempre voltare loro le spalle, puoi sempre uscire definitivamente dalla porta di questa stanza. Ma domàndati se poi i tuoi incubi notturni spariranno, sapendo i tuoi cari in preda all’angoscia per aver perso te e per andare incontro alla sicura perdita dei loro beni materiali. Sei la loro speranza, il loro dio in terra che può miracolarli. Se tu sparissi, la tua coscienza, di cui hai cianciato anche l’altro giorno davanti all’avvocato, ti permetterebbe di dormire la notte? Gli incubi sparirebbero o aumenterebbero? Sii onesta prima di tutto con te stessa. Esci dalla tua zona di comfort, sbucciati le ginocchia e vai a caccia di note della maestra.

Concludo con una metafora biblica, visto che mi par di aver capito che bazzichi un po’ la Chiesa: Satana nel deserto ha tentato per tre volte Gesù. Una delle tentazioni narrate nei Santi Vangeli fu quella di posizionare Gesù sul pinnacolo del tempio invitandolo a saltare, a buttarsi giù, poiché Dio avrebbe mandato i suoi angeli a salvare suo Figlio. Ma Gesù non cadde in tentazione e non spiccò il salto. Ora tu, che metaforicamente sei Gesù, stai subendo una tentazione esattamente opposta: il diavolo ti sta tentando affinchè tu rimanga ferma su quel pinnacolo a macerarti l’animo chiedendoti se la strada che hai imbroccato sia buona o cattiva. Non cedere alle tentazioni di quel manigoldo con le ali da pipistrello! Non è tutto bianco o nero come credi tu! Devi guardare la cosa nel suo complesso. La strada che hai intrapreso non è né bianca né nera, è sfumata, ti serve per arrivare al successo finale. Tu adesso devi saltare dal pinnacolo. Spicca il volo e buttati tra le mie gambe! Oh sììì!»

«Hai finito?» tenta di arginarlo Rebecca ormai completamente rivestita.

«Quasi.» Perozzi, infilandosi le calze in filo di Scozia, prosegue «e non fasciarti la testa con la storia delle indagini sul tuo conto. E’ solo una parentesi buia che durerà quanto una bolla di sapone. Concèntrati a salvare i tuoi. E per il tuo

ragazzo non preoccuparti, se dovesse scoprire tutto questo e se ti ama veramente riuscirà a capire, oltrechè rimanere stupefatto da come sarai diventata brava ed esigente sotto le lenzuola. Ora andiamo che l’ufficio ci aspetta!»

18

Il giorno successivo, alle 7:37 di un venerdì di fine estate, l’avvocato Petraz telefona a Rebecca informandola precipitosamente che la stampa locale ha pubblicato un articolo potenzialmente lesivo nei suoi confronti. Nonostante gli inquirenti bràncolino ancora nel buio sul caso De Dietrich, il Messaggero Veneto di Udine si è scatenato. «Non so ancora come abbiano fatto, ma il tuo nome è uscito in un articolo “esclusivo” e il mio telefono è già sotto il fuoco incrociato della rimanente stampa e delle TV locali. Nell’articolo, fortunatamente, non ci sono né la tua foto né il tuo nome completo, solo le iniziali, “...i sospetti convergono su una certa R.C. di ventiquattro anni residente a Manzano, lo stesso paese dove si è perpetrato l’orrendo omicidio della signora Lorraine De Dietrich. R.C. è difesa dall’avvocato Arrigo Petraz del foro di Udine.”»

«Oddio, e ora? Sono finita! Ma chi è stato?»

«Ho già contattato l’ufficio del procuratore. Mi hanno garantito di essere meravigliati quanto me di questa soffiata, anche perché è improbabile una fuga di notizie dagli organi inquirenti. Sono orientato a creder loro. Forse c’è dietro la stessa mano che ha mandato la foto al P.M. Comunque ti terrò aggiornata. Coraggio Rebecca, oggi non sarà una bella giornata: al tuo paese ci metteranno poco ad associarti all’articolo, dato che sicuramente più di qualcuno avrà visto i carabinieri piombare in assetto da guerra a casa tua. Purtroppo tutti siamo affamati di gossip e tormentati da basse prurigini. Sii forte. Se c’è qualcosa chiamami e ai giornalisti che ti scocceranno rispondi “no comment”.»

«Grazie della doccia gelata. Cercherò di sopravvivere.»

Rebecca si augura che in banca nessuno se ne accorga. Sui giornali economici nazionali che stanno leggendo i suoi colleghi non c’è ancora niente che la riguardi, anche perché sui media nazionali raramente escono articoli sul Friuli, probabilmente perché le redazioni credono si tratti di una propaggine di Austria o Slovenia. I casi eclatanti che accadono in Friuli rimangono in cima ai titoli nazionali per un paio di giorni al massimo, per poi lasciar di nuovo posto ad altri casi di nera o ancor meglio di gossip, secondo la migliore tradizione giornalistica italiana degli ultimi vent’anni. Meglio così! pensa tra sé e sé Rebecca prima di rinchiudersi nel bagno della banca. Forse ha ragione mio padre con il suo religioso fatalismo, inutile forzare la mano al destino, è tutto già segnato, quello che ho fatto è tutto sbagliato. Trattiene a stento le lacrime e per estenuanti istanti pensa, nonostante le eccitate farneticazioni di Perozzi, che la faccenda dell’omicidio sia la punizione divina al rapporto di forzato meretricio con il suo capo e all’aver tradito Mauro. Il mondo va a rovescio! Con tutti i problemi che ho, proprio a me doveva succedere? Vede già il film di sé stessa condannata in tribunale e il dramma interiore incendia l’autocommiserazione. Non mi sono scelta io questa vita e nemmeno questa famiglia indebitata! Nè questo corpo minuto che mi obbliga ad essere sempre in forma per non sentirmi inferiore fisicamente. Non mi sono scelta neppure quella cazzo di ricca schifosa morta nel sangue. Anzi, a pensarci bene non ho mai scelto niente, neanche il liceo. Rebecca avrebbe voluto prendersi un diploma che non la obbligasse a proseguire gli studi, ma i genitori avevano sentenziato che quella non era una strada sufficientemente adeguata alla loro piccola. Inoltre non voglio suonare quel cavolo di organo per quei piccoli debosciati e nemmeno per la comunità ma semplicemente per me stessa. Avrei voluto poter studiare armonia e composizione così avrei imparato seriamente a scrivere musica e arrangiamenti, melodia e accompagnamenti. Vorrebbe avere tempo da dedicare a comporre musica elettronica, a scatenare la fantasia con “Live”, un software musicale, per poi fare la D.J. techno e incidere dischi. Porca miseria! Io non ho mai scelto niente, neanche i ragazzi, vengono sempre loro a cercare me, addirittura l’ultimo è venuto con quella merdosa pistola che mi ha inchiodata. E mia madre che viene anche a farmi la paternale senza capire i miei complessi!

In quella latrina odorosa di canfora e disinfettanti, Rebecca prende piena coscienza di aver trascorso la sua vita senza mai riuscire ad essere completamente sè stessa, sempre attenta al giudizio degli altri, sempre impegnata a gratificarli, i genitori, le maestre, i compagni di scuola, la parrocchia, il prete, i

compaesani. Per timore dei giudizi altrui non si è mai imposta né esposta, non ha mai affermato le sue reali aspirazioni, ha sempre misurato i suoi atteggiamenti. Nonostanto ciò, ora il mondo intero con estrema ingratiduine le sta crollando addosso. FANCULO TUTTO E TUTTI!

L’autocommiserazione viene sopraffatta dalla rabbia che monta, l’adrenalina la corròbora aiutandola a rimettere a fuoco la situazione. E’ pronta a sconfinare dalla zona di comfort. Esce dal bagno innervata e tesa a riprendersi la vita, la vita vera. Voglio scagionarmi, voglio i soldi per aiutare i miei. Poi voglio altri soldi, tanti soldi per vivere la mia vita. Ecco affiorare la paura più recondita, tenuta nascosta con la morale, con la coscienza, con i condizionamenti: la paura di ammettere di essere attratta visceralmente dai soldi, di ammettere che sono maledettamente belli, che danno euforia, serenità, forza, senso di invincibilità, di potenza. Sì d’accordo, i soldi sono effimeri, sono una convenzione, diamo credito a dei pezzi di carta e a dei numeri su un computer, non li portiamo nella tomba, ma sono disposta a tutto pur di averne in abbondanza. La ricchezza interiore, la ricchezza culturale…si vabbè…basta leggere un paio di libri o assistere a qualche convegno di sociologi in cerca di notorietà, ma vuoi mettere la ricchezza economica!

Rebecca è inebriata dalle sue intime autorivelazioni e dai suoi progetti di rivalsa. E’ eccitata dal proposito di agire immediatamente per difendersi con il coltello tra i denti e di andare a prendere quello che le spetta. Ha un disperato bisogno di scaricare tutta quell’energia, di lottare in maniera animalesca, basta subire decisioni e imposizioni di altri. D’ora in poi mi batterò per avere in ogni momento la consapevolezza di quello che sto facendo. Riprendo in mano la vita, dev’essere come in fiume, massima attenzione, pagaiare sempre in una direzione precisa altrimenti alla minima esitazione un’onda può travolgerti contro un masso.

Ora la mente è leggera, palpitante, bramosa di avventura. Non servono intrugli per assopirla o per ammorbidire sgradevoli sensazioni, niente musica nelle orecchie, niente whisky, niente storie di Mazzoni. Sa perfettamente cosa fare

come prima cosa: trovare il giornalista che l’ha sbattuta senza scrupoli sul giornale e scoprire chi ha fatto la soffiata, a costo di spaccarlo di legnate.

Per tutta la mattinata Rebecca non risponde a nessuna chiamata sul cellulare, tutti numeri sconosciuti. Durante la pausa caffè recupera con discrezione, all’interno della banca, la copia del giornale con l’articolo che parla di lei. In prima pagina c’è solo un risicato strillo. L’articolo vero e proprio è relegato nella cronaca locale, fortunatamente è firmato. Memorizza il nome. Alle diciassette esce dalla banca e si precipita nella sede del Messaggero Veneto di Udine. Chiede del giornalista, un certo Marco Baseri. La ragazza della reception risponde che è “sul territorio”. Rebecca vuole contattarlo. La segretaria dice che non è autorizzata. Rebecca aguzza le parole, «mettiamola così: oggi è uscito un articolo di Marco Baseri nelle pagine locali, un articolo su un omicidio, io ho dei dettagli riservatissimi per lui che potrebbero mandare l’argomento in prima pagina e suscitare grande sensazione. E’ pronta a prendersi la responsabilità di aver impedito un cospicuo incremento di tiratura al suo giornale?» La segretaria le scrive il numero di cellulare.

Rebecca a da Petraz a cui lascia in consegna il proprio telefonino chiedendo di non rispondere ad eventuali chiamate e di portarselo dietro nel caso debba muoversi, lei verrà a riprenderselo l’indomani. «Non farmi domande. Dopo tutto quello che mi hai fatto, una piccola cortesia me la devi!»

Con la Renault 4 regalatale da Pacciani, Rebecca si reca in un duty free in Slovenia, a quindici minuti da casa. Parcheggia fuori dal raggio d’azione dell’impianto di videosorveglianza esterna, berretto calcato in testa, anonima salopette blu da lavoro sottratta dalla serra di suo padre, occhiali da sole con lenti colorate ambra. Acquista una scheda telefonica nuova di un operatore sloveno insieme ad un telefonino, il più scalcagnato e a buon mercato che trova. Aveva ragione Zoran, qui vendono le schede senza chiedere documenti d’identità. Alle diciotto chiama Marco Baseri, il giornalista, gli racconta qualche balla su presunte informazioni ghiotte per la stampa e gli dà appuntamento alle ventitrè in un posto isolato sulle colline attorno a Fagagna. Come riferimento

indica un casotto in legno ai margini di una stradina di campagna che lei conosce palmo a palmo avendo avuto una storia giovanile con un ragazzo di quelle parti. Spegne il telefono, stacca la batteria ed estrae la scheda. In un giallo ha letto che si fa così per impedire il tracciamento all’interno di una rete GSM. In attesa dell’appuntamento rientra a casa per cena.

Luisa mette al corrente Rebecca che la “Carinci Frutti di Bosco” ha delle nuove complicazioni con la banca, «è meglio però se te ne parla papà, sarà qui a momenti, sta chiudendo le serre con Pacciani.» Luisa prosegue con i suoi messaggi di sventura manifestando che secondo lei il dottor Martinis, l’avvocato di Giordano, non sta lavorando bene. Luisa lo reputa impreparato e ritiene che se la situazione fosse stata seguita da qualcun altro non si sarebbe arrivati al pignoramento, «ma sai com’è tuo padre, non si impunta, a parte oggi in banca, dice che Martinis è un buon diavolo e che bisogna lasciarlo lavorare in pace.»

Rebecca conosce benissimo il carattere bonario e accomodante del padre, per cui quelle mezze parole dette da sua madre la inducono a chiedere spiegazioni, «che significa “a parte oggi in banca”?»

«Niente, niente. Te lo spiega lui.»

Nel mentre, Giordano entra in cucina, alticcio più del solito e per niente allegro.

«Ciao papà, allora cos’è successo con la banca?» Giordano lancia qualche segnale di escandescenze. Luisa cerca di calmarlo. Giordano racconta che verso le nove di quella mattina ha ricevuto una telefonata da parte di un funzionario della propria banca. Lo convocavano d’urgenza, doveva presentarsi immediatamente dal direttore, pareva una questione di vita o di morte. «Con tutte le signore nelle serre, capisci? Quell’isterico che ha chiamato non voleva saperne di aspettare anche se ero da solo con le clienti, visto che Luisa era da

Martinis. Il direttore mi voleva subito. Ho dovuto mandar via le gallinelle dalle serre inventandomi una scusa per precipitarmi da quei vampiri.»

«Ma che volevano?»

«Insomma mi presento in banca, salgo dal direttore, che poi è una stronza direttrice, e quella lurida lampadata mi dice papale papale “la rogna di tua figlia non ci voleva!”, sbandierandomi sotto il naso una copia del Messaggero aperta sulla pagina dell’articolo con le tue iniziali. Poi ha proseguito con la sua voce da anatra rauca, “con questa rogna tra poco perderai tutti i clienti, non riuscirai a pagare i fornitori e noi come banca non possiamo mica rimanere col becco asciutto!”»

«Ma anche l’aria vogliono prenderci?» chiede Rebecca che non ha mai sentito suo padre esprimersi in maniera così triviale.

«Non lo so, le ho strappato di mano il giornale e l’ho ridotto a brandelli per non strozzare lei. Prima di venir via sbattendo la porta le ho solo detto che a noi i soldi servono ora, nei momenti di difficoltà, non nei momenti in cui tutto va a gonfie vele.»

«E poi? Racconta, racconta cos’hai fatto dopo,» lo incalza Luisa ansiosa che anche Rebecca fosse messa al corrente di quanto combinato da suo padre.

«Ma niente, sull’uscio dell’ufficio c’erano degli ombrelli in un portaombrelli, gadget della banca, ne ho afferrato uno, l’ho aperto, mi sembrava una metafora perfetta per rimarcare quello che le avevo appena detto. Gliel’ho scagliato contro urlandole che abbiamo bisogno degli ombrelli quando piove e tutto va male, non

quando c’è sole e va tutto bene. Poi sono uscito.»

«Grande papà! Così mi piaci!» lo festeggia Rebecca saltandogli al collo.

«E mentre scendeva le scale lo hanno bloccato due della sicurezza che lo hanno accompagnato fuori ando davanti a tutti gli sportelli. Che figure!» completa Luisa amara come una foglia di ruta.

«Tanto stavo già uscendo ed ero calmo, se ne sono resi conto anche loro. Non sono orgoglioso del mio comportamento ma di certo quell’imbecille di direttrice se l’è cercata! Parlare così della mia piccola!»

Sono le venti, Rebecca deve correre in chiesa, la prova generale prima della processione di domenica. Accanto all’organo ci sono solo cinque ragazzini scortati dalle rispettive madri che scrutano in tralice Rebecca. Scintille le percorrono gli occhi, è colma di furore. I nervi a fior di pelle provocati da quello che ha ato e dall’incontro che l’aspetta sulle colline di Fagagna la mantengono lucida e vigile. La concentrazione è altissima, tanto da portarla a seguire il tempo con una precisione da metronomo. Suona come un computer, anche l’ultima canzone in mi maggiore, con quattro diesis in chiave, le riesce a perfezione senza sbavature. Fortunatamente i bambini fanno il loro dovere e tutto fila tranquillo preconizzando una bella figura per la funzione religiosa di domenica.

Alle ventidue parte per l’appuntamento col giornalista ingoiando zollette di zucchero per sostenere un quasi certo calo di pressione.

Ore ventitre. Il giornalista sopraggiunge con una Mercedes Classe A di colore

chiaro accanto al capanno indicato. Scende dall’auto. Rebecca gli punta contro i proiettori della Renault 4, si infila dei guantini da running in poliestere per poi abbandonare l’auto ed affrontarlo.

Marco Baseri è alto, segaligno, con gli occhi da topolino piccoli e scuri, capelli corti e fronte stempiata, il muso puntuto da furetto. Rebecca lo spiazza presentandosi con nome e cognome reali, lo aggredisce verbalmente, lo incalza con le domande. Gli occhi da topolino rientrano nelle orbite a cercare un improvvisato riparo. Rebecca è soddisfatta da quell’incipit e quasi sorpresa nel vederlo così spaventato. Questi, nonostante visibilmente se la stia facendo sotto, non si piega a rispondere. Rebecca non fa nulla per bloccare le animalesche pulsioni alla lotta che cova dalla mattina ed esplode in una formidabile prova di forza. Ha sempre allenato i suoi muscoli per schermare il suo corpo minuto da eventuali aggressioni fisiche di cui ha, dai tempi delle superiori, una recondita paura. La prestanza fisica sviluppata non le è mai concretamente servita per difendersi, tuttavia ora si ritrova ad essere lei l’aggressore, a scagliare quel fascio di nervi esplosivi contro il malcapitato giornalista. Accecata dalla collera lo picchia senza remissione burlandosi dei suoi maldestri tentativi di difesa. Trae piacere nel dominarlo come un fantoccio. Quando Baseri è a terra, lei continua a colpirlo con calci e pugni all’addome, al volto e alla schiena scaricandogli addosso tutta la sua rabbia, i suoi complessi e le sue repressioni. Fight Club!

Marco Baseri, col volto tumefatto e trasformato in una maschera di sangue, confessa di aver ricevuto una telefonata anonima, di aver incontrato un tipo in soprabito, cappello, occhiali scuri, come nei film. «Devi credermi, mi ha dato dei soldi in contanti e un foglio con le informazioni per l’articolo, mi ha obbligato a pubblicare minacciandomi di morte. In redazione ho dovuto mentire, dicendo di aver ricevuto le informazioni da fonte attendibilissima di cui come giornalista dovevo tutelare l’anonimato. Devi credermi! Sto morendo e non avrei motivo ormai di mentire.»

«Che morendo e morendo, non dire sciocchezze, hai solo qualche graffio.»

«Perdonami, ti prego, non avevo scelta! Quello faceva sul serio, mi avrebbe ucciso!»

«Mi pare che ti impressioni troppo facilmente.»

«Sarà, comunque quanto potevo fare per tutelarti, l’ho fatto.»

«Sarebbe?»

«Sul foglietto che quel tale mi ha consegnato c’era il tuo nome completo. E’ stata una mia iniziativa mettere solo le iniziali.»

«Uh! Sai che delicatezza, credi che in paese non mi abbiano già crocifissa come pazza omicida?»

«Comunque sia, temo mi si ritorcerà contro. Quello potrebbe averla presa male.»

Rebecca è delusa dall’incontro poco proficuo, si augurava di carpire qualche informazione più sostanziosa. Per ora, quello che ha scoperto esclude che gli inquirenti, non sapendo che pesci pigliare, la abbiano usata come capro espiatorio. C’è la precisa volontà di qualcun altro affinché lei si becchi la colpa. Ma chi può essere? E questo incapace di giornalista è ormai inutile alla causa. Rebecca fa per andarsene ma in un raptus di pena, rendendosi conto che il giornalista non è in grado di guidare e che sta schiattando di paura all’idea di rimanere qualche ora da solo in mezzo alla campagna in attesa di recuperare le forze, gli fruga nelle tasche in cerca del suo telefono. Trovatolo, compone il

numero del radiotaxi e accosta il telefono a Marco Baseri obbligandolo a fornire la sua posizione e a farsi venire a prendere inventando un guasto all’auto. Così facendo, qualcuno lo butterà al prontosoccorso senza far tante domande, come si fa con i tossici in crisi da overdose, evitando altresì eventuali pattuglie sulla via del ritorno. Rebecca si assicura inoltre che il giornalista abbia dei soldi con sè e dopo avergli messo in mano il portafogli si avvia verso la Renault.

E’ appena risalita sull’auto quando la luna piena brilla sui suoi denti bianchissimi e ghignanti. Fanculo! Stiamo ballando, andiamo fino in fondo! Si precipita fuori di nuovo. Baseri è ancora a terra, la vede avvicinarsi minacciosa e porta le mani col portafogli a proteggersi il volto. Rebecca, incurante, gli sferra un calcio in faccia e il portafogli vola via. Con il tono più iniquo di cui è capace lo incalza, «di solito in questi affari sporchi ti danno dei soldi prima e dei soldi dopo. Hai già ricevuto il saldo? Sii sincero!»

«No.»

«Quanti soldi ti hanno promesso? Quando e dove avverrà la consegna? Rispondi!» Tumpf! Un altro calcione scuote il fantoccio a terra che non riesce più neppure a lamentarsi.

«Cinquemila Euro, all’una di questa notte, nella zona industriale di Udine.»

Rebecca si fa anticipare come avverrà l’incontro. Baseri le spiega che devono trovarsi su un piazzale, l’uomo del soprabito lampeggerà una volta, Baseri dovrà rispondere con tre lampeggi. Poi il tipo butterà un sacchetto coi soldi e se ne andrà via. Dopo l’incontro non si dovranno vedere o parlare mai più.

Rebecca vorrebbe provare ad andarci sostituendosi al giornalista ma poi ci ripensa. E se il criminale dovesse cambiare idea e scendesse per parlare? Magari una minaccia finale, oppure per protestare in quanto nell’articolo pubblicato sono state riportate le iniziali anzichè il nome per esteso? Oppure potrebbe semplicemente piantarle una pallottola in fronte prima di scioglierla nell’acido. Rebecca considera quanto non valga la pena rischiare la vita per cinquemila Euro, così obbliga il fantoccio a risalire sulla Classe A, lei lo seguirà con la Renault a debita distanza.

Baseri è malconcio, lamentoso e tremolante. Rebecca cerca aiuto nella sua borsetta dove recupera delle bustine di Ibuprofene puro, scadute, avanzi di quando le hanno cavato il dente del giudizio due anni prima. Un antidolorifico andrà benissimo per le botte di questa checca! Per calmarlo, invece, lo obbliga a inghiottire quattro compresse di Diazepam che tiene sempre con sé per gli attacchi di panico. Non le usa mai, ma la fanno stare tranquilla. Insolitamente però ne prende due anche lei.

Partono con destinazione Udine, zona industriale. A poco meno di un chilometro dal luogo dell’appuntamento con l’uomo del soprabito, Rebecca abbandona la Renault e percorre di corsa quell’ultimo tratto. Quando arriva sul piazzale, scorge un’auto scura sgommare via. Dannazione, l’ho perso! Rimane solo la Classe A, in moto coi fari accesi, in cui Baseri è riverso sul volante. Rebecca si avvicina all’auto con circospezione, apre lo sportello, lui è ancora vivo e sembra svenuto, semi-incosciente. Sul piazzale, a una trentina di metri dall’auto, scorge il sacchetto che dovrebbe contenere i soldi e si precipita a raccoglierlo. Ritorna alla Classe A e schiaffeggia delicatamente il giornalista per farlo rinvenire, gli ritira fuori il cellulare, mette in anonimo, richiama il radiotaxi, quando prende la linea avvicina il telefono a Baseri e gli indica l’insegna luminosa della fabbrica lì vicino, affinchè la comunichi come riferimento. Chiusa la telefonata, gli fruga la giacca per trovare il portafogli ricordandosi solo allora che è volato via col suo calcione. Apre allora il sacchetto di carta appena recuperato sul piazzale con l’intenzione di lasciargli del denaro per il taxi. In mezzo a qualche cartaccia appallottolata trova solo una banconota da cinquecento Euro, le preferite dai falsari, l’ha letto da qualche parte. Il saldo pattuito, cinquemila Euro stando alle chiacchiere di Baseri, è stato ampiamente ribassato. Rebecca non sa se la moneta

sia buona o falsa ma decide di tenere per sé quel magro bottino e di affidare il giornalista al buon cuore del taxista, se mai arriverà un taxista. Lungo la via del rientro, si ferma alcuni minuti in un’area isolata per bruciare i guantini in poliestere.

Una volta a casa, Rebecca crolla sul letto e dorme come un ghiro senza bisogno di tranquillanti o di letture noiose.

19

Sabato. Ormai in paese tutti parlano di Rebecca Carinci e delle accuse contro di lei.

Per distrarsi, Rebecca accompagna Luisa al mercato settimanale nelle piazze di Cividale del Friuli. Le sembra di avere gli sguardi di tutti addosso a sé, compresi quelli degli ambulanti cinesi dietro le loro bancarelle.

Rebecca a anche da Petraz a riprendersi il cellulare.

«Senti Rebecca, c’è un tipo che ti ha cercata un milione di volte. A mezzanotte ho deciso di rispondergli ma ha messo giù.»

Rebecca trova trenta chiamate di Mauro e varie chiamate e messaggi di Luca, Andrea e Mirko. Molti numeri sconosciuti. Una chiamata anche di Stefania, anche lei di Manzano, che Rebecca non vede dai tempi delle superiori. Probabilmente voleva avere qualche scottante news sull’indagata Rebecca Carinci piuttosto che interessarsi al mio stato d’animo, visto che ci siamo perse di vista da allora! Un po’ come le amicizie che si chiedono su Facebook. Se nella vita reale non ti ho mai cercato tramite telefono, lettere, e-mail o di persona, significa che non mi interessa poi molto di te. Solo pruriginosa curiosità! Bleah!

Verso ora di pranzo, Mauro cerca ancòra di mettersi in contatto con Rebecca che non gli risponde, decide di tagliarlo fuori per proteggerlo, per non coinvolgerlo nella baraonda, almeno per ora, visto che quasi certamente, in seguito, pure lui avrà modo di prendersi la sua dose di strizza dovendo testimoniare a favore di

Rebecca.

Le telefona anche Perozzi, a lui risponde. «Ciao Rebecca, mi ero perso la faccenda dell’articolo sul giornale, l’ho saputo oggi da Petraz.» Perozzi cerca di tranquillizzarla. Le garantisce che se le indagini sul suo conto dovesserero diventare di pubblico dominio in banca, lui farà il massimo per proteggerla. Per svagarsi le propone un concerto di musica classica, a Gorizia. «I tuoi genitori mi hanno accennato al tuo amore per la musica. Oggi pomeriggio è in programma un’esibizione per due pianoforti, a quattro mani. Suoneranno con due Fazioli “Gran Coda” installati per l’occasione. Riesci a capirmi? Non stai attendendo con bramosìa l’inizio del concerto?» Rebecca è lusingata dall’invito. Sa che Fazioli rappresenta il non plus ultra in fatto di pianoforti e che è un privilegio poter ascoltare dal vivo la ricchezza timbrica e dinamica di quegli strumenti il cui controvalore in Euro eguaglia un superattico in centro città. Sicuramente con un tale dispiegamento di forze i concertisti saranno all’altezza, pertanto lei accetta. «Brava la mia Rebecca, il concerto è alle diciassette, sarò da te per le sedici.» Prima di riagganciare, lei gli raccomanda «infila l’auto fino al parcheggio delle serre così sembrerai un cliente, sgattaiolerò fuori dal retro. Non vorrei ci fossero giornalisti in agguato.»

Alle quindici suonano alla porta, è Mauro, allarmato e furioso allo stesso tempo. «Ma dov’eri finita? Perché non mi hai mai risposto?» Poi rendendosi conto, complice la truce occhiataccia di Rebecca, di averla appena aggredita, cambia registro. «Volevo dire…mi dispiace per quello che stai ando, qui tutti parlano male di te.»

Rebecca giustifica la propria condotta. «Forse ho sbagliato, non lo so, mi è venuto istintivo cercare di non coinvolgerti, mi sta crollando tutto addosso.»

«Ma ci sono qua io. Ti va se usciamo così ti rilassi un po’ e se vuoi ne parliamo? Non vorrei che ti venisse la dipendenza da fiscion a furia di startene sul divano di fronte alla TV.»

All’udire “fiscion”, Rebecca accenna un sorriso pensando a quando, tempo addietro, con quella storpiatura prendevano in giro Luca che si era apionato maniacalmente ad una serie televisiva. «E’ meglio di no, credimi. Se ci becca insieme qualcuno della stampa, inizieranno a tartassare di domande anche te. Vorrei risparmiarti la seccatura.»

«Forse ne ho visto uno, c’è un tizio in strada che bighellona su e giù con una macchina fotografica.»

«Lo vedi che è meglio se non ti associano a me? Se vuoi puoi entrare e stiamo un po’ assieme.»

«Prima dimmi chi era il tipo che ha risposto a mezzanotte al tuo cellulare?»

«Non preoccuparti, era l’avvocato.»

Mauro le chiede con malcelata gelosia, «e tu i il venerdì notte insieme all’avvocato?»

«Ma insomma! Datti una calmata!»

«Certo certo, mi calmo. Mercoledì sera eri fredda e scostante, ieri hai ato la notte dall’avvocato…»

«SMETTILA! Stammi a sentire, con queste scenate non mi aiuti di certo! Cerchiamo di non perdere la testa. Mercoledì ero reduce da un interrogatorio in tribunale, ho scoperto che hanno degli elementi che mi collegherebbero all’omicidio. Potevo essere pensierosa, o no?» Mauro sta per dire qualcosa con gli occhi bassi ma Rebecca prosegue, «e ieri sera, beh ieri sera ho dimenticato il cellulare a casa dell’avvocato, ha lo studio nell’abitazione e nel pomeriggio avevo avuto un confronto con lui. Ti basta?»

«Scusami Rebecca, mi dispiace tanto. Insomma, io non volevo…»

«Fa niente dài, vieni qui.» Rebecca lo abbraccia, lo bacia e lo invita nuovamente ad entrare, Mauro seguita però a rimanere rigido come uno stoccafisso. «Ma che hai? Sembri di legno.»

«Scusa se te lo chiedo ma…ma…quello che dice il giornale, tu che sei stata in tribunale…»

«Sentiamo! Dài, dillo, dillo, sei qui per questo in realtà. AMMETTILO! Fammi capire che opinione hai di me. Sei venuto solo per sapere se sono realmente una criminale!»

«Non fraintendermi Rebecca, è che mia madre ha intuito che venivo da te e ha fatto di tutto per impedirmelo, lei come tanti qui in paese ti ha già messo sulla forca e sinceramente non ne vedo la ragione. Se sono qui è perché sono sicuro che tu non possa aver compiuto un gesto simile. Io ti credo, dimmi solo che sei innocente, che non l’hai uccisa tu, e io ti credo. E non sentirti obbligata a rispondere, io sono dalla tua parte, in ogni caso.»

«Scusami anche tu, ho perso le staffe, mi ero fatta l’idea che anche tu mi avessi già condannata. Comunque stai tranquillo, non l’ho uccisa io, come non ho mai ucciso nessuno, per ora.»

«Lo sapevo, lo sapevo che eri inocente.» Mauro l’abbraccia, la bacia e prende coraggio, «ma perché diavolo hanno sospetti su di te?» Rebecca si stacca da lui, «ascoltami, è meglio se non ci addentriamo nel ginepraio.»

«Voglio sostenerti, avrai pur bisogno di scaricarti, di parlarne con qualcuno, non temere, so tenere i segreti.»

«Dunque, io volevo tenerti fuori il più a lungo possibile ma visto che insisti, sappi che verrai molto probabilmente convocato a deporre a mio favore.» Rebecca gli spiega del campione di polvere da sparo, del poligono e del nome che non risulta sul registro. Siccome vede Mauro sbigottito e mortificato non si dilunga ad aggiornarlo della sua seconda solitaria sortita al poligono, tace anche la faccenda delle fotografie scalettate che la ritraggono fuori dalla villa oltre a tacergli il pestaggio del giornalista.

Sono quasi le quattro del pomeriggio, Rebecca si rammenta dell’appuntamento con Perozzi e non si è ancora preparata per andare al concerto. «Mauro, ora è meglio se te ne vai.»

«Mi dispiace per il poligono, allora è anche colpa mia, io…io non…»

«Senti, lo so che non l’hai fatto di proposito, ora smettila di balbettare e, se non ti dispiace, avrei da fare. Su, vai. Ci vedremo presto.» Mauro la saluta andandosene pensieroso.

Nella Mercedes CLS impregnata di talco e arbre-magique, Rebecca apprende da Perozzi che la Walser Privatbank sta sponsorizzando una rassegna di concerti d’alto livello in un palazzo d’epoca a Gorizia. Quello a cui si stanno recando è l’ultimo del cartellone estivo. «Soldi buttati! L’ho detto a quei Soloni del marketing che l’orario dell’aperitivo non va bene. In pratica vedrai, ci saranno solo vecchi babbioni per nulla facoltosi, qualche signora vestita con finti abiti d'altissima classe da cui potrebbero sporgere curiose etichette con scritto “Made in Tagikistan”, qualche ragazzino in odore di conservatorio musicale e il presentatore.»

«Ma i concerti come sono?»

«Oh beh, i concerti sono fantastici, con quello che spendiamo ci sono nomi veramente importanti e preparàti. A fare gli onori della banca non vuole andarci mai nessuno, così ci vado io che sono melomane. Ti piacerà anche la cornice, il palazzo Attems-Petzenstein.»

Prendono posto in prima fila, a pochi metri dai due gioielli Gran Coda, neri e lucidi come due orche marine pronte a rincorrersi fra le onde musicali. Rebecca non si cura degli affreschi incorniciati in foglie d’oro alle pareti. Si perde estasiata nelle musiche di Liszt, Grieg, Busoni, Dvořák, suonate con emozione, sensibilità e vigore da due prodigiose ragazze sui venticinque, visibilmente determinate a costruirsi una carriera di affermate concertiste internazionali.

A fine concerto Perozzi, tra bis e applausi, porge a ciascuna delle concertiste un mazzo di calle bianchissime ornate da un nastrino giallo, «in omaggio alla purezza del vostro suono e alla vostra bellezza». Prosegue poi con brevi saluti e ringraziamenti alla Walser, come richiestogli dai colleghi del marketing, per poi dare un’ulteriore prova delle sue capacità affabulatorie. Mentre la gente scema il salone, Perozzi avvicina le due concertiste producendosi in misurati e sapienti

salamelecchi, «dopo un grandioso concerto come questo, le signorine non potranno mica venir subito abbandonate al loro trenino che le riporta nelle rispettive dimore, no? Permettano che la Walser Privatbank AG le omaggi con una cena adeguata al livello della loro prestazione, così potremo anche accennare ai prossimi cartelloni che stiamo organizzando per Natale. Le signorine hanno per caso altri programmi per la serata?»

Una delle due, una gioviale moretta corvina, risponde «a dire il vero, come dice lei, stavamo per andare a prendere il tren…ouch!» una gomitata dell’altra, una sinuosa rossa dall’espressione molto sveglia, la blocca. La rossa prosegue con occhi suadenti, «accettiamo con piacere il suo invito, il treno parte molto tardi.» Capìta l’antifona, anche la mora si mette a fare la svenevole.

Rebecca, osservando la scena da qualche metro, si meraviglia di quanto Perozzi sia abile a manipolare le giovani fanciulle. Teme qualche risvolto inaspettato che coinvolga anche lei, ma suo malgrado non può far altro che rimanere sulla giostra. Tutti e quattro si recano alla gostilna “Alla Luna” per degustare le prelibatezze della tradizione locale. Un tavolo prenotato e sapientemente agghindato li attende. Durante la cena, le concertiste diventano molto ciarliere e si lasciano coinvolgere, ingenuamente o volontariamente, dalle smaliziate conversazioni di Perozzi che le lusinga con chardonnay, possibili concerti futuri e complimenti sulla loro bravura, eleganza e fascino. «Avrei già pensato di incastonarvi come pietre preziosissime in una prossima rassegna dove eseguiremo un raro repertorio di Eugenio Visnoviz. Le signorine lo conoscono?»

La mora e la rossa cicaleggiano affinchè Perozzi le illumini. «Eugenio Visnoviz era un ragazzo triestino, pianista e compositore, mi dicono molto in gamba. Anzi, dirò di più: geniale. Di notte, con l’ausilio del piano, scriveva toccanti musiche per formazioni da camera.»

«Riusciva a suonare tutte le voci contemporaneamente col pianoforte?» chiede la mora.

«Più o meno. Da quanto mi hanno raccontato suonava le parti che le sue mani materialmente gli permettevano, le altre gli ronzavano in simultanea in testa, la sua genialità compensava il fatto che non erano ancora stati inventati i registratori multitraccia e i sequencer elettronici. Ebbene, alle prime luci dell’alba le composizioni erano belle che finite e lui, prima di andare a coricarsi, ne stracciava le partiture gettandole nel cestino. Giovanissimo, a venticinque anni, circa la vostra età, si è suicidato. Se oggi abbiamo qualche testimonianza di quelle musiche lo dobbiamo al fratello, il quale di nascosto origliava e prima di gettare i rifiuti recuperava gli spartiti archiviandoli gelosamente. Per certi aspetti Eugenio Visnoviz era peggio di Novecento, il musicista de “La leggenda del pianista sull’Oceano”.» Le due ragazze pendono adoranti dalle labbra di Perozzi.

Quando la cena sembra volgere al termine, Rebecca nota Perozzi armeggiare col proprio telefonino. Poco dopo, al bancone della locanda, un agente Smith vestito di nero ma senza occhiali scuri è appena entrato e sta chiedendo informazioni. Il cameriere indica il tavolo di Rebecca nella cui direzione sta ora guardando il nuovo avventore. A Rebecca va di traverso il caffè, è l’avvocato Petraz che si sta già avviando a grandi i verso di loro mentre come un ladro si sfila la fede nuziale facendola scivolare nel taschino della giacca. Presentazioni, convenevoli, risatine. Il capo e l’avvocato di Rebecca avevano architettato molto bene anche il sèguito della serata, traslocando il gruppo fra le morbide luci soffuse del “Caffè Teatro” per ulteriori risatine, ammiccamenti, mani che accarezzano mani che sfiorano capelli. La serata ha ormai imboccato un binario frizzante e pepato. La già pianificata eventualità di un successivo intermezzo in discoteca, qualora ce ne fosse stato bisogno per abbattere gli ultimi baluardi di riluttanze, viene cassata con un’occhiata complice fra i due assatanati manigoldi che, annusando gli ormai abbondanti estrogeni nell’aria, ritengono sia già il momento di tirare la nassa in secca.

Rebecca credeva di venir sollevata dall’inevitabile epilogo, invece si ritrova con tutto il gruppo in una suite del Gorizia Palace Hotel, coinvolta in un baccanale su cui aleggia dolciastro l’odore di corda bruciata. Dopo un tempo indefinito, le calle col nastrino giallo buttate su un divano rimangono le uniche entità pure

nella stanza.

Non è stato l’alcol o la marijuana a ottenebrare le menti della mora e della rossa spingendole in quest’orgia promiscua, ma è stata la loro avidità, riflette Rebecca, mentre distesa in mezzo a quattro corpi nudi ormai esausti e palpitanti si autoassolve: io invece sono prigioniera della necessità, non della cupidigia.

Perozzi e Rebecca si dileguano che è quasi mattina. Nel fresco e ampio abitacolo della Mercedes, Van Morrison canta Moondance. Perozzi guida tamburellando sulla pelle del volante e ancheggiando sul sedile al ritmo della musica. «Ah! Serata epica! Cosa c’è di meglio per assaporarne gli speziati retrogusti se non uno swing e un paesaggio che scorre con case ancora addormentate, luci e lucine in lontananza e dolci colline baciate dai primi raggi di una domenica di totale relax. Ringrazio Dio per tutto questo, per farmi sentire vivo!» Dopo un paio di canzoni, Perozzi allunga a Rebecca duecento Euro. «Tariffa festiva, sei stata grande!»

Rebecca, schiava della necessità, non credendo di vedersi riconosciuto un extra anche per quella serata, si era già procurata una ricompensa, approfittando del trambusto, appropriandosi della fede nuziale di Petraz con l’intenzione di rivenderla al primo “compro oro” che avrebbe trovato aperto il lunedì successivo. Melius abundare quam deficere! pensa tra sé, ormai impossibilitata a restituire il maltolto. Poi, sonnecchiando, dà un’occhiata al suo telefonino dove lampeggia un messaggio di Mauro risalente a diverse ore prima: Mi hai detto che non volevi uscire e che avevi da fare. Invece ti ho vista andar via con una CLS nera. Dopo quello che ci siamo detti! Proprio non ti capisco! Cosa mi nascondi? PS:non ero rimasto a spiarti, mi ha fermato quel fotografo fuori casa tua.

Rebecca avverte una fitta al cuore. Ecco, tutto perfettamente a rotoli! Nel tentativo di ingannare i suoi assilli amorosi, ripercorre lo scontro di due sere prima col giornalista costretto da chissà chi a darla in pasto alla stampa. Ma con chi può condividere l’inaspettata scoperta che qualcuno ce l’ha con lei? Chi può

aiutarla a individuare un ipotetico mandante? I genitori li aveva già esclusi per ovvie ragioni di non caricarli con ulteriori tensioni. Con l’avvocato forse è prematuro discuterne. Mauro è divorato dalla gelosia e dal rimorso per averla portata in poligono. Rimane una persona sola, che tra l’altro sa già quasi tutto. Tra il lusco e il brusco quindi, mette al corrente Perozzi della confessione estorta a Marco Baseri.

«Però! Ragazza mia, non ti facevo così ardita!»

«Non ho niente da perdere ormai, tanto vale sbucciarsi le ginocchia, come mi hai esortato a fare tu.»

«Ben detto! Ne hai già parlato a Petraz?»

«Ancora no, rimarrà sicuramente contrariato dalla mia condotta, essendo una sua assistita.»

«Mpfff, forse sì. Valuteremo se metterlo al corrente. Comunque a questo punto è evidente come dietro le foto inviate agli inquirenti e dietro a quell’articolo su di te ci sia la stessa mano. Se, come sostieni, sei capitata per caso nella villa dei De Dietrich, c’è qualcuno che vuole coprirsi approfittando della fortunosa coincidenza. Tu hai visto andar via una persona sola, in macchina. Per logica, alla luce dei nuovi risvolti, lì vicino c’era un complice che sorvegliava la strada, pronto ad avvisare l’altro o a corrergli in soccorso. L’assassino, o chi per lui, ti sta tenendo d’occhio.»

Istintivamente sia Perozzi che Rebecca sbirciano negli specchietti retrovisori ma nessuna auto li sta seguendo. «La faccenda inizia a farsi seria, più di quanto

immaginavo. Stai vigile e non andare più da sola in posti isolàti.»

«Sì mamma!»

«Non scherzare, inizio a temere per te. Ora siamo arrivati. Ci vediamo lunedì.»

«Va bene, a lunedì, Mario.»

«Ciao, e guai a te se vai in giro da sola!»

20

Domenica, ore 18. La chiesa di Manzano trabocca di fedeli convenuti per la secolare tradizione devozionale in onore della Madonna della Cintura. La statua della Vergine troneggia su un fiorito baldacchino in centro alla navata, pronta per essere portata a spalla attraverso le vie del paese dai coscritti. Durante la prolusione del sacerdote, Rebecca osserva la Madonna con la cintura in mano, la cintura con cui è apparsa a Santa Monica. Idealmente Rebecca vi si vorrebbe aggrappare per uscire dal pantàno in cui sta sprofondando e da cui il pragmatismo di Perozzi pretende di farla uscire in maniera molto “creativa”. La riassalgono i dubbi sul senso della religione, della preghiera, di Dio e della Chiesa. Cercare di salvare dalla bancarotta la propria famiglia mentendo a Mauro e ai genitori, rubando fedi nuziali e concedendosi a sconosciuti provando piacere è peccato? Menare le mani per individuare il mandante delle delazioni nei propri confronti è peccato? Dov’è e qual è il limite? Può stabilirlo un essere umano, un sacerdote, sulla base di interpretazioni di leggi enunciate o scritte da altri oltre duemila anni fa?

Per educazione sono cattolica e, immaginando di voler rimanere nei dettami della Chiesa, perché non potrei forse venir giustificata, magari con qualche dogma ad hoc, dal momento che viene giustificata perfino Maria, rimasta “miracolosamente” incinta a quattordici anni mediante l’opera dello Spirito Santo e non del suo promesso sposo Giuseppe? Forse i sospetti di omicidio che pendono sulla mia testa sono la punizione divina all’aver intrapreso una strada non convenzionale per raccattare i soldi? Ma non c’è l’inferno per espiare le colpe? Può Dio essere così crudele da farmi espiare i peccati già dalla vita terrena? Mio padre si è sempre comportato bene e ora si ritrova in difficoltà. Ha dunque un senso comportarsi bene? C’è da dire che in realtà sono andata con le mie gambe nella villa. Sta di fatto che tutte queste fisime alimentano la mia proverbiale insicurezza, se non ne sono addirittura la causa.

Rebecca, nel suo dramma esistenziale, si abbandona a interrogarsi se

considerazioni simili coinvolgano anche le ragazze di città o se siano prerogativa di una ragazza di provincia, nata e cresciuta in un anonimo paesotto di seimila abitanti impregnato di princìpi morali e apparenze.

Il coro dei ragazzi, accompagnato dall’organo Zanin suonato da Rebecca, canta benissimo. Il sacerdote, prima di dare inizio al corteo per le strade del paese, ricorda una terzina tratta dal Paradiso della Divina Commedia. «Donna, se' tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disianza vuol volar sanz'ali. Colui che desidera una grazia e non ricorre alla Madonna è come un uccello che si illude di poter volare senza le ali».

La Vergine esce preceduta dalle croci, dai candelabri, dalla banda e dai gonfaloni, inseguita dal sacerdote avvolto nella càsula bianca e circondato dai fedeli. Rebecca si mescola a loro e mette in pratica la rassicurante terzina dantesca citata dal prete. Dopotutto, pregare la Madonna, male non fa. Mentre è raccolta nelle sue intenzioni, qualche mezza parola sussurrata a voce troppo alta le fa ipotizzare che la gente stia sparlando di lei, si sente tutti gli occhi addosso, compresi quelli dell’assassino. Accidenti! Sto diventando paranoica!

21

Lunedì, ore 9:15. La dottoressa Brondani convoca Perozzi nel suo ufficio, informandolo che si è appena congedata da un cliente della Walser residente a Manzano. «Esaurito l’incontro di lavoro, si è accennato a quel brutto omicidio avvenuto nel suo paese. Sai cosa mi ha detto, caro Mario?»

«Brutta storia quella, ho letto qualcosa ma non ho idea di cosa possa averti detto.»

«Gli inquirenti sospettano di una certa Rebecca Carinci. Il cliente ha detto testualmente “sul giornale ci sono solo le iniziali ma a Manzano sanno tutti che è lei”.» Perozzi tace e la Brondani lo incalza, «tu ne sai qualcosa?»

Perozzi sospira prima di rispondere, «è indagata ma è innocente, è palese si tratti di un errore. Te la vedi quella ragazzina ad ammazzare cristiani? Dài, Evelina, sai come sono fatti i giornali, no? E sai quanto emotive siano le reazioni della gente. Mica possiamo castigare la ragazza per un articolo fondato sul nulla. E poi, quanti clienti abbiamo a Manzano? Non so se arriviamo a una decina. E quanti di questi sanno che la dottoressa Carinci è in prova da noi?»

«Appunto perché la gente è emotiva dobbiamo difendere il buon nome della banca! Ci manca solo che assumiamo dei maniaci omicidi! Vedi di farla sparire prima possibile!»

Al Metropole, durante il pranzo, Perozzi mette al corrente Rebecca dell’incontro avuto con la vicedirettrice.

«Ma porca miseria! Ma chi si crede di essere quella per condannarmi? Mica è un giudice!»

«Calmati Rebecca, lascia stare quel che dice Herr Führer e analizziamo la situazione, razionalmente. Il conservare il posto alla Walser Privatbank è secondario in questo momento, credimi. Ora tu hai due obiettivi primari: devi aiutare i tuoi e devi scagionare te stessa.» Rebecca tormenta nervosamente le posate mantenendo lo sguardo sul tavolo. Perozzi continua, «per essere chiari: non ce la farai, economicamente parlando, a saldare i debiti dell’azienda di papà. Ormai la Walser ti sta scaricando, quando la Brondani parla a quel modo è questione di giorni, la conosco fin troppo bene. So quanto tieni a questo lavoro e alla possibilità di riscatto che ti avrebbe offerto, capisco il tuo stato d’animo anche se non lo credi. Sono consapevole di averti usata come un giocattolino, mi sono divertito e anche se posso apparire un cinico ricattatore, comprendo benissimo quanto hai sofferto e quanto tu sia stata combattuta sull’intraprendere certe condotte, soprattutto all’inizio. Però io sono un galantuomo, riconosco che il piacere che mi hai dato è superiore al dispiacere che io ho dato a te, quindi in qualche modo sono in debito e anche se la banca ti abbandona, io voglio continuare ad aiutarti.»

«Timeo Danaos et dona ferentes. Come i Troiani, diffido dei Greci e dei doni che portano. Dov’è la fregatura? Mi vuoi aiutare con i tuoi soliti sistemi?»

«Vedremo, ma in fondo che c’è di male a riconoscere che mi sono affezionato e che vorrei divertirmi ancora con te?»

Rebecca, col dorso di un coltello, allinea le briciole sulla tovaglia mentre Perozzi prosegue. «Questa mattina ho parlato con Lanzafame. Mi ha detto che quanto da lui elaborato per il rientro del vostro debito viene continuamente boicottato. Era poco propenso a fornirmi dettagli ma mi ha fatto intendere che sulla vostra

pratica c’è una sorta di procedura anomala. In casi come il vostro, con finanziamenti garantiti da immobili, solitamente la banca cerca di riprendersi i soldi anziché l’immobile, visto che di immobili ne ha già fin troppi sul groppone. In prima istanza quindi, con i clienti collaborativi come tuo padre, si tende a mettere a punto un piano di rientro come quello che Lanzafame ha promosso con i miei suggerimenti. Invece qui pare ci sia un accanimento illogico, sembra che vogliano proprio portare all’asta le serre e la casa per poi vendere a costo di rimetterci. Non per affliggerti ulteriormente ma solo per darti l’informazione completa, sembra anche che abbiano già una data per la prima asta, fra meno di sei mesi.»

«Venerdì quelli della banca di mio padre lo hanno convocato. La direttrice dava a vedere di essere allarmata per il possibile calo di clienti nelle serre a causa delle indagini su di me. Forse le cose sono collegate.»

«Quella direttrice l’ho conosciuta tramite Lanzafame. Di lei non credo a una sola parola. Con i tuoi guai giudiziari hanno semplicemente trovato un pretesto per lo sprint finale, la strada era già tracciata da tempo. C’è un’evidente e precisa volontà di distruggere l’attività di tuo padre, ma i motivi ci sono ignoti. Ora però, visto che Lanzafame non può aiutarci più di così, non abbiamo più potere sulla banca di tuo padre. Ci rimane il piano di riserva: cercare in tutti i modi di scoraggiare i potenziali acquirenti facendo andare deserti i primi esperimenti d’asta in attesa di un ribasso abbordabile, nel frattempo devi raggranellare i soldi per ricomprare.»

«Un piano sopraffino, complimenti per l’ingegno.»

«Un piano realistico. Ormai la banca di tuo padre non accetta rimodulazioni del debito, potete solo comprare dal secondo ribasso in poi oppure rientrare completamente prima che i beni vengano aggiudicati da terzi in modo da sospendere l’esecuzione. Io propendo per quest’ultima soluzione, anche se è quella che richiede maggiore tempestività.»

«Scherzi! E dove li troviamo tutti quei soldi? Saranno più o meno centocinquantamila Euro. Tanto vale impiccarsi o scappare in Guatemala.»

«E che ci vai a fare in Guatemala, un chiringuito sul Pacifico a vendere horchata de chufa in bikini? Restiamo coi piedi per terra, per carità. Di soldi è pieno il mondo, basta andare a prenderli.»

«Come no, guarda come sono smaniosa di trasformarmi in rapinatrice, tanto sono già una mezza delinquente.»

«Non sei per niente collaborativa. Ci sono metodi meno predatori.»

«Lo immagino, tipo battere sui viali.»

«Ora sei molto collaborativa.»

«Smettila! Non se ne parla nemmeno!»

«Dai retta a me, sei bella, hai il fisico e ci sai fare. Sei una top, mica devi svenderti sui viali a rischiare malattie e coltellate. Io ti posso procurare clienti di un certo tipo, rispettabili professionisti, notabili, dirigenti, imprenditori, politici di ogni colore, tutta gente facoltosa e soprattutto discreta dato che hanno famiglia. Te li giri e te li rivolti come calzini. Tre o quattrocento Euro alla volta più i regalini e in un mese porti a casa ventimila Euro senza troppi arrossamenti. Stai poco a fare i conti.»

«Nei ventimila è già compresa la provvigione per te?»

«Rebecca, ora mi stai insultando! Non ho certo bisogno di lucrare su queste elemosine e di certo non cambio lavoro mettendomi a fare il ruffiano!»

Rebecca è sempre più imbestialita dall’idea sbrigativa di diventare dall’oggi al domani una prostituta, seppur d’alto bordo, con la leggerezza con cui si beve un bicchiere d’acqua. «Ma se sei tanto splendido allora, metti tu i soldi per ripianare il debito dei miei!» Perozzi continua a spandere calma e paciosità. «No, per due motivi. Uno perché non sono una banca né tantomeno un ente di beneficenza e due perché voglio insegnarti a pescare. Non è onesto quello che ti regala la trota già ammazzàta: domani egli potrebbe sparire e tu moriresti di fame. A casa avete bisogno di tanto pesce e in fretta, io ti sto già facendo un grosso favore regalandoti la canna e la gita al torrente. Non pensarci su, andiamo a pescare. Logicamente i clienti li procuriamo fuori zona, gente che non ti conosca.» Rebecca boccheggia incapace di ribattere. A questo punto Perozzi ritiene superato il problema così, come gli è consueto, tira dritto come un rullo compressore sugli argomenti successivi, «e per quanto riguarda i sospetti su di te, ormai siamo sicuri che qualcuno ti voglia incastrare. Dobbiamo iniziare a svolgere delle indagini con metodo e io ti aiuterò.»

«Non possiamo andare direttamente dal procuratore e spiegarglielo?»

«Devi fornire prove. Come dice Petraz, loro non hanno niente in mano e intanto scaricano il barile su di te. Noi in egual misura non abbiamo niente in mano però dobbiamo trovare il modo di uscire dal fuoco nemico.»

«Qui ti sbagli, Mario, abbiamo la confessione del giornalista, l’ho registrata.»

«Estorta con calci e pugni. Come glielo spieghi senza farti arrestare?»

22

Martedì. In seguito ad una fuga di notizie, il Messaggero Veneto riporta in prima pagina che il cadavere di una delle proprie firme di punta, il giornalista Marco Baseri, è stato ritrovato nella notte del venerdì precedente da un taxista chiamato a prelevarlo nella zona industriale udinese. L’articolo recita “Il giornalista era attualmente impegnato nel documentare l’omicidio della signora Lorraine de Dietrich, uccisa da due colpi d’arma da fuoco dieci giorni or sono all’interno della lussuosa villa che condivideva col marito. Nel delitto De Dietrich la principale indiziata rimane una ragazza del luogo, Rebecca Carinci di ventiquattro anni.”

La morte sospetta del giornalista, unita alla tragica vicenda di Manzano che stava documentando, sta ormai suscitando scalpore su tutti i media del Friuli e delle regioni contermini. Il nome di Rebecca viene riportato per esteso a livello nazionale, insieme ad una sua foto. Alla Walser Privatbank tutti la trafiggono mentre percorre i corridoi.

Da un articolo, Rebecca apprende che “il giornalista pare essere stato vittima di un violento pestaggio con apparente scopo di rapina, visto che il portafogli non è stato rinvenuto. Tuttavia il luogo insolito del ritrovamento del corpo unito all’inspiegabile chiamata al radiotaxi, inducono gli inquirenti a ritenere che la rapina sia un depistaggio. A tal proposito è stato disposto l’esame autoptico del cadavere dal cui risultato si evince che Marco Baseri non è deceduto in seguito al violento pestaggio ma per collasso cardiaco, dovuto ad una miscela letale di alcol e benzodiazepine, sostanze contenute in farmaci come Valium o Diazepam.”

Rebecca, scorrendo le righe, per un attimo aveva temuto di essere stata troppo violenta o che il decesso fosse stato provocato del farmaco scaduto che gli aveva

somministrato, appreso invece che il collasso è stato causato dalla miscela con l’alcol si mette l’anima in pace. Tutto sommato, tecnicamente non è stata lei ad ucciderlo.

Probabilmente, per darsi coraggio, l’impavido cuor di leone aveva da qualche parte un goccetto di cordiale con cui si era tirato un po’ sù. Mio Dio che sfigato! Dovevo aspettarmelo da uno che guida una Classe A, un’auto da donna.

A metà mattina, Rebecca si guadagna un nuovo e urgente interrogatorio dal P.M.: il motivo è la morte in circostanze sospette del giornalista.

«La receptionist del Messaggero Veneto sostiene di aver parlato con lei e, a seguito delle sue insistenze, di averle fornito il numero del giornalista.» Rebecca, debitamente istruita da Petraz, conferma. «Certo signor Pubblico Ministero, quella sera andai al giornale, volevo delle spiegazioni, lo avrebbe fatto anche lei al mio posto, non le pare? Ahimè però il mio tentativo fu vano in quanto mi imbattei in una signorina intransigente che asseriva di non essere assolutamente autorizzata a mettermi in contatto con il malcapitato giornalista. Come vede, è impossibile che ci fosse stato un contatto tra me e il Baseri.» Petraz tiene il bordone, «la mia cliente ha trascorso la rimanente parte della serata nel mio studio, poi presso il suo domicilio, poi in chiesa, e poi è ritornata in studio da me. Non abbiamo nulla in contrario ad un controllo dei tabulati telefonici per confermare che neppure il Baseri si sia messo in contatto con la mia cliente.»

Il P.M. ribadisce che la receptionist giura di aver fornito a Rebecca il numero del giornalista. Petraz, con piglio deciso, afferma «è la sua parola contro quella della mia cliente, che come le ho detto ha un alibi ato da testimoni per tutte le ore antecedenti il ritrovamento di quel povero giornalista.» La cosa muore lì.

Rebecca non fa ritorno in ufficio. Vuole vedere Mauro, parlarci, recuperarlo, così

pranza con lui. Gli racconta il suo sabato pomeriggio, del suo capo che voleva assolutamente distrarla con un concerto a cui non ha potuto dire di no. «Suonavano con due Fazioli Gran Coda, era un’occasione imperdibile, cerca di capirmi.» Rebecca si limita a parlare del concerto e, con un grande sforzo, tace tutti i successivi risvolti di quella serata. Parlano di nuovo della sua posizione di indagata e lei si premura di rassicurare Mauro, sollevandolo dai sensi di colpa per averla portata a sparare. «Tanto hanno comunque la foto che mi immortala mentre mi allontano dalla villa, anche se non è molto chiara.»

Mauro la ringrazia e parla poi di Baseri. «Hanno trovato anche quel giornalista, quello che ti ha sbattuta sul giornale, pestato a sangue e con il setto nasale rotto, secondo me ha ficcato il naso dove non doveva. Chissà, forse lui sapeva qualcosa.»

«Può darsi. Comunque c’è troppa gentaglia in giro e bisogna stare attenti.» A Rebecca arriva un nuovo messaggio di Stefania, l’ex compagna delle superiori, le chiede ancora conferma se quella sul giornale sia proprio lei. Rebecca la odia con tutto il cuore. A Mauro tace per il momento la concreta possibilità di perdere il lavoro, le proposte indecenti di Perozzi e anche le difficoltà economiche dei suoi.

Dopo pranzo Rebecca ritorna alla Walser Privatbank. Perozzi non si fa trovare, la Brondani la convoca nel suo ufficio. Sulla scrivania sono teatralmente sparpagliati alcuni quotidiani, tutti aperti alle pagine con la foto Rebecca. Lei vorrebbe diventare trasparente. Senza mezzi termini la Brondani le propone di proseguire lo stage in una sperduta filiale di Altopascio, però senza rimborsi nè retribuzioni. In alternativa può firmare le dimissioni e qualsiasi pretesa o rivalsa verso la banca. Non le danno nemmeno un Euro. Rebecca non batte ciglio e firma le dimissioni. Con estrema calma si alza, porge la mano in segno di saluto aldilà della scrivania che la separa dalla Brondani ancora seduta. Le mani si incontrano e Rebecca gliela stritola fino a farla urlare impedendole di alzarsi. Quando l’urlo è sufficientemente alto da poter attirare le preoccupazioni dei colleghi nelle altre stanze, molla la presa e la manda a farsi benedire. Sull’uscio

cerca un ombrello per emulare suo padre ma non lo trova. Esce dall’edificio e telefona a Perozzi, rimasto ad aggirarsi nei paraggi in attesa che la tempesta fe il suo corso. Si incontrano in un caffè. Perozzi si scusa per l’assenza tattica. «Piccola, non sarei riuscito a reggere lo strazio della scena, cerca di capirmi.» Rebecca risponde ridendo istericamente «io non so nemmeno dove stia questo Altopascio!»

«Vicino Lucca, credo. Ora stammi bene a sentire. Con le tue foto in giro anche fuori regione, ormai l’aria è troppo pesante per fare quello che avevamo deciso per te.»

Rebecca è contrariata. «Ma io non avevo ancora preso nessuna decisione in merito, che sarebbe comunque stata negativa.»

«Rebecca! Cresci, per l’amor di Dio. Dobbiamo essere pratici e machiavellici. Non si negoziano le decisioni già assodate. Dobbiamo solo farlo in un altro posto. Devi cambiare aria, anche perché là fuori l’assassino ti sta tenendo d’occhio, me lo sento, visto che gli hai pure eliminato il giornalista.»

«L’ha ucciso l’alcol che si era bevuto, non io! E comunque mica l’assassino saprà anche che sono stata io a pestarlo, no?»

«Forse, sta di fatto però che l’aria è malsana. Tornando a noi, mentre ero in pausa ho pensato all’alternativa. Ti faccio andare in Croazia, sull’isola di Hvar, due piccioni con una fava: ti metti al sicuro da possibili ritorsioni e nel frattempo puoi lavorare molto. A Hvar c’è sempre un gran giro di signorotti facoltosi che dopo cena si tuffano nelle discoteche e nei disco bar in cerca di fauna femminile con cui accompagnarsi poi sugli yatch o in hotel. Faranno la fila per te.»

Rebecca si rabbuia dubbiosa. «Ammettiamo che mi decida, verresti anche tu?» chiede con il tono di chi ricerca protezione.

«E’ fuori discussione, non posso assentarmi dal lavoro. Inoltre, se venissi con te, chi andrebbe avanti con le indagini? Ti servo qui, non laggiù. Non preoccuparti, la scelta di Hvar non è casuale. Conosco un tale, un tedesco stabilitosi là da anni, gira film a luci rosse destinati al mercato estero e si occupa di un’agenzia di ragazze più altri traffici con spettacolini tramite webcam.» Rebecca sta esaminando i fondi del caffè nella sua tazzina. Perozzi, sorridendo, aggiunge «e non dirmi che ti ho sistemata male: puoi fare l’attrice di giorno e l’accompagnatrice per i ricconi la notte.» Rebecca è titubante, nicchia, l’essersi spinta fin lì è già oltre la sua soglia di tolleranza, ora la proposta di Perozzi è decisamente fuori dalla sua portata. La testolina di Rebecca frulla invano in cerca di altri stratagemmi per recuperare il denaro.

Perozzi sdrammatizza, «se proprio non te la senti di andare a letto con ciccioni pieni di denaro, puoi iniziare girando scene di porno-soft. La telecamera non inquadra l’amplesso, che in realtà non avviene, niente primi piani sulle parti intime, niente piani americani, solo sapienti inquadrature che ingannano lo spettatore. Al limite, giusto per far capire che si è concluso il rapporto, spargono qualche goccia di latte condensato sui sessi o sulle labbra della ragazza. Queste cose vanno ancora molto nei mercati orientali. Oppure te ne stai mezza svestita dietro una webcam a convincere qualche allupato a comprare con carta di credito uno spettacolino privato che farai sempre dietro alla webcam. Se permetti però, questo sì che è degradante, diamine!» Rebecca, d’accordo con Perozzi, prende tempo per decidere.

Il pomeriggio è ancora lungo. Rebecca si reca a Montecastello, ci va per meditare e pregare, come la portavano da piccola i suoi genitori quando avevano qualche grave assillo e andavano a chiedere aiuto alla Madonna Nera. Si fa risucchiare dalle silenziose quinte dello ieratico borgo su su fino al santuario e poi dentro, inginocchiata al cospetto della Vergine. Invoca coraggio e ispirazione per prendere una decisione. Tanti pensieri e dubbi si accavallano: lasciare

supinamente che gli eventi facciano il loro corso, smettere di tentare di aiutare i genitori abbandonandoli alle loro uniche forze, cercare un altro lavoro anelando ad una miracolosa ottima retribuzione, vincere il superlotto, scappare da tutto e da tutti ricominciando da zero, partire o meno per la Croazia. Un frate esce da una porta sparendo in un'altra. Dal soffitto pendono numerosi piccoli lampadari d’ottone e d’argento, altri lampadari circolari in ferro battuto e vetrini colorati. Tante candeline sugli altari. Un altro frate, stufo di aspettare invano qualche reo confesso nel confessionale, si eclissa oltre l’ambulacro. La mente di Rebecca è più confusa di quando era arrivata. Le ginocchia iniziano a dolere così si rialza e, per sgranchirsi le gambe, si fa inghiottire dalla cripta.

Scendendo le scale che conducono nel sotterraneo, i marmi alle pareti svaniscono nascosti da un infinito e scomposto mosaico di ex-voto, stampelle, protesi di ogni tipo, quadretti e fotografie raffiguranti ogni genere di disgrazia rimasta incompleta per opera della Vergine o del fato: auto rimaste in bilico su precipizi, trattori ribaltati da cui fuoriescono contadini illesi, bambini strappati alle pestilenze e alle malattie più rare, bestiame ignifugo sopravvissuto al fuoco della Geenna. Giunta nella cripta, una robusta inferriata le impedisce di avvicinarsi ad una triste bambinetta che sorregge immobile un piatto di spiccioli. Rebecca protende il braccio oltre la barriera centrando il piatto con il caritatevole lancio di una moneta. Al conseguente sordo tintinnio, la piccola questuante rimane indifferente nelle sue lignee spoglie. Questi frati sono proprio malfidati, ferri da un pollice e un quarto per proteggere un misero vassoio di spiccioli. Intanto sull’altare alle spalle della bambinetta, l’arcangelo Michele trionfa su Satana calpestandolo nelle fiamme infernali. L’arcangelo Michele, per quella missione così importante, si è messo il meglio che aveva: la veste bianca con gli orli dorati, il busto protettivo d’argento intarsiato d’oro, la corona e i calzari dorati e un gran paio d’ali anch’esse dorate. In mano brandisce la spada infuocata e la bilancia che pesa le azioni dell’uomo mediandole con la Giustizia Divina. Il diavolo, cornuto e con le ali da pipistrello, non può far altro che soccombere, impregnato com’è in uno squalificante mordente nero ormai sbiadito e tendente al marrone. Una scritta leziosamente dipinta sullo sfondo illustra al fedele il significato di quell’allegoria: “La spada infuocata e la Giustizia Divina sottomettono tutti i dèmoni”.

Una stella cometa attraversa il cervello di Rebecca, la scritta le ricorda le parole sussurrate a fatica dalla signora De Dietrich poco prima di morire. Ecco a cosa si riferiva! Diamine, ma se in punto di morte ha ritenuto fondamentale dirmi queste parole, o rappresentano il collegamento con l’assassino oppure stava delirando. Oppure entrambe le cose.

Rebecca si convince a questo punto che qualcuno o qualcosa a Montecastello possa darle un indizio sulla morte della signora Lorraine, aiutandola forse a scagionarsi. Chissà che le statue non custodiscano un indizio? Dovrei avvicinarmi. Prima di importunare qualche frate, prova a scuotere inutilmente la porta ricavata nell’inferriata, augurandosi che se la siano dimenticata aperta. Constatato che i custodi sono stati avveduti, risale nel santuario e intercetta il frate che era uscito dal confessionale pochi minuti prima, indirizzato nel frattempo a riprendere il posto di lavoro. «Mi scusi, vorrei parlare con…»

«Prego, prego,» la esorta con fare spiccio il frate, indicandole l’inginocchiatoio del confessionale in cui sta entrando.

«No frate, mi scusi ma non ho intenzione di confessarmi ora. Vorrei potermi avvicinare alle statue, giù di sotto.»

«Mi dispiace signorina, ma ai fedeli non è consentito.»

«Senta, faccia un’eccezione, chiami il superiore, io sono in una situazione… grave, ecco, quasi di vita o di morte.»

«E’ sicura di sentirsi bene?»

«Io? Certamente! Insomma, vorrei poter vedere le statue da vicino, è molto importante per me. Mi aiuti, la prego! Sono disperata, ha a che fare con un…con un omicidio.»

«Ma di cosa sta parlando?»

«Non so se posso dirglielo…che cavolo, ops mi scusi. Va bene, glielo dico: sono sospettata di aver commesso un delitto,» il frate arcua le sopracciglia e Rebecca prosegue «ma sono innocente, assolutamente innocente. Sto cercando qualcosa che mi possa scagionare e forse lo posso trovare nella cripta.» Le sopracciglia del frate disegnano ormai due angoli acuti ma Rebecca, incurante, va avanti, «vede, la signora, ehm… la vittima, mentre stava per morire ha pronunciato la stessa frase che campeggia sull’altare dell’arcangelo Michele, per cui ho pensato che lì potrei trovare qualcosa.» Il frate tace fissandola sbigottito. «Perché mi guarda così, le garantisco che non sono pazza. Se vuole una prova che non sto mentendo legga i giornali di oggi e troverà articoli su articoli con la mia foto come sospettata dell’omicidio di Lorraine de Dietrich.» All’udire quelle ultime parole, dal volto del frate svanisce lo sbigottimento lasciando il posto all’espressione della sfinge egizia: immobile, impenetrabile, indecifrabile. Rebecca è quasi spaventata, fortunatamente lui riprende a parlare «mi ha già fatto perdere troppo tempo, i miei confratelli sono in meditazione e li devo raggiungere.» Poi sparisce dietro una porta.

Rebecca viene via. Si rende conto che forse è stata presa per una svitata autentica, oppure il frate si è spaventato credendola una vera omicida, ma qualcosa nella sua ultima reazione non la convince.

Arrivata a casa non ha voglia di andare a correre, tantomeno di esercitarsi nella palestra in taverna. Si butta sul letto con l’iPod. L’ordine casuale manda in esecuzione una canzone di un D.J. tedesco dal titolo “Techno, Tits und

Trumpetten” che in italiano suona più o meno così: “techno tette e trombette”. Dopo venti secondi le viene da vomitare, così dirotta sul classico: la sonata a Kreutzer di Beethoven. In meno di dieci minuti Rebecca ritrova dentro di sé una pace apparente, necessaria per riuscire a cenare con i suoi genitori e per allentare le morse che avevano ridotto il suo stomaco alle dimensioni di un tortellino vuoto.

23

Mercoledì. Rebecca finge di recarsi al lavoro, non ha ancora messo al corrente Giordano e Luisa delle dimissioni forzate. Vaga per Udine. Le sembra di ritornare studentessa quando, senza il permesso dei genitori, disertava gli ultimi due giorni di scuola per andare con i suoi compagni a tirarsi gavettoni d’acqua sul prato antistante il Palazzo della Contadinanza, sul colle del castello.

Vorrebbe poter parlare con qualcuno, vorrebbe poter chiedere consiglio a Mauro. Peccato però che si stavano o forse si stanno ancòra innamorando l’uno dell’altra. Con che coraggio potrei chiedergli cosa ne pensa di una mia possibile carriera nei film a luci rosse?

Mentre brancola nei bar arraffando caffè e pasticcini, si rifugia in una storia di Mazzoni per risollevarsi il morale.

Tempo addietro Mazzoni aveva riscontrato un qual certo imprecisato disturbo. Il medico gli prescrisse un antibiotico che, a dire di Mazzoni, il suo fisico non tollerò. Bene, Mazzoni ha sempre raccontato che da allora il suo fisico si è intossicato ir-re-ver-si-bil-men-te mandando alle stelle i valori di qualcosa nel sangue. Essendo una storia di Mazzoni, doveva obbligatoriamente presentare qualche iperbole, di conseguenza con quei valori sballati rischiava di morire e non c’era nessuna cura disponibile, neppure nelle Americhe. L’unico rimedio che avrebbe potuto tenere bassi quei valori nel sangue era praticare sport aerobico a livelli estremi. Per questo, Mazzoni aveva preso ad allenarsi ogni giorno, festivi compresi, per partecipare poi a maratone, gare di triathlon e gran fondo con la bici da corsa o con il rampichino. Tutte le sue storie erano incredibili ma nessuno aveva le prove per contraddirlo.

Sul telefonino lampeggia l’ennesimo messaggio di Stefania: visto che non rispondi immagino che sia proprio tu quella sul giornale. Ma sei in prigione? Puoi telefonare? Mi dispiace tanto! Ti abbraccio. Rebecca, dalla eggiata sotto i portici di via Mercatovecchio, le telefona. «Sono proprio io, brutta imbecille! E siccome sono ancora in libertà, potrei ammazzarti!» Click!

Rebecca rincasa per l’ora di pranzo e decide di vuotare il sacco, almeno parzialmente, con Luisa e Giordano. Racconta del nuovo interrogatorio dal P.M. e di come sia stata costretta a rassegnare le dimissioni senza percepire neppure un Euro. Racconta anche cosa le ha riferito Perozzi su Lanzafame e sulla banca di Giordano. I genitori si agitano e inveiscono disperati contro le banche. Rebecca, tacendo tutti i sòrdidi pregressi con Perozzi e Petraz, cerca di tranquillizzare i genitori prospettando loro la possibilità di racimolare in fretta del denaro grazie al suo trasferimento in Croazia proposto da Perozzi. Anche se Rebecca non si addentra troppo nei particolari di cosa dovrebbe combinare a Hvar, l’effetto della rivelazione è naturalmente opposto ai suoi propositi. Gli animi dei genitori si destabilizzano portandoli a sbraitare paonazzi finchè la voce di Giordano prende il sopravvento. «E’ la punizione divina per aver ceduto alle tentazioni di Satana!»

Rebecca lo interroga allarmata. «Cosa? Ma stai delirando per caso?» Luisa rivolge a terra gli occhi mentre Giordano prosegue «è giunto il momento che tu lo sappia, e perdonaci per avertelo taciuto. Pensavamo fosse giusto tenerti all’oscuro ma ora la situazione ci si ritorce contro ed è meglio che tu conosca questo fatto.»

«Papà! Non sto capendo niente!» Luisa, con un cenno preoccupato, invita Giordano a proseguire con la spiegazione. «Vedi Rebecca, alcuni anni fa, quando eri ancora a scuola, ho tradito Luisa. Anche se è successo una sola volta, ciò è bastato, come vedi, a scatenare questa vendetta divina che sinceramente mi aspettavo molto prima. Dio non mi ha ancòra perdonato del tutto.»

«Smettila di tirare in ballo i fantasmi! Mi hai già condizionata abbastanza con ’ste cose religiose! Me le sogno la notte e mi impediscono di prendere decisioni razionali! Piuttosto, fatemi capire meglio tutti e due, mi state dicendo che tu hai tradito la mamma e che lei ne è al corrente?»

Interviene Luisa, «sì, l’ho perdonato, che c’è di male, tuo padre ha sbagliato ma ha riconosciuto l’errore ed è subito corso da me.»

«E di grazia, chi sarebbe la rovinafamiglie?»

Risponde Giordano. «Non è colpa solo di quella donna, eravamo in due, sono onesto.»

«Va bene, ma di chi si tratta?»

Giordano scandisce lentamente un sussurro, «Lorraine de Dietrich.»

«COME? E dopo quello che mi è capitato non me lo avete detto subito? Me lo avete taciuto per tutto questo tempo facendomi credere di stare in una famiglia modello? Dopo che mi sto facendo letteralmente un culo così per tenere in piedi la baracca e per non impazzire in tutto questo casino!»

Luisa replica a Rebecca, «hai appena detto che ti hanno dato il benservito in banca, non ci stai certo aiutando. Inoltre ti hanno licenziata perché sei andata a ficcare il naso in quella dannata casa.»

«Oh mamma ti prego, com’è facile sparare sulla Croce Rossa. Comunque, dopo quello che avete combinato voi con la Lorraine, è inutile che vi scandalizziate tanto se vado a girare filmini all’estero! Ipocriti!» Il pandemonio di ingiurie e rimproveri non tarda ad esplodere tra madre e figlia.

Giordano, per placare l’ormai insopportabile clamore della perniciosa situazione, afferra un piatto dalla credenza e lo scaglia in terra spaccandolo in mille frantumi. Il maelström si ferma d’incanto.

Rebecca e Luisa, a bocca aperta, fissano attònite Giordano che, in preda ad uno dei suoi raptus vinosofico-religiosi enuncia «lo sentite? C’è odore di zolfo. Lui è qui, e noi ci siamo cascati. Satana, Satàn, il Divisore, ci sta facendo litigare, ci sta dividendo, ma noi non dobbiamo cedere alle sue tentazioni, dobbiamo essere scaltri e rimanere uniti per combatterlo insieme unendo le nostre forze.»

«E basta con ’sti fantasmi!» Rebecca si dilegua sbattendo la porta. Esce in cortile in cerca di ossigeno fresco per poi scappare correndo verso le colline.

Dopo un’ora e mezza si aggira nella serra principale del padre trangugiando mela grattugiata con lo zucchero. Ha capito perché Lorraine le aveva detto di sembrarle familiare. Ho gli occhi di mio padre.

Giordano, mentre prepara alcuni bancali di frutti di bosco da spedire in Germania, ritiene di dover spiegare meglio a Rebecca la questione del tradimento. Lorraine De Dietrich veniva spesso da lui a comprare fiori, il prodotto che vendeva allora Giordano prima di virare nel settore bioecologico con i frutti di bosco.

«La vedi laggiù?» Giordano sta indicando a Rebecca il fondo della serra dove è posizionata una piccola ancona votiva che alloggia una copia in miniatura della Vergine Nera di Montecastello. Accanto, su una sorta di altarino in sassi piatti e cemento, trova posto anche una copia in miniatura dell’arcangelo Michele che sconfigge il diavolo.

«Papà, smettila di tirare in ballo diavoli e Madonne, ti prego. Sai cos’ho sempre pensato di quei feticci e dell’effetto deletèrio che secondo me esercitano su certi clienti: ti perdi tutta la quota di mercato che va dagli atei ai comunisti. Quelle statuine hanno un senso solo nel santuario di Montecastello. Piuttosto, vai avanti col discorso!»

«Appunto, quei “feticci” c’entrano col discorso. Un giorno di diverso tempo fa la serra era deserta di clienti, c’era solo Lorraine tutta in ghingheri e firmata da capo a piedi come al suo solito. Non mi aveva mai dato confidenza, invece quel giorno, mentre osservava quella Madonna là, mi confessò di essere anche lei molto devota alla Vergine Nera di Montecastello. Parlammo un po’ e da quel momento instaurammo una certa intesa. Quando veniva a prendere fiori, se non c’era nessuno, si soffermava volentieri a chiacchierare, principalmente di religione, temi etici, apparizioni e miracoli. Mi chiese anche l’indirizzo dell’artigiano delle valli del Natisone a cui avevo commissionato quella copia della Vergine.» Rebecca, in un flash di memoria, si ricorda che scappando dalla proprietà dei De Dietrich il giorno dell’omicidio, per un breve istante venne colpita proprio dalla bizzarrìa di un ancòna con una Madonna nera posizionata in mezzo al parco.

«Dunque, si fece così realizzare una copia della Vergine, era molto contenta del risultato. Veniva spesso a trovarmi per ringraziarmi, era dolce, io ne ero attratto, entrammo sempre più in intimità finchè ci lasciammo andare.»

«Come due adolescenti, non ho parole.»

«Non biasimarmi oltre, per favore. Ho già chiesto e ottenuto il perdono di mia moglie. Solo così avrei potuto guardarla di nuovo negli occhi.»

«Volendo, avresti potuto tenerla all’oscuro. Hai rischiato molto con quel gesto, immagino.»

«Sì, ma Luisa è stata comprensiva e non saprò mai come ringraziarla per avermi concesso una seconda possibilità.»

«E Lorraine? Tornò alla carica?»

«No, anche lei si rese conto dell’errore, della debolezza che avevamo avuto. Tuttavia lei chiese perdono solo a Dio, non al marito. Temeva di confessargli il tradimento. Da quel che Lorraine mi riferì, lui è un tipo molto violento tra le mura domestiche. Sotto sotto, però, immagino che lei temesse di più la perdita dello sfarzo che quell’unione le procurava.»

Giordano prosegue indicando le statue accanto alla Vergine: l’arcangelo Michele che calpesta Satana, «sono l’esatta copia in miniatura di quelle esposte nella cripta di Montecastello.»

«Papà, lo so. E’ un bel pezzo che sono installate lì. E per di più ho rivisto gli originali proprio ieri, casomai me li fossi dimenticati.»

Giordano si avvicina alle statue. «Della Madonna ti ho detto, quello che non sai

è come questa copia del diavolo con l’arcangelo sia finita qui. Fu un regalo di Lorraine. Per esorcizzare possibili ricadute fra me e lei e per suggellare il pentimento e i buoni propositi, commissionò questa copia sempre alllo stesso artigiano che realizzò la copia della Vergine Nera. Così potevamo ricordarci che la preghiera e la fede ci avrebbero aiutati a sconfiggere le tentazioni di Satana. Infatti da quella volta non abbiamo più sconfinato.»

«Tu non con lei, lei non con te, ma chissà lei con altri?»

«Che dire, con me ha funzionato e Satana è stato sconfitto. Credo comunque che anche lei sia riuscita a mantenere una certa condotta, visto che si è fatta costruire una cappelletta privata sulla cima della loro collina dove ha collocato una seconda copia dell’arcangelo col diavolo.»

Rebecca si è avvicinata alle statue, «papà, lo sai vero che l’originale dell’arcangelo col diavolo presenta anche una scritta?»

«Certo, “la spada infuocata e la Giustizia Divina sottomettono tutti i dèmoni”. Avrei dovuto farla aggiungere da qualche parte ma non ne ho mai trovato l’occasione.»

«Stammi a sentire, è l’ultima frase che ha pronunciato Lorraine prima di morire. Secondo te, che voleva dire?»

Giordano, ripensando alla brutale esecuzione di quella donna che per poco è stata anche sua, si lascia inumidire gli occhi. Poi si ricompone e risponde, «non ne ho idea. Forse un surrogato improvvisato dell’estrema unzione, un tentativo di auto-assoluzione globale prima di are all’aldilà.»

«In quella frase c’è qualcosa, me lo sento.» Rebecca racconta a Giordano le sensazioni che le ha suscitato il frate di Montecastello.

«Cambiando discorso, hai veramente intenzione di andare in Croazia a fare quelle cose?»

«Ancora non lo so. Comunque non è così tragica, in teoria. Mario dice che potrei fare dei film dove i rapporti vengono solo simulati, oppure dovrei starmene dietro ad una webcam a mostrarmi. Ovviamente trucco e parrucco dovrebbero rendermi difficilmente riconoscibile.»

«Se sei arrivata al punto di essere indecisa sul da farsi significa che saresti anche intenzionata ad andarci. Non sono assolutamene d’accordo su questa eventualità. Certo, da un lato dimostri quanto tu sia disposta a sacrificarti per la nostra famiglia, nonostante i problemi economici non siano causa tua. Dall’altro però ti carichi di un fardello che come padre non posso accettare, assolutamente. Se dovessi deciderti a partire, ti dovrò legare ad una sedia.»

Rebecca replica con rassegnata decisione, «la tua azienda è l’unica fonte di sostentamento che abbiamo. Perderla sarebbe un problema, inoltre perdendo le serre perdiamo anche la casa visto che il pignoramento colpisce globalmente tutto il compendio. A quel punto cosa faremo? Non voglio finire in strada, né tantomeno ridurmi a are la vita chiedendo favori e carità a destra e a manca. Basterebbe fare un po' di nero e contestare qualche fornitore per incrementare i guadagni e rimanere a galla, ma sappiamo tutti che tu queste cose non le fai. Hai altre alternative per recuperare centocinquantamila Euro in pochi mesi?»

Rebecca è ancora tormentata sul da farsi. Per distrarsi telefona a Stefania, la

compagna delle superiori, scusandosi per quanto le aveva urlato al telefono quella stessa mattina. Si danno appuntamento in centro a Manzano, al Doctor Coffee & Mister Ice. Sono anni che non si vedono e Rebecca, con la scusa che le proprie sono storie tristi, invita Stefania ad iniziare per prima il suo racconto. Mi ricordo i suoi discorsi zeppi di espressioni da chick-lit tipo “gli uomini ano ma le belle scarpe restano”, oppure “noi dottori di noi stessi, psicofarmaci nel cestino e un buon bianco in frigo”. Vediamo se dopo qualche anno è cambiata.

Rebecca ascolta annoiata il resoconto sul percorso di studi e sulla vita dell’amica. Nel frattempo ingurgita venti pasticcini, due coppe gelato e un frappè.

Dopo mezz’ora di soporifero soliloquio, Rebecca si desta incuriosita solo quando Stefania le racconta di stare con un ragazzo con cui condivide una dieta vegana a base di bacche di Goji e acqua diamante. «Cosa diavolo sarebbe l’acqua diamante?»

«In pratica raccogliamo l’acqua piovana e la facciamo decantare per alcuni giorni prima di berla.»

Quando Stefania prosegue spiegandole che usano l’acqua diamante anche per meditare, versandola in dei bicchierini nei quattro angoli del salotto e che ogni anno vanno da un santone in India, Rebecca taglia corto alzandosi bruscamente per congedarsi laconica «le cose sul mio conto stanno proprio come le hai lette sul giornale. Grazie per la merenda. Addio!»

Rientra a casa ormai al far della sera e trova Giordano intento a discutere con un certo Alberto Milano, un agente immobiliare che sta tentando un’azione di acquisto a saldo e stralcio. «Ho già parlato con la banca, loro sono d’accordo. Praticamente io trovo un cliente che compri tutto prima dell’asta, il ricavato va

in parte al creditore, cioè la banca nel vostro caso, e una parte a voi. Pensi ai vantaggi signor Carinci: tutta la procedura è più veloce e a voi rimane pure qualcosina.»

Mentre Giordano accompagna a fatica l’agente immobiliare fuori dalla proprietà, la fantasia di Rebecca corre veloce: si immagina nel parlatorio della prigione dopo essere stata condannata per omicidio, oltre la vetrata i genitori vengono a portarle le arance e rimangono lì a bivaccare in eterno visto che essendo senza casa non sanno più dove trascorrere la notte.

Dopo cena si accorda con Perozzi per organizzare la trasferta a Hvar. «Mario, dobbiamo vederci ma non me la sento di guidare, verresti a prendermi?»

Perozzi la conduce nel centro storico di Cividale del Friuli, in borgo Brossana. Entrano in uno stabile in pietra a tre piani, con travi e balconi in legno. «Possiedo l’intera palazzina, è stata una rocambolesca quanto lucrosa operazione immobiliare scaturita da un'eredità giacente. Nell’attico ci vivo, i due appartamenti sottostanti li ho locati. Quello al primo piano in nero a dei finanzieri che lo usano a turno come pied-a-terre per portarci le amanti. Il secondo l’ho affittato a gente perbene, una coppia di ragazzi innamorati che si sposeranno a breve. Siccome li vedo bene assieme e rappresentano il paradigma della vita che avrei voluto costruire con la mia quasi moglie puttana, chiedo loro una pigione allineata a quella dell’A.T.E.R. Loro sono felicissimi di pagare un affitto da casa popolare per vivere in una reggia e mi ricambiano spesso con uova, ortaggi e qualche salume, omaggi dei rispettivi genitori contadini.»

Introdotta nell’alloggio di Perozzi, Rebecca viene accolta da un arioso salone con travatura a vista. I balconi danno sul fiume Natisone da una parte e sulle montagne, tra cui spiccano il Matajur e il Monte Nero, dall’altra. Nell’ingresso campeggia un grande capitello corinzio, spaccato lungo la diagonale, di circa un metro di diametro per altrettanto in altezza. «Questo è originale, proviene dalla Loggia del Lionello di Udine, purtroppo è rovinato a terra, insieme a tutti gli altri

capitelli, a seguito di un incendio sul finire dell’Ottocento,» illustra Perozzi.

Di fronte al capitello c’è un fregio lungo circa un metro e mezzo, sempre della stessa epoca e sempre proveniente dalla Loggia. E’ poggiato su due colonnine di pietra piasentina e sormontato da una mensola in vetro temprato che incornicia un Quadrato del Satòr in argento sbalzato. Proseguendo verso il salone openspace, su una parete brilla una copia a mosaico dello Studio con testa di gesso di Picasso. Perozzi precisa «le tessere sono originali Orsoni di Venezia, realmente smaltate d’oro, millecinquecento Euro al metro quadro solo di materiale.»

Rebecca, per non venire sopraffatta da tanta opulenza e buon gusto, tenta di darsi un tono ricercando qualcosa che strida in quell'ambiente deliziosamente perfetto. Fatica a trovarlo così ripiega banalmente sull’angolo pranzo-cottura fendendolo con un commento al ribasso. «Odio questa moda di fare le cucine con la penisola. Obbliga a mangiare tutti in linea, appollaiati sugli sgabelli alti, come dal kebabbaro. Quando poi te ne vai, ti viene l’istinto di are alla cassa a pagare.»

Perozzi sornione non raccoglie la provocazione, lasciandola cadere nel vuoto del silenzio esplorativo.

Sulla parete di fondo, Rebecca scorge appesa un’Annunciazione alternativa, moderna, sicuramente blasfema, se uno è sensibile al discorso religioso.

Perozzi percepisce la curiosità di Rebecca e la illumina, «è una rivisitazione dell’Annunciazione eseguita nel Quattrocento da Beato Angelico e collocata al primo piano del Convento di San Marco a Firenze, nel corridoio nord.»

Sotto ad un porticato affacciato sul giardino interno di una casa patrizia forse realmente esistita, l’arcangelo Gabriele è venuto a portare il suo lieto annuncio ad una donna dal seno prorompente vestita come una cubista, con una maglietta attillatissima rosa shocking e verde acido, shorts sgambatissimi e stivali neri con tacco alto. Lei, anziché starsene sul sobrio sgabello a tre gambe della versione originale, se ne sta in una posa sfrontatamente volgare, stravaccata su un trono in legno dorato e tappezzato con velluto verde. L’angelo le sta per dare l’annuncio che le cambierà la vita, consegnandola a Dio e alla Storia, mentre lei lo zittisce indaffarata a cicaleggiare al telefonino.

«L’ho comprato in una galleria a Pietrasanta. Immagino che l’autrice abbia voluto manifestare il suo pensiero riguardo a questa faccenda dell’Annunciazione e al conseguente dogma dell’Immacolata Concezione. La Madonna non concepisce per opera dello Spirito Santo, è piuttosto una sgualdrinella, una cubista del sabato sera che non si fa scrupoli a fare mossette per mostrarsi e concedersi per una botta e via al miglior offerente.»

Rebecca interviene nell’improvvisata quanto surreale recensione, «forse l’autrice voleva anche accusare il povero San Giuseppe di essere uno sfigato, per certi aspetti il principe degli sfigati, avendo dato credito alla storia più assurda che una donna possa raccontare al proprio uomo per giustificare un tradimento o una gravidanza concepita al di fuori della coppia.» Perozzi sèguita, «se così fosse, di riflesso vengono accusati di creduloneria tutti i Cristiani che riconoscono la verginità della Madonna.»

«Magari la pittrice voleva aprire gli occhi alla gente.»

«Non ne ho idea, ma mi sarebbe piaciuto conoscerla e andarci a prendere un gelato per discuterne. Inizialmente comunque, nella galleria ero stato colpito da tutt’altro: dalla tecnica di pittura, chiaroscuri marcatissimi e linee d’ombra

inesistenti che tolgono consistenza a soggetti senza più volumi. Con quei colori piatti favorisce la percezione fluorescente di sminuire e rivisitare l’orginale, togliendo la drammaticità al momento storico che viene rappresentato. Sembrava che l’autrice avesse dipinto un quadro copiando una litografia di una foto di David Lachapelle, entrando in un loop creativo infinito. Riuscivo a leggere “tutto questo” grazie al sole cocente che mi aveva pastorizzato nel cervello lo Sciacchetrà bevuto a pranzo. Approposito, mi è venuta sete. Prendi qualcosa dall’armadio degli spiriti.»

Rebecca squadra incerta Perozzi e lui la incalza, «dài, non fare quella faccia, non sono fantasmi ma spiriti veri, liquidi liquorosi, laggiù.» Rebecca si avvicina al mobile bar. «Uau, che scelta! Andiamo su qualche rhum?»

«Per me no, la sera preferisco un Calvados, lo digerisco meglio.» Mentre Rebecca armeggia con bottiglie e bicchierini, Perozzi scorre il massiccio mobile libreria. Tra un raro trattato di Jakob Steiner sul calcolo infinitesimale e un catalogo di Renato Guttuso, estrae un libro che sfoglia febbrilmente fino a trovare il capoverso desiderato. Poi attacca, «…“ma da dove credono che venga l’idea della Vergine? Le prime vergini che appaiono in Europa sono le vergini nere dei Celti,”» distogliendo gli occhi dal libro e posandoli su Rebecca aggiunge «e forse per questo la Madonna di Montecastello è nera, dal momento che avevamo i Celti qui a Cividale.»

Rebecca, indecisa se inaugurare una bottiglia intonsa di rhum dominicano dall’invitante etichetta, osserva «se è per questo, anche la Madonna di Loreto è nera e non mi risulta che i Celti si fossero spinti fin laggiù. Addirittura quella di Pescasseroli oltre ad essere nera ha pure tratti somatici sudamericani. Cosa stai leggendo?»

«“Il pendolo di Foucault”, ma lasciami andare avanti. Dunque qui dice, “San Bernardo da giovane stava in ginocchio, nella chiesa di Saint Vorles, davanti ad una vergine nera ed essa spremette dal seno tre gocce di latte che caddero sulla

labbra del futuro fondatore dei templari. Di lì i romanzi del graal, per creare una copertura alle crociate, e le crociate per ritrovare il graal. I Benedettini sono gli eredi dei Druidi, lo sanno tutti. Ma dove sono queste vergini nere? Fatte scomparire da chi voleva inquinare la tradizione nordica e trasformare la religiosità celtica nella religiosità mediterranea, inventando il mito di Maria di Nazareth. Oppure travestite, snaturate, come le tante madonne nere che ancora si espongono al fanatismo delle masse”, vedi per l’appunto il simulacro a Montecastello.»

Rebecca, sorseggiando un rhum giamaicano invecchiato dodici anni, si è stesa su una poltrona ad ascoltare quelle farneticazioni.

Perozzi prosegue con la citazione del libro che tiene tra le mani. «“Ma se si va a leggere bene le immagini delle cattedrali, come ha fatto il grande Fulcanelli – che per inciso non so chi diavolo sia – si vede che questa storia è stata raccontata a chiare lettere e a chiare lettere viene rappresentato il rapporto che lega le vergini celtiche alla tradizione alchemica di origine templare, che farà della vergine nera il simbolo della materia prima su cui lavorano i cercatori di quella pietra filosofale che, lo si è visto, altro non è che il graal. E ora riflettano da dove è giunta l’ispirazione a quell’altro grande iniziato dai Druidi, Maometto, per la pietra nera della Mecca.»

Rebecca, alzando la coppa del rhum per rimirarne i toni ambrati in controluce, lo interrompe. «E cosa vorreste dire, tu e il tuo Umberto Eco? Niente di cui meravigliarsi. E’ risaputo che le credenze e i miti sono stati reiterati e reinterpretati nella Storia in lungo e in largo, cambiano i nomi e le circostanze ma la sostanza è sempre quella. Anche Mosè lo spartiacque, ad esempio, è un mito copiato.»

Perozzi, tra l’accigliato e l’incuriosito, scruta Rebecca sorseggiando il suo Calvados, cedendole così la parola.

«In gita scolastica, in quinta superiore, ci portarono a visitare il Louvre di Parigi. Nella sala dedicata ai reperti siriani c’era una stele eretta in onore al dio Baal, databile fra il XV e il XIII secolo avanti Cristo. Se non mi sbaglio, l’avevano ritrovata nei pressi dell’attuale Ras Shamra, sulla cosiddetta collina del finocchio. Si narra che il dio Baal fosse in grado di esercitare il suo controllo sia sulla terra che sull’acqua. Ricordo che la guida ci spiegò, a grandi linee, come il mito di Baal abbia in seguito ispirato il mito di Jahvè che consegna a Mosè le tavole sul Sinai, permettendogli poi di aprire le acque per attraversarle.»

Perozzi chiude il libro, lo ripone e con fremente desiderio volge lo sguardo verso di lei. E’ in crisi di astinenza e prima di organizzare la trasferta a Hvar rivendica un po’ di attenzioni. Avvia un compact disk e dalle casse acustiche si diffonde la Semiramide di Rossini. Allunga a Rebecca una banconota da cento Euro da cui lei si sottrae, non volendo concedersi per l’ennesima volta. «Non rifiutarmi, non me lo merito. Vieni di là un po’ e poi ci mettiamo al lavoro.»

«E’ proprio necessario? Io non ho mai capito una cosa: visto che mi paghi e visto che ti puoi permettere qualsiasi cifra, perché non vai a sfogarti con qualcun’altra, magari anche migliore di me e soprattutto meno capricciosa?»

Perozzi vuota la coppa di Calvados, poi con l’aria di chi vuol impartire una lezione di vita, enuncia, «il sesso perde tutto il suo potere e la sua magia se diventa esplicito, automatico, scontato. E’ un madornale errore non mescolare il sesso con l’emozione, il desiderio, la voluttà, i capricci, le fantasie, i legami personali. Per me è fondamentale aver stabilito un rapporto con te, con tua madre, con tuo padre, pensare a loro che pensano alla loro brava figlioletta mentre tu mi frusti e mi porti al limite del piacere per aiutare loro.» Mentre Perozzi la porta in braccio verso la camera da letto, lei scalcia e si dimena inveendo «tu sei matto da legare!», finchè una potentissima sberla la scaglia a terra rendendola immediatamente mansueta. «Ho anche fatto mettere le lenzuola di percalle per accoglierti degnamente, ingrata!» Rebecca si ranicchia sul letto a baldacchino arricchito da intarsi di Sorrento. Mentre si massaggia la guancia

arroventata dalla sberla, scorge sul comò una bottiglietta azzurra a forma di busto di marinaio: “Le mâle”, di Jean-Paul Gaultier. Ecco perché Perozzi e la sua auto puzzano sempre di talco! Poi, volgendosi verso di lui, «va bene, hai vinto, ma è l’ultima volta!»

«Non dire così, porta male.» Perozzi le consegna la divisa dell’occasione. Calze autoreggenti, miniabito da infermiera, sandali con piattaforme altissime, scudisci e manette, niente che non abbia già visto, a parte un accessorio nuovo. «E questo cosa sarebbe?»

«A te cosa sembra?»

«Direi un fallo, ma perché sta attaccato a questa specie di imbragatura? Non dirmi che dovrei indossarlo.» Poi, brandendo quell’insolito arnese, commenta ridacchiando, «no, non può essere!».

«Rebecca! Mi hai stancato con la tua pruderie!»

«Stai diventando finocchio per caso?»

«Ti sbagli! Porca miseria, io voglio solo sentirmi vivo. Ho ato tutta la vita a sgomitare e a mettere i piedi in testa alla gente per raggiungere un dignitoso stipendio e assicurarmi un’altrettanto dignitosa vecchiaia. Per ristabilire il mio equilibrio interiore ho bisogno di essere sottomesso, maltrattato. Mi eccita. Diamine! Sentirmi sopraffare da una donna aumenta enormemente la mia estasi. Sono gli unici istanti in cui sento le cose veramente a posto, in cui sono in pace e armonia col mondo intero. La mente rimane sempre il più potente degli afrodisiaci, riesci a capirmi? E poi se ti chiedo di penetrarmi con un fallo, non

significa che sia improvvisamente diventato frocio. Se farmi prendere da dietro con quel coso fe di me un gay, allora quando due lesbiche giocano tra loro con un dildo di plastica le facciamo diventare di colpo eterosessuali. Ti pare sensato?» Perozzi siede ai bordi del letto continuando a motivare le sue perversioni. «Con questo affare addosso è come se tu mi scoi il cervello, oltre ovviamente a stimolarmi tutta quella parte lì dietro che è ricchissima di terminazioni nervose. Anche se per una volta sola, l’hai provato anche tu e probabilmente anche a te l’idea di essere in balìa di qualcuno ti mandava alle stelle. Non puoi mentirmi, si vedeva! Se n’era accorto pure Petraz.» Rebecca tace e Perozzi prosegue. «Si chiama pegging, come sempre inventano tutto in America e poi ci colonizzano. La differenza tra te e me, però, è che nel mio caso questo affare raggiunge la prostata regalandomi delle sensazioni eccezionali che tu non potrai mai provare.»

«Perché non vai con un uomo allora, usarne uno vero sarebbe ancora meglio, no?»

«Mi ripugna solo l’idea. Brrr!»

«E con un viado?»

«Peggio, mi fanno schifo quelle orrende caricature di donna che non sai dove i loro ruffiani le facciano sparire dopo i trent’anni. Io voglio farlo con te. Apri la tua mente, per favore! Ti supplico. Tutti cerchiamo di stimolarci, di amplificare le nostre sensazioni di benessere. C’è chi si imbottisce di alcol, chi usa droghe leggere, chi usa droghe pesanti o sintetiche, e chi come me ci tiente al fegato e ai polmoni e soprattutto è più esigente e anela a stimoli mentali e fisici più raffinati. Il mio medico ti potrà garantire che ho il fegato e i polmoni quasi come quelli di un bambino. L’unica anomalìa che mi ha diagnosticato sinora è che ho bisogno di affetto. Ma questa è un’altra storia.»

Dopo essersi trasformata per una mezz’ora in una valchiria abbigliata da infermiera, Rebecca sta preparando un caffè bello forte mentre Perozzi parla concitato in tedesco nel telefonino. «Dannazione, tutti i contatti che avevo mi dicono che Boris non è più raggiungibile telefonicamente. Solo tramite un indirizzo e-mail che ho avuto con l’ultima telefonata.»

«Boris sarebbe il tipo che sta a Hvar?»

«Esatto.»

«Ma è ata mezzanotte da un pezzo, non ti mandano a quel paese chiamandoli a quest’ora?»

«Scherzi? Questo è il loro orario di lavoro.»

«Girano le scene a queste ore?»

«No, a quest’ora smistano le ragazze ai clienti.»

«Uhm, ti è chiaro vero che io quelle cose non le farò?»

«Certo certo, solo scialbe scene soft, patetici spogliarelli davanti alla webcam e niente ciccioni danarosi in camera.»

Mentre Perozzi digita e-mail con il BlackBerry, aggiorna Rebecca su quanto appreso nelle ultime telefonate per rintracciare Boris. «Ultimamente i suoi giri loschi gli hanno creato diversi grattacapi costringendolo ad una sorta di latitanza. Per questo non usa il telefono, solo l’e-mail sui server BlackBerry, più sicuri e meno controllabili degli altri visto che tutti i dati corrono sui server della RIM, la società produttrice. E’ il sistema preferito dai trafficanti e maneggioni. Lo emo anche io e te. Te ne ho già procurato uno. La sicurezza del BlackBerry però non ci basta, d'accordo che emo solo le e-mail per comunicare, ma per evitare possibili intercettazioni più sofisticate e neutralizzare l’eventuale sequestro del telefono, utilizzeremo un’accortezza ulteriore: le cripteremo con P.G.P., Pretty Good Privacy, il software che sto installando ora.»

Perozzi spiega a Rebecca come inviare e-mail criptate e decriptare quelle che riceverà da lui. Rebecca impara al volo. Poi pianificano nel dettaglio il viaggio verso l’isola di Hvar. Un paio d’ore in auto fino a Fiume, in Croazia. «A Fiume Boris manderà poi qualcuno che ti accompagnerà in traghetto fino al porto principale dell’isola di Hvar, Stari Grad.»

«In traghetto, oddio, vomiterò per tutto il tempo, soffro il mal di mare.»

«No! Veramente?»

«Purtroppo sì, ho cercato di combatterlo in tutti i modi ma non c’è stato verso. Ho imparato a nuotare e ad andare in canoa ma non ha funzionato. Finchè ho io il controllo ad esempio della canoa non succede niente, ma se salgo su qualcosa governata da qualcun altro sto malissimo.»

«Durerà poco, non preoccuparti. Dal porto di arrivo ti condurrano in auto a Hvar città e ti daranno una sistemazione. Mi raccomando però, Boris ti ha presa sulla mia parola senza averti vista, ha fatto uno strappo in virtù della vecchia amicizia

che ci lega. Per convincerlo ho dovuto descriverti come la principessa sul pisello, quindi non farmi fare brutte figure! E gli ho anche dovuto dire che sai tedesco, inglese e russo a menadito.»

Rebecca osserva, «quest’ultima è l'unica cosa vera. Comunque io farò solo le cose soft, gliel'hai detto vero?»

«Certo certo. A questo punto, per il viaggio è tutto a posto. Le uniche contrarietà le ha sollevate Petraz: dice che non va troppo bene se ti faccio espatriare. Non sei limitata nei movimenti ma siccome sei indagata e ipercontrollata dovresti ridurre al minimo gli spostamenti oltre confine.»

«Ma sono segnalata alle frontiere?»

«Petraz crede di no, quindi se ci muoviamo con discrezione possiamo farti arrivare in Croazia senza troppo clamore.» Rebecca e Perozzi si accordano per lasciare il cellulare di lei ai genitori, con la consegna di accenderlo la mattina e spegnerlo la sera. Ogni tanto il telefono verrà lasciato all’avvocato Petraz che lo terrà con sé per un po’ in modo da simulare possibili spostamenti di Rebecca, in caso di futuri controlli ai tracciati delle celle telefoniche. Rebecca acquisterà in Croazia una scheda telefonica da inserire nel BlackBerry fornitole da Perozzi. Al cellulare rimasto a casa di Rebecca, i genitori dovranno rispondere solo a Petraz o a Perozzi. Una volta che Rebecca sarà a destinazione, Perozzi erà di tanto in tanto a casa dei genitori per aggiornarli. Qualora loro avessero necessità di contattare Rebecca per urgenze, dovranno andare da Perozzi e lui poi inoltrerà il messaggio a mezzo e-mail criptata.

Perozzi, ormai calato in un clima da “Caccia a Ottobre Rosso”, prosegue nel prendere precauzioni estreme aprendo ex-novo due caselle e-mail, una per sè su un mail server del Sudafrica e una su un mail server taiwanese per Rebecca, il

tutto navigando attraverso proxy server di Hong-Kong e software specifici per rendere anonimo l’indirizzo I.P. e il traffico generato dal proprio dispositivo.

24

Il giorno successivo Rebecca è combattuta sull’avvisare o meno Mauro circa il suo esilio forzato. Nel frattempo arriva a Fiume accompagnata da Perozzi con la CLS nera. Sale sul traghetto scortata da uno sgherro di Boris. Ben presto l’acido dei succhi gastrici vomitati si mescola al sale delle onde che lambiscono la battagliola e al rimorso di non aver avvisato Mauro ormai lontano sulla terraferma. Il viaggio si trasforma in una catàbasi, una lenta ma inesorabile discesa agli inferi in anima e corpo.

Alla sera Rebecca ha già conosciuto Boris e le ragazze del suo entourage. Boris sembra molto influente, una specie di boss di quella città, per forza o per convenienza le ragazze ne sono soggiogate. Rebecca si sente un pesce fuor d’acqua, Boris ovviamente se ne accorge e ci va a nozze tanto che a notte fonda decide di collaudarla. Rebecca è sola, niente e nessuno la separa da quell’uomo grosso che la rovista ruvido e alticcio con l’alito di troppi bicchierini di Pelinkovač nelle budella.

Per quanto tempo potrei opporre resistenza?

Suo malgrado quindi, Rebecca lo lascia fare e fortunosamente Boris va fuori combattimento dopo poco addormentandosi con apparente soddisfazione.

Rebecca sguscia via nauseata rifugiandosi nella stanza assegnatale in comune con un’altra ragazza.

25

Rebecca inizia il lavoro. Aldilà delle promesse di Perozzi, non sapeva bene cosa la aspettasse. Per il momento si ritrova sul set di un film a luci rosse con le mansioni da fluffer girl. Una sua nuova collega con un seno vistosamente rifarcito di silicone, parlando in inglese con accento se, le spiega che Boris è un regista vecchia maniera: per far avere poderose erezioni agli attori sul set, predilige ancora le ragazze che li “scaldano” fuori inquadratura. Niente cialis, caverject o viagra. «Boris dice che chi usa quelle porcherie per funzionare davanti alla telecamera non è un vero uomo e che sono registi da strapazzo quelli che utilizzano certi attori bisognosi di pastigliette, che poi sono la maggiorparte.»

«Io, io non sono venuta qui per questo. Io ero d’accordo per…»

La ragazza interrompe le ritrosìe di Rebecca, «dài non fare la difficile, qui siamo tutte sulla stessa barca, non hai scelta. Non dirmi che credevi di startene tutto il giorno con le mani in mano.»

«No, è che mi avevano detto che avrei dovuto girare delle scene…»

«Che scene e scene? Hai esperienza? No, vero? Appena arrivata pretendi già di stare davanti alla telecamera? Prima devi entrare nel clima, aiutare a preparare le inquadrature, vedere come si muovono le attrici, truccare, stare insomma a disposizione dei cameraman e della produzione.»

«Io ero d’accordo per girare delle scene soft…»

L’accento se della ragazza tutor si fa più vivace. «Merde! Ma stai scherzando? Quella roba lì non ha più mercato e comunque qui saresti fuori posto, non ne ho mai vista girare una da quando sono arrivata due mesi fa.» Rebecca è sbigottita e visibilmente sorpresa, balbettando spiega che avrebbe anche dovuto lavorare con le webcam. A quel punto la tutor scoppia in una fragorosa risata. «Ah ah ah, tutte noi abbiamo rifiutato quella cosa delle webcam. Guadagneresti una miseria, cento o al massimo duecento Euro al giorno, non mi sembri una morta di fame, poi sei anche belloccia. Boris ha dovuto raccattare un gruppetto di minorenni cinesi per le webcam, vorresti mescolarti con la loro puzza di liso al vapole e maiale aglodolce? Fammi il favore, dài! Ma chi ti ha messo in testa queste stronzate. Muoviamoci piuttosto che fra poco si comincia e qui deve girare tutto a perfezione. Stammi dietro e imparerai in fretta evitando rimproveri e scocciature. Approposito, io sono Vicky.»

Dopo un paio d’ore, Boris irrompe sul set a controllare le riprese. Scorge Rebecca intenta a sistemare il lucidalabbra ad un’attrice per un primo piano. «Tu devi essere quella nuova, quella che mi ha mandato dall’Italia il mio amico Mario, giusto?» Rebecca annuisce. «Credo che questa notte io e te abbiamo fatto qualcosa insieme ma devo essermi addormentato, non mi ricordo granchè. Tuttavia potrebbe essere un buon segno, significa che non mi hai deluso altrimenti non sarei riuscito a prendere sonno. Stai nei paraggi che dobbiamo reincontrarci, mi raccomando.»

Rebecca si sente considerata meno di un oggetto, per non cadere in depressione evade mentalmente con una storia di Mazzoni.

Ricorda quella volta in cui aveva ritrovato Mazzoni, dopo diversi anni, nei seggi elettorali del suo paese. arono un fine settimana come colleghi temporanei in qualità di scrutatori. Era il pomeriggio di un sabato qualsiasi, Rebecca e i suoi improvvisati compagni di lavoro erano stati convocati per le sedici con il compito di vidimare le schede e preparare l’aula di una scuola elementare per

accogliere gli elettori che si sarebbero presentati la domenica e lunedì seguenti. Alle quindici e cinquanta erano tutti presenti meno Mazzoni. Lui fece il suo ingresso trionfale alle sedici in punto, infuriato e con un diavolo per capello. Salutò solo la presidente di seggio scusandosi in anticipo per il suo umore stizzoso e inquieto. La presidente fece il madornale errore di chiedergli il motivo di tale arrabbiatura e Mazzoni non si smentì snocciolando una storia all’altezza della sua reputazione. Un’ora prima, verso le quindici, Mazzoni era rincasato per prepararsi all’appuntamento delle sedici. Prima di salire in appartamento aveva scaricato nel garage le sue tre mountain bike ultra professionali appena ritirate dal meccanico della squadra. Dopo mezz’ora era ridisceso in garage fresco e lindo per prendere l’auto e in quel mentre scoprì che ignoti gli avevano parzialmente rubato le sue bici da gara, costosissime e rarissime, assemblate acquistando via Internet pezzi dall’America e dalla Svizzera, ovviamente tutti materiali di derivazione aeronautica se non addirittura aerospaziale. A dire di Mazzoni, egli aveva lasciato il garage sigillato. La ricostruzione di Mazzoni prevedeva che, durante la sua breve sosta in appartamento, il ladro avesse abilmente rimosso la grata di aerazione posta a oltre due metri d’altezza sulla serranda di chiusura del garage. Ovviamente la grata era di dimensioni ridottissime, del tipo venticinque centimetri per settanta. Il ladro era entrato da quel pertugio e aveva smontato dalle bici, in meno di mezz’ora, solo i pezzi più costosi che, per accrescere l’eccezionalità del tutto, non potevano essere smontati con delle normali chiavi a brugola o chiavi inglesi ma necessitavano di chiavi ad hoc di cui disponevano solo i meccanici professionisti e logicamente Mazzoni. Mazzoni sostenne che, solo per smontare una forcella, il suo meccanico ci avrebbe impiegato una mezz’oretta, lui che conosceva a memoria le sue bici. Sempre Mazzoni sostenne che il ladro doveva per forza di cose aver fatto almeno tre viaggi attraverso la grata per asportare tutto il materiale, il tutto in pochi minuti e ando sempre attraverso il pertugio di venticinque per settanta posizionato oltre i due metri d’altezza. Mazzoni non era cambiato! Rebecca si ricordò che alla fine di quel racconto aveva iniziato a pensare che Mazzoni fosse affetto da schizofrenia, da dissociamento della personalità. Effettivamente avrebbe potuto essere stato solo lui a derubare sé stesso, magari a causa dei famosi antibiotici che lo avevano intossicato o a causa di una mancata seduta d’allenamento per cui il sangue gli si era inquinato minandone la lucidità cerebrale già di per sé perennemente in bilico tra la genialità e la pazzia.

All’ora di pranzo Rebecca si rinchiude in camera. Sola, frustrata e arrabbiata

invia un’e-mail di resoconto e di protesta a Perozzi. Gli scrive che ha trascorso la mattinata spalmando crema Luan su membri maschili e ando dei kleenex sui visi delle attrici al termine delle azioni. Sono considerata meno di un oggetto! Non abbiamo ancora parlato di soldi e ho già dovuto fare sesso con Boris. NIENTE di quanto mi hai promesso si è avverato! Sei uno stronzo e io una stupida ad averti creduto!

Perozzi le risponde subito dopo comunicandole che il malinteso è sistemato, di non preoccuparsi e di tenere duro che si abituerà.

Pensa ai soldi! Io quando sono giù di morale penso ai soldi e sto bene, mi torna il buonumore. Non potevo dirti che sarebbe andata così, non saresti mai partita. Vedrai, mi ringrazierai. Poi per il fatto che Boris ti abbia voluta, non poteva essere diversamente. Pensa a quando eri bambina e ti portavano un gioco nuovo, cosa facevi, lo lasciavi lì o morivi dalla voglia di scartarlo per giocarci? Sii machiavellica! Pensa ai soldi!

Rebecca ormai è in balìa degli eventi. La sera, un gruppo di russi contatta l’agenzia di Boris chiedendo tre ragazze without tattoo. Le uniche che corrispondono ai desideri degli oligarchi sono Rebecca, Vicky e una terza ragazza. Rebecca si è così accaparrata l’ingaggio per la prima notte della sua carriera in Croazia. Prima di consegnarla ai russi, uno scagnozzo di Boris la sospinge in un camerino. «I vestiti non vanno bene. Spogliati, così vedo anche cos’hai sotto.» Rebecca ubbidisce all’uomo panzone e puzzolente. «No, neanche l’intimo va bene. Ora chiamo una ragazza a darti di meglio. Intanto, per il sopra, cercati qualcosa di sexy tra quegli abiti di scena e se vedi qualche macchia evidente dagli una ripulita alla buona. Scegli tra quelli più corti e prenditi anche delle scarpe con la zeppa tra quelle là in fondo.» Rebecca, mentre armeggia tra miniabiti, camicette, minigonne e sandali dai tacchi altissimi che non sa se riuscirà a portare con disinvoltura, tira un sospiro di sollievo scorgendo il ciccione allontanarsi, per un attimo aveva temuto che anche lui avesse voluto approfittare di lei.

Alle prime luci dell’alba, lo scagnozzo di Boris si presenta al molo dov’è ormeggiato il Sanlorenzo dei russi per riprendersi le ragazze. Consegna mille Euro a ciascuna. Sommati ai cinquecento a testa ricevuti come mancia dagli oligarchi ultrasoddisfatti fanno millecinquecento Euro.

Mentre rientrano verso l’alloggio, sul sedile posteriore Vicky bisbiglia a Rebecca spiegandole che una loro notte viene venduta a duemila Euro e che si fa a metà, mille a Boris e mille alla ragazza. La “notte” va dalle ventidue a massimo le sei del mattino. Oltre diventa extra. I clienti pagano Boris in anticipo, poi lui paga le ragazze a fine lavoro. «La mancia ricevuta dai clienti andrebbe divisa con Boris ma se sei discreta non verrà a saperlo e quindi te la tieni tutta.»

Rebecca osserva, «Boris non mi sembra uno sprovveduto, sicuramente saprà che prendiamo degli extra.»

«Hai ragione, fa finta di non sapere, è un tacito accordo visto che per il lavoro sul set durante il giorno nessuna viene pagata, tranne le attrici che fanno i primi piani. Però si diverte a tenerci sulla corda e a mettere alla berlina le meno avvedute, se sente cifre o discorsi sulle mance ti perquisisce all’istante e si prende tutto rimproverandoti che lo volevi fregare.»

«E’ un tipo strano.»

«Per fare quello che stiamo facendo, direi che tutti qui lo siamo, te compresa!»

Rebecca mette su un’ideale bilancia da una parte i millecinquecento Euro esentasse appena ricevuti, dall’altra il fatto di stare sul set tra sudori e umori e poi are la notte in letti sempre diversi. Considerato che in mezzo ci sono

anche un pasto caldo e un giaciglio per dormire, decide che i conti tornano e che lo sforzo è ben retribuito. Tutto sommato lo stipendio della banca, una volta assunta, non sarebbe arrivato ai novanta Euro netti al giorno.

Ora come ora ho qualche concreta speranza di aiutare papà e mamma.

26

Il giorno seguente, sabato, le ragazze hanno la mattinata libera e Vicky si offre di accompagnare per negozi Rebecca, aiutandola a crearsi un guardaroba in un paio di sex-shop.

«Grazie Vicky della gentilezza, mi ripugnava l’idea di dovermi mettere la roba usata dalle altre, ma come ti ho detto non ero preparata a fare la prostituta d’alto bordo.»

«L’avevo capito, non sei la prima che viene incastrata, d’altronde non è un mestiere che cominci facendo salti di gioia. Le capriole inizi a farle dopo un paio di settimane, solo allora il denaro guadagnato e la possibilità di guadagnarne ancora riescono a mitigare il disgusto iniziale. Uh, guarda questo completino! Ti piace? E’ della Chilyrose, la mia marca preferita. Molto raffinata e mai volgare. Puro “made in Polonia”.»

«Carino, non sembra rifinito male.»

«Scherzi? Questo è il top della qualità per l’intimo sexy, altrochè le robacce che trovi nei franchising del centro commerciale dove costano il triplo e fanno calare il desiderio perfino ad un monaco di clausura.»

«In effetti…molto intrigante e anche il prezzo non è male, sarà perché siamo in Croazia.»

«Hanno lo stesso prezzo pure a Lione, quindi credo anche in tutta Europa.»

Rebecca e Vicky escono dai negozi cariche di lingerie provocante, bustini steccati, autoreggenti e miniabiti glitterati con scollatura all’americana. Imboccano una stradina zeppa di disco bar dai nomi esotici come Big Sur o Key West.

«Merde! Sono tutti chiusi. Aprono nel tardo pomeriggio…volevo bere qualcosa. Proviamo a svoltare laggiù.»

Mentre si sorbiscono un aperitivo nel dehors di un localino sul porticciolo, Vicky le spiega anche il resto del tariffario. «E’ molto semplice: quattrocento Euro per ora, da dividere a metà tra noi e Boris, come per la notte intera. Di solito vengono vendute due ore alla volta. Se un cliente prende un’ora soltanto significa che è proprio spilorcio e Boris dice che dobbiamo essere svogliate e annoiate, così non contatta più l’agenzia. Oppure se capiamo che i soldi in realtà li ha, dobbiamo tirarla per le lunghe e arrivare alla fine dell’ora senza aver concluso ma avendolo portato sull’orlo. Poi troncare perché il tempo è scaduto. Di solito funziona e sganciano per l’ora extra.»

«Come faccio a tirare avanti per un’ora senza concludere?»

«Inventati qualcosa, no? Fai melina col drink iniziale, fate il bagno assieme, fallo parlare della sua auto, della sua barca, dei suoi immobili, di come ti vuole. Poi accenditi un paio di sigarette…»

«Non fumo!»

«La maggior parte di noi non fumava ma diventa necessario per assumere l’aria da troione di lusso e riempire di sensualità i silenzi che altrimenti sarebbero imbarazzanti. In definitiva devi calcolare che se non sei tra le fortunate che si beccano la notte intera, da ogni round devi cavarne almeno due ore, quindi ottocento Euro che significano quattrocento per te. Più la mancia, ma qui sta alla tua capacità di saperti lavorare il pollo. Comunque la notte scorsa hai visto un esempio di come ci si comporta, non è difficile e te la puoi cavare, sembri abbastanza sveglia.»

«Ma quelli di ’stanotte erano troppo pretenziosi, io sono stata al gioco per non rovinare il lavoro a te e all’altra ragazza però…»

«Però niente! Non puoi farli incazzare con i tuoi piagnistei, Boris non mette limiti al tipo di prestazione che può richiedere il cliente. Boris dice che per quello che paga, il pollo deve poter pretendere tutto da noi, tutto quello che vuole, compresi giochi di ruolo, fetish e cose insolite. E’ il marchio di fabbrica dell’agenzia.»

«D’accordo ma io per le loro pretese non voglio beccarmi lo scolo o altre schifezze!»

«Tranquilla, qui girano tanti soldi e dove ci sono tanti soldi non ci sono malattie, quelle stanno sui viali, è così che funziona. Piuttosto, rimanendo sul pratico, sappi che Boris ci a clienti, preservativi e pillole di cialis per i casi più disperati. Vestitini, scarpe, lingerie, oggettistica e stuzzicamenti vari dobbiamo procuraceli noi con quello che guadagnamo. Quindi più la tua dotazione è ricca e differenziata, più hai possibilità di accontentare i clienti, anche quelli con le richieste più assurde che, tra l’altro, sono quelli disposti a pagare di più.»

«Che tipo di stuzzicamenti?»

«Dalle divise di scolaretta, hostess, segretaria eccetera fino alla virago, la donna padrona, dominante, con frustini, stivaloni, manette e grossi falli da appendere qui davanti.»

«Ma è così frequente che chiedano la donna valchiria? Pensavo di aver conosciuto io l’unico svitato.»

«Molti di più di quanti tu possa immaginare, e la tendenza è in aumento. Ultima cosa: se il cliente vuole altri tipi di eccitanti, ad esempio cocaina, devi chiedere allo scagnozzo di Boris.»

«Vorrei star fuori dal discorso droghe.»

«Fai un po’ come ti pare ma sappi che, nel caso, ci guadagni bene anche su quelle.»

Una giovane coppia in costume da bagno sfila accanto ai tavolini. Vicky viene abbagliata per una frazione di secondo dal luccichìo del piercing all’ombelico della ragazza. Ritorna a rivolgersi a Rebecca osservando «questa notte ho notato che non hai il piercing all’ombelico. Dovresti fartelo.»

«Uh, che male! Ho i brividi al solo pensiero.»

«Io ti avviso, sappi che quasi tutti quelli che contattano l’agenzia vanno pazzi per il belly button piercing. Se non vuoi rischiare di perdere clienti, ti converrebbe fartelo quanto prima. C’è un posto qui vicino, se vuoi riusciamo a farlo prima di pranzo.»

Rebecca, tramite il BlackBerry aggiorna Perozzi. “Non avevi sistemato un bel niente! E’ andata a finire che mi stanno facendo prostituire. Confermo: sei uno stronzo!”

Perozzi risponde dopo pochi secondi. “Non ti chiedo se preferivi continuare a mendicare un lavoro in banca perché immagino che tu abbia già fatto i dovuti raffronti economici. Pensa ai soldi!”

27

Dopo qualche giorno, Rebecca realizza che Vicky aveva ragione in merito al belly button piercing: le sue compagne con il gancio all’ombelico sono le prime ad involarsi al crepuscolo accaparrandosi la nottata intera.

«Facciamolo! Però trovami un bravo macellaio.»

«Ultimamente gli affari si sono assottigliati per caso? Come sempre più delle parole possono i soldi.»

«Non offenderti, è che temevo per…»

«Tranquilla, non mi offendo se non mi avevi presa in parola. Io sono umana e come tale limitata, ma il dio denaro può tutto.»

«Mettila come vuoi, comunque scusami.»

«E smettila di giustificarti, qui sei in un mare di pescecani, non farli annusare il sangue altrimenti sei preda. Impara ad essere predatrice. Quando devi dire qualcosa dillo e basta, non scusarti, non motivare, quello che dici deve suonare come legge. Azzanna, imponi, sempre! E se sei in difficoltà, accenditi una sigaretta e rivolgi lo sguardo altrove con aria superiore.»

«Come mai sei così prodiga di consigli con me?»

Vicky si fa scivolare addosso la domanda di Rebecca lasciandola svolazzare via. «Ti prenoto il buco questo pomeriggio da Maxim, è il migliore dell’isola, vedrai che non ti farà male.»

Quando non ci sono scene da girare, Boris sguinzaglia le ragazze ad accaparrarsi ingaggi anche durante il giorno facendole frequentare una serie di equivoci centri benessere che pretenziosamente si autodefiniscono hammam, nonostante presentino angusti ambienti suddivisi da pareti in cartongesso idrofugo e finto mosaico al posto degli ampi vani e robuste murature in cotto lisciate col tadelakt marocchino dei veri hammam orientali.

Nei tempi morti, Rebecca cerca di mantenersi in allenamento con piegamenti ed esercizi per gli addominali in camera o andando a correre sulla promenade lungomare facendosi accompagnare da Armin Van Bureen, Paul Van Dyk, Carl Cox e Felix Da Housecat nelle orecchie. Pensa spesso a Montecastello, a come è cambiato lo sguardo del frate dopo che lei ha pronunciato “Lorraine de Dietrich”. Più volte ha tentato di impugnare un telefono e chiamare il monastero per chiedere spiegazioni, ma ha sempre esitato a trasformare la volontà in azione. Un giorno di particolare euforia, dovuta a un po’ troppo champagne in circolo, mette da parte tutte le remore e compone il numero di Montecastello da un telefono pubblico, ma quando sollevano il ricevitore dall’altra parte, Rebecca non sa cosa dire e riattacca.

Gli scambi di messaggi con Perozzi proseguono. Qua e là egli accenna alle indagini che sta portando avanti nei confronti di Lorraine De Dietrich. “Ancora niente da fare, sembra che lei non desse confidenza a nessuno e non avesse amicizie in paese. Anche allargando il giro a certe sue conoscenze altolocate, non ho cavato granchè.”

Perozzi è un santo in confronto alle perversioni di questi dannati ciccioni danarosi con cui mi devo accompagnare. Pur di incontrare i loro gusti assurdi ho rischiato un’infezione all’ombelico per colpa di Maxim, il migliore secondo Vicky, e con quello che ho accumulato nel trolley potrei tranquillamente aprire un sex-shop soddisfando chiunque, compresi gli amanti degli stivali in pelle pitonata.

Qualche giorno dopo, Perozzi la avvisa che ha avuto modo di stabilire un contatto con il signor De Dietrich. “Forse riesco a scucirgli qualcosa. Non ti anticipo niente per scaramanzia.”

Mentre Rebecca sta succhiando ostriche dimenandosi al ritmo di un jive su un Azimut Magellano da 76 piedi, un nuovo messaggio cifrato da parte di Perozzi la informa che il P.M. l’ha convocata per un ulteriore interrogatorio il lunedì successivo, pertanto domenica deve assolutamente rientrare in Italia. “Ho anche buone notizie, ti spiegherò tutto al tuo ritorno. Ti anticipo solo che con De Dietrich è andata oltre le aspettative, grosse novità! Tra l’altro non sei l’unica indagata, lo è anche lui. Questo gioca a nostro favore perché significa che gli inquirenti non hanno piste ben chiare da seguire.”

Quella notte Vicky le accenna alla possibilità di lavorare senza agenzia per incrementare i guadagni. «Niente spartizioni, tutto in tasca tua. Ovviamente non qui a Hvar, Boris ci scannerebbe. Intendo in Montenegro, paradiso fiscale in rapida evoluzione, quindi molti più traffici, molti più intrallazzi, molti lucrosi accordi da festeggiare e quindi molti più soldi che possono finire qui,» indicando la sua pochette in pelle pitonata. Ci sarebbe un mio amico di Lione che lavora laggiù e potrebbe inserirmi nel circuito, parto domenica. Ci stai?»

«E con Boris come la metti?»

«Si incazzerà un pochino ma come potrà trovarci? Non ci pensare, piuttosto stammi a sentire: in Montenegro il mare è molto più grosso di questo, sarebbe meglio che fossimo in due, io e te, so che sei in gamba, saremmo una coppia perfetta.»

Ecco perché mi ha lisciata fin dall’inizio forgiandomi a sua immagine, le gemelline, la bionda e la mora, quale miglior compagna di una come me, l’ultima arrivata bisognosa di una guida, fedele e pronta a coprirle le spalle in caso di bisogno, ma comunque sveglia e ben scopabile permettendole di fornire il pacchetto completo in grado di esaudire qualsiasi richiesta. Dannazione, nessuno fa niente per niente, troppo spesso me lo dimentico, tuttavia la posta potrebbe perlomeno raddoppiare, l’affare è allettante. «Domenica torno in Italia per qualche giorno, lasciami sbrigare alcune faccende urgenti e a breve ti contatterò per confermarti o meno, sai com’è…devo sentire anche il mio sponsor.»

Vicky si aspettava ormai un appoggio incondizionato ai suoi piani e biascica un «merde!» dissimulato da una finta schiarita di voce prima di domandarle con disinteresse «torni in Italia…ma di dove sei esattamente? Roma, Milano, Napoli?»

«Ehm…no, un minuscolo paesino che si chiama Manzano.»

«Mai sentito, che nome buffo. In spagnolo manzana significa mela, il manzano sarebbe il melo? Battute a parte, mi piace molto l’Italia, ho lavorato a Roma e a Venezia. Tutti i più grandi artisti della storia sono italiani, ce ne sono anche di Melo? Ops scusami…ce ne sono anche di Manzano?»

«Beh…come ti dicevo, è una piccola cittadina di neanche settemila abitanti, dimenticata dai flussi commerciali che un tempo le diedero un minimo di

notorietà. A prova di ciò, per trovare il cittadino più illustre bisogna risalire a fine 1800, gli anni di una poetessa e scrittrice chiamata Caterina Percoto. Che poi in quegli anni, per essere qualcuno, bastava avere qualche denaro di famiglia, un minimo di inclinazione allo studio e fare qualche viaggio. Sta di fatto che comunque a Manzano, dopo di lei, abbiamo il vuoto.»

28

Giordano ha voluto a tutti i costi recarsi di persona a Fiume a recuperare la figlia di ritorno dalla trasferta croata. Per scongiurare rischiosi colpi di sonno, dovendo percorrere centocinquanta chilometri col Fiorino che non spinge a più di ottanta all’ora, Perozzi gli ha mollato la Mercedes CLS.

Lungo la via del ritorno con a fianco Rebecca, Giordano è tutto eccitato dal poter guidare la grossa ammiraglia e maschera così la mestizia di quel suo triste compito da nocchiere che per orgoglio paterno non voleva fosse toccato ancora a Perozzi.

Una volta a casa, padre e figlia si stringono attorno a Luisa. Rebecca asciuga le lacrime amare dei genitori con oltre diecimila Euro racattati in meno di due settimane, Giordano può mettere a tacere i creditori per un po’. «Capiranno che non li stavo prendendo in giro, grazie al nostro angelo.»

Durante l’assenza di Rebecca, un geometra incaricato dal giudice ha visitato la casa e le serre per redigerne la perizia.

Giordano la aggiorna, «ancora non c’è una data per l’asta, ma il giudice deciderà a breve.»

«Avete fatto gli indemoniati? Avete minacciato messe nere?» chiede Rebecca.

«Certamente, non preoccuparti. Tua madre ha sparso per tutta la casa delle pigotte con il logo della banca sul cuore e gli occhi infilzati da aghi e nelle serre ha predisposto degli altarini dedicati a Iemanjà e a Oxalà con tanto di candeline e ampolle d’acqua. Era talmente presa nella parte che per tutta la durata del sopralluogo fibrillava dietro al geometra, gli ha pure spaccato uno specchietto da cipria sui piedi.»

«Mi è scivolato perché tremavo per l’agitazione.»

«Credimi che il suo effetto l’ha fatto, io ero davanti a lui e ho avuto modo di osservare i suoi occhi, era sbigottito quanto e forse più di noi, ha guardato la statua del diavolo di Montecastello ed è corso fuori a prendere ossigeno, c’è mancato poco che non mi svenisse contro un bancale di lamponi.»

La sera Rebecca incontra Mauro. Com’era ampiamente prevedibile, è incazzato nero con lei, scappata per quasi due settimane lasciandolo all’oscuro delle sue mosse. «Credevo di contare qualcosa per te, invece te ne sei andata in silenzio e non hai mai risposto alle mie telefonate.»

«Mi hanno riferito che sei venuto a cercarmi...»

«Sì, mi pareva che fra noi fosse iniziato qualcosa ma credo di aver capito male. I tuoi mi hanno spiegato che sei dovuta sparire per un po’, dato il trambusto mediatico. Sono stato in pensiero e…mi mancavi.»

Rebecca stringe delicatamente le mani di Mauro avvicinandole a sé. Guardandolo negli occhi con tutta la dolcezza di cui è capace, cerca di asciugare anche quelle lacrime dopo quelle dei suoi genitori. «Tra noi è iniziato qualcosa,

cosa credi! Purtroppo si è inifilato in mezzo questo dannato bordello di omicidio e se non ti ho calcolato è stato solo per proteggerti.» Rebecca non ha mentito ma, dietro l’angolo, occhieggiano tutte le sordide verità di cui lui è ancora all’oscuro. Mauro infatti le crede, la stringe a sé baciandola, la ama ancora. Rebecca vede le onde dell’inganno allontanarsi per un po’, con la chiara consapevolezza che prima o poi la risacca le farà ritornare indietro più alte e più cattive a frangersi sugli scogli del suo cuore, con tutti i lordi detriti che nel frattempo avranno catturato. Inconsapevole di tutto ciò, Mauro è ritornato in paradiso accanto a quegli occhi da cerbiatta e gli si è finalmente sciolto lo stomaco dopo due settimane di semi-digiuno. «Vorrei are la serata con te. In un paese qui vicino, Clauiano, c’è una festa con diversi spettacoli di teatro e musica nelle piazze e tra i borghi. Un po’ di coreografia per farci da sfondo in questa rentrée. Vieni?»

Una fiumana di gente percorre disordinata in ogni direzione le strette vie del paesino rurale disseminato di saltimbanchi, torce, zucchero filato e artisti di strada. In una grande aia di una casa contadina davano uno spettacolo di flamenco. Gli strazi dell’amore: il mio stato attuale. Chissà che non mi spieghino come uscirne? «Entriamo qui!» propone Rebecca precedendo Mauro avvolto nella sua mano.

I proprietari della casa contadina, con gli immancabili contributi a fondo perduto sommati alle agevolazioni riservate ai coltivatori diretti, avevano pregevolmente ristrutturato lo stabile nel classico stile friulano. Ne avevano ricavato l’abitazione, il bed&breakfast e una sciccosa enoteca con relativa cantina di produzione. Mauro sapeva che il vino che ne ricavavano era pessimo e che, per attrarre la clientela, rimediavano organizzando serate a tema. Tanto la gente ad una certa ora paga per bere qualsiasi cosa, anche merda liquida. Quella sera toccava all’esibizione di flamenco attirare i clienti, oltretutto i contadini beneficiavano di visitatori extra vista la festa in corso in tutto il paese. Sul palco, ricavato da due carri per il mais privati dalle sponde e abbelliti da striscioni di tessuto colorato per nasconderne le ruote, il gruppo di flamenco era già all’opera. Qua e là c’erano delle vecchie botti in legno vuote con le candeline sopra. Gruppetti di persone, accovacciati su degli sgabelli, facevano da corolla a quei rustici tavolini. Alcuni erano habituè dell’enoteca, altri amici degli artisti. Gli

unici entrati lì incuriositi dallo spettacolo erano probabilmente solo Rebecca e Mauro. Si siedono attorno ad una botte ancora libera, abbastanza vicino al palco per vedere da vicino. Le corde vocali del cantante erano tese e in risalto attorno al collo. Stavano vibrando in un caratteristico lamento prolungato tipico del flamenco. Egli indossava pantaloni neri e camicia nera, seduto su uno sgabello basso. Accanto a lui il chitarrista, vestito allo stesso modo, arpeggiava e stuzzicava la sua Ibanez. Davanti a loro, due coppie di ragazze fasciate da lunghi abiti di raso rosso con le spalline sottili, esaltavano il canto con leziose movenze di grandi ventagli bianchi. Erano molto coordinate anche con i tacchi che battevano dettando un crescendo del ritmo che sospingeva il chitarrista in virtuosismi sempre più veloci e arditi. Si vedeva che avevano mestiere e che se la intendevano a meraviglia. L’atmosfera di complicità e intimità si riverberava giù dal palco lungo il fascino dei caseggiati in pietra e legno che circondavano l’aia, cercando di risultare suggestiva unendosi alle fiammelle arancioni che ondeggiavano sulle botti. Il tentativo era in parte ostacolato da due fari di millemila watt collocati sul vecchio granaio sparati esattamente sui carri-palco. Nell’intenzione dei proprietari dell’azienda agricola, i fari avrebbero dovuto illuminare solo l’esibizione, invece la luce bianchissima invadeva anche la maggior parte degli astanti. Un vero peccato. Tutti, incuranti di ciò, ordinavano sangrìa, o meglio un intruglio di vino, ovviamente il vino fetido della casa, zucchero e pezzettini di pesca terza scelta. Mauro stava pensando sul da farsi, nel senso di cosa ordinare: se cedere eventualmente alla pseudo-sangrìa o se ordinare qualcosa di più bevibile, tipo andare sul sicuro con una cola in lattina.

Improvvisamente alla botte accanto alla loro, da poco lasciata libera da due avventori che probabilmente ne avevano avuto abbastanza di quella cantilena, almeno era così che avevano commentato prima di andare ad annegare la delusione al bancone, si avvicina una mulatta alta almeno un metro e ottanta. La luce bianca dei fari ne esaltava la pelle tra il marrone del caffè e i riflessi ambrati del brandy. Non aveva tatuaggi. Il miniabito in rayon nero semi-trasparente lasciava maliziosamente intravedere gli slip nerissimi di foggia brasiliana. I capelli, anch’essi neri, avevano i caratteristici minuscoli ricci dei creoli, erano abbastanza lunghi da contornare con una nuvola vaporosa e leggerissima quel viso da modella. Prende posto su uno sgabello e accavalla con classe le lunghissime gambe che avevano fatto voltare la testa a tutti gli avventori. Ora si vedevano bene i costosi sandali neri con tacco vertiginoso che finivano in un’alta fascia in pizzo cesellato ad impreziosirle le caviglie sottili. Gli occhi, scurissimi,

erano esaltati da abbondante matita nera tutt’attorno alle palpebre. Il contrasto col bianco dei bulbi accresceva la profondità e la fierezza dello sguardo.

Per un impercettibile attimo quegli occhi sofisticati trafiggono la sbirciatina di Mauro. Un misto di stizza ed autocompiacimento tipica delle donne bellissime compare sul volto della mulatta. Eccone un altro che mi sbava dietro. Un secondo dopo, la mulatta rivolge volentieri l’attenzione al suo accompagnatore che la raggiunge appoggiando sulla botte due bicchieri in plastica da cui fuoriesce un lungo stuzzicadenti: la sangrìa della casa.

Mauro non può esimersi dal fare la tara anche all’accompagnatore. Un tipo sulla cinquantina, talmente abbronzato da fare concorrenza alla mulatta, capelli rasati a zero, i maledetti fari sul granaio li rivelavano in ricrescita, chiari, perlomeno brizzolati, pochi. Anellino d’oro con brillante all’orecchio sinistro. I sorrisi e le parole che dedicava alla mulatta disegnavano sulla fronte e sul viso rughe evidenti. Lo sguardo, dietro a degli occhiali con montatura in plastica scura finto osso, appariva rilassato, compiaciuto, divertito. La mano sinistra si era posata sulla destra della ragazza mentre lei sorseggiava l’intruglio. Gli avambracci erano ricoperti da peli neri e brizzolati. Il fisico era asciutto, scattante, tonico. Un uomo in età che ha voglia e tempo a disposizione per tenersi in forma. Vestiva una camicia nera in qualche tessuto sintetico, sicuramente firmata, con le maniche arrotolate fino a poco sotto alle spalle, queste ultime esaltate da fibbie che gli conferivano un aspetto quasi marziale, da divisa. Effetto che veniva smorzato dalla pacchiana scollatura sul petto da cui fuoriusciva un folto ma ordinato ciuffo di peli scuri. L’uomo improvvisamente balza in piedi, afferra l’iPhone e scatta delle foto apparentemente in direzione del palco: forse qualcosa della coreografia lo aveva colpito. Mauro nota così che portava jeans azzurri effetto scolorito, invecchiato, strappato, anche quelli firmatissimi. Un uomo ricco che gioca a fare il ragazzino, piacente, sicuro di sé, con l’aria da gran scopatore.

Sicuramente la ragazza costava molto ma forse non era la storia di una sera, forse era l’amante. Oppure la scaltra ereditiera che lo aveva fatto divorziare.

Mauro osserva Rebecca, bellissima, sfavillante, graziosa, tosta, seducente. Averla accanto gli stava regalando piacevolissime sensazioni. Al tipo pelato non invidiava la donna, troppo bella e perfetta per non farsela venire a noia già al terzo o quarto incontro, ma invidiava il denaro, il tanto denaro che grondava dai suoi pori assieme al sudore di quell’afosa serata di inizio settembre. Mauro, nelle visite a casa Carinci in cerca di Rebecca durante l’esilio croato, aveva fiutato infatti che Giordano ha bisogno di soldi e che il posto in banca che Rebecca aveva conquistato e perso era importantissimo anche dal lato economico. Sente un moto di impotente protezione verso di lei e la sua famiglia e al contempo invidia il denaro del ricco pelato con la mulatta al guinzaglio.

Terminato il concerto, Mauro e Rebecca si alienano dalla fiumana eggiando al chiaro di luna verso l’aperta campagna coltivata a granoturco. Si siedono sull’argine in cemento di un canale d’irrigazione. Mauro si appresta a baciare Rebecca. Rebecca non ne può più di prenderlo in giro, non è una questione di avere o non avere scrupoli, di moralità o amoralità, di essere credenti o di non esserlo, di peccati, di religione. Al diavolo! Voglio essere onesta con lui, se Dio esiste è giusto farlo e se Dio non esiste ci deve comunque essere onestà e rispetto, se non altro verso chi fa altrettanto con me e soprattutto verso chi si è innamorato di me. Ecco che ritornano le onde alte e cattive della risacca con i lordi detriti raccattati qua e là per il mare. Gli racconta tutto, dei soldi per salvare i suoi, del suo capo, dell’avvocato e della Croazia. Lui urla, serra i pugni, urla. Urla che non le crede, che non è vero, che non è possibile, che la ama, che la amava, che lei non può avergli fatto questo. Lei conferma che è tutto vero, purtroppo. Mauro impreca e scappa, inciampa, si rialza e corre via a prendersi la Felicia lasciando Rebecca sola sull’argine, distrutta, svuotata, finalmente onesta, straziata, senza lacrime. Trova un aggio fino a casa. Trangugia mela grattugiata con carriole di zucchero. Pensa ai soldi. Pensa a una storia di Mazzoni. Accende la musica. La spegne. Niente la aiuta a risollevarsi. Sta malissimo. Ha visto Mauro ingrigire attorcigliato su sé stesso e la straziante immagine è ancora impressa sulle sue rètine. Nel mobiletto bar in salotto scova una bottiglia di Cardenal Mendoza. Dolce, liquoroso. Voglio sparire, spegnermi, spegnere quegli occhi grigi spaventati delusi e arrabbiati con me. Non riesco a reggerli. Ah! Ancòra! Ancòra! La gola brucia. O questa bottiglia mi stacca il cervello o mi ammazzo. Non sono degna di vivere! Glu glu glu. Si butta nel

letto. I fratelli Sánchez Romate, produttori del Cardenal Mendoza, per il momento hanno sventato un suicidio.

29

La mattina successiva, complici gli effluvi del brandy, Rebecca si risveglia leggera come una farfalla. Una breve telefonata dell’avvocato Petraz le ricorda però la convocazione dal P.M. avvolgendola nuovamente nella nausea della notte precedente. Quasi quasi stavo meglio a Hvar! Un’ora dopo, i freddi corridoi del tribunale le rammentano che non può perder tempo in lamentele ma deve continuare a cercare di scagionarsi e guadagnare.

Il P.M. le comunica che, da ulteriori e più approfonditi esami sulla scena del delitto, sono state rilevate due diverse serie di impronte riconducibili ad altrettanti tipi di scarpe. Quelle che calzava Rebecca, col fatto che sono state parzialmente fuse, non corrispondono a nessuna delle due, «però, signorina Carinci, scarpe nuove pari al suo modello dalle suole fuse lasciano la stessa impronta sul terreno, seppur con profondità diverse a causa dell’usura.»

«Ho già ammesso di essere entrata in quella casa!»

«Ma ancora non ci ha detto con chi!»

Durante il colloquio Rebecca scopre, i genitori glielo avevano taciuto, che i carabinieri sono ritornati una seconda volta a perquisire la casa e le serre per analizzare le scarpe del padre. «Il secondo tipo di scarpa individuata sulla scena del crimine è un paio maschile, sportivo, numero quarantatrè, a casa sua non abbiamo trovato granchè visto che suo padre sembra calzare il quarantadue e questo lo escluderebbe dall’essere stato suo complice.» Infine la perizia balistica indica che i colpi di pistola sono stati esplosi da un destrorso, «quindi potrebbe essere stata anche lei.» Il P.M. prosegue sondando le reazioni di Rebecca,

«signorina Carinci, lei sostiene di essere innocente e di essere entrata nell’abitazione a omicidio ormai compiuto. Come le avrà riferito il suo legale,» in realtà Petraz non le ha detto un bel niente, «lo stub, anche se positivo, è stato fatto tardivamente e le analisi non ci permettono di stabilire con certezza se i residui da sparo della sua mano siano compatibili con quelli trovati sull’abito della signora De Dietrich, benchè esplosi a bruciapelo. Stia pur certa che se fossero stati maggiormente identificabili, il giudice avrebbe già convalidato lo stato di fermo a suo carico.»

Una breve pausa e il tono del P.M. si fa accusatorio, «signorina Carinci: lei potrebbe essere stata il “palo” che per qualche motivo è dovuto intervenire a tamponare la situazione. Sta forse coprendo il suo complice?» Rebecca sbianca ammutolita.

Petraz interviene. «Da quando in qua il P.M. lancia accuse infondate? Lei non può insinuare niente!»

«Però da quando è indagata ha smesso di usare il telefono e lo fa tenere a turno dai suoi genitori o dal suo avvocato qui presente. Almeno così risulta dai tracciati delle celle GSM. Cosa sta combinando, singorina Carinci?»

Petraz parla al posto di Rebecca ancora sorpresa dall’accusa di avere addirittura un complice. «La mia cliente non è obbligata a rispondere!»

P.M. «Naturalmente, ma il silenzio ci fa diventare ancora più sospettosi.»

Petraz. «Questo lo tenga per sé. Sa benissimo che non lo potrà dire davanti al giudice in un’eventuale udienza preliminare.» Poi Petraz si accosta all’orecchio

di Rebecca sussurrandole «tentano solo di innervosirti, non hanno niente di niente.» Dopodichè alza la voce e chiede «ci può lasciare soli un attimo? Grazie.»

Il P.M. esce.

Petraz ragguaglia Rebecca sugli sviluppi che la vicenda ha avuto mentre lei era via. «Ascolta, quelli del poligono, per non far cadere colpe sul ragazzino che ti ha lasciata erroneamente entrare consegnandoti anche la pistola, volevano sostenere che non eri mai stata da loro. Ovviamente l’eventualità non avrebbe giocato a nostro favore, sarebbe stato difficile dimostrare i residui da sparo sulla tua pelle. Siccome per il registro accessi hai dato il nome di quel tuo amico, quel Paganin, Perozzi l’ha contattato tramite i tuoi genitori e lui ha già testimoniato che era con te, in ditta lo hanno già segnato assente per quel pomeriggio. Poi Mario ha parlato con quelli del poligono e, dopo averli pure pagati, hanno confermato che il pomeriggio che sei andata da sola in realtà eri con Paganin Mauro. Quindi è tutto ok. Sei entrata regolarmente come ospite accompagnata anche la seconda volta. Quelli del poligono hanno già testimoniato che sei stata là tutte e due le volte così come ha testimoniato Paganin. A questo aggiungi che i carabinieri hanno fatto lo stub troppo tardi e non possono pertanto stabilire con certezza un bel niente. Anche le analisi sul sangue rinvenuto nella Renault 4, su cui gli inquirenti nutrivano serie speranze di inchiodarti, hanno rivelato che appartengono a Phasianus Colchicus e Lepus Europaeus.»

«Cioè?»

«Sangue secco di lepri e fagiani, le prede cacciate dall’amico di tuo padre che vi ha regalato quella vecchia auto. Capisci? Non hanno prove, la convocazione di oggi si sta rivelando un mero tentativo per innervosirti e sperare in qualche tuo o falso. Respira profondamente e stai tranquilla, non possono trattenerci qui ancora per molto, non con questi elementi.»

Rientra il P.M. «Ebbene? Eravamo rimasti ai depistaggi che sta tentando separandosi dal cellulare. Cos’ha da dire in merito?»

Rebecca risponde ormai rinfrancata dalle parole del suo avvocato. «Vede, a causa di questa faccenda ho perso il lavoro in banca e forse la possibilità di trovarne un’altro, di questi tempi immagino lei sappia cosa possa significare. Inoltre anche la mia reputazione nella cerchia di conoscenze vacilla. Di conseguenza la mia vita è sottosopra dal punto di vista economico, familiare e sociale. Dopo che è uscito il mio nome sul giornale, ho iniziato a ricevere messaggi e telefonate da chiunque. E’ normale che non voglia vedere né sentire nessuno, non trova? Non se ne starebbe anche lei in clausura per un po’?»

Il P.M. sembra convinto e li congeda.

Appena usciti, Rebecca si scaglia contro Petraz. «Brutto stronzo, avresti dovuto aggiornarmi prima, o no? Hai obbligato anche i miei genitori e Mauro a tacermi questi ultimi sviluppi. Non credo sia stata una loro iniziativa!»

Petraz replica. «Hei, se ti preparavo in anticipo non saresti stata così emotiva, così toccante, così…deprimente. Era questo l’obiettivo. Guarda che gli hai fatto pena. Sembra averti creduta.»

«Io non ne sono tanto sicura. Potrebbe essere una tattica, fare lo gnorri come il tenente Colombo.»

I due sono ormai giunti sul pavè fuori dal tribunale e Petraz si è già lasciato alle

spalle l’incontro col P.M. «Che ne dici di un caffè assieme, tesoro? Offro io.»

Rebecca ne ha ormai abbastanza e prende le distanze dall’avvocato. «Intanto ricominciamo a darci del lei, mi sembra più indicato! E no, grazie, non vorrei dovermi sdebitare di nuovo col mio corpo. Inoltre, visto che le mie quotazioni sono salite vertiginosamente negli ultimi tempi e visto quanto poco si è impegnato sinora, è lei a questo punto ad essere in debito con me!»

Petraz si smarca laconico, «che caratterino! Comunque, riguardo alle sue quotazioni, Mario mi ha accennato qualcosa del suo nuovo…ehm…lavoro. La ammiro, sul serio. E’ tosta a rimanere in piedi in un momento come questo.»

Rebecca lo saluta risoluta, «e faccia l’impossibile per togliermi dai piedi gli sbirri e quel dannato P.M.»

Metà giornata se ne è ormai andata e Mauro non si è ancora fatto sentire, Rebecca non osa chiamarlo e teme di averlo perso definitivamente. L’unico aspetto che la solleva è il fatto di aver smesso finalmente di nascondergli la verità. Non meritava di essere preso ancora in giro. E pensare che ha anche testimoniato per me...

Trrr trrr trrr. Le vibrazioni del telefonino la distolgono dai suoi pensieri. E’ Perozzi. La vuole incontrare per pranzo e aggiornarla sulle sue indagini. Su indicazione di Perozzi si trovano in un agriturismo fuori mano dalle parti di Cividale. “Amici miei, così potremo evitare commenti e domande indiscrete sul tuo conto”.

A tavola lei gli racconta della puntatina a Montecastello prima di partire per la

Croazia e della strana, a suo dire, reazione del frate interpellato.

«Se non sapessi quanto sto per raccontarti, e che ti ho solo anticipato via e-mail, direi che tutto sommato il frate potrebbe aver cercato di allontanarti avendoti reputata una mezza pazza oppure, trovandosi a tu per tu con una potenziale killer potrebbe essersi spaventato, ma io so qualcos’altro e quanto mi hai appena raccontato potrebbe in qualche modo dare corpo all’unico appiglio di cui al momento disponiamo.»

«Sono tutt’orecchi.»

«Come ti ho scritto, mi sono messo all’opera indagando sui trascorsi della signora De Dietrich, azioni, relazioni, cavandone inizialmente ben poco. In paese ho contattato parucchiera, palestra e centro estetico: gli unici posti che pare frequentasse. Non aveva un’amica fidata o cose del genere, tutti mi hanno riferito che era molto riservata e che a Manzano si faceva vedere poco, privilegiando altre cerchie non meglio precisate. Comunque sia, tutti la reputavano una signora ineccepibile, a modo, e nessuno si capacita tuttora dell’omicidio. Alla fin fine però avevano di lei una conoscenza poco più che superficiale. Tuttavia, una costante che è uscita nei discorsi in più di un’occasione è che col marito non andava molto d’accordo ma nessuno ha saputo dirmi se lei intrattenesse relazioni extraconiugali, come è notorio avesse invece il marito.» Rebecca ripensa alla episodica relazione tra Lorraine e suo padre mentre Perozzi prosegue, «a quel punto avrei dovuto scavare più a fondo, risalire ad esempio a chi ne curava gli interessi, capire se era coinvolta o meno nelle attività del marito e così via, però le poche fonti che avevo trovato al di fuori di Manzano si erano inaridite portandomi pertanto al capolinea. Ho dovuto per forza di cose espormi in prima persona e andare nella tana del leone.»

«Quindi hai avvicinato il signor De Dietrich?»

«Mi sono degradato alla mia vecchia funzione e mi sono spacciato per promotore della Walser Privatbank AG.»

«Ma sei pazzo! Con tutti i soldi che ha quello, figurati se non li aveva già sparpagliati in giro per tutte le banche del Friuli, compresa la Walser.»

«Mi prendi per scemo, piccola? Ovvio che prima ho controllato. Stranamente non era e non è cliente della banca, nessun promotore lo ha in portafoglio. Insomma, ho concordato un appuntamento, ci siamo visti e gli ho parlato dei nostri prodotti di investimento. Al termine dell’incontro non si era rivelato granchè entusiasta visto che a suo dire aveva già valutato le nostre linee due anni fa e pensava avessi delle novità “più creative”.»

«Tutto qui?»

«Calma, era per stabilire un primo contatto. Mica potevo andare lì e chiedergli “come mai tua moglie è stata assassinata?” Comunque all’inizio del colloquio, essendo l’omicidio una notizia di dominio pubblico, gli ho espresso le condoglianze ma non ha tradito nessun tipo di reazione particolare. Anzi, è parso quasi seccato per quell’accenno.»

Rebecca sbuffa.

«Aspetta, ora viene il bello. Siccome ho scoperto che dalle vostre parti è arcinota la sua inclinazione per correre dietro alle gonnelle, ho capito qual’era il tasto da schiacciare per strappargli qualche confidenza. Indagando un po’ in giro mi hanno riferito che frequenta anche posti, diciamo, a me molto affini. Così mi sono fatto casualmente trovare in uno di quei locali equivoci di cui, tra l’altro, ho

pure la tessera “platinum”: La Cocotte a Villach, in Austria. Un locale a metà tra bordello e centro benessere con saune Effe kappa kappa.»

«Mi hai tradita con qualche Svetlana o Inga?»

«Dài sciocca, è stato solo sesso senza amore. Comunque, per farla breve, nelle pause relax tra un round e l’altro, il cameratismo tra puttanieri è scattato facilmente. Abbiamo ripreso a parlare di fatturati e investimenti, di politica e di troppe tasse in Italia, per poi accennare ad un grosso affare che lui sta perfezionando nell’est Europa, in una non ben precisata zona in forte crescita. Presupponendo a quel punto che fosse interessato a sistemi per trasferire capitali all’estero e ovviamente per mantenere vivace la conversazione, gli ho fatto capire, visto che eravamo fuori da ambienti istituzionali, che oltre ai classici prodotti finanziari della banca potevo proporgli anche altri canali blindatissimi e collaudatissimi per poter espatriare e ripulire soldi non dichiarati al fisco italiano.»

«Mi stupisce la tua intraprendenza!»

«Ha abbozzato un mezzo sorriso e ha detto “allora fra qualche mese ne potremo riparlare”, dato che al momento non aveva molto nero che gli avanzava. A quel punto ho fatto io un mezzo sorriso sarcastico.»

«Infatti! Come fa uno che traffica con immobili su diverse piazze ad affermare di essere a corto di nero?»

«Brava! Candidamente mi ha confidato, “non faccio una bella figura a dirglielo, ma tutto sommato la perdita di mia moglie non è stata poi un male. Negli ultimi

tempi si era messa a inghiottire gran parte dei miei fondi esentasse. Ma ora è finita”. Ha colto sospetto nel mio sguardo e ha precisato subito che se pensavo a lui come a un uxoricida, lo erano anche le autorità investigative. Ha sostenuto di essere sereno dichiarandosi innocente ed estraneo ai fatti, poi ha aggiunto “sembra che sia stata una squilibrata del paese. Il destino me l’ha mandata”.»

«Mi ha dato della squilibrata e omicida?»

«Non prenderla così. L’affermazione aveva infastidito anche me ma non potevo certo reggere le tue parti, è stato tutto funzionale al dopo. Approfittando dell’inaspettata loquacità, l’ho incalzato e gli ho chiesto cosa se ne fe la moglie dei suoi fondi non dichiarati. Mi ha detto che quei soldi li offriva come elargizione ai frati di Montecastello. “Era molto religiosa e molto devota alla Vergine Nera.”»

«Della sua “devozione” conosco alcuni dettagli, ma credo siano irrilevanti ai fini di questo discorso.»

«Gli ho chiesto di che cifre stavamo parlando e lui mi ha risposto “per fortuna solo qualche milione”, con il tono di chi parla di briciole. La vicenda iniziava ad incuriosirmi troppo per non baluginargli che, per quanto filantropica potesse essere una persona assennata, non darebbe mai tutti quei soldi a dei frati, sotto ci doveva essere per forza qualcosa, le elargizioni dovevano rappresentare una evidente copertura.»

«Anche secondo me! Vai avanti!» lo esorta Rebecca ormai apionata alla vicenda, prima di rivolgersi al commis di sala, «il dolce, per favore!»

Perozzi prosegue, «ha detto che all’inizio anche lui era certo che la moglie nascondesse qualcosa, l’ha seguita più volte personalmente con tutte le precauzioni necessarie per non farsi beccare. Lei partiva da casa con cinquanta o anche centomila Euro infilati nelle buste della spesa. Andava direttamente dai frati senza fermarsi da nessuna parte. “La vedevo scendere dal SUV ed entrare nel monastero con le borse. Poi tornava sul Mercedes e veniva a casa. Ho pensato che fosse uno scaltro tentativo di depistaggio e nascondesse i soldi nel SUV per portarli da qualche altra parte il giorno dopo, e che quindi le buste che scaricava dai frati erano prive di sostanza.»

«Molto probabile direi,» commenta Rebecca lustrando il piattino in cui le hanno appena servito una deliziosa fetta di torta pere e cioccolato.

«De Dietrich si è portato dietro la chiave di scorta del Mercedes ML della moglie più di una volta, vi ha rovistato mentre lei era all’interno del monastero. I soldi non c’erano, quindi li versava a loro veramente.»

«Possibile? Che condotta strana. Ma poi scusa, perché lui le dava soldi, così tanti soldi?»

«Non ho voluto spingermi oltre, rischiavo di risultare troppo interessato alla moglie. Ma si potrebbe ipotizzare che si fosse instaurato un tacito accordo. Lei accetta le sue scappatelle in cambio dei soldi.»

«Non mi convince del tutto. E’ lampante che se al primo che trova, come sei stato tu, gli racconta per filo e per segno questa storiella, vuol dire che si sente sicuro e inattaccabile. Oppure potrebbe essere un grande bluff, sparge questa voce affinchè arrivi agli inquirenti in modo da togliersi i sospetti di dosso. Comunque mi consola sapere che non sono l’unica indiziata. Ma tu gli credi?»

«Non lo so. Tante volte però la voce dell’osteria, o del bordello in questo caso, è la verità. Comunque ora sappiamo che probabilmente o, se decidiamo di credere a De Dietrich, sicuramente, Lorraine portava denaro in contanti a Montecastello e che quindi quando tu pensavi di aver fatto la figura della pazza con quel frate, forse non era del tutto così.»

«Sarà. Tornando invece ad argomenti più spicci, secondo me Petraz sta battendo la fiacca. Avrebbe già dovuto riuscire ad escogitare qualcosa per togliermi dall’elenco dei sospettati. Invece…»

«Ha la situazione sotto controllo, non preoccuparti, si è mosso bene. Non possiamo pretendere che si metta ad indagare in prima persona, nel suo ruolo non può.»

«Nell’interrogatorio di questa mattina ho appreso che gli inquirenti suppongono che fossimo in due sulla scena del delitto, e che io abbia fatto in qualche modo da palo. Quelli lavorano di fantasia e chissà a breve cosa si inventeranno. Dobbiamo fermarli al più presto, non voglio finire al gabbio coi miei genitori che bivaccano in parlatorio perché non hanno più la casa.»

«D’accordo. Ora però rispolveriamo le sane vecchie abitudini.»

«Ma hai sempre gli ormoni in agitazione? Sei monotono!»

«Senti, io non me ne intendo molto di chimica e di neuroni, però so che dopo una bella cavalcata il mio fisico e la mia mente stanno bene per un po’. Non

sento più ansie, stress, preoccupazioni. Mi rende dolce la vita per qualche istante. Tutto qui. Il mio problema è ormai diventato come impegnare il tempo fra un orgasmo e l’altro. Pago il conto e andiamo a casa mia. In banca mi sono già preso il pomeriggio libero.»

«Vengo solo per riprendermi i bagagli che ho dimenticato nella tua auto dopo il ritorno dalla Croazia.»

Una volta entrati nell’appartamento, Perozzi si spiaccica la mano in fronte. «Porca miseria, mi sono scordato di fermarmi al bancomat.»

Rebecca lo osserva stupita e, prima che lei possa dire qualcosa, Perozzi la zittisce «non dire niente, ci metto poco, tu rimani qui ad aspettarmi.»

«Posso almeno farmi una doccia nel frattempo? La Renault, senza climatizzatore, era una sauna.»

«Certo, fai pure. I tuoi bagagli sono in quella stanza.»

Dopo venti minuti Rebecca esce dal bagno con addosso l’accappatoio e una nuvola di aromi zuccherosi, gradevole effetto collaterale del bagnoschiuma Aquolina allo zabaione.

Perozzi rientra subito dopo e le consegna una busta gonfia.

«Anche questi soldi rientrano nelle tue logiche di sottomissione da cui trai piacere?»

«Vedo che inizi a capirmi. Come ho già cercato di spiegarti, pagare la donna che poi mi maltratterà acuisce il senso di inferiorità, di sentirmi un oggetto nelle mani della mia padrona. E’ un potentissimo catalizzatore che amplifica prepotentemente a livello mentale tutte le sensazioni. Dolore e piacere fisico sono ben poca cosa se non vengono associati a impacci e gratificazioni cerebrali.»

Rebecca lo interrompe. «Che strana cosa sono il piacere e il dolore, sembra che ognuno di loro segua sempre il suo contrario e che tutti e due non vogliano mai trovarsi insieme nella stessa persona.»

«Però più disagio provi prima, più soddisfazione provi dopo.»

«Purtroppo è vero anche il contrario: più piacere provi prima, più dolore provi dopo. Alla fine di un’intensa vacanza trascorsa al mare tra spiagge e feste sfrenate, ti assale un’angustia terribile al solo pensiero che tutto stia per finire.» Poi, ricordandosi del libro su Socrate e i suoi discepoli letto alle superiori, aggiunge «e come dice Socrate massaggiandosi la caviglia indolenzita quando gli staccano la catena per portarlo a bere la cicuta: “Mentre prima, sotto il peso della catena, nella mia gamba c’era solo il dolore, ecco che già sento, dietro di lui, sopraggiungere il piacere.”»

Dopo una mezz’ora, Perozzi fissa il bianco del soffitto considerando a voce alta, «adoro stropicciare lenzuola immacolate e inamidate.» Rebecca, meno propensa a osservazioni e commenti taglia corto illustrando a Perozzi la proposta di Vicky per il Montenegro.

Perozzi si rizza seduto con una certa agitazione sbottando, «e con Boris come la metto? Tenterà in tutti i modi di rintracciarmi. Si era prefissato degli obiettivi con il tuo apporto e ti aspetta di nuovo. Mi pianterà il muso per tutta la vita!»

«Inventati una balla, digli che non ero abituata a quelle sessioni usuranti e mi è venuta qualche infiammazione, lo scolo, oppure il tetano per via del piercing praticatomi da Maxim il macellaio…veditela tu. Io ormai ho deciso.»

«Ragazza mia, la faccenda sta diventando molto impegnativa anche per me, mi sto sbilanciando troppo su più fronti…» Rebecca interrompe le sue scusanti. «Ti sei vantato di volermi insegnare a pescare, che tu sei onesto e che non mi dai la pappa pronta. Ora che ho trovato un torrente più grosso, se sei coerente, dovresti incitarmi verso quella direzione. Hai anche detto che il piacere che ti ho procurato è superiore al dispiacere che tu mi hai dato e che volevi sdebitarti. Dov’è il galantuomo di cui hai cianciato di essere? Ti prego, coprimi.»

Perozzi dubbioso si gratta il mento per alcuni secondi rimirando nel contempo quei teneri occhietti da cerbiatta inquieta, allarga la fronte e la rassicura. «Ho già capito, te me costi come i muri de Cattaro.»

Rebecca aggrotta lo sguardo non cogliendo il significato di quelle parole. Perozzi la illumina. «Cattaro è un’antica e affascinante città del Montenegro. Nei primi del millequattrocento fu sottomessa a Venezia che la fortificò con possenti mura in modo da difenderla dagli assalti nemici. La Serenissima spese una follia in denaro e vite umane per costruire quegli imponenti baluardi, al punto che ancor oggi quando un veneziano sta per impegnare importanti risorse in denaro o in relazioni personali esclama “te me costi come i muri de Cattaro”.»

«Questi veneziani, avevano la fissa delle mura. Quindi dopo Cividale me le ritroverò in Montenegro, mi sembrerà di stare a casa.»

«Più o meno…quelle di Cividale sono una versione molto ridotta. Perdonami invece la curiosità, ce l’hai il aporto?»

«Certo, da quando sono stata a Mosca.»

Rebecca, dopo aver ottenuto l’indispensabile appoggio di Perozzi, si dedica subito a organizzare l’imminente trasferta. Prenota il primo volo libero per il Montenegro in partenza tre giorni dopo da Lubiana. Con una SIM slovena avvisa Vicky tramite SMS: Arrivo giovedì, ore 13.

La risposta non si fa attendere per molto: Grande! Ti serviranno delle foto, fattele lì così risparmiamo tempo. I ricconi che arrivano da queste parti sono abituati a cercarsi le ragazze quando stanno ancora in mare aperto. Quasi tutti frequentano un paio di siti web locali con annunci di escort. Belle foto, mi raccomando!

Ai genitori Rebecca spiega, senza scendere nei dettagli per non allarmarli troppo, che ritornerà via. «Dopotutto la trasferta ha reso e l’ambiente è sicuro.»

Dopo cena si presenta Mauro. Le dice che ci ha pensato su, che ha pianto per una giornata intera ma alla fine la perdona, che ha capito le sue motivazioni e se proprio non c’era un’altra strada le condivide, suo malgrado. Ha ragionato che per aiutarla non può fare molto ma se le serve qualcosa lui è disponibile. «Facendoti sapere questo, spero di toglierti almeno un peso, visto che ne hai già parecchi.» Rebecca è piacevolmente stupita da quella dimostrazione di

sensibilità. Pensava che non si sarebbe più fatto vivo vista l’enorme delusione che lei gli aveva procurato. Mauro è un fiume in piena e prosegue con un tremito nella voce, «comunque, se era iniziata una storia tra noi, non si può dire che sia ancora in piedi. Non tanto per il fatto che tu sia indagata, ti ho già detto che credo alla tua innocenza. Non mi va giù invece il fatto di avermi chiuso fuori, anche se forse eri costretta, dalle faccende col tuo capo e della Croazia. Mi sento tradito in tutti i sensi. Da amico mi sto sforzando di accettare questo fiele, ma non puoi chiedermi di arci sopra anche dentro una storia tra noi due.»

Rebecca ci tiene a precisare che la sera in cui sono saltati dal muretto sulla riva del Natisone a Cividale, non era ancora successo niente alla sua vita e vorrebbe poter fare una magia per ripartire da quel momento.

Si separano funerei consapevoli che l’incanto tra loro si è rotto definitivamente.

30

La mattina successiva Rebecca ha diverse ore libere davanti a sé. Alla luce del resoconto di Perozzi non si dà pace sul vero o presunto rapporto tra la signora De Dietrich e il monastero di Montecastello, così ci va di nuovo. Durante il tragitto chiama Perozzi chiedendogli di raccatarle un fotografo per le foto da inviare a Vicky. Giunta al santuario intercetta speranzosa alcuni frati che all’udire “Lorraine De Dietrich” si dileguano in velocità senza degnarla di attenzione, il classico muro di gomma.

Scoraggiata, ridiscende verso il parcheggio per recuperare l’auto. Il tragitto è obbligato: una stretta viuzza pedonale su cui si affacciano da ambo i lati edifici contigui, tutti di proprietà della congrega gesuita. Mentre cammina, Rebecca si distrae leggendo le insegne al di sopra delle vetrine e dei portali: negozietti di souvenirs, corone del Santo Rosario, cartoline, trattorie, acquasantiere, foresterie…Quanto potrà rendere in una domenica questa stradina assaltata dai fedeli? E tra l’altro questi monaci non spendono neppure un Euro in pubblicità. Tutto guadagno. Potenza del marketing della fede!

Lo sguardo si posa poi sull’unica porta senza insegne commerciali, solo una semplice targa in marmo riportante una citazione dal Vangelo di Marco: “Venite in disparte e riposatevi un po’ ”. Da dietro le sue spalle sopraggiungono silenti due monaci incappucciati, uno a destra e uno a sinistra, la cingono di sorpresa sottobraccio obbligandola a forza a cogliere l’invito dell’evangelista spingendola dentro la stanza per le meditazioni. Sèrrano la porta, una mano grande e forte le tampona la bocca mentre le altre la costringono su un inginocchiatoio in corrispondenza di una grata nel muro. Oltre la grata, un altro cappuccio scandisce con una decisione che non ammette repliche, «si è già fatta vedere troppo da queste parti. Se ha cara la vita terrena, se ne vada!» Le morse che la bloccavano allentano la presa e Rebecca, spaventata a morte, scappa correndo. Recupera la Renault 4 e in pochi minuti divora la discesa verso Cividale tagliando le curve come in una cronoscalata. La Madonna Nera, o il fato, la

tengono in carreggiata evitando scontri frontali.

Nel pomeriggio, nel tentativo di distrarsi, Rebecca dà una mano a suo padre nelle serre. Nell’andirivieni spostando cassette e bancali, si ferma per qualche istante di fronte alla copia della Madonna Nera e in cuor suo le chiede aiuto, poi si volge verso l’arcangelo Michele vittorioso sul diavolo confidando anche in un suo guizzo per districare la matassa: come posso allontanare i sospetti di omicidio? Cosa centra Lorraine con Montecastello? Se lo scopro forse riesco a scagionarmi.

Con una BMW Z4 decapottabile piomba nel parcheggio Alberto Milano, l’agente immobiliare. Si ripresenta da Giordano incravattato e ben pettinato con la storia del già prospettato affare del saldo e stralcio. «Ho già un probabile acquirente. Firmatemi un impegno e lo porto qui. E’ un affare per tutti. A voi piace fare affari, no? A tutti piace fare affari! Come dice? C’è qualche problema? No no, nessun problema. Io sono per togliere gli ostacoli e concludere le trattative. Firmi qui, signor Carinci.»

Scorgendo Giordano in difficoltà, Pacciani, che era chino a rinvasare alcune piantine, si avvicina a loro ciondolando la sua stazza, una vanga e la luna storta. Alberto Milano lo nota ma non gli bada finchè lo stuzzicadenti al margine della bocca di Pacciani non si trova a una spanna dal suo naso, così interrompe la tiritera con Giordano e interroga il Compagno di Merende con aria infastidita e spocchiosa, nonostante questi lo sovrasti di buoni venti centimetri, «e lei cosa vorrebbe? Non vede che sto lavorando?» Il Compagno di Merende non lo degna di risposta, con una mano sola lo alza brandendo nell’altra la vanga. Lo sorregge fino in prossimità della Z4, lo solleva ulteriormente oltre lo sportello mollandolo nell’abitacolo. Alberto Milano mette in moto e sgomma via.

In serata un SMS di Perozzi avvisa Rebecca che ha trovato il fotografo. Mi dicono sia bravo per il genere che serve a te. Non ha però una sala di posa, ti presto il mio appartamento. Troverai la chiave sotto lo zerbino. Vi trovate

domani alle 10. Buonanotte piccola.

31

La mattina seguente, Rebecca gironzola per l’appartamento di Perozzi indossando con disinvoltura solo un paio di parigine Philippe Matignon in lycra antracite, trucco seduttore e le unghie decorate con il Nail Art Kit di Pupa. Il fotografo sta ultimando di posizionare luci, stativi, fondali e ombrelli argentati. Dopo le prime pose la avvicina toccandola, spostandola e incitandola affinchè appaia più provocante.

Rebecca, che si era già prefigurata le inquadrature e le espressioni da assumere, sa già di essere abbondantemente sensuale. Comprende che si tratta di una maldestra messinscena del furbacchione per tentare un approccio, così lo scosta con fermezza esclamando «non è il caso!»

Il dritto, credendo di avere a che fare con una sciacquetta alle prese con il primo book da presentare a una qualche pseudo-agenzia di moda, prova con la carta del «ho dei contatti molto importanti a Milano,» allungando oltre misura le mani. Rebecca gli molla un violento ceffone allontanandolo immediatamente. Azzanna sempre! Poi lo pietrifica. «Risparmiati queste millanterie per farti gratis le aspiranti modelle. Giochiamo a carte scoperte: queste foto mi servono per entrare in un giro di accompagnatrici d’alto bordo per imprenditori e allibratori di mezzo mondo. Io conosco realmente persone influenti e facoltose, tu no. Fai il tuo lavoro alla svelta e vedi di rendermi voluttuosa e lussuriosa. A fine lavoro, se vuoi venire a letto con me, non ci sono problemi. Duemila Euro sull’unghia e ti sfianco per una notte intera. Dato che il servizio fotografico costa trecento, con mille e sette te la cavi e visto che sono magnanima puoi anche offrirmi la cena. Casualmente ho la serata libera e una valigetta zeppa di giocattoli e pozioni magiche. Che ne dici, giovanotto?»

Il ragazzotto, con la coda tra le gambe, si mette all’opera trasformandosi nel

professionista dei professionisti superando sé stesso. Nelle due chiacchiere scambiate al termine del servizio, mentre masterizza il DVD con le JPEG, si lascia andare alle confidenze rivelando quello che realmente è: un fotografo di still-life e matrimoni come ce ne sono tanti. Le credenziali tanto decantate da Perozzi si concretizzano unicamente nel fatto che, nel tentativo di farsi un nome e di arrotondare le entrate per pagare con più facilità le bollette a fine mese, ha da poco iniziato a realizzare book fotografici hot per mogli che tentano di ringalluzzire il rapporto coi rispettivi mariti, smaniose di far vedere quanto possano risultare ancora sexy e provocanti ad anni di distanza dal fatidico “sì”.

32

Il giovedì mattina, di buon’ora, Perozzi accompagna Rebecca a Lubiana. «Sei contenta di prendere l’aereo, questa volta?»

«Molto, in traghetto per Hvar è stata dura, oggi però ci sono ottocento chilometri e fortunatamente sarebbe stato improponibile replicare.»

Durante il tragitto, Rebecca gli racconta quanto le è capitato due giorni prima a Montecastello.

Perozzi considera, «se quelli si scaldano non appena nomini Lorraine, possiamo star ormai certi che ci sia sotto qualcosa. I discorsi di De Dietrich potrebbero non essere quindi così campati in aria come credevamo.»

«Inizia a diventare una seria pista da battere.»

«Il difficile a questo punto è capire come muoversi per ottenere informazioni.»

Aeroporto “Jože Pučnik” di Lubiana. Nell’area check-in Mario e Rebecca si separano. Le operazioni di imbarco si svolgono senza intoppi e Rebecca decolla all’orario previsto. Per i primi venti minuti di volo se ne sta appiccicata con il naso sull’oblò a contemplare l’Adriatico, la linea costiera e le isolette che diventano sempre più piccole. Tra di esse riconosce Sansego e Lussino, si ricorda i cinque giorni di vacanza in canoa dell’estate precedente con quegli

sbruffoni dell’università. Pagaiare in mare si rivelò una noia mortale benchè i suoi compagni fossero persuasi che stessero vivendo un’avventura estrema, speravano tra l’altro che da quei perigli lei cercasse rifugio nei loro sacchi a pelo. Si ricordò, sorridendo, della condizione che lei aveva posto: prima facciamo una bella discesa in fiume, poi con chi sopravvive possiamo riparlarne. Andò a finire che una settimana dopo organizzarono una gita sul fiume Soča. Una volta imbarcati a Boveč, tutti si ribaltarono dopo le prime rapide sgusciando a riva tremanti per il freddo e la strizza, nessuno di loro ebbe il coraggio di riprendere la canoa per terminare il percorso. Rebecca rimase sola a pagaiare completando il tratto prefissato e li ritrovò solo un paio d’ore più tardi, ebbri di birra nel tempio della Union in centro a Boveč. Tutti cagasotto i ragazzi di oggi, si depilano troppo, si mettono la crema idratante e usano locuzioni come “buona vita!”

Dopo circa un’ora e mezza, il Boeing 737 inizia le fasi di atterraggio in prossimità di Tivat, aeroporto principale del Montenegro. Rebecca osserva dall’alto lo spettacolo delle “Bocche di Cattaro” e ne rimane estasiata.

Prima di ricominciare a combattere nel mondo esterno, lascia scorrere l’ammasso di gente che si accalca verso la scaletta, godendosi per ancora qualche istante la protezione dei morbidi sedili avvolti dalla fusoliera. Oltre l’oblò, i primi a scendere sono i eggeri della prima classe. Le viene un mezzo colpo riconoscendo fra di loro il signor De Dietrich, inconfondibile con quei baffi e il viso butterato dal vaiolo, come Stalin. Chissà cosa ci fa qui. Vicky diceva che il Montenegro è diventato una sorta di paradiso fiscale in fortissima espansione, una zona franca dove condurre affari e traffici di ogni genere, comprese le speculazioni immobiliari. Forse sarà qui per quel motivo, si tratterà dell’investimento “all’est” di cui aveva accennato a Mario. D’altronde i soldi fanno i soldi e non posso biasimarlo. Rebecca decide comunque di girargli alla larga per non farsi notare.

Recuperato il bagaglio, intravede nel parcheggio la chioma riccioluta di Vicky ondeggiare al vento alla guida di una Chevrolet Camaro Convertibile, nera con i

cerchi cromati e la capote abbassata.

«Qui per tenerti alte le quotazioni devi farti notare! Non illuderti comunque, l’ho noleggiata, si guadagna moltissimo ma non così tanto da raggranellare abbastanza denaro in pochi giorni da poter buttare quarantacinquemila Euro in una macchina. Anche tu dovrai prenderti qualcosa. Considerato il rapporto costibenefici, direi che il gioco vale la candela.» Rebecca noleggia il suo sogno di vettura: una Porsche Boxter. Sportiva, aggressiva, piccolina, a sua misura e tutto sommato non un desiderio irrealizzabile per un ipotetico acquisto. Il classico sogno di una ragazza con i piedi ben piantati a terra.

Vicky consiglia a Rebecca di risparmiare al massimo sull’alloggio. «Basta una branda a buon mercato, tanto ci ospitano sempre in albergo o sugli yacht. Approposito, mi ricordo del tuo problema col mal di mare, puoi star tranquilla perchè raramente le barche prendono il largo con noi sopra, quindi il tuo stomaco è salvo. Sei venuta benissimo nelle foto che mi hai inviato, complimenti al fotografo. Ho già pubblicato gli annunci per te e, se te la senti, avresti già un paio di richieste per questa sera. Ah, se ti accontenti, ho un posto libero nella stanza che mi sono presa. Andiamo a darle un’occhiata.»

Ritagliatasi un momento di privacy, Rebecca accende il BlackBerry con l’intenzione di scrivere un’e-mail a Perozzi per avvisarlo dell’avvistamento di De Dietrich, nel mentre si accorge di un’e-mail di Mario appena scaricata. La apre, applica la chiave PGP per decriptarla: De Dietrich era sull’aereo. Lo sapevo, te lo stavo scrivendo! pensa tra sé. Il resoconto di Perozzi prosegue: Mi ha visto! Dev’essersi insospettito alquanto. Appena atterrato ha telefonato alla Walser senza chiamare me direttamente (gli avevo lasciato il mio numero diretto) e si è informato su che ruolo ricoprissi in banca. Poi mi ha immediatamente chiamato sul telefonino quando io ero ancora all’oscuro della sua telefonata in banca. Si è mosso troppo velocemente, dannazione! All’aeroporto io non l’avevo notato, altrimenti mi sarei tutelato in qualche modo. Chi va a pensare che ce lo becchiamo lì? Insomma ha chiamato me e mi ha chiesto spiegazioni, ha fatto la voce grossa, mi ha chiesto a che gioco sto

giocando, anzi stiamo giocando. Urlava che mi ha visto con la ragazza che dicono abbia ucciso sua moglie e che se pensiamo di incastrarlo ci sbagliamo di grosso. Ha anche aggiunto che me la farà pagare. Sono un po’ preoccupato, soprattutto per te che sei lì. Non ho capito se poi lui ti abbia vista salire sull’aereo, ma temo di sì. Guardati le spalle! Sarebbe meglio che tu ritornassi indietro immediatamente.

Rebecca è un po’ sconvolta. Riesce a malapena ad abbozzare una risposta: Ok vedo di organizzarmi… quando irrompe nella camera Vicky per condurla all’aperitivo in cui conosceranno i polli della serata. Rebecca pigia “criptatura” e “invio” mentre tenta di contenere quel ciclone che volteggia su un paio di sandali pitonati tacco dodici. «Senti, forse ho un problema…»

Vicky la interrompe brusca, «non pensare al tuo ragazzo, ti avrà scritto che gli manchi ma sarà già con un’altra, fìdati. Andiamo a farti sistemare questi capelli, cambiamo acconciatura che ’stasera devi essere al top!»

Rebecca rientra in camera alle sei del mattino. Prima di addormentarsi scrive a Perozzi: mi sono appena guadagnata duemilacinquecento Euro. Da qui non mi muovo solo perché un palazzinaro ci ha minacciati. Ciao Mario. PS: non ho mai visto bere così tanto come i russi di questa notte. Neanche se fosse stata acqua pura sarei riuscita a bere tutta quella vodka in poche ore.

Poi Rebecca si perde tra nottate e pomeriggi a bordo di Pershing, Sanlorenzo e Ferretti battenti bandiere di Panama, Isole Vergini Britanniche, Turks e Caicos e altri staterelli dalla clemente imposizione fiscale. Dorme poco e in spiaggia non è ancora riuscita ad andare a correre.

Una mattina, Vicky rientra in camera lamentandosi di come gli italiani siano cafoni, bruti e violenti. Descrive a Rebecca il tipo con cui ha trascorso la nottata.

«Mi ha fatto male. Merde! Cattivo e sgradevole, con i baffi ispidi e la pelle butterata!»

«Butterata dal vaiolo, come Stalin,» aggiunge Rebecca certa che, viste le evidenti corrispondenze, si tratti di De Dietrich. «Ma non mi hai insegnato tu ad azzannare? Non lo hai messo al suo posto?»

«Quello mi avrebbe conciata peggio, se avessi reagito. Continuava a ripetere “sei fuori dai confini di ogni legalità, con quello che ti pago devi solo soccombere!”»

Rebecca aggrotta la fronte. Che persona orribile, la moglie viene ammazzata e lui se ne va in giro per l’Europa a sodomizzare puttane.

33

Perozzi dovrebbe recarsi a Montecastello per tentare di scoprire qualcosa. Sotto sotto ha un po’ paura così, dopo essere rimasto tutto il pomeriggio del sabato ad accumulare coraggio presso il monastero di San Giorgio in Vado a Cividale contemplando l’affresco raffigurante l’assassinio dell’arcivescovo di Canterbury, sceglie la domenica per attuare il proposito di salire a Montecastello. Nelle festività c’è molta più gente e dovrei rappresentare un bersaglio meno vulnerabile. Dopo aver abbandonato l’auto nell’ampio piazzale adibito a parcheggio, si mescola ai fedeli che salgono la stretta viuzza pedonale che conduce al complesso gesuita. Coppie in età, famigliole, famigliole con i nonni, nipoti che fanno i carini col nonnetto. Un signore davanti a Perozzi mormora alla moglie «sai perchè quei ragazzi fanno tante moine al nonnetto?» La moglie scuote la testa e il marito sussurra sarcastico «perchè dopo la Messa andranno a pranzo fuori e il conto si pagherà con la pensione del tanto caro nonnetto e, se avanzerà qualcosa, forse allungherà loro anche una mancia.» La moglie scocca una gomitata al marito affinchè si contenga. Perozzi, poco permeabile al sensus fidei data la sua missione battagliera, si sgancia dal serpente dei fedeli diretti al santuario mariano virando verso il monastero. Mentalmente ria la parte che si era preparato nel pomeriggio precedente contemplando l’affresco in San Giorgio in Vado. Inspira, soffia, inspira, soffia, spalanca gli occhi spiritati e si scaglia su tutte le furie contro la guardiola, voleva dare l’impressione di essere proprio i cavalieri di Enrico II che vanno ad asse l’arcivescovo Thomas Becket nella cattedrale di Canterbury, come si narra ne “L’assassinio nella cattedrale” di Thomas Stearns Elliot. Perozzi, spacciandosi per il padre di Rebecca, monta un putiferio contro i frati, scuote vigorosamente le sbarre del parlatorio, sbraita che gli hanno minacciato e spaventato la figlia, pretende di parlare col priore. I due frati nella guardiola si adombrano diventando sfingi egizie e Perozzi urla ancora più forte. «Che fine hanno fatto i soldi di De Dietrich? Lorraine è stata uccisa e mia figlia incriminata. Se la condannano sarete colpevoli anche voi. Ditemi cosa sapete! Dovete per forza sapere qualcosa!» Dei due cappucci nella guardiola uno ne è scappato direttamente nel chiostro. La guardiola è in pietra e l’apertura è protetta da grosse sbarre in ferro, quindi impenetrabile. Il portone che dà sul chiostro è chiuso col catenaccio e Perozzi non può forzarne l’apertura anche se lo sta scuotendo vigorosamente.

Nel chiostro intravede molti cappucci schierati ma nessuno si fa avanti, nessuno dice niente. La situazione è surreale. Perozzi si aspettava almeno una reazione come avevano fatto con Rebecca, invece trova solo un corazzatissimo muro di gomma. Ridiscende fino al parcheggio con le pive nel sacco. In mezzo all’andirivieni della gente nessun frate l’ha seguito, però sulla maniglia dello sportello della Mercedes trova un bigliettino firmato “FRATE BUONO” che gli indica il nome del commercialista di Lorraine, lo studio del dottor Fidelio Bernetti. Prova su quella strada, qui tutti noi dobbiamo tacere. Non farti più vedere a Montecastello, sei stato sconsiderato a comportarti così, ti hanno individuato e ora sei in una situazione pericolosissima, guardati le spalle. Io stesso, per questo mio gesto, sono in pericolo di vita se venissi scoperto.

Perozzi è spaventato ma si sforza di tenere i nervi saldi. Rincasa e comunica la novità a Rebecca, informandola che si metterà sulle tracce di questo fantomatico studio e vedrà il da farsi.

34

Trascorrono i giorni, Rebecca è immersa ormai in una ripetitiva routine fino ad un pomeriggio in cui la contatta un americano, un certo Janus. La vuole per il giorno successivo in un orario insolito: dalle otto del mattino alle quattordici. Lei non sarebbe libera poichè in quelle ore dorme, visto che rincasa sempre tardissimo. La voce al telefono, che tradisce un leggero accento russo, le offre una cifra considerevole, tale da permetterle di rinunciare a lavorare la sera precedente. L’americano le comunica le coordinate a cui recarsi: un numero di pontile nel Porto Montenegro, il marina principale di Tivat.

La mattina seguente, a bordo della Porsche noleggiata, Rebecca si presenta puntuale. In quella zona del porto non trova lussuosi yatch a motore, solo tanti stuzzicadenti tesi verso l’alto, gli alberi delle barche a vela. Al numero indicato adocchia uno scafo palesemente fresco di cantiere, sul mascone di sinistra c’è scritto “Solaris 37”. Probabilmente sarà il modello, ipotizza Rebecca. L’appuntamento è dunque su una barca a vela. Rebecca si porta in prossimità della erella e mentre legge sullo specchio di poppa il nome dell’imbarcazione, “King Lear”, un uomo alto, tonico e dalla testa rasata sta dirimendo cime e sacche. Rebecca congeda il marinaio che servizievole le ha trascinato fin lì il trolley e attira l’attenzione dell’uomo sulla barca. Fra sé pensa già di aver preso una fregatura.

L’uomo si avvicina con fare spiccio. Sembra un po’ strano, barba incolta di trequattro giorni e addome coperto da un folto ma ordinato strato di peli scuri. Indossa solamente un paio di boxer da bagno e scarpette tecniche con suole bianche.

Lei è abituata ad essere ricevuta in pompa magna, invece questo filibustiere la fa salire con un cenno del capo. Poi, indicandole il tambugio, la invia sottocoperta a

sistemare la propria roba e le intima di tornare in coperta in costume. Rebecca sfila così tra i due timoni e scende l’angusta scaletta abbracciando il trolley e imprecando mentalmente contro quel tizio che si sta comportando da vero cafone non offrendosi di aiutarla. In quel frangente l’uomo, senza distogliersi dalla sua attività, le anticipa asciutto «lì sotto troverai delle rose che non hanno bisogno di acqua fresca.»

Sottocoperta Rebecca prende confidenza con gli interni della barca, posa il bagaglio e individua subito sul tavolino del carteggio una busta bianca con su scritto “un mazzo di rose senza spine per te”. La dedica è firmata da “Janus”. Sarà un nome di copertura, ipotizza Rebecca contando nella busta il denaro pattuito e mettendosi subito il cuore in pace. Mentre si cambia, scorge attraverso gli oblò della tuga i piedi di Janus che si spostano avanti e indietro, sembra molto indaffarato ad armare le vele. Rebecca risale e l’uomo le raccomanda di infilarsi le scarpette tecniche da barca per non scivolare o peggio impigliare accidentalmente le dita dei piedi negli stralli. Si è preso lui il disturbo di compragliene un paio, immaginando che lei non le avesse portate o non sapesse di doversene dotare. Rebecca le sta ancora rimirando sorprendendosi di come le calzino a pennello quando lui, risoluto, le chiede aiuto per finire di armare la barca. Rebecca è scocciata ma anche incuriosita da quell’atteggiamento. Sbuffa e mormora malcontento per saggiare fin dove quel tipo sia disposto a spingersi. Janus la trafigge con occhi glaciali, puntandola. «Sciocca! Non solo ti ho pagata profumatamente, ma ti sto anche offrendo l’opportunità di imparare qualcosa. Non scambiare il mio comportamento per scortesia visto che ti sto insegnando come si vive in barca e, tra poco, come si manovrano vele e timone.»

«Ma perché, usciamo in mare?»

«Secondo te perché ti ho chiesto un appuntamento così presto? Guarda che bella giornata, il mare è calmo, non c’è il sole cocente d’agosto, si sta levando la brezza, è una giornata perfetta per esplorare le bocche di Cattaro. Scommetto che da quando sei qui non ti hanno mai portata fuori.» Rebecca ammette che gli yatch che la ospitano rimangono sempre attraccati, tuttavia non si sente molto al

sicuro uscendo da sola in mare con quel tizio. Lui avverte la titubanza e la rassicura, «avvisa qualcuno se vuoi. Alle quattordici saremo di nuovo in porto e saprai manovrare un po’ questo giocattolo. Sei libera ovviamente di andartene ora, in tal caso mi restituisci i soldi e le scarpe.»

Rebecca scende sottocoperta a imbottirsi di antiemetici. Decide di concedersi la mini crociera tenendosi l’ingaggio e augurandosi di ritornare sana e salva e sopratutto di non vomitare troppo per il mal di mare. Risale sulla tolda. «Ci sto, però mi dài il timone appena ti è possibile, anche se non ho mai condotto una barca a vela.»

Una volta usciti dal marina con l’ausilio del motore entrobordo, Janus istruisce Rebecca su come issare le vele mentre lui rimane al timone per facilitarle le manovre tenendo la barca al vento. Dopodichè si dirigono verso nord. Una fresca e stabile brezza proveniente da terra permette loro di procedere al traverso. Il display elettronico sull’albero indica una docile andatura di otto nodi.

Janus frappone Rebecca fra sé e il timone, dimostrando di rispettare i patti. L’antiemetico fa il suo dovere e Rebecca riesce a godersi il paesaggio senza pensare al suo stomaco. Piegano a est entrando nella gola che immette nell’ampia baia di Cattaro, il più grande porto naturale dell’Adriatico. Rebecca è incantata: attraversata la gola, si apre davanti a loro un piccolo e placido mare circondato da insenature e montagnette ripidissime. Laggiù, in mezzo alla baia, sembrano esserci delle isolette e tutt’intorno sulle alture si affacciano piccole città. Vorebbe spingere la barca sottocosta, poi al largo, poi di nuovo vicino alle insenature. Un panorama spettacolare impossibile da racchiudere tutto con un unico sguardo. Il vento apparente le socchiude gli occhi e le accarezza la pelle. Con il timone in mano il mal di mare si è definitivamente inabissato. Janus è indaffaratissimo a governare le vele visto che Rebecca vira in continuazione. Lei si diverte. Lui è rapito da quel sorriso vitale. Per qualche istante non esistono più i problemi di Giordano, le accuse di omicidio, i soldi che non bastano, quel lavoro degradante, l’impotenza di fronte ad una vita non scelta ma forse imposta dal destino.

Janus vuole riposare e le propone di attraccare all’isola di San Giorgio per una sosta veloce.

Finalmente, ancora un po’ e avrei vomitato. Quelle medicine hanno un effetto troppo limitato.

Ammirano sulla costa verso est i tetti e le casette di Perasto. In pochi minuti hanno completato a piedi il periplo della microscopica isola quando Rebecca si tuffa improvvisamente e nuota per raggiungere l’isoletta di fronte, la Madonna dello Scalpello. Speriamo che nuotando mi i il mal di mare.

Janus non può far altro che tuffarsi a sua volta e seguirla. Le due isole sono separate da un braccio di mare di circa centocinquanta metri. Essendo mare navigabile, è una mezza follia buttarsi così, visto che è difficile poi farsi notare dalle barche in transito, soprattutto a motore. Janus tiene queste considerazioni per sé visto che Rebecca è ormai partita per la tangente come una puledra irrequieta. Visitano velocemente anche la seconda isola. Rebecca è ritornata bambina, corre, guarda, osserva, annusa, contempla, ammira e si rituffa in acqua. Janus sorride divertito, si lascia incantare da quella sponateneità tipica di chi si lascia andare senza pensieri. Ritornano in barca e Rebecca, per sicurezza, ingurgita ancora dell’antiemetico. Si dirigono verso sud, verso il fondo della baia, verso la città di Cattaro. Janus riprende il timone e assegna a Rebecca il governo delle vele. Giunti in vista della destinazione, Janus ordina di ammainare per poi calare l’ancora in rada.

Il corpo abbronzato dell’americano è un fascio di nervi flessuosi e tonici che la cingono. Occhi profondi, forza, virilità e un misurato grado di prepotenza sorprendono Rebecca nel sentirsi oltremodo coinvolta. Non le era mai capitato con i clienti. Rebecca gode, Janus non se ne stupisce, anzi sorride tra sé pensando che è la prima volta che paga per andare con una donna, fortuna che il

denaro utilizzato non è suo.

Riprendono la rotta e attraccano a Cattaro. Sono ormai ate le dodici e Janus le offre il pranzo in un ristorantino con ampia terrazza sul mare. Mentre Rebecca è impegnata nello spaccare e ripulire le chele con la caratteristica punta nera del granchio porro, Janus le illustra per sommi capi la storia di Cattaro-Kotor e della sua baia, soggetta negli anni alle influenze di Roma, dei bosniaci, dei serbi, dei genovesi, degli ungheresi, dei turchi, dei ragusani e soprattutto dei tira e molla con Venezia. «Qui l’influenza latina e occidentale è così forte che si respira ancora oggi, a differenza degli stati circostanti caduti sotto le zampe degli Ottomani.»

Un nuovo avventore, seguendo il maître che lo accompagna al posto assegnato, sfila vicino al loro tavolo. «Signorina Carinci, che sorpresa! Sapevo che non lavorava più in banca, ma non che stesse facendo la bella vita in villeggiatura.»

Rebecca riconosce quel tizio dalle fattezze di un nano allungato, un ormai excollega incontrato sempre di sfuggita nei corridoi della Walser, uno dell’area investimenti immobiliari. Lo liquida velocemente. Janus si aggancia garbatamente alla divagazione e, in maniera molto astuta, indirizza la conversazione chiedendole informazioni personali. Rebecca, allarmata dallo sconfinamento, glissa affermando solamente di non lavorare più in banca in quanto si annoiava e guadagnava pochissimo. Le mie difese erano quasi crollate, diamine! C’è mancato poco che mi mettessi a raccontargli le mie storie. Si tratta pur sempre di un cliente sconosciuto che in teoria, data la lontananza e il contesto, non c’entra niente con i suoi problemi, ma qualche sentore la mantiene in allerta.

Il pranzo è andato un po’ per le lunghe, ormai per le quattordici non riusciranno ad essere di ritorno a Tivat. Rebecca non avrebbe appuntamenti nel pomeriggio, il prossimo è alle diciannove per un aperitivo con Vicky e due clienti che hanno prenotato il pacchetto completo. Tuttavia Rebecca ha un tariffario e

un’immagine che la chiamano a fare la sostenuta. Mentre lei rimostra la sua seccatura sottolineando la preziosità del proprio tempo, Janus armeggia per la prima volta con un telefonino comparso da chissà dove. Rebecca scorge l’aggeggio. Diamine! Prima mi sono distratta e il mio è rimasto in barca. In breve Janus fa sparire il telefono e, pacato, le ribatte «un po’ di tempo lo abbiamo perso a causa dei tuoi capricci per fare un pericoloso bagno fra le due isole, comunque non c’è problema: sono le tredici e trenta, potrei pagare un taxi e farti ritornare in quindici minuti a Tivat lungo la strada interna. Però sarebbe un vero peccato essere arrivati fin qui e non visitare la cinta muraria dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Non trovi?»

Rebecca considera che, tutto sommato, fino a quel momento la gita le è piaciuta molto e si concede la proroga. «Ok, vada per la cultura.»

Le rughe sulla fronte di Janus si distendono in un sorriso. «Hai fatto la scelta giusta. Chissà quando avrai la possibilità di ritornare fin qui.»

Percorrono gli oltre quattro chilometri di mura fino al bastione di San Giovanni da cui si ha un panorama completo della città e del golfo. Te me costi come i muri de Cattaro. Rebecca, al cospetto di quello straordinario colpo d’occhio, comprende finalmente il significato della battuta di Perozzi sull’esosità di quei baluardi. Effettivamente squadrare e posizionare tutte quelle pietre a picco sul mare e poi su verso la collina, deve aver rappresentato un impegno veramente gravoso per le popolazioni dell’epoca. Rebecca è indecisa se si possa oggettivamente equiparare quell’immane sforzo di secoli prima alle incombenze assunte nei suoi riguardi da Perozzi, come aveva considerato lui citando quella frase in veneziano.

Janus la richiama al presente. «Che dici, ne valeva la pena vero?»

«E’ fantastico, avevi ragione.»

Ritornano in barca. Rebecca si aspetta di doversi concedere una seconda volta, invece Janus si mette immediatamente in rotta per Tivat. Navigano senza soste sui dodici nodi e in poco tempo attraccano al pontile di partenza. Janus le allunga delle banconote. «Sei stata un bravo mozzo ed è giusto ricompensarti per gli straordinari.» Rebecca non vorrebbe accettare, tutto sommato quell’uomo l’ha trattata benissimo, l’ha già pagata tanto oltre ad averle fatto da guida in barca e fuori. Però i soldi le servono, li agguanta e ringraziandolo lo bacia sulla guancia domandandogli a bruciapelo «dov’è l’orecchino?» sfiorandogli nel contempo il buco all’orecchio sinistro.

Janus, colto di sorpresa, indietreggia esitando un istante, quel tanto che basta a Rebecca per capire di averlo messo in difficoltà: quel tipo lei l’ha già visto, ma non riesce a ricordare dove. Ora è certa che le stia nascondendo qualcosa.

Janus si inventa una scusa. «In barca non porto mai monili e simili, possono diventare molto lesivi nel caso scivolassi o peggio mi beccassi il boma in faccia.»

Rebecca gira sui tacchi. «Dasvidanija.»

«Dasvidanija,» risponde Janus mordendosi istantaneamente il labbro per aver risposto nella sua madrelingua.

Appena Rebecca è fuori dal campo visivo, accanto al russo americano ancora ammaliato da quell’angelo con gli occhi da cerbiatta, compare una mulatta. «Jan! Va tutto bene? Ti ha riconosciuto?»

«No, non credo. Anche se fosse, mi può aver visto una sola volta in un contesto totalmente diverso. Non potrebbe significarle assolutamente niente. Tanto, quello che ci serviva lo abbiamo già recuperato, vero? Ti è bastato il tempo extra che mi hai chiesto all’ora di pranzo?»

«In realtà no, dannazione. L’unico dispositivo di contatto che aveva nel bagaglio era un BlackBerry, una volta byato il facile codice d’accesso però, ho trovato solo una fitta corrispondeza di e-mail, nessuna telefonata, nessun messaggio.»

«Beh ma le e-mail saranno più che sufficienti, che dicevano?»

«Criptate, con un chiave a doppia cifratura asimmetrica a centoventotto bit. Incorruttibile in così poco tempo! Non sono nemmeno riuscita, per il momento, a risalire al suo interlocutore che si nasconde dietro qualche proxy server oltre il Sudafrica.»

Janus aggiorna immediatamente qualcuno parlando in russo nel telefonino. «Come sapete, la ragazza e il signor De Dietrich sono arrivati con lo stesso aereo, si sono subito divisi e fino ad ora non si sono mai incontrati. Per vederci chiaro, oggi ho stabilito un contatto con la ragazza che, come sospettavo, è molto scaltra e non si è lasciata sfuggire granchè. La copertura è che sia qui per farsi un po’ di soldi, pare che non stia cercando informazioni sugli affari della signora Lorraine. Se fosse vero, lei e il signor De Dietrich potrebbero essere capitati qui insieme per pura coincidenza. Tuttavia c’è da approfondire su quanto abbiamo intercettato: comunica con qualcuno tramite e-mail criptate. Tanto anonimato è forse dovuto al fatto che, come già sappiamo, è indagata dalla polizia italiana per l’omicidio della signora De Dietrich e gli investigatori potrebbero non gradire le sue gite tra Croazia e Montenegro, oppure nasconde qualcos’altro che dobbiamo scoprire. In conclusione comunque, non credo che l’abbia uccisa lei, non me la

vedo come spietata killer ma potrebbe rappresentare il gancio che cercavamo per risalire ai mandanti e al materiale che ci manca. La ragazza si ferma qui ancora. Io mi rimetto immediatamente alle costole di De Dietrich che rientra questa sera in Italia. Janine rimane a Tivat a pedinare la ragazza, oggi le ha installato un software nel telefonino che ci inoltrerà silenziosamente tutte le comunicazioni e si è già messa all’opera per decifrare il tutto.»

35

Perozzi frattanto, dopo aver associato i probabili fondi neri gestiti dalla donna assassinata al minaccioso mutismo dei frati e al messaggio di “frate buono”, in pochi giorni è riuscito a intercettare e corrompere uno stretto collaboratore di Fidelio Bernetti, il commercialista della signora Lorraine De Dietrich.

Con una luculliana cena impinguata da vitello alla griglia insaporito da mostarda di Digione e innaffiata da bue apis del duemilauno, dopo alcuni trattamenti integrali a La Cocotte di Villach e una cospicua mazzetta, Perozzi scuce al collaboratore del dottor Bernetti che la povera Lorraine aveva degli strani movimenti di denaro su un conto cifrato in una filiale della USB a Zugo, in Svizzera. Decide di andarci per tentare di ricostruirne la tela finanziaria, approfittando di sue conoscenze nel campo economico, ex-colleghi milanesi emigrati nella patria del segreto bancario attratti da maggiori retribuzioni. Aggiorna Rebecca. Mi sto organizzando per andare a Zugo nei prossimi giorni, Lorraine aveva aperto un conto là e di solito si aprono conti in Svizzera se hai qualcosa da nascondere al fisco italiano, oppure se hai qualche traffico losco.

Rebecca commenta tra sé: Bravo Mario, direi che in qualche modo stai riscattando tutte le bassezze a cui mi hai costretta.

Rebecca apprende poi da Internet che Zugo è un paesino incastonato tra laghi e montagne a mezz’ora da Zurigo e che la banca USB viene ogni tanto coinvolta in situazioni poco trasparenti. Il traffico generato dalla ricerca via browser non è criptato. Janine fa il suo dovere inoltrando ai suoi superiori la notizia di quelle singolari ricerche.

36

Mauro, con alcuni colleghi, si trova a lavorare nella sede della ditta di De Dietrich per installare un impianto fotovoltaico. Tracciando una nuova linea elettrica, attraversa l’ufficio di una delle segretarie. Bionda mechata, con occhi e sopracciglia scurissimi, la classica aria stonata da bionda finta.

Per ristorarsi dalla cocente delusione inflittagli dalla ragazza che amava profondamente, Mauro sente di non dovere più niente, almeno per un periodo, al genere femminile. Ultimamente, pertanto, se la sta sando provandoci un po’ con tutte. Deborah, così ha letto sulla targhetta, è tutto sommato attraente. Mauro aspetta che lei concluda una telefonata di lavoro per approcciare goffamente accennando alla disgrazia occorsa alla signora Lorraine, la moglie del capo. Deborah, imbarazzata da quell’allusione, lo esorta ad abbassare la voce in quanto il signor De Dietrich potrebbe rientrare da un momento all’altro e non gradisce si parli di quell’argomento. Mauro, rotto ormai il ghiaccio, si butta in maniera sfacciata. Le chiede dei locali che frequenta, preferenze e atempi. Deborah dapprima sta sulle difensive. Mauro, spavaldo, continua coprendola di complimenti. Lei, sistemandosi la pettinatura leggermente scombinata dalla cornetta del telefono che reggeva fino ad un attimo prima, si lascia andare a qualche chiacchiera rivelando inavvertitamente al contempo una evidente ecchimosi al polso. Dopo brevi scambi di battute tra i due, irrompe De Dietrich che se la porta via per pranzo.

Perozzi scrive a Rebecca: Petraz ti vuole qui, dice che il PM ti ha nuovamente convocata, sembra qualcosa di serio. Mercoledì prossimo devi essere in tribunale. Organizzati per rientrare martedì al più tardi. Vorrei venire io a Lubiana a prenderti, ma proprio martedì parto per Milano per poi trasferirmi a Zugo come ti avevo accennato.

La sera successiva, sabato, Rebecca è preoccupata perché almeno una volta al giorno Perozzi le scrive. Nonostante da qualche ora lei gli abbia inviato un messaggio di sollecito, Perozzi non le ha ancora risposto.

Mauro e Luca fanno una sortita nel locale frequentato da Deborah. La trovano con alcune sue amiche. I due gruppi interagiscono. Deborah si dimostra interessata a Mauro. Lei esce dal locale per una sigaretta con le amiche. Lui, pur non essendo fumatore, la segue. Rientrano, assecondano la musica fino a strusciarsi, il desiderio è palpabilmente reciproco. D’un tratto Deborah si rabbuia e nell’acme dell’intesa scappa via con una scusa banale.

37

Domenica mattina. Rebecca riceve un resoconto da Perozzi: Scusami se mi sono eclissato, ero impegnato e agitato e sono rimasto intontito da qualche diavoleria chimica. Ieri mi ha chiamato di nuovo De Dietrich, arrabbiato. Aveva appena scoperto che Lanzafame si era dato molto da fare per appianare la faccenda dei fidi di tuo padre. Rimane un mistero il perché questa cosa gli abbia dato ai nervi e come abbia fatto a collegare Lanzafame a me. Ha detto che ho esagerato e che me la farà pagare cara e che questa volta non scherza.

Io inizio ad avere paura anche perché, da quando sono salito a Montecastello a inveire contro i frati, ricevo a orari casuali almeno una telefonata anonima al giorno: rispondo e dall’altra parte non dicono niente. Ieri non sapevo più come calmarmi, cosa fare per non uscire di testa. Mi sono messo perfino a scrivere cose assurde tipo un diario, pensa, era da quando ero alle superiori che non scrivevo qualcosa di introspettivo.

Dobbiamo fare l’impossibile per uscire da questa specie di incubo o ce ne andremo di testa tutti e due.

Rebecca prova a infondergli fiducia rispondendogli che ce la faranno e di non fare sciocchezze o cose avventate. Comunque, se non te la senti di prenderti ulteriori rischi, lascia perdere, non preoccuparti, mi rendo conto della situazione. Rispondimi oggi stesso, fammi sapere che stai bene, che non ti sei imbottito nuovamente di farmaci.

38

Il lunedì seguente, Mauro, con la sua squadra di elettricisti, riprende il lavoro da De Dietrich. Deborah, dalla sua postazione di lavoro, lo scorge sfrecciare nel corridoio carico di attrezzature. Lo saluta impacciata, scusandosi per come sia andata via dal locale il sabato sera. «Non è colpa tua, ti trovo fantastico, eri perfetto, anch’io avevo una gran voglia di te. Sono stata una stupida, scusami.»

Mauro, appoggiatosi allo stipite, cerca di metterla a suo agio rassicurandola che non è successo niente di grave. «Stai serena, dopotutto ci conosciamo da pochissimo, non me la sono presa se non ti sentivi pronta.»

Quel bel ragazzotto la sta rincuorando trattandola come una bimbetta, come una sorella minore che si affaccia agli assilli della pubertà. Deborah scoppia in un’incontrollata risata isterica, al punto che si sente in dovere di giustificarsi, di non are per un’inguaribile zitella o per un’adolescente immatura. Sottovoce gli intima di entrare. Mauro sbircia nel corridoio per poi avanzare furtivo evitando di essere visto da un collega intento ad assemblare un trabattello.

Deborah sussurra, «è che, vedi, io sarei…l’amante del signor De Dietrich.»

Mauro la fissa sbalordito.

«Una delle amanti,» precisa subito Deborah, mentre Mauro accosta la porta dietro di sè, «e se stai con De Dietrich non puoi stare con nessun altro. Questi sono i patti. E’ un pazzo, possessivo, viziato, maniaco sessuale. Una sua amante non può avere relazioni amorose o peggio ancora rapporti sessuali con altri.»

«Perchè?» chiede ingenuamente Mauro, ormai orientato a considerare la serata inconcludente del sabato come un regalo piuttosto che una sciagura.

«Perché mi vuole sempre vogliosa e disponibile, sempre pronta e assatanata. Se ne accorge se fingi, si arrabbia, te lo assicuro,» mostrando, questa volta volontariamente, l’ecchimosi al polso. «Devo essere perfetta e precisissima sul lavoro. Pretende tantissimo. Faccio straordinari su straordinari e poi devo concedermi quando vuole lui. Ovviamente lui può andare con le altre senza preavviso e senza preavviso viene a cercarmi, cosìcchè io non possa organizzarmi per delle scappatelle. Capisci perché sono fuggita? Oddio come mi vergogno, il tuo sguardo di comione mi fa sentire una scema.» Mauro mantiene l’espressione inebetìta e Deborah prosegue, «che io sappia ha almeno altre due ragazze che tratta da amanti e che sono, presumo, nella mia stessa condizione. Ogni tanto mi parla di loro per farmi ingelosire. Ero sempre riuscita a controllarmi ma con te è stato diverso. Sei così diverso, stavo per capitolarti ai piedi. E’ che lui vuole esercitare il suo potere, vuole sentirsi padrone, non gli basta possederti o dominarti, vuole imporsi, sottometterti, tiranneggiare, soprattutto psicologicamente. E una volta iniziato, diventa una discesa agli inferi.»

«Una sorta di catàbasi,» sintetizza Mauro.

«Eh?»

«Lascia perdere...»

«L’unica che gli teneva testa era la povera signora Lorraine.»

Mauro, infastidito da quella quantità di assurdità, domanda senza far caso all’accenno alla donna assassinata, «ma perché accetti tutto questo? Perché diavolo non te ne vai?»

«Con quello che mi paga? Contratto a tempo indeterminato, milletrecento Euro al mese più tredicesima e quattordicesima, scarpe, borse, vestiti, qualche gioiello, parrucchiera ogni settimana.»

«Ma sei impazzita? Ti sei ridotta ad essere la sua schiava! Non lo denunci? Temi forse di perdere questi risibili privilegi?»

«Non è solo una questione di privilegi, risibili o meno. Ci ho pensato su, cosa credi, ma ho paura. Lui è cattivissimo, spietato. Pensa che un giorno di pochi mesi fa, per punire sua moglie di non so quale sgarro, mi ha portata a cena nella sua villa, a tavola con lei e senza averla avvisata. Lei sospettava già della nostra relazione e lui ha voluto darle lo smacco. Io ero mortificata per me e per la moglie. Sono stata usata, anche perché mai avrei immaginato di trovarmela lì. Non sapevo come comportarmi. In quel momento ero un oggetto che serviva a lui per umiliare la moglie. Lei andò in bestia. Gli disse, “non solo vai a dilapidare patrimoni nei night, non solo sperperi soldi per portarti a letto le segretarie e tutte le ragazzine che ti capitano a tiro come i tuoi amici industrialotti, ora hai anche il coraggio di presentarti a cena con una delle tue puttanelle!” Lui sbottò “io dilapido i soldi? Vogliamo allora parlare delle tue cospicue e sospette elemosine ai frati? Sai cosa ti dico? D’ora in poi ti impedirò di portargli un solo centesimo. Ti taglio i viveri!” Doveva averla punta sul vivo perché lei non ci vide più, lo coprì di ingiurie e a mo’ di rivalsa iniziò a deriderlo che anche lei lo aveva tradito. Aggiunse caustica, “magari una sola volta ma è stato divino in confronto a te.” Non l’avesse mai detto. Lui, offeso nell’orgoglio, forse anche perché quella frecciata era stata scoccata di fronte a una terza persona che per giunta era al corrente delle sue defaillances in assenza di pilloline, le saltò addosso come una tigre indiana e la schiacciò sul tappeto costringendola a confessare. Ho dovuto sorbirmi tutta la scena.»

Mauro la interrompe. «Senti, non voglio saperne di più. Ho capito che qui siete tutti fuori di testa, io cerco di finire in fretta i collegamenti qua fuori e me ne torno sul tetto che mi aspettano.»

«No, fermo, tu penserai che sono una squilibrata, ma se mi lasci finire il racconto non mi prenderai tanto per pazza quanto per una che vive nel terrore, e lo preferirei. Dunque dicevo che è saltato addosso alla signora, lei cercava di divincolarsi e lui la strattonava e la schiaffeggiava sempre più forte. Lei si mise a urlare di lasciarla, lui urlava per farsi dire con chi l’avesse tradita. In quel trambusto io non sapevo cosa fare, mi ero annullata su una sedia in stato di shock. Lei riuscì a sgusciare via e lui le sfilò il tappeto da sotto i piedi facendola rovinare contro l’acquario che si rovesciò inondando il salone. Di nuovo a terra smise di urlare impaurita. Io temevo il peggio. Da come lei si spaventò, non dev’essere stata una lite usuale, anzi, era sicurmente la prima volta che succedeva una cosa del genere tra loro. Lei gli confessò con chi lo aveva tradito, precisando che era successo diversi anni prima, garantiva che poi si era pentita e che non l’aveva più rifatto, si trattò dell’unica volta. Giurò sulla Madonna di Montecastello. Lui offese tutte le Madonne e tutti i Santi. Poi si mise a berciare contro di lei che nonostante andasse tanto in chiesa lo aveva tradito, per di più con un pezzente che coltiva frutti di bosco. Che si fosse almeno scelta uno altolocato, che lo avesse fatto per qualcosa in cambio. Uscendo di casa la minacciò di non dire niente a nessuno, giurandogli che a quel poveretto, lui ha usato un altro termine, l’avrebbe fatta pagare di brutto, che lo avrebbe rovinato. Di me si era completamente dimenticato abbandonandomi là. Non sapevo cosa fare. Ero la persona peggiore che potesse offrire aiuto alla signora, ma mi feci coraggio e le chiesi se stesse bene. Lei si fece forza, si rialzò e in un attimo ritornò la maschera altèra e sicura di sé che tutti conoscono. Dal tappeto raccolse i pesci agonizzanti, li mise in una bacinella d’acqua e me la ficcò in braccio pregandomi di averne cura, disse che nell’acquario li avrebbe sostituiti con qualcosa di inerte visto che non c’era più amore in quella casa. Siccome sapeva che non abito a Manzano, mi offrì il aggio in ditta per riprendermi l’auto e dovetti evidentemente accettare. Lungo il tragitto feci il possibile per appiattirmi sulla tappezzeria del sedile senza fiatare per non spandere l’acqua della bacinella. Lei non parlò.»

«Una bella sceneggiata, non c’è che dire, ma non giustifica il fatto che tu te ne stia a subire in silenzio.»

«Aspetta, non conosci ancora il seguito. Il giorno dopo il signor De Dietrich mi portò in una sua casa al mare, era ancora arrabbiato e per calmarsi mi volle diverse volte. Nelle pause mi obbligava a sorbirmi a ripetizione un breve spezzone di un film di Pasolini, mentre lui, De Dietrich, telefonava a destra e a manca chiedendo informazioni su quel povero malcapitato dei frutti di bosco, di che vita fe, del patrimonio e delle attività finanziarie. Appena scoprì con quale banca intratteneva i rapporti, si mise a fare altre telefonate e a ordinare di chiudergli i rubinetti, di farlo fallire. Ordinava con astio: “revocategli i fidi! Deve fallire!”. Poi concordò un appuntamento per il giorno seguente per discuterne i dettagli di persona. A fine mattinata mi fece render conto del compito che mi aveva imposto con quel dannato spezzone di film, “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”. Mi aveva obbligata a mandare a memoria per poi recitargli la frase detta dal duca alle ragazze e ai ragazzi ammassati e denudati davanti a lui: “Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morte!”» Deborah ha gli occhi umidi e con voce tremolante prosegue, «da quella volta in poi, quando ci congediamo, devo recitare la stessa frase mentre lui si riveste ridacchiando per avermi usata e umiliata di nuovo. Per sentito dire, so che quel signore che gli ha messo le corna non se la sta ando bene proprio a causa di De Dietrich. Lui è uno potente. Non posso mettermi contro ed è meglio che tu mi stia alla larga, non voglio che tu abbia delle conseguenze. Non lo meriti.»

In quello stesso giorno Rebecca si trova su uno yatch battente bandiera cipriota insieme ad una dozzina di ragazze ingaggiate per un nude party. Per forza di cose, quindi, l’imbarcazione incrocia al largo. E’ la prima volta, dopo la gita in vela con quel finto americano, che esco in mare aperto. C’è musica a tutto volume e le ragazze ancheggiano lanciando gridolini. Rebecca, imbottita di antiemetico, si adegua. Le sembra di essere in un video musicale di un

tormentone estivo. Ci sono le oche mechate, la musica, il mare, la barca di lusso e gli uomini incatenati d’oro. L’unica differenza è che al posto dei pervertiti rapper neri muscolosi ci sono dei panzoni intrallazzoni bulgari.

Rebecca è molto preoccupata perché Mario non si è fatto sentire né la sera prima né quella mattina stessa. Decide così di estraniarsi dal gruppo ed entra in cabina a controllare la posta elettronica. Il programma sta scaricando un messaggio. Rebecca si rasserena. Mario sta bene! L’ e-mail si è scaricata completamente nel dispositivo, Rebecca è trepidante per leggerne il contenuto, avvia PGP per decriptarla. Nel mentre, irrompe fra schiamazzi e risatine una delle ragazze avvisando Rebecca che uno dei bulgari ha chiesto di lei. L’oca starnazzante inciampa e, per aggrapparsi da qualche parte, rovescia il drink sul BlackBerry di Rebecca. Qualche sfrigolìo e si leva l’odore acre di circuiti elettrici cotti. Lo schermo è nero come la pece. Andato. Il messaggio è scaricato dal server remoto ed è rimasto imprigionato in quell’aggeggio che probabilmente non si riaccenderà più. Rebecca cerca di mantenere la calma. Se mi ha scritto significa che sta bene, domani comunque sarò in Italia per via della convocazione in tribunale, avrò il mio telefonino e potrò chiamarlo.

39

Rebecca rientra in Italia nel pomeriggio del giorno successivo. L’attende l’ormai consueta mesta scena dei suoi genitori che, abbracciandola, ricevono un pacco di soldi senza la forza di guardarla negli occhi per non bagnarla di lacrime.

Recupera il cellulare e contatta Mario, il telefono risulta non raggiungibile. Forse l’ha spento essendo oltre confine, mi richiamerà lui. Gli invia un SMS. Contatta l’avvocato Petraz per avvisarlo dell’avvenuto rientro e per conoscere le motivazioni del nuovo interrogatorio. «Non me lo vogliono dire. Sono solo riuscito a capire che nutrono ancora forti sospetti su di te.»

«Sai qualcosa di Mario?»

«Non ci davamo del lei?»

«Sì, scusami, sono scombussolata. Sono in pensiero per lui, so che ha dei problemi, non lo sento da due giorni e al cellulare non risponde.»

Petraz le comunica che anche lui l’ha sentito per l’ultima volta al telefono due giorni prima. «L’ho chiamato domenica pomeriggio per uscire ma mi ha detto che non stava bene. Poi so che doveva organizzare una trasferta, credo partisse oggi, così non l’ho più disturbato.»

Rebecca ricontatta Mario, il telefono è sempre spento.

Chiama Mauro augurandosi che le belle parole che le aveva detto corrispondano a realtà, che cioè lui voglia starle vicino almeno come amico e che l’ha perdonata. Ha bisogno di conforto, teme che sia successo qualcosa a Mario e non ha più riferimenti. Ci tiene a rivedere almeno Mauro. Sospira. E’ proprio un peccato che le cose siano andate male tra noi due. Si danno appuntamento per la serata.

Per tentare di riconquistarne la fiducia e ottenere la sua indulgenza plenaria, gioca la carta della comione. Gli spiega meglio, scendendo in dettagli su cui aveva sorvolato la notte del flamenco, dei problemi economici di suo padre, delle serre e della casa all’asta, confidandogli di Lanzafame e della strategia, finita poi su un binario morto, per trovare un accordo con la banca. Lo aggiorna anche sulla nuova convocazione per un ulteriore interrogatorio in tribunale aggiungendo anche la preoccupazione per il silenzio di Mario.

Mauro subisce confuso. Nonostante le ferite brucino ancora, si sta quasi convincendo di essere stato forse troppo intransigente ed ingiusto con lei. Mentre valuta l’eventualità di rimangiarsi qualcosa, gli riaffiorano alla mente le rivelazioni di Deborah a cui immediatamente collega l’inefficace tentativo di ristrutturare il debito di Giordano appena riferito da Rebecca. La mette così al corrente facendole esclamare concitata «Mauro sei grande, i tasselli iniziano ad andare a posto!» Gli racconta della fugace parentesi tra suo padre e Lorraine. «E’ tutto chiaro! De Dietrich scopre il tradimento della moglie, accecato dall’ira e esasperato dai suoi salassi finanziari la fa eliminare. Nel frattempo organizza anche l’eliminazione, solo finanziaria in questo caso, di mio padre.»

Mauro osserva, «ma perché sarebbe andato a raccontare a Perozzi che la moglie portava soldi a Montecastello? Rappresenterebbe un movente bello e buono per eliminarla, oltre all’altro movente per lo svelato tradimento di lei. Inoltre, ammettendo di avere dei fondi neri, si è esposto molto con il tuo ex-capo. E gli ha anche confidato di essere indagato.»

«La circostanza che sia indagato per omicidio è trapelata proprio ieri sulla stampa, era solo questione di giorni e lui lo sapeva, prima o poi viene fuori che uno è indagato. Parlare dei fondi neri può esser stato un momento di debolezza, anche se sarebbe uno scoprire l’acqua calda visto che in certi settori l’evasione fiscale è considerata un must se non addirittura uno status. In ogni caso il suo interlocutore, Perozzi, avrebbe avuto tutto l’interesse, agli occhi di De Dietrich, a tenere per sé l’informazione di quel gruzzoletto che poteva trasformarsi in lauta provvigione per Mario quale mediatore in una ipotetica transazione. Per l’ammissione dei frati come destinatari del denaro…non saprei. E’ indagato quanto me, nel caso non vada a segno il tentativo di incolpare Rebecca Carinci, si prepara forse il terreno per far cadere la colpa sui monaci, far credere che l’abbiano uccisa perché non conferiva più loro le elemosine. Far arrivare questa voce agli inquirenti oppure farla arrivare ai frati affinchè si sentano sotto minaccia e la smettano magari di questuare a lui. Sto sparando un mucchio di fesserie, l’ho capito dal tuo sguardo comionevole.»

40

Dal mio campo di Santa Maria la Longa

la malinconia mi porta al ponte di Cividale

e m’inchina verso le acque del Natisone,

simili alla turchesa di color cilesto

che pende nel verde ramingo.

Il Vate Gabriele D’Annunzio - 1917

Il mattino successivo, Rebecca ha dormito poco e male. Il fatto che Perozzi non si sia ancora fatto vivo la mantiene sulle spine. I suoi timori sono rafforzati dal fatto che Mario le aveva confessato di sentirsi in pericolo in seguito alle minacce di De Dietrich e alle telefonate anonime dopo essere stato a Montecastello.

Si mette presto in movimento. Visto che l’interrogatorio è fissato per le dieci del mattino, fa in tempo a are alla Walser Privatbank. Supera a fatica il disagio provocato dagli ex-colleghi che cambiano corridoi incrociando sorrisini e mezze frasi sibilline sospese nell’aria. Si sforza di rimanere imperturbabile e chiede

notizie di Perozzi. La Brondani sa solo che si prendeva qualche giorno di vacanza. Glielo confermano anche all’ufficio personale. Non ha riferito niente sulle sue intenzioni e destinazioni. Nessuno sa dove sia Perozzi.

Rebecca è ormai abituata al costante ritardo di qualsiasi cosa riguardi il tribunale. Nella mezz’ora di anticamera fa il punto con il suo avvocato su quanto scoperto da Mauro e da Perozzi sul conto di De Dietrich. «Con tutti questi moventi dev’essere per forza stato lui.»

Petraz è distratto dal nuovo taglio di capelli della sua assistita, «se quando ti ho conosciuta eri adorabile ora sei divina, con il caschetto biondo sembri una topmodel. A stento ti ho riconosciuta.»

Rebecca procede indifferente, «dobbiamo convincere il P.M. che, alla luce di quanto abbiamo appreso, l’assassino non può che essere il marito!»

L’avvocato cerca di portarla a più miti consigli, «non facciamo sciocchezze, per carità! Non abbiamo prove. La sua segretaria, da quanto posso capire, non deporrebbe mai e De Dietrich potrebbe citarti per calunnia.»

«Io parlo al P.M., non a De Dietrich.»

«La condotta licenziosa di De Dietrich è nota. Il fatto che la moglie l’avesse tradito una volta sola appare molto debole come movente. Diverso sarebbe se la condotta della moglie fosse stata reiterata, ma di questo non abbiamo evidenza.»

«Va bene, te lo concedo. Però De Dietrich ha detto a Mario che sua moglie gli faceva sparire tutto il nero delle sue attività convogliandolo al monastero di Montecastello come elargizioni. Probabilmente c’era tra i due un sottilissimo equilibrio, mi dai i soldi e io sopporto le tue scappatelle. L’equilibrio si è rotto per qualche motivo e De Dietrich l’ha ammazzata o l’ha fatta uccidere da qualche suo sgherro.»

«Non abbiamo riscontri, possono essere tranquillamente scambiate per illazioni.»

«Io farò le illazioni, poi loro facciano quello che vogliono. Tanto, peggio di così non può andare.»

Vengono introdotti nell’ufficio del P.M. che, tuonando verso Rebecca, non si perde in preamboli. «Lei aveva un movente!» La inchioda alla seduta prima ancora che lei riesca a parlare. «Suo padre, il signor Carinci Giordano, è stato sedotto dalla signora De Dietrich Lorraine. Lei, signorina Carinci, l’ha scoperto e per vendetta l’ha voluta eliminare servendosi di un complice.»

«…»

«Si chiederà se lo abbiamo già individuato e la risposta è negativa. La informo però che i sospetti sono concentrati su un teste chiave che ha deposto a suo favore, il signor Paganin Mauro. Questa circostanza lo destituisce ovviamente dalla qualità di teste facendo traballare ulteriormente il castello difensivo. Il signor Paganin calza scarpe numero quarantatrè, compatibili pertanto con quelle rilevate sulla scena del delitto. Proprio stamani è stato spiccato un mandato di ispezione e perquisizione indirizzato al domicilio del Paganin. Se le sue cellule epiteliali si rivelassero compatibili con quelle rinvenute nella villa De Dietrich o se il sangue corrispondesse a quello rinvenuto sulla lama di un coltello da cucina

sulla scena del delitto, il caso sarebbe in dirittura d’arrivo.»

Il viso di Rebecca è coperto da un fazzoletto verdognolo dove sta riversando latte, pappetta di biscotti e la polpa marroncina di una mela ben masticata. Quanto da lei scoperto e che voleva produrre a sua discolpa le è stato ribaltato contro con gli interessi maggiorati.

Il P.M. rincara, «inoltre lei si è imbarcata su un aereo per il Montenegro insieme al marito della vittima. L’abbiamo appreso per puro caso seguendo i movimenti del signor De Dietrich. E’ complice del signor De Dietrich? Forse anche lui non ha digerito bene il tradimento e vi siete alleati. Sareste in tre a questo punto: lei, De Dietrich e Paganin.»

Rebecca tossisce impiastricciata mentre il P.M. prosegue imperterrito «o per caso sta svolgendo indagini per conto suo?»

A Rebecca sta per venire la silicosi ai polmoni benchè non abbia mai respirato sabbia in vita sua. Una poliziotta che piantona l’uscio, mossa a comione, le porge acqua e fazzolettini. Recuperata una parvenza di vitalità, Rebecca lancia un’occhiataccia all’avvocato rimasto inerte in evidente difficoltà. Si trae d’impaccio da sola negando con decisione su tutta la linea. «Siete completamente fuori strada. Io sono innocente, anche perché ho appreso del tradimento dopo l’omicidio della signora. Inoltre il signor De Dietrich aveva anche un secondo movente.» Rebecca racconta al P.M. dei soldi portati a Montecastello da Lorraine. Si aspetta che il P.M. le chieda conto della fonte da cui ha appreso tale notizia, invece lui minimizza all’istante. «Oh certo certo, quella storiella della moglie che versa milioni in beneficenza. Non infrango nessun segreto istruttorio dicendole che De Dietrich l'ha raccontata pure a noi. Vede, signorina Carinci, il fatto è che le attività del signor De Dietrich sono da tempo sotto la lente della guardia di finanza. Finora è sempre riuscito a farla franca, oliando i canali giusti, si presume. Visto che però ora, giù al ministero, c'è molta fame di soldi, sono cambiate alcune teste qui sul territorio e alcune

cose pare stiano venendo a galla. C'è in corso un’inchiesta dei finanzieri tesa ad appurare se De Dietrich abbia o meno dei proventi non dichiarati al fisco italiano e soprattutto a individuare dove siano state eventualmente dirottate queste sostanze. In confidenza, e ora sì che le rivelo un segreto istruttorio, la storiella dei frati non è stata neppure presa in considerazione.»

Rebecca, vista la rotta irremovibile ormai impostata, conclude il colloquio a suon di “no comment”.

Uscita dal tribunale, corre via senza nemmeno congedarsi da Petraz. Scommetto che l’avvocaticchio sarebbe stato migliore! conclude tra sé autoassolvendosi una volta per tutte per avergli sottratto la fede nuziale.

A Cividale, a casa di Perozzi, la porta è sbarrata e nessuno risponde, anche l’appartamento della giovane coppietta è deserto. Saranno al lavoro. Gli unici segni di vita provengono dall’alloggio locato ai finanzieri ma Rebecca ritiene improduttivo interrompere quegli affanni equivoci. Riprova a chiamarlo al cellulare ma risulta sempre spento. Rincasa dai genitori per pranzo.

E’ il primo pomeriggio ed è emotivamente provata. Ha voglia di evadere, di sentire il corpo reagire, di affaticare i suoi muscoli per apprezzarne poi la distensione. Vorrebbe andare a sparare ma non se la sente, non dopo i guai fatti are a quelli del poligono. Decide per una breve uscita in canoa. Si accontenta del poco impegnativo Natisone, visto che è vicino a casa e soprattutto considerando che è da sola. Si reca a Sanguarzo, una minuscola frazione oltre Cividale.

Sulla riva del fiume scarica canoa, pagaia, paraspruzzi, giubbetto salvagente e caschetto. Conduce la Renault 4 più a valle, in prossimità del Ponte Romano di Premariacco. Avrà così a disposizione una discesa in fiume di circa otto

chilometri, preceduta da una corsa di riscaldamento di circa altrettanti per raggiungere il punto di partenza. Un bel programma tonificante e rilassante a contatto con la natura e i riflessi verdi e azzurri delle acque del Natisone.

Mentre scende la rapide, nel tratto in cui il fiume lambisce la spiaggetta di borgo Brossana poco prima del Tempietto Longobardo, rimpiange la notte galeotta quando in quel punto di Cividale baciò Mauro per la prima volta. Intanto la corrente del fiume spinge e Rebecca recupera appena in tempo la concentrazione per affrontare la briglia successiva che, dato lo scarso livello d’acqua, la costringe ad un salto di oltre due metri e mezzo. Il tuffo le riesce a perfezione inabissando quasi completamente lo scafo e mantenedolo verticale rispetto al pelo dell’acqua. Esaurita l’inerzia del tuffo, il fiume la risputa fuori conferendole l’energia cinetica necessaria a oltreare il ritorno d’onda che inevitabilmente l’acqua crea dopo dislivelli del genere. Schiva alcuni ferri arrugginiti che fuoriescono contorti e appuntiti da una briglia secondaria. Ora il letto del Natisone si allarga in un’ansa d’acqua quasi immobile delimitata da alte e scoscese pareti calcaree. Rebecca si fa cullare avanzando piano piano per ammirare da quell’insolita prospettiva il Ponte del Diavolo, prossimo aggio obbligato. La luce rossastra del sole al tramonto staglia al centro dell’arcata di sinistra qualcosa di penzolante. La corrente avvicina Rebecca a quel volume appeso ad un filo. I dettagli si fanno via via più lugubri: una donna corpulenta dai lunghi capelli biondi appesa all’arcata. Rebecca è spaventata ma al tempo stesso incuriosita. Potrebbe tirarsi a riva e andare a cercare soccorsi, ma l’impiccata è ormai un sacco esanime mosso solo da una leggera brezza. Minuto più, minuto meno, non cambia niente. Vado fin sotto per vederla meglio, poi sbarco.

Si posiziona dietro il macigno posto dal fantomatico diavolo in mezzo al fiume per sorreggere il pilone centrale del ponte. La pietra ripara Rebecca dall’avanzare della corrente, permettendole di mantenere ferma la canoa e osservare il cadavere. La leggera brezza ruota delicatamente il corpo appeso alla corda finchè il volto si porta nella direzione di Rebecca. Un urlo di terrore le muore in gola: riconosce Perozzi con una vistosa parrucca bionda calcata in testa e un fallo in bocca. Lo chiama inutilmente, un riflesso condizionato. Che fare? Sbarcare per portarsi sul ponte a issare il corpo manifestamente senza vita non

ha più senso. Anche perché sarebbe la seconda volta in poco tempo che si verrebbe a trovare sulla scena di un delitto. Decide di starsene in acqua e proseguire fino all’auto. E’ disperata e terribilmente dispiacuta per quell’uomo. L’ha traviata e usata, ma la stava aiutando e lei gli si era in qualche modo affezionata. Si sente impotente, ora è rimasta da sola a combattere tra pignoramenti e accuse di omicidio. Un momento! Era molto spaventato ma non può essersi suicidato, non era da lui. E soprattutto non così, non in una maniera così eclatante e svilente. Il suo corpo è stato volutamente esposto, messo lì probabilmente dalla stessa mano che l’ha ucciso. Ecco allora che il travestimento ha un senso: si cancella tutta una vita e la verità con il gonfiare un vizio, come successe ad Haider, l’ex potentissimo e osannato governatore della Carinzia, trasformato di colpo in un gay ubriacone suicida dentro i rottami della sua Porsche in fiamme. Scommetto che la morte del povero Mario verrà archiviata come suicidio, anche se puzza di falso a miglia di distanza.

Scende il fiume velocemente, gli occhi gonfi di lacrime le fanno perdere tutto il panorama che avrebbe voluto godersi, compresa la profonda forra dalle sembianze di un canyon cinematografico situata poco prima del Ponte Romano di Premariacco. Ha molta paura. Se hanno ucciso lui ora uccideranno me. Una volta in auto recupera il telefonino e contatta l’avvocato Petraz che allerta le autorità.

Ritorna a Cividale dove trova già un capannello di curiosi attorno al cordone dei pompieri che stanno issando il corpo. Sulle sponde del Natisone si aggirano anche i sommozzatori. Si fa strada intrufolandosi fra i curiosi. Sente i poliziotti parlare di suicidio, li vede profanare gli abiti con noncuranza in cerca di un documento di identità. Vorrebbe gridare loro che è il dottor Mario Perozzi, che non può essersi suicidato, che è stato ucciso, che non si è mai travestito da donna, non era da lui, aveva mille perversioni ma non quella.

Petraz la riaccompagna a casa e i suoi la mettono a letto.

41

Il giorno seguente i quotidiani diffondono la notizia del macabro ritrovamento di un bancario impiccato sotto il Ponte del Diavolo a Cividale del Friuli. L’atmosfera che si coglie negli articoli è la stessa del ritrovamento di Roberto Calvi, il banchiere di Dio, appeso sotto il Ponte dei Frati Neri di Londra nel 1982, con le tasche appesantite da qualche mattone insieme a quindicimila dollari. I corsivi riportano: “La differenza è che il dottor Mario Perozzi, uomo dalla sessualità disturbata, non aveva soldi o mattoni in tasca ma una parrucca da donna in testa e un fallo in silicone conficcato in gola.” Dai giornali si apprende che la morte risale a circa trentasei ore prima del ritrovamento. Tanto ritardo viene giustificato dal fatto che da sopra il ponte è impossibile vedere sotto le arcate. Inoltre, per una casualità di traiettorie visive, anche dalle vie e case circostanti il cadavere risultava ad un occhio distratto poco evidente, schermato dal grosso pilone, dai pali dell’illuminazione pubblica e dalla vegetazione. Gli inquirenti ritengono pertanto che l’allarme sia stato dato da qualche pescatore o da un canoista che è stato avvistato lungo il fiume. Le autorità propendono per l’ipotesi del suicidio dovuto a instabilità psicologica conseguente a radicate difficoltà nell’accettare la propria sessualità. Ciò giustificherebbe il goffo travestimento.

Rebecca si aggira come un’ameba fra le serre di Giordano. Ha dormito solo con una scatola di Diazepam in circolo, è ancora intontita e i contorni del mondo esterno le appaiono ovattati e tremuli. I lamponi tremano, i bancali tremano, anche le statue a tema religioso di suo padre sembrano tremolare. Rebecca, con le pupille dilatate, poggia la mano sulla Vergine con l’intenzione di bloccare quello sfarfallìo. Ho preso troppi tranquillanti, la statua è immobile, è la mia vista ad essere offuscata dalle medicine. Vorrebbe che la Madonna parlasse, che l’arcangelo Michele lì a fianco fe giustizia con la sua spada infuocata. Poi il suo sguardo si sofferma su un particolare, una pietra calcarea con incastonato una sorta di lumino alimentato da un piccolo pannellino solare. La pietra, non molto grande, è attaccata alla bell’e meglio al piedistallo della statua.

«Papà!»

«Che c’è?» risponde Giordano accorrendo comprensivo a quel flebile pigolìo di Rebecca.

«C’è sempre stato questo lumino?» indicando la pietra-lume solare.

Giordano risponde con tono indagatore, «in realtà no. Me l’ha portato la povera Lorraine non molto tempo fa, pregandomi di attaccarlo per benino, magari con del cemento, alla base dell’arcangelo che sconfigge Satana. A dire il vero, ho poi usato del silicone per fare in fretta, anche perché se un giorno dovessi rimuoverlo, col cemento sarebbe dura.»

«Ma quando te l’ha portato?» Improvvisamente le pupille di Rebecca rirpendono a contrarsi e il tono di voce acquisisce vigore.

Giordano ci pensa su e poi «dev’essere stato circa un mese fa, la fine di agosto, credo. Sono sicuro che era pochi giorni prima di quando è stata…di quando è successa la disgrazia.»

«Anch’io la incrociai pochi giorni prima della disgrazia. Mi ha quasi travolta col suo gippone. Disse di avere dei problemi, dei pensieri, e di non avermi notata a causa di quei pensieri. Forse era proprio il giorno in cui venne qui. Non credo che sia un caso che ti abbia portato questo lume. Cosa ti disse esattamente? Ricordi?»

«Qualcosa del tipo che l’aveva fatto benedire, che ne aveva uno anche lei, che sarebbe stato bello se ne tenessi uno anch’io. Un po’ come aveva fatto con la statua, ma questa volta non c’era un motivo ben definito. Ora che mi ci fai pensare, non fui molto convinto dalla sua richiesta e dalle motivazioni vaghe. Benchè l’avessi ritenuta una mezza bizzarrìa, lo posizionai ugualmente. Mi sembrò strano anche perché tutto sommato si trattava di un oggetto dozzinale, che poco si addice a una persona molto raffinata come era lei. Sembrava un acquisto fatto in fretta e furia, guardalo bene, cinque Euro dai cinesi al mercato. Comunque mi sembrò di intuire che Lorraine avesse voluto dirmi qualcosa di più, ma forse per il fatto che in quel momento avevo anche altre clienti, mi salutò in fretta con la promessa che sarebbe riata presto.»

Rebecca si avvicina a pochi centimetri dal lume. Lo scruta, lo picchietta con le nocche. «Fa luce di notte?»

«A dire il vero non lo so. Il sole tramonta ancora relativamente tardi e a quell’ora sono solitamente già in casa. Non sono mai uscito dopo cena a controllare se funzioni come lume crepuscolare.»

Rebecca lo strappa dal silicone, lo scuote, lo avvicina all’orecchio e lo agita di nuovo. «Secondo me non funziona.» Si volta, cerca nei paraggi qualcosa finchè ritorna con una paletta per rinvasare. Con il manico picchia fortissimo sul micropannello solare del lume, incrinandolo.

«Ma che fai? Così lo rompi!»

Rebecca assesta un secondo colpo e, con un terzo, il pannellino salta via. Nel piccolo pertugio ci sono dei foglietti piegati e pigiati dentro. Li estrae con cautela evitando di sgualcirli. Giordano chiede cosa siano, Rebecca li allarga su una cassetta di legno rivoltata lì a terra.

«Papà, sembrano schemi e formule di qualcosa. C’è anche una memory-stick. Quando Lorraine stava per morire ha farfugliato qualcosa sull’arcangelo e sul diavolo. A questo punto possiamo dirci sicuri che si riferiva a questa statua e non all’originale di Montecastello. Visto che tiri sempre in ballo i fantasmi religiosi, questa volta mi rifaccio. Eh sì, Satana te l’ha combinata grossa: ci ha depistati mandandoci a cercare dai frati anziché nella tua serra.»

Rebecca si illude che in mezzo alle carte ci sia qualche appiglio determinante per le sue indagini. Qualcosa qui c’è di sicuro, un indizio o addirittura il movente. Analizza i progetti capendone ben poco, al termine di una formula c’è però un nome molto comprensibile: Carlo Rubbia. Non sarà mica il Carlo Rubbia premio Nobel per la fisica? Rebecca si ricorda che al liceo Marinelli le era capitato un banco con scritto “Questo è stato il banco di Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica.” Rubbia aveva effettivamente frequentato il liceo di Rebecca e naturalmente l’epigrafe era opera di qualche buontempone dei corsi precedenti, ma a lei aveva sempre fatto piacere dare credito a quell’incisione sul laminato. Soprattutto in occasione dei compiti in classe di fisica o matematica si sentiva più sicura, era come se il banco avesse il potere di collegarla al cervello di Rubbia creando così una temporanea espansione della capacità cognitiva innalzando logaritmicamente il suo QI.

Rebecca, con gli schemi in mano, confronta alcuni termini su Internet ma senza successo. Nonostante ciò, esulta in cuor suo perché ha qualcosa a cui aggrapparsi, su cui concentrarsi per non impazzire del tutto.

Telefona a Mauro e lo fa venire di corsa. Chiede a Luisa di preparare la cena anche per lui. Rebecca e Mauro studiano fino a notte fonda.

«Oggi sono venuti i carabinieri a casa mia, mi hanno rivoltato tutto. Hanno dei sospetti anche su di me.»

«Già, sostengono che potresti essere il mio complice. Senti Mauro, qui si sta mettendo male, noi siamo indagati e Mario, il mio ex capo, è stato ucciso.» Rebecca scoppia a piangere.

«Tu…tu piangi per lui?»

«Avrò la sindrome di Stoccolma, che ti devo dire, è come se uccidendo lui avessero ucciso una parte di me, nonostante tutto. Comunque io ho bisogno di aiuto, e tu sei l’unico che può e deve aiutarmi.»

«Al TG dicevano che si è suicidato.»

«No, non può essersi suicidato, non in quel modo. Era spaventato a morte, questo lo so, ma non era sul punto di ammazzarsi. Tra l’altro, ieri avrebbe dovuto proseguire le indagini in Svizzera ando per Milano, e invece me lo appendono sotto al ponte.»

Mauro cerca, per quanto possibile, di tranquillizzare Rebecca, «forse stai correndo troppo, cerca di essere razionale.»

«Ucciso o suicidato fa poca differenza: erano diversi giorni che veniva minacciato e riceveva telefonate anonime.» Rebecca mette al corrente Mauro di tutte le indagini di Perozzi inerenti Lorraine e Montecastello rimarcando i possibili collegamenti con i fondi neri di De Dietrich.

«In mezzo a tutto questo casino, De Dietrich vuole far fallire mio padre perché gli ha messo le corna con sua moglie e io sono sospettata di averla uccisa. Per amor proprio e solidarietà femminile verso mia madre, avrei ucciso Lorraine addossandole la colpa di aver circuito mio padre, sono anche sospettata di complicità con De Dietrich, anche lui dopo il tradimento potrebbe aver voluto ucciderla e io potrei averlo aiutato. Ovviamente anche lui potrebbe essere l’assassino o perlomeno il mandante. Il problema dei soldi per l’azienda di mio padre lo sto risolvendo e tu sai come, purtroppo. Rimane il fatto che voglio scagionarmi dall’accusa di omicidio prima che gli inquirenti trasformino i loro indizi del cavolo in qualcosa di credibile per il giudice e che mi portino al gabbio.»

«Cosa pensi di fare?»

«Intanto usa il plurale, mi devi aiutare. E poi l’unico modo possibile è trovare l’assassino e soprattutto il movente per individuare eventuali mandanti. Del corpo del reato mi preoccupo molto meno, tutto sommato una pistola vale l’altra.»

«Tu sei pazza! Ultimamente le squilibrate le trovo tutte io.»

«No, sono disperata ed esasperata. Anche perché voglio vendicare Mario.»

«Quel porco?»

«Lo so, ti sembrerà strano, ma da quando l’ho visto appeso non provo più odio nei suoi confronti. Mi sento di dire che in questo momento provo più tenerezza, tristezza, malinconia, sarà perché l’ho conosciuto oltre le apparenze quotidiane.

Sento la sua mancanza, mi ci ero affezionata, sotto sotto io ero diventata qualcosa di importante per lui e anch’io sento un legame nei suoi confronti. Era diventato una specie di amico. Lo voglio vendicare.»

Mauro sbuffa insofferente.

«Ti prego, cerca di capirmi. Per una volta nella vita che so esattamente cosa sia giusto fare e che mi sento determinata ad andare fino in fondo, aiutami. Ho la possibilità e il dovere di prendere in mano la mia vita, di fare delle scelte che influiranno irrimediabilmente sul mio futuro e mi sento maledettamente motivata nel farlo. Ora più che mai. Prima che questa storia iniziasse mi stavo già lambiccando sulla mia deplorevole condotta in perenne titubanza, ora sono convintissima che devo cambiare marcia. Mi devo riscattare, lo capisci. Non si tratta più solo di scagionarmi, di aiutare i miei e di vendicare Mario. Io devo rinascere, più sicura di me, più determinata, senza dover più guardare gli altri dal basso verso l’alto con soggezione. In questo periodo ho capito cosa vale nella vita, cosa voglio veramente fare nella mia vita, e non è né la bancaria né la puttana. Andiamo oltre, siamo alle questioni di principio, cerca di elevare il pensiero per seguirmi, fatti un goccetto se vuoi sentirti più leggero, serviti pure, qui si tratta di riscattare l’intera mia vita decisa sempre dagli altri. Devo prenderla in mano, basta vivere in balìa degli eventi, basta reagire alle azioni iniziate da altri, devo diventare propositiva, proattiva. Sono gli altri che d’ora in poi dovranno reagire alle mie azioni. Cambio di mentalità. Ho sempre subìto: la scelta della scuola da parte dei genitori, lo studio del canto e della musica da parte di don Angelo, il tipo di lavoro perché è venuto in conseguenza della scuola. E mi sono sempre sentita inadeguata, sempre studiare tanto e prepararsi tanto per cercare di essere all’altezza. Sempre condizionata anche dal mio fisico minuto, doversi allenare fino allo sfinimento per essere forte, tonica, scattante, reattiva, per far fronte a un possibile scontro fisico, uno dei miei incubi peggiori dopo essere stata aggredita in prima superiore da due teppistelli nei sottoi pedonali del quartiere studentesco.»

«La canoa l’hai scelta da sola, nessuno te l’ha imposta.»

«Esatto, in canoa è l’unico frangente in cui posso simulare la vita che vorrei. L’andare in canoa probabilmente è frutto di una spinta del mio subconscio, la soddisfazione di un bisogno sopito, latente. Sul fiume sono io che pagaio e direziono la canoa dove voglio, anche contro la volontà della corrente, dei flutti, delle rapide e delle onde. Riesco addirittura a vincere la paura di stare in acqua. Io dirigo la canoa e faccio il massimo per metterla dove mi serve per fare questa o quella evoluzione. Non mi lascio sbatacchiare sui sassi dalla corrente. Ma questa deve diventare la metafora della mia vita reale, da ora. Non ho più scuse, con tutte queste cose che mi stanno succedendo, o cambio ora o sono destinata a essere trascinata dalla corrente. E non avrò, date le circostanze, una seconda possibilità, me lo sento. Allora, caro Mauro, mi aiuti?»

Mauro secca il bicchiere di Cardenal Mendoza, guarda nel vuoto, pensieroso, poi sospira negli occhi di Rebecca un sofferto «sì.»

Rebecca procede come un rullo compressore. «Mario aveva scoperto qualcosa, doveva andare in Svizzera. Aveva scoperto che Lorraine si era aperta un conto cifrato in un posto vicino a Zurigo, mi pare si chiamasse Zugo. Il problema è che non possiamo andare in giro per le banche del paesino a chiedere del conto di Lorraine. Credo che lui sapesse qualcosa in più e che volesse sfruttare dei sui contatti a Milano per carpire qualcosa, ma non mi ha lasciato ulteriori indicazioni. Anzi, mi aveva mandato un’e-mail ma una stronza mi ha lavato il telefonino. Dobbiamo aggiustarlo e vedere se riusciamo a leggere l’e-mail, magari contiene qualcosa di rivelatore. Nel frattempo dobbiamo capire come questi schemi e questa memory-stick possano darci una mano.»

«Progetti di parabole, formule chimiche, valori di potenze elettriche, non capisco dove vadano a parare questi documenti. Cosa poteva farsene Lorraine di questa roba? Perché l’ha nascosta qui da tuo padre, a sua insaputa tra l’altro? Era qualcosa di scottante di cui voleva disfarsi? Credo di no, perché l’avrebbe buttata nel cesso o bruciata. La voleva nascondere. Quindi è qualcosa di prezioso. E da chi lo voleva nascondere? Da suo marito o da qualche

malintenzionato che sapeva che lei ce l’aveva a casa?»

«Secondo me da tutti e due. Se quello che De Dietrich ha detto a Mario è vero, e considerato quello che la segretaria ha riferito a te, tra i due coniugi non correva buon sangue. Lei gli prendeva soldi che portava dai frati. C’è questo progetto. Voleva tener fuori il marito. Io ho davanti agli occhi l’espressione assorta di Lorraine di quando mi ha quasi investita. Aveva la testa altrove, lo sguardo assente, nonostante la possibile tragedia che avrebbe potuto provocare tirandomi sotto. Era fortemente preoccupata. Per come la vedo io, si tratta di qualcosa di grosso e lei sentiva di essere in pericolo, minacciata. Non sappiamo se solo dal marito o anche da qualcun altro.»

«Dobbiamo trovare altri elementi per procedere. Così come sono, queste carte ci dicono poco.»

«Ma da dove cominciamo? Alla polizia non possiamo andare. Di Petraz non so ancora se fidarmi. Rimaniamo solo noi due. Ora sono sfinita, per oggi andiamo a dormire.»

42

Sabato. Un articolo de Il Gazzettino informa che il corpo del dottor Mario Perozzi, dopo essere stato sottoposto ad esame autoptico, ha ricevuto il nullaosta per la sepoltura.

Il vescovo, considerate le circostanze del ritrovamento unite alla tesi del suicidio avanzata dagli inquirenti e alle voci sulla discutibile moralità della vittima, ha permesso solamente una semplice funzione in forma privata nel cimitero alle porte di Cividale.

Alle tre del pomeriggio Rebecca e Giordano sono accanto al feretro. La banca non partecipa in forma ufficiale visto che su tutti i quotidiani locali è già stato accostato il nome Walser Privatbank al suicidio di un suo dirigente pervertito sessuale. Nel cimitero si contano sì e no dieci persone tra cui la Brondani e una signora che era venuta a portare i fiori su una tomba lì vicino: probabilmente se avesse saputo che c’era l’inumazione del maniaco suicida sarebbe venuta a sera. Una vergogna, ma si sa come vanno queste cose quando ci si mette la stampa con i suoi titoloni.

L’odore di incenso, che si sprigiona dal fumante turibolo sorretto da un chierichetto occhialuto, risulta l’unico aspetto che conferisce un minimo di credibilità al funerale-farsa.

Un giorno mi hai esortata a ritornare a sbucciarmi le ginocchia. Da qualche sbucciatura sono ata a scorticature e tu ci hai rimesso la pelle, considera Rebecca nel suo cordoglio. Povero Mario, altrochè muri di Cattaro, ti sono costata la vita. Forse in fondo ti volevo bene. Per un attimo le sembra di aver

visto un tipo identico a Janus aggirarsi fra le tombe. Sto diventando visionaria, sarà uno che gli assomiglia.

Al rientro, cercando di confortare Rebecca, Giordano le racconta di quando si recava da Perozzi per sincerarsi sulle condizioni di sua figlia durante le ultime trasferte in terra straniera. «Visto che non potevo telefonarti, almeno avo a chiedere tue notizie. Perozzi mi offriva sempre qualche dolce manicaretto, un babà appena arrivato dalla Campania tramite corriere espresso, dolci alla pasta di mandorle, sacher torte, caffè guatemalteco, liquori. Oppure qualche fetta di lardo di Colonnata con pomodoro crudo e una spruzzata di pepe nero, finocchiona toscana, arrosticini di pecora. Ogni volta stappava una bottiglia di vino di etichetta, Barbera d’Asti, Syrah, Mompertone, Bordeaux. Sapeva che Luisa mi teneva a stecchetto e, per quelle regole non scritte da nessuna parte ma che tutti conoscono, si sentiva in dovere di essere prodigo offrendomi l’occasione per evadere in quegli istanti in cui ero lontano dalla mia crudele dietista personale. Quando poi mi congedavo, mi consegnava sempre pacchettini per Luisa: olio di Argàn, fiori, boccette di Opium Yves Saint Laurent, dolcetti di marzapane di Lipari.»

«Una delle poche volte in cui invece venne lui da noi, decisi di giocargli uno scherzetto. Siccome sosteneva di essere un grande esperto di whisky, gli versai in un ampio bicchiere una grappa delle nostre zone, “I legni” di Bepi Tosolini: distillato di vinaccia e mosto invecchiato in barriques di rovere. Prende un bel colore ambrato e il gusto, ad un principiante, potrebbe rimandare al whisky.»

Rebecca ascolta divertita scoprendo quell’intesa semiclandestina nata tra il padre e il suo inconsueto aguzzino. «E come andò a finire?»

«Ci cascò in pieno. Lui era convinto che fosse whisky. Ma il bello fu che quando gli mostrai la bottiglia, mi accusò di aver messo del whisky nella bottiglia di grappa e che quindi aveva ragione lui.»

A sera, Rebecca convoca nuovamente Mauro a casa propria e decide di coinvolgere tutta la famiglia nell’indagine. «Siamo in quattro sfigati contro delle persone potenti, pertanto siamo obbligati a organizzarci come i guerriglieri: una struttura orizzontale che non risponda a gerarchie. E’ fondamentale la circolarità dell’informazione, tutti devono sempre essere al corrente di tutto per poter agire immediatamente qualora si presentasse l’occasione. Ognuno di noi, in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza, se ha la possibilità di fare qualcosa o se ravvisa che sia il momento buono per fare qualcosa, lo deve fare in autonomia. Azioni tempestive, senza necessità di coordinamento. Siamo in guerra! Per cominciare però ci servono ispirazione, idee, un brainstorming, come lo chiamavano in banca.»

«Inizio io,» esclama Giordano traendo la grinta da una sorsata di cabernet. «La cappella privata di Lorraine! Suggerisco di iniziare da là. Se i progetti li ha nascosti nelle nostre serre, vuol dire che non si fidava di suo marito oppure che voleva nasconderli anche da terzi oltre che dal marito. Abbiamo questi progetti occultati nel lume solare ma abbiamo bisogno di altro materiale che sicuramente avrà avuto, lo deve aver avuto! Il suo computer sarà sicuramente rimasto in casa o in auto, magari protetto da , e molto probabilmente sarà stato subito sequestrato dagli inquirenti, quindi là non ci arriviamo. Potrebbe aver nascosto qualcosa da altre persone di sua fiducia a loro insaputa, una sorta di archivio allargato, come ha messo da noi quei disegni. Deve però aver avuto bisogno di una struttura operativa, un luogo vicino, facile da raggiungere e riservato, dove poter lavorare in tranquillità, telefonare, scrivere e-mail, studiare strategie. L’unico posto che mi viene in mente è la sua cappella privata, sulla sommità della collina che domina la villa.»

Rebecca osserva, «sul cocuzzolo della collina c’è solo un boschetto di castagni e robinie.»

Giordano precisa «quasi! Al riparo di quegli alberi ha fatto costruire alcuni anni fa una cappellina privata, te ne avevo già parlato.»

Rebecca «e cosa c’è dentro?»

Luisa «come facciamo a saperlo?»

Giordano «io lo so. Purtroppo o per fortuna. Dunque, dopo quella famosa scappatella tra noi due, decidemmo di rimediare a questo modo: ci siamo confessati e pentiti, abbiamo confessato il tradimento al nostro partner e al padre confessore, anche se in realtà, come sapete, con il partner mi sono confidato solo io.»

Rebecca interrompe. «Si è, per così dire, confidata anche lei con il partner poco tempo fa, l’ha scoperto Mauro, poi ti spieghiamo, anche lei ha confessato il tradimento a suo marito, è questa la causa che ha scatenato l’accanimento della banca che ti sta facendo fallire.»

Giordano «questa che Lorraine abbia confessato è una bella notizia, il peccato è stato espiato e lei andrà in paradiso, grazie per avermelo detto.»

«Risparmiaci, papà…» lo richiama Rebecca con insofferenza mentre Mauro la squadra con imbarazzo.

«Insomma, non fatemi perdere il filo! Dopo la confessione c’era il pentimento e poi Lorraine, a suggello di una retta via ritrovata e come segno tangibile del cambiamento e della vittoria del bene sul male, ha commissionato ad un artigiano delle valli due copie in scala ridotta del diavolo di Montecastello sconfitto dall’arcangelo Michele.»

«Questa la sappiamo gia!»

«Riiamo, è utile per Mauro. Una copia l’ha portata a me e l’ho collocata nelle serre vicino alla copia della Madonna Nera già in mio possesso. La sua copia dell’arcangelo col diavolo è stata collocata nella cappellina sulla collina, edificata per l’occasione.»

Rebecca «tu hai posizionato l’arcangelo vicino alla Madonna, invece la sua Madonna è in una nicchia in fondo al vialetto di accesso alla villa, quindi nella cappellina ha collocato solo la statua dell’angelo con diavolo: ha eretto un tempio a Satana.» Poi, per sdrammatizzare, Rebecca aggiunge con tono sulfureo «blasfemia!»

All’imbarazzo dipinto sul volto di Mauro si è unita anche una lieve disapprovazione per come Rebecca stia prendendo in giro suo padre che serafico procede, «lei si era fatta realizzare una copia della Madonna ispirandosi a quanto avevo fatto io, atto che tra l’altro ci fece entrare in intimità. La sua idea era di confessare al marito il tradimento in modo da compiere l’espiazione completa, solo allora avrebbe potuto riavvicinare la Madonna al diavolo collocandola nella cappellina in segno di definitiva vittoria. Probabilmente lo voleva fare in questo periodo visto che, da quanto avete riferito, aveva confessato al marito il tradimento. Se non ha avvicinato le statue significa che qualcosa la deve aver tenuta occupatissima perché per lei era molto importante, ci teneva, me lo aveva sempre detto. Se non ha avuto tempo significa che era proprio una questione di vita o di morte e la risposta potremo trovarla, mi auguro, nella cappellina.»

Luisa interviene piccata rivolgendosi a Giordano, «ma tu quando ci sei stato?»

«Mi ci ha portato lei, di nascosto da suo marito e da te. Perdonami ma non volevo che pensassi ad una mia ricaduta, mi ha portato fugacemente solo per farmi vedere com’era venuta e che avevamo così tutti e due il monito per non ricadere nel nostro errore.»

Rebecca ridiscende sul pratico, «ma quindi cosa c’è dentro?»

«Quella volta c’era un semplice altare rivestito in marmo, pronto per ricevere la Madonna che non è mai stata trasferita, davanti ricordo un inginocchiatoio in legno. Su un lato una nicchia accoglieva la copia del diavolo con l’arcangelo. Ora potrebbe avere, che ne so, uno scrittoio, un vano segreto dentro l’altare dove nascondere documenti o cose così. Bisogna andare là.»

43

Il giorno successivo, domenica, Rebecca e Mauro stanno mettendo a punto il piano per intrufolarsi nel tempio di Satana, come l’ha ormai ribatezzato scherzosamente Rebecca. Siccome è impossibile raggiungere il manufatto ando dal parco della villa senza essere visti, percorreranno un lungo e tortuoso giro tra i vigneti e arriveranno, tramite un vecchio sentiero dalla collina vicina, esattamente alle spalle della cappellina. «Stando a questa mappa dovremo attraversare un largo e profondo fossato in cui scorre un ruscello.»

«Il ruscello ai piedi della collina sarà più o meno in secca visto che non piove da diverso tempo. Comunque c’è parecchia strada da fare e il percorso non è agevole. emo la Tenerè del mio povero padre,» suggerisce Mauro.

«Cos’è» chiede Rebecca?

«Una moto degli anni ’80, una Yamaha, maneggevole, indistruttibile, un trattore.»

«Ma come facciamo a non farci sentire? Farà rumore, no?»

«Lasceremo la moto un po’ distante, comunque tra noi e la villa ci sarà la collina che schermerà, almeno parzialmente, il rumore. Una volta superato il ruscello, sperando non ci siano ulteriori recinti, dovremo neutralizzare i cani.»

«Quando sono andata io non c’erano cani.»

«Erano stati addormentati, era scritto sul giornale. Ha due dobermann, li addormenteremo anche noi. Tranquilla, sarà un gioco da ragazzi, se sono stati addormentati già una volta significa che non sono ben addestrati.»

«Ok, allora arriviamo con la moto, superiamo il ruscello, molliamo la moto, ci vengono addosso i cani, li addormentiamo, ci inerpichiamo sulla collina e arrivati alla cappellina forziamo la porta. Se malauguratamente ci dovesse vedere o sentire qualcuno, che facciamo?»

«Guardando questa mappa, dalla villa alla cappellina sono circa trecento metri in salita. Dalle ortofotografie di Google Maps pare che il sentiero proveniente dalla villa entri abbastanza presto nel bosco, questo gioca a nostro favore perché la vista dalla villa in direzione della cappellina dovrebbe risultare abbastanza schermata. Inoltre, attenendosi a come viene rappresentato il sentiero, non sembra essere percorribile in auto, quindi chiunque vorrà venirci incontro dovrà farlo a piedi. Mi inventerò un diversivo che, nell’eventualità, ci permetta di guadagnare minuti preziosi per dileguarci incolumi. Una volta recuperata la moto, dai vigneti potremo poi sbucare pressochè in qualsiasi punto e soprattutto di notte saremo in grado di localizzare per tempo eventuali lampeggianti blu così da poter deviare dove ci fa comodo. Piuttosto, non so se sia saggio che tu venga. Metti che qualcosa vada storto e ci dovessero beccare, con i sospetti che hanno su di te, saresti fregata.»

«Mauro, non metterti di nuovo con queste storie, inoltre sospettano anche di te…»

«Va bene. Pensiamo al materiale da recuperare. Per i cani ci serve carne macinata e qualche sonnifero.»

«La carne la farò prendere da mia madre. Come sonnifero ho del Diazepam in compresse, con i giornalisti so che funziona.»

44

Lunedì sera Rebecca si presenta da Mauro. «Ho le polpettine al sonnifero, le vuoi assaggiare?»

«Ciao Rebecca, vieni ad aiutarmi, sto finendo di preparare i diversivi. Tieni, aiutami aprendo questi.» Mauro a a Rebecca tre scatole, ciascuna contenente un elicotterino radiocomandato.

Mauro aggiunge raggiante «venti Euro tutti e tre. Potenza del dragone cinese!»

«Ma che cavolo ci facciamo con questi elicotterini?»

«Spaccali.»

«Come? Dài, non possiamo metterci a giocare ora!»

«Uffa, la stai prendendo un po’ troppo sul serio ’sta serata. Dai qua e fatti un paio di respiri profondi che ti vedo nervosetta.» Mauro spacca l’elicotterino rosso aprendolo lungo la metà come fosse un uovo pasquale, ne estrae il motorino elettrico collegato all’elica avendo cura di asportare anche la schedina elettronica con l’antenna che riceve gli impulsi dal radiocomando e il piccolo accumulatore che alimenta il tutto. Ripete la stessa operazione chirurgica sugli altri due elicotterini, quello blu e quello verde fluorescente.

«Ok, mi sono calmata, posso sapere cosa stai combinando?»

Mauro serafico le risponde «i diversivi, che altro. Ho pensato che per dissuadere qualche eventuale temerario dal raggiungerci, qualora ci individuasse a frugare nel tempio di Satana, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di provocare delle esplosioni che ci facciano da scudo coprendoci la fuga.»

All’espressione sbigottita di Rebecca, Mauro precisa «mini-esplosioni, tanquilla. Ora che abbiamo estratto le budella di questi elicotterini andiamo in garage.»

Pochi istanti dopo, Mauro prosegue nella preparazione delle bombe improvvisate. Sul bancone da lavoro in garage sono allineati tre boccioni in PET, quelli utilizzati nei distributori d’acqua negli uffici. Mauro infila in ciascun bottiglione le “budella” di un elicotterino. Poi, da un armadietto in lamiera fa comparire il carrello da saldatura: bombola di ossigeno e bombola di acetilene. Impugna il cannello illustrando a Rebecca i suoi trucchetti. «Vedi, si fa così: apro i rubinetti delle bombole, bene. Ora apro il rubinetto del cannello.» Segue il clack dell’accendigas piezoelettrico e scocca la fiamma sul cannello.

«Regoliamo la portata del combustibile e del comburente finchè la fiamma diventa bella azzurrina e appuntita. Ecco qua, tarata a perfezione.» Mauro batte a terra il beccuccio del cannello spegnendo la fiamma mentre la miscela di ossigeno e acetilene continua a fischiettare fuoriuscendo dall’ugello. Riempie poi con il gas il primo boccione tramite la valvola installata preventivamente sul tappo, in mano regge anche un cronometro.

Rebecca, allarmata, domanda «ma quanto ne stai mettendo dentro?»

«Il boccione tiene diciotto litri, direi che venticinque secondi di miscela iniettata dovrebbero fare un bel botto.» Mauro, con la stessa tecnica, riempie anche gli altri due boccioni. «Anzi, non si sa mai, l’ultimo lo riempiamo per quaranta secondi.»

«Spiegami un po’, per l’innesco come facciamo?» chiede Rebecca armeggiando con un radiocomando.

«Per l’amor di Dio non toccare i radiocomandi!»

«Nervosetto anche tu?»

«Uff, fortuna che sono spenti. In pratica, quando ci servirà l’eventuale esplosione, azioniamo il radiocomando che farà girare a vuoto il motorino dentro al boccione. L’avvolgimento elettrico sul rotore del motorino produce delle piccolissime scintille che, essendo circondate dalla miscela ossiacetilenica, la faranno esplodere. BUM!»

«Mmm, ingegnoso!»

«Ma che fai con quel pennarello?»

«Scrivo su ogni boccione e sul radiocomando il colore dell’elicotterino corrispondente visto che li posizioneremo distanti fra loro. Almeno così sappiamo quale far saltare e soprattutto dove salterà.»

«Brava, non ci avevo pensato. Carichiamo tutto, mangiamo qualcosa e andiamo.»

Sono le ventitrè, Mauro e Rebecca decidono di fare un giro di perlustrazione percorrendo la strada che conduce alla villa. La scoprono tutta illuminata e piena di vita.

«Dannazione, forse questa sera De Dietrich dà una festa, è pieno di gente. Torniamocene a casa e riiamo più tardi.»

«Perché, Mauro? Le condizioni sono ideali. Fanno festa, è freddino e saranno tutti dentro a bere e ballare. Senti che casino di musica. Magari, con la scusa del via vai di ospiti, i cani sono pure stati rinchiusi. Facciamo il giro che avevamo pianificato da dietro le colline fino al ruscello, ficchiamo il naso dove lo dobbiamo ficcare e ce ne torniamo via senza problemi. Vamos!»

«Come vuoi, io comunque sarei tornato più tardi quando potrebbero essere sbronzi.»

«No, andiamo ora, le ventitrè è un’ora clou per le feste. Da mezzanotte in poi inizieranno ad andarsene e ci saranno tanti occhi e orecchi che vanno a riprendersi l’auto.»

La Tenerè sfreccia così attraverso vigneti, sentieri e stradine interpoderali fino al ruscello in secca che viene superato agevolmente. Lasciata la moto, i due improvvisati detectives si caricano dell’armamentario e iniziano a salire a piedi

la collina in direzione della cappellina. Mauro precede Rebecca illuminando debolmente il sentiero con una torcia elettrica schermata da una gelatina blu. «L’ho imparato da militare, il fascio di luce blu non si vede in lontananza.»

«Sembriamo due kamikaze con ’ste bombe addosso.»

«Ssst! Sento uno scalpiccìo avvicinarsi.»

«O mio Dio, i cani, Mauro! I CANI!» I due dobermann circondano Rebecca, ringhiosi e minacciosi, pronti a saltarle addosso mentre un astore, svegliato dal trambusto, svolazza via allarmato. Rebecca è pietrificata. Mauro estrae le polpette attirando a sé i cani e facendoseli in breve amici.

«Grazie, stavo per farmela addosso.» I due riprendono il cammino fino a scorgere in mezzo ai castagni il piccolo rosone del tempietto, scolpito nei toni freddi della pietra piasentina. Mauro la avvisa didascalico «siamo arrivati. Prima di entrare scendiamo in direzione della villa e posizioniamo i boccioni.» Rebecca disfa il bagaglio e li allinea davanti a sé. «Mauro, cosa ne dici se mettiamo più a valle quello più potente?»

«Perfetto. Se qualcuno ci viene incontro lo spaventiamo per bene. Tornerà indietro a chiamare la polizia o chi vuole e noi avremo tutto il tempo per scappare. Scendo per un centinaio di metri, lo posiziono ai margini del sentiero, più lontano non possiamo perché usciamo dal raggio d’azione del radiocomando. Uno lo metto a sessanta-settanta metri e il terzo mettilo tu qui vicino. Presto allora, dammi quello più potente che vado di corsa.»

«Uhm, qual è fra tutti e tre? Il rosso, il blu o il verde?»

«Non li avevi segnati?»

«Ho segnato la corrispondenza di ciascuna bomba col rispettivo radiocomando, non qual è il più potente, credevo che te lo ricordassi.»

«Oh, al diavolo, uno vale l’altro, non farà tanta differenza quel po’ di gas in più.»

Finito di posizionare gli esplosivi, Mauro estrae dallo zaino un trapano a batteria con punta al widia e un flessibile, sempre a batteria, con disco diamantato. La serratura della cappellina non resiste per molto. Entrano con circospezione. All’interno la stanzetta è più buia del bosco. Il fascio blu della torcia delinea un vano di circa quattro metri per quattro, una bifora a destra e una a sinistra. Sulla parete di fondo c’è l’altare in marmo descritto da Giordano, ancora senza Madonna. Sotto la bifora di sinistra scorgono la nicchia con la statua dell’arcangelo che sconfigge il diavolo, sotto la bifora di destra c’è una scrivania ingombra di carte e libri. Anche a terra, accanto alla scrivania, ci sono pile di libri, carte e riviste.

«Mio padre aveva ragione, Lorraine si era ritagliata la sua sala operativa.»

«Aspetta per cantare vittoria, prima esaminiamo queste scartoffie.» Sembra come se Lorraine avesse lasciato qualcosa a metà per riprendere entro breve. La penna senza cappuccio su un block notes, appunti, cifre, una lista della spesa. Niente computer.

«Non pare ci siano segni apparenti di disordine, di frettolosa ricerca di qualcosa

da parte di qualcuno.» Rebecca accende la propria torcia rischiarando notevolmente l’ambiente, osserva meglio sulla scrivania, poi sul pavimento e contraddice Mauro. «Guarda qui, e qui. Libri sparpagliati, questa rivista a terra, questi foglietti quaggiù. Qualcuno è stato a frugare, visti però gli inesistenti segni di scasso possiamo affermare con certezza che dev’essersi trattato di De Dietrich: dopo la tragedia è finalmente potuto venire a controllare cosa combinasse qui sua moglie o semplicemente è venuto a dare un’occhiata veloce per trovare traccia dei soldi che lei gli sottraeva. Chissà se De Dietrich ha scoperto qualcosa qui dentro?»

Mauro urla sottovoce. «Rebecca! Spegni immediatamente la tua torcia, non è schermata come la mia.»

«Chi vuoi che ci veda, siamo praticamente in mezzo al bosco.» Rebecca continua a rovistare a terra mentre Mauro si concentra sul piano della scrivania. Sotto ad una pila di riviste di arredamento e libri di preghiere, Rebecca è attratta da un tomo più voluminoso degli altri sulla cui costa è stampigliato un nome che le suona immediatamente familiare: Carlo Rubbia. Il libro, dopo una veloce scartabellata, si rivela un trattato di fisica sul solare termodinamico. Un segnalibro fa capolino tra le pagine, richiama un paragrafo cerchiato a matita nella sezione delle conclusioni. “Pertanto dati gli attuali limiti, per un’ottima efficienza del solare termodinamico sono necessarie vaste superfici e l’ideale di irraggiamento è rappresentato dalla fascia equatoriale. In Italia, le migliori garanzie di irraggiamento vengono fornite dalla Sicilia, dalla Puglia e da qualche zona della Sardegna.”

Mauro spunta sopra la spalla di Rebecca ancora china sul libro. «Ma certo! Che stupido a non averci pensato prima. I progetti di parabole, le formule chimiche e i valori di potenza elettrica, le carte che hai trovato da tuo padre si riferiscono a studi sul solare termodinamico.»

«Sarebbe?»

«Te lo spiego dopo, ora non abbiamo tempo, cerchiamo ancora se troviamo qualcos’altro.»

Sul segnalibro c’è appuntato un nome a matita: Ludovico De’ Canestrelli.

Il “Circolo dei Longobardi” è un’associazione di cacciatori di selvaggina fondata da un gruppetto di amici composto da De Dietrich e da alcuni suoi facoltosi sodali, industriali e vignaioli. Per loro, iscriversi alla sezione venatoria comunale mescolandosi alla plebaglia, sarebbe risultato sicuramente troppo svilente. Pertanto, dopo aver realizzato che mettendo insieme i fondi di proprietà di ciascuno avrebbero ricoperto diversi ettari contigui di boschi e vigneti attorno a Manzano, hanno deciso di ritagliarsi una elitaria riserva di caccia dove poter scorrazzare con la doppietta. Il lunedì rappresenta la serata del ritrovo settimanale nella villa di De Dietrich, la sede sociale. Si cucina la carne ben frollata delle prede della settimana prima, si beve molto, si fuma in libertà, si inizia ad ingigantire la taglia del capriolo catturato, si esagera con la ferocia del cinghiale abbattuto, si magnifica la bravura del proprio spinone, si decantano le novità dell’ultimo fucile acquistato. Prima di iniziare i discorsi seri, cioè la conta con relativi boccaceschi dettagli su quante segretarie, banconiere, cassiere, parrucchiere e estetiste ognuno di essi sia riuscito a “impalmare” durante la settimana, Alvaro Brancacci conosciuto nella cricca come “il tailandese” per i suoi frequenti viaggi di piacere in quelle terre, esclama eccitato sovrastando tutto e tutti, «questa sera festeggiamo il mio nuovo acquisto: mi son fatto la BMW!»

Un coro di «paga da bere! Paga da bere!» e di applausi lo seppellisce di malcelato orgoglio da cui se ne esce tronfio con «andiamo fuori a vedere quante bottiglie di Sossò riescono a contenere le valigie portabagagli.» La rubizza comitiva si riversa chiassosa nel patìo, il tailandese sparisce nel parcheggio e ricompare dopo pochi secondi in sella alla sua rombante R1200 GS con due grosse e squadrate valigie di alluminio appese ai lati. Tutti sono intenti a rimirare la moto circondando il tailandese di complimenti e richieste di dettagli, meno De Dietrich che si era già preparato a dover trattenere i dobermann affinchè non

disturbassero i suoi ospiti. I cani però non ci sono, De Dietrich li richiama fischiando ma di loro nessuna traccia. Un chiarore attira il suo sguardo verso la sommità della collina, un secondo aggio di luce fioca ma distinta lo allarma. «CHI CAZZO C’E’ LASSU’?»

«Lassù dove?» rispondono in coro i longobardi rubizzi e assetati con gli occhi rivolti dentro le valigie piene di bottiglie di vino.

«Alvaro, prestami la moto, faccio un giro di prova.» Un secondo dopo, il tailandese è a terra disarcionato mentre De Dietrich semina le bottiglie di Sossò sobbalzando a gran velocità su per la collina.

«Mauro! Che cacchio è quel siluro che ci sta venendo addosso?» Mauro compare dietro Rebecca sull’uscio della chiesetta.

«Cristo Santo! Ci hanno beccati! I telecomandi, presto! Accendi accendi, dai qua, oddio qual è quello laggiù, il più lontano? Questo?»

«No forse questo, oddio arriva arriva!»

«Ti avevo detto di spegnere la pila!»

«Non pensare alla pila! Schiacciane uno a caso. DAI! E’ GIA’ QUI!»

«VAI DENTRO! CHIUDI GLI OCCHI!»

BOOOOM!

Il pavimento della chiesetta si è riempito di terra, sassi e detriti, i due kamikaze sono miracolosamente illesi essendosi riparati all’ultimo istante dietro lo stipite.

«Coglione! Hai esploso il boccione qui vicino e sarà stato anche il più potente! Per poco non ci ammazzavi!» Rebecca percepisce il suono delle sue parole come se provenisse dalla cornetta del telefono, i timpani ne hanno risentito.

«Però si è fermato, il faro della moto è immobile!» Anche Mauro ha la sensazione di parlare con sé stesso al telefono oppure sott’acqua.

«Ma non se ne sta andando, è fermo là, sarà più o meno all’altezza del boccione più lontano, anzi è fra i due boccioni superstiti.»

«Li faccio saltare, per sicurezza esplodo insieme tutti e due.»

«No! Calma, giochiamocela bene, il verde è ormai andato a cazzo ma gli altri due non possiamo sprecarli. Non sappiamo se sono abbastanza potenti da buttarlo giù. E ricordati che la casa era piena di gente che ora sarà là sotto a guardare. Il rosso è quello lontano e il blu quello a metà. Io ora scappo andando verso il ruscello. Lui vede qualcuno e riparte verso di me, verso il blu che tu fai saltare. Se non lo butti giù speriamo che almeno si spaventi e faccia dietrofront. A quel punto aspetta che i il rosso e fai saltare anche quello, in modo da dare l’impressione che la via sia totalmente insicura e far così desistere qualsiasi tentativo di rivalsa di quelli laggiù. Devono starsene là e chiamare la polizia, se

vengono su siamo fregati. Pronto?»

«Ok! Vai!»

Rebecca schizza via con il cappuccio della felpa a coprirsi il volto. Come previsto, De Dietrich riparte impavido a caccia di gazzelle. Mauro questa volta azzecca e aziona il blu, quello giusto.

BOOOOM!

L’esplosione è simile alla precedente, lo spostamento d’aria è notevole e De Dietrich viene sbalzato dalla BMW finendo a terra lungo, in mezzo a foglie e rami secchi. La moto è morta e i proiettori puntano De Dietrich che, lamentoso, fatica a rialzarsi. Mauro lo vede in difficoltà, quel tipo sarà a una cinquantina di metri da lui, probabilmente non sospetta che dentro alla chiesetta ci sia ancora qualcuno. Devo scappare ma quello è troppo vicino, e se mi rincorre? Mauro attende qualche secondo augurandosi che l’improvvido Donchisciotte di nuovo in piedi, anche se barcollante, decida di ritornare giù. Cazzo cazzo! Viene qui! Fanculo! Mauro esplode il terzo boccione, quello più lontano.

BOOOOOOOOM!

Era quello realmente con più carica. Una nuova potente gragnolata di terriccio e sassi piove contro la facciata della chiesetta entrando parzialmente attraverso la porta aperta.

Mauro si era tappato le orecchie tra le ginocchia, si affaccia guardingo e gli sembra di scorgere una giubba riversa in una ceppaia di castagni a una ventina di metri dalla porta. La giubba respira. E’ ancora vivo ma sembra fuori combattimento. Vado e che Dio me la mandi buona!

Due minuti a rotta di collo giù dal pendio e Mauro ritrova Rebecca con la Tenerè già in moto.

«Via! Via!»

«Solo strade sterrate, mi raccomando!»

Un uomo alto e innervato esce dall’ombra del bosco e colpisce alla nuca De Dietrich. Così se ne starà buono ancora per un po’. L’uomo entra nella chiesetta calpestando lo strato di terriccio proiettato dalla recente esplosione e si accinge a frugare tra le quattro mura pseudo sacre diventate ormai frequentatissime in quella notte di ottobre. Dannazione! Cinque ore immobile dietro agli alberi per non trovare niente di rilevante. D’accordo che quando ero in America per il controspionaggio russo me ne capitavano di peggio, però sto iniziando a stufarmi anche ora.

Giunti alle porte di Manzano, Mauro e Rebecca adocchiano dei lampeggianti blu. Mentre se ne stanno acquattati tra i filari di un vigneto aspettando che le guardie sfilino via, Rebecca chiede a Mauro «tutto secondo i piani?»

«Più o meno, comunque sia chiaro: non sono un coglione!»

Rebecca sghignazzando si scusa. «Ho sentito l’ultimo botto, è stato grandioso. Ho temuto che fosse venuta giù la chiesa con te dentro. Ricordati per la prossima volta: almeno quaranta secondi di gas, e magari anche delle biglie di vetro.»

45

Il giorno dopo, nel salotto dei Carinci trasformato ormai in un quartier generale del Mossad, Rebecca e Mauro rilevano che una piccola parte delle formule indicate negli schemi nascosti da Lorraine nelle serre di Giordano corrispondono a quanto esposto da Rubbia sul libro del solare termodinamico rinvenuto nella chiesetta la notte precedente.

«Ti spiego cos’è il solare termodinamico.»

«Tranquillo Mauro, questa mattina in biblioteca mi sono fatta una cultura in merito. In pratica si montano degli specchi parabolici su vaste superfici o su torri ben irraggiate dal sole, tipo nei deserti. I raggi solari così catturati vengono concentrati nel fuoco delle parabole dove si fanno are dei tubi contenenti olio speciale che, scaldandosi, produce vapori che a loro volta muovono delle turbine che generano corrente elettrica.»

«Non male, il riassunto può andare.»

«Non ho capito però una cosa: perché tanta fatica se con un pannello fotovoltaico si ottiene sempre elettricità?»

«I vantaggi del termodinamico sono molto semplici: il processo rende molto di più in termini energetici e non ci sono i costi altissimi del silicio che serve per i pannelli fotovoltaici. Di contro non può essere installato a latitudini poco soleggiate e ora come ora si giustifica solo in impianti di grandissime dimensioni. Forse le formule chimiche indicate nei progetti si riferiscono a degli

oli di nuova concezione, magari più performanti, che ne so. Ci mancano altri elementi per capirne di più.»

«Ci sarebbe la memory-stick ma è criptata, potrebbe contenere il seguito oppure rivelarsi una copia elettronica di quanto vediamo su carta.»

Rebecca e Mauro ipotizzano che De Dietrich non sapesse, almeno fino all’assassinio di Lorraine, dell’utilizzo della chiesetta a mo’ di ufficio, dove quasi sicuramente lei lavorava per conto suo ad un non ben identificato progetto di solare termodinamico. Perozzi aveva scoperto che Lorraine portava soldi a Montecastello e che aveva anche un conto in Svizzera. Lorraine aveva nascosto il progetto ed era molto preoccupata. Ma chi o cosa temeva? Il marito? Qualcun altro? Se Lorraine ha nascosto i progetti nelle serre di Giordano, sicuramente il marito era all’oscuro del progetto termodinamico in quanto ce l’ha a morte con chi gli ha toccato la donna, infatti se De Dietrich fosse stato in combutta con Lorraine sarebbero sicuramente andati altrove per nascondere il progetto da terzi.

«Bene, siamo sicuri che Lorraine ha tenuto fuori suo marito da questo progetto. Forse già dall’inizio o forse dopo la infuocata scenata, degenerata poi in lite, di cui ti ha riferito la segretaria, quella Deborah. Sappiamo cos’è il solare termodinamico. E ora?»

«Abbiamo questo nome indicato sul segnalibro.»

«Già, ma chi è ’sto Ludovico De’ Canestrelli?»

Dopo varie ricerche, l’unico Ludovico de’ Canestrelli che trovano è un conte che

abita nei pressi di Udine.

Dalla finestra del salotto, Rebecca scorge una BMW Z4 infilarsi a cento all’ora nel parcheggio delle serre. «Ommerda! E’ tornato quel dannato Alberto Milano! Ora andrà a scocciare nuovamente mio padre e oggi Pacciani non c’è. Chissà se è una combinazione o se l’ha tenuto d’occhio?» Rebecca spiega a Mauro le intenzioni di quel fastidioso e insistente agente immobiliare. «Dobbiamo sistemarlo. Domani torna Pacciani, tu e lui dovete togliercelo dalle palle.»

«Basterà una bibita a base di antigelo o di botulino?»

«Qualunque cosa, basta che non si faccia più vedere qui.»

Sul fronte delle indagini, l’unica strada da battere per ora è quella del conte De’ Canestrelli. Urge trovare una scusa per andare da lui.

«Ci sono! Guarda su questo sito: il conte affitta la sua villa alle porte di Udine per eventi e matrimoni. Potrei fingere di essere una studentessa universitaria che deve fare una tesina sulla sua magnifica dimora.»

Rebecca telefona all’istante al numero indicato fornendo false generalità, visto che il suo nome è ormai associato ad un’assassina a piede libero. Il conte abbocca e si danno appuntamento per due giorni dopo.

«Ma sei impazzita a volerci andare tu? La tua foto è stata su tutti i giornali, se quel conte fosse in qualche modo implicato nei traffici di Lorraine, si

insospettirebbe alquanto a trovarti in casa sua, non trovi?»

«Il mio avvocato stentava a riconoscermi con il nuovo taglio di capelli. Aggiungerò un trucco pesante e un abito adeguato e non ci saranno problemi.»

«Come vuoi, comunque è meglio che io venga con te.»

46

La dimora del conte Ludovico De’ Canestrelli è una grande casa gentilizia del Settecento. Rebecca e Mauro percorrono con la Skoda Felicia il viale alberato d’accesso e parcheggiano accanto alla fontana circolare davanti all’ingresso.

Salendo la gradinata che conduce al mezzanino, ammirano i due arbusti di bouganvillea che, simmetrici, incorniciano la porta d'ingresso ergendosi eleganti con le brattee ancora violette, nonostante l’ormai esaurita stagione calda, ben oltre il balcone aggettante, coprendo parzialmente i rilievi del cornicione marcapiano.

Vengono accolti da un signore dai modi spicci, sedicente assistente del conte. A Rebecca quell’uomo dall’aspetto belluino, con le guance cascanti, la faccia larga, l’espressione ingrugnita, il ventre gonfio e le gambe storte, pare un bulldog in piedi. Il bulldog su due zampe li introduce nella bussola, un parallelepipedo ricoperto su lati e soffitto da perline in legno scuro, tipo noce tanganica. Un vano più simile ad un cubicolo che ad un’entrata principale. L’unica nota vivace in mezzo a quel buio spicca da due lunghe tavolette colorate, appese come fossero dei quadri. La porta dell’ingresso, grazie a un meccanismo di richiamo, si richiude alle spalle del terzetto lasciando filtrare una mosca che si dirige ronzante verso l’assistente.

Rebecca è percorsa da un senso di sottile claustrofobia. Anche Mauro si sente temporaneamente intrappolato nel cubicolo. Dopo alcuni interminabili secondi, su una delle pareti le perline si muovono illuminandosi, rivelando così una porta a tutta altezza che introduce al salotto di rappresentanza del conte. Mentre Rebecca realizza che molto probabilmente ogni lato della bussola doveva custodire una porta di accesso ad altre stanze, una voce dall’interno invita con cordialità «prego, si accomodi.»

Mauro e Rebecca abbandonano l’assistente avanzando nella stanza inondata dalla luce abbacinante del mezzogiorno. Il salone si affaccia per tre lati sul giardino, esposto a sud.

«Ben arrivata signorina Letizia, mi aspettavo lei da sola ma vedo che si è fatta accompagnare.» Dopo essersi chinato per un baciamano sfiorando con il naso affilato e le sopracciglia cispose il dorso destro di Rebecca, il conte Ludovico De’ Canestrelli chiede «chi è il bel ragazzo che l’accompagna? Il fidanzato?»

«Buongiorno a lei signor conte, lui è Ottavio, un mio compagno di corso.» Il conte accenna ad un saluto cordiale anche in direzione di Mauro, stringedogli mollemente la mano. Come pattuito, inizia a descrivere e a magnificare la sua dimora ai due pseudo-studentelli universitari.

Dalle ampie vetrate si scorge la vegetazione lussureggiante, il pozzo ormai in disuso e il retro di una chiesetta, un tempo di proprietà del casato nobiliare, poi ceduta alla popolazione del borgo dalla madre del conte.

«Questo posto, signori miei, è ricco di storia. Un assaggio lo avete avuto già all’ingresso: le bandinelle in legno colorato, che avrete sicuramente notato appese nella bussola, provengono da veri carri siciliani venuti fin qui a rifornire le truppe durante la Grande Guerra. Questa casa è molto grande, milleottocento metri quadri. Poi ci sono le depandances. Ad esempio, percorrendo quella stradina laggiù,» indicando oltre la vetrata un vialetto in terra battuta che si inerpica fino a un piccolo edificio che troneggia su un’altura, «si arriva all’ex casino di caccia con a fianco il roccolo di carpino bianco per l’uccellagione, la bressana, come la chiamano da queste parti. Fino a cinquant’anni fa rappresentò un ottimo cespite di reddito per la mia famiglia.»

Le pareti del salone sono impreziosite da una boiserie in un’essenza dalle tonalità del miele. Rebecca nota verso il fondo uno strumento musicale d’epoca. Sarà un clavicembalo, o più probabilmente un forte-piano. La coda dello strumento è ingombra di fotografie in bianco e nero incorniciate d’argento, sicuramente avi altolocati del conte.

«I miei genitori,» aggiunge didascalico il conte cogliendo l’interesse di Rebecca, «e quello a cavallo è mio nonno, la foto è stata scattata a Roma, durante un torneo di polo in cui si permise di battere nientedimenochè Filippo Secondo di Edimburgo, il padre di Carlo d’Inghilterra.»

Sul lato opposto allo strumento musicale c’è un caminetto dalle pareti annerite che probabilmente aveva visto il fuoco per l’ultima volta nel secolo precedente. Lungo tutto il perimetro della stanza trovano posto alcune sedute in legno curvato e paglia di Vienna accanto a divanetti fintamente antichi.

«Vedano i miei studenti in erba, apprezzino i preziosi disegni di divinità egizie sui paralumi in papiro di quelle lampade, laggiù vicino alle poltrone.»

Rebecca, osservando le teste d’ibis, di gufi e di babbuini indicate dal conte, cerca di risultare empatica dimostrando meraviglia. «Signor conte, non sapevamo che fosse anche un antiquario con una certa competenza e gusto. Complimenti.»

La visita prosegue salendo un ampio scalone in pietra che conduce al piano superiore.

«Questa scala, ahimè, è costata un occhio. Era malconcia e ho dovuto farla rifare di sana pianta.»

Mauro, accucciandosi su un gradino, osserva, «sembra antica, avete recuperato le pietre altrove?»

«No, sarebbe costata ancora di più. Le pietre sono nuove e per far antichizzare le pedate le ho fatte consumare con una levigatrice professionale. Il risultato direi che è eccezionale se ho gabbato anche due promettenti studenti come voi.»

Traslando di stanza in stanza, il conte è preso nelle sue spiegazioni e Rebecca e Mauro non sanno come virare sul tema di Lorraine e affini. Riescono solo a carpire che il conte appartiene ad una nobiltà ormai decaduta, dotata solo di lignaggio e pochi soldi. Le entrate derivano pricipalmente da un’attività di importazione di caffè dal Brasile, mentre i ricavi derivanti dall’ex casino di caccia convertito in struttura ricettiva e dall’affitto dei saloni della villa per cerimonie e convegni, coprono a malapena le spese di manutenzione della struttura.

Sulla via del ritorno, i due finti studenti tracciano il bilancio del tour culturale. «E’ stato un fiasco.»

«Torneremo a trovarlo. Per oggi era praticamente impossibile fare di più.»

Mauro pensieroso ipotizza, «forse lui era l’amante della signora De Dietrich.»

«Macchè amante, non hai notato come ti guardava con quegli occhi di triglia? Guardava te e non me, nonostante mi fossi messa in ghingheri. Quello è finocchio, garantito!»

«Mmmpf, sarà. Non me ne sono accorto. Piuttosto, ho notato una orribile cicatrice nel palmo della mano dell’assistente, mentre scacciava la mosca nell’ingresso.»

«Parli di Faccia di cane? Anzi, meglio Faccia di bulldog.»

«Esatto, lui. Aveva una orrenda cicatrice diagonale, massacrata dai segni di maldestri punti di sutura. Un lavoro da macellaio. Sembrava un po’ ritardato, mi ha fatto quasi pena.»

«A me faceva paura.»

47

Il giorno seguente Rebecca medita di ritornare a Montecastello in cerca del fantomatico “frate buono” di cui le aveva parlato Perozzi. Ipotizza anche di contattare il collaboratore di Fidelio Bernetti, il commercialista di Lorraine. Immediatamente però le riappare davanti agli occhi la donna corpulenta appesa sotto il Ponte del Diavolo e desiste optando per mettersi a scrivere un resoconto dettagliato sulla vicenda complessiva, nella speranza di far emergere corrispondenze o dettagli trascurati.

Nel frattempo, nel parcheggio della “Carinci frutti di bosco,” staziona una sinistra auto grigia con striscia gialla da cui escono quattro finanzieri. Dopo pochi minuti Giordano è costretto ad allontanare le clienti, impegnato com’è ad esaudire le richieste dei militi che stanno rivoltando registri e partitari con freddezza da becchini. La visitina della guardia di finanza è opera di De Dietrich che, incattivito dal momentaneo insuccesso dei suoi sforzi per annientare economicamente Giordano, ha tentato in questo modo un’azione disturbatrice, con il fine principale di scoprire da dove Giordano tragga la provvista con cui ha iniziato con solerzia a ripianare i debiti con la banca.

Rebecca, su un binario morto nel tracciare gli schemi delle sue indagini, indugia gironzolando nervosamente nella sua camera finchè d’un tratto scorge dalla finestra l’auto dei finanzieri. Ma porca miseria! Ci mancavano solo loro! Esce precipitosamente di casa per dirigersi verso le serre quando si imbatte nel Pacciani più serafico che avesse mai visto. «Ciao Pacciani, che ci fanno quegli stronzi da mio padre?» folgorando l’auto grigia con lo sguardo.

«Seccature, che altro.»

«Ora mi sentono, non possono permettersi di rovinarci ulteriormente l’esistenza!»

Pacciani la blocca afferrandola energicamente per un braccio. «Hei piccola, stai tranquilla. Ci ha già pensato il compagno di merende.» Rebecca lo fissa incuriosita.

«Vedi, quando sono arrivati tutti baldanzosi ero laggiù a spaccare un po’ di legna per tuo padre. Ho visto tutta la scena e li ho tenuti d’occhio. Tre sono dentro nelle serre e uno se ne sta fuori a piantonare la macchina.»

«Ma io non vedo nessuno vicino alla macchina.»

«Ritornerà subito, ha chiesto a Giordano dove fosse il bagno. Fatto sta che se ne stava là a ronzare attorno alla macchina fumando in continuazione. Ora, a me stanno sulle palle le divise, ancora di più quelle prepotenti, aggiungi che a voi ci tengo come foste la mia famiglia visto che non ne ho una…ops, ecco che arriva lo stronzo, fai la disinvolta e vieni via con me verso la legna, non guardarlo.» Pacciani, abbassando il tono di voce, continua a rivolgersi a Rebecca con aria serena e rilassata. «Dunque, mentre si è assentato ho preparato una bella sorpresa. Da quaggiù ce la godremo alla grande. Guardalo là, tutto pieno di sé a far la guardia alla macchina, con la sua mitraglietta, il pizzetto rifinito e la giacca impeccabile. Crede di essere il padrone del cortile. Gli manca solo la marcia di Radetzky in sottofondo.»

«Scusa, ma cosa dovrebbe accadere?» chiede Rebecca divertita dallo stuzzicadenti che oscilla perennemente ai margini della bocca di Pacciani.

«Ragazza! Pazienta un attimo. Devi sapere che io sono sempre stato attratto da contrabbandieri, bracconieri, corsari, uscocchi e trafficanti vari. Si sporcano le mani, questo è vero, ma a loro modo sono riusciti a metterlo nel culo al sistema, disonesti sì ma con coerenza. Odio invece i politici, tutti, che non perdono occasione per ripetere che loro si fanno in quattro per il bene del Paese e dei cittadini. Invece sotto sotto lo mettono in culo alla grande proprio a quei babbei che li hanno liberamente e regolarmente eletti. E mi fanno venire i brividi i loro cani da guardia, cioè le forze dell’ordine tipo quello laggiù, che con atteggiamenti prevaricatori vessano la gente o magari in tenuta antisommossa picchiano i poveri cristi che scendono in piazza per manifestare i propri diritti. Come in un Paese africano o sudamericano. Maiali senza cervello!»

Pacciani si interrompe fissando il finanziere che armeggia per accendersi l’ennesima sigaretta. Per un istante, lo stuzzicadenti cessa le sue oscillazioni prima di riprendere, «ci siamo! Inizia la rivoluzione del popolo!»

Rebecca volge lo sguardo al finanziere proprio nel momento in cui, tronfio accanto alla macchina, scocca la scintilla dell’accendino. Per qualche motivo apparentemente inspiegabile, il milite lancia un urlo e con un balzo scomposto si discosta immediatamente dall’auto portandosi contemporaneamente le mani a coprirsi la faccia. Pacciani ride sommessamente. Rebecca non sta capendo nulla. Il milite ritorna ad avvicinarsi all’auto ma, giunto a circa mezzo metro, ritorna a balzare all’indietro lamentoso. Intanto la striscia gialla sulla fiancata dell’auto si sta squagliando.

«Ma che sta succedendo?» chiede Rebecca a Pacciani che ormai se la sta facendo addosso dalle risate.

«Col suo cazzo di accendino ha dato fuoco alla macchina.»

«Ma se non si vedono le fiamme…»

«Per forza! Ho cosparso la macchina di metanolo e la fiamma del metanolo è invisibile.»

«Geniale!»

«Aspetta aspetta, vediamo cosa succede ancòra.»

Il finanziere intanto, preso dall’agitazione data dalla vampata di calore che gli ha bruciacchiato ciglia, sopracciglia e pizzetto, chiama aiuto a squarciagola e tenta un eroico gesto per aprire l’abitacolo e accertare se quel calore fortissimo provenga dall’interno, provocato magari da qualche cortocircuito elettrico.

Pacciani ormai è in estasi. «Omioddio, che coglione!»

Ride anche Rebecca. «D'altronde la consegna era di badare all’auto e lui ce la sta mettendo tutta.»

Come lo sportello dell’auto viene aperto dal milite, le fiamme si propagano nell’abitacolo aggredendone l’interno in pochi secondi. La combustione della tappezzeria e delle imbottiture fa sì che le fiamme, prima trasparenti, diventino visibili. La scena che si presenta ai tre finanzieri che accorrono trafelati alle richieste di aiuto è di un’auto in fiamme, il loro collega che rotola a terra anch’esso avvolto dalle fiamme, un omone che per spegnergli la divisa infuocata lo sta frustando energicamente con un giaccone, una graziosa gazzella che sbuca

da chissà dove brandendo un estintore. Quello che i tre finanzieri non vedono sono i sassi con cui Pacciani ha riempito le tasche del giaccone con cui sta “spegnendo” il loro collega. Quando Rebecca è in procinto di avvicinarsi con l’estintore all’auto ormai divorata dalle fiamme, Pacciani istrionico allarga le braccia urlandole «allontànati! Per l’amor di Dio! Potrebbe esplodere!» La pièce teatrale è così convincente che anche i finanzieri arretrano di qualche metro. A quel punto Pacciani, padrone assoluto della scena, rivolgendosi ai militi cala la battuta che gli vale la nomination per l’ Oscar, «e voialtri, non statevene là impalati come stoccafissi! CHIAMATE I POMPIERI, PERDIO!» Rebecca, dentro di sé, sommerge Pacciani di applausi.

In pochi minuti il piazzale è occupato da due autobotti, due ambulanze e una camionetta della finanza. Le fiamme vengono domate ma l’auto è ormai un rottame. Il finanziere incendiario viene imbarellato e portato via. Il tenente dei finanzieri si avvicina a Pacciani incensandolo di ringraziamenti per aver salvato la vita al collega. «…e mi dica un po’, per caso ha visto com’è successo?»

Pacciani risponde vago. «Guardi, ero impegnato col mio lavoro ma mi è parso di vedere…anzi non sono sicuro, non saprei...»

«Si rifiuta di collaborare?»

«Semplicemente non vorrei mettere in difficoltà il suo sottoposto.»

«Non si preoccupi che a lui ci penso io.»

«Come comanda, tenente. In due parole ho notato, mentre andavo avanti e indietro con la legna, che il suo collega era sempre con la sigaretta in bocca.»

«Dannazione, Ranelli! Gliel’ho detto mille volte che non si fuma in servizio.»

«Ecco vede, ora Ranelli è rovinato, mi dispiace. Comunque era là che fumava sigarette a ripetizione. Ad un certo punto dev’essersi scaricato l’accendino perché mi si è avvicinato chiedendomi da accendere ma io, non fumando, non ho potuto essergli d’aiuto.»

«Ha fatto bene, caro signore.»

«Dopodichè il suo collega, Ranelli, è entrato in auto per, immagino, usufruire dell’accendisigari e lì dev’essergli scivolato qualcosa che ha innescato l’incedio. Fortuna che non si è propagato alle serre del signor Carinci.» Pacciani prosegue sottolineando parola per parola, «sarebbe stato un disastro colossale causato da un’imprudenza di un servitore dello Stato durante l’esercizio delle sue funzioni.»

Il tenente accusa il colpo. «Ehm…in effetti…»

Individuato il varco, Pacciani non esita a tuffarsi di testa per insaccare la palla. «Dia retta a me signor tenente, il signor Carinci è persona scrupolosa e di specchiata onestà e correttezza. Non conosco il motivo di questa vostra incursione ma sappia che qui è tutto in ordine. Ora raccolga le sue cose, si scusi con il singor Carinci per il trambusto e faccia in modo che non venga più seccato. Vedrà che in questo modo il comportamento indisciplinato di Ranelli rimarrà top-secret. Ah, un’ultima cosa: logicamente Ranelli, per nascondere il madornale errore, negherà quanto le ho riferito.»

«Non si preoccupi, messaggio ricevuto.»

48

Il sabato, confidando in un effetto sorpresa, Rebecca e Mauro ritornano dal conte senza preavvisarlo. I cancelli della proprietà sono fortunatamente aperti così, dopo aver percorso il vialetto, possono bussare direttamente all’ingresso principale. Di Faccia di cane nessuna traccia. Bussano e suonano ancora, si divertono ad insistere sghignazzando come due monelli finchè si affaccia il conte, canuto e segaligno in vestaglia e pantofole.

«Ah, siete voi. Perdonino l’abbigliamento inadeguato ma non aspettavo visite, data l’insistenza del camlo immaginavo fossero arrivati in anticipo gli ospiti che attendevo per il pomeriggio.»

Mauro accampa con deferenza una scusa già preparata. «Signor conte, le rubiamo pochi minuti, volevamo semplicemente sottoporle quanto prima il risultato del nostro resoconto sulla sua magnifica villa. Abbiamo redatto una tesina che presenteremo lunedì al nostro professore, gradiremmo però un suo parere preventivo, così se c’è da aggiustare qualcosa abbiamo tutto il fine settimana per farlo.»

Il conte, con malcelata riluttanza, fa entrare i due seccatori. «Oh, certo. Accomodatevi, prego.» Mentre attraversano le perline del cubicolo buio, Rebecca per stemperare l’imbarazzo nell’aria chiede «come mai non è venuto l’assistente ad aprire? Si è per caso ammutinato?»

«No no, è solamente in città a sbrigare delle commissioni per me.»

Il conte li introduce nel salone di ricevimento e fa per congedarsi brevemente, «vado a cambiarmi d’abito.» Rebecca, data l’assenza fortuita di Faccia di bulldog, decide di cogliere al volo l’occasione propizia e gli sbarra il o. «Signor conte, non sono necessarie tante formalità davanti a due semplici studenti come noi, può controllare la tesina anche indossando la tenuta da camera.» Mauro dà seguito alla provvidenziale mossa di Rebecca e sbatte sul forte-piano il libro rinvenuto nella cappellina di Lorraine. «Non ci aspettiamo che lo legga tutto, ci accontentiamo di un giudizio sommario.»

Il conte, scrutando la copertina del saggio sul solare termodinamico, si irrigidisce dando loro il segnale che attendevano: l’ha riconosciuto come fosse qualcosa di familiare! Direi che siamo approdati nel posto giusto, conclude tra sè Rebecca domandandogli istantaneamente a bruciapelo «conosce chi ci ha dato questo libro?» Il conte indietreggia allarmato. Mauro rintuzza, «la prego signor conte, non ci tenga sulle spine, ci dica qualcosa.»

Il conte De’ Canestrelli abbozza un «non so di cosa stiate parlando» e Rebecca avvampa perdendo il controllo. Lo aggredisce con furia incontrollabile, come le successe con il giornalista Marco Baseri nella notte sulle colline di Fagagna. Mauro, inizialmente sbigottìto, finisce per darle manforte. Seguitano a pestarlo e interrogarlo ma stoicamente il conte rimane muto.

«Mi stia bene a sentire, conte dei miei stivali: se non l’ha ancora capito, io sono Rebecca Carinci. Sono sospettata dell’omicidio di Lorraine De Dietrich, ma sono innocente! Se lei sa qualcosa deve parlare! Mi aiuti, dannazione!» La violenza dei colpi aumenta, il conte è a terra in balìa dei calci che gli grandinano in faccia, sulla schiena e affondano nell’addome.

Il conte, stremato dalle botte, bofonchia sangue e qualche monosillabo in segno di resa. «Avete vinto.» Rebecca e Mauro si siedono sul pavimento in ascolto.

«Quel libro lo diedi io alla povera Lorraine. Dove l’avete trovato?»

Rebecca esplode. «Conte! Le domande le facciamo noi, ci racconti cosa combinava con la signora De Dietrich se non vuole che ricominciamo la cura!»

«D’accordo, d’accordo. Dunque, la conoscevo molto bene.» Dal racconto del conte, Mauro e Rebecca apprendono che sia lui che Lorraine frequentavano da diversi anni le cerchie altolocate della zona udinese. «Un giorno, diversi mesi fa, in un incontro al Rotary Club mi avvicinò un sedicente professore universitario proponendomi un affare, un grosso affare, disse. Sosteneva di lavorare al centro di fisica teorica “Abdus Salam” di Trieste. In rete con altri due studiosi italiani, uno in Spagna e uno in Sud America, era segretamente impegnato sullo sviluppo di un progetto volto al miglioramento della tecnologia che sottende il solare termodinamico. I tre erano ex-compagni di corso alla Normale di Pisa e da allora, stando al racconto del professore, il loro chiodo fisso era sempre stato quello di riuscire a rendere il termodinamico più efficiente e meno costoso.»

«Ma che c’entra questo?» lo interrompe Mauro.

«Ma come? Non lo capite? E’ una rivoluzione! Il termodinamico è il futuro! Il fotovoltaico è ormai preistoria, per questo motivo stanno vendendo tonnellate di panneli a prezzo stracciato. Per questo stanno facendo il lavaggio del cervello a tutti per installarselo: articoli sui media, conferenze, incentivi, sconti. I produttori di pannelli fotovoltaici ne hanno i magazzini pieni e devono ormai venderli per fare quei quattro soldi fino a saturare il mercato. Il risultato è che oggigiorno cani e porci mettono o hanno già messo i pannelli fotovoltaici a casa, sul capannone o nel campo al posto delle patate, ma è una tecnologia con un rendimento bassissimo e che sta in piedi solo grazie agli incentivi statali e al fatto che di notte qualcuno ti fornisce la corrente che hai prodotto durante il giorno. La grande rivoluzione del termodinamico è che intanto non produci solo energia elettrica ma anche forza motrice e in più puoi immagazzinare l’energia per la notte, per i giorni di pioggia e per le settimane nuvolose: possibilità di

fatto impraticabile col fotovoltaico.»

«Tutto giusto, ma anche il termodinamico ha dei grossi limiti,» interviene Rebecca.

«Certamente: necessità di ampi spazi, irraggiamento di un certo tipo e così via, ma quegli studiosi che mi hanno contattato li stanno risolvendo e in parte li hanno già risolti.»

«Ma come ci entra Lorraine in questa storia?» chiede Mauro alzandosi circospetto e controllando dalle finestre eventuali sentori dell’arrivo di Faccia di cane o di altri disturbatori che sarebbero potuti sopraggiungere.

«Calma, ci sto arrivando. I tre professori hanno capito di aver scoperto qualcosa di grandioso: in soldoni si tratta di una nuova formulazione dei sali di fusione unita a degli innovativi concentratori solari che permetteranno altissimi rendimenti, non servirà più dover avere a disposizione le grandi superfici desertiche per far funzionare un impianto termodinamico. I risultati dei loro studi porteranno a migliorare la tecnologia finora disponibile abbattendone i costi, rendendo così possibile installare su ogni tetto un mini impianto termodinamico che permetterà quindi a chiunque di sganciarsi dal fornitore di energia elettrica, consentendogli l’autonomia anche per un paio di settimane e anche in inverno fino a una latitudine di sessanta, settanta gradi. In pratica anche se la notte durasse qualche giorno intero ci sarebbe sempre corrente a disposizione direttamente dal proprio impianto. Ad esempio alla latitudine di Roma, in primavera, prevedono di avere corrente fino a diciotto giorni di cielo nuovoloso, a Berlino undici giorni, a Helsinki cinque giorni. Hanno fiutato il business grandioso, per questo hanno portato avanti le ricerche all’insaputa delle strutture che li ospitavano. Tutto questo finchè qualcuno ha iniziato a nutrire sospetti sulle loro lunghe permanenze notturne e nei fine settimana all’interno dei laboratori, cosicchè prima di venir scoperti hanno stracciato i rispettivi contratti con le università e i centri di ricerca, hanno trafugato progetti e risultati e si sono dati

alla macchia.»

«Che razza di sanguisughe!» commenta Rebecca.

Il conte, ancora sul pavimento piegato a coccolarsi il ventre, prosegue il resoconto. «Avrebbero vinto il Nobel, garantito! Ma il milione di Euro in palio, unito a possibili contratti con qualche azienducola, sarebbero stati solo delle deplorevoli mance. La gestione diretta dello sviluppo, seppure comportasse rischi non da poco, avrebbe potuto fruttare molto di più.»

Mauro, preconizzando un inopportuno rientro dell’assistente, incita il conte a spicciarsi, «arrivi a Lorraine, diamine! Non ci risulta fosse una luminare in fisica o simili!»

«Se volete capire devo illustrarvi tutti i aggi. I ricercatori fecero un grossissimo azzardo sganciandosi dai circuiti della ricerca ufficiale. Il professore che mi avvicinò, per dare credito a quanto diceva, mi mostrò i ritagli di articoli di cronaca locale italiana e straniera in cui si era parlato della misteriosa scomparsa di loro tre. Essendo i tre ricercatori spariti in zone lontane fra loro e con tempistiche sfalsate, nessuno li aveva ancora collegati. Ricordo che mi disse “Io ero uno di quei cosiddetti baroni universitari, perché crede che abbia abbandonato quelle redditizie rendite di posizione se non credessi fino in fondo alle nostre intuizioni?” Mi spiegò che avevano bisogno di ingenti capitali per portare a termine gli studi e i test pratici. Una volta realizzati i primi prototipi avrebbero poi avuto bisogno di un compratore che, unitamente all’acquisto di quanto prodotto dalle loro ricerche, coprisse il tutto di brevetti. Cercavano qualcuno in grado di comprendere la portata della scoperta e disponibile a riconoscere loro diversi milioni di Euro a titolo di future royalties che i brevetti avrebbero fruttato su scala planetaria all’acquirente. Il loro ragionamento era semplice, una volta terminato il lavoro avrebbero dovuto uscire allo scoperto per trarne benefici economici, ma ciò sarebbe risultato alquanto difficile dato il loro comportamento truffaldino verso i rispettivi centri di ricerca, per questo

volevano scovare un finanziatore disposto a comprarsi il tutto e in grado di trarne autonomamente profitto permettendo a loro di ricrearsi nuove vite e identità ed evitare così grane con la giustizia. I brevetti avrebbero fruttato trilioni all’acquirente, i ricercatori si sarebbero accontentati, si fa per dire, di un anticipo forfettario e omnicomprensivo sui futuri introiti che sarebbero andati integralmente al compratore vita natural durante.»

«Diciamo che miravano a fare il colpo della vita e togliersi dalla circolazione con una mega buonauscita,» riassume Rebecca.

«Esatto, e anche Lorraine voleva a sua volta fare il colpo della vita. Da tempo ero a conoscenza della sua intenzione di separarsi dal marito, solo che prima di farlo voleva garantirsi una certa agiatezza economica, possibilmente superiore a quella garantitagli dal marito durante il matrimonio. Il ricercatore che si rivolse a me, allettato dalla mia fama di persona discreta e riservatissima, si era informato molto bene sul mio stato patrimoniale. Sapeva che non disponevo personalmente di grosse cifre ma sapeva anche che conoscevo e conosco tutt’ora molta gente influente e danarosa.»

«Ci risparmi le autocelebrazioni.»

«Scusatemi.» Ciò che il conte tace a Rebecca e Mauro è che fu praticamente costretto ad accettare il gravoso mandato. Il professore che lo avvicinò al Rotary dimostrò di essere ben al corrente che i suoi frequenti viaggi in Brasile per seguire le piantagioni di caffè sono in realtà solo una mera copertura alla vera origine delle sue entrate economiche, derivanti dallo sfruttamento di un bordello di minorenni in quel Paese. Sotto il ricatto di vedersi rovinata la reputazione in mezza Italia, il conte dovette pertanto accollarsi il compito garantendo la massima discrezione e celerità. «Comunque sta di fatto che l’incarico affidatomi dal professore fu di trovare qualcuno in grado di finanziare in un primo tempo la ricerca e l’acquisto di attrezzature, poi a lavoro ultimato questo qualcuno avrebbe dovuto versare il cospicuo saldo di cui vi ho accennato. Date le

circostanze or ora esposte mi rivolsi immediatamente alla signora Lorraine che colse la validità dell’affare e vi intravide la tanto agognata possibilità di affrancamento dal coniuge. Purtroppo però, neppure lei disponeva della montagna di soldi richiesti dai ricercatori a titolo di buonauscita, come l’ha definita lei, signorina Carinci. Tuttavia, sostenuta dalla sua tempra e motivata fortemente dalla possibilità di allontanarsi una volta per tutte da quel tiranno di suo marito, Lorraine non si perse d’animo ed escogitò un piano magnifico. Assodato che le sue disponibilità le permettevano solo di finanziare la ricerca e l’acquisto delle attrezzature ma non di versare il saldo finale, sfruttò abilmente dei contatti imprenditoriali che lei stessa aveva precedentemente procurato al marito per degli investimenti immobiliari nell’Est Europa.» A Rebecca questa circostanza rimanda immediatamente ai suoi trascorsi a Tivat e chiede «per caso si tratta del Montenegro?»

Il conte prosegue meravigliato, «precisamente, vedo che è aggiornata. Lorraine aveva conosciuto, durante una settimana bianca a Cortina, una russa che le aveva proposto degli investimenti immobiliari proprio in Montenegro. Lorraine riuscì ad ingraziarsela per benino facendole concludere diversi affari dopo averla messa in contatto con il signor De Dietrich. Visti i buoni rapporti commerciali instauratisi propose, all'insaputa del marito e per il tramite della russa, l’investimento nel termodinamico a un gruppo di oligarchi in affari con quest’ultima.»

«E’ così, quindi, che riuscì a individuare gli acquirenti finali. Davvero cazzuta!» commenta Rebecca, «vada avanti conte.»

«Bene, una volta trovato l’accordo coi russi, le intenzioni di Lorraine erano di versare personalmente i soldi occorrenti ad arrivare ai prototipi funzionanti, a quel punto avrebbe intermediato la vendita verso i compratori finali facendoci sopra una congrua cresta. Questo per semplificare il meccanismo teorico. Nella pratica era molto più articolato: per gestire di prima mano la trattativa e bloccare sul nascere eventuali accordi sottobanco fra i ricercatori e i terzi acquirenti da lei reperiti, Lorraine aveva dapprima finanziato la ricerca con consistenti flussi di

denaro. Poi, a progetto avanzato, lo aveva fatto dividere in tre parti acquistando la titolarità assoluta sulla prima parte completata, in modo da poterla assicurare con brevetti validi per Europa e America. Tra l’altro so che stava tentando di estendere la copertura anche ad Africa e Asia. Vendette questo primo step di sviluppo unitamente ai relativi brevetti ai suoi contatti dell’Est e con il ricavato finanziò il secondo step e con lo stesso procedimento sarebbe arrivata in fondo. Ai ricercatori la soluzione escogitata da Lorraine andava più che bene. Logicamente Lorraine non aveva alcun interesse, come i ricercatori, a tenere per sé il progetto definitivo dato che per mettere il tutto in produzione su scala mondiale ci sarebbero volute ulteriori peripezie che Lorraine non voleva affrontare.»

Rebecca chiosa «condivisibile: il classico “sporchi, maledetti e subito”. Ma chi l’ha uccisa? E perché?»

Mauro, sempre più agitato davanti alle vetrate «chi erano gli acquirenti?»

«Non so chi l’abbia uccisa. E non so con precisione chi fossero gli acquirenti che lei aveva trovato. Astuta e diffidente com’era, mi teneva all’oscuro per evitare di venir scavalcata da me.»

«Quindi lei voleva scavalcarla?» Le velate accuse di Rebecca serpeggiano lasciando il conte esitante nel suo ansimare sul pavimento. Rebecca lo fissa inquisitoria, lui la sfida tacendo, lei scatta in piedi distendendosi fulminea come un cobra prima di mordere e un violento calcio viene inghiottito dal ventre molle di Ludovico De’ Canestrelli.

«Maledetta!» Sussurra il conte rantolando e abbracciandosi la pancia.

«Dica la verità! L’ha uccisa lei perché voleva che Lorraine le rivelasse chi erano gli acquirenti e poter trattare così l’affare di prima mano.»

«Avido di un conte!» aggiunge Mauro.

«No! Vi sbagliate. E’ innegabile che avrei voluto arrivare agli acquirenti visto che, per come si era messa l’operazione, io sono quello che guadagna meno, ma non l’ho uccisa io.»

«Ma cosa pretende? Lei è anche quello che rischia e che investe meno, per non dire niente.»

«Non l’ho uccisa io. Credetemi. Lo giuro.»

«E’ sicuro che il signor De Dietrich non sapesse nulla?»

«Quel farabutto del marito? Scherzate? Se lo avesse saputo, lui sì che si sarebbe fatto dare i nomi a costo di ucciderla.»

«Quindi lei sta accusando De Dietrich dell’omicidio.»

«A questo punto tutto potrebbe essere, lui potrebbe aver fiutato qualcosa, l’ha messa alle strette, qualcosa è andato storto e lei è morta. Ma voi come siete arrivati a me?»

Rebecca, incurante della domanda del conte, ragiona con Mauro «se da questo verme siamo arrivati prima noi significa che De Dietrich non sapeva dell’affare, quindi non l’ha uccisa lui perché non sospettava di niente.»

Il conte li interrompe. «Non tirate conclusioni affrettate, voi siete stati bravi a trovarmi, magari De Dietrich sta ancora battendo la pista. Ditemi come siete arrivati a me. Se siete arrivati voi potrebbe arrivare qualcun altro. Sono in pericolo.»

«Ci racconti invece dei ricercatori.»

«Di certo quelli nessuno li può trovare, io sono l’unico tramite per contattarli e nemmeno io so dove se ne stiano rintanati.»

«Lorraine li ha mai contattati direttamente?»

«E’ fuori discussione! Lei si tutelava occultando gli acquirenti finali e io allo stesso modo mi tutelavo occultando i ricercatori.»

«Quindi i progetti acquistati da Lorraine sono ati per mano sua, conte? E i soldi per pagare i ricercatori pure?»

«Non ho gestito né i pagamenti né ho mai viso i progetti. A certi livelli la diffidenza diventa massima. Lorraine, per tutelarsi anche dal marito, aveva chi eseguiva per lei i pagamenti da un conto estero direttamente ai ricercatori. A me

bonificava una miseria come mediazione.»

«Da un conto di Zugo, in Svizzera?» chiede Rebecca ricordandosi di quanto scoperto da Perozzi.

«Perché Svizzera?»

«No niente niente, così.»

«Il bonifico mi arrivava da Banjarmasin, un paesino sperduto nel Borneo Australe.»

«Da dove provenivano le grosse disponibilità di denaro che ha attribuito a Lorraine?»

«Credete che non abbia indagato? Li prendeva dal marito, si trattava dei fondi neri delle attività di De Dietrich.»

«Ma perché lui acconsentiva?» Vediamo se è come immaginavamo noi, pensa tra sé Rebecca adocchiando Mauro.

«Principalmente perché De Dietrich le era debitore visto il grosso colpo di fortuna messo a segno in Montenegro in un momento di stasi del mercato italiano, poi perché lui era un gran puttaniere, mi perdonino il termine, e la cornificava senza ritegno. Avevano trovato questo tacito accordo per cui lei

aveva accesso pressochè illimitato al nero dell’azienda.»

«Non regge!»

«All’inizio era così, lo so per certo. Ultimamente, con il reiterarsi delle pretese economiche di Lorraine, De Dietrich aveva iniziato a stringere i cordoni e lei, per fargli sborsare quanto le serviva, dovette aggiungere le minacce di rivelare agli uccellacci grigi certi trucchetti contabili del marito.»

«Per uccellacci grigi intende la guardia di finanza?»

«E chi sennò? Lei voleva fare sul serio rivolgendosi direttamente ai grandi capi a Roma perché sapeva che qui in Friuli suo marito li aveva già tutti corrotti. Oh com’era scaltra. Sappiate che per non insospettire il marito su questo suo investimento nel termodinamico, per evitare che lui volesse metterci sopra le sue zampacce, fingeva di portarli come beneficenza, non mi crederete mai, ai frati di Montecastello con cui aveva un accordo ben preciso.»

Rebecca pensa alle disavventure sue e di Perozzi a Montecastello prima di esclamare rivolta a Mauro «a questo punto potremmo anche credere alla storiella dei frati.»

«I frati di Montecastello spedivano i soldi recapitati da Lorraine in una loro missione in mezzo ai macachi proprio a Banjarmasin, ovviamente tramite lo IOR che non aderisce in toto ai trattati internazionali sulla trasparenza e sull’antiriciclaggio. I frati si trattenevano il dieci per cento come commissione sulla transazione e con quella cifra si ritenevano soddisfatti. Qui esce il carattere filantropico e devoto di Lorraine, mi spiego? Il resto veniva dirottato dai

confratelli di Banjarmasin su un conto cifrato riconducibile ai ricercatori e una piccola parte arrivava come provvigione per il sottoscritto su un conto che mi ero aperto per l’occasione presso una banca di Graz, nella discretissima Austria. In questo modo era impossibile per Lorraine risalire ai ricercatori ed eravamo tutti a posto. Io ero tutelato, De Dietrich era all’oscuro di tutto e mai e poi mai avrebbe potuto scoprire la triangolazione, i frati non avrebbero mai parlato visto che era nel loro interesse prendersi una fetta. Tutti felici. Fino all’assassinio.»

«E lo scambio dei progetti come avveniva?»

«I ricercatori li hanno fatti recapitare in qualche modo presso i frati di Montecastello. Di me non si fidavano.»

«Quanti sono questi fantomatici ricercatori?»

«Come vi ho detto, ho avuto a che fare solamente con un componente del gruppo in quell’incontro al Rotary club, ma da quanto mi risulta sono in tre.»

«Sicchè, se abbiamo ben capito, ora che qualcuno ha ucciso Lorraine manca il tramite con i compratori e lei, signor conte, è nella merda? Mi perdoni il sismo.»

«Praticamente sì, sono disperato e dopo che voi mi avete individuato sono terrorizzato per la mia incolumità, non lo nego.»

Rebecca lo guarda con disprezzo, il conte ha appena ammesso inavvertitamente

che non gliene frega poi molto di Lorraine.

Accortosi della gaffe, immediatamente egli cerca di recuperare chiarendo «non mi fraintendano, sono alquanto affranto dalla scomparsa della signora Lorraine e soprattutto dalla brutale morte inflittale, ma loro capiranno la mia preoccupazione per questo importante negozio che sta per sfumare inesorabilmente. A seguito dell’omicidio i ricercatori si sono allarmati e, dopo diverse settimane che non trovo il modo di risalire agli acquirenti finali, si sono alquanto spazientiti minacciando di mandare tutto a monte. Il problema è che una parte del progetto, il secondo step, era ancora in mano a Lorraine che l’aveva coperto da brevetti a suo nome e chissà ora dove sono i titoli di quei brevetti. Quando verrano fuori seguiranno l’asse ereditario e siccome figli non ne aveva, andrà tutto al marito. Capiscono che c’era il movente? E’ stato lui, quel farabutto!»

«Suvvia conte, in questo lucroso pasticcio potrebbe essere stato chiunque, anche i frati oltre che lei stesso.»

Il conte sta per aprire bocca in sua discolpa e Rebecca finta un calcione, «per carità, ci risparmi i suoi spergiuri! Piuttosto, approposito di lucro, di che cifre stiamo parlando esattamente?»

«Diversi milioni.»

«SIA PIU’ PRECISO! Quanto volevano per il progetto completo?»

«Eravamo partiti da novecento milioni. Abbiamo chiuso la trattativa a settecentocinquanta.»

Mauro sarcastico «bruscolini.»

Rebecca «tutte cifre divisibili per tre, quindi potrebbero essere realmente in tre solamente. E quanto è stato versato finora?»

«Il finanziamento della ricerca è un pozzo senza fondo, lo si immaginava sin dall’inizio. Nel senso che si presumevano circa quindici milioni di investimento, ma avrebbero potuto essere anche di più. Questo però a noi non interessava più di tanto in quanto i costi di investimento erano una piccola parte dei settecentocinquanta finali. Dopo l’interessamento di Lorraine al progetto, il discorso che mi fece il professore fu il seguente: “noi ipotizziamo circa dieci, quindici milioni per la ricerca, sperimentazione, ingegnerizzazione, messa in opera dei prototipi, test e fornitura dei primi pezzi finiti e funzionanti corredati di progetti completi e brevetti pronti da depositare. Ci date i quindici milioni, o quelli che serviranno, in diverse tranches e andremo avanti a stato avanzamento lavori. Ad ogni step significativo cediamo i progetti e la signora se li brevetta così noi non risultiamo da nessuna parte. A realizzazione definitiva ci sarà un contestuale saldo per arrivare ai settecentocinquanta milioni. Lo scambio avverrà di persona nel nostro capannone-laboratorio, poi noi ci volatilizzeremo e a voi rimarrà il capannone con tutto il contenuto.»

«Ricapitolando: bisognava versare i circa quindici milioni per arrivare a progetto finito e funzionante. Per avere la consegna dell’ultimo step di progetti unito a prototipi e stabilimento bisognava versare i settecento e rotti milioni di differenza per concorrere ai settecentocinquanta totali.»

«Proprio così, e a quel punto Lorraine avrebbe inesorabilmente dovuto aver già incassato preventivamente una montagna di soldi dai compratori che però ultimamente stavano dando segnali di riluttanza al versare una somma così elevata senza avere granchè in mano.»

«A che punto eravate?»

«Ai ricercatori aveva corrisposto circa dieci milioni in diversi versamenti da cinquantamila fino a duecentomila alla volta. Come ho già detto aveva avuto due parti su tre del progetto. La prima l’aveva già rivenduta ai compratori e la seconda era in mano sua. Lo scambio della seconda parte avrebbe dovuto avvenire nel periodo dell’assassinio. Nei giorni che precedettero la sua tragica fine c’era qualcosa che la preoccupava alquanto. Non so se le erano venute a mancare definitivamente le risorse del marito o se aveva ricevuto pressioni dalla controparte o, peggio, se gli acquirenti si erano raffreddati nel proseguire con l’investimento. Non me ne volle parlare. Intanto io faticavo a tener buoni i ricercatori che scalpitavano per ottenere ulteriori fondi. Poi ci fu l’omicidio e la situazione è esplosa, ormai è ato oltre un mese e mezzo e non so più come fare. Come vi dicevo, ho temporeggiato con i ricercatori sperando nel miracolo di recuperare i contatti ma finora siete arrivati solo voi.»

Rebecca considera mentalmente che il conte aveva un potenziale grosso movente, il fatto che non ha recuperato i contatti con gli acquirenti finali potrebbe essere un bluff, nel senso che potrebbe averli già trovati e potrebbe star già trafficando con loro. Stessa cosa per De Dietrich. Però nel suo caso…il fatto che la cappellina fosse quasi intatta…o forse non lo era? Dopotutto noi abbiamo trovato solo uno stupido libro. Magari c’erano indizi più evidenti e se le era già prese De Dietrich o addirittura gli acquirenti hanno pensato a loro volta di scavalcarla per risparmiare la mediazione. Forse il conte sta già trattando direttamente con gli acquirenti che è riuscito a contattare direttamente in qualche modo. De Dietrich aveva diversi moventi: gelosia dopo che ha scoperto il tradimento della moglie, ma questa circostanza la stava già sistemando con lo sgambetto finanziario a Giordano. L’altro movente è il fatto che lei gli fotteva i fondi neri e minacciava di rivolgersi alla guardia di finanza, lui si era stufato e lei in questa situazione aveva disperato bisogno di quei soldi trovandosi a metà del guado, hanno litigato e lui l’ha eliminata, oppure questi fantomatici acquirenti avevano trovato il conte e avevano eliminato Lorraine per risparmiare. In quest’ultimo caso potrebbe anche esserci stata unità d’intenti tra il conte e gli

acquirenti finali.

Rebecca ha la fronte aggrottata e le narici dilatate, dentro la sua testolina i neuroni stanno correndo a perdifiato. Deve iniziare a eliminare qualche variabile, iniziare a incasellare i tasselli prima di impazzire.

«Conte! Dove sono questi ricercatori?»

«L’ho detto, non lo so!»

Con efficaci leve articolari, Rebecca torce senza ritegno gli arti del conte ormai obnubilato dal dolore e dai suoi stessi lamentosi latrati.

«Fermati Rebecca, così finirai per ammazzarlo!» interviene Mauro.

«Conte, lei sostiene di non conoscere il luogo dove operano i ricercatori. Li contatti allora, questo lo può sicuramente fare, e dica che c’è una pazza scatenata che la sta per ammazzare se non ci danno un appuntamento. Gli dica che noi siamo in grado di risalire ai contatti con gli acquirenti e che subentriamo a Lorraine nella trattativa. Ridiscutendo il tutto, beninteso. Dica anche che noi non ci fidiamo di lei e pertanto è necessario un incontro direttamente con loro. Lo faccia, si sbrighi!»

Con la manica della vestaglia il conte si tampona il sangue sulle gengive, estrae da una tasca un cellulare e compone un numero. Qualcuno risponde, il conte esegue alla lettera gli ordini di Rebecca riportandone le richieste all’interlocutore

che però nega qualsiasi tipo di incontro. Rebecca sottrae la cornetta al conte, prende la parola e dall’altra parte riagganciano. «Dannazione! Vieni Mauro, andiamocene di corsa prima che ritorni Faccia di cane.» Sull’uscio del salone Rebecca si volta per un istante «conte! Non finisce qui.»

I due pseudo-studenti-quasi-commandos avviano la Skoda Felicia e, percorrendo il vialetto a tutta velocità, incrociano una berlina scura guidata da un bulldog.

«Appena in tempo!» Esclama Mauro tirando un sospiro di sollievo. «Ma cosa ti è preso a pestarlo così?»

«Non lo so, ma non è la prima volta che mi capita. Ultimamente mi innervosisco facilmente.»

Poi lungo la strada del ritorno ragionano su quanto avvenuto dal conte. «Avrà detto la verità?»

«Rebecca, con le botte che ha preso, direi di sì.»

«Quindi tu credi all’evoluzione del termodinamico?»

«Certamente.»

«Ma perché allora si ostinano a propinarci il fotovoltaico?»

«Nella tua domanda manca il soggetto. Chi si ostina a propinare? La risposta è “le multinazionali”. E’ sempre stato così, gestiscono le scoperte scientifiche con logiche di mercato anziché di progresso. Finchè un settore non è stra-saturo non ti vendono qualcosa di più evoluto, se lo tengono ben nascosto.» Rebecca lo fissa incuriosita e Mauro prosegue preso nel suo pistolotto sociopolitico. «Il mondo è in mano alle multinazionali, sono loro che decidono cosa è bene per noi. Vuoi degli esempi? Il principio del motore a “ciclo Otto” su cui in pratica si basa il motore di tutte le auto a benzina, è stato scoperto centocinquant’anni fa e, tolte due o tre fesserie spacciate come megamiglioramenti, siamo ancora a quel principio. Ti pare possibile? Motori realmente diversi li cacceranno fuori solo quando non ci sarà più petrolio. Le tivù a schermo piatto: hanno aspettato che in ogni abitazione e in ogni anfratto ci fossero almeno tre grossi e ingombranti televisori per stanza prima di metterle in commercio e obbligare, con la scusa del digitale, la gente a buttare nel cesso le TV grosse e comprare quelle piatte. Altro esempio, i LED che ora vanno di gran moda, sono basati su una tecnologia di quarant’anni fa ma te la vendono solo ora a prezzi allucinanti rispetto al loro reale valore, con la scusa che sono più ecologici e durevoli delle lampadine. Non ti senti presa in giro? Se quei tizi di cui parla il conte hanno realmente scoperto il modo di rendere fruibile il termodinamico, rischiano di brutto, rischiano la pelle. Credo bene che abbiano voluto rintanarsi e cedere i brevetti a qualcun altro scappando con un po’ di soldi. Il fotovoltaico è per le multinazionali l’affare del momento, nonostante sia risaputo che in termini assoluti questa tecnologia abbia un basso rendimento. Se i ricercatori escono allo scoperto a dire “signori, noi abbiamo una cosa migliore,” li fanno secchi. Probabilmente sono anche un po’ idealisti, dei ricercatori vecchio stampo.»

«Per settecentocinquantamilioni esentasse diventerei anch’io idealista!»

A casa di Rebecca dispiegano per l’ennesima volta i progetti sul tavolo. Li contemplano in silenzio per alcuni minuti finchè Mauro rompe l’incantesimo, «quindi questa rappresenterebbe la seconda parte su tre del fantomatico progetto sul solare termodinamico.»

«Potenziale valore di duecentocinquanta milioni, un terzo dei settecentocinquanta totali. Chissà a quanto Lorraine stava rivendendo il giochino completo ai russi?»

«I titoli dei brevetti però non ci sono, forse sono contenuti nella memory stickcriptata.»

«Sia come sia, quello dei brevetti è l’ultimo dei nostri problemi.»

Fanno una copia dei progetti e li nascondono da Mauro.

49

Domenica. Rebecca telefona al conte preavvisando il loro arrivo. «Veniamo a trattare la pace, siamo gli unici che possono trarla d’impaccio e portare a termine il business. Mi raccomando, tenga al guinzaglio il bulldog, non vorremmo che dopo la nostra visita estemporanea di ieri sia diventato rancoroso e poco ospitale.»

Mauro, per ogni buon conto, prima di partire si infila in tasca un tirapugni in acciaio, ricordo di una gita in quarta superiore nella Terra del Titano.

Giunti al cospetto del conte, gli mostrano i progetti in loro possesso. «Questo rappresenta il secondo step di progetto acquistato da Lorraine. Come vede, ora è in mano nostra.» Di fianco al conte, l’assistente è concentrato unicamente a neutralizzare qualsiasi tentativo di attacco fisico da parte dei due ragazzi.

Il conte osserva i progetti cercando di decifrare qualcosa per capire se si tratti di una fregatura.

Mauro lo esorta, «telefoni pure ai ricercatori, chieda se non sono quelli che hanno venduto a Lorraine.»

«Ho già provato a ricontattarli ma senza successo, credetemi.»

«Riprovi.»

Il conte acconsente e ritelefona. Numero inesistente. Prova diverse volte. Numero inesistente.

«Come vi dicevo…non rispondono. Dopo che ieri la signorina mi ha malauguratamente rubato la cornetta e la parola, immagino che i ricercatori non ritengano più sicura questa linea e di conseguenza abbiano disattivato la SIM.»

«Senta conte, non possiamo perdere questo treno. Le copio su un foglio le prime formule che vengono indicate in questi progetti. Ecco, tenga qua. Se sono intelligenti la richiameranno, si rimetteranno loro in contatto con lei. Se lo fanno, e mi auguro che lo facciano, gli legga queste formule così si renderanno conto di avere a che fare con le persone giuste. E’ sorpreso eh? Ieri non credeva di aver ritrovato il bandolo di questa lucrosa matassa?»

«Ma allora…l’avete uccisa voi?!»

«Rebecca sta per scagliarsi contro il conte ma le mani di Mauro la bloccano un istante prima che Faccia di cane faccesse altrettanto.

Lasciano al conte il numero di Rebecca, sempre riconducibile ad una SIM acquistata in Slovenia senza documenti.

Rincasano.

50

Il giorno dopo, il conte telefona a Rebecca con tono concitato, i ricercatori lo hanno ricontattato. «Signorina, dobbiamo parlare. Venga da me al più presto.»

I ricercatori hanno sì chiamato il conte ma per rimproverarlo e minacciarlo, anche se è stato pestato non doveva parlare. A quel punto il conte, oltremodo spaventato dalla concreta possibilità di veder sfumare definitivamente l’affare, ha cercato di recuperare in extremis offrendosi di indagare sui ragazzi, accertarsi se abbiano parlato con terzi ed estorcere loro i contatti con gli acquirenti, visto che hanno millantato di poterli riallacciare. «Non preoccupatevi, se serve farò eliminare quei due ficcanaso. Poi eventualmente ricominciamo la trattativa con qualche altro investitore. Ho già avviato una fruttuosa ricerca con dei cinesi di Firenze.»

«Conte, lei non ha capito niente!» I ricercatori gli fanno presente che Lorraine aveva già rivenduto la prima parte di progetti in suo possesso e che i compratori saranno sicuramente nei dintorni ringhiosi e arrabbiati per la forzata interruzione e staranno cercando di ristabilire il filo. «Potrebbero essere già risaliti a lei e se ne stanno nell’ombra aspettando un o falso dei ragazzi. Oppure i ragazzi potrebbero rappresentare proprio l’interfaccia dell’organizzazione stessa. Eliminare i ragazzi in Friuli farebbe troppo scalpore, sono entrambi indagati e c’è già troppo clamore attorno a questa vicenda. Inoltre c’è il grosso problema dei brevetti, non se lo dimentichi.» I ricercatori hanno verificato infatti che la parte di progetto già ceduta è stata brevettata a nome di alcune società svizzere riconducibili a Lorraine. «La signora ha già rivenduto quella parte di progetto ma la cessione è avvenuta senza i relativi brevetti per evitare che qualcuno possa risalire ai suoi acquirenti prima della conclusione dell’affare: cosa che noi volevamo fare in questo mese e mezzo di limbo. Gli acquirenti avranno voluto tutelarsi a loro volta, non sono affari e ambienti per cui basti una stretta di mano. Per cui certamente alla consegna dei progetti sono stati firmati dei contratti preliminari di cessione dei brevetti e questi contratti saranno nascosti da qualche

parte. Come facciamo a vendere solo la restante parte del progetto ad altri quando della prima parte non abbiamo più i brevetti? Queste idee balzane che ogni tanto tira fuori ci fanno dubitare della sua affidabilità, caro signor conte!»

«Scusatemi, scusatemi. Sono frastornato da questa escalation. A questo punto c’è solo da augurarsi che la signora Lorraine abbia previsto l’eventualità della sua premorienza predisponendo un testamento che non sia a favore del marito.»

«Calma, calma, dobbiamo procedere per gradi. Dobbiamo prima di tutto capire bene cosa sanno i due ragazzi e soprattutto chi siano realmente.»

«Ma dài, sono due idioti del paese, cosa credete che siano parte di che banda internazionale? Sono due mine vaganti, bisogna semplicemente tenerli occupati, depistarli, torturarli e farli parlare. Brevetti o non brevetti, quei due hanno in mano una parte dei progetti e vanno eliminati.»

«Conte, lei non deve sottovalutare niente, sta diventando inaffidabile, ce ne occuperemo noi. Si ricordi che la ragazza è la prima sospettata per l’omicidio della signora De Dietrich. Se ciò fosse confermato, altrochè se fanno parte di una qualche organizzazione! Li mandi da noi, fuori dal Friuli sarà più facile maneggiarli senza attirare troppe attenzioni. Inoltre, se sono realmente la testa di ponte dei russi, i pezzi grossi dovranno per forza uscire allo scoperto e allora ripartiremo seriamente con la trattativa.»

«D’accordo, ma così mi scavalcate! Chi mi dà la garanzia di venir pagato? Io ho incontrato voi una volta sola, non so dove stiate, ho solo un numero di telefono che tra l’altro non funziona più.»

«La sua diffidenza è almeno pari alla sua avidità. Ha la nostra parola, si fidi di noi. Finora si è già preso dei bei soldi nonostante non sia stato in grado di portare a termine un bel niente.»

«Ma che colpa ne ho io se…»

«Stia zitto! Ci mandi i ragazzi. Oggi è lunedì…le daremo le istruzioni a breve, dobbiamo organizzarci a dovere. Intanto comunichi loro che siamo entusiasti di incontrarli, vista l’insperata possibilità di condurre a termine l’affare.»

Dopo la telefonata del conte, Rebecca attende il tardo pomeriggio quando Mauro smette il turno di lavoro per tornare insieme a lui nella villa di De’ Canestrelli.

Il conte li accoglie con del fumante the nero, sicuramente di pregio data l’intensità dei profumi e la solennità con cui egli pronuncia «gradiscano una tazza di questo ottimo Grand Jardin,» sporgendosi a riempire loro le tazze con difficoltà, dato il busto rigido che sotto il pullover gli comprime il torace.

«Non è avvelenato, vero?» chiede caustica Rebecca indicando la teiera.

«Assolutamente no, non sarebbe nel mio interesse,» replica il conte, dissimulando con voce scricchiolante il dolore che le tre costole incrinate gli procurano ad ogni minimo movimento dopo lo spiacevole interrogatorio subito ad opera di quei due falsi studenti.

«Ebbene, i ricercatori mi hanno ricontattato come aveva auspicato lei, signorina

Letizia, o meglio…signorina Rebecca. Volevano capire se sta precipitando tutto o se, al contrario, stiamo recuperando le fila. Ho letto loro le formule che mi avete trascritto e sono rimasti sbalorditi.»

«Molto bene.» Rebecca sorride compiaciuta dalla notizia e addolcita dal gradevole infuso.

«Vogliono garanzie che voi siate gli unici a conoscenza di questi progetti.»

«Assolutamente,» precisa Rebecca.

«E siccome avete i contatti con i clienti della povera Lorraine, i ricercatori si rendono disponibili, in via del tutto eccezionale, ad un incontro. Li avete vero, i contatti con i russi?»

«Siamo in possesso della documentazione che ci permette di risalire a loro. Contatteremo i russi solo dopo aver stabilito nuovi accordi con i ricercatori. Allora, quando possiamo incontrare i cervelloni?»

«Sabato, fra cinque giorni, a Pisa.»

«A Pisa?» domanda Mauro. «Non c’era un posto che veniva più comodo?»

«Loro stanno da quelle parti, la trasferta rappresenta un problema? Vi prego, siate collaborativi, cerchiamo di non complicare ulteriormente la situazione. A

breve vi fornirò i dettagli dell’incontro.»

Mauro e Rebecca si congedano dal conte.

«Quindi che si fa?»

«Andiamo a Pisa.»

«Ma non sappiamo assolutamente come rintracciare quei dannati russi, che per giunta essendo pieni di soldi saranno sicuramente dei mafiosi della peggior risma. Inoltre stanare i pisani mica ci aiuterà a scagionarti?»

«Chi lo dice? E comunque ci sono dei milioni in ballo. Vogliamo lasciarli a chi? A quel verme di conte? Noi dobbiamo recuperare i contatti con quella gente per poi scavalcarlo in qualche modo. E dobbiamo incastrare chi ha ucciso Lorraine.»

Rebecca, nell’accennare ai milioni in ballo, si sorprende preda dell’avidità, come la rossa pianista conosciuta dopo il concerto a Gorizia.

Mauro la distoglie dai suoi pensieri. «Secondo te l’ha uccisa il conte?»

«Lui in persona sicuramente no, codardo com’è. Però anche lui aveva un movente, ce lo ha candidamente confessato: poter trattare direttamente con gli acquirenti.»

«A patto di averli trovati prima di uccidere la signora.»

«E nessuno ci dice che prima di averla uccisa non sia riuscito a farsi dire chi sono e poi con noi ha fatto la scenetta. E alla dichiarazione che fino a oggi non sapesse dove stavano i ricercatori ci credo poco.»

«Quindi Rebecca, analizziamo i fatti. Se il conte conosce già gli acquirenti ci ha raccontato una balla e noi, tu, l’hai raccontata a lui dicendo che siamo in grado di contattarli. Ci siamo ficcati in un pasticcio. La cosa inizia a diventare pericolosa, forse siamo fuori posto e iniziamo a diventare scomodi per qualcuno.»

«Se le cose stessero così ci avrebbero già eliminati, non trovi? Io credo che veramente si siano interrotti i rapporti e sono tutti smarriti nella nebbia. Dobbiamo tentare, andiamo giù con la scusa di stabilire accordi come abbiamo detto al conte ma intanto facciamo domande, ci guardiamo in giro, li conosciamo e cerchiamo di carpire indizi.»

«E se la gita a Pisa fosse una trappola per topi? Ci propinano l’incontro con i ricercatori come fosse formaggio e noi ci stiamo cascando come babbei.»

«Smettila Mauro, così mi fai venire i brividi. Continuiamo ad analizzare. Da una parte Lorraine ha i brevetti di due terzi di progetto ed è morta. I ricercatori non sanno più come concludere la trattativa. Non possono rivolgersi ad altri perché parte dei brevetti li hanno già ceduti e come fai a vendere una cosa a pezzi? Noi possiamo diventare molto importanti se trovassimo realmente gli acquirenti. Ma come?»

«Manca De Dietrich all’appello. Se è vero che i brevetti li eredita lui, si ritrova con qualcosa che non sa da dove provenga e non sa a chi dare, quindi anche lui potrebbe essere in stallo e forse nessuno gli ha ancora comunicato che ha ereditato quei brevetti.»

«Ma Lorraine avrebbe anche potuto fare testamento e beneficiare qualcun altro dei brevetti, qualcuno che lei ha messo al corrente della cosa. Ma chi?»

«Una persona di sua fiducia. Aveva persone di fiducia? A Perozzi risultava di no. E poi, questa ipotetica persona di fiducia avrebbe potuto trasformarsi nel suo carnefice vista la posta in ballo. Cosciente del pericolo e visto che oggigiorno si uccide anche per soli cinquanta Euro, molto probabilmente lei non si è rivolta a nessuno.»

«Esatto: se lei avesse avuto la persona di fiducia non sarebbe stato necessario venire a nascondere i progetti nelle serre di mio padre. Era spaventata e disorientata, sapeva di non poter contare su nessuno. Ha contato solo su mio padre, o meglio sulla sua buona fede, nel senso religioso del termine, sul fatto che il posto era tranquillo e che gliela avrebbe fatta bere senza problemi. E’ stata astuta, ma chissà se dormiva la notte, chissà che giorni d’inferno deve aver ato. Ora posso comprendere meglio il fatto che a momenti mi stesse quasi per investire senza accorgersene. Probabilmente era sul punto di uscire di testa, vista la pressione che stava subendo stando sul filo del rasoio. Poteva andare storta qualsiasi variabile e sarebbe caduta facendosi molto male. Magari non aveva messo in conto un epilogo così tragico oppure ne era pienamente cosciente e credeva di farcela. Chissà? La verità è che i brevetti li erediterà De Dietrich e noi dobbiamo farcelo alleato per chiudere l’affare. Costi quel che costi. La situazione è alquanto ingarbugliata ma la cosa peggiore che possiamo fare è rimanere fermi, è come sul fiume in canoa: dobbiamo continuare a pagaiare, se ci fermiamo la corrente ci sbatacchia sui massi. Intanto puntiamo a Pisa.»

«Ok ma con estrema attenzione, inizio a diffidare da quel conte con gli occhi di triglia.»

«Sempre attenti con le triglie, sono i pesci più spinosi in assoluto.»

Durante la notte Rebecca sogna la Mausefalle, la trappola per topi per eccellenza, descrittale diverse volte da Luca che l’ha provata sciando sulla pista di Kitzbühel. Un incubo seguito da una scarica di adrenalina. Dopo un ripidissimo e stretto tratto con curva e controcurva spesso gelate, ci si imbatte in un lungo e alto salto al buio. Chi lo affronta infatti, non vede in un primo momento la zona di atterraggio, sicchè spiccare il salto dal punto sbagliato decreta cadute disastrose. Rebecca perde aderenza nella controcurva ghiacciata, si presenta troppo veloce e sbilanciata nello spiccare il salto, a mezz’aria scorge il fondo della Mausefalle e realizza che la traiettoria impostata la sta portando dritta dritta sulle reti di contenimento, tenta inutilmente di cambiare direzione in volo, cade dal letto e si sveglia dolorante prima di imbrigliarsi rovinosamente nelle reti di protezione. Cacchio che male! Risale sul letto e si ranicchia in posizione fetale vegliando fino all’alba.

51

Martedì sera. Pochissimi giorni separano Rebecca e Mauro dall’incontro con i ricercatori a Pisa. Sono consapevoli che non si tratterà di un amabile ritrovo al bar fra amici. eggiano concitati nel parcheggio della “Carinci frutti di bosco” meditando sul da farsi.

«Non possiamo andare giù a mani vuote, disarmate intendo. Dobbiamo procurarci qualcosa.»

«Mauro, sei pazzo. Hai visto troppi film con scambi di valigette e sparatorie.»

«Parlo sul serio, poni il caso in cui non trovassimo un accordo, non credo che ci lasceranno venir via senza problemi. Se sfoderassimo invece una pistolina, avremmo maggiori possibilità di dileguarci. Ci serve un’arma “pulita”, che non sia riconducibile a nessuno.»

«Già, e ti par facile trovarla. Non so tu, ma io non ho certe frequentazioni.»

«Troveremo il modo, potrei chiedere a un tale che forse conosce…»

Rebecca viene attratta dal carrello elevatore carico di bancali vuoti che sta tagliando in diagonale il piazzale. Alla guida c’è Pacciani. «Mauro, prima di chiedere al tale e al tal’altro, mi è venuta un’idea. PACCIANI! VIENI QUI PER FAVORE!»

In breve gli presentano la loro necessità, un’arma con matricola abrasa, poco ingombrante e che costi poco. Urgentissima. Pacciani è possibilista. «Vedrò di accontentarvi, ma ad una condizione. Le armi sono solo per difesa, non fate cazzate!» Nel parcheggio piomba una Golf nera con i cerchi cromati, preceduta dalle potenti basse frequenze del subwoofer. Pacciani riavvia il carrello elevatore lasciando Rebecca e Mauro con il nuovo arrivato, Luca.

«avo a trovarti, Rebecca, è un po’ che non ci vediamo…ciao Mauro. Chissà se riusciamo a tornare in canoa tutti insieme?»

«Ciao Luca. Come sai, non sto ando un bel periodo e a dire la verità, dopo l’ultima uscita in canoa in solitaria mi è ata la voglia, almeno per qualche tempo.»

«Ti è successo qualcosa? Ti sei rovesciata?»

«No no, ho visto qualcosa…qualcosa di brutto che me lo rivedo ogni volta che chiudo gli occhi.»

«Ossignur…non dirmi che quando hanno trovato quel tizio appeso a Cividale… il giornale parlava di un canoista avvistato sul fiume…non dirmi che eri tu.»

«Ero io…» Rebecca svia il discorso proponendo di entrare in casa per sorbirsi un aperitivo. Il terzetto si incammina così verso l’ngresso dell’abitazione quando una nuova vettura sfreccia infilandosi nel parcheggio delle serre. Rebecca, avendo presumibilmente riconosciuto l’auto, la segue con la coda dell’occhio per

sincerarsi se il conducente sia proprio chi purtroppo immagina. Con la chiave appena inserita nella toppa della porta di casa, si lascia sfuggire un’imprecazione non appena vede scendere dalla BMW Z4 un ragazzetto tutto elettrico e con una portadocumenti sottobraccio. «Ma porca troia! Di nuovo lui!» A quel punto anche i due amici di Rebecca si voltano in quella direzione e Luca esclama «che ci fa da voi Alberto Milano?»

Rebecca meravigliata, «lo conosci?»

«Certo, faccio l’agente immobiliare, tutti lo conoscono.»

«Perché tutti lo conoscono? Cos’è, una rockstar?»

«Intendevo nell’ambiente immobiliare. Si occupa di aste e cose così. Un viscido squaletto che sta crescendo alla corte di un certo…beh lo conoscete...De Dietrich, il re delle speculazioni edilizie. Quel Milano viene spesso in agenzia a Grado a propormi i suoi “affari”. Quando intuisce che potrei avere il cliente, in un modo o nell’altro riesce a rintracciarne il nominativo e mi frega la vendita e il cliente. Lo odio.»

«Hai capito lo stronzetto,» commenta Mauro al corrente dei tentativi di Alberto Milano di far cedere la proprietà Carinci prima dell’indizione dell’asta.

Luca continua, «ha avuto una gran bella occasione. In pratica De Dietrich, considerato che ultimamente le vendite delle nuove costruzioni vanno a rilento, ha cercato di limitare i danni creando una società satellite che si occupa esclusivamente di compravendite di immobili all’asta. L’ha dotata di capitale e ha messo quel Milano come responsabile della baracca. Dopo un anno è già che

gira in BMW.»

Rebecca sbotta «dobbiamo fermarlo!» e riassume per sommi capi a Luca le fraudolente intenzioni di Alberto Milano.

Luca segue il resoconto con partecipazione. «Ah! Qui si sta giocando troppo sporco, mi erano arrivate voci su certe condotte garibaldine di quel tipo. Ora capisco come faccia ad acquisire gli immobili così a buon mercato, approfitta degli intrallazzi di De Dietrich con le banche e prende la gente per il collo, possibilmente prima delle aste così elimina anche la concorrenza degli altri squali. Che animale! Sono dei vostri. Che si fa allora?»

Rebecca intima «lo voglio fuori dalle palle!»

«Per quanto?» ridacchia Mauro.

«Il più a lungo possibile.»

«E allora vai di antigelo!» suggerisce Mauro continuando a ridacchiare.

Luca e Rebecca lo fissano intrigati e interrogativi.

Mauro, indicando le serre, prosegue, «ora sarà là dentro a discutere con tuo padre. Gli verrà la gola secca, no? Tu gli prepari una bella bibitina a base di liquido antigelo e gentilmente gliela offri con la scusa di stemperare gli animi.»

«Mettiamo che la beva, si accorgerà che fa schifo.»

«Nossignora, è dolce e con sentori di cioccolato. Da solo o mescolato a qualcos’altro di zuccherato va giù che è un piacere.»

Luca interviene, «come fai a saperlo?»

«Me l’ha detto mio zio che l’ha ingurgitato per sbaglio ed è rimasto tre giorni in ospedale.»

«Ma è letale?» chiede Rebeccca dubbiosa.

«No, rischia solamente che il sangue coaguli e crei grumi, trombosi e cose così. Contiene metanolo…»

Anche lui col metanolo! Sono circondata da chimici pazzoidi pensa tra sé Rebecca ricordando l’auto bruciata alla guardia di finanza da Pacciani.

«…il metanolo è un pochino tossico. Per evitare che si creino grumi nel sangue una volta bevuto, in ospedale ti sparano in vena una serie di flebo di una roba tipo alcol a novantacinque gradi, in modo da iperfluidificare il sangue per alcuni giorni. Vedrai, ci ringrazierà. Con tutto quell’alcol in circolo, farà la sbronza più colossale e duratura della sua vita, tre o quattro giorni di fila di buonumore e tutto spesato dalla mutua.»

«Su un letto d’ospedale? Ma dovremo avvisarlo in qualche modo di andarci su quel letto, prima che resti secco.»

«Certo, gli faremo una telefonatina di quelle giuste tra un paio d’ore, quando saremo certi che lo stomaco abbia digerito, sennò se la cava solo con una veloce lavanda gastrica e domani è di nuovo qui a fare il fighettino in BMW.»

Preparano così un beverone con tre parti di antigelo e una di cola, in modo da renderlo frizzante e più godibile al palato, lo riversano nella bottiglia della cola e lo affidano a Rebecca che si dirige nelle serre. Una volta entrata, si schiarisce la voce attirando l’attenzione di suo padre e del malcapitato speculatore, tutti presi fino a quel momento in un concitato parapiglia verbale. Alberto Milano è rapito dalla ragazza in shorts e top a vogatore che procede ancheggiando nella loro direzione e suadente li interrompe, «suvvia, non è il caso di scaldarsi tanto, vero papà. Si troverà un accordo con questo bel giovanotto. Signor?» chiede Rebecca sdolcinata.

«Milano, Alberto Milano. Lietissimo di conoscerla.» risponde il ragazzo stringendo con adorazione la mano di Rebecca.

«Vi ho portato qualcosa da bere, direi che è il caso di fare un break così spiegate anche a me questa faccenda dell’acquisto a saldo e stralcio.» Contemporaneamente versa il bibitone nel bicchiere che porge ad Alberto Milano e dell’acqua gassata in quello di Giordano. All’occhiataccia di Giordano, che utilizza l’acqua solo per innaffiare, Rebecca risponde con l’occhiolino sussurrando ad alta voce in modo che senta anche l’altro «lo sai che la mamma ti vuole a dieta. Niente bibite zuccherate per te.» Nel frattempo Milano ha già seccato il bicchiere. «Squisita questa coca! Di solito quelle dei discount non sono granchè ma questa è buonissima. Posso versarmi ancora un bicchiere?»

«Certamente.» risponde lei suadente.

«Poi mi dirà dove la comprate.»

Come no! ride tra sé Rebecca.

Dopo un paio d’ore, con la solita SIM slovena di Rebecca, Mauro chiama Alberto Milano imitando alla meglio l’incerto italiano di un rumeno. Lo informa di quanto occorsogli e lo invita a recarsi velocemente al pronto soccorso. «Tu dice loro che a bevuto per sbalio. CHIARO! O faciamo saltare te con tritolo dentro tua biemve di papone. E non far vedere più tua facia di merda! CAPITO BELLO?» Mauro chiude la comunicazione giusto in tempo, prima che Rebecca e Luca esplodano in un’incontenibile risata alle sue spalle.

52

Rebecca, nell’incontro interlocutorio convocato dall’avvocato Petraz il mattino successivo, non vuole sentire ragioni sulla strategia attendista che lui continua a mantenere.

«Ormai i giochi sono fatti, Rebecca, a breve ci sarà l’udienza e là vedremo come procedere.»

«Ma si rende conto che hanno ammazzato il povero Perozzi! Non possiamo starcene qui con le mani in mano.» Lo aggiorna sulla confessione del conte e gli prospetta l’imminente incontro con i pisani. «Caro avvocato, se non si da fare anche lei in qualche modo, vedrà che quando ritorno da Pisa le tolgo la procura!»

A sera, Pacciani consegna a Rebecca e Mauro un AK-47 non propriamente d’annata. Nella scatoletta di legno il fucile-mitragliatore è completamente smontato accanto ad una latta di munizioni.

«Ragazzi, non fate quelle facce, non è nuovo ma è perfettamente funzionante, e poi in così poco tempo non era possibile recuperare altro.»

«E una pistola piccolina non c’era?» chiede Rebecca.

«Ho fatto quello che potevo, credetemi. Da Trieste a ancora qualche residuo

del conflitto balcanico destinato alle guerre africane, ma per avere di meglio bisognava aspettare, oppure pagare troppo. Comunque, smontato sta in una borsetta media da donna, otto pezzi, per montarlo ci vogliono soli cinquanta secondi. E’ facile da usare, a prova di idiota, lo usano senza problemi anche i bambini di mezzo mondo, ahimè! Ecco, vi faccio vedere.» Le grosse mani di Pacciani assemblano il kalashnikov in un minuto abbondante. «Scusatemi, sono fuori allenamento. Comunque così,» Pacciani sposta una levetta, «colpo singolo. Mentre invece così…click…raffica. Ah, notare il caricatore di colore rosso, vuol dire che non è proprio di quelli vecchi vecchi, diciamo che è un modello un po’ più recente. C’è anche un secondo caricatore, per le missioni impegnative, mi spiego? Quest’arma è speciale: non si blocca, non si inceppa, spara col caldo, col freddo, anche bagnato o infangato. Credetemi, se serve sparare, è meglio questo di una semplice pistoletta che non spaventa nessuno.»

«Ok Pacciani, grazie mille. Quanto ti dobbiamo?» chiede Rebecca.

«Mi hanno chiesto duecentocinquanta. Visto che è per voi, mi accontento di trecento, giusto per pagarmi le spese.» Rebecca lo paga senza batter ciglio disfandosi del ricavato ottenuto svendendo in fretta la fede di Petraz, nove grammi d’oro con piccolo diamante interno.

Una volta perfezionato lo scambio, Pacciani domanda «ma qualcuno di voi sa sparare?»

Risponde Mauro. «Io ho il porto d'armi e vado regolarmente in poligono. Lei è stata promossa sul campo da un pubblico ministero di manica larga.»

Giovedì mattina. Il conte conferma a Rebecca e Mauro che i ricercatori li aspettano a Pisa per sabato, due giorni dopo, ore 12:30. Il luogo preciso dell’appuntamento verrà comunicato con un SMS il giorno stesso, un’ora prima

dell’incontro.

Mauro commenta a Rebecca «continui ancora a sostenere che non ci sia l’atmosfera da thriller-movie con scambio di valigette e sparatorie?»

«In effetti non ne sono più tanto sicura, forse non avevi esagerato. Comunque il bazooka ce l’abbiamo, no?»

In serata Rebecca affida a Pacciani un contenitore per torte, chiedendogli di nasconderlo senza scendere troppo nei dettagli. Dentro ci sono i progetti del solare termodinamico.

53

Nel viaggio verso Pisa, dopo l’unica sosta in autogrill, Mauro perlustra le gomme della Felicia prima di ripartire. «Hei Rebecca, guarda qui.»

Rebecca si accovaccia accanto alla ruota indicata da Mauro e scorge una vite filettata appena puntata nel battistrada, pronta a penetrare non appena il mezzo si fosse rimesso in marcia. «Non ci posso credere, il trucco della vite.»

«Già, non me lo facevano dalle vacanze in Puglia di tre anni fa. Da allora controllo sempre.»

«Quindi fra qualche chilometro, quando potenzialmente avremo la ruota a terra, verremo avvicinati da qualcuno che si offre di aiutarci a sostituirla mentre qualcun altro ci fruga nella macchina?»

«Così doveva andare, ma credo che siano qui nei paraggi a spiarci e siano già incazzati perché non ci siamo cascati.»

«Ma scusa, cosa cercherebbero? Non abbiamo l’aria degli spensierati in vacanza né dei turisti stranieri, tantomeno abbiamo il macchinone di grossa cilindrata.»

«Tutt’altro, direi. Andiamo avanti che sennò ci attardiamo.»

Proseguono il viaggio sbirciando di tanto in tanto nel retrovisore ma nessun veicolo sembra interessarsi a loro.

Arrivano a Pisa poco prima delle 11:00. Parcheggiano nei pressi della stazione centrale. Mauro si mette addosso il mitra, smontato in maniera tattica in otto tasche e doppie tasche cucite nel giaccone, ormai sa a memoria l’ordine per recuperare i pezzi e in un minuto e mezzo è pronto a trasformarsi in Robocop. eggiano nervosamente nei pressi dell’auto. In un’edicola acquistano una mappa della città. Alle 11:30 precise un SMS comunica il luogo del rendez-vous: entrate nel duomo in piazza dei miracoli, alle 12:30 portatevi vicino alla colonnina della videoguida, a destra entrando. Chiedete l’ora all’inserviente che fa la pulizie.

«Cazzo! Ci hanno fregati, non possiamo portarci dietro il mitra, ci saranno sicuramente guardie e metal-detector per entrare nel duomo.»

«Magari tu entri e io rimango fuori.»

«E’ rischioso, si aspettano due persone.»

«Ok, non succederà mica niente, no? In fondo è un luogo pieno di gente all’ora di punta.»

Rimettono in macchina il mitra e, data la vicinanza della meta e l’ora di tempo a disposizione, si incamminano a piedi cercando così di sciogliere la tensione.

Sfilano accanto al Tuttomondo, il graffito zeppo di omini colorati disegnato da Keith Haring sulla parete del convento di Sant’Antonio, ma la fibrillazione carica di adrenalina non permette loro di ammirarne il recente restauro con le brillanti vernici Caparol. Lungo il tragitto, nemmeno le marroni acque dell’Arno striate di verdognolo riescono a scalfire lo stato d’ansia. Giungono nella Piazza dei Miracoli prima delle 12:00. Li accoglie un’invasione multicolore e multirazziale sparpagliata parte sull’erba a scattare fotografie e mangiare panini e parte distribuita in ordinate file davanti alle biglietterie, alla torre pendente, al battistero, alla cattedrale e al campo santo.

«Porca miseria, credevo di trovare parecchia gente, ma non così tanta!»

«In effetti, c’è una discreta coda sia per i biglietti sia per entrare nel duomo. Abbiamo trentacinque minuti, ce la facciamo?»

«Io mi accodo per la biglietteria e tu per l’ingresso al duomo.»

«Dovremo farcela, ma così ci…»

«L’ho pensato anch’io, così ci dividiamo. L’hanno fatto apposta secondo te?»

«Probabile. Dài, non perdiamo tempo, teniamo gli occhi aperti e i cellulari in mano, se succede qualcosa ci chiamiamo immediatamente.»

«Ok, guardati le spalle, a tra poco Rebecca.»

«A tra poco.»

Alle 12:28 gli addetti alla sicurezza del duomo lasciano entrare Mauro e Rebecca dopo averli vagliati col metal-detector.

«Ce l’abbiamo fatta,» esclama fiduciosa Rebecca. La fiumana di turisti li inghiotte nella penombra all’interno della cattedrale.

«Vedi la videoguida?»

«In mezzo a ’sto casino…no…ah sì, eccola là. C’è anche l’uomo delle pulizie che la sta lucidando.»

«Vorrai dire l’uomo nero delle pulizie. Ma capirà l’italiano?»

«Al limite proveremo in inglese, o in friulano.»

Si avvicinano. «Mi scusi, sa l’ora?» chiede Rebecca.

L’uomo nero seguita a togliere ditate e briciole di patatine dalla videoguida. Ci riprova Mauro in maniera più diretta, battendosi il polso sotto gli occhi dell’addetto alle pulizie «L’ORA! POR FAVOR! WHAT’S THE TIME? CE ORE ISE?»

L’uomo nero interrompe la sua attività con lo straccio e il disinfettante e fissa i due scuotendo il capo.

«Questo non capisce un cazzo!» sottolinea Mauro scoraggiato.

Rebecca tentenna guardandosi in giro quando un individuo barbuto con addosso la divisa della security li avvicina attirando la loro attenzione. «Signori, benarrivati. Fra trenta minuti esatti uscite da laggiù. Troverete loro ad aspettarvi all’esterno.»

Mauro e Rebecca non fanno in tempo a controbattere che l’uomo della sicurezza si è già fatto risucchiare dall’orda di turisti.

«Bel trucchetto! L’uomo nero era solo un diversivo per permettergli di individuarci.»

«Sono scaltri questi pisani. Vabbè, facciamoci un giro di ’sta chiesetta e aspettiamo che i il tempo indicato.»

Gironzolano fra le navate e l’ambulacro nutrendo poco interesse verso mosaici, colonne granitiche e opere pittoriche benchè ormai gli occhi si siano abituati a quell’ambiente per niente luminoso rispetto al chiarore lasciato all’esterno. Sono estenuati e per evitare cali di concentrazione succhiano dolci caramelline al rabarbaro confabulando su quella singolare situazione. All’ora convenuta si avviano circospetti all’uscita portandosi sul sagrato. Il sole delle tredici, riflesso sul bianchissimo marmo di Carrara sotto i piedi, acceca per qualche istante i loro occhi abituati alla scarsa luminosità interna. Mentre armeggiano per recuperare gli occhiali da sole vengono colpiti violentemente alla nuca.

Mauro si risveglia indolenzito ma comodamente adagiato su una poltroncina. Il neon rischiara una stanza che si rivela un anonimo studio-ufficio dalle finestre schermate, computer sui tavoli e schedari addossati alle pareti. Davanti a sè ha una scrivania oltre la quale tre persone stanno fissando lui e Rebecca ancora incosciente sulla poltroncina a fianco. I pisani sono in tre, quello centrale se ne sta seduto, gli altri due lo spalleggiano in piedi, ben eretti e con le braccia conserte, uno a destra e uno a sinistra. Sembrano i due diòscuri, Càstore e Pollùce, con il padre Zeus nel mezzo. Tanto algidi e anonimi i primi, quanto maturo e possente quello centrale. Càstore e Pollùce indossano ancora le finte divise da guardie giurate con cui li hanno colti di sorpresa fuori dal duomo. Anche Rebecca riprende conoscenza mugugnando dei crescenti «hoi hoi hoi» man mano che mette a fuoco la scena massaggiandosi contemporaneamente la testa pesante come una zucca matura.

Quello che pare Zeus attacca affabile a parlare, «scusate i modi poco ortodossi ma, data la situazione, capirete che non potevamo fornirvi il nostro indirizzo e stendervi un tappetino rosso.»

Squadrandolo per bene, Mauro e Rebecca riconoscono in lui il barbuto addetto alla sicurezza che li aveva avvicinati in chiesa, accanto all’uomo nero.

Zeus prosegue entusiasta. «Vi manda il destino. Non avete idea di quanto ci teniamo a voi. Non ci interessa sapere cosa sia successo alla signora De Dietrich e le dicerie sul fatto che l’abbiate uccisa voi. A noi preme chiudere l’affare. Siamo a pochi i dalla consegna di questo grandioso prodigio tecnologico.» Zeus va avanti salmodiando benevolmente per qualche minuto, ruotando contemporaneamente la sua grossa testa aristotelica ora verso Rebecca, ora verso Mauro. Li asperge con sguardi affabulatori e istrionici uniti a modi da beffardo paragnosta, astutamente finto ma talmente bravo da non far trasparire le sue parole per quello che realmente sono: subdole carezze per estorcere informazioni prima di estrarre gli artigli e colpire a morte. «Mancano ancora dei test e alcune ottimizzazioni per il prodotto finito. Il fatto è che siamo a corto di soldi. Qui è

tutto in ritardo, a quest’ora noi volevamo già essere con il culo in ammollo sulla riva di qualche atollo polinesiano. Vero ragazzi?»

Càstore e Pollùce, imibili come due corazzieri presidenziali, accennano un sincronizzato assenso col capo assottigliando gli occhi.

Rebecca interrompe Zeus, «stia a sentire, dottor…?»

«Sollima. E sono professore.»

«Sì d’accordo, professor Sollima, prima di parlare di soldi ci dia dei dettagli. Ci faccia capire meglio come siete messi con lo sviluppo.»

«Il progetto generale è completo, i test effettuati sono promettenti, le simulazioni sono attendibili e il primo prototipo, seppur a livello embrionale, ci sta dando risultati grandiosi. Vedete ragazzi, credo che abbiate capito la portata planetaria di questa scoperta. Pensate cosa possa significare l’applicazione di questa tecnologia al progetto Desertec, l’immenso parco solare in costruzione nel Sahara, finanziato dalle maggiori multinazionali e banche d’investimento. Dai nostri calcoli la potenza ne risulterebbe centuplicata.»

Ironicamente, quelle parole sull’impianto solare nel deserto nordafricano, seppur vere nei contenuti, erano pura sabbia gettata negli occhi e nelle menti di Rebecca e Mauro. Zeus procede a incantarli come fossero due serpentelli che escono docili dalle rispettive ceste, «la nostra tecnologia prevede un doppio concentratore parabolico posto in verticale, delle belle torri anziché dei pannelli longitudinali. Nel deserto le potremmo fare alte quanto vogliamo ma questo ci interessa poco, le multinazionali non sono granchè propense a dialogare con noi.

La nostra marcia vincente è nell’efficienza e nella miniaturizzazione che consentono pertanto una potenziale diffusione capillare dei nostri mini impianti in tutto il mondo. Siamo in grado di catturare in poco spazio una concentrazione solare straordinaria.»

Mauro chiede con aria saccente, «maggiore concentrazione solare significa temperature elevatissime cedute all’olio che circola nel fuoco della parabola. Come neutralizzate le possibilità di incendio dell’olio circolante?»

«Dunque, l’olio sintetico come fluido per generare vapore e scambiare calore non si usa quasi più. Abbiamo fatte nostre le intuizioni di Carlo Rubbia che l’ha sostituito con una miscela di sali fusi. Per evitare incendi, l’olio che circola nei tubicini posti al convergere dei raggi solari riflessi dagli specchi parabolici, non può andar oltre i quattrocento gradi, come ha giustamente osservato lei. I sali fusi invece possono arrivare tranquillamente a cinquecentocinquanta gradi senza pericoli. Noi, modestamente, ci siamo spinti oltre: una miscela di sali di nostra invenzione può arrivare a novecento gradi in assoluta sicurezza. Questo significa ulteriore stoccaggio di energia per unità di superficie.»

Rebecca, annoiata a morte dalla lezione del professore, taglia corto, «quindi riassumendo: il vostro marchingegno occupa poco spazio, può essere installato in posti finora impensabili e può produrre e immagazzinare tanta energia.»

«Complimenti, lei ha il dono della sintesi! La nostra tecnologia applicata ad un microimpianto domestico si traduce in una sorta di comignolo alto due metri che dovrebbe garantire circa sei kilowatt alla latitudine di Roma, il doppio dei tre kilowatt mediamente installati nelle abitazioni private: un capolavoro tecnologico! Con i nostri sali, l’impianto diventa molto più performante e permette di creare degli accumulatori iper compatti che, grazie all’alta temperatura di esercizio, garantiscono elevata autonomia anche nel caso impossibile di eclissi di sole duratura per più giorni. Installando il nostro comignolo, chiunque potrà rendersi energeticamente indipendente

autoproducendo tutta la corrente che gli serve.»

«Chiunque a parte gli eschimesi,» butta là Rebecca in febbrile ricerca di qualche appiglio per tenere il più alla larga possibile l’argomento soldi e accordi finali.

«A parte gli eschimesi,» replica Zeus sorpreso dalla placida espressione di Rebecca che in realtà è agitata come una pentola a pressione rimasta troppo tempo a traballare sul fornello.

Zeus, da padrone del vapore, continua a condurre il dialogo. «Voi capirete che stiamo trattando una questione segretissima e che con la morte, o meglio dire, l’assassinio della signora Lorraine, si è aperta una falla nel sistema. Non abbiamo ancora capito come siete risaliti al conte.» Gli occhi fuori dalle orbite di Zeus diventano improvvisamente fessure indagatrici e si posano prima su Mauro, poi su Rebecca, che non avverte più alcun suono a parte il pulsare del sangue nelle tempie. Calma, calma. Raccontagli quello che vuole sentire, rassicuralo.

«Professor Sollima, sicuramente si sarà documentato su di noi, sia tramite il conte De’ Canestrelli sia direttamente per conto proprio, quindi non posso nasconderle il fatto che io sia implicata nella faccenda dell’omicidio per via di certe false, e ripeto false, insinuazioni mediante le quali avrei ucciso la signora. Detto questo, è logico che la mia discolpa non si possa basare solo sulle parole ma vada ata dai fatti. E’ appunto nella ricerca di questi fatti, in una sequenza rocambolesca e inconsueta di eventi, che abbiamo rinvenuto per un caso fortuito alcuni documenti in un rifugio utilizzato dalla vittima. Le situazioni e combinazioni che ci hanno portato a scoprire quello che abbiamo scoperto, sono talmente articolate e improbabili che il ripetersi di un concatenamento simile è matematicamente impossibile.» Rebecca si augura di essere riuscita a restituire un po’ di sabbia negli occhi di Zeus.

«Ne avete parlato ad alcuno?» Chiede Zeus ruotando il grosso monoblocco testabarba verso Mauro che risponde, «naturalmente no, a parte al conte, per ovvi motivi.»

«E i contatti con gli acquirenti, li avete?» Prima di lasciar spazio alle risposte, Zeus anticipa «non conoscevo personalmente la signora De Dietrich ma non posso credere che possa essere stata così sprovveduta da lasciare, che ne so… un’agendina con scritto “acquirenti tecnologia solare - telefono numero eccetera eccetera”.»

Rebecca, con estrema prontezza, bluffa augurandosi così di collocarsi in una posizione privilegiata che le permetta di poter rimanere un altro po’ in quella stanza, per cercare di capire se quei tre c’entrino in qualche modo con l’uccisione di Lorraine. «Stia pur tranquillo che siamo in grado di contattare gli acquirenti come abbiamo rintracciato voi e le garantisco che nessuno è a conoscenza dei nostri movimenti, può ben comprendere che è nel nostro interesse non dover dividere ulteriormente la fetta di torta.»

«Perfetto! Era questo che volevo sentire.» Poi, in tono soddisfatto, «dunque solo il conte sa che voi siete qui e solo voi siete in possesso del progetto.» Zeus si frega le mani.

A Rebecca e Mauro corre un brivido lungo la schiena.

Zeus si allunga stirandosi sulla sua seduta. Poi si ricompone assumendo l’aspetto severo di un Cristo Pantocratore bizantino. «Giunti a questo punto, discutiamo l’aspetto economico. Stiamo aspettando una tranche di quattro milioni complessivi. I versamenti avrebbero dovuto iniziare già oltre un mese fa. Come detto, siamo a corto dei fondi per proseguire la ricerca. Quando inizierete i versamenti?»

Rebecca continua la recita. «I soldi non sono un problema, non si preoccupi. Lo scopo di questo incontro era di saggiare in via preventiva a che punto siete arrivati e toccare con mano i risultati, recuperare insomma le fila del discorso prima di andare a chiudere.»

«Ora vi accontento.» Zeus ordina a Càstore «vai a prendere la terza nonché ultima parte del progetto che la mostriamo a questi signori.»

Càstore, ubbidiente, aggira la scrivania e si dirige verso la cassaforte blindata, murata alle spalle di Rebecca e Mauro. Per evitare che i due si voltino, Zeus rivolge provvidenzialmente verso di loro il monitor sulla scrivania, «vi mostro un’animazione al computer che di certo non avrete visto. Il video è divulgativo e serve a comprendere bene il funzionamento del progetto nel suo complesso.»

Rebecca e Mauro si sciroppano alcuni minuti di simulazione computerizzata commentata in diretta da Zeus che si autocompiace, «geniale, vero?»

«Indubbiamente, professore.» replica Mauro.

«Allora, quando ci fate avere i quattro milioni?»

Rebecca cerca di contenerlo, «la situazione, come può immaginare, è molto delicata. Prima di procedere con i versamenti, dobbiamo recuperare la titolarità sui brevetti finora depositati dalla signora De Dietrich. Non appena sarà conclusa questa fase, stabiliremo le tempistiche con voi.»

«Come sarebbe? Noi siamo in considerevole ritardo, dateci una data a brevissima scadenza!»

Rebecca, anche se sente di essersi infilata in un vicolo cieco, cerca di mantenere una lucida freddezza. «Al momento non ci è materialmente possibile fornire tempistiche precise.» Improvvisando, aggiunge ormai a braccio, «l’ostacolo non secondario è rappresentato dall’apertura della successione con tutti i brevetti acclusi. Vi ritengo all’altezza per comprendere la complessità della situazione, amplificata ulteriormente dal nugolo di avvocati e notai venuti di conseguenza allo scoperto. Dopotutto, c’è di mezzo un inspiegabile assassinio che ha ingarbugliato considerevolmente le cose.» Vediamo se così gli scappa qualcosa sull’uccisione di Lorraine, si augura Rebecca.

Zeus inizia a sobbollire insofferenza. Inizialmente, vedendo con quanta facilità si era fatto beffe di quei due poco più che ragazzini, propendeva per dare retta al conte ritenendoli dei semplici paesanotti imbattutisi in qualcosa decisamente fuori dalla loro portata. Via via però che il dialogo si fa serrato li vede inquadrati e determinati, due trafficanti professionisti sotto le mentite spoglie dei ragazzi della porta accanto. «Ma state facendo lo stesso gioco anche con gli acquirenti, con i russi?»

Risponde Mauro, contraendo gli addominali, le natiche e affondando le dita nello skai dei braccioli per fronteggiare l’agitazione intestinale. «Come anticipato al conte, siamo in grado di contattare gli acquirenti ma non l’abbiamo ancora fatto in quanto dovevamo prima riallacciare i rapporti con voi.»

Questi pseudo-pivellini sanno veramente qualcosa, si convince Zeus. Poi, spazientito dalle fosche prospettive illustrate da Rebecca, secondo le quali la tanto agognata vagonata di milioni si starebbe allontanando anziché avvicinarsi, decide ad impartire l’ordine per il piano B. Un cenno nella

direzione di Càstore, ancora fintamente intento a recuperare i progetti dalla cassaforte, e questi immobilizza Mauro premendogli un coltello alla gola obbligandolo inerme contro lo schienale della poltrona. Nello stesso istante, Pollùce si avventa su Rebecca neutralizzandola con un altro coltello.

Zeus si solleva, aggira la scrivania e si porta in corrispondenza di Mauro. Senza tanti convenevoli lo agguanta furibondo per i capelli con entrambe le mani, mentre Càstore aumenta la pressione della lama sulla gola.

Zeus squadra Mauro con gli occhi dardeggianti fuori dalle orbite. «VOGLIO PARLARE DIRETTAMENTE CON I RUSSI! DATEMI I RIFERIMENTI!» Rebecca assiste pietrificata, vorrebbe poter reagire, fare qualcosa, perlomeno voltarsi per non vedere il terrore che attanaglia Mauro.

«DIMMI COSA DEVO FARE PER POTERCI PARLARE!»

Mauro serra ancora di più le natiche.

Zeus «PARLA! Hai inghiottito la lingua?»

Mauro cerca Rebecca con la coda dell’occhio. Rebecca accenna «in realtà non abbiamo…hhh…»

«Zitta tu!» Pollùce le copre la bocca con una mano, «lascia che sia il tuo amichetto a parlare per primo.»

Mauro, da sopra la lama che preme, sputa un «lasciatela!»

STUMPF!

L’eroico quanto inutile gesto di Mauro gli procura un violentissimo pugno di Zeus in piena faccia.

«AHHH!» A Mauro sembra che il colpo sia entrato nel cervello, tanto è forte il dolore che si propaga dal setto nasale a tutto il cranio. Il sangue che cola caldo e denso dalle narici lo costringe ad aprire la bocca ansimante in un’alternanza di respiri e di lamenti.

«I NOMI! CHI CAZZO SONO QUESTI RUSSI?»

Mauro balbetta «non…non…non lo sappiamo.»

Zeus lo afferra per la molle cartilagine del naso spaccato, glielo torce obbligandolo ormai senza difficoltà ad appoggiare la guancia sulla scrivania. Càstore posiziona accanto alla testa di Mauro un comune elettrodomestico, una piccola macchinetta per il caffè espresso dosato in cialde, recuperata da un tavolo addossato alla vicina parete. La spia della macchinetta è accesa, l’acqua nella caldaietta interna è già sufficentemente calda, attorno ai cento gradi.

Rebecca lacrima mentre Pòlluce la mantiene sotto minaccia con la lama calcata sulla trachea.

Zeus schernisce Mauro, «fai il furbo, eh? Ora parlerai.»

Mauro ribadisce «credeteci, non sappiamo chi siano! Volevamo solo cercare di capire…AAAAARGHHHH!»

Il getto di vapore che normalmente viene convogliato dalla lancia per schiumare il latte, viene invece direzionato da Càstore direttamente nel canale uditivo di Mauro che non ha più fiato per urlare l’atroce dolore provocato dalle ustioni al padiglione auricolare e dalla perforazione del timpano. Rebecca ha chiuso gli occhi, non riuscendo a reggere la crudeltà di quegli aguzzini senza scrupoli. In breve i lamenti di Mauro cessano. Spero che sia solo svenuto per lo shock, pensa tra sé Rebecca. Riapre gli occhi. Zeus è sparito dalla sua visuale. Lo sente trafficare alle proprie spalle ma, a causa della maledetta lama che preme sulla gola, non può girarsi a controllare cosa stia combinando prima di udire di nuovo la sua voce inquisitoria. «Allora, ragazzina, ti abbiamo convinta a cantare? Vedi, abbiamo torturato un po’ il tuo amichetto sotto ai tuoi occhi così da ammorbidirti, ora ci auguriamo che il suo sacrificio sia servito a convincerti a sputare il rospo.»

«Ma è…morto?»

«Chissenefrega! Mettici in contatto con i russi se non vuoi fare la stessa fine.» Nel proferire queste parole, Zeus le immobilizza i polsi con del nastro americano. «Allora, racconta!»

«Senta professore, la verità è che noi stavamo solamente cercando un collegamento con l’assassino della signora De Dietrich, per tentare in qualche modo di scagionarci. Siamo venuti qui solamente per questo, capire se voi c’entravate in qualche modo con l’omicidio. Dei russi o di altri compratori non sappiamo un bel niente. Ora vi prego, chiamate un’ambulanza per Mauro!»

«Basta menzogne! Non ti abbiamo spaventata abbastanza con il tuo amico, eh? Vuoi fare la dura? Ti accontentiamo. Però, a pensarci bene, è un peccato rovinarti questo bel visino, vero ragazzi?» Adocchiando Càstore e Pollùce esclama «spogliatela!» I due diòscuri obbedienti la ghermiscono brutali.

Due occhi silenti, dentro la grata di aerazione forzata, sono da poco arrivati ad osservare l’interrogatorio. Ma quelli sono fuori di testa! I ragazzi mi servono vivi, almeno uno!

Un’improvvisa esplosione travolge l’ufficio avvolgendolo in una fitta nube lacrimogena e narcotica.

54

Rebecca riprende i sensi. O meglio, le sembra di riprendersi. Fa fatica a connettere. Realizza che è paralizzata completamente, però è cosciente, forse distesa. Tenta di muoversi, di aprire gli occhi ma, per quanto si sforzi, tutte le sue terminazioni non rispondono. Permane immobile, marmorea. Terrore, spavento. Sto sognando? Un incubo?

In sottofondo avverte un ronzio costante unito a rumori simili a gorgoglii, c’è anche una voce maschile che sta parlando. Prova ad ascoltarla con attenzione. Ha un che di già sentito, ma a chi appartiene? La voce morbida, profonda, sta parlando in russo. Le lunghe pause tra una ripresa e l’altra lasciano intendere che stia dialogando al telefono. Dagli spezzoni di discorso, Rebecca deduce che il tema sia il solare termodinamico. Ma chi cavolo è? Chiunque tu sia, ti prego, svegliami, aiutami!

Mentre la voce continua imperterrita a dispensare numeri e a discutere di un imminente incontro, Rebecca si ostina inutilmente a ribellarsi al torpore in cui è ingabbiata finchè, estenuata, concede una tregua ai suoi sforzi adattandosi temporaneamente al sarcofago in cui è rinchiusa. Delle suole di para avvicinano e allontanano la voce. Cullandosi in quel felpato andirivieni, Rebecca cerca di descrivere il volume dell’ambiente che la contiene e si compiace di riuscire ancora a tradurre in simultanea quasi tutte le frasi che quella voce sta pronunciando. D’un tratto, nella buia sala cinematografica del suo stato onirico, si delinea una distesa di mare leggermente increspata, lei stessa al timone di una barca a vela, le pastiglie di antiemetico che scendono a fatica in gola, la piacevole brezza tiepida sugli occhi, i variopinti cespugli di corbezzoli, mirto e capperi che occhieggiano dalle insenature frastagliate. Odore di crema solare che bisticcia con la salsedine e con l’odore di maschio. Il sesso così coinvolgente nella rada di Cattaro. Janus!

Rebecca spalanca gli occhi e volge la testa in direzione della voce. Ma che succede? Gli impulsi nervosi di Rebecca continuano a rimanere inefficaci, come se ogni singola cellula fosse ancorata a dei plinti di calcestruzzo armato. Mio Dio! Non riesco ad aprire gli occhi, non riesco a muovermi, le mie membra non rispondono. Ma com’è possibile? Sto sognando tutto? Eppure non mi sono mai sentita così viva! Non può essere un sogno. Sono prigioniera del mio corpo. Il mio corpo si è ribellato alla mia volontà. Ora mi sveglio! BASTA!

Non succede nulla. Un sogno nel sogno? Le viscere della mente mi hanno risucchiata? Ora ricordo. L’esplosione. Tutto bianco. Qualcosa di appuntito mi ha colpito alla carotide, poi tutto nero. Sono morta. SONO MORTA! SONO UN’ANIMA VAGANTE! Dove mi trovo ora? Nello Stige? Nel Lete? Nel Cocito?

Il cuore di Rebecca inizia a palpitare. Mario, ci sei anche tu nel regno dei morti? Aiutami almeno tu. Una sorta di allarme sovrasta prepotente la voce in sottofondo. Beep-beep-beep….La voce tronca in fretta la comunicazione, «…ora ti devo lasciare. Dasvidanija tovarish.» Il beep-beep aumenta di frequenza e intensità. Le suole di para si avvicinano precipitose. La voce profonda si fa soffice rivolgendosi a lei. «Ragazza, stai calma, va tutto bene, respira profondamente.» A Rebecca pare di avvertire un impercettibile incremento di calore sul dorso di una mano mentre una piuma, anch’essa tiepida, le sfiora con delicatezza l’avambraccio.

«Rebecca, così ti chiami vero?» prosegue la voce seguitando ad accarezzarle l’arto immobile.

«…»

Rebecca non riesce ad emettere suoni, le corde vocali sono paralizzate così come

le labbra rimangono serrate.

«Lo so che mi puoi sentire e che mi hai risposto. Ti sei svegliata e ti stai agitando. Hai sentito vero il beep-beep?»

«…»

«Ora rilassati, fai finta di respirare profondamente anche se sta facendo tutto la macchina a cui sei collegata, cerca solo di rilassarti, dobbiamo abbassare il ritmo cardiaco e far smettere l’allarme.»

Rebecca si affida totalmente a quelle parole sussurrate e a quel delicato tepore che le lambisce la fronte.

«Lo so che è difficile, ma puoi farcela.»

Ce la sto mettendo tutta!

Dopo un paio di minuti l’allarme cessa. Rebecca ha definitivamente rinunciato ad uscire dal sarcofago.

«Eri sotto la minaccia di tre persone, dovresti ricordare anche un gran botto e tanto fumo. Ora sei fuori pericolo e ne sei uscita indenne. L’esplosione serviva a me per creare un diversivo e sorprendere quei gaglioffi. Approposito, complimenti per avermeli fatti trovare e doppi complimenti per il tuo coraggio.

Sei stata davvero cazzuta in quest’ultimo periodo.»

Quindi sono ancora viva?!

«Ti conosco da un po’. Diciamo che da un noioso spettacolo di flamenco in poi, durante il quale tra l’altro ho dovuto ingurgitare un’orribile sangria, la tua vita per me non è un segreto. Dicevo, nell’esplosione non ti è successo niente, solo un leggero shock.»

Chiamalo leggero, non mi muovo! E poi cos’hai detto? Sono settimane che mi spii? Allora a Tivat hai finto di essere un cliente? E a Clauiano sei venuto di proposito accanto a noi fingendo di fare il cascamorto con quella mulatta? Ecco dove ti avevo già visto! Ma chi saresti tu? Tu che parli in americano con accento russo? Sei un russo naturalizzato americano? Fai parte del controspionaggio? E vieni a perdere tempo con me? Prima i pisani, ora tu, qui mi state prendendo tutti troppo sul serio. Mancano solo il Mossad israeliano e la Gendarmeria Vaticana e siamo al gran completo. Quando arrivano?

«Ti starai rompendo la testa per capire come mai il tuo corpo non risponda ai tuoi comandi. Semplicemente perché ti ho iniettato nella circolazione arteriosa un mix di farmaci ipnotici e curarici. I curarici paralizzano i muscoli, gli ipnotici aboliscono la coscienza e ti mantengono in eccitazione. Stai vivendo in piena coscienza la condizione in cui il tuo corpo è immobilizzato. Forte vero?»

STRONZO!

«Mi raccomando, cerca di non agitarti perché altrimenti gli ipnotici amplificano ancor di più la paura della situazione in cui sei precipitata e ritorna ad aumentare

la frequenza del battito cardiaco, suona di nuovo l’allarme e potrebbero arrivare i medici, quelli veri, a chiedermi se mi serve una mano.»

Rebecca non può parlare ma continua il suo battibecco cerebrale. I medici? Ma dove mi ha portata questo tizio? Per caso sono finita in un traffico internazionale di organi umani?

«Ascoltami, non pensare male di me. Credo che ormai tu mi abbia identificato, sono Janus, il tipo della gita in barca a vela.»

Sì, ci ero arrivata, almeno il cervello non è compromesso.

Janus si sofferma ad ammirare intrigato il volto di quella ragazza che di punto in bianco si è trovata a lottare col mondo intero e non ha avuto paura di combattere. L’incontro in Montenegro gli è rimasto impresso ben oltre l’aspetto professionale. Rivive gli istanti in cui Rebecca timona spensierata obbligandolo a veloci manovre con il sartiàme, l’espressione incantata e tesa ad assaporarsi ogni dettaglio di quella breve e imprevista crociera, il folle tuffo per raggiungere la Madonna dello Scalpello, il portamento fiero, le movenze delicate e allo stesso tempo muscolari. Bella e raffinata come un kebaya indonesiano confezionato a mano.

Intanto Rebecca cerca di percepire cosa stia combinando quel tipo, se sia ancora lì nei paraggi o se l’abbia abbandonata in quella prigione di cellule immobili che è ormai il suo corpo.

«Perché tutta questa manfrina, ti chiederai?»

Ah ma ci sei ancora, dov’eri finito?

«Ho bisogno della parte di progetto che hai nascosto.»

Cazzo! Altrochè Mausefalle ghiacciata, sono sprofondata nella melma marrone di un pozzo perdente. Non bastavano i pisani, ora sono riuscita a inimicarmi pure i russi. Tutti interessati a ’sto cacchio di progetto e nessuno disposto a togliermi di mezzo le accuse di omicidio. Mauro, dove sei finito? Recupera il mitra, sparagli! Dio, Madonne, Santi, aiutatemi!

«Siccome mi stai, diciamo, simpatica, per farmi raccontare quello che mi serve non ti ho maltrattata come stavano per fare i farabutti che ho eliminato qualche ora fa, ma ti ho fatta distendere comoda comoda su un lettino.»

Rebecca, ridotta ormai a puro pensiero hegeliano, si abbandona. Piange. L’unica cosa che riesco ancora a fare, bagnarmi di lacrime le guance.

«Non fare così, vedrai che andremo d’accordo e ritornerai senza conseguenze alla tua vita normale.»

Janus, il Giano bifronte, il nome dice già tutto. Dovevo sospettare sin dall’inizio di questo tipo, quando imparerò a starmene alla larga dai guai?

«Ti spiego un po’ di cose. Il progetto era diviso in tre “lotti” di sviluppo che corrispondevano a tre tranches di pagamenti. Una parte del progetto, la prima,

l’avevamo già acquistata dalla signora De Dietrich. Una parte l’hai trovata tu ed era quella che stavamo trattando poco prima del suo assassinio. L’ultima, la terza, anche se incompleta, l’ho già recuperata dai pisani grazie all’ottimo lavoro che avete svolto tu e il tuo ragazzo. Approposito, sono arrivato troppo tardi e lui non c’è l’ha fatta, trombosi cerebrale. Mi dispiace, per quanto possa valere ora.»

Le lacrime di Rebecca si fanno più copiose.

«Io ti libero, ma devi stare ai patti. Questo è il piano: voglio uscire dal giro, uscire per sempre e ritirarmi a vita privata che ne ho piene le scatole di viaggi segreti, cambi di personalità, estenuanti appostamenti, trucchi, aporti falsi e rogne internazionali. Non so più chi ero nè chi sono. Ho bisogno di tranquillità per ritrovarmi. Ho messo da parte abbastanza per non dover lavorare per un po’. Ti faccio da garante verso l’organizzazione, quelli che mi stanno pagando e che trattavano con Lorraine. Ho già comunicato loro che finalmente ho riavviato la trattativa con te. Chiediamo loro i soldi per comprare la tua parte di progetto e quella finale che ho già recuperato gratis dai pisani. Fingi di far parte di qualche cupola antagonista interessata al progetto solare, consegni loro le carte e poi mi giri il denaro che ti verseranno. Per il tuo disturbo ti riconosco il venti per cento.»

Rebecca, esasperata dagli ultimi due mesi di accadimenti e dalla conseguente paura del futuro che la attanaglia costanemente laggiù nel basso ventre, vorrebbe urlare, scappare, sparire, morire veramente. Magari all’inferno, a dare lezioni di canoa sulle acque dello Stige, per l’eternità.

«Sono sicuro che trovi la mia proposta ragionevole, se non altro per averti risparmiato crudeli torture. Ora che abbiamo raggiunto l’accordo, ti inietto un po’ di pseudocolinesterasi, un enzima che metabolizza il curaro e fra non molto potrai riaprire gli occhi così ci muoviamo da qui. Nel frattempo ti preparo alla scena. Siamo in una sala operatoria in un ospedale di Pisa, il Santa Chiara credo, visto che mi servivano le macchine per la respirazione assistita meccanica. Come

ho fatto a entrare qui? Oh, molto semplice. Ho documenti e carte false a sufficienza per diventare chiunque in buona parte del mondo civilizzato. Mi sono fatto are come dottor Rackovski e tu sei una mia amica, georgiana, non hai documenti né tessera sanitaria. Sei stata vittima di un attacco di appendicite e con qualche soldo e qualche firma mi sono preso la responsabiltià di darti una sistematina io, tanto è un’intervento di routine, perdipiù è domenica mattina e i dottori latitano. Ora che ti ho riferito quello che dovevo dirti e spaventata abbastanza, so che quando aprirai gli occhi farai tutto quello che ti ho chiesto.»

55

Il sole rosso all’orizzonte socchiude gli occhi a Janus e Rebecca che imboccano l’autostrada A12, in direzione nord. Lei, ancora un po’ intontita, osserva scorrere gli oliveti dal finestrino. La morte nel cuore pensando alla fine che ha fatto Mauro. Sua madre mi riteneva un’assassina. Lui non le ha dato retta, continuando a frequentarmi. Cosa le racconterò?

«L’auto del mio amico, dobbiamo recuperarla.»

«Tuo amico? Non era il tuo ragazzo?»

Da quel primo bacio sulla sponda del Natisone in poi, il cuore di Rebecca si era avvicinato a Mauro come un asintoto si avvicina indefinitamente alla sua retta senza mai incontrarla: l’amore ricurvo di lei non era più riuscito a toccare l’amore lineare di lui. Mentre è assorta nella noiosa prevedibilità delle funzioni matematiche, replica a Janus. «Mauro non era il mio ragazzo, almeno non più, non ultimamente.»

«Peccato, qui sembravate una coppia in intima complicità.» Janus le mostra l’iPhone e Rebecca si rivede accanto a Mauro quella sera in cui tutti ordinavano sangria e lui inspiegabilmente le portò una lattina di cola.

«L’auto l’hanno già fatta sparire i pisani come rottame in qualche autodemolizione compiacente. Prima però ci ha rovistato lo scagnozzo del conte De’ Canestrelli.»

«Lo scagnozzo? Parli del bulldog?»

Un misurato sorriso illumina gli occhi di Janus, blu come il lago di Massaciuccoli che hanno appena lasciato sotto al viadotto. «Effettivamente sembrava proprio un cane agitato mentre entrava e usciva dalla Skoda.»

«Ma cosa sperava di trovare?»

«Il conte vi voleva scavalcare, non ci eri arrivata? Era alla febbrile ricerca di elementi per risalire all’acquirente che avete millantato di poter raggiungere, cioè l’organizzazione per cui lavoro io, così vi ha sguinzagliato il bulldog. In autostrada non è riuscito a bloccarvi con la vite nella ruota, così ha tentato il tutto per tutto a Pisa, ben sapendo che anche i pisani sarebbero sopraggiunti anch’essi a curiosare, dal momento che aveva la consegna di segnalare loro la vostra posizione non appena foste giunti in città. Voi in realtà non avevate un bel niente e il bulldog poteva cercare fino all’indomani che non avrebbe trovato nulla, a parte il kalashnikov che si è portato via.»

Il giusto epilogo per quei trecento Euro sottratti con destrezza, considera tra sé Rebecca.

«Tu e il tuo povero amico siete stati degli sconsiderati! Cosa vi eravate messi in testa? Tutta l’autostrada con un fucile mitragliatore nel baule.»

«Era smontato e disseminato negli anfratti dell’auto.»

«Sì, ma se uno trova un pezzo capisce che c’è anche tutto il resto. Immagina se foste incappati in un controllo, potevano prendervi per terroristi, assaltatori di portavalori o per due svitati. In prigione o al manicomio vi avrebbero comunque internati.»

Sono ormai giunti in prossimità di Forte dei Marmi. Rebecca è a corto di energie. «Ho fame, fermiamoci.»

Una maxi scottona alla fiorentina freme fumante nel piatto, ansiosa di rimettere Rebecca in carreggiata. Janus osserva incredulo la voracità con cui lei affronta quel chilo di carne cosparso di pepe rosa. «Sicura di riuscire a finirla?»

«Non ti preoccupare. Piuttosto, tornando all’accordo cui mi hai obbligata, ho una domanda che mi frulla in testa. I pisani ci chiesero quattro milioni per ultimare la sperimentazione. Ne deduco che manchi ancora un bel po’ di lavoro per arrivare a conclusione, no? Ora che hai fatto sparire gli scienziati, come conti di procedere? Cosa venderai ai tuoi capi?»

«I quattro milioni erano con tutta probabilità una mezza estorsione. Mentre loro tre stavano interrogando te e il tuo amico, ho visitato accuratamente il laboratorio, il prototipo di comignolo è ad uno stadio molto avanzato. Con i progetti che hai tu, uniti a quelli che ho sottratto loro, i tecnici dell’organizzazione non avranno problemi a ultimare il tutto. Il “cuore” dell’intuizione geniale sta essenzialmente nelle carte. Il resto è solo sperimentazione e ottimizzazione. In conclusione, per ristorarsi di queste mancanze, i miei capi saranno lietissimi di vedersi applicare da te un forte sconto sul saldo finale.»

«Qual’era l’accordo economico con la signora De Dietrich?»

«Tre miliardi di Euro.»

Rebecca strabuzza gli occhi. «Caspita! Lorraine era abile negli affari.»

«Credo di sì. Comunque ora tu, che hai fatto fuori la signora e i pisani, cederai il tutto a un miliardo e mezzo pur di chiudere in fretta la partita. Il venti per cento è tuo, il resto è mio. Non potevo riferire di aver eliminato io i pisani, altrimenti automaticamente avrei dovuto ammettere di conoscerne il covo e impossessarmi dei progetti per girarli ai capi senza costi aggiuntivi. Mentre eri “addormentata” in ospedale, ho già riferito l’esito della missione all’organizzazione. L’esito concordato con te. A breve si aspettano di incontrarti per perfezionare lo scambio.»

Rebecca si agita e sbraita sottovoce attirando gli sguardi scocciati degli altri avventori, «MA IO NON L’HO UCCISA!»

«E’ ovvio, ma loro non sono la giustizia italiana, non gliene importa nulla. Recita la parte della killer spietata e andrà tutto liscio. Non posso mica farmi consegnare il denaro direttamente da loro, mi servi tu! E’ semplice, no?»

«Si può sapere chi l’ha uccisa? Io sto rischiando la galera. Accetto solo se mi aiuti a uscire da questo incubo.»

Janus la liquida accomodante. «Vedrò cosa posso fare. Se vuoi intanto elimino

De Dietrich, so cosa sta combinando ai danni di tuo padre.»

«No! E' già stato versato troppo sangue, a cosa servirebbe? E poi alla parte economica del problema sto già rimediando io. Quello che mi serve è individuare l’assassino e portarlo allo scoperto.»

«Quando ti ho trovata a Tivat, inizialmente non capivo se eri in combutta con De Dietrich e l’avevi aiutato a far fuori la moglie o se eri là per vendicare il sopruso finanziario che ha ordito verso tuo padre. Dovetti per forza avvicinarti.» Poi Janus, accortosi delle informazioni ancora riservate che stava per rivelare, taglia corto. «Ora ritiriamoci che la giornata è stata pesante.»

Pernottano al Venere Azzurra sul lungomare di Lerici.

«Camere separate?» chiede Janus.

«No, non dormirei tranquilla. Una twin, doppia con letti separati. Questa sera non lavoro, sia chiaro.»

Le membra fiaccate, i nervi smagliati e l’anima surgelata dai troppi dispiaceri, addormentano Rebecca che si fa rigida in un istante.

Mentre armeggia con fototessere, carte di identità e punzoni contraffatti, Janus la osserva dormire abbandonata nei sogni. Ogni tanto viene colta da improvvisi quanto impercettibili fremiti. Perdonami piccola, le reni non hanno ancora smaltito completamente i farmaci. Veglia su di lei rimpiangendo una vita spesa

al soldo del controspionaggio russo prima e di una costola dell’Organizacija poi, sacrificando nel contempo la possibilità di instaurare legami e relazioni di qualsiasi tipo. Vivo ma inesistente, irrintracciabile, invisibile. Un misero fantasma con trecento milioni di dollari su un conto cifrato a Turks e Caicos.

56

Il mattino successivo, dopo una sosta in un autonoleggio per cambiare l’Audi A6 del dottor Rackovski con la Fiat Punto del sigor e della signora Befera, si rimettono in marcia.

«Ieri non riuscivo a chiedertelo ma…»

«Che c’è?» la interrompe Janus.

«Il corpo di Mauro, che fine ha fatto?»

«Ho bonificato l’area compreso lui e gli altri tre. Lo so, è terribile, ma si fa così. Ora il laboratorio è sotto il controllo delle mie telecamere. Qualunque intrusione mi verrà segnalata.»

Rebecca si ammanta di triste mestizia immaginando Mauro sciolto nell’acido muriatico. Dopo alcuni minuti chiede «mi riporti a casa, vero?»

«No.»

«Ma devo avvisare la madre del mio amico!»

«Abbiamo altre priorità.»

«Quella donna sarà in pena! Credeva che il figlio fosse andato in Trentino ad arrampicare. Avrà allertato i soccorsi. Le devo parlare. Anche i miei genitori e il mio avvocato mi staranno cercando.»

«…»

«Mi ascolti?»

«No!» replica Janus talmente glaciale da sciogliersi di dosso la perenne abbronzatura e diventando grigio come la tappezzeria. Questa volta non è come le altre, prova dispiacere nel far soffrire una persona. E’ combattuto ma dopotutto sa qual è il suo dovere e procede spedito verso nord.

Dopo mezz’ora, Rebecca infrange il tormentato silenzio e chiede con tono riappacificatore «dove siamo diretti?»

«Lugano.»

«…»

«Mentre cercavamo in tutti i modi di sopperire al black-out informativo

conseguente alla morte della signora De Dietrich, abbiamo svolto delle indagini sulla titolarità dei brevetti sperando di risalire a qualcuno o a qualcosa che ci permettesse di stanare il conte o i pisani.» Janus, come un camaleonte, riassume parzialmente l’abbronzatura per poi aggiungere «non fare quell’espressione saputella, lo so bene che alla fin fine siete stati tu e il tuo amico a portarci sulla pista giusta. Comunque, noi abbiamo appurato che i brevetti sono riconducibili a due società di diritto elevetico dietro le quali c’era la signora. Lei è morta e se ora tu li volessi acquisire non ci sarebbe nessuno a firmare l’avvallo. Dovrebbe prima are tutto al marito che, da quanto ci risulta, è ancora all’oscuro di questa faccenda. Ovviamente non sa neppure di ereditare i brevetti perché né lui né i suoi consulenti ne erano al corrente. Tra qualche ora, una fiduciaria ti aiuterà ad aprire una società con sede in Malesia o in qualche altro posto sperduto.»

«A che mi serve?»

«Per suo tramite faremo pervenire alle fiduciarie di Lorraine un’offerta per l’acquisto dei brevetti. Le richieste verranno girate in Italia da dove risponderanno “ops, la signora De Dietrich è morta.” A quel punto i brevetti usciranno allo scoperto ed entreranno finalmente nella successione ereditaria, ando al marito che si ritroverà i titoli corredati da un’offerta di acquisto. Difficilmente capirà a cosa si riferiscono e soprattutto non troverà nessuno in grado di quantificarne il reale valore. Mi auguro che, con un po’ di fortuna, piuttosto che tenersi la carta straccia, preferisca trasformarla in qualche migliaio di dollari.»

«Perché la società verrà aperta a nome mio? Facciamola a nome tuo.»

«Credimi, è meglio così, in Svizzera qualcuno mi conosce troppo bene. Comunque di tuo ci sarà solo la foto, il nome sarà falso e non preoccuparti, l’identità che si cela dietro la società rimarrà riservata.»

«Mi auguro vivamente di non avere ulteriori problemi dopo questa mossa. Per quanto riguarda i brevetti, invece, non c’erano degli accordi, dei contratti preliminari, che stabilissero a priori il valore della cessione?»

«No, niente di tutto questo, chi tratta con noi sa che deve rispettare i patti o lo facciamo sparire.»

Rebecca si rifà pensierosa considerando la vicenda nel suo complesso per poi chiedere nuovamente «e il conte? Verrà a cercarmi, sa chi sono, vorrà la sua parte.»

«A lui penseremo più avanti.»

Nel frattempo Luca, irritato dall’ennesimo cliente soffiatogli da Alberto Milano per la vendita di un bicamere vista mare sull’isola di Grado, allarmato dalla discesa libera imboccata dal proprio conto in banca, schifato dal fatto che per ottenere prezzi stracciati quel fottuto squaletto sia disposto a buttare in strada i legittimi proprietari facendo leva sulle loro difficoltà finanziarie, mosso anche da un impeto giustiziere verso Giordano dato il legame con Rebecca, decide di dare una lezione a Sua Disonestà August De Dietrich.

L’agenzia di Luca, come tutte le agenzie dell’isola, possiede i listini degli appartamenti ristrutturati e commercializzati dalle diverse imprese di costruzione che ivi operano. I listini contengono un segreto, un segreto di Pulcinella, nel senso che è un modus operandi comune a tutti. Il prezzo indicato accanto a ciascun immobile rappresenta il valore “ufficiale” della transazione. Tale prezzo ufficiale, moltiplicato per un coefficiente nascosto da qualche parte, rappresenta il prezzo effettivo dell’immobile. La differenza tra i due valori va ovviamente riconosciuta all’impresa venditrice in contanti.

Una società riconducibile a De Dietrich ha da pochi mesi ultimato la ricostruzione di un aparthotel sull’isola, con tanto di sopraelevazione per due piani e aggiunta di garages nell’interrato. Luca non è ancora riuscito a intermediare nessun pezzo di quell’aparthotel ma è al corrente che sono già stati venduti due attici e tre bicamere con rispettivi garages e cantine. Anche il listino dell’aparthotel segue la regola di Pulcinella.

Con un’interrogazione alla Conservatoria dei Registri Immobiliari, risale ai cinque acquirenti e ai relativi prezzi di acquisto dichiarati nell’atto notarile. Li confronta con il listino in suo possesso sorridendo compaciuto, all’appello mancano complessivamente circa settecentomila Euro. Compone il 117. L’operatore lo tedia con la solita tiritera, «la prendiamo come segnalazione anonima. Se vuole che sia efficace, che cioè noialtri si proceda a constatare l’eventuale reato, deve sporgere denuncia.» Luca si fionda nella Golf e in breve si presenta al comando regionale della guardia di finanza a Trieste, dove da poco si sono insediate nuove figure apicali direttamente da Roma.

57

Rebecca è rientrata a casa seguita dall’ombra di Janus che bonifica la casa e le serre da tutte le microspie e microaggeggi disseminati dai carabinieri durante i loro precedenti sopralluoghi. Rebecca lo introduce a Giordano e Luisa raccontando loro la pura verità, compresa la scomparsa di Mauro. Al termine del resoconto, che i genitori assorbono allibiti, Luisa esorta Rebecca, «sarà meglio che tu vada subito da sua madre. Ha chiamato qui diverse volte, era disperata. Noi abbiamo finto di non sapere dove foste.»

«Ma come giustifico la sparizione?»

«Tu non eri con lui,» interviene Janus, «avete litigato, poi tu sei andata al mare e lui in montagna.»

«Ma così lo aspetterà per tutta la vita che le rimane.»

Janus taglia corto, «dobbiamo imparare a vivere la nostra vita, non quella degli altri. Augurati solo che prima o poi quella signora lo capisca. Purtroppo anch’io l’ho capito troppo tardi.»

Il salotto ha odore di salotto, di quei salotti costruiti e arredati nella penombra degli anni Settanta, con l’aria di quegli anni invecchiata alle pareti, aria che continua imperterrita a rimandare l’odore muffito e vellutato delle sedie imbottite attorno al tavolo da pranzo, utilizzato solo in rare e importanti occasioni come tavolo da pranzo. Dai centrini all’uncinetto e dai tendoni pesanti sopraggiungono nette le esalazioni di appretto che rafforzano la sensazione di

chiuso e di pulito, riflettendosi sull’argenteria lucidata in mostra nella credenza in mogano scuro che, tra la faesite del proprio schienale e il muro a cui è addossata, cataloga gelosamente le ragnatele e la polvere di quarant’anni.

Rebecca, fattasi carico del pietoso compito, si sforza di dissimulare l’accenno di nausea claustrofobica. Cerca di trattenersi il meno possibile con la madre di Mauro, per poi dileguarsi come una ladra sotto gli sguardi sorridenti e immobili dei nonni e dei bisnonni, dei giovani sposi, del marito defunto, della prima comunione e della laurea del figlio che campeggiano tutti insieme nelle foto allineate sulla mensola del caminetto spento.

Luca aggiorna Rebecca in merito alla denuncia sporta alla guardia di finanza nei confronti di De Dietrich.

Janus, dopo essersi complimentato con Rebecca per l’ottimo e inaspettato lavoro svolto da Luca, approfitta dell’occasione per aumentare la pressione su De Dietrich. Con una soffiata anonima segnala al 117 il conto legato alle fiduciarie di Lorraine presso la filiale USB di Zugo dove i russi le avevano versato fior di milioni, conto che ora erediterà De Dietrich.

Janus e Rebecca, sempre con telefonate anonime, fanno annusare alla stampa l’odore dei fondi neri di De Dietrich. Iniziano ad uscire articoli di giornale che mettono in allarme le banche con cui De Dietrich intrattiene i rapporti. Le banche iniziano a scaricarlo.

I giorni scorrono frenetici e Janus attende impaziente l’accettazione dell’offerta da parte di De Dietrich per l’acquisto dei brevetti. E’ invece a casa Carinci che si presenta un emissario delle fiduciarie di Lorraine con l’offerta di acquisto. L’erede designato per i brevetti è Giordano che naturalmente casca dalle nuvole. Fortunatamente è presente anche Rebecca che riesce a indirizzare l’affare per il

verso giusto. L’offerta compilata a Lugano da Rebeccca è di trentamila dollari. Una miseria, rispetto a quello che valgono realmente queste invenzioni, considera fra sé. Giordano firma tutto quello che c’è da firmare.

Dopo che il legale se n’è andato, Janus commenta sarcastico «in pratica con i miei soldi hai comprato i brevetti da tuo padre. Ad averlo saputo prima, mi sarei tenuto ancora più basso con l’offerta. Comunque considera quel denaro un anticipo sulla tua percentuale su questo affare, non credere di sommarli.»

In serata Rebecca ragiona con Giordano su quanto accaduto. «Mi dicesti che quando Lorraine ti portò il lume solare sembrava sul punto di volerti dire ancora qualcosa, vero?»

«Sì ma se non ricordo male nelle serre c’era gente, mi promise di ritornare ma poi ci fu la disgrazia.»

«Magari in quella dannata memory-stick ti lasciava qualche indicazione, solo che è criptata. Chissà, forse voleva darti la e aveva programmato di ritornare a breve. Sicuramente era nelle sue intenzioni informarti di questa faccenda dei brevetti, perlomeno darti delle istruzioni qualora a lei fosse capitato qualcosa di brutto e tu li avessi ereditati.»

«Ma non fece in tempo…»

58

Attesi alcuni giorni affinchè formalmente i brevetti ino in proprietà effettiva alla fiduciaria malese intestata a Rebecca, lei e Janus concordano l’incontro con i russi per concludere l’operazione. Per rendere più verosimile che Rebecca faccia parte di un gruppo clandestino da tempo impegnato a spiare i pisani, fissano l'appuntamento a Portovenere. «E’ un porto piccolo, a pochi chilometri da Pisa, e soprattutto è facile da tenere sott'occhio da una persona sola. Dall’alto sarò il tuo angelo custode, andrà tutto bene.»

Janus, indossando un paio di jeans e un’anonima camicetta bianca di piquet, si confonde ai turisti che salgono sul piccolo promontorio all’imboccatura del porto. Da lì, nascosto negli anfratti di un muraglione in rovina, riesce agevolmente a controllare tutte le imbarcazioni in transito. Dei pescatori laggiù sui frangiflutti ingannano l'attesa sfidandosi a scacchi approfittando di un pietrone levigato dalle maree. Più vicino, sulla eggiata lungomare che costeggia il canale, un chiassoso bar potrebbe essere scambiato per un piccolo ma caloroso comitato di accoglienza per le barche che entrano in porto. Sull’asfalto vicino al bar, alcuni ragazzini giocano con una palla. Gli occhi di Janus si inteneriscono, per alcuni istanti immagina che un paio di quei ragazzini possano essere figli suoi. Un gabbiano, posandosi su una roccia sporgente, gli ostacola la visuale nel binocolo. Janus trasale rammentadosi il motivo della sua presenza in quell’anfratto, scacciando così i progetti futuri e i rammarichi sul ato. Oltretutto si era distratto già abbastanza e, per quanto ne sapeva, qualcuno sarebbe anche potuto are frattanto con un gommone sottocosta senza che lui se ne fosse accorto, vanificando tutta l’azione di doppio gioco che stava conducendo dal giorno in cui aveva sedato Rebecca.»

All’ora convenuta, le cinque del pomeriggio, Rebecca si alza da un tavolino del chiassoso bar incamminandosi verso il pontile di attracco. Anche lei è in tenuta sportiva, l’unica differenza con i turisti è data da una valigetta portadocumenti che stringe sottobraccio.

Janus informa via radio i suoi capi dell’Organizacija che il campo è libero e che la ragazza si sta muovendo da sola.

Giunta sull’area di attracco come da istruzioni, Rebecca si ferma nei pressi della poppa dell’unico imponente yatch, grigio e immobile come un cetaceo spiaggiato. Janus conferma nella ricetrasmittente, «è lei la ragazza, procedete.»

Una erella telescopica fuoriesce dalla poppa tramite un sistema a pistoni idraulici. Non appena la erella poggia sul pontile, Rebecca si avvia incerta entro la pancia del cetaceo. Due uomini in tenuta marinaresca, che Rebecca immagina armati, la scortano dal ponte di coperta dentro a un salone talmente lussuoso e sfavillante da non sembrare neppure appartenente ad un’imbarcazione. La perquisiscono, accertandosi che non abbia armi, per poi avviarla ad un tavolino dove la attendono due anonimi signori impazienti di are minuziosamente in rassegna tutto il contenuto della cartella portata da Rebecca. Consegnato il plico, lei si adagia su una morbida poltrona cercando di dissimulare la trepidazione guardandosi intorno oltre gli oblò.

Nel frattempo, Janus riprende a cullare un prepotente quanto improvviso desiderio di paternità osservando con il binocolo i ragazzini giocare. D’un tratto una voce dolce come il miele lo fa sobbalzare. «Jan, tutto ok da queste parti?»

«Janine! Che…che cosa ci fai qui? Non eri partita per Caracas?»

«Purtroppo il volo è stato posticipato, così sono rimasta nei paraggi a dare una mano nei controlli, visto che oggi è il giorno dello scambio e un paio d’occhi in più non fanno male.»

«Ehm…già. Comunque direi che finora è andato tutto come previsto. Pare che la ragazza si stia comportando bene.»

«E’ questo che mi preoccupa. Un affare così importante e tutto fila liscio. Troppo liscio. C’è qualcosa che non mi convince. Mi aspettavo perlomeno che quella ragazza, quella killer così maldestra da farsi beccare, si fosse presentata con un codazzo di mafiosi italiani al seguito.»

«Perché non potrebbe andare tutto proprio come previsto? In fondo, gli accordi sono già stati presi. Comunque i gorilla ci sono, ho già individuato almeno tre loro punti di osservazione di cui ho riferito al comandante.»

«Sì sì ho sentito, sono anch’io sintonizzata sulla frequenza dello yacht, però non ho visto niente di niente. Sono venuta qui, nel punto migliore, proprio per rendermi conto di persona.»

«Laggiù, accanto ai bambini che giocano, quel signore seduto che finge di tenerli a bada. Accosta la pipa alla bocca e anziché aspirare parla come fosse una ricetrasmittente. Inoltre, accanto a sé, ha quello zaino troppo grande per essere venuto lì semplicemente a tenere a bada dei ragazzini. Conterrà molto probabilmente un’arma abbastanza potente, un M4 ad esempio.»

«Dici? A me quel tipo sembra innocuo.»

«Janine, ho mai sbagliato?»

«A dire il vero, nei dieci anni che ti conosco, no.»

«Benissimo, osserva ora i pescatori su quei frangiflutti. Ti pare normale che, potendo scegliere di gettare le canne verso il mare aperto, le tengano verso di noi e quindi verso il canale navigabile con l’acqua disturbata e sporcata dalle imbarcazioni in transito? E poi vicino a quella boa di segnalazione, in prossimità di quell’allevamento di cozze contro l’isola Palmaria. Ci sono due sub che si alternano sul pelo dell’acqua senza mai immergersi come dovrebbero. Venti minuti fa, un gommone gli ha scaricato due casse che hanno immediatamente immerso. Credo poco alle scritte che indicavano materiale per l’esplorazione del fondale. Propendo per un sistema di propulsione sottomarina unito a bombe di profondità. Comunque manteniamo la calma, nessun colpo di testa e vedrai che andrà tutto bene.»

«Lo spero.»

Nella cabina dello yacht, i due signori hanno appena riordinato la documentazione esaminata. Lasciano il tutto sul tavolino e si ritirano. Poco dopo compare un altro signore, alto, in doppiopetto blu con bottoni dorati e lunghi capelli grigi raccolti in una coda. «Benvenuta a bordo, signorina Carinci. Sono il comandante Brezov. I nostri esperti mi hanno appena confermato la grande valenza del vostro materiale. Vedo però che sono stati inospitali, non le hanno nemmeno offerto un bicchiere di questa insuperabile vodka.» Rebecca ricambia il saluto e punta al sodo, «se non le dispiace, prima di brindare preferirei completare lo scambio.»

«Ha ragione, prima gli affari. Sergey!» Dopo pochi secondi compare un’altro individuo con un computer portatile. Il comandante digita sulla tastiera una serie di mentre Rebecca gli allunga un biglietto. «Un miliardo e mezzo, su questo conto. In Euro, per favore.»

Il comandante dispone il pagamento mentre Rebecca si guarda intorno con crescente circospezione. Giuro che se esco viva da qui, e con i soldi, riempio di vodka la vasca da bagno e me la bevo tutta.

Scorrono lenti alcuni minuti finchè il comandante Brezov la informa dell’avvenuto trasferimento. «Fatto. E’ stato un piacere fare affari con voi anche se, come mi hanno informato le mie sentinelle, siete venuti in forze. Credevate per caso che non mantenessimo fede agli impegni?»

«No no, ci mancherebbe, ma è la prassi. Ora, mentre mi prepara la vodka, mi lasci cortesemente verificare il buon fine della transazione.»

«Come desidera, le serve un telefono?»

«La ringrazio ma ò il mio. Esco sul ponte, con il suo permesso, comandante.»

Rebecca, appoggiatasi al parapetto, si riempie i polmoni con una profonda boccata di aria salmastra, compone il numero datole da Janus e scruta il mare all’orizzonte mentre attende che lui le risponda.»

Il telefono di Janus vibra nel taschino. Janine scorge il taschino illuminato. «Tieni il telefonino durante una missione così importante? Che succede?»

Janus, senza estrarre il telefono, improvvisa lì per lì «è un allibratore, c’è una

corsa di cavalli fra poco. Gli ho affidato una certa somma con l’ordine, prima di puntare, di avvisarmi se avrebbe corso anche un cavallo che questa mattina era dato per incerto.»

«Uhm…allora la cifra che volevi puntare dev’essere molto alta…però ti rammento che nel nostro lavoro la più piccola distrazione può risultare letale, e non solo per te ma anche per chi ti affida il compito di sorveglianza.»

«Ammetto la leggerezza, ma quella dannata gara con quel dannato cavallo drogato potrebbe essere un’occasione d’oro. Mi spiego?»

«Perché non rispondi allora?»

«Perché hai ragione tu. Sta andando tutto troppo liscio, non mi sento tranquillo, e di conseguenza puntare in queste condizioni porta male. Insuccesso garantito.»

«Se lo dici tu...ora torno giù lungo quel crinale così chiudo il giro.»

Rebecca è allarmata, Janus non le risponde. Lo sapevo, lo sapevo che qualcosa sarebbe andato storto. Riprova a chiamare ancora per lunghe serie di secondi. Janus, atteso che Janine si sia allontanata debitamente, estrae il portatile nascosto provvidenzialmente in un’insenatura e si connette al conto cifrato a Lugano. Frattanto Rebecca, attanagliata dall’ansia, riprova a contattarlo e lui finalmente risponde. «I soldi sono arrivati. Puoi venire via quando vuoi, è fatta! Dopo l’autonoleggio cambierai due taxi e ci ritroveremo fra tre ore dove sai. Intanto io faccio perdere le mie tracce.» Rebecca rientra nel salone per poi congedarsi dopo pochi minuti. Sul pontile incrocia una mulatta che avanza con lunghe falcate.

Rebecca non fa in tempo a intercettare un taxi che le squilla un secondo telefono, quello personale, rimasto inavvertitamente . E’ Stefania, l’amica delle superiori, chiama per invitarla a casa sua ad una riunione della Valigia Rossa. Le accenna quasi sottovoce di cosa si tratti.

Rebecca è incredula alle proprie orecchie. «Cioè sarebbe un’ennesima vendita porta a porta in cui, anziché pentole o materassi o polizze sulla vita, ti propinano la roba dei sexy shop?»

Stefania, con l’intenzione di rassicurarla e metterla maggiormente a proprio agio precisa, «beh sai, la riunione in casa è fatta apposta per ovviare ai timori di parlare di queste cose con uno sconosciuto negoziante…»

Rebecca, scorrendo mentalmente il proprio sexy guardaroba corredato dall’armamentario sadomaso e consapevole al contempo di essersi fatta una discreta esperienza nell’arte amatoria, domanda incredula «nel ventunesimo secolo esistono veramente donne che vanno in panico per entrare in un negozio a comprarsi le palline da geisha? O che sono in difficoltà nell’ammettere che vogliono aumentare il proprio piacere acquistando un anellino vibrante?»

Stefania, in sensibile difficoltà, corre ai ripari. «Magari in negozio potresti trovare un uomo e…insomma…nelle nostre riunioni partecipano solo donne, niente mariti o fidanzati, così siamo libere di dirci le cose senza imbarazzi.»

Rebecca non trattiene una fragorosa risata prima di sbottare, «ma porca puttana, secoli di lotta femminista per la parità tra i sessi e ancora oggi per parlare di creme lubrificanti, vibratori e sesso anale ti vergogni a farlo di fronte ad un uomo? Magari di fronte al tuo uomo? Bah…rimango senza parole.»

«…»

Al silenzio di Stefania, Rebecca replica amara, «che tristezza, forse è proprio per questo che non ho mai faticato a trovare clienti, anzi c’è tanto di quel lavoro...»

«…»

«Ovviamente non verrò, ma ti ringrazio della telefonata. Mi hai sollevato il morale, rallegra sapere che c’è gente messa peggio di me.»

Janus e Rebecca si ritrovano a brindare cenando sulla sommità di una torre a picco sul mare, suggestiva attrazione di un ristorante di Vernazza, nelle Cinque Terre.

«Quanto ti è costata la messinscena dei finti gorilla?»

«Circa mille Euro ma credimi, tutti ben spesi. Senza il timore di finire in mezzo ad una guerriglia, Brezov non avrebbe mai e poi mai ricevuto l’ordine di sganciare tutti quei soldi.»

«Ormai è andata. Domani a Lugano estingueremo il conto e spartiremo i soldi.» Rebecca, raggiante per aver chiuso la partita, considera «a breve inizieremo a vedere sui tetti i comignoli termodinamici e il mondo diventerà più sano. Non è straordinario? Siamo stati protagonisti di un pezzo di storia!»

«No, mi dispiace deluderti ma non succederà niente di tutto questo. Brezov sta da tempo trattando con alcune multinazionali, venderà il progetto a peso d'oro al miglior offerente che sicuramente lo seppellirà per decenni in qualche cassetta di sicurezza. Verrà ripescato non prima di una crisi petrolifera o alla fine del business sui pannelli solari.»

Terminata la cena, eggiano fino al bagnasciuga della minuscola spiaggia lì vicino. Rebecca, sbollita la tensione della giornata e ispirata dal clima di complicità cullata dalla buia risacca del mare, gli racconta di Mario e di Mauro. Il ripercorrere la scia di dispiaceri che l’ha tanto rattristata lascia Janus in evidente disagio. Rientrano in albergo, questa volta nello stesso letto. Con spontaneità giacciono insieme. Janus, appagato dalla focosità di Rebecca e ormai rassicurato sull’imminente esito positivo dei suoi propositi, allenta le difese. «A causa della natura nomade del mio lavoro, era da secoli che non potevo provare un’intesa simile. Questa notte credo di essere riuscito a fare l’amore con te.»

Lei, prima di addormentarsi, lo ammonisce. «Io ho fatto la mia parte, ora tocca a te aiutarmi con le indagini.» Poco dopo, si ritrova a girovagare febbrilmente nei corridoi della curia vescovile. Attraversa ampi saloni oscenamente sfarzosi e perfettamente restaurati, segno tangibile dell’otto per mille, alla ricerca del vescovo. Vuole assolutamente comunicargli quanto ha scoperto sui frati di Montecastello e chiedere il suo aiuto per toglierle di dosso le accuse di omicidio. Il vescovo, per tutta risposta, le impone il silenzio rammentandole la brutta fine cui egli ha condannato Perozzi e le aizza contro una ringhiosa muta di dobermann inferociti che la obbligano a ripercorrere a ritroso tutti i corridoi. Prima di essere azzannata, Rebecca urla svegliandosi in un bagno di sudore. Janus cerca di tranquillizzarla fra le sue braccia mentre lei gli racconta il sogno. Il disagio di Janus aumenta.

La mattina successiva, mentre Rebecca è sotto la doccia, una cameriera mulatta si è fatta aprire la porta per servire la colazione in camera. Janus è pietrificato. Janine lo ha smascherato e lo obbliga su una sedia puntandogli una pistola. «E’

un po’ che sospetto di te. Ho studiato i tuoi movimenti e ora mi è tutto chiaro. Se non vuoi che spifferi la verità e farti ammazzare dall’Organizacija, mollami un miliardo. E’ una proposta più che ragionevole. Non azzardarti a fiatare o attiro l’attenzione della tua bella facendoti trovare con una pallottola in fronte prima di finire anche lei. Tra l'altro, accetta un consiglio, lasciala stare. Non potrà mai funzionare tra voi due, siete troppo diversi. Sbarazzati della ragazza e andiamo ad incassare. Ti concedo un’ora, sarò qui sotto all’hotel. Se fai il furbo, con una telefonata siete morti entrambi, sai che i capi non scherzano.»

Janine si dilegua. Janus, pur di proteggere Rebecca, è costretto a scioglierle del sonnifero nella colazione.

59

Rebecca si sveglia al suono del telefono dell'albergo e sotto i colpi insistenti di qualche inserviente che bussa alla porta. Solleva intontita la cornetta.

Una voce metallica le rammenta furibonda che la camera era pagata per due notti soltanto.

«Cosa? Quali due notti…la camera era per una notte...»

«Ieri mattina il suo amico ha pagato anche una seconda notte prima di andare via. Fortunatamente la prenotazione per questa sera è stata da poco disdettata ma sappia che le addebiteremo anche la terza notte.»

«La terza notte? Mi sono svegliata da poco, mi devo essere riappisolata…ma che ora è?»

«Quasi le venti, sicura di sentirsi bene?»

«Io…io…non so che dire…non lo so…»

«Signorina?»

Click. Rebecca posa il ricevitore, scaccia l’inserviente che batte alla porta e accende le luci, brancola nella stanza e nel bagno ma Janus non c'è.

Sullo scrittoio trova una lettera infilata in un kebaya indonesiano ripiegato con cura. Una lunga pagina scritta a mano.

Mi ha sedata di nuovo, cazzo! Ho dormito per trentasei ore. Ormai è sparito e, con tutti i aporti che ha, è impossibile riprenderlo. E cosa sarebbe questo papiro, una lettera di scuse? Pezzo di bastardo!

Cara Rebecca, sono giunto alla conclusione che avrei voluto trascorre il resto della mia vita con te. Prima di chiedertelo, aspettavo di sistemare definitivamente i conti a Lugano, per poi aiutarti nella faccenda dell’omicidio. Speravo così di farti capitolare, di legarti a me, però ho compreso la paura e l’amarezza che stai provando in seguito alla morte del tuo capo in banca, non ce la faccio a starti vicino. L’ho ucciso io, ho dovuto. Dopo che mi hai descritto l’incubo che ci ha svegliati questa notte, c’è mancato poco che mi mettessi a piangere.

Purtroppo il tuo capo, quel Perozzi, ha iniziato le ricerche dalla parte sbagliata, dal conto in Svizzera che lo avrebbe fatto risalire a noi. Tu invece sei andata nella direzione giusta trovandoci i pisani.

Ho ucciso il tuo capo e non ho salvato il tuo amico. In questa notte ho capito quanto ci tenevi all’uno e all’altro e non riesco più a guardarti negli occhi, ho paura che tu mi veda come un mostro.

Il corpo di Perozzi è stato esposto perché doveva servire da monito a tutti quelli che stavano ficcando il naso nei nostri traffici. Quando ho capito che stava andando a Zugo e che tu hai cercato informazioni sul quel paese col BlackBerry, ho realizzato che voi due eravate collegati in questa indagine ma non riuscivo a capire che razza di organizzazione ci fosse dietro a voi. I messaggi che vi scambiavate erano illeggibili e allo stesso tempo mi sembrava impossibile che due persone qualunque come voi si muovessero così bene senza una regia superiore. Credetti quindi di essermi sbagliato nel sottovalutarti dopo l’assassinio della signora De Dietrich quando uscirono sul giornale gli articoli che ti accusavano, all’epoca ti ritenni realmente capitata per caso nella villa. Però in seguito hai iniziato a muoverti con disinvoltura, a fare delle ricerche, inoltre quel dannato vostro sistema di messaggistica mi ha ingannato ulteriormente facendomi credere che ci fosse qualcun altro dalle parti del Sudafrica. Per colpa di un idiota assistente di studio con la lingua troppo lunga, il tuo capo è riuscito a inciampare nel conto di Lorraine a Zugo, dove noi le versavamo gli acconti. Capisci ora? Ho dovuto bloccarlo, credendo sempre che dietro voi due ci fosse chissà quale apparato. Nel mentre ho dovuto anche isolarti da lui e dai presunti vostri capi: la ragazza che ti ha messo fuori uso il Blackberry non l’ha fatto casualmente, era pagata da noi.

Ho preso il più grosso abbaglio di tutta la mia carriera ma ormai niente e nessuno potrà porvi rimedio. Evidentemente tu e il tuo capo non eravate due persone qualunque ma persone speciali, l’ho capito troppo tardi. Anche il tuo amico, quel Mauro, era in gamba: mi ha insegnato un bel trucco per fabbricare delle bombe improvvisate.

Perdonami, se puoi.

PS: Per quanto possa valere, cerco di dare comunque un aiuto alle tue indagini.

Dopo aver pedinato il signor De Dietrich, te e il conte, ho la netta sensazione che il mandante dell’omicidio sia proprio il conte. Non chiedermi prove concrete, me

lo sento e credo di non sbagliare. Siccome però si sarà sicuramente guardato bene dallo sporcarsi le mani, riparti piuttosto da Faccia di cane, dovrebbe essere ancora detenuto presso il carcere “Don Bosco” di Pisa. Fallo mettere sotto torchio, deve per forza sapere qualcosa. Concentrati su di lui.

Ti chiederai come sia finito in prigione. Semplicemente perché mi sono attenuto a una regola basilare: quando trovi potenziali scocciatori sul tuo cammino, eliminali possibilmente con le loro armi cercando di non sporcarti.

Come ti avevo raccontato, prima che i ricercatori mandassero il carro attrezzi a prelevare la Felicia del tuo amico a Pisa, Faccia di cane ci ha rovistato dentro. Non ha trovato niente e si è impadronito del kalashnikov, avrà pensato che gli potesse tornare utile, chissà. Fu la sua condanna visto che poi ho avvisato la polizia segnalando la sua targa e la circostanza, dando per scontato che si trattasse di un’arma illegale. So per certo che è stato intercettato e incarcerato a Pisa. Per cui tu, tramite il tuo avvocato e sperando che non lo abbiano già liberato, richiedi che venga interrogato, che pretendano un’alibi per l’ora dell’assassinio, un esame del DNA... Inventati qualcosa, sei in gamba.

Ora vai, torna a casa e colpisci forte. Ti ho lasciato dei soldi per il viaggio.

PPS: risparmiati la corsa a Lugano. Quando leggerai questa lettera il conto sarà già stato svuotato.

Ti ho amata, tuo Janus.

Rebecca fruga nella borsetta sullo scrittoio, trova dei soldi ma mancano i documenti d’identità, compresi quelli falsi. Quindi c’è di mezzo una donna, per

accedere al conto intestato a me gli deve per forza servire una fottuta donna. Tutte queste manfrine sul fatto che mi amavi sono tutte stronzate. Bastardo di un Janus, il Giano bifronte! Non poteva essere tutto oro, ecco qui il retro opaco della medaglia, il lato più vero, il primo che mi ha mostrato.

Durante il viaggio di ritorno, Rebecca si arrovella sulla fondatezza delle intuizioni di Janus in merito al conte e al suo assitente. Ripensa a Faccia di cane, al primo incontro nella villa del conte, l’espressione ingrugnita, il ventre gonfio e le gambe storte, la mosca che entra nel cubicolo buio e lui che la scaccia infastidito, la brutta cicatrice sul palmo della mano fattale notare da Mauro. La conseguenza di un incidente con un vetro? O piuttosto con una lama affilata? Janus ha detto che il conte voleva scavalcare me e Mauro. Sicuramente prima di noi due voleva scavalcare Lorraine. Io lo avevo anche ipotizzato. Chiude gli occhi e rivede il coltellaccio da cucina con la lama sporca di sangue, a terra fra Lorraine e l’acquario vuoto con gli angioletti della Thun. Ma certo! Alle minacce di Faccia di cane, lei, determinata com’era, ha reagito colpendolo con la prima arma che aveva sottomano, lui si è difeso malamente dalla coltellata e poi ha sparato.

60

Rebecca si reca da Petraz riversandogli le sue conclusioni. Contattano il P.M. che li riceve. Questi, seppur titubante, accetta di disporre un test del DNA su Faccia di cane dal momento che le indagini sono ancora in alto mare.

Come auspicato da Janus, Faccia di cane è ancora detenuto presso il carcere Don Bosco di Pisa. La nota trasmessa al P.M. recita: Il soggetto, tale Osvaldo Paniz, è in stato di arresto in quanto sorpreso durante un controllo sull'autostrada PisaBologna nel trasporto di un fucile mitragliatore mod. AK-47 con matricola abrasa e due caricatori, oltre ad una latta di munizioni, il tutto di provenienza ignota. Ultima dimora nota: via delle bressane n.22 - Udine.

Un tale Ludovico De’ Canestrelli, sedicente conte e anch’esso residente in via delle bressane n.22 - Udine, ha tentato di pagare l’ammenda per la scarcerazione ma al soggetto detenuto, il Paniz, è stato invero convalidato l’arresto causa precedenti penali per introduzione clandestina di minorenni sudamericane e sfruttamento della prostituzione.

Il risultato degli esami associa il DNA di Faccia di cane a quello di alcune cellule epiteliali della scena del crimine e soprattutto il sangue trovato sulla lama del coltello da cucina rinvenuto vicino al cadavere è compatibile con il suo. Anche la cicatrice sulla mano è compatibile con la lama.

Faccia di cane viene interrogato e, di fronte all’evidenza delle prove, crolla, consigliato in questo anche dal suo avvocato, orientato ormai verso una mera richiesta di uno sconto di pena.

Il bulldog cerca di discolparsi illustrando la dinamica dell’omicidio. «Il conte voleva estorcere a Lorraine un nome. Non so a chi si riferisse quel nome, so solo che dovevo spaventarla e farla rispondere alla domanda “chi è l’acquirente?” Lei era terrorizzata ma anziché rispondere, reagì in maniera improvvisa e violenta brandendo un coltello e scagliandosi contro di me. Cercai di bloccarla ma era dannatamente veloce e arrabbiata, una iena. Mi stava per colpire al collo così, per ripararmi, mi sono procurato una grossa ferita alla mano. Mi usciva tanto sangue. Guardate, la cicatrice si vede ancora, anche perché, per evitare rogne con l’ospedale, me l’ha cucita quello stramaledetto conte. Ero spaventato anch’io, forse più di lei, ho sparato un colpo mancandola ma era impossibile fermarla, mi avrebbe ucciso con quel coltello, ne sono sicuro, ho dovuto farlo, ho dovuto sparare di nuovo e colpirla. Poi sono scappato. Il piano sarebbe stato perfetto, solo che lei doveva essere più docile. Avevamo studiato per diverso tempo gli spostamenti della signora. Sapevamo che quel giorno sarebbe arrivata a quell’ora e almeno per mezz’ora sarebbe rimasta da sola a casa. La ragazza carina, quella che avete incriminato, ahimè non c’entra niente. E’ capitata al momento sbagliato nel posto sbagliato. Mio Dio, è stato terribile, non avevo mai ucciso nessuno fino a quel momento. Quella pazza non doveva dimenarsi a quel modo, doveva solo calmarsi, dirmi un nome e tutto sarebbe filato liscio senza morti né strascichi. Invece lei non ha voluto dirmelo, ha reagito come un’isterica. La ragazza è stata provvidenziale. C’era il conte De’ Canestrelli a fare da palo poco fuori dal parco. E’ lui che le ha scattato la foto, ha colto l’attimo con freddezza. A me non sarebbe mai venuto in mente. Invece lui ha avuto questa idea per depistare gli inquirenti dando le notizie alla stampa, a quel giornalista che poi è morto, e la foto agli inquirenti. A me aveva dato l’incarico, io ero il tuttofare, di identificarla e, in paese, non è stato difficile al bar farsi dire chi fosse quella bella ragazza che va a correre sulle colline. Sempre io ho contattato il giornalista. Ma non l’ho ucciso, lo giuro. Dovevo solo pagarlo, spaventarlo e minacciarlo affinchè non parlasse. Ora che ci penso, quella sera che morì arrivò già malmesso, aveva fatto a botte con qualcuno e puzzava di alcol. Andai io in quella notte maledetta. Mi fece il segnale convenuto. Scesi dall’auto per pochi secondi a spaventarlo e poi sgommai via gettandogli dal finestrino il sacchetto col denaro che mi aveva dato il conte.»

«Non fu trovato denaro quella notte,» lo interrompe il P.M.

«Io non lo so, io so solo che quel fottuto sacchetto l’ho gettato sull’asfalto.»

«Indagheremo anche su questo.»

«Non potete incolparmi anche della morte del giornalista! Era stata attribuita a problemi cardiaci causati da un cocktail di alcol e calmanti.»

«Approfondiremo. Intanto ora dovrà scontare la pena per almeno un omicidio e al confronto, la pena per il porto abusivo d’arma con matricola abrasa, è niente. Inoltre lei ha dei precedenti. Si prepari ad un lungo esilio dalla vita sociale.»

Rebecca viene definitivamente scagionata. Le indagini vengono indirizzate sul conte, ritenuto il mandante dell’assassinio. Dalle prime ricerche però risulta irreperibile, probabilmente già volatilizzato in Brasile.

La guardia di finanza, messa precedentemente da Janus sulle tracce del conto svizzero di Lorraine ora ereditato da suo marito, coinvolge nelle indagini l’Interpol. Gli inquirenti ricostruiscono i movimenti bancari scoprendo che nei mesi precedenti erano confluiti su quel conto diversi milioni di dubbia provenienza. La società che bonificava a Lorraine ha fatto perdere le proprie tracce, ma prima di sparire era anch’essa sotto l’occhio dell’Interpol in quanto ritenuta un possibile paravento finanziario dell’Organizacija, la mafia russa. De Dietrich viene accusato di riciclaggio internazionale di denaro frutto di operazioni illecite tramite i conti della moglie, ritenuta una mera prestanome. Tutte le sostanze di De Dietrich, beni, conti correnti e società, vengono sottoposti a sequestro preventivo convalidato dal giudice per le indagini preliminari. De Dietrich è con le spalle al muro.

61

Rebecca, nella sua camera, si rigira tra le mani la memory-stick trovata nel lume solare insieme ai progetti nascosti da Lorraine nelle serre di Giordano. La infila nel laptop, per l’ennesima volta compare la richiesta della . Nelle ultime settimane ha già provato diverse volte a decriptare la memory-stick con diverse possibili inventate lì per lì, diavolo, arcangelo, michele, 29settembre (giorno in cui ricorre S.Michele)… sempre senza successo. Prova a scomporre e ricombinare quelle parole ma sempre senza risultato. Non ce la farò mai, potevo almeno provare a chiedere a quel farabutto di Janus, sicuramente sarebbe stato in grado di sbloccarla…riprova con altre parole: solare, termodinamico, madonna, Montecastello…niente da fare.

Calma Rebecca, ragiona, lei l’ha data a papà, papà non è una cima con queste cose, forse sarebbe riata qualche giorno dopo a spiegargli tutto ma la mica potevano scriverla, doveva essere una cosa semplice da memorizzare, una a misura di mio padre.

Rebecca prova con lorraine. Il conseguente messaggio sul display si ripete odiosamente: La inserita non è corretta!

«Cazzo! Troppo semplice? O troppo poco semplice?»

Digita giordano. Come per incanto, lo schermo diventa un grande rettangolo bianco con al centro un unico file, confiteor.rtf.

Bingo! Rebecca ci clicca sopra, si tratta di un file di testo. Scorre velocemente

tra le righe alla ricerca del senso generale di quel messaggio. E’ una lettera indirizzata a Giordano. Lo chiama e la leggono insieme.

Lorraine confessa a Giordano le evidenze secondo cui, negli ultimi tempi, suo marito aveva tentato di avvelenarla per farla fuori.

Ci ha già provato una volta, sono stata malissimo, dolori lancinanti allo stomaco, vomito, sudori freddi, tachicardia … non sono morta solo perché la concentrazione non è risultata letale.

Giordano commenta «che vigliacco!»

Convocai il medico di famiglia che diede superficialmente la colpa ad un qualche virus o ad un’intossicazione alimentare. Pensai e ripensai all’ipotesi del virus ma non poteva essere: nessuna delle persone che avevo frequentato in quel periodo aveva avuto quelle conseguenze. Inoltre nelle rare occasioni in cui avevo mangiato fuori casa ero sempre stata in compagnia di altre persone che avevano mangiato più o meno gli stessi cibi scelti da me, stavano tutti bene.

In quello stesso periodo avevo avuto anche delle brutte discussioni con mio marito, mi sono insospettita e per spiare cosa combinasse dentro casa, ho messo delle telecamere in cucina e nella dispensa. Di notte poi, uscivo dal letto e andavo a rivedermi i filmati della giornata finchè l’ho visto armeggiare con una bottiglia del latte tolta dal frigo per essere svuotata e riempita con altro latte. Avrebbe dovuto finire nella mia colazione del giorno successivo. Il mattino dopo finsi di sentirmi appesantita optando per del the. Non avevo idea di cosa nascondesse quel latte ma di certo non era salutare. Di nascosto da mio marito ne prelevai una parte che il giorno dopo portai in un laboratorio privato in Svizzera, visto che dovevo andarci comunque per una questione con una fiduciaria. Al laboratorio lasciai il liquido e la clip del filmato nel caso fosse stata d’aiuto ai

tecnici per indirizzare gli esami. Dopo pochi giorni ricevetti l’esito: in quel latte erano state fatte macerare foglie di oleandro in quantità tale da stendere un bisonte. Il mio caro marito non voleva correre nuovamente il rischio che il trucchetto mi fe solo stare male, voleva eliminarmi a tutti i costi.

Siccome in queste settimane sto portando avanti un affare molto importante e delicato, ai limiti della legalità, non posso permettermi di sollevare polveroni convocando la polizia per la faccenda del latte avvelenato, però temo che lui lo rifaccia e sto attentissima a ciò che mangio o bevo. Ho paura.

Se dovesse succedermi qualcosa di brutto, recati a Zugo, in Svizzera, alla THC CLINIC, c’è già una delega a tuo nome per ritirare i referti degli esami sul latte e la clip in cui si vede mio marito che travasa l’intruglio velenoso nella bottiglia del latte. Porta quella roba alla polizia, io non avrò concluso il mio affare ma almeno loro potranno inchiodarlo e sbatterlo in galera.

Rimanendo sempre nell’ipotesi peggiore per me, mentre sarai a Zugo, dovrai andare a presentarti anche alla fiduciaria INTERFIDIA con un certificato che attesti il mio decesso, ti trasferiranno la proprietà di alcune carte molto preziose. Con il certificato di decesso andrai anche alla filiale della HBSC dove chiederai della cassetta di sicurezza intestata a mio nome. Là dentro troverai tutte le spiegazioni per come far fruttare le carte che ti consegnerà la fiduciaria.

Se nel frattempo dovesse contattarti un certo conte Ludovico De’ Canestrelli, cerca di starne alla larga. E’ un tipo ambiguo e poco raccomandabile, ho da poco scoperto che è dedito allo sfruttamento della prostituzione minorile in Brasile. Ultimamente ho il sospetto che anche lui stia tramando alle mie spalle.

A Giordano, leggendo la lettera, si inumidiscono gli occhi. Rebecca lo stringe a sé. Decidono di partire per la Svizzera. Il mattino successivo, a Udine, salgono

sul “Frecciabianca” per Milano, poi cambio su un treno dal locomotore rosso delle SBB, le ferrovie svizzere. Chiasso, Lugano, Bellinzona e poi su in mezzo alle montagne fino alla conca di Zugo. La piccola cittadina li accoglie con una fitta bruma autunnale sospesa tutt’intorno ad un placido lago ravvivato dagli sgargianti piumaggi delle anatre mandarine.

Seguono alla lettera le indicazioni di Lorraine, ad eccezione dell’ormai inutile tappa alla fiduciaria e conseguente perlustrazione della cassetta di sicurezza alla HBSC. Rientrano in Italia e, tramite Petraz, fanno pervenire tutto il materiale al P.M.

De Dietrich tenta di giustificare la sua condotta accusando la moglie defunta di reiterati tentativi di distrazione del suo patrimonio. Al culmine del soliloquio autoassolutorio, confessa di aver scelto quel singolare metodo di avvelenamento dopo aver visto il film “White Oleander.” L’infuso di oleandro bianco gli era parsa un’idea geniale, di facile reperibilità, di facile somministrazione e soprattutto non sarebbe stato necessario condividere il segreto con qualche complice che poi a sua volta lo avrebbe potuto ricattare.

Viene tradotto in carcere in attesa di condanna per tentato uxoricidio premeditato. Le attività finanziarie erano già bloccate, ora si aggiunge la libertà personale azzerata, August De Dietrich è giunto al capolinea.

62

Luca, cui Rebecca aveva affidato il BlackBerry defunto con preghiera di rianimarlo in qualche modo, è stato consigliato da un amico di un amico a rivolgersi ad un genio dell’informatica, un tale in grado di far riaccendere persino una lampadina bruciata.

«Ecco qui, Rebecca, missione compiuta. Grazie ad un certo Mazzoni, seppure con notevole difficoltà, sono riuscito a recuperare la memoria del tuo smarthpone.»

«Hai detto Mazzoni? Ma dove lo hai recuperato? Non sapevo fosse diventato un resuscita-BlackBerry.»

«Quel genio ha la sua base operativa dalle parti di Mestre, in Veneto, credo si sia sposato con una di là.»

Ecco perché nessuno lo vede più in giro, considera tra sé Rebecca. Dopo aver applicato la chiave PGP per decriptare l’ultima e-mail ricevuta da Perozzi, si appresta con trepidazione a leggerne il contenuto.

Cara Rebecca, perdonami ma non sono riuscito a tenere fede al proposito di non imbottirmi di medicine e alcol. I nervi mi stanno cedendo, la paura di essere ammazzato mi ha provocato un perenne stato d’ansia che si è impadronito di me, vedo fantasmi e killer in ogni anfratto.

Ecco…ho sentito un rumore, sono qui, me lo sento, mi stanno spiando…scusami ma non so più se sto scrivendo, se sto pensando a voce alta o se sto sognando.

Rebecca è quasi sollevata dal non essere riuscita a leggere il messaggio mentre era in Montenegro. I deliri di Perozzi avrebbero potuto minare anche il sottile equilibrio che lei stava cercando con tutte le forze di mantenere. Prosegue nella lettura.

Ma alla fin fine è giustificata tutta questa paura della morte? Forse no. iamo l’intera vita nella paura di dover lasciare questo mondo e nella fremente attesa di scoprire cosa ci sarà dopo. E cosa ci sarà dopo? Esattamente quello che c’era prima della vita di ognuno di noi: niente!

Si era messo a fare discorsi seri. Stava proprio male, osserva Rebecca.

I glicini a primavera. Ti ho mai parlato dei glicini a primavera?

Ora salta di palo in frasca, era decisamente partito, povero Mario.

I glicini a primavera mi hanno sempre suscitato emozioni contrastanti. Appena fioriscono vedi quei bei grappoli di petali con sfumature dal violetto al bianco, curati e riveriti sulle pergole, oppure su liane spontanee e selvagge arrampicate sulle case abbandonate o sui pali della luce. La loro vista ti instilla la voglia di vivere. Inspiri il profumo che emanano e ne rimani inebriato, quasi euforico, pieno di voglia di fare, di rinnovare. Avverti che stiamo andando verso la bella stagione ed immediatamente vi associ l’idea del mare, del relax, del divertimento, della musica all’aperto, degli aperitivi a bordo piscina.

Siccome però i glicini li vedo ormai da un po’ di anni e so che hanno una vita brevissima, la mia mente corre veloce per mostrarmi l’aspetto che assumeranno di lì a un paio di settimane. Flaccidi, spelacchiati, e se sono su una pergola che copre una superificie rivestita a porfido o gres, l’immaginazione non esita a dipingermi in anteprima anche le macchie che inevitabilmente lasceranno poi i petali caduti, dopo essere stati colpiti da un acquazzone e calpestati da suole distratte. Un vero disastro estetico. Insomma, questi glicini mi fanno gioia e contemporaneamente tristezza, mestizia, mi ricordano la vita com’è. Breve, brevissima, non fai in tempo a goderti gli anni migliori che già sei in rapido declino.

Il paradigma più azzeccato per farti capire cosa provo è la vita brevissima di un mio compagno delle scuole elementari, si chiamava Marco. Aveva un anno meno di me, era biondo, quasi albino, con i capelli lisci a caschetto, gli occhi azzurri e un sorriso che stendeva tutte le maestre. La pelle era chiara, diafana, a metà tra il latte e l’avorio, di corporatura troppo minuta per la sua età. Soffriva di qualche malanno al cuore, si sapeva che aveva subito degli interventi chirurgici e che non aveva grosse prospettive di vita. Ma a quell’età quelle parole non avevano molto valore, né per noi come suoi compagni, né per lui, forse. Era un glicine. In quarta elementare, a nove anni, il cuore lo tradì definitivamente. La piccola bara bianca che ho visto attraverso le lacrime, mentre papà mi stringeva per mano, è il petalo ormai caduto, per fortuna non sul porfido, ma nella terra feconda e accogliente di fine maggio.

Perdonami questo tono da fine del mondo ma non vedo l’ora di riabbracciarti, ho estremo bisogno di essere rasserenato da un volto amico. Fortunatamente potremo rivederci fra pochi giorni.

Se però dovesse accadermi qualcosa nel frattempo, vai da Lanzafame. Ha dei documenti per te. Non ho eredi.

E Rebecca, un’ultima cosa, credo di essermi un po’ innamorato di te. Ciao angelo.

Rebecca, anche se ormai avvezza a ricevere messaggi postumi, si commuove.

Nel testamento consegnatole da Lanzafame, Perozzi le lascia tutto: conti, titoli, investimenti e la palazzina di Cividale.

Le disposizioni terminano con un post scriptum: guai a te se alzi l’affitto ai ragazzi del secondo piano. Se invece non dovessero più andare d’accordo e decidessero di non sposarsi, sei autorizzata a recedere dal contratto e cacciarli via a pedate.

EPILOGO

Cinque anni dopo.

Rebecca vive ormai da tempo a Cividale nell’appartamento lasciatole da Perozzi in Borgo Brossana, da sola. Nella stagione calda è istruttrice di canoa. D’inverno fa la personal trainer. Il sabato sera si esibisce occasionalmente come D.J. a livello amatoriale animando locali di periferia o feste private. Non ha ancora trovato l'amore.

Ogni tanto, affacciandosi al balcone sul fiume Natisone, volge lo sguardo verso il muretto dove si è baciata con Mauro per la prima volta. Se la malinconia l’assale, la fronteggia con la vitalità iniettatale da Perozzi agli inizi della loro relazione. Alcune volte però, questo non basta a risollevarle il morale, così ricorre al paragonare la propria vita con quella brevissima dei glicini fioriti a primavera, in questo modo si riscopre molto fortunata ad avere potenzialmente qualche giorno in più rispetto a loro riuscendo così a trattenere il sorriso sulle labbra e ad assaporare più a fondo ogni prezioso istante della propria esistenza.

Nel tardo pomeriggio di un venerdì sera, si reca a trovare i genitori che la attendono come gradita ospite per cena.

Giunta nel parcheggio, osserva le serre e l’attività di suo padre che si è notevolmente ampliata. Ogni volta che ritorno qui devo ammettere che papà aveva ragione, il biologico si è rivelato davvero una grande opportunità.

Scende dalla Porsche Boxter avviandosi verso il retro delle serre dove è sicura di

trovare Giordano intento ad allargare i tizzoni delle cassette appena bruciate.

Durante il breve tragitto, incrocia De Dietrich che sta trainando un transpallet carico di cassette di ribes. Un’aura di triste malinconia e povertà economica lo precede, è visibilmente sciupato dentro ad una maglietta lisa con disegnato un pupazzo rosso, noto in Italia come il Gabibbo, che da un fumetto esclama “Uè, besugo!”.

Probabilmente la maglietta l’ha sottratta da qualche bidone della Caritas, ipotizza Rebecca notando al contempo anche una tacca scolorita distante diversi centimetri dalla fibbia sulla cintura in finta pelle che gli cinge la vita, si capiva che aveva perso per strada almeno tre taglie. Questo disgraziato ha letteralmente tirato la cinghia.

De Dietrich, sfinito dal lavoro della giornata, si illumina quando scorge Rebecca incedere nella sua raggiante bellezza. Rallenta, si ferma, la saluta coprendola di complimenti, «…e hai anche delle scarpe bellissime.»

Anche se effettivamente Rebecca calza un paio di Guess appena inaugurate, potendo finalmente permettersi una firma originale, allunga il o alquanto seccata da quella presenza di cui tuttavia era stata avvisata qualche giorno prima dai genitori.

A De Deitrich, infatti, è stata da poco concessa la detenzione domiciliare per buona condotta e attenuanti varie. Giordano è l’unico che gli abbia concesso un’opportunità di reinserimento.

Sul retro delle serre, Rebecca e Giordano si abbracciano calorosamente per poi

sedersi su un paio di cassette rovesciate a gustarsi l’imminente crepuscolo che quella serata tardo-autunnale sta per regalare loro.

Dopo alcuni minuti di silenziosa contemplazione in direzione dei campi e delle sinuose colline, Giordano le chiede aggiornamenti dall’ultima volta che si sono visti circa tre settimane prima.

Lei, ispirata dal panorama davanti a sé, risponde bucolica «da quando ho messo a riposo la canoa per la stagione fredda, vado a correre sulle colline la mattina presto. Considerato che spesso e volentieri mi attraversano la strada dei bellissimi caprioli, direi che posso sopportare anche l’autunno e la mancanza del fiume.»

Poi, accigliandosi, prosegue inquisitoria, «papà, perché cacchio hai preso a lavorare quel farabutto di De Dietrich? Siamo alle solite? Devi sempre giocare a fare il buon samaritano, il remissivo, anche ora che puoi guardarlo dall’alto in basso? Per caso anche questo fa parte delle prescrizioni per espiare la famosa scappatella?»

Giordano, seguitando a bearsi dell’infinita distesa davanti a sé, sorseggia un bicchiere di Tocai comparso da chissà quale anfratto, prima di controbattere serafico alle provocazioni di sua figlia. «Vedi Rebecca, io non sono remissivo, o come immagino tu velatamente abbia sempre voluto sostenere, un animo perdente. Io desidero sentirmi amato dalla gente con reale spontaneità, le persone devono amarmi, o semplicemente prendermi in considerazione, solamente se lo vogliono. Non sono come quegli individui che, al contrario, hanno bisogno di sentirsi sempre considerati, costantemente importanti, che non mancano mai di imporre la loro persona, la loro posizione, il loro punto di vista, la loro bravura e capacità in ogni situazione, criticando e sminuendo chi non fa come loro. Quelle sono persone che hanno un forte bisogno di parlare, di affermarsi, convinte che questo basti per poter dire “Io esisto”. Quella gente non sa ascoltare. Non ti ascoltano, non gli interessa quello che hai da dire perché a

loro interessa dire quello che pensano loro, loro che sanno sempre tutto, che hanno sempre una soluzione a tutto. Io, più umilmente, so ascoltare, so rimanere ad ascoltare.»

Giordano si interrompe alcuni istanti in cerca della pipa nel taschino del grembiule da lavoro. Rebecca, consapevole di aver innescato l’ennesimo monologo vinosofico del padre, si mantiene in inerte ascolto direzionando lo sguardo in un punto vago davanti a sé.

Giordano, pigiando il tabacco nel fornello della pipa, riprende. «L’unica cosa che ho imparato dalle arti marziali l’ho imparata dal judo, saper sfruttare l’irruenza e la forza dell’avversario a proprio vantaggio. Prendi l’esempio di De Dietrich, cade a pennello visto che lo hai evocato. Quando mi attaccava l’ho lasciato fare, l’ho assecondato, era tutto preso dalle sue brame di potere, di ricchezza, di dominio. Ora è una settimana che lavora per me, e nessuno lo voleva. Sono l’unico che gli ha dato una possibilità, ho saputo ascoltarlo tramite un prete che si occupa di questi casi. Guardalo là che mette a dimora le piantine, è già molto più sereno rispetto a una settimana fa.» Giordano, sorridendo, aggiunge «è solo un po’ sordo, dopo il botto che gli avete tirato tu e il povero Mauro nella notte delle bombe radiocomandate.» Anche Rebecca sorride misuratamente ripensando a quella notte ardimentosa.

«Mi sarà riconoscente a vita. Questo per me è il massimo, aver migliorato la vita a qualcuno. Rebecca, noi ci troviamo qui a vivere questa vita. Tu credi che io sia obnubilato dall’aldilà, che preghi in continuazione per arrivarci, che mi comporti bene per ottenere la vita eterna in Paradiso. In realtà non so, come tutti, se ci sia un aldilà, ammesso e non concesso che Cristo e la Madonna sono tornati dall'aldilà a dire che esite. Comunque sappi che se vivo la vita in maniera distesa, senza arrivismi esasperati e cercando di non creare rogne al prossimo, è principalmente per condurre senza stress questa breve esistenza. Secondo te dovrei arrabbiarmi per ogni cosa che va male, per ogni torto che ricevo, dannarmi per arraffare potere e ricchezza, ruffianarmi politici e benestanti, rifiutare De Dietrich ben sapendo che se non lo aiutassi io difficilmente lo

aiuterebbe qualcun altro? Alla mia età ho ancora le coronarie e il fegato a posto nonostante il vino, vivo a contatto con le piante, respiro aria buona. Lo sai che c’è gente iper stressata che solo dopo aver provato le conseguenze di un infarto o di qualche semi-collasso cardiaco cambia vita? Io ho mollato il noioso impiego alle Poste poco dopo aver sposato Luisa e ho cambiato vita senza necessità di operazioni a cuore aperto. Ho capito molto presto il senso della vita, o meglio, ho dato molto presto un senso alla mia vita e mi alzo felice tutte le mattine. Ho le mie soddisfazioni, una moglie adorabile, te, un tetto sopra la testa, del buon vino, tante belle signore che mi coprono di complimenti quando vengono a comprare i miei prodotti.»

Poi, traendo una poderosa boccata che spande nell’aria volute vanigliose di buon tabacco, aggiunge «ho anche il Kentuky Bird nella pipa. Sono a posto, non vado a farmi il sangue amaro per niente e per nessuno, c’è già Satana che semina zizzanie e casini vari.»

Rebecca si stizzisce, è l’ennesima volta che si sorbisce quella visione della vita venata di certezze fondate su un religioso fatalismo. i il cercare di non avvelenarsi il sangue a causa degli ostacoli disseminati nella quotidianità o a causa di arrivismi esasperati, i il non voler creare deliberatamente problemi al prossimo, i la quotidiana bottiglia vuota di Tocai rotolata lì a fianco, ma l’elogio all’attendismo del judoka assurto a soluzione determinante nelle vicende di cinque anni prima, unito a quest’ultimo riferimento al diavolo divisore, la portano a sbottare. «Papà, se non fosse stato per me e per le mie azioni, seppur avventate e discutibili, non penso che in questo momento saremmo qui a raccontarcela. Inoltre sono sempre più convinta che non sia necessario credere in una qualche forma sovrannaturale del male, tipo Satana come dici tu: gli uomini da soli sono già abbastanza capaci di qualsivoglia malvagità. L’ho letto anche in un libro di Joseph Conrad, Sotto gli occhi dell’occidente, roba che risale all’inizio del secolo scorso.»

Giordano rimane in silenzio, scruta il fondale dell’agreste scenario, il bagliore rosso del crepuscolo che sembra esplodere dietro la linea scura delle colline

riverberandosi nel cielo su alcune nuvole di aggio. Commenta con scanzonato scoramento, «questi sono i risultati dell’aver mandato i figli a scuola per troppi anni!»

Rebecca si alza di scatto esclamando «papà! Tu non cambierai mai!» Si volta e corre dentro casa ad annunciarsi a sua madre che impaziente li stava attendendo con la cena pronta.»

Tutto è tornato posto.

Fine.

Il Ponte del Diavolo

by Alberth Mayhem

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NOTA BIOGRAFICA

Alberth Mayhem è lo pseudonimo di Alberto Misano, 36 anni, originario di Oleis, ameno borgo adagiato ai piedi della assai nota Abbazia di Rosazzo (UD), cuore pulsante dei Colli Orientali del Friuli. Nella vita si occupa di comunicazione e nuovi media. Nel tempo libero legge molto e qualche volta scrive oppure eggia con Opi (un candido e possente pastore abruzzese) in cerca d’ispirazione. ll Ponte del Diavolo è il suo romanzo d’esordio, autopubblicato. Un noir ambientato tra Friuli Venezia Giulia, le Cinque Terre, Croazia e Montenegro.

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