EDARC Edizioni
Il conte, il principe, il topo
Maurilio Magistroni
Il conte, il principe, il topo
Romanzo
Collana Topazio
ISBN 978-88-97060-61-1
L’opera in oggetto è totalmente creazione di fantasia.
Qualsiasi riferimento ad avvenimenti reali o persone esistenti è da considerarsi puramente casuale.
Edizione digitale: gennaio 2016
Proprietà letteraria riservata
EDARC EDIZIONI
Bagno a Ripoli (FIRENZE)
[email protected] - www.edarc.it
Visitate il ns. sito
www.edarc.it
ISBN: 978-88-97060-61-1
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice
Il conte Il principe Il ritorno L’amico I preparativi Il casale La vigilia Padre Patrizio Il telegramma Augusto Savina La sala La principessa Gli invitati I principi La sorpresa La cena Il topo
Epilogo
“Ad Augusto, avrei voluto essere come lui”
L’autore
Il conte
La pallida luce del sole, velato dai cirrostrati, illuminava debolmente lo studiolo di Alberto Braccioforte conte di Gavorrano, nel palazzo di famiglia sito a metà di via Guelfa. Erano appena ate le nove di quel gelido mattino dell’ultimo giorno dell’anno e come al solito il conte era intento a consumare la colazione vicino alla finestra che dava sulla via; pane di miglio, miele d’acacia, uovo sodo e tè alla menta. Non aveva molto appetito poiché la notte era stata molto agitata, con frequenti pensieri all’indomani, ai preparativi, agli invitati, al tempo come sarebbe stato; i cirri avevano velato il cielo fin dal pomeriggio e la probabilità di pioggia, o peggio neve, si faceva concreta. Spiegò il giornale e dopo aver letto il fondo di Civinini si soffermò incuriosito sulla notizia che a Roma a Palazzo Farnese era stata battezzata la figlia dell’ex re di Napoli e Sua Santità Pio IX le aveva fatto da padrino. Stava riflettendo sul significato di tale gesto come fosse un’interrogazione personale, si stava chiedendo il perché; si compiaceva di coltivare tale pensiero che lo distoglieva dalla continua tensione e poteva così ritrovare un po’ di pace. Due lievi busse alla porta lo distolsero dalla nicchia di tranquillità in cui si era adagiato “Entra Osvaldo, che c’è?”. “Un telegramma signor conte, l’hanno recapitato poco fa, l’ho portato subito”. Il maggiordomo porse al conte il vassoio di cristallo manicato in argento su cui era posto il foglio giallo ripiegato dei Telegrafi dello Stato sigillato con ceralacca e chiese il permesso di congedarsi. “Vai, vai Osvaldo, oggi anche tu avrai molto da fare”.
Il titolo di conte di Gavorrano era stato conferito con encomio solenne al nonno
ingegnere Emilio Braccioforte, il primo giorno di gennaio dell’anno domini 1830, direttamente dal Granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, per i grandi meriti acquisiti durante la bonifica della maremma grossetana. Due anni dopo il neo conte acquistò l’attuale residenza con i proventi scaturiti da speculazioni finanziarie andate a buon fine, consigliate da amicizie altolocate e ate da una buona dose di avvedutezza, coraggio e fortuna. L’anno seguente il conte Emilio morì lasciando l’eredità all’unico figlio Eugenio, un personaggio privo di qualsiasi forma di ambizione, un uomo piatto in tutto, accidioso, sciatto e scontato in tutti i suoi aspetti, anche in quel minimo di vitalità necessaria a sussistere che a fatica usciva dalla sua condotta di vita. L’unico merito, se così si può dire, fu l’essersi maritato con Elena Maresca Crispo dei Signori di Samo, donna affascinante che in più gli portò una cospicua dote in fiorini e possedimenti immobili nell’alta val d’Orcia. Dal connubio nacquero il primogenito Emilio e nell’anno dell’elezione alla famiglia comitale il secondogenito Alberto. Costui continuò sulla falsa riga del padre fin verso l’unità della nazione, poi improvvisamente cambiò rotta, diventò attivo, intraprendente, coltivò amicizie fra la nobiltà e con esponenti della cultura, dell’arte, della musica. In pochi anni, il palazzo dei conti Braccioforte di Gavorrano divenne uno dei punti di riferimento della città, ritenuto da tutti degna dimora atta ad ospitare scadenze importanti e avvenimenti di richiamo; qualunque fatto vi si svolgesse usciva con l’imprimatur della positività, era un tempio dell’estetica, molti ambivano ad essere ospiti ma pochi erano gli eletti. Già alla fine di settembre, di ritorno dal soggiorno estivo di Radicofani, Alberto comunicò al fratello maggiore Emilio il desiderio di celebrare il quarantesimo anniversario del conferimento del titolo di conte al nonno. La risposta che ebbe da Emilio fu ovviamente positiva e con entusiasmo si dedicarono all’avvenimento futuro, con idee, progetti, pianificazioni, proiettate in tutte le direzioni percorribili, non lasciando nulla di intentato. “Dobbiamo essere prudenti nella stesura della lista degli invitati e tener conto delle esigenze della Corona, come pure delle aspettative di Napoli, visti gli entusiasmi spontanei manifestati da tutto il popolo in occasione della proclamazione della nostra città a capitale del Regno”. “Ne convengo Emilio, mi trovi senza alcun dubbio d’accordo. Ho già in mente
alcuni nomi eccellenti che sicuramente assolveranno bene allo scopo; evitiamo di inimicarci chicchessia, so che è un compito difficile, ma ci proveremo. La diplomazia è colma di difficoltà ma ha sempre dato prova di essere la sola che possa attenuare gli attriti, rendere meno aspre certe contese, addolcire, ammorbidire pretese velleitarie”. “Ciò che dici è vero, Alberto. Cercheremo di offrire sempre la possibilità a tutti di optare per una scelta che a loro convenga, eziandio tenendo presente che ormai la “questione romana” non si può più ignorare, purtroppo. Rimani certo che faremo di tutto per onorare al meglio il nonno, di cui con fierezza porto il nome. La nostra casata acquisterà maggior prestigio e di conseguenza ne beneficeranno anche le nostre attività”. I due fratelli andavano abbastanza d’accordo, non esistevano dispute di nessun tipo se non in qualche rara occasione in cui una delle mogli si intrometteva negli affari; cosa che non turbava comunque più di tanto il loro rapporto di lavoro; erano ben consapevoli di essere sulla stessa barca e di conseguenza, dopo aver deciso di comune accordo la rotta, remavano nella stessa direzione. La loro prevalente attività era costituita dal commercio di legname proveniente per la maggior parte dalle grandi estensioni di boschi di proprietà, portate in eredità dalla madre Elena, a cui si aggiungevano, quando se ne presentava l’occasione propizia, altre aree acquistate con i guadagni conseguiti; non avevano mai chiesto prestiti alle banche, operavano solo colle loro disponibilità; insomma, una politica intelligente e oculata di reinvestimento che portava buoni frutti e gettava solide basi per aumentare la competitività e la redditività delle loro aziende in prospettiva futura. Pini, abeti, olmi, betulle, querce, carpini, noci, frassini, aceri e altre specie meno nobili erano i legni più commerciati, a cui si aggiungevano alberi provenienti da una vasta faggeta che da Abbadia sale verso l’Amiata.
Ai primi di ottobre la lista definitiva fu approntata; erano in tutto tredici coppie rappresentanti la più blasonata nobiltà toscana così suddivisa: una famiglia di italiani in Grecia, sei casate baronali, una di conti, quattro marchionali e una ducale. Il testo del biglietto d’invito fu redatto senza pompa, con sobrietà pur nel rispetto
che l’occasione e l’etichetta richiedevano.
“Colendissimo… ci pregiamo avervi ospiti nella nostra dimora di via Guelfa venerdì 31 dicembre prossimo dalle ore cinque pomeridiane alla cena dell’ultimo giorno dell’anno. Ricorderemo insieme il quarantesimo anniversario del conferimento del titolo di conte al nonno Emilio. La vostra presenza si rende indispensabile per dar lustro all’evento. Con cordialità e amicizia. Emilio e Alberto Braccioforte Conti di Gavorrano”.
Fu stampato in corsivo amaranto su di un cartoncino crespato beige a quattro facciate, chiuso nel mezzo un cordoncino azzurro e argento, i colori della casata, terminante con un fiocchetto sempre bicolore; il tutto inserito in una busta giallo paglierino sigillata. In breve tempo tutti diedero risposta positiva all’invito, soddisfatti e compiaciuti per essere stati tra i fortunati scelti. Or come a tutti è noto, conseguito un risultato buono si tende sempre a perfezionare l’obiettivo raggiunto, osando un po’ di più del lecito, ma sempre con misura. Il conte Alberto, a cui era toccata la parte più gravosa della preparazione, non si sentiva del tutto soddisfatto, c’era qualcosa ancora da fare, si poteva ancora aggiungere un elemento per dare più importanza alla ricorrenza. Pensò così di chiedere la disponibilità di partecipare alla cena ad un personaggio al disopra di tutti e di tutto, con una forte personalità, un altissimo lignaggio, che obbligasse i partecipanti ad essergli riconoscenti per il resto della vita. Mise a fuoco le sue conoscenze scartando coloro che avrebbero avuto anche il pur minimo motivo per rifiutare; era terrorizzato dall’umiliazione che avrebbe potuto subire.
Esisteva nel napoletano un’azienda con cui Alberto aveva avuto nel recente ato, rapporti di lavoro in merito alla fornitura di legname per la costruzione di strade ferrate; si trattava della stessa che partecipò con una seconda, alla realizzazione della prima ferrovia in Italia, la Napoli-Portici. La proprietà di questa società faceva capo ad uno dei più alti nomi della nobiltà spagnola,risalente addirittura ai tempi della “reconquista”: Diego Antonio Olivares Principe di Salamarsina. Dopo aver valutato attentamente tutti i rischi possibili, si convinse che l’operazione era fattibile e tenendo tutto per sé, custodendola gelosamente al punto da nasconderlo anche al fratello Emilio, partì immediatamente per Napoli senza indugiare.
Il principe
Alberto in quell’occasione badò al sodo, non gli interessava un granché l’alloggio, il vitto o altro che lo distraesse dal suo intento: ritornarsene a casa con la promessa del principe a partecipare alla cena. Mancavano quindici minuti alle quattro pomeridiane quando la carrozza si fermò davanti all’ingresso della dimora del principe in via Toledo, vicino a piazza Carità. Un servitore di palazzo fece scendere il conte che si presentò “Alberto Braccioforte conte di Gavorrano” porgendogli il biglietto da visita stretto per un angolo fra l’indice e il medio tesi. “Il principe vi attende nella sala verde, abbiate la compiacenza di seguirmi”. Salirono l’ampio scalone di granito, girarono a sinistra intorno ad una statua in bronzo raffigurante Cerere; subito dopo l’accompagnatore aprì la grande porta a doppie ante che si trovava sulla loro destra. “Vostra eccellenza, Alberto Braccioforte conte di Gavorrano”. La sala era a pianta quadrata, due ampie finestre ad arco davano al locale molta luce aprendosi sul cortile interno; un telaio in verde pastello le divideva in quadrati regolari disposti su cinque file. La pavimentazione era costituita da mattonelle in maiolica a rombi beige con ampi bordi verde smeraldo. Le pareti, partendo dal basso, di un verde scuro tendente al marrone che andava sfumando all’azzurro tenue salendo verso l’alto, per finire vicino al soffitto, contro una serie di piastrelline verde smeraldo uguale al pavimento, che poste orizzontalmente una accanto all’altra, formavano una linea ininterrotta che avvolgeva il perimetro della sala. Alle pareti, diverse mensole di cristallo, sorreggevano vasi contenenti piante con ramificazioni e foglie penduli. Per terra, in bigonce a colori verticali crema e verde pastello, felci, gelsomini, mandarini, palmette e altre specie. Nel mezzo un tavolo da giardino in vimini color verde salvia, con quattro poltrone identiche, completava l’insieme.
Accomodato su una di quelle, dando di spalle alla porta, stava il principe Olivares, intento ad osservare il confondersi del verde di una foglia di felce col fondo sfumato della parete. Alberto non era intimorito, avvertiva una tranquilla curiosità, non si era immaginato che aspetto avesse l’illustre personaggio che intanto si era alzato e gli andava incontro con incedere calmo, stendendo per primo la mano e mostrando un ampio sorriso rasserenante. I due si assomigliavano, quasi della stessa statura, superiore comunque alla media, forse il principe mostrava meno dei suoi quarantaquattro anni; solo una leggera brizzolatura sulle tempie, anticipo di una futura canizie, lo diversificava da Alberto. Indossava un elegante completo di flanellina leggera grigio chiaro, con panciotto uguale a doppia allacciatura, il cui scollo scendeva al disotto dello sterno arrotondandosi; il revers in satin di seta blu come pure la doppia fila di bottoni. Al collo di una camicia in voile di seta écru, era annodata a farfalla una cravatta di seta blu con piccoli pois grigio perla. Calzava scarpe di fattura inglese in cuoio blu, con trapuntatura a bifora e chiusura a lacci. “Siete il benvenuto conte di Gavorrano, vi accolgo con piacere e amicizia”. Il tono baritonale della voce non incuteva nessun timore; nessun sussiego traspariva dal primo approccio. “Principe Olivares di Salamarsina, permettetemi di esternarvi tutta la mia gioia per essere stato ricevuto nella vostra sontuosa dimora”. “Venite conte, accomodiamoci e deliziamoci della vista di queste stupende piante. Spero che vorrete condividere la mia abituale piccola colazione del pomeriggio, ma vi lascio libero di decidere senza forzarvi” “La vostra speranza è resa certezza principe” Alberto era impaziente di comunicare il motivo della sua visita, per prudenza non l’aveva scritto sulla richiesta presentata due giorni prima; adducendo vagamente ai rapporti commerciali avuti in precedenza ed essendo di aggio, avendo grande desiderio di fare conoscenza… Comunque si trattenne, non
voleva guastare alcunché dando l’impressione di forzare i tempi; aspettava un segnale un’indicazione in tal senso; in fondo era ospite, non ardiva a prendere l’iniziativa. Finiti i convenevoli, che fra due persone intelligenti e pragmatiche sono alquanto brevi, l’interesse di Alberto si spostò su un esemplare di ficus alto fin quasi al soffitto, con foglie dure e lucenti di un verde scuro. “‘Ficus elastica decora’ conte, cresce spontanea nell’est asiatico. È una pianta ben curata, uno dei pochi esemplari che sfiori i tre metri di altezza. I miei giardinieri le hanno profuso ogni cura per renderla così splendida: da primato”. Un valletto si avvicinò al principe facendo intendere che era pronto a servire e questi diede il consenso con un rapido abbassamento del capo. Poco dopo posò sul tavolo un vassoio con una brocca contenente del tè, due tazze, cucchiaini, un piattino con dei biscotti. I due si servirono e consumarono quasi tutto. “Caro conte, quando vorrete sarò pronto ad ascoltare il motivo della vostra visita, che avendovi scomodato fino ad arrivare a Napoli, non dovrebbe essere di poco conto. Suvvia osate, non vorrei rammentarvi il brusco invito virgiliano rivolto al Sommo Poeta nel secondo canto dell’Inferno. Di grazia parlate”. L’improvvisa virata del principe non colse di sorpresa Alberto, che espose in breve, ma senza tralasciare nulla, l’evento e il motivo dell’invito. “Inoltre eccellenza illustrissima, so per certo che sono in fase finale di progettazione… la tratta ferroviaria Asciano-Grosseto che completa la linea proveniente da Siena, e la tratta finale della Firenze-Roma, da Terontola a Chiusi”. Si accorse di aver impressionato il principe, il quale evidentemente all’oscuro di tutto, si accinse a porre qualche domanda. “Ma…”, “Principe Olivares” lo interruppe perentorio il conte “fin da ora vi assicuro il mio totale impegno a mettervi in contatto con due persone molto influenti, di mia conoscenza, di cui una, facente parte della commissione deliberante e la sola referente del ministro, sarà presente alla cena del trentun dicembre”. Il principe tentennò, poi riprese. “Se…”, “Principe Diego Antonio Olivares di Salamarsina”, Alberto l’interruppe
e pronunciò queste parole alzandosi in piedi, appoggiando il palmo della mano destra al petto e alzando leggermente il mento, dando l’impressione di voler giurare solennemente. Proseguì deciso “Da subito disponete di me come del più fedele dei vostri servitori. Sarò la vostra fortezza sicura, la vostra testa di ponte in terra di Toscana. Vorrei potervi leggere nel pensiero per dar compimento ai vostri desideri prima che me lo chiediate.” Si alzò anche il principe, il suo atteggiamento era improvvisamente mutato, per la prima volta nella vita non avvertiva più la netta sensazione del comando, del primato; ma non si sentiva depauperato, offeso, al contrario provava un sentimento nuovo, più umano, si sentiva in un certo senso riconoscente verso il conte Alberto. Si guardarono a lungo negli occhi senza batter le ciglia, erano vicini, quasi commossi, l’aria si tese; come durante un temporale, il dielettrico che tiene separate le cariche contrapposte si faceva sempre più debole; sarebbe bastato un impercettibile movimento di uno dei due, per far scoccare la scintilla e si sarebbero stretti in un abbraccio. “Con permesso eccellenza, don Vincenzo chiede di essere ricevuto”. Mai interruzione fu più gradita. “Venga avanti” ordinò il principe, sollevato dalla tensione che si era creata. L’atmosfera si era distesa, i volti rasserenati; gli occhi ricominciavano a guardare, gli arti a muoversi. Era questi l’economo di palazzo e fungeva anche ad segretario del principe; un ometto piccolo, con una testa piccola e calva, un naso arcuato ed un mento sporgente; la voce monocorde e lamentosa. “Prin…”, “Don Vincenzo, la lista dei miei impegni per il mese di dicembre”. L’economo tolse dalla borsa di cuoio un libro colla copertina in tela azzurra “Il giorno venti visita in arcidiocesi, il ventitre, antivigilia di Natale discorso all’Albergo dei poveri”. “Bene, da allora fino a tutto il sette di gennaio nessun impegno. Potete andare”. “Ma io veramente… se vostra eccellenza mi da facoltà… ecco…” non ricevendo risposta si accomiatò procedendo all’indietro fino alla porta. “Verrò con piacere, interesse e curiosità, conte. La vostra illustre città è ancora capitale del Regno, dico ancora non volendo essere di malaugurio, imperrocchè come pure voi sapete, la datata “questione romana” sembra venire a
maturazione; ormai senza l’appoggio dei si, ceteris paribus, è solo un fattore di tempo, e quando sarà tutto compiuto, la capitale… converrete anche voi… una decisione che… ma non desidero tediarvi ulteriormente”. “Condivido principe Olivares, prima o poi del Papa Re rimarrà solo il primo vocabolo. In quanto al governo in carica, posso dirvi che difficilmente porterà a termine il suo mandato, il terzo in meno di due anni. Mentre per la casa regnante, beh a dire il vero, non ha mai legato bene colla città; forse si adatteranno meglio nella futura capitale, quando sarà il tempo. Per contro, noi fiorentini siamo guardati con sospetto e diffidenza dalla maggior parte dei piemontesi, ci accusano di averli..derubati, impoveriti, ma vi posso assicurare che non è così” Si alzarono contemporaneamente, significando in tal modo che la conversazione era compiuta; niente più aveva motivo di tenerli ancora insieme. “È mio desiderio conte Braccioforte, accompagnarvi fino all’ingresso” “Mi onorate oltre il pensabile principe Olivares” Alberto diede un ultimo sguardo alla sala verde, sorrise compiaciuto al principe, poi entrambi uscirono. Nell’androne del palazzo i due si fermarono, uno di fronte all’altro. “Alberto Braccioforte conte di Gavorrano, nel ringraziarvi della visita, vi auguro un felice ritorno a casa. Senza nulla più aggiungere, siate certo della mia presenza, in compagnia della principessa, alle cinque e trenta pomeridiane, del giorno ultimo dell’anno, presso la vostra dimora. Ossequi”. “Don Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina, questa ora trascorsa in vostra compagnia vale per me un’intera vita. Possa Colui che “omnia quaecumque voluit fecit” dar compimento ai vostri progetti. Accettate il mio deferente saluto” e si inchinò profondamente. Si strinsero la mano con molto vigore e vistoso movimento degli avambracci; durò a lungo, senza una parola. Alberto non mollava la presa, stringeva con tanta forza quanta ne avvertiva dall’altra parte, non voleva essere il primo a staccarsi.
Toccò al principe allentare di poco la stretta. Alberto percepì la lieve variazione e mollò anche lui, ma si accorse di essere molto più debole del principe e per paura di mancare di rispetto tornò a serrare forte, con uno scatto violento ed improvviso, proprio nel momento in cui don Diego Antonio, sentendo diminuire la forza dell’altro, allentò del tutto. Il gesto dei due fu antipodale, come intenzioni e come forze, e produsse ovviamente come risultato, un sinistro scricchiolio nelle giunzioni metacarpali della mano principesca. Il poveretto serrò le mascelle e trattenne un grido mettendo in tensione i muscoli addominali, e con tutta la forza che gli era rimasta, serrò stoicamente in una morsa di acciaio la mano del conte. Erano tornati al punto di partenza. Si guardarono negli occhi cercando disperatamente un segnale di tregua che nessuno dei due sembrava concedere. Infine esausti, stremati dallo sforzo, chissà come e perché, si trovarono colle mani libere, non sapendo chi fosse stato il primo ad abbandonare la lotta. Avevano inconsapevolmente raggiunto lo scopo, l’onore era salvo, si potevano accomiatare. Il conte Alberto retrocesse fino alla soglia, eresse il busto, unì i talloni, inchinò con solennità il capo fino alla cinta; lo risollevò lentamente e sparì. Si ritrovò in strada, sudato da capo a piedi. Il principe ritornò sui suoi i tenendo colla sinistra l’altra mano dolorante, maledicendo di gran cuore il conte, la capitale, la promessa, la ferrovia e tutto il resto…che il diavolo se lo porti via. Via Toledo, via Toledo…ne aveva sentito parlare come qualcosa di raro se non unico, ed ora che ci si trovava in mezzo la poteva ammirare in tutte le sue espressioni. Tale strada maestosa fu voluta dal primo viceré di Napoli, don Pedro Alvarez de Toledo, inaugurata quasi trecentocinquant’anni prima, ne porta il nome in suo onore.Si può dire che divide la città in due, partendo dalla chiesa dello Spirito Santo fin giù nei pressi del Palazzo Reale. Dopo la pausa prandiale, verso sera, la vita diventa caotica; gente che va, che viene, s’incrocia, si mischia, s’incrocchia, ride, urla, vende, beve, compra, s’azzuffa, canta, giuoca, balla, spinge, mangia, suona; un brulicare impressionante di persone, un frastuono incredibile, non si capisce più nulla. Carrozze che corrono come impazzite in mezzo alla gente, un disordine
generale, un caos primordiale. “Ammò fuorf” le urla degli arrotini ambulanti sanniti; “tiranti, spingule si, temperini” quelle dei galantariari, venditori di chincaglieria; “a rumma, centerba, sammuchella, caffè, ammennola amara” l’acquavitaro; “franf’llicchi i mele, zucchere janche” il franfelliccaro, venditore di tocchetti di mele zuccherati; “pulizzam stivali”, “accattateve o celentra”. Alberto era confuso, frastornato, saturo di tutto codesto bailamme, di tale ammuina infernale; vedeva ma non guardava, udiva ma non ascoltava. Decise di procedere a piedi in direzione di Santa Lucia all’Hotel de Russie, dov’era sceso tre giorni addietro al suo arrivo in città. Salì al secondo piano, entrò nell’ampia camera e si buttò sul letto esausto, sperando in un sonno ristoratore. Orfeo ne ebbe comione, lo prese tra le braccia e ve lo tenne fino al mattino.
Il ritorno
Si sedette vicino al finestrino nell’ultima carrozza delle tre di cui era composto il convoglio, su di una poltrona di velluto verde scuro con comodi braccioli . Sul poggiatesta in pizzo macramè avorio erano ricamate delle semplici composizioni floreali; sopra, un telaietto in ottone sosteneva una reticella nera che serviva per appoggiare i bagagli. Era solo nello scompartimento, si adagiò ben bene con tutta la schiena e le spalle, si tolse il cappello e lo posò sul sedile alla sua sinistra; sollevò leggermente lo sguardo come per meglio rendersi conto di dove stava, lo girò lentamente dalla porta fin al lato opposto dove erano le chiusure a vetri. Sentiva che si stava rilassando, la mente si stava svuotando; non stava pensando a nulla, senza la minima fatica, gli veniva naturale. Non gli interessava più il tempo che scorreva, questo, non aveva più l’aspetto predominante; Alberto lo aveva in abbondanza, dov’era ora lo poteva tranquillamente concedere. Aveva in saccoccia il bottino pieno prefissato alla partenza, nulla più aveva da domandare, niente a nessuno: stava assaporando la vittoria dopo una sofferta battaglia. Prese la borsa da viaggio che era appoggiata sul pavimento vicino ai piedi e la posò sulle ginocchia; la aprì e ne estrasse un astuccio di cuoio delle dimensioni di un mattone; richiuse la borsa e la fece scivolare nell’apposita reticella posta sopra la testa. Sganciò il piano porta oggetti dal fermo in basso alla parete, lo alzò di novanta gradi, lo fissò dal disotto con il montante a triangolo e vi depose sopra l’astuccio di cuoio. Lo accarezzò con le dita tese facendole scorrere lentamente dal centro verso l’esterno; le abbassò allargando i pollici fino a formare un angolo retto, appoggiò questi ai due bottoncini di metallo tondi e premette, liberando le due chiusure
che si rizzarono con uno scatto. Sollevò il coperchio e tolse un sacchettino in raso di seta bianco chiuso da un lato corto da un nastrino di velluto rosso; nel centro campeggiava, ricamata in seta blu, la scritta in corsivo “Bondier & Ulbrich – Paris”. Sciolse il nodo ad asola e allargò l’apertura; vi inserì la mano destra e afferrò qualcosa; chiuse gli occhi e sorrise allungando le rime delle labbra; ritirò la mano, le cui dita stringevano delicatamente un magnifico esemplare di pipa se in radica. Proveniva da una delle prime manifatture di pipe di importanza continentale ed era costruita con nuove concezioni, in radica di primissima scelta. Questa si estrae dal ciocco dell’Erica Arborea, un arbusto che cresce spontaneo in quasi tutto il bacino del mediterraneo, in particolare in Corsica, Toscana , Calabria, Liguria, Spagna, Francia. Il suo abitat è costituito da terreni sassosi, collinari montagnosi, con scarse piogge e molto vento; condizioni di difficili sviluppo aereo, per cui la pianta lavora molto sotto terra e fra il colletto e le radici si sviluppa un ingrossamento chiamato appunto ciocco. Questo viene separato dalle radici e dalla parte aerea, pulito e fatto bollire per alcune ore allo scopo di eliminare tutti gli elementi potenzialmente nocivi; segue poi una stagionatura di qualche anno, dopodiché e pronto per la lavorazione. La pipa di Alberto aveva una forma classica, diritta, con un fornello capiente che formava tutto un pezzo col cannello, terminante con una ghiera d’argento, dentro la quale si inseriva il bocchino in corno chiaro, con un piccolo rilievo alla fine che serviva per agganciare lo strumento ai premolari. La radica era tinta in bordò e lucidata a specchio con materiali che permettevano la traspirazione del legno. Sul lato sinistro del cannello recava incisa la scritta uguale a quella del sacchetto in raso; mentre dall’altro lato si leggeva “bruyère garantie” e sotto, il numero progressivo di fabbricazione punzonato “245”. Prelevò dall’astuccio un pacchetto di carta bianco contenente del buon trinciato cosiddetto “di prima”, quello forte, di tipo beneventano.
Ne prese un ciuffo e lo posò sul piano, quindi lo svolse per arearlo, facendolo roteare lentamente fra i pollici e gli indici. Quando fu ben soffice iniziò l’operazione di caricamento; a pizzichi, poco alla volta, premendo con delicatezza prima, poi più decisamente fino a colmare il vaso; preparando così le condizioni ideali per un buon tiraggio, indispensabile per una ottima combustione. Girò lentamente la pipa sulle punte delle dita, ne ammirò la bellezza semplice e allo stesso tempo austera; l’armonia delle rotondità lucenti, la ghiera in argento su cui aveva fatto incidere la sue cifre “A B”; il bocchino affusolato in corno color della sabbia del mare. Col polpastrello dell’indice destro diede un’ultima toccatina livellatrice al tabacco che riposava nel fornello. Tolse dall’astuccio la scatolina contenente gli zolfanelli, ne sfilò due e li pose sul piano; mise la pipa fra le labbra stringendo delicatamente coi denti il bocchino. Accese uno zolfanello lasciando che bruciasse prima tutto lo zolfo, per evitate che l’acre sapore ne contaminasse il tabacco; mentre colla mano sinistra sosteneva il vaso, con la destra avvicinò la fiamma al centro del fornello. Aspirò con boccate robuste e ravvicinate e dopo sette o otto di quelle, il trinciato ardeva completamente su tutta la superficie producendo una brace rosso vivo. Smise di aspirare e col pollice diede una veloce e decisa pressatina per ripianare il tabacco alzatosi a causa della combustione; fece una seconda breve riaccensione: la pipa era pronta per essere fumata. Iniziò ad aspirare contraendo leggermente le guance con boccate lente, ritmate, in sintonia col respiro; lievi, brevi, ben intervallate. Emetteva poco fumo da un angolo della bocca e ogni tanto l’ultima parte la espirava dal naso, assaporando gli aromi più nascosti. Dal fornello usciva, solo in concomitanza con la fine do ogni aspirazione, un sottilissimo filo di fumo azzurrognolo che si elevava retto per un breve tratto, per poi eseguire strane evoluzioni, quindi dissolversi nel nulla, come i pensieri di Alberto. Si trovava in uno stato al confine più prossimo con l’estasi; una pace che non andava indagata ma si doveva accoglier così come si presentava e bearsene; si sentiva in armonia coll’universo, il suo essere nulla, lo avvertiva come una
componente necessaria alla creazione. Con un pensiero si permetteva quasi di giuocare, gli si avvicinava, lo sfiorava senza mai appropriarsene, senza coltivarlo per paura di vederselo svanire una volta agguantato.
“Eccoti! Finalmente! Era ora e tempo che ti fi vivo! Si può sapere dove diavolo sei stato? Sei tornato vittima delle tue debolezze pregresse? Esigo, pretendo, voglio delle spiegazioni! E bada a non proferire grullaggini. Parla dunque, parla!” Emilio era furibondo, ne aveva ben ragione dopo circa una settimana di assenza del fratello, senza nessuna motivazione se non quella di una breve visita ad un amico non meglio specificato, data sommariamente al momento stesso della partenza. “Non crucciarti Emilio, dopo avermi ascoltato questo tuo patema svanirà” “E dunque?” chiese l’altro con tono più morbido. “Torno da una battuta di caccia strepitosa” “Caccia?! Come, che caccia? Di che?” “Caccia grossa, grossissima e… il bottino l’ho tutto qui” disse Alberto picchiandosi i polpastrelli delle dita della mano destra sulla fronte. “Caccia grossa, bottino in testa?! Vuoi farmi ammattire fratello? Hai bisogno di un medico sì, sìii, di un medico; anzi no, non tu, io l’ho bisogno, iio l’ho bisogno” urlò quello paonazzo. “Sono stato a Napoli e…” “Aaaah a Napoli è stato, a Napoli; sì, qui appena dietro la Fortezza” grugnì Emilio accasciandosi su una poltrona. “Emilio ascoltami, ti prego, senza più interrompermi!”
“Sai dell’ottimo risultato che abbiamo ottenuto coll’adesione di tutti coloro ai quali è stato spedito l’invito alla cena del trentun dicembre. “Bene” mi son detto, “ora manca il tocco finale, quel tocco che ci proietterà fra le primissime casate della nobiltà toscana e non”. “Ho così vagliato diverse opportunità ed infine mi sono deciso e sono partito per Napoli. Sì, sì, quella breve visita ad un amico, sì! Emilio, non volevo tenerti in ambascia per troppo tempo; è stata una gentilezza verso di te, non uno sgarbo”. “Sono tornato con una solenne promessa. Alla cena dell’ultimo giorno dell’anno… ci onorerà…” Emilio si alzò dalla poltrona cogli occhi fissi sul volto del fratello e la bocca semi aperta. “Ci onorerà della sua augusta presenza… parteciperà con grande gioia…” Emilio incominciò a tremare. “In compagnia della consorte… sarà qui in casa nostra… potrai stringere la mano… potrai rivolgere la parola…” Emilio, per la forte tensione, iniziò a dare piccoli segnali d’incontinenza movendosi in un certo modo. “All’illustrissimo…” “Dillo! Non resisto più” urlò Emilio con tutto il fiato che aveva. “Diego, Antonio, Olivares, principe di Salamarsina!”. Dopo una decina di minuti, Emilio ritornò nel salotto con aria dimessa, stravolto, come se avesse sostenuto le sette fatiche di Ercole. “Mi hai messo a dura prova Alberto, ma non trovo le parole esatte a significare la tua impresa. Accetta un umile, semplice grazie, toto corde”. Un abbraccio concluse il convulso ritorno.
L’amico
Alberto si convinse subito dell’enorme risultato raggiunto, tuttavia si rese conto che non era del tutto facile la gestione della sorpresa finale che si era guadagnato con tanto sacrificio. Non poteva correre il rischio di vanificarla con una presentazione frettolosa, senza una adeguata preparazione. Decise di far pervenire agli invitati una missiva di questo tenore: “Rendo noto a Vostra Eccellenza Illustrissima che alla cena del trentun dicembre, avremo il grande onore di fare la conoscenza di una importantissima personalità, di cui per prudenza taccio la nobilissima e antichissima casata, di cui tutti abbiamo sentito parlare…”. Fu un primo o, importante quanto si vuole, ma sempre un inizio; c’era ancora molta strada da percorrere per arrivare alla meta. A dire il vero Alberto, più che la soluzione integrale, aveva chiaro in mente come codesta si sarebbe svolta; i tempi in cui si sarebbero susseguiti i fatti futuri erano già memorizzati; mentre i luoghi, le persone e altre componenti, in parte ancora da definire. Il mattino di lunedì 27 dicembre finalmente si decise, abbassò due volte la banda di seta blu con i bordi gialli, subito dopo si aprì la porta dello studio. “Osvaldo fai approntare il landò”, “subito signor conte”. La carrozza uscì da porta a Croce in direzione della via Aretina proseguendo per un paio di miglia, poi appena attraversato il ponte della Mensola svoltò a sinistra caracollando sulla stradina rettilinea in breccia, fiancheggiata da cipressi tutti eguali, che portava alla residenza del barone Guidobono Cavalcanti. “Barone, il conte Alberto Braccioforte di Gavorrano chiede di voi” annunciò un servitore. “Digli che sono da lui in un attimo”. Si tolse la vestaglia da giorno, indosso la redingote e si avviò verso la sala
d’ingresso dove il conte lo stava aspettando. “Alberto, carissimo amico, che bella sorpresa”. “Eh sì, Guido, scusa se non ho avvisato e mi sono permesso” “Eeeeh, che sarà mai, questa è casa tua lo sai” “Ti ringrazio Guido, sei sempre molto gentile” “Ma vieni, vieni, accomodiamoci in salotto” arono nella sala attigua e si sedettero su due poltrone in pelle color cuoio, vicino ad un grande camino dove ardevano tranquillamente dei ciocchi di faggio. “Vuoi farmi compagnia a pranzo Alberto? È parecchio tempo che non ci si vede”, “Moltissimamente, Guido, lo vorrei, ma ho poco tempo rispetto agli impegni pressanti. Sai, mancano solo quattro giorni al trentun dicembre”. “A proposito, ho ricevuto la tua lettera in cui parli di una grossa personalità che presenzierà alla cena vero? E… posso sapere qualcosa in più dal mio amico Alberto?” “Son qui per codesto motivo. Se mi consenti cercherò di illustrarti in quale modo intenderei agire, usufruendo del tuo servigio” “Hai destato la mia curiosità, ti ascolto”. “Come certo saprai caro Guido, allorché raggiungo un risultato preventivato, non mi adagio su di esso, cerco sempre di perfezionarlo, di aggiungere qualcosa in più; insomma, per me, e come son certo anche per te, non esiste mai un massimo; tutto è migliorabile, si può sempre tentare di fare qualcosa in più. È una delle lecite ambizioni che muovono il mondo, sempre che non sia velleitaria o temeraria”. “Giusto confermo, procedi”. “Ecco. Allora mi sovvenne un’idea; mi son detto: “perché non far partecipare all’evento una personalità eccezionale, che dia lustro alla mia famiglia e che renda i partecipanti grandemente soddisfatti e gratificati; che custodiranno poi
gelosamente tutti i momenti della serata per il resto della loro vita, come un prezioso tesoro”. “Ti seguo, continua”. “Sì, certo. Dopo aver esaminato con cura alcune opzioni partii per Napoli”. Guido si alzò, agganciò col palmo della mano destra la sinistra dietro alla schiena e camminò lentamente fra le due poltrone ed il camino, tenendo questo una volta alla sua destra e l’altra alla sinistra. “Napoli, Napoli… Napoli. Eeeh, caro Alberto, ci sono laggiù diverse famiglie importanti; una delle più illustri, più antiche e più degne, risponde al nome di Olivares, principe di Salamarsina. Se non erro è la più antica casata ancora esistente, risalente forse ancor prima che iniziasse la “reconquista”; originaria di Huesca, che fu capitale del Regno di Aragona ancor prima di Saragozza. Purtroppo per te caro amico, rimane inavvicin…”. Alberto afferrò con una mano l’avambraccio destro del barone, si alzò dalla poltrona e si avvicinò al viso dell’altro; si guardò a sinistra e a destra come per assicurarsi che nessuno stesse ad ascoltare e gli sussurrò in un orecchio: “Sarà con noi! Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina sarà presente alla cena dell’ultimo dell’anno. Sono tornato colla sua solenne promessa”. ò circa un minuto senza che nessuno aprisse bocca, poi… “Alberto… Alberto sei sicuro che… tu conosci come… ma poi… considerando…” “Sediamoci di nuovo Guido, sediamoci” e si riaccomodarono. “Prendi qualcosa Alberto?” chiese distrattamente il barone. “Sì, grazie”, “Cosa?”, “Ciò che più ti garba”, “Ti va del… del…”, “Mi va, mi va, mi va!” rispose il conte quasi scocciato. Il barone fece tintinnare il camlo. “Comandi barone”, “Porta del vin santo e dei cantucci”. Poco dopo il domestico posò il vassoio su un mobile e avvicinò ai due, tra le poltrone e il camino, un grazioso tavolino rotondo in frassino lavorato in color
naturale; col piano di marmo beige venato in grigio azzurro e vi mise sopra il vassoio. È naturale, quasi scontato, ma da molti fatto are del tutto inosservato, mentre meriterebbe il contrario. Già i romani lo somministravano ai soldati come medicinale quando questi erano giù di corda; veniva servito allo stato di mosto e allungato con misure d’acqua per diluirne più o meno la concentrazione. Anche in questo caso il vino assolse al suo nobile scopo; i due dopo averne assunto un bicchierino si acquietarono, si distesero, si sciolsero, ripresero la cordialità iniziale e lo sbigottimento svanì. “Ma come ci sei riuscito, Alberto! Al solo pensiero di sostenere un confronto col principe, col proposito di farlo partecipare ad una cena, seppur importante come quella che sarà, mi vien ogni male”. “Con prudenza, rispetto; ma eziandio con decisione, audacia e pure con un poco di fortuna: era di buzzo buono. Eppoi con un po’ d’astuzia, l’ho preso per la gola. Gli ho parlato delle buone possibilità che avrebbe avuto nel partecipare alla costruzione del tratto ferroviario Asciano-Grosseto che completa la linea proveniente da Siena. Sai, il marchese Carati di Monteforte, che sarà presente alla cena, è amicissimo e unico referente del ministro quale componente della commissione istituita per monitorare la costruzione della ferrovia”. “È stato lodevole il tuo modo di agire Alberto, me ne compiaccio veramente, ma… veniamo al merito del mio ruolo” disse il barone. Poi fece avvicinare il servitore con un cenno e gli sussurrò qualcosa; quello ritirò il vassoio e sparì. “Vedi Guido, della visita del principe lo sappiamo solo in tre: tu, io e mio fratello Emilio. Neppure ad Elvira l’ho detto, non per mancanza di fiducia, tu la conosci mia moglie, sai che di lei ci si può fidare, no? Ma poi ho pensato che avrebbe potuto distrarmi con i suoi consigli assillanti”, “Ti capisco, prosegui”. “Ora ecco come si dovrebbe agire in quell’occasione. Ad un mio chiaro cenno dovresti comunicare in modo dubitativo, che da non meglio precisate fonti, da Napoli si sarebbe mosso un esponente di primissimo piano della nobiltà partenopea, per partecipare ad un evento importante che si terrebbe nella capitale del Regno il giorno ultimo dell’anno”.
“Ho capito, ho capito, ma comunicare a chi?” “Avrei pure un’idea su codesta persona. Tu Guido conosci bene il conte Pandini Bianco di Colfiorito con cui intrattieni rapporti commerciali, no? Sua moglie, la contessa Annarita. Nel giro di pochi minuti lo sapranno tutti pur tenendolo un po’ nascosto. In tal modo aumenterà la tensione, monterà l’attesa accentuata eziandio dalla componente dubitativa: ma, forse, potrebbe, chissà… Quando poi la sala sarà al colmo dell’eccitazione, faranno la loro entrata i principi Olivares”. Il servitore appena entrato, chiesto il permesso al barone, posò sul tavolino due piatti, posate, bicchieri e tovaglioli; avvicinò una sedia e vi depose un vassoio contenente del prosciutto del Casentino, alcune fette di finocchiona, del pane, fagiolini canellini bolliti, una purea di rape ed una brocca di cristallo con del vino rosso color rubino. I due commensali ne presero, mangiarono e bevvero. “Eccellente” mormorò il barone. “Sì, Guido, in particolare questa purea di rape, delicatissima” “Ma no, non mi riferivo a ciò che stiamo consumando, ma al tuo piano: magnifico, un’ottima pensata, di grande effetto”. “Già, già, scusa Guido. Cosa ne pensi?” “Te l’ho appena detto; poi lascia fare a me, ad un tuo cenno entrerò in azione; non ti accorgerai di nulla, ma vedrai tosto l’atmosfera cambiare”. Alberto ebbe una favorevole impressione dall’ultima sortita dell’amico, si sentiva rassicurato, non era più solo, sentiva forte l’appoggio di lui; divideva in un certo senso il peso gravoso dell’impresa. Così la si poteva definire con retta cognizione. Un’impresa che se sarebbe andata a buon fine avrebbe lasciato un segno indelebile del prestigio dei Braccioforte conti di Gavorrano.
I preparativi
Erano appena ate le due pomeridiane allorché il landò del conte sortì dal cancello di villa Cavalcanti Forte riprendendo il tragitto inverso. Tutto sommato uscì dall’incontro appena avuto abbastanza ottimista, senza comunque lasciarsi andare a fantastici sogni. Si conosceva bene, si interrogava spesso e con se stesso era spietato; nessuna forma d’indulgenza, anzi chiedeva sempre qualcosa in più, era un giudice molto severo, non esistevano avvocati per lui. Toc, toc, toc, “A Ponte Vecchio, vai a Ponte Vecchio e lasciami là”. Sentiva il bisogno di riordinare le idee, di fare il punto di tutta la faccenda; in carrozza non ci era riuscito, vuoi per il continuo sobbalzare, vuoi per il frastuono, non si capacitava di pensare a nulla. Scese dal landò e si diresse lentamente sotto gli stretti porticati delle botteghe degli orafi, fino al sedicesimo secolo occupate dai beccai, dando un’occhiata distratta alle vetrinette. Si fermò nel bel mezzo dell’arcata centrale dove il ponte raggiunge il colmo; si girò a sinistra , poi a destra e si appoggiò cogli avambracci al parapetto guardando il fiume scorrere verso il mare. Fissava i gorghi, che formandosi a valle dei pilastri a causa dell’acqua che si riuniva dopo essere stata divisa a monte, resistevano alla corrente aggrovigliandosi fra loro, fino a quando, ormai esaurita la forza d’inerzia, si dissolvevano nel nulla. Decise di avviarsi verso il duomo, dove aveva un appuntamento con il maestro di cappella. Alla loggia del mercato girò a destra per piazza della Signoria, di lì piegò a sinistra per via dei Calzaiuoli ed alla fine di questa giunse alla meta. Era un po’ in anticipo rispetto all’ora dell’appuntamento; girò lentamente intorno al battistero di San Giovanni a pianta ottogonale.
Dalla torre di Giotto erano appena giunti quattro rintocchi quando si sentì appellare “Signor conte, signor conte”. “Buongiorno maestro, avete trovato quanto vi ho richiesto?” “Sì, signor conte, sono in tutto cinque elementi di soli archi come avete comandato: tre violini, una viola da gamba ed un violoncello. Sono musicisti molto validi, più volte li ho diretti; state tranquillo, non deluderanno”. “Avete approntato il repertorio sulla base di ciò che vi ho suggerito?” “Ecco, anche di questo desideravo parlarvi signor conte; la lista dei brani è stata compilata seguendo le vostre direttive; andrebbe rivista insieme e quindi definita. Per gli spartiti nessun problema, tutti ne sono in possesso”. “Venite dunque, entriamo in un accogliente caffè” “Come comandate signor conte”. Al “Caffè dei Tre Re” si sedettero ad un tavolino in disparte per non essere disturbati e subito un cameriere si avvicinò. “I signori desiderano ordinare?” “Sì, certo. Maestro?” “Fate voi signor conte, per me va bene tutto” “Mi oppongo maestro! Se voi prendete tutto a me cosa rimane?” “Ah, ah, ah signor conte, avete uno spirito gaio e pronto” “Due cioccolate con dei biscotti” ordinò Alberto. Si meravigliò molto di quella sua sortita; non altrettanto il cameriere, avendo ascoltato la battuta un centinaio di volte almeno; fece un lieve inchino, si girò e se ne andò a mento alto. “Dunque veniamo al merito, maestro. Mostratemi tutto quanto”. Quello tolse dalla sua borsa grigia in tela di cotone pesante, un quaderno nero
colle pagine bordate in oro; lo depose sul tavolino. Lo aprì ed iniziò ad illustrare al conte la sua proposta di base. “Ecco, signor conte, in ordine cronologico i brani musicali che, secondo il mio umile pensiero, sono meritevoli di essere eseguiti. Inizierei con sonate in stile settecento italiano fino al completamento dell’arrivo degli invitati”. Si fermò guardando in volto il conte. “Enunciate maestro, enunciate, animo!” “Subito signor conte, subito. Come vi dicevo, l’inizio è dedicato al settecento italiano. Ho pensato a Vivaldi, Veracini e Tomaso Albinoni. Imperrocchè signor conte, allorché le note musicali pervengono a lambire l’orecchio umano, debbono sollecitare il timpano senza… oltraggiarlo. Già gli antichi greci in fon…” Il conte lo interruppe afferrandolo per un polso. “Maestro colendissimo vi scongiuro, fermatevi; evitate di impartirmi un trattato sulla storia della musica partendo dal… patriarca Noè! Ve ne sarò riconoscente per tutta la vita. Sorbiamoci con calma questa profumatissima cioccolata che ci è stata or or servita, poi continuerete; a partire dal settecento italiano, non prima”. Finito che ebbero, Alberto diede il via al maestro con un veloce movimento della mano, come se stesse scacciando una mosca da sopra una pagnotta. “Nel caso in cui si protraesse a lungo l’arrivo dei commensali, terrei come riserva Joseph Haydn”. Continuò nella sua esposizione con trasporto, come se stesse pronunciando un discorso patriottico. Ma Alberto, pur fissandone il volto, lo traava collo sguardo e non lo ascoltava per nulla; infine, pur non sapendo a che punto fosse giunto, lo interruppe. “Va bene maestro, va bene. Ora ascoltatemi attentamente. La riuscita o meno della serata dipende da voi! Chiaro? Da voi! Siete pronto?”
Cercò di investirlo di responsabilità senza terrorizzarlo; il primo obiettivo lo raggiunse, il secondo lo fallì. Lo vide piano piano perdere colore, tenere gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta e muta. “Due cognac!” urlò. Poi con voce più calma e suadente proseguì “Siete sicuro di possedere l’arte di dirigere?” “Certo che sì, signor conte, certo; sono pure maestro di violino e di oboe; li suono perfettamente. Scusate l’immodestia ma è la pura verità”. “Bene. Così deciso mi piace vedervi. Ora ascoltatemi con attenzione e serenità. Allorché si sarà completato l’arrivo di tutti gli ospiti, vi farò avvisare da un valletto. Quando udrete di nuovo tintinnare in modo più prolungato il camlo; e qui non sono in grado di dirvi quanto tempo potrebbe trascorrere, fors’anche mezzora, un ora o dieci minuti; smetterete subitissimo; attenderete l’annuncio dell’illustrissimo personaggio e consorte, li farete apparire sulla soglia, poi attaccherete col Kanon dell’abate Johann Pachelbel! Dubbi maestro?” “Chiarissimo signor conte” la sua voce era decisa, squillante “Nessun dubbio, nessun problema, nessun tentennamento. Vi do per certo che la serata sarà un grandissimo successo”. Ah, il cognac. “Anche questa è fatta” pensò il conte mentre si avviava verso casa, avvolto nel suo cappotto in panno di lana verde oliva con mantellina uguale. Era già buio, le strade quasi vuote e le poche persone infreddolite che incontrava camminavano velocemente, avvolte nei loro panni pesanti, facendo risuonare sul selciato il tocco dei i leggeri e frettolosi riecheggiati dai muri alti delle case. Fece un breve inventario di tutti i preparativi e si avvide che rimaneva solo la parte culinaria; ma codesta non era un peso gravoso, piuttosto la considerava come la parte finale di un lungo percorso, e questo era in discesa. Si rilassava pensando a ciò, bastava qualche piccolo indirizzo al capo cuoco e tutto era completato; mancavano solo i dettagli e questi li lasciava volentieri a lui, certo che li avrebbe approntati nel migliore dei modi. Non sussisteva più nessun motivo di preoccupazione, tutto era stato definito, nei
modi e nei tempi; il tutto era stato come posto in una scatola; non gli rimaneva che chiuderla. Alberto camminava lentamente, buttando via la punta del piede al termine di ogni o come se stesse scalciando un foglio di giornale accartocciato; avvertiva tendersi per un istante i legamenti per poi ritornare rilassati, ciò gli procurava un senso di benessere agli arti inferiori; i quadricipiti, i bicipiti femorali e i gemelli subivano una sorta di automassaggio benefico che li tonificava.
Il casale
Alberto allungò il braccio sinistro tastando colla mano l’altra metà del letto mantenendo gli occhi chiusi. Le coltri erano appiattite, non avevano volume, nessun corpo le alzava; Elvira se ne era già andata. Gli sembrava strano non averla sentita scivolar fuori; pensò alla cortesia della consorte che di sicuro si era premurata di non svegliarlo, ben conscia dell’impegno profuso in quei giorni. Aprì gli occhi che eran le sette e mezza; si stirò leggermente, mise le gambe fuori ed infilò i piedi nelle comode pantofole blu; stette così seduto sul bordo del letto a pensare a non so cosa, non sapeva come iniziare la giornata e cosa combinare. Un’idea a dire il vero gli era venuta la sera precedente prima di coricarsi: agire come gli ispirava il momento, l’umore; fare insomma quello che aveva voglia, se ne aveva, altrimenti oziare. Ma non era da lui, lo sapeva da molti anni ormai; dopo l’esperienza negativa ata in cui l’accidia la fece da padrona, si era convinto che il primo nemico suo era proprio lei, uno dei sette vizi capitali, anche se in contesto diverso, ma pur sempre da evitare accuratamente. Indirizzò in tal modo il suo pensiero cominciando a vagliare alcune possibilità e iniziò dal cosa non gli sarebbe piaciuto fare in quel giorno. Si lasciò andare mollemente dunque a scartare per priorità ciò che non gli garbava e di conseguenza a cercare per contrappunto logico nel reciproco. Mormorò fra sé “Se non mi va di stare in casa devo uscire. Bene; e una volta fuori? Non mi va di vedere tanta gente, allora? Andrò dove ce n’è poca e amica. Fra questi non chi mi tenga impegnato o mi obblighi o mi prenda tempo. Ma ne conosco poi di gente così? E se ne conosco dove stanno? ò in tal modo qualche minuto e mentre pensava si alzò, indossò la vestaglia di flanella a righe azzurro e argento e fece qualche o intorno al letto.
“Marco, sì, Marco e Velia, certo!” esclamò con gioia, e con ritrovato entusiasmo si apprestò a farsi toeletta. La berlina verde scuro uscì dal portone del palazzo prendendo a sinistra verso lo spedale degli Innocenti, svoltò in via San Gallo in direzione dell’omonima porta, la oltreò proseguendo per la via Faentina. Alberto aveva portato con sé una valigetta contenente qualche indumento intimo, una camicia da notte pesante, oggetti personali vari più l’occorrente per scrivere: fogli, lapis, temperino, righello, cancellino; più tabacco e pipa. L’interno della vettura era in pelle nera trapuntata, con un imbottitura voluminosa e morbida; vi era molto spazio; poteva distendere le gambe, spostarle, ritirarle, appoggiarle sul sedile come e quando voleva. Sono i vantaggi del viaggiare soli, non inferiori a quelli che offre la compagnia. Non che al conte codesta dispie, ma in alcune occasioni ed in particolare in quel giorno, gli andava bene così; bastava a sé stesso, godeva di quel viaggio in solitudine. Dopo Badia il letto ciottoloso del Mugnone ò a sinistra allontanandosi e poi avvicinandosi alla strada; avvolgendo dolcemente con un’ansa un gruppo di case o dividendone un altro più a monte; mettendo in movimento la grande ruota a pale del mulino di un frantoio e formando un bacino di contenimento chiuso da un manufatto umano. Lungo tutto il suo corso, una vegetazione ora spoglia e scura ne seguiva le sinuosità; Alberto la immaginava pochi mesi più avanti, allorché con i primi tepori di primavera, le novelle piumette di un verde tenue quanto timoroso, punteggiano i rami di carpini, querce, olmi, robinie, faggi, dando colore allo sfondo del cielo. Dopo Piano la strada cominciò a salire pur rimanendo pervia; le case si diradavano vieppiù mentre si scorgevano a dritta e a manca le prime forre. Nei pressi dell’Olmo la carrozza percorse tre anse a guisa di ferro di cavallo, una dietro l’altra; la prima a sinistra, l’altra a dritta e l’ultima ancora a sinistra. Effettuata l’ultima curva, sempre a manca, si scorge una radura a forma ellittica di circa tre ettari, delimitata da acacie. In uno dei fuochi è ubicato un vecchio casale del tredicesimo secolo con un’appendice vicina; un vialetto costeggiato da ginepri lo collega alla
carreggiata. La carrozza si arrestò nell’ampio spazio in ghiaietto a dieci i dal casale. Questo era una costruzione in pietra a due piani protetta da un portico alzato di un gradino, che correva lungo tutta la facciata di una decina di metri. L’entrata, bassa e larga, era situata nella metà di sinistra, con stipiti e architrave in granito; due ante in quercia a grosse sezioni orizzontali la chiudevano; poco più dietro un’ampia porta sempre in quercia, con la parte superiore in vetro divisa a quadrati, immetteva nell’ampio locale, a cui davano luce due finestre poste alla destra dell’ingresso. “Signor conte, signor conte! Finalmente, finalmente!” “Buon giorno Velia, come stai?” La donna uscì dal portico andandogli incontro, quando fu a due metri fece un profondo inchino. “Bene, bene signor conte, bentrovato. Che piacere vedervi dopo sì tanto tempo. Vi trovo molto bene sapete?” “E il tuo Marco? Dimmi come sta” “Ma sì, ora meglio, s’è ripreso abbastanza bene. Oh, nulla di grave eh; ma sapete, quei tre giorni ai primi di novembre, con quella violenta e ostinata tramontana, ecco; s’è buscato una febbre potente per una settimana intera; ma tutto è ato, ringraziando Domine Dio! Ora sta su nel bosco” “Rimango un paio di giorni Velia” “Ma certo, tutto il tempo che volete signor conte”. Alberto si rivolse al cocchiere “Torna giovedì alla stessa ora; vai!” La berlina si allontanò e subito scomparve dietro ai ginepri. Alberto si sentì più libero. “Favoritemi la borsa signor conte, vado a sistemare la piccola; sempre che ciò vi
garbi, altrimenti ci andremo noi e voi vi accomoderete nel casale” “Va benissimo la piccola Velia, ti seguo”. Si avviarono verso la casetta posta a dieci i dal casale; non era sullo stesso asse ma formava con quello un angolo ottuso; un tettuccio proteggeva la porta che era collegata al portico con un camminamento in pietre quadrate a filo terra separate da un sottile spazio d’erba. “Mentre tu fai Velia, me ne vado a eggiare qui dietro” “Va bene signor conte, al vostro ritorno troverete tutto in ordine. Non si sapeva del vostro arrivo e per pranzo…” “Non mi dire nulla, va bene ciò che troverò. Che sia una sorpresa!” Si tolse il pastrano, indossò una giacca pesante, calzò un paio di stivali, si mise un cappello col paraorecchie in testa e uscì. Lasciò gli immobili alle spalle, chiuse gli occhi camminando così per una cinquantina di i. Avvertiva il pendio salire dolcemente; l’erba sotto i piedi, solo l’erba; morbida e silenziosa come la donna ideale nei sogni di molti uomini. Stette ad occhi chiusi con il mento alzato annusando l’aria fredda; respirava a pieni polmoni, con consapevolezza; la mente sgombra; si beava di tale semplice purezza. Dan… dan… dannnn... Sul muro esterno del lato più piccolo rivolto verso il bosco,vi era appesa una piccola campana protetta da un tettuccio sorretto da due legni obliqui infissi nella parete; battendo quella con una mazzetta di legno, Velia diede la squilla al marito che stava al lavoro nel bosco. I tre tocchi furono morbidi, tutti eguali e ben distanziati; era il segnale tanto atteso da Marco, significava che il pranzo stava per essere messo in tavola e considerando i circa dieci minuti occorrenti per percorrere la discesa, arrivava giusto in tempo per mangiare subito senza aspettare. Ci teneva molto, raccomandava sempre alla moglie prima di salire lassù di non
farlo aspettare. Si alzava presto al mattino, senza dover lottare col desiderio di rimanere sotto le coltri, questo fin da bambino; appena notava un accenno di chiarore via, fuori le gambe dal letto e giù; accendeva il fuoco e metteva sopra un paiolo con l’acqua per lavarsi. Subito dopo scendeva anche la moglie, preparava la colazione sostanziosa di sempre, con gesti meccanici ripetuti migliaia di volte; se la si bendava avrebbe espletato la sua mansione senza nessuna difficoltà. Marco era convinto che la fase migliore per il lavoro la si aveva dal mattino presto fino a mezzogiorno; si era più stimolati, il tempo ava più in fretta, si aveva più forza, insomma, si rendeva di più, si eseguivano i lavori più faticosi. Per contro, nel pomeriggio tutto procedeva in maniera più lieve, non c’era più il carico pesante del mattino; man mano che la giornata volgeva al termine l’impegno si ammorbidiva, le pause si allungavano, pur rispettando l’onestà di fondo del lavoro; pensava a preparare il lavoro per il domani. Dopo il calar del sole rientrava e prima che fe buio Velia preparava la cena. Si direbbe una vita monotona, una quotidianità assillante che dà l’impressione che non sia mai finito niente; una ripetizione di avvenimenti, gesti, scadenze senza emozioni; un retaggio ancestrale subito ivamente senza neppure la rassegnazione, nella più totale indifferenza; un’esistenza che renderebbe ancora più pazzo il più pazzo dei pazzi. La giornata di Alberto e quella di Marco sembravano separate dall’universo; quella del primo che fa gola a tutti, quella dell’altro da fuggire. Ma è di certo così, sì? Se così fosse Alberto non sarebbe lì e neppure Marco. Perché il conte sente il bisogno di salire lassù e l’altro non se ne va? Se per Alberto la risposta può essere spontanea, ovvia, scontata; non così per Marco. Si sa che fin da piccolo era stato abituato all’azione, prima di tutto per necessità oggettiva; vivendo in povertà non possedeva nulla, se non la volontà, la tenacia, la fiducia, l’ottimismo, il buonumore, l’onestà, la lealtà, il realismo, la fedeltà
alla famiglia: tutte virtù. E le praticava. Inoltre era stato educato con molta semplicità e altrettanta efficacia alla religione, alle cose di Dio. Accoglieva tutto come un dono; non possedeva nulla ma aveva quanto gli bastava. Ai primi di marzo seminava il lattughino, aspettando con ansia che spuntasse; dopo aver bagnato il terreno dell’aiuola al mattino, lo scrutava con attenzione; guardava giorno dopo giorno fino all’emissione delle prime piumette; allorché le scorgeva si stupiva come un bambino, felice del miracolo che ogni anno si ripeteva. A volte prendeva uno di quei piccolissimi semi delle dimensioni di una ciglia e lo spezzava; dentro non vedeva nulla, eppure c’era la vita. E si meravigliava. Uditi i rintocchi Alberto aprì gli occhi e guardò in alto la gobba scura del bosco; decise di avviarsi verso il limite della radura salendo a i lenti; si stava familiarizzando coll’ambiente, che se pure lo conosceva bene, la lunga assenza da esso lo faceva apparire quasi come nuovo, comunque diverso. Si sentiva felice di quella situazione, incominciava a prendere possesso della sua proprietà. All’improvviso Marco uscì dal bosco come un attore da dietro le quinte appare sul palcoscenico di un teatro. “Oh signor conte, buongiorno; che bella sorpresa, come state?” “Buongiorno Marco, sto bene e tu?” “Bene, sì sì, bene. Rimanete un poco al podere?” disse mentre si avvicinava, e a breve distanza si tolse il cappello e chinò il capo in segno di saluto. “Sì, riparto giovedì trenta, dopodomani. Mi sono preso questi due giorni prima di fine anno, poiché ho un impegno per l’ultimo. Velia sta riassettando la piccola”. “Sono contento signor conte, ci si fa un poco di compagnia, se ciò vi garba; ma non desideriamo prendervi tempo, quello è vostro, o impegnarvi in alcun modo; disponete di noi come vi vien comodo”.
“Non preoccupatevi di me. Ora scendiamo, sarai affamato”. Percorsero uno in fianco all’altro il dolce declivio che conduceva al casale; dal comignolo usciva un fumo denso, grigio chiaro che saliva verticale per qualche metro, per poi dissolversi nell’aria fredda e tersa in mille forme e direzioni diverse, spandendo tutt’intorno il penetrante profumo della legna secca arsa. Il caldo del locale li avvolse come in un abbraccio materno, riscaldando soprattutto il cuore; il profumo del desinare fumante nelle scodelle appena poste sulla tavola era intenso ed invitante. Si lavarono le mani, le asciugarono, quindi presero posto al tavolo messo di fronte alle due finestre. Il pavimento era in cotto a forme rettangolari sistemate in file sfalsate color rosa rossastro; una credenza appoggiata alla parete di rimpetto alle finestre e una panca in fianco al camino completavano l’arredamento spartano, essenziale. I due coniugi erano un poco più avanti di età rispetto al conte; si trovavano al podere da circa dieci anni, senza aver mai dato pensieri o creato problemi; avevano due figlie e un figlio sposati. Erano nonni di tre nipotini, due femminucce ed un maschietto. Lavoravano entrambi mantenendo la proprietà del conte autonoma e autosufficiente in tutto. Marco eseguiva molti lavori di sua mano; si arrangiava come carpentiere, fabbro, muratore; difficilmente chiedeva aiuto al vicinato, se però era richiesto da altri non lesinava nulla a nessuno; era generoso, pensava “oggi hai bisogno tu, domani posso aver bisogno io”; chi lo può sapere? Conducevano il podere con la formula della mezzadria; ciò gli permetteva di vivere tranquillamente, in modo decoroso, dignitoso. Dall’altra parte Alberto non li assillava, era importante che tenessero viva l’attività, in ordine i fabbricati e producessero quel tanto che bastava a coprire le spese ordinarie; quello che ne scaturiva in più non era molto, vista anche l’esigua superficie del fondo, ma era comunque ben accetto. “Eccoci finalmente, possiamo iniziare” disse Alberto. “Certo, buon pranzo”, “Buon pranzo”, “Buon pranzo”.
Bisogna osservare che i due raramente avevano visite, in particolare a pranzo, che non fossero i figli; il loro comportamento anche in codeste occasioni non mutava, rimaneva naturale, spontaneo; non nascondevano nulla di loro, si manifestavano così com’erano. E che motivo avrebbero avuto per agire in modo diverso? Nessuno! “Uuhmm, mamma mia Velia, che hai messo qui dentro?” “Che ho fatto signor conte, l’ho fatta male la zuppa? Se così fos…” “No, no” la interruppe Alberto “È eccellente, desideravo solo conoscere gli ingredienti”. “M’avete fatto pigliar paura. È solo una zuppetta di verdura che si fa spesso e cambia a seconda la stagione come manda”. “Un goccio signor conte?” “Sì, certo Marco. È sempre di quello?” “Sissignore è sempre ‘l nostro; scusate, il vostro”. “Il nostro, il nostro” confermò il conte. “Dunque Velia?” “Ah ecco, dicevo che l’è tutta verdura nostra, vostra inten…” “Vostra, mia, nostra… è di chi se la pappa no? Unicuique suum!” “Unqueccocchè?” “Niente, niente Velia, non ti crucciare per nulla. Ora dimmi che c’è in questa fantastica zuppa, di grazia?” “Ah si, dunque… c’è della cipolla rossa, c’è delle carote, del sedano, patate, porro, fagioli coll’occhio, cardi… della bietola da coste, un poco di carne rigata per dare un po’ di sapore e… ah, rape…e basta”, “E… e tre manciate farro, basta”. “Son certo che c’è dell’altro” “Ma no signor conte, è tutto quanto vi ho detto… ah, in ultimo, appena giù dal
foco ha calato nel paiolo un buon trito di aglio e prezzemolo… basta!” “Velia, ti nomino cuoca di palazzo”. Quella aveva dimenticato la zucca ma tacque. “Eh signor conte, per separarmi dal mio omo dovreste comandarmi con un ordine tosto; poi mi sa che non basterebbe, ci vorrebbe l’Arma!” Alberto guardò Marco con aria divertita e interrogativa. “Confermo!” disse quello, e tutt’e tre risero di gusto. Lo stomaco di Alberto da anni non si era mai sentito così a posto. Il suo spirito era come un gabbiano che ad ali spiegate plana dolcemente sul mare piatto. “Ottimo questo rosso, veramente ottimo” “Signor conte, mi trovate d’accordo. Il tempo gli è andato dietro che l’è stata una meraviglia; un mese di settembre bell’asciutto; pure nel torrente c’era solo che un rivoletto largo un palmo”. “Ne volete, ne avete bisogno signor conte? Ce n’è ancora un paio di cento litri suppergiù. Basta che date l’ordine e l’è a palazzo”. “Ma sì, se puoi preparare una brenta da cinquanta mi farebbe comodo, la porto con me quando riparto”. “Va bene, sarete servito”. “Oh Velia, che ci sta ora?” “Signor conte, un poco di caciottina, mezza e mezza vi può andar bene?” “Sì, con grande piacere; hai indovinato ciò che più mi sarebbe piaciuto, dopo codesta stupenda zuppa”. Velia mise in tavola un grande tagliere tondo, ricavato dalla sezione del tronco di un grosso abete, alto circa tre centimetri, con sopra una caciotta intera di latte di capra e mucca; in fianco posò un largo e pesante coltello. Marco si alzò, prese la forma colle dita, la sollevò, guardo anche sotto per assicurarsi che non fosse guasta; la annusò e la rimise sul tagliere. Si volse verso
il conte serrando a cerchio stretto le labbra e movendo su e giù il capo in segno affermativo. “Taglio, signor conte?” “Aspetta un attimo; metto il naso sopra il coltello per sentire meglio il profumo… vai, taglia, affonda lentamente”. La lama divise in due, piano piano, ciò che la natura e l’uomo avevano prodotto in mesi di lavoro, liberando una sinfonia di profumi che Alberto odorava con voluttà. “Toh Velia, avvolgi questa metà nella carta gialla”. “Faccio da me signor conte?” Alberto annuì col capo. Marco taglio cinque fettine dell’altra metà rimasta, le appoggiò piatte sul tagliere e ne pulì i tre lati dalla crosta dura senza toccarle colle dita; ne mise due sul piatto del conte, due sul suo e una su quello della moglie, infilando da sotto la lama piatta del coltello. “Marco, fai come la mangi te” “Come me la faccio io? Va bene signor conte, va bene”. Prese l’orciolo di vetro colla base panciuta ed il beccuccio di svaso parallelo al collo, lungo, semi arcuato in alto e stretto come lo stelo di un papavero; lo inclinò leggermente e ne uscì un filo di olio verde dai riflessi dorati, che avvolse a spirale la caciotta dall’esterno all’interno; tre torciate di pepe nero completarono il piatto che porse al conte. Nessuno parlava, allora Marco per interrompere quel silenzio che si protraeva da parecchio disse: “Come la trovate signor conte, vi garba?” Alberto teneva lo sguardo fisso nel piatto mentre portava alla bocca con venerazione tocchetti di caciotta intervallati da pezzettini di pane; si limitò a sussurrare: “Non rompere questo incantesimo”. In ultimo, Velia portò in tavola un abbondante piatto di castagne arrostite sul fuoco; terminarono così il pasto in scioltezza e allegria, bevendo gli ultimi sorsi
di quel rosso fantastico che si sposava a meraviglia con la caldarroste. “E i vostri figli come stanno, non mi dite nulla?” Rispose Velia “Oh se stan bene! Sono stati fortunati, sa signor conte! Le due bimbe vivon di là a Borgo; si son ben accasate non gli manca nulla. Pure il maschio, che sta qui sotto a Piano. Oh, siam contenti sapete; pure dei tre nipotini; li vorremmo avere più di frequente qui, ma ci si deve pur accontentare no?” “Li si rivede dopo tanti mesi e a momenti non li si riconosce più” chiosò Marco. Alberto li ringraziò per il desinare; si alzò, salutò e uscì. Decise di salire verso il bosco, cosa che fece ando in mezzo ai due fabbricati. Camminava lentamente, colle mani ficcate nei tasconi della giacca pesante; i paraorecchi del cappello lasciati giù senza essere allacciati, ballonzolavano di qua e di là a seconda della cadenza del o. Scorse il sentiero color ocra che si insinuava nella vegetazione, largo quanto basta per far are un carro. Si avvicinò ancora e vide delle assi robuste disposte sopra un fosso, che congiungevano il bosco al prato. Si fermò sopra a quelle pesandosi colle gambe per saggiarne la robustezza, che valutò enorme; “Possono sopportare il aggio di un carro di almeno cinquanta quintali” pensò. Notò che la canaletta era più grande della stima che aveva fatto; misurò a spanne la distanza fra una sponda e l’altra, allargando il mignolo ed il pollice, ricongiungendo questo all’altro che teneva fermo sul legno: ne contò cinque; mentre la profondità non superava il mezzo metro. Guardò di qui e di là del ponticello di assi e vide il fosso sparire; decise di seguirne il percorso dall’interno: comprese cosa aveva fatto Marco. Lo scavo partiva dal basso tra i ginepri e la robinie, saliva all’interno di queste fino al sentiero del bosco, che era ubicato nel punto più alto, per poi discendere dall’altra parte allo stesso modo, perdendosi al di là dei ginepri, completando così l’ellisse. Marco aveva protetto i corpi abitativi e le stalle, site nell’altro
fuoco della radura, da possibili alluvioni, sempre in agguato in luoghi simili; il leggero declivio convogliava le acque piovane verso l’esterno del vialetto di collegamento alla strada principale, disperdendole. “Ingegnoso” penso Alberto “ingegnoso indubbiamente; e senza che nessuno gliel’avesse ordinato; ha agito autonomamente, come se il podere fosse suo; con grande senso di responsabilità”. Ne ammirò ancora una volta l’onestà e la capacità di discernere e quindi di gestire le situazioni in base alle priorità. Si rese conto che Marco, nel suo piccolo, gli stava conservando nel migliore dei modi un gioiellino: un paradigma per le altre proprietà. Ah, se agissero tutti come lui! Ben sapeva che non poteva lamentarsi di nessuno, ma a volte doveva spronare di persona qualche “posa piano”, un tal altro indolente; impartire ordini precisi e chiedere a scadenze definite, puntuali e meticolosi resoconti; poi tutto alla fine si sistemava, più o meno. Sentì gracchiare su in alto, si girò verso il bosco e vide quattro cornacchie nere col petto grigio, uscire dalle cime degli abeti che solleticavano l’azzurro, non allineate e ben distanziate tra loro. L’ampio e plastico movimento delle ali le faceva filar via veloci; sembravano sbucate dal nulla e dirigersi non si sa dove; eleganti e solenni nel loro volo. Alberto rimase fermo ad osservarle fino a quando gli occhi glielo permisero; i quattro puntini neri si fecero sempre più piccoli; percepì un ultimo “cra-cra” debolissimo portato da una folata di vento, poi più nulla, tutto tacque. I suoi pensieri li sentiva come se parlasse piano: “Che faccio ora? Non so , aspetto. Cosa? Non lo so; guardo, sento; cosa sento? Nulla, ma sento; sento il rumore del creato. Sento gli alberi crescere; la talpa scavare le gallerie sottoterra; sento un neonato succhiare il latte dalla giovine mamma laggiù in quel casolare; sento il mesto saluto del sole che si sta appoggiando al crinale. Sento l’amorevole abbraccio del Padre Celeste a tutti i suoi figli, buoni e… meno buoni; sento, sento… sento che m’è presa una gran voglia di fumare!” E lesto si avviò verso la piccola. Si pulì gli stivali grattando la suola sul filo dell’apposita targhetta di ferro infissa con due fermi, parallelamente alla parete a sinistra dell’entrata e distanziata dal muro una ventina di centimetri. Aprì la porta, si tolse gli stivali e reggendoli per le dita entrò.
Il locale misurava circa venti metri quadri, tutto di pietra; nel mezzo un tavolo con due sedie, un letto e una credenza. Spostò leggermente i due ceppi nel camino e ravvivò la fiamma; prese un bel ciocco ben secco e ve lo accomodò sopra; un allegro crepitio provenne dal focolare, il tepore si fece più intenso; le faville schizzarono verso l’alto rigando di fuoco il buio della cappa.
La vigilia
Erano la undici antimeridiane di giovedì trenta dicembre quando la berlina verde lasciò il ghiaietto e percorse il piccolo viale per immettersi sulla via del ritorno. Il cielo era terso, ma già in lontananza, verso occidente, si scorgevano distintamente dei tratti scuri appena sopra l’orizzonte ad esso paralleli. Alberto guardava distrattamente alla sua destra la piccola ombra della carrozza, saltellare su una miriade di sassi al margine della carreggiata e oscurare per un attimo una esigua porzione di verde per poi ridarle luce; si stava quasi addormentando senza rendersene conto. Allora incominciò svogliatamente a pensare; notò che trovava difficoltà a razionalizzare qualsiasi argomento. Si soffermava per breve tempo solo su qualche immagine fugace che il viaggio gli proponeva, ma niente più. Avvertì una netta sensazione poco dopo, allorché la strada divenne piana; non era ancora un pensiero vero, ma lo fece tosto diventare tale. Rifletteva con sempre più lucidità , sul fatto che man mano che si allontanava dal casale, era come se perdesse qualcosa di suo a cui teneva molto; come se qualcuno, con autorità non richiesta, gli stesse sottraendo ciò che gli procurava felicità. Non si sentiva infelice per codesto motivo, e allora perché si trovava in questo stato di… sospensione? Non si decideva a prendere posizione, e per quale ragione? Gli andava bene così per ora, se ne stava in attesa non forzando il tempo che ava: a ciascun momento il suo peso. Posò la nuca al poggiatesta mentre un leggero sorriso gli apparve in volto. ato per l’ultima volta il torrente apparvero le prime case della città, poi più
avanti si fecero più fitte fino laggiù in fondo, dove scorse la porta da cui era uscito due giorni addietro. Oltreata quella si trovò quasi senza saperlo a percepire la realtà in modo diverso; il vaglio aveva maglie differenti, con forme diverse; difficilmente avrebbe trattenuto qualche sottigliezza dei due giorni precedenti, qualche sfumatura catturata allora. Tutto riprendeva la cadenza usata, le solite facce anonime della città, l’abbigliamento scontato per ceto, mestiere, stagione, luogo, ora. Riprese immediatamente coscienza del suo ruolo che aveva in quel contesto; dimenticò definitivamente l’altro. Scese nell’ampio cortile dove la carrozza si era arrestata e andò verso il portico, dove ritto e impeccabile Osvaldo lo salutò “Bentornato signor conte”. “Buongiorno a te, ci sono novità?” “Nulla di particolare se non un telegramma”. “Quando è arrivato?” “Ieri signor conte”. “E per quale motivo non me l’hai fatto pervenire?” “Con permesso signor conte, rispettando le vostre consegne…” “Sì, sì, certo,hai ben agito, hai ben agito. Ho portato una brenta da cinquanta, falla trasportare in cantina, con cura mi raccomando”. “Subito, signor conte”. Alberto si diresse verso l’ampio ingresso; un servitore gli aprì la porta e prese in consegna cappotto e cappello; il conte proseguì in direzione dello studio. Entrato, pose l’occhio sulla scrivania dove giaceva una busta gialla. La aprì subito e lesse il testo del dispaccio: “Confermo nostra presenza cena venerdì stop ossequi principe Olivares di Salamarsina”.
Ebbe appena il tempo di emozionarsi; lo prese fra gli indici e i pollici stendendo le braccia e lo rilesse scandendo le parole. Si sedette sulla poltrona vicino al camino; gustava, si beava, assaporava, si compiaceva con sé stesso; ridacchiava, sbatteva le palme delle mani sulle cosce, allungava le gambe movendo velocemente i piedi, li rimetteva giù. ata l’euforia ritornò in sé, si alzò e abbassò il drappo di chiamata; poco dopo la porta si aprì. “Osvaldo, che c’è per pranzo?” “Zuppa di…” “Lascia perdere, prosegui”. “Maccheroni al sugo di lepre, cacciagione da penna, faraona arrosto; salumi, formaggi; pesce… dovrei vedere; patate stufate, ceci, cannellini…” “Porta mezza faraona, patate stufate, un poco di caciottina di Pienza non molto stagionata, del pane e mezzo di quello che avete portato in cantina. Pranzo qui”. Il servitore si inchinò e sparì. Alberto si alzò e si appoggiò con una spalla allo stipite, allargò le dita distendendole, facendo rimbalzare i polpastrelli gli uni contro gli altri più volte, canticchiando sommessamente e allegramente qualcosa di indefinibile. Guardava i anti ignari e principiava un discorso colla mente a loro rivolto: “Ma sapete voi che siete lì fuori, tu che hai le stanghe del carro a braccetto; tu che tieni per mano un bambino; tu che mostri l’adipe al mondo intero; tu curvo sotto la gerla colma di carbone… ma lo sapete voi ciò che accadrà domani sera nel palazzo dei conti Braccioforte di Gavorrano? Potrete mai…” tuc, tuc. “Il pranzo signor conte”. “Metti, metti lì sul tavolino di fronte al camino. Ah Osvaldo, mia moglie?” “La signora contessa ha pranzato presto in modo frugale; poi si è diretta a piedi
dalle Mantellate. Se desiderate vado ad informarmi meglio”. “No, no, non importa. Ma dimmi… come ti è parsa? Intendo come umore”. “Uhm… uhm… l’umore di una donna è perlopiù imperscrutabile quando costei non vuole palesarsi. La signora contessa, se mi concedete licenza, mi è parsa… ecco, rammentando in che modo… non mi è parsa di nessun umore signor conte; chiedo scusa se non vi sono stato di grande aiuto”. “Capisco, non ti crucciare inutilmente, d’altro canto non è compito tuo sondare l’umore della contessa e neppure t’ebbi lasciato nessuna consegna in merito. Puoi andare”. La porta si richiuse, Alberto fece un ampio giro dello studio poi si sedette. Scoperchiò, ammirò, annusò, prese, versò, bevve, tagliò, inforcò, mangiò con gusto. Dopo aver bussato Osvaldo entrò nello studio. “Il conte Emilio chiede di voi”. “Vieni, vieni pure avanti Emilio”. “Oh, mi spiace, non volevo interrompere il tuo pranzo”. “Non fa nulla fratello, ho giusto terminato ora. Accomodati e ragguagliami dei due giorni ati, ti ascolto”. “Fino ad ora è filato tutto liscio come l’olio Alberto, tutto secondo programma senza nessun intoppo. Sono soddisfatto, oooh!”. “Bene. Allora dimmi qualcosa in merito”. “Sì, sì certo. Dunque… ah, i tavoli, sì i tavoli, iniziamo da quelli. Quattro tondi da otto posti…”. “Otto posti co-mo-di, vero Emilio?” “Certooo, certo fratello! Devi sapere che mastro Bernardo li ha costruiti mezzi maschi e mezzi femmine, otto metà; poi una volta portati dentro la sala ha
inserito i quattro terminali maschi nelle apposite aperture dell’altra metà congiungendoli; formando così quattro tavoli rotondi da otto posti co-mo-di, con un diametro che supera di poco i due metri. Poi, si è accucciato sotto e ha fissato le giunzioni con delle viti; risultato? Ampi e solidissimi, di grande effetto e sembra più grande pure la sala”. “Bravo Emilio, bravo, hai agito molto bene. Poi, li disporremo come ho in mente”. “Eeeh, che sarà mai, per approntare quattro tavoli, che ho fatto di speciale?”. “Che sarà mai? Lo vedrai coi tuoi occhi Emilio, domani sera. Ciò che succederà qui dentro lo saprà tutta la città il giorno dopo; ci sarà profonda risonanza anche presso la coorte reale; saremo ben menzionati dalla Alpi alla Sicilia… dal “Manzanarre al Reno” daranno onore al casato dei Braccioforte conti di Gavorrano. Nostro nonno ne sarà ben lieto”. Il silenzio li avvolse per un bel po’. “Emilio, ora ti fò una sorpresa! Chiudi gli occhi, quando ti dirò di aprirli leggerai ciò che vedrai, d’accordo?” “Va bene, va bene… ma che è?” “Chiudi gli occhi!” Alberto aprì il cassetto della scrivania, tolse il telegramma, lo spiegò e lo mise davanti al viso del fratello: “Apri!” “Confermo nostra presenza… venerdì… principe di Salamar… sina” “Oooh, oh Alberto, mai carme fu più soave di questo dispaccio; mai i miei padiglioni auricolari accolsero simil delizia; oh, oh… Dante telegrafico; oh, dispensatore di gioie, gaudio universale; oh…” “Scendi per terra Emilio e falla finita! Festeggiamo?” “Sìii, sì fratello, festeggiamo, diamo spazio al nostro animo lieto; lasciamolo volteggiare dove gli pare, non poniamogli limiti; oh, Dei dell’Olimpo…”
Alberto lasciò che l’altro esternasse tutto ciò che aveva dentro, a patto che non fosse come quella volta che tornò da Napoli. Mise il muso fuori dallo studio e ordinò ad alta voce: “Osvaldo, del vin di Porto e dei marroni sotto spirito”. Emilio camminava ancora sollevato da terra, non era ancora sceso, aveva un viso angelico, beato; declamava odi, poesie “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa… e il naufragare m’è dolce in questo mare”. Pronunciate queste ultime parole cadde come un sacco sopra una poltrona di fronte al camino. “Posa qua sopra Osvaldo, si qua, va bene”. “Ora metti su legna, carica il camino, fagli fare un bel fiammone e sopra ci metti quei legni più piccoli e secchi; si deve udire il crepitio fin dentro la Fortezza”. Alberto prese la bottiglia di cristallo a collo lungo, sollevò il tappo di chiusura e versò nei bicchieri da liquore un poco di quel vino profumatissimo. “Leviamoci in piedi Emilio, ecco così; alziamo in alto i calici e brindiamo. Al nonno”. “Al nonno!” tuonò Emilio “e… e al babbo”. “Al babbo?! E che ha fatto?!” “Beh, anche se non ha combinato nulla ci ha messi al mondo no?” “Il babbo?! Ci ha messi al mondo?! La mamma vorrai dire, quella santa donna. Lei ci ha generati! Oppure credi diversamente Emilio?” “No, no, no. Confermo! Ma… intendo dire… in codesto momento solenne di celebrazione, te la sentiresti di escludere il babbo? Sarebbe come cancellarlo dalla memoria, disconoscerne la continuità; insomma, è pure figlio di nostro nonno no? Oltre che essere nostro…” “Va bene, va bene. Allora si fa in codesto modo Emilio: primo brindisi al nonno, poi al… sì, al babbo, poi alla cara mamma; ti garba ora?” “Sì, Alberto, li faremo tutti contenti. Sai, quando… si è terminato di qui e… si
va di la… dico, non ci sarà più… tu mi capisci vero?” “Nooo!” ribattè secco l’altro “non ti capisco una mazza!” Pronunciò queste parole percorrendo di corsa un giro dello studio e compiendo più volte, con grande evidenza, un gesto scaramantico colla mano abbassata sul cavallo dei pantaloni. Scoppiarono in una fragorosa risata e si risedettero. “Il brindisi, il brindisi, dobbiamo brindare Alberto!” Si levarono di nuovo in piedi ritti “Al nonno!”, “Al nonno!” Glubb! Glubb! Il vin di Porto discese a riscaldare gli stomaci comitali. Si sedettero di nuovo soddisfatti e tronfi. “Oh, che piacere… che bello, quanta gioia” disse con solennità Emilio mentre l’altro annuiva col capo. “Ora ci sta ben bene un buon marrone, no Alberto?” “E sì che ben ci sta, prendi, prendi pure anche per me”. Dentro una vaschetta di porcellana stavano a mollo, in una soluzione di alcool e zucchero, delle grosse castagne dette appunto marroni, con sopra tre foglioline di menta. Emilio ne pescò due con un grande cucchiaio, avvicinò il piattino del fratello e le pose sopra; ripeté l’operazione anche per sé. Con una piccola forchetta ne fecero quattro metà e una la portarono subito alla bocca. Avvertirono immediatamente una vampata di calore alle mucose, la lingua sembrava enfiarsi al pari di quella di un bue, le guance pulsavano. “Emilio occorre un altro brindisi, presto!” “Ci vuole, ci vuole; anche per attenuare questo fuoco che sento in gola”. “Non crucciarti, al secondo boccone andrà meglio, vedrai”. Si allontanarono comunque dal camino, che all’acme della sua potenza, emetteva lampi giallo aranciati tutt’intorno e un calore intenso, che aggiunto a quello
procurato dal vino liquoroso e dallo spirito era insopportabile. Emilio empì i due cristalli, uno lo porse al fratello; si alzarono e con un gesto d’intesa esclamarono all’unisono “Al babbo!” Glubb!, glubb! Si risedettero soddisfatti guardando distrattamente il poderoso fuoco che si sviluppava nella bocca del camino; i legni si stavano ben assestando ed iniziava a formarsi il cuore, dove il rosso si fa più incandescente fin quasi a tendere al bianco. Ma ciò che più attirava inconsciamente la loro attenzione era il movimento ascensionale, repentino ed imprevedibile delle faville. Emilio in particolare, si cimentava nel tentare di scorgerne una al suo formarsi e seguirla; fissava un punto qualsiasi e rimaneva in attesa, ma un’altra, partita poco distante ne distoglieva la fissità e spariva subito inghiottita dalla cappa. “Ti ricordi Alberto quando da piccini salivamo a balia su verso il giogo, da… da… come si chiamava…” “Camilla, si chiamava Camilla; stava su a mezza costa dopo “l’hostaria della bruciata”, mi pare”. “Allora ella, Camilla, ci faceva sedere sulla panca dentro il camino e ci raccontava di quelle storielle per farci star boni: “Dovete sapere bimbi, che tant’anni indietro, in un paese del Mugello, abitava una bellissima fanciulla di nome Orsolina; aveva i capelli color del grano e gli occhi color del cielo. Tutti i giovin le facevano la corte, ma di uno solo s’innamorò. Quand’ebbe l’età da marito si fissarono le nozze. Ed ecco un giorno, mentre era intenta a lavare i panni nel torrente, vide la figura di un cavaliere riflessa nell’acqua. Alzò lo sguardo e rimase estasiata da quella visione meravigliosa. Su di un cavallo bianco bardato in velluto cremisi, montava in arcione uno splendido giovine nobile avvolto in un mantello rosso, come il foco, e sul capo portava un cappello piumato a falda larga pure rosso. Il cavaliere la guardò fissa in volto e con voce roboante la chiamò “Orsolina!”. Ella s’impaurì, ma si fece forza, chinò il capo e disse timidamente “Messere, come fate a conoscere il mio nome?” Il nobile scese da cavallo e le rispose “Lo conosco perché tu sei la giovine più bella di codesta terra. Son venuto per portarti nel mio regno e sposarti”.
Orsolina fu ammaliata da tanto splendore, ma pure un poco turbata dal misterioso giovine; tuttavia avvertì una forza occulta spingerla verso di lui, che nel frattempo le aveva porto la mano per aiutarla a montare in sella. Nel compiere codesto movimento allungò un po’ troppo il braccio ed il lungo mantello si sollevò da terra. Orsolina nello stesso istante ebbe lo sguardo rivolto in basso e vide spuntare dall’orlo del mantello… due piedi d’oca e subito dietro una coda simile a quella di una capra. “Il diavoloooo!!!” urlò con tutto il fiato che aveva in petto e fuggì verso il bosco. Il cavaliere, cioè il diavolo, montò a cavallo e la inseguì di gran carriera; la ragazza correva a gambe levate, il cuore le scoppiava in gola ma non si fermò; neppure il diavolo che non voleva perdere codesta prelibatissima preda. Quella continuò a correre ancor più, ma sentiva che le forze ormai le venivano meno; il diavolo si avvicinava sempre più, la stava per raggiungere. Orsolina raccolse le ultime energie che le rimanevano e corse più veloce, sentiva il diavolo vicinissimo, era perduta, non c’era più speranza; ancora due i poi all’improvviso dovette arrestarsi sull’orlo di un precipizio… era la fine. Il diavolo fece spuntare due ali nere al cavallo, che era divenuto tutto nero pure lui; non indossava più il lungo mantello rosso come il foco, ne il cappello piumato con la falda larga, si mostrava così com’era adesso che era stato smascherato. Aveva sopra la fronte due corni appuntiti rivolti all’indietro, una faccia schifosa e repellente, due occhi di foco neri; una barbetta nera appuntita, i denti come quelli di un cinghiale, le unghie come artigli e con quelli la stava per ghermire, mentre spiccava un grande salto col suo cavallo. Orsolina allora, con un ultimo sforzo si gettò nel vuoto. Morì ma ebbe salva l’anima. Ecco, mai i bimbi e le fanciulle debbono rivolgere la parola agli sconosciuti”. Rammenti Alberto? … eh Alb… s’è addormito”. Si versò un altro po’ di vin di Porto e lo sorbì lentamente; guardò il fratello riposare, poi ancora le faville; infine s’addormentò pure lui. Alberto non sognò nulla, il suo sonno fu breve ma intenso, ristoratore. Aprì gli occhi e subito prese coscienza, ben sapeva dov’era e cos’era successo; guardò verso la poltrona del fratello; “S’è addormito” mormorò.
Emilio si sentiva le gambe legate, faticava sempre più a muoverle, mentre doveva correre, correre sempre più forte poiché il diavolo lo stava per raggiungere. Doveva compiere sforzi enormi ma non demordeva; sentiva il fiato sulfureo sul collo. Un piede gli s’impigliò nei rovi, fece forza ma non riuscì a liberarsi; vide il diavolo faccia a faccia, fu terrorizzato “T’ho preso, sei mio, ti porto all’infernooo… ah, ah, ah”; si sentì prendere per un braccio, allora con un urlo agghiacciante e uno scatto felino tentò di azzannargli la mano. “Eeeh, oooh, aoohlla!” inveì Alberto spaventato mentre ritirava lesto l’arto. “Sei impazzito, fratello? Sei tutto d’un tratto divenuto antropofago? Di un congiunto pure? M’hai fatto paura!” Emilio lo guardò con aria confusa, era abbacchiato. “Scusa, scusa sai… ehm stavo sognando… l’Orso… li… cavallo nero… pizzetto”. “Ma che farnetichi, cosa diavolo stai…” “Ecco sì, lui, pure lui… quello pure c’era; era lui che…” “Macchiii lui? Dove, cosa?” “Niente, nulla nulla, tutto ato… un incubo” “Oh bene, tutto finito eh? Sicuro Emilio? Ne sei certo?” “Sì, sì, certissimo… sai, prima quando ti raccontai… il dia… la fanciulla… il cavallo coll’ali… piedi d’oca…” “Oooh! Aaooh! Ma non l’è mai finita codesta storia? E allora, diamine! Se hai qualcosa da dire dilla, ma che non sia una cruscata… o devo farti benedire da padre Patrizio!” “Nooo, nooo! Mi sono scordato di lui nooo… Emilio, pure a te non t’è saltato per la mente?” “Eh no! Purtroppo no! Accidenti… accidenti!” “Non fa nulla, ci andrò ora, subito, dal padre… e in un modo o nell’altro lo sistemeremo in qualche tavolo”.
“Sì, Alberto, lo sistemeremo di certo padre Patrizio, lui non può mancare; tutti gli altri sì, ma lui no”. Alberto, che intanto aveva posato la mano sulla maniglia della porta, gli diede un’occhiataccia “Farò in modo che il padre ti benedica, anche dal convento la sua benedizione sarà efficace”.
Padre Patrizio
Uscì camminando velocemente a testa bassa, senza pensare a nulla; mentre la luce del giorno si faceva più debole. Era un po’ agitato, aveva fretta d’incontrare il padre, di comunicargli l’invito, scusandosi per il ritardo. In breve tempo fu d’innanzi al portone del convento dei padri Scolopi; strinse la maniglia della camla e tirò verso il basso “dengdeng-denglendìndondòt…” si ruppe la catenella e rimase col ferro in mano. La porticina si aprì “Oh conte Alberto, qual buon vento… entrate… vedo che vi siete affezionato alla maniglia della camla, potete tenerla come ricordo della visita… ma accomodatevi, prego entrate”. “Scusate padre guardiano, farò sistemare tutto, anzi no, farò mettere tutto a nuovo; padre Patrizio, subito, con urgenza”. “Ma l’è l’ora del Vespro, c’è la recita comunitaria in corso”. “Aspetterò, aspetterò. Appena terminata avvertitelo subito”. “Come desiderate signor conte, anzi, mi faccio tosto vedere e lui capirà di certo senza bisogno che gli si parli”. Alberto non si sedette, ma eggiò lentamente colle mani dietro la schiena, impaziente; anche quella breve attesa lo teneva sulla corda. “Magnificat anima mea Dominum, et exultavit…”. Giunse alla sue orecchie l’inno che la Vergine Maria pronunciò allorché vide la cugina Elisabetta. “Ci siamo quasi” pensò “finalmente!”. Patrizio apparteneva all’ordine dei padri Scolopi, fondato dallo spagnolo San Giuseppe Calasanzio a Roma, a cavallo fra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo. Era molto anziano, piccolo di statura, minuto e curvo, mite e sempre disponibile.
Aveva conosciuto il nonno Emilio, battezzato Alberto ed il fratello; rimase sempre vicino alla famiglia in ogni occasione, specialmente allorché sopraggiungeva qualche difficoltà, non si era mai defilato. Aveva un forte ascendente sui due fratelli, dispensava consigli, indirizzava per il meglio taluni comportamenti non ortodossi. Quelli ricorrevano volentieri a lui ed egli non tradiva mai, era sempre fedele; colla sua saggezza illuminava la loro vita. Eccolo che arriva, col o lento e appoggiato di chi fa fatica a camminare; le mani stringono il breviario vicino al ventre, il collo leggermente torto, il mento abbassato, il sorriso contenuto di sempre. “Padre, padre Patrizio; come state padre?” “Figliolo…” staccò la destra dal libro dell’Ufficio Divino, la alzò e tracciò lentamente il segno della croce nell’aria guardandolo fisso negli occhi. Alberto si avvicinò, s’inginocchiò e gli baciò la mano. Il padre lasciò fare; anche se non approvava tale gesto, non impedì la sua libertà di espressione, convinto della sincerità che lo animava. Si sedettero su una panca uno in fianco all’altro rimanendo in silenzio, eppure comunicavano a loro modo. “Padre quante cose ho da dirvi; son venuto da voi per un motivo preciso, ma ora, qui dentro, mi trovo in un’altra dimensione; ho dimenticato tutto o meglio, ho lasciato fuori tutto il futile, l’inutile; mi premono le cose vere, quelle che contano… vorrei…” “Alberto, figliolo, perché così agitato? Non ne vale la pena, calmati, confida in chi ti è Padre”. Il conte iniziò per primo “Padre, venerabile padre, avremmo immenso piacere e desiderio, se domani sera vorrete avere la bontà e la compiacenza di essere nostro ospite…” e gli descrisse in breve la cena, il motivo, gli ospiti, tutto quanto. “Alberto, figliolo caro… vedresti la figura che ti sta davanti, in mezzo a sì tanta eleganza, nobiltà, sfarzo? Ti chiedo un gesto di amore, di carità; so che comprenderai”.
“Padre amatissimo, la vostra presenza ci onorerebbe più di ogni altra; ci infonderebbe fiducia, sicurezza, protezione…” e iniziò ad esporre una lunga sequenza di dubbi, preoccupazioni, incertezze, timori, ansie, paure, trepidazioni che abbracciò tutta la sua esistenza. “Figlio carissimo, la comunanza di valori, la condivisione di principii, la fratellanza in Cristo, annullano spazio e tempo. L’apostolo Paolo esortava così gli abitanti di Filippi “Siate sempre lieti nel Signore… Non inquietatevi di nulla; ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre necessità con preghiere, suppliche e azioni di grazie. E la pace di Dio, che sora ogni intelligenza umana, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.” Ricorda più volte codeste parole figliolo, saranno la tua difesa. Ora va in pace, la Vergine Santa ti protegga”. Alberto riverì, ringraziò, si girò e si avviò verso il portone. Durante il ritorno verso casa pensava alle parole dell’apostolo delle genti fatte pervenire ai Filippesi. “Preghiere, beh sì certo, lo so che sono; qualche volta le recito pure… però, basta? Suppliche… supplicare… chiedere con insistenza… ma nooo; oppure, ecco, ti supplico… amore mio ti supplico; chiedere con, con strazio, in modo struggente, no, no, no… con pietà, chiedere con pietà; nemmeno, ma che dico; eppure non son troppo lontano dalla definizione esatta. Azioni di grazie: ringraziamenti, ciò che mi viene in mente d’acchito. Allora grazie tante eh? No, non può essere, troppo semplicistico… però un fondo, una radice comune esiste. Grazie! Ti sono grato ecco…sì ma… basta solo pronunciarlo, cioè ammetterlo? Ma perché si dice -grazie-? Cosa sono le grazie? Beh, quelle delle giovin e carine fanciulle non c’entrano per nulla in codesto contesto, ci mancherebbe. E allora? Urge un esempio, eccolo. Elvira mi porti la borsa del tabacco per favore? Subito Alberto, eccola. Grazie Elvira. Ma perché ho detto grazie… che vuol dire, qual è la semantica… semantica?! Accidenti che m’è venuto, non sapevo di avere nel mio bagaglio tale vocabolo; e bravo, so’ bravino eh? Dunque, gratitudine, sentimento di… di… di che? Oh sta a vedere che la parola più facile delle tre diventa la più misteriosa; mi avvicino alla definizione, sembro afferrarla, poi brancolo nel nulla! Dunque Elvira, m’hai portato la borsa del tabacco e giustamente ti ho ringraz… perché insomma tu m’hai fatto un favore no? - essì che te l’ho fatto Alberto - ecco, appunto, vedi che ho ragione? E poiché m’hai favorito io t’ho ringraziata: pari! No eh? Non è ancora impattata, lo
sento che non lo è. Dunque! Dunque no, sennò siamo d’accapo. Accidenti! Elvira, m’hai portato il tabacco: ti voglio bene! Ah, ah, ah! Ma non è possibile, non esiste; allora se non me l’avresti portato, per sillogismo… urkh! E due! Non ti avrei voluto… impossibile, impossibile! Elvira, Elvira ascolta bene… tienti pur la borsa del tabacco che sto uscendone pazzo!” Ormai la sua mente vagava senza più nessun controllo; l’aveva molto sollecitata e aveva ancora più smania di prima. Gli diede in pasto i numeri, poi le odi, i nomi delle vie. Ebbe paura. “Basta, basta, devo tenere a bada il mio cervello; ma che mi sta succedendo? Sembra che non appartenga più a me”. Una sensazione mai provata. Girò a sinistra in via Guelfa, si calcò il cappello in capo, affondò le mani nelle tasche e si diresse a testa bassa e a lunghe falcate verso casa; girò di scatto nell’androne… sbonnkk! “Aaahgg! Mi hanno ammazzato!” Per terra giaceva supino, su un letto di spartiti, il maestro di cappella. “Maestro, maestro scus… come vi sentite? Vi siete fatto male?” Silenzio preoccupante. Nulla. Silenzio angosciante. Qualcosa simile ad un suono indecifrabile si udì provenire da dove era steso il maestro; il malconcio mosse leggermente le dita della mano destra, poi quelle dell’altra; con uno sforzo tentò di alzarsi sui gomiti; emise un lamento simile ad un belato e ci riuscì con molta fatica. Aprì gli occhi, guardò in faccia al conte, quello guardò in faccia a lui. Rimasero muti a scrutarsi come due esseri provenienti da mondi diversi, che vengono in contatto per la prima volta; si esploravano a vicenda. “Egregio maestro” mormorò delicatamente il conte. “Che è sta… son vivo… i violini… ho inghiottito l’ancia?… chi ha suonato il gong? Oh signor conte… siete stato voi a dare il colpo al gong?” “In un certo senso… maestro… in un certo senso”. “Sento picchiare in fronte, voi no signor conte?”
“No, caro maestro, ma vi comprendo benissimo” “Trovo tutto strano sapete signor conte? Non riesco a capire perché son qui, in questa posizione; non è mia consuetudine. Poi tutto codesto disordine; sono scrupoloso nel mio lavoro, non transigo e… perché son qui?” Alberto riuscì con molta cautela ad accompagnarlo nel suo studio. “…e mentre voi uscivate tranquillamente io entravo con la furia di un toro a testa bassa; nessuno dei due ha visto l’altro e abbiamo cozzato. È andata così, ve lo giuro maestro”. “Vi credo sulla parola signor conte, non mi sono accorto di nulla… come va la mia fronte, di grazia?” “Il bitorzolo sta crescendo. Buon segno, buon segno maestro. Se esce tutta la botta è un bene, dentro non rimane nulla e non lascia conseguenze. Ma ora bevete un poco di brandy che vi farà bene. Vi faccio compagnia”. Versò il liquore in due bicchierini, uno lo porse al musicista e l’altro lo tenne in mano. “Alla vostra maestro. Prosit!”, “Prosit!” ripeté quello e vuotò d’un colpo il bicchiere, mentre Alberto con una rapida mossa senza farsi vedere, gettò il contenuto nel camino. “Svuoouàmm!” un poderoso fiammone giallo uscì da quello tanto che assomigliava più alla bocca del drago di San Giorgio, andando a lambire le vestimenta del maestro di cappella, procurandogli un forte spavento. “Signor conte, era meglio che mi sfidavate a duello, sarebbe stato più breve il tormento, m’avreste finito in un attimo”. “Vi chiedo umilmente scusa maestro, sono desolato, affranto, per i guai che vi ho arrecato… ehm… un altro po’ di brandy per questo ultimo spavento e quando dico ultimo, ultimo dev’essere!” esclamò con tono deciso Alberto. “E sia; non oso disubbidirvi signor conte” intanto si allontanò dal camino a piccoli i laterali andandosi a posizionare vicino alla finestra. Vuotò il bicchiere. “Ditemi maestro, quale era il motivo della vostra visita?” Quello rispose con tono più rinfrancato. “Oh si certo. Son venuto per controllare
l’acustica della sala grande, per verificare assieme a voi la posizione dei musicisti e per proporvi una mia idea! Poi, non avendovi trovato a palazzo, me ne sono andato o meglio, stavo… staaavo per andarmene, quando all’improvviso…” “Avete udito il suono del gong” lo interruppe Alberto. “Ecco appunto, ma non fatemici più pensare”. “Allora non pensateci più! Andiamo, venite maestro, andiamo a fare tutte le prove e le misure che ritenete più opportune per la felice riuscita della vostra prestazione”. “Con piacere, vi seguo signor conte”. Alberto camminava senza saper con precisione dove si stava recando, si sentiva alquanto “strano”, precisamente da quando era uscito dal convento. Che sensazione ineffabile! “Eccoci qui, a voi , procedete colla massima libertà”. L’altro iniziò subito a percorrere a o lento, in lungo e in largo, tutta la sala, battendo di tanto in tanto la mani e ascoltando il suono con il capo leggermente reclinato. Tale prova prese parecchio tempo e il conte era evidentemente spazientito, ma non osò interrompere l’andirivieni e il battimani. Improvvisamente, il maestro si fermò; si rivolse verso il conte con aria compiaciuta. Alzò il braccio destro piegando l’avambraccio fino a formare un angolo retto, e l’indice ritto; guardò in una direzione e stese in quella il braccio pronunciando a voce alta: “Là, ci piazzeremo là signor conte, là; quella è la posizione ideale, l’optimum, per far si che il suono abbia la massima efficacia e raggiunga tutti colla stessa intensità. Là.” indicando con enfasi l’angolo di sinistra più lontano rispetto all’entrata. Rivolse lo sguardo al conte rimanendo col braccio teso, un sorriso da ebete ed il bernoccolo più gonfio, in attesa di un consenso. Alberto lo guardava senza dir nulla, non desiderava dir nulla, lo guardava
semplicemente. Poi provò un senso di disgusto, gli venne la voglia di prenderlo a sberle; lo vedeva come una figura alienante, sempre fermo imbalsamato in quella posizione provocatoria. Lo odiò, sì, lo odiò profondamente; era eziandio quel sorriso stupido a suscitargli pulsioni… omicide! Pensò “Ora lo strozzo, non m’importa nulla di nulla, lo strozzo, lo strozzo, lo strozzo!” Quello sempre lì fermo, neppure gli occhi moveva, sembrava in apnea; aspettava, aspettava, aspettava ancora. L’odio aumentò a livelli incontenibili, doveva sfogarlo, si sentiva soffocare, l’aria gli mancava; un tremolio diffuso s’impadronì delle sue membra. Da molto tempo teneva gli occhi fissi e sbarrati su quella figura inerte col sorriso da ebete, sempre più stagliata e luminosa sul resto della sala che si offuscava vieppiù. Si decise. Serrò le mascelle fino a far scricchiolare i denti, abbassò gli angoli della bocca; avanzò molto lentamente, coi pugni serrati aderenti alle cosce e gli occhi strinti. Stava per sfogare tutto l’odio infernale che sentiva dentro. Era ormai a tre i da lui, fissò ancora quel sorriso da ebete… ma no, non era più così… era più contenuto; non stava più ritto, si era un poco curvato; gli sembrava un… un vecchio, sì, un vecchio. Non indossava più la marsina, ma un camicione lungo, nero; il capo leggermente inclinato, il mento quasi appoggiato al petto; il braccio non più teso con l’indice puntato… aveva le mani incrociate sul ventre, e tenevano stretto un breviario. Era diventato… è padre Patrizio che gli sorride serafico. “Miserereee!” urlò con tutta la strapotenza che aveva in corpo “MiserereDomineee!”, mentre cercava di abbracciare padre Patrizio, cioè il maestro di cappella, il quale, come impazzito per lo spavento schizzava da una parete all’altra in cerca di una via di fuga che non trovava, urlando a più non posso, inseguito dal conte “Aiutooo… il diavolo!” Urlava, correva, rimbalzava, saltava, riurlava più forte “Il diavolo, aiutooo… aahg… il diavolooo!”. Osvaldo stava pulendo tranquillamente l’argenteria seduto ad un tavolo coperto da un panno bianco, nell’ammezzato del palazzo. Gli sembrò di udire qualcosa simile ad un suono di tromba o forse a quei fischi che ogni tanto provengono dalla sede della “Leopolda”, provocati dalle macchine a vapore; anche se alquanto lontana, pensò che forse una folata di vento l’avrebbe potuto portare fin
lì. Al secondo “miserere” un cucchiaio gli cadde dalle mani; corse giù dalle scale con insospettata agilità. All’interno della sala dov’erano i due la follia regnava incontrastata; Alberto aveva mutato idioma esprimendosi in greco antico urlando “Kyrie eleison, kyrie eleison” cercando di acchiappare il padre. Quello, il maestro, quando il fiato glielo permetteva sbraitava ora in latino “Miserere me Domineee!”, “Vade retro satana!” “Libera me a malo Domineee!”. In un momento di orientamento scorse la porta in fondo alla sala, vi si diresse a tutta velocità inseguito dal conte, agguantò la maniglia e tirò verso di sé: la porta non si aprì. L’altro gli era addosso “Amatissimo padre…”; il maestro si fece piccolo piccolo come uno gnomo e riuscì a sgattaiolare via; con due zompi fu sopra un tavolo; il conte saltò su di esso per afferrarlo, ma quello, come un grillo, spiccò un salto portando le ginocchia all’altezza delle orecchie. Osvaldo giunse trafelato in mezzo al cortile, si fermò a gambe divaricate, le mani alzate ed i gomiti piegati; assomigliava più ad una figura dell’antico Egitto che non al maggiordomo preciso e compunto qual era prima. “Giagià… Giaaaa… Giagiagianninooo!” non era mai stato affetto da balbuzie, ma tant’è. Nella frenesia di individuare con precisione da dove provenisse quel frastuono tremendo e quindi dove accorrere, saltava girando su sé stesso; pareva uno di quegli orsi che si vedono durante le fiere di paese coll’anello al collo e la catena nelle mani del domatore, che li fa saltare e ballare colle zampe anteriori levate. “Giagiagianninooo!” Finalmente il capo cuoco apparve. Era costui, a dispetto del nomignolo, un omaccione enorme di circa cinquant’anni; in lui tutto era più grosso: la testa grande quanto un cocomero e calva, un nasone rosso sopra due baffoni grigi spioventi; il collo non si notava, rimaneva inglobato nel corpo esagerato, solo un canovaccio annodato a quadri bianchi e blu ne indicava l’improbabile presenza. Aveva le ginocchia valghe, per cui l’interno delle cosce risultava perennemente appiccicato. Indossava dei pantaloni di tela a righe blu e grigie, che ad ogni o urlavano la loro fatica a contenere le natiche straripanti; in quel punto la rigatura sembrava gemere, si allargava fino a far apparire il sedere al pari di una grande trottola. Ma ciò che
destava più impressione erano le mani: indescrivibili, tanto da suscitare terrore solo a vederle. “Che succede Osvaldo!?” rimbombò la sua vociona nel cortile “Mi sembri un tarantolato, che hai fatto? Che è codesto baccano infernale!” “Lililì… lalalaggiù… il dididi… il didi… col cococo… coconte!” “Eh? chi c’è col signor conte?” “A a a… aaa c’è il diavolooo!” urlò Osvaldo. “Il diavolo?!?!” stralunò Giannino. “Aaaahhgg!” il cuoco fece tremare i vetri del palazzo mentre rientrava in fretta in cucina. Uscì da quella a lunghi i brandendo un’enorme mannaia da squarto “Dov’eeeeè! Dove sta il diavolooo!” urlava “Datelo a me che lo faccio a pezziii!” Roteava la grossa mannaia in modo spaventoso, sembrava voler dividere il mondo in due. “Dove sei diavolo! Ti vengo a pigliare… ti faccio a pezzi, a pezzi ti facciooo!”. All’interno della bolgia qualcosa stava mutando. Il maestro, che con un salto a grillo si era liberato dal conte, era corso verso una finestra per fuggire all’esterno. La aprì, ma quella aveva l’inferriata di protezione. La richiuse e si lasciò andare mollemente per terra; aveva ceduto, era ormai vinto, finito, rassegnato. Il conte, dopo aver mancato il maestro per un soffio, era scivolato dal tavolo e si trovava in ginocchio, esausto. Guardò l’altro e gli si avvicinò carponi mormorando “Padre, piissimo padre…” e allungò la mano per afferrarlo. Il maestro non volle guardare, si girò sul lato destro rimanendo immobile; alzò gli occhi e scorse la porta che aveva tentato di aprire. Si risolse di provare il tutto
per tutto. Raccolte le ultime forze della disperazione, con uno scatto fu in piedi e a tutta velocità si diresse a testa bassa contro quella deciso a sfondarla… nello stesso istante in cui Osvaldo, seguito dal truculento Giannino, la stava aprendo dall’esterno… “Spuumpp!” la testa del maestro uscì improvvisa come una palla di cannone e con tutta la forza del corpo che spingeva andò a colpire con precisione il basso ventre di Osvaldo, il quale cadde come morto, senza un gemito. Giannino vide Osvaldo steso esanime ai suoi piedi, nella sala il conte che avanzava a fatica trascinandosi sui gomiti; l’altro che aveva colpito Osvaldo, per conseguenza logica, doveva necessariamente essere il diavolo. Il malcapitato maestro si stava alzando lentamente quando Giannino furibondo lo apostrofò “Allora sei te il diavolo!” Quello lo guardò senza espressione, cogli occhi da cerbiatto, senza proferire parola; chiedeva colla mente a Dio di poter morire in fretta, senza subire un altro supplizio. “Ora ti faccio a pezzi, bastardo!” gli urlò sul naso il cuoco. Colla manaccia sinistra strinse forte l’esile collicino del maestro di cappella; il pollicione arrivava quasi a toccare il medio; lo scrollò per bene, e gli arti, privi di volontà, si mossero disordinatamente al pari di quelli di un burattino. Lo sbatté violentemente a terra tenendolo fermo colla mano calcata sul petto; colla destra stringeva la mannaia da squarto, la alzò in alto inarcandosi all’indietro per caricare il braccio; fece un ghigno orrendo alzando e allargando l’angolo destro della bocca, da cui si scorgevano i grossi denti gialli da cavallo. Urlò l’indicibile. S’inarcò ancora un poco, poi con tutta la forza che possedeva… “Figliolo” sillabò una vocina stentata. “Eheeè?! Che è?!, non vedi che sto per ammazzare il diavolo?” Rispose Giannino senza pensare mentre teneva lo sguardo sul maestro. “Figliolo, posa quell’arnese pericoloso, potresti inavvertitamente recar danno a qualcuno”
“Eccheee inavvertitamente! Apposta!” “Figliolo, ascoltami” proseguì la vocina dietro a lui. Quello si girò, vide e posò la mannaia da squarto. Era un vecchio, col collo leggermente torto, il mento abbassato, il sorriso contenuto e nelle mani incrociate sul ventre stringeva il breviario dell’Ufficio Divino. Padre Patrizio nacque verso la fine del secolo scorso da una famiglia molto povera, e come tutti i poveri, sfortunata. Rimase orfano ancora bambino; fu istruito e si può dire cresciuto, nelle Scuole Pie dei Padri Scolopi. Fu ordinato sacerdote nell’anno della restaurazione e iniziò subito a dare gratuitamente ciò che gratuitamente ebbe ricevuto, insegnando alla gioventù più indigente, abbandonata, un po’ in giro per il Granducato. In quel di Empoli, durante un suo impiego, conobbe nonno Emilio; da allora coltivò codesta amicizia colla famiglia, una delle rare, fino ai giorni nostri. Forse era un predestinato, certo non lo sapeva; aveva un animo buono e la ragione prima per cui era tale, si riscontrava nella assoluta assenza della più piccola malizia. Molto generoso, non conosceva nessun tipo di egoismo, neppure degli effetti personali, per quei pochi che poteva possedere. Dispensava saggezza, essendo privo di futilità. Conservava uno spirito da fanciullo, pur essendo cresciuto in mezzo all’ambizione sfrenata del mondo. Non aveva mai nutrito rancore verso qualcuno, misericordioso con tutti. Possedeva un cuore mite e umile, come comanda Gesù nel Vangelo. Codeste qualità, ma è più opportuno chiamarle carismi, lo portavano ad avere un’intimità di preghiera profonda e fuori dalla norma, trascendente. Durante la celebrazione del Sacrificio Eucaristico quotidiano sembrava estraniarsi; la sua partecipazione era totale, anima e corpo. Si metteva ogni giorno sotto la protezione della Vergine Maria.
Durante la recita dell’”Angelus” s’immaginava di essere presente in quell’umile casa di Nazareth all’annuncio dell’Arcangelo Gabriele. Scrutava il volto della giovinetta, lo vedeva mutare espressione, stupirsi, turbarsi, acquietarsi; “Fiat mihi secundum verbum Tuum” e nacque il cristianesimo. Si preoccupava di imitarla nell’incondizionata fiducia in Dio, che lui da sempre chiamava “Babbo mio”: c’era un motivo! Gli era impossibile decifrare con esattezza ciò che a volte sentiva interiormente; gli capitava in momenti e luoghi più disparati, non dipendeva dalla sua volontà. Era comunque docile a codesti… inviti; non si poneva domande, nessun perché: agiva, forte dell’assoluta certezza di un Dio fedele. Fu così che poco prima dell’ora di cena, mentre sedeva alla mensa, si trovò a are vicino alla nicchia che custodiva l’aspersorio; si fermò, guardò la porticina di legno scuro, la aprì, prese l’oggetto e uscì dal convento. Non sapeva dove andare, ma non ebbe indecisioni, si mise a camminare, piano, appoggiando i i, lenti e cadenzati. Girò a sinistra in via Guelfa senza un motivo, proseguì tranquillo; giunto davanti al palazzo del conte Alberto gli fu tutto chiaro ed entrò. “Grazie figliolo per aver dato ascolto al comando di Dio”. Giannino basito, guardò il padre; nei suoi confronti, grosso com’era, sembrava un ciclope. “Di nulla padre, di nulla… ecco…” Alberto giaceva prono a braccia larghe nel mezzo della sala, vicino allo stemma di famiglia; il maestro di cappella si chiedeva se fosse ancora in vita oppure già traato e stesse osservando la scena dall’alto. Osvaldo diede segni di vita vomitando. Persisteva un silenzio irreale; la battaglia aveva lasciato il segno. “Venite tutti qui figlioli” disse il padre dirigendosi verso Alberto. “Scusate padre, è già molto se c’è dei vivi, come…” “Aiutali tu che hai dimostrato di ascoltare la parola del Signore” . Giannino grugnì, roteò gli occhioni bovini ed eseguì l’ordine.
Sollevò per primo ciò che rimaneva del diavolo, cioè del maestro di cappella, il quale con un alito di voce preso in prestito dall’aldilà disse: “Macellatemi ora signor beccaio, non fatemi attendere oltre”. Lo mise vicino al conte. Poi alzò pian piano Osvaldo, lo guardò in volto e si accorse che aveva le pupille rovesciate all’indietro; “Dev’essere stata la zuccata che s’è beccato là” pensò “e per contraccolpo gli occhi gli si son rovesciati indietro”. Dovette trasportarlo così com’era raggomitolato, non si reggeva; lo depose in fianco al maestro. La scena che si presentava non aveva un senso, una ragione; nemmeno una mente malata avrebbe potuto concepire un simile quadro. Il conte pareva un merlo che all’improvviso si fosse dimenticato come si vola e si fosse spiaccicato al suolo. Il maestro era conciato peggio del cristo deposto del Michelangelo. Osvaldo sembrava un feto cresciuto a dismisura. Giannino pareva riempire da solo la grande sala. Ci pensò il padre. “Inginocchiati figliolo” mormorò. Quello si guardò di qui e di là con piccoli scatti del capo poi rispose: “A mee??” L’altro allargò leggermente le braccia, alzò un poco le spalle e portò il capo in avanti, come dire: “E chi altri!”. Giannino iniziò l’ardua prova, non osando rifiutare. Portò le braccia tese vicino ai fianchi colle palme rivolte a terra; spostò leggermente indietro il piede destro piegando il ginocchio; era come un inchino mal riuscito di un ippopotamo. “Coraggio figliolo, coraggio”. Incominciò a piegare le gambe lentamente, stringendo le natiche per evitare che le braghe esplodessero con forte strepito; la schiena dritta, le braccia avevano brevi movimenti schizofrenici nella speranza di tener sotto controllo il baricentro. Sembrava un giocoliere che tiene in punta di naso una bacchetta su cui rotea vorticosamente un piatto, e fa girare in aria quattro palle colle mani. Poteva essere senz’altro esilarante, se non ci fosse stato da piangere.
Infine le rotule di Giannino toccarono il pavimento. Il padre osservava in silenzio quel piccolo campionario del genere umano; ne provò comione e si raccolse in preghiera. “Babbo mio buono perdonami, sono stato superficiale, non ho avuto la sensibilità necessaria per capire lo stato di pericolo di Alberto; ho pensato che bastasse solo la mia benedizione; perdona la mia insipienza e la mia presunzione. Ma guarda questi tuoi figli che sono in uno stato pietoso, mostra Babbo mio la tua misericordia, mondali dalle loro iniquità; se hanno commesso qualche colpa imputala a me. Grazie Babbo mio per avermi ascoltato”. Tolse di tasca l’aspersorio e iniziò a benedire tutta la sala, le pareti, gli angoli, il camino, le finestre, le porte; infine asperse pure lo stemma di famiglia, rimanendo ad aspettare che l’acqua benedetta asciugasse onde evitare di calpestarla. Si avvicinò quindi a Giannino che stava ancora inginocchiato con enorme fatica e patimento; si versò un poco di acqua dell’aspersorio sul pollice destro e con questo gli tracciò il segno di croce sulla fronte: di lui non sentì nulla. “Puoi alzarti figliolo” gli mormorò colla sua vocina tremula. Toccò poi ad Osvaldo; dopo al maestro. Lo aiutò a mettersi in ginocchio, pareva un’ipotesi di qualche cosa, non certo di un umano. Tracciò pure a lui il segno di croce sulla fronte; ebbe la netta sensazione che fosse una persona buona, lo guardò negli occhi e gli sorrise. Il volto del maestro miracolosamente si illuminò, sorrise pure lui mentre lacrime liberatorie correvano lungo il volto bagnando la finanziera. Quindi, sempre guardando il maestro, piegò velocemente il capo verso il conte come per dire: “ora tocca a lui”. Gli si avvicinò e gli sollevò leggermente il capo; gli pose la mano sulla fronte e subito avvertì una forte negatività. “Ci siamo, ti ho scoperto; non so come sei entrato in lui, ma so come farti uscire spirito immondo”. Si rivolse a Giannino: “Figliolo, vieni ad aiutarmi, tu che mi sembri robusto”.
Quello si avvicinò piegando leggermente il faccione ed abbozzando un mezzo sorriso come se dicesse “‘mbeh, ‘nsomma, modestamente…” Misero il conte seduto con le braccia penzoloni; non rispondeva, respirava a fatica, affannosamente; teneva gli occhi chiusi. Padre Patrizio, esperto di codesti fatti, avvisò Giannino. “Figliolo, tienti pronto a reazioni improvvise e violente; non aver timore, Dio è con noi”. IL conte sbuffò fortemente; Giannino si riappropriò della mannaia da squarto rivolgendosi al padre: “Allora padre, è il signor conte il diavolo? Se mi date l’ordine lo faccio a pezzi, eh? Non mi va proprio ‘sto diavolo!”. “No figliolo, no, non esattamente. È il diavolo che si è impossessato del conte; bisogna cacciarlo da lui”. Sapeva benissimo che il demonio essendo puro spirito, era infinitamente più forte di lui; sapeva pure che quello leggeva nel pensiero e anticipava il suo agire; ma era anche a conoscenza che nulla poteva contro Dio, la Madonna e i santi. Pensò ad altro, al tempo, al cibo, al fiume, alla coorte reale, al mare; in maniera intensa, non lasciando nessun spazio vuoto nel suo pensiero; in codesto modo il demonio non poteva più leggergli nella mente se non discernimenti e congetture sul tempo, sul cibo, sul fiume, in merito alla coorte reale, al mare; lo portava a eggio dove voleva. “Come ti chiami!” “Terroreee!!!” Improvvisamente padre Patrizio, con voce tonante, urlò la domanda al demonio a bruciapelo, il quale rispose subitissimamente altrettanto forte. Si era manifestato, la partita era iniziata; il padre prese la stola viola, la baciò e se la mise al collo. Il demonio si scatenò, facendo parlare il conte colla voce di una ragazza che padre Patrizio conobbe cinquant’anni addietro e che provò le virtù del padre. “Che fai Patrizio? Credi di essere un sant’uomo? Proprio tu? Rammenti quando
ti avvicinasti a me per toccarmi? Venisti in casa per la questua, ricordi?” “Ricordo, essere immondo e schifoso; ebbi la tentazione, o meglio tu mi tentasti maledetto essere, ma resistetti; il santo timor di Dio…” il diavolo lo interruppe sbraitando “Non nominarlo, mi fai venir male, il tuo… quello che adori ti inganna, sia maled…” “Stai zitto Terrore, non offenderai il mio Dio…” “Nooo, bastaaa… potenze degli inferi venite in soccorso… maledetto eretico, lussurioso perverso, superbo, avaro, invidioso, accidioso, goloso, iracondo maledetto…” Padre Patrizio aveva saggiato la consistenza dello spirito maligno e la reputava assai potente, la temeva e non aspettò oltre, e sferrò un attacco tremendo; con voce potentissima e agitando le mani verso il cielo tuonò “Santo Dio, Santo forte, Santo immortale”. Il conte schizzò in alto fin quasi al soffitto con un urlo agghiacciante. Giannino nel tentativo di acchiapparlo si buttò in un disperato aggancio ma finì per abbracciare se stesso. Tutto tacque e tutto rimase immobile. Si avvertì un intenso puzzo di cacca che faceva lacrimare gli occhi, proveniva da dove giaceva il maestro di cappella. Osvaldo stava rinvenendo e assistette al salto del conte; si raggomitolò a riccio ululando come un lupo. Il demonio parti al contrattacco; Alberto pian piano si trasformò in una graziosa fanciulla e con voce melodiosa disse “Ora vado a prender le mie amiche”. Lo spirito maligno batteva quel tasto perché sapeva molto bene che se anche il corpo nella sua vecchiezza era spento da molto tempo a certi stimoli, non così il pensiero, che poteva vagare e desiderare a piacimento senza limiti, fino all’ultimo istante della vita, peccando contro Dio. Il padre temette, s’inginocchiò e invocò l’aiuto di Gesù e Maria. La fanciulla si diresse verso la parete che dava all’esterno, allungò la mano e
pronunciò un nome di donna esotico; dal muro uscì una bellissima ragazza discinta che andò a posizionarsi di fronte al padre. Ne chiamò un’altra, poi una terza ed infine l’ultima; tutte insieme invitavano padre Patrizio colla voce e con posizioni lascive. Fu un gran tormento. Fu un gran tormento. Giannino, di solito abbastanza sordo a codesti richiami, era un vulcano in procinto di eruttare; si diresse con decisione verso una ragazza, la afferrò… ma non afferrò nulla se non l’aria; si spaventò grandemente e ritornò al suo posto. Padre Patrizio ritenne giunto il momento: “Babbo mio assistimi, aiutami a rimandare il demonio da dove è venuto, comandagli di lasciare Alberto ed il palazzo. Fa che nessuno conservi ricordo alcuno di codesta triste avventura. Grazie per avermi ascoltato”. Prese l’aspersorio colla destra e dalla tasca della palandrana nera tolse un crocefisso che alzò stringendolo nell’altra mano. Si volse verso una fanciulla mostrandole quello: “Ecce crucem Domini: fugite, partes adversae; vicit leo de tribu Juda; radix David”. Recitò la breve preghiera dell’esorcismo di Sant’Antonio mentre la aspergeva, ne era autorizzato dal vescovo. La figura esplose senza rumore; un acre odore di zolfo impregnò l’aria, peraltro già appestata dall’incolpevole maestro. Così per le altre tre. Non era più possibile respirare. Il padre prese per mano Osvaldo che si alzò docilmente, poi rivolto a Giannino: “Seguimi figliolo” disse con la sua vocina incerta. Giunti nel cortile il maggiordomo prese tranquillamente la strada da cui era sceso; Giannino rimase indeciso, e il padre se ne accorse “Figliolo, riporta in cucina quella mannaia. Non ti senti ancora a posto vero?” “Non del tutto padre”. “Per dimenticare definitivamente recita un Pater eppoi fa come t’ispira”. “Come comandate padre”. Padre Patrizio si diresse verso l’uscita, giunto nell’androne si volse indietro,
benedisse per l’ultima volta il palazzo e chi vi abitava, a suggello di una prova tremenda e della potenza e misericordia di Dio. Uscito che fu girò a sinistra, poi prese la prima a dritta e si diresse a o lento verso il convento, riflettendo sui fatti accaduti. “Babbo mio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra; ti servi di codesta misera creatura per dar compimento al tuo comando. Me misero, me indegno, se è vero, com’è vero, che ti servi degli ultimi, degli emarginati, dei derelitti, degli ignoranti; dimenticando re e principi, dotti, letterati, ricchi, per manifestare la tua potenza. Me infima, povera ombra di un niente che sta su codesta terra; eppure tu mi trasformi, dai senso alla mia esistenza; per mezzo del sacrificio del tuo unico Figlio m’hai eletto a partecipare alla tua gloria; m’hai fatto poco meno di un angelo. Me indegno, che non so corrispondere nemmeno una briciola a tale incommensurabile bene. Babbo mio, ti ringrazio dal profondo del cuore. Amen, alleluia.” Entrato in convento si diresse verso la nicchia e vi depose l’aspersorio, quindi si recò al refettorio; scostò un poco la porta e vide seduti alla mensa il padre guardiano, gli altri due confratelli e… lui. Non si turbò più di tanto, non era la prima volta che gli capitava; entrò, proseguì verso il tavolo e si sedette al posto dov’era già seduto; prese con calma il cucchiaio ed inizio a mangiare la minestra che era contenuta nel fondo. “Alla buon’ora padre Patrizio, vi siete deciso a prendere un poco di cibo; eravate sì tant’assorto che v’abbiam lasciato in pace ed abbiamo iniziato noi soli. Perdonate padre”. “Di nulla figlioli. Grazie del vostro buon cuore”. Meditava ancora mentre consumava la parca cena; “Chissà se tutti hanno visto ciò che ho visto io, non è certo, anzi che no. Spero e credo che abbiano dimenticato. Pensaci tu Babbo”. Dalle esperienze pregresse sapeva con certezza che fatti simili, quando accadono, trascendono le pur consolidate leggi della fisica, e se ne fanno un baffo del tempo trascorso; possono benissimo riportare al ato, far rivivere esperienze di anni addietro mutando la verità vissuta. Un comune senso di impotenza, mistero, dubbio ne è la matrice.
Possono lasciare un segno indelebile per il resto dell’esistenza di chi è coinvolto, oppure no; insomma, si è sul confine dello scibile, nulla può essere con certezza certo; come in un sogno, di cui ciò che si ricorda è così improbabile e difficilmente spiegabile, pur avendo provato le emozioni che questo trasmetteva. Al termine della cena il padre guardiano si rivolse a padre Patrizio “Caro confratello, desiderate essere accompagnato alla vostra camera? Sono volentieri a disposizione”. “Oh grazie figliolo, faccio da me; piuttosto procurati di riempire l’aspersorio”. “L’ho già fatto padre, appena terminata la recita del Vespro”. “Figliolo, fa quel che t’ho detto”. “Va bene padre”. Quello ubbidì, aprì la nicchia, prese l’aspersorio, tolse la testa tonda bucherellata e verificò che era vuoto veramente. Si stupì tantissimo: “Ma com’è possibile se l’ho riempito al massimo due ore fa”; si recò al fonte battesimale e vi versò l’acqua benedetta. Mentre tornava al refettorio pensò: “Ma perché m’ha detto di riempirlo? Se l’ha detto sapeva che era vuoto; e come lo sapeva se nessuno s’è mosso da tavola? Oh che so’ pazzo? Come poteva essere vuoto se…” “L’ho riempito padre, ma come facevate a sapere che…” “Figliolo” lo interruppe il padre “non indagare su cose che non ti appartengono. Se Dio vorrà donarti la capacità allora un giorno potrai intellegere; per ora acquietati e confida nella bontà del Padre Celeste”.
Nella sala grande il maestro di cappella si sentiva un poco stranito, confuso; si chiedeva perché rimanesse ancora fermo col braccio teso. Il conte girava intorno allo stemma guardando in basso e sembrava annusare qualcosa; ma neppure lui con esattezza sapeva perché girava annusando “E che è?!” si disse.
“Maestro! Animo maestro! Che diamine; avete deciso? Se va bene a voi va bene pure a me!”. “D’accordo signor conte, d’accordo allora”. “Come va la mia fronte?” “Come ve la vostra fronte? Beh, se non lo sapete voi? Andiamo, andiamo… non fate il prezioso, su”. Quello si toccò la fronte: “Ma perché mi tocco la fronte?” pensò. Si diede una scrollatina di spalle, raccolse la sua cartella e se ne andò. “A domani signor conte, felice notte”. “Pure a voi, fate buon riposo. A domani”. È opportuno rilevare che non è facile digerire certi argomenti come quelli avvenuti, in special modo ai giorni nostri; per altro si deve ammettere che coll’arrivo della coorte reale ed il suo mondo che le ruota attorno, per necessità e per dovere, dei cambiamenti ce n’è stati che hanno scombussolato la nostra città, non abituata a sostenere un ruolo sì impegnativo. In più, e codesta notizia è stata data per certissimamente certa, sono giunte qui alcune sette spiritiche al seguito di quelli. Alberto, andato che se ne fu il maestro di cappella, non volle intraprendere più nulla, ne aveva giustamente abbastanza. Per cena consumò un brodo caldo di pollo e una mela; subito dopo si ritirò e si coricò. Non fu una notte tranquilla, fu assai agitata.
Il telegramma
Abbiamo lasciato il conte mentre si accingeva a consumare la colazione. Si spalmò un poco di miele su una rondella di pane e se la portò alla bocca; masticava a fatica, di malavoglia; tuttavia ne prese poiché prevedeva una giornata lunga, intensa, piena di avvenimenti, faticosa e non voleva avere cedimenti, né carenze di nessun tipo. L’uovo sodo lo lasciò intatto, non se la sentiva di mandarlo giù; poi c’era quel telegramma, quel dannato telegramma che prima o poi doveva aprire e leggere. Sorbì una mezza tazza di tè a piccoli sorsi, lo fece star meglio; lo sentiva scendere, percorrere tutto il tragitto fino allo stomaco e da lì diffondere un benefico calore per tutto il corpo. Guardò il telegramma. Quella busta gialla che giaceva sghemba sul vassoio lo sfidava, sembrava parlargli: “Allora amico che fai? M’apri, non m’apri? Attendo, ho tempo… io! Tu un po’ meno vero? Ma proprio non t’interessa sapere ciò che tengo dentro? Sta ben attento che non parlo sai; so custodire i segreti di chiunque si serva di me. Beh, beh, non facciamola tanto lunga, puoi pure gettarmi nel fuoco, sparisco in un attimo, vuff, e tutto è finito, d’accordo? Ma… potresti poi trascorrere la giornata, e che giornata, in modo tranquillo? No di certo! Rimarresti sempre in attesa di un fatto nuovo, imprevisto; magari bello… oppure meno bello; un avviso importante, e… se invece fosse un’urgenza? Sì, ma… di che tipo? Nooo! non me lo chiedere; non riusciresti mai a farmi parlare; so solo mettermi in mostra, in tutte le posizioni che vuoi, eziandio a gambe all’aria; ma in quel caso non ti sarei di nessuna utilità”. “Accidenti! Me la sto tirando con questo maledetto telegramma” pensò Alberto. Prese la busta gialla tra le mani; con un gesto deciso infilò l’indice destro sotto la ceralacca e… tentennò; tolse il dito e rimise la busta sul vassoio; si sentiva un po’ agitato. “Ma porca maiala perché è arrivato; proprio a me! Oh, che inizio di giornata! Ma se mi fermo per così poco, cosa sarà poi dopo? Sicuramente dovrò pensare, disporre, controllare, agire e… e non tutto filerà liscio”.
Fece un paio di giri dello studio nel tentativo di distendersi un poco, ma non ci riuscì; l’unico sistema per togliere la tensione era drastico, radicale: leggerlo quel bastardissimo testo; quel che c’era scritto rimaneva tale, nessun atteggiamento lo faceva mutare, nessuna attesa lo poteva cambiare. Lo riprese in mano e con decisione fece saltare la chiusura; lesse la provenienza: Siena. “Siena?! Epperchè da Siena?!” Lo gettò sul tavolo ed iniziò a far delle congetture, delle ipotesi. “Siena! Boh, mah… Siena?! Si, siii… la trattativa per i due tagli in codesta provincia”. La felicità lo pervase dalla testa ai piedi. “Vedi quando tutto sembra buio, senza via d’uscita; il mondo ti crolla addosso, sei perduto… vedi? Vedi Alberto testone? Pavido, insicuro di te stesso. Aaaah, aaaaah!” Scoppiava di gioia; aprì la finestra che dava sulla via “due tagli, due tagli!” urlò felice. Buon per lui che nessuno era nelle vicinanze immediate, i pochi anti si trovavano a distanza di sicurezza. “Dunque, dunque, la Montagnola… sì, sì, nel comune di Sovicille, e l’altro l’è… l’è fra Gargonza e Monte, Monte San Savino”. Riaprì i vetri “Monte San Sa-vino!” scandì a voce alta. Richiuse in fretta. “Una fettona di torta e vin Santo, torta e vin Santo, non fa nulla che l’è mattina”. Si trattava di due tagli di bosco. Era d’accordo col suo emissario che se la trattativa fosse andata a buon fine, sarebbe stato avvisato immediatamente; nel caso contrario nessun avviso urgente. Verificò l’ora di trasmissione “Ufficio di Siena… ora di trasm… 0805”, “E certo… sarà finito quasi a notte il tira e molla, poi appena aperto l’ufficio telegrafico… eh, eh, eh” Abbassò il drappo di chiamata e baciò il foglio giallo; lesse “Testo… Causa caduta scale stop frattura malleolo dx stop impossibile presenza cena stop desolato stop Olivares principe Salamarsina stop”. Il cuore fece un botto forte come l’inizio dei fuochi pirotecnici; si fermò, poi riprese a battere violentemente e velocemente; una vampata improvvisa di calore gli salì fin su all’orecchie, bruciava in volto. Avvertì formicolii alle estremità degli arti; perse un poco la percezione di sé; annaspò, cercò l’aria a bocca
spalancata; sentì freddo; vide una miriade di stelline che sparivano velocemente come all’acme della notte di San Lorenzo. Ora la frequenza dei battiti era velocissima ed il polso molto debole; scaciò, sudò come un cavallo dopo una lunga corsa. Si sedette, mancando di poco la poltrona. Alla porta Osvaldo bussava con insistenza “Signor conte, signor conte… c’è signor conte?”; si risolse di entrare. Alberto sedeva per terra, le spalle appoggiate alla poltrona, le braccia penzoloni colle palme rivolte in alto, la bocca semi aperta, gli occhi sbarrati. In volto il pallore della morte. Sul pavimento il telegramma. Gli si avvicinò agitato “Signor conte, mio Dio signor conte.” Non lo toccò “Signor conte, mi sentite?” Alberto sembrò articolare qualcosa, ma aveva la lingua incollata al palato. “Eh? Cosa, signor conte?” Gli pose l’orecchio vicino alla bocca; uscì come un rantolo “Elvi… ra” Osvaldo ripetè: “El… vira? Sì, sì, Elvira, corro subito a chiamarla, subitissimo, ma voi non vi muovete da qui signor conte, non vi muovete da dove siete per l’amor di Dio. Rimanete dove siete ora, mi raccomando!”. “E dove vuoi che vada conciato come sono, imbecille!” fu il pensiero di Alberto. Uscì di gran carriera dallo studio; notò due subalterni che stavano origliando. “Spa-ri-te!” gracchiò con voce cavernosa; quelli arono attraverso i muri. Corse a velocità folle verso la camera della contessa, scapolando gli angoli sul solo piede esterno per compensare la forza centrifuga. Vide la porta avvicinarsi ma non rallentò, nella concitazione del momento aveva perso il controllo di sé, agiva d’istinto. Piombò all’interno col fragore del tuono “sbruuoouummm!”. “Criminaleee!” urlò la contessa. Stava iniziando la vestizione aiutata da una cameriera e si trovava “deshabillé”. Osvaldo era riuscito con molta difficoltà a fermarsi prima di rovinarle addosso, reggendosi sulla gamba destra; l’altra alzata, leggermente all’indietro, il busto proteso in avanti, il viso ad una spanna da quello della contessa.
“Ti faccio arrestare, porco depravato”. “Signora con…” “Fuoriii!” strillò stringendo e agitando i pugni. “Alb… il cont… il signor…” “Che? Chi?” “Suo marito, il…” “Che è successo?!?!” urlò isterica. “Il signor conte è… è…” abbassò la testa e tacque. “Oddio noo! Oddio noooo!!!” sbraitò disperata stringendosi fortemente le tempie colle palme delle mani. Osvaldo la guardava negli occhi incapace di proferir parola; l’altra lo fissava in volto, colle dita tremanti appoggiate al labbro inferiore; e gli occhi, supplichevoli di carità, sembravano elemosinare una verità non vera. arono alcuni secondi, mentre colle pupille fisse nelle altre si comunicavano ciò che le parole non potevano. Osvaldo si voltò di scatto e ritorno dal conte; Elvira lo seguì così com’era vestita, poco, solo di intimo e a piedi nudi, urlando il nome del marito. La cameriera la rincorse cercando di fermarla e buttandole maldestramente addosso una vestaglia da camera “Ma signora contessa, di grazia signora contessa, fermatevi; non è buona costumanza girare in codesto modo; la decenza, il decoro, la…” Elvira si fermò di botto urlandole in faccia tutta la sua rabbia e il suo disprezzo “Annegati, maledetta bastarda, crepaaa!”. Correva sui talloni, in maniera scomposta, portando le anche; ballonzolava tutto, un po’ dentro, un po’ fuori, senza controllo. Un servitore se la trovò all’improvviso davanti e si portò subito le mani sugli occhi, allargando le dita. Eh… non esiste tragedia che regga di fronte a cotanto
ben di Dio. “Mi potrà forse, dico forse, dispiacere per il conte, insomma, così così; ma te, che mi vieni davanti in codesto modo, oh… non t’ho cercata io d’accordo? Sei pure bona e non ti do neppure un’occhiata? Ma chi l’ha detto mai? Ma dove sta scritto!” Più o meno tale fu il suo pensiero allorché si tolse le mani dagli occhi: autoassolto con formula piena. Elvira si fermò sulla porta dello studio e guardò all’interno; vide il marito nella posizione in cui era caduto mancando la poltrona; Osvaldo ritto in piedi di fianco, dava di spalle alla porta. Gli si avvicinò e s’inginocchiò vicino; si accorse che respirava; aveva uno sguardo vitreo e un pallore diffuso. Lo chiamò “Alberto… Alberto” sussurrò impercettibilmente “Alberto… mi senti?”. “Poco” rispose lui. “Mi sente, mi sente” disse sottovoce rivolta al maggiordomo. “Alberto” sussurrò ancora “mi ascolti vero?” Le fece segno di sì colla testa. “Alberto mi senti ancora a fatica? Puoi vedermi?” “Sì” rispose con voce più tonica. “Mi vede ma sente con difficoltà, perché Osvaldo?” Quello allargò le braccia e scosse il capo. “Perché parli molto piano” disse Alberto. Decisero di metterlo seduto in poltrona; acconsentì e ce la fece quasi da solo. Si stava riprendendo, aveva più coscienza, si sentiva fisicamente un po’ meglio, ma moralmente distrutto. “Alberto, Alberto caro, che è stato, perché? Cos’hai sentito?” Il conte spiegò con calma, con voce monocorde la sorpresa finale che aveva preparato per la sera di quel giorno “…e la grandissima e nobilissima persona risponde al nome di: Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina e consorte”.
Elvira ebbe un sussulto di stupore, gioia, ma era evidentemente preoccupata di ciò che era successo al marito, per cui fu molto contenuta. Pure Osvaldo conosceva quel nome, cosa rappresentasse, quale valore assoluto avesse nella gerarchia nobiliare del nuovo stato; ebbe un colpo nervoso di tosse. “Ma allora se è così e tu ti stai riprendendo…” “Non sarà così… Elvira” e indicò il telegramma sul pavimento. La moglie lo prese, lo spiegò e lesse. Stette un attimo in silenzio guardando nel vuoto non sapendo più cosa fare, che pensare, cosa dire; le sembrava di essere arrivata alla fine di un qualcosa; che tutto si fosse compiuto e che non ci fosse più il dopo; una linea di arresto senza possibilità di ritorno e senza nessun itinerario alternativo. Si accucciò vicino alla poltrona sulla quale sedeva Alberto, appoggiò il capo su un bracciolo e prese la mano al marito senza dir nulla. Stettero così in silenzio per lungo tempo. Osvaldo si sentiva in imbarazzo, ma un senso di professionalità acquisito coll’esperienza gli suggeriva di rimanere accanto ai due; non sapeva come, in che modo, ma era sicuro di poter essere in qualche maniera utile, pur non avendo ancora ben chiaro il quadro della situazione. Comunque, per qualsiasi necessità lui era presente; in più, non aveva ricevuto alcun comando per un eventuale abbandono dello studio, dunque, prudentemente decise di attendere. “È iniziata la nostra fine Elvira, per noi non c’è più scampo” “Oh Alberto, che sarà di noi!” “Che sarà di noi? Nulla più sarà di noi, saremo trattati come reietti, invisi da tutta la nobiltà, abbandonati al nostro destino; il lustro che si poteva dare alla nostra città si trasformerà in spregio. Saremo descritti dai giornali come i più grandi millantatori del secolo, saremo un facile e gratuito bersaglio di ogni scherno, dileggio, vituperio… non avremo più pace; saremo costretti a… non ci
voglio pensare”. “Alberto, oh Alberto che immane disastro!” “E chi di noi avrà il coraggio di annunziare ai nostri ospiti, i quali dopo aver atteso a lungo, spazientiti e ansiosi di poter ammirare l’illustrissima coppia principesca, che per un fortuito e malaugurato incidente successo ieri al principe durante la sosta a Siena, egli non potrà partecipare alla cena celebrativa del quarantesimo anniversario dell’elezione al rango comitale dei Braccioforte? Il nostro anno nuovo non inizierà mai!” “Oh Alberto, quanta tristezza ho nel cuore!… Ti sarò sempre vicina, non ti abbandonerò mai, neppure se vorrai cacciarmi”. “Quanto sei cara Elvira… in due si portano con meno fatica i gravosi pesi del fallimento”. “Pensa Elvira, una coppia meravigliosa sai? Il principe ha pochi anni più di me, due o tre, non so bene; un poco poco brizzolato sulle tempie, più o meno della mia statura; un poco più snello. La principessa non l’ho potuta vedere, non so che tipo sia; di certo m’hanno riferito che, rimasto vedovo lo scorso anno, s’è da poco risposato con una giovine di origini nobili corse, i cui avi andarono al seguito dei Paoli, Giacinto e il figlio Pasquale, rifugiatisi a Napoli nel 1739, dopo che la loro rivolta fu soffocata dall’intervento se”. “Oh Elvira, anche se raccontassi come si sono svolti veramente i fatti, non mi crederebbero; peggiorerei la situazione. Ne sono convinto”. “Concordo con te Alberto, non ci resta che rassegnarci al nostro tristissimo destino; non possiamo più nulla, siamo abbandonati a noi stessi. Non potremo più rimanere nella nostra città; rimarremo soli, sempre più soli; non avremo più amici”. Si guardarono in volto senza parlare; dagli occhi scendevano copiose lacrime, senza un sussulto, senza un gemito; lacrime che avevano la gravezza della tragedia e l’onore della dignità. Si avvicinò la cameriera, pose sulle spalle della contessa una vestaglia, in fianco ai piedi un paio di ciabattine e se ne andò silenziosa. Nulla si udiva, nulla si faceva se non piangere, con un pianto solenne.
Augusto
Alberto si alzò dalla poltrona guardandosi attorno con aria truce; notò un grosso portavaso in bronzo; lo sollevò con molta fatica sopra al capo e a i lenti e forzati si diresse verso la finestra che dava sulla strada, con l’evidente intenzione di scagliarlo contro. Schiumava di rabbia; si fermò a due metri da quella e con grande violen…” “Augusto e Savina” disse a voce alta Osvaldo. Alberto colto di sorpresa, interruppe d’istinto il lancio, ma per la forza d’inerzia il pesante oggetto gli sfuggì da una mano; gli scivolò sul petto, tentò di riacchiapparlo inutilmente, quello proseguì la sua discesa; ora lo reggeva solo colla mano sinistra, che all’altezza degli stinchi cedette. Il bordo del porta vaso atterrò con tutto il suo peso sull’alluce destro del conte. “Ptumpp!” “Uuhmmmadonnabelladisantamarianovellaaaa!” urlò. “Alberto, che…” “Chemmaleee!” riurlò. “Che hai detto Osvaldo?” disse Elvira. “Augusto e Savina” rispose quello. “E chi sono?! Perché, che c’entrano, che vogliono?” Osvaldo guardava in alto il soffitto con sufficienza, come chi conosce, chi ha in mano la soluzione del problema a dispetto degli altri; ostentava sicurezza. “Sono il principe, alias Augusto e la principessa, alias Savina”. Rispose con reiterata sicumera. Il conte tornò a sedersi sulla poltrona a brevi saltelli col solo piede sinistro; accavallò la gamba e tenne l’alluce infortunato fra le mani.
“Ma fammi intendere un po’, tu vorresti dire che il coso li… Au… la princi… non capisco Osvaldo, spiegati chiaramente, di grazia!”. “Subitissimo signor conte. Sono due persone di mia conoscenza, una certissimamente anche della vostra, molto più che la mia. Augusto sarebbe colui che farà le veci del principe e Savina sarebbe colei che farà le veci della principessa”. “Sostituzione di persone? Di principi? Nooo, nooo, non è possibile! Ben che vada, se non scoprono l’inganno prima, se ripeto, se non lo scoprono prima, finiremo come minimo arrestati allorché lo verrà a sapere il principe, quello vero intendo. Nooo, no! Ho detto no, “enne-o”!” Il silenzio calò nello studio; nessuno parlava, nessuno si muoveva. Solo silenzio. “Cosa avremmo in più da perdere del tutto che perderemo?” Elvira uscì con codeste poche parole che obbligarono Alberto ad una veloce ricognizione in merito alle persone invitate, affari per il principe, possibilità di essere scoperti e altro. Dopo un paio di minuti parlò. “Dunque Elvira, previa identificazione dei cosi li… ecco, nessuno degli ospiti , ritengo con sufficiente sicurezza, ha mai visto il principe; e se anche… ma com’è quello che… insomma il principe?” “È alto un poco più di voi signor conte, di poco; possiede una figura snella, porta i baffi… corti, sì corti e i capel…” “Va bene, va bene Osvaldo, fin qui ci siamo”. Si picchierellò il polpastrello dell’indice sinistro sulle labbra strette a coniglio “E se anche qualcuno l’avesse visto tempo fa, non penso lo possa ricordare così bene da poter fare un confronto. Comunque… mi vuoi spiegare bene di chi si tratta se affermi che lo conosco bene?” “Subito signor conte, mi riferisco ad Augusto Mambelli, abitava…” “Sì, sì certo, Augusto… eravamo molto amici da bambini, da ragazzini… poi… ma sbaglio o è emigrato?… sì, è via, non è qui vero?”
“Se mi date licenza signor conte…” “Di, di pure Osvaldo”. “Augusto è tornato il giorno ventitre per are le feste di Natale colla famiglia; riparte dopo l’Epifania per… mi sembra… Lucerna, in Isvizzera; dovrebbe lavorare in un grande albergo sul lago dei quattro cantoni”. “E ora? Dove sta ora?” Osvaldo diede un’occhiata all’orologio a pendolo appeso alla parete, segnava le dieci e quindici. “A quest’ora si trova già all’”hostaria della gatta”, qui vicino al palazzo”. Alberto ed Elvira si guardarono con fare interrogativo, come dire: “Che si fa?”; poi tutt’e due annuirono col capo. “Vai Osvaldo, vedi di portarlo qui; intanto spiegagli un poco la faccenda”. “Volo signor conte” e sparì.
Augusto aveva due anni in meno del conte; iniziò presto a dare una mano al babbo che aveva un paio di carri per il trasporto di merci varie; un lavoro molto faticoso, ma più di tutto non gli piaceva per nulla. Iniziava il mattino presto temendo che non arrivasse più sera; giunta questa già si preoccupava del giorno dopo: una vita impossibile da continuare. Verso i sedici anni parlò chiaramente al babbo; gli spiegò le difficoltà che incontrava durante lo svolgimento del lavoro; non era mai stato contento un solo istante, insomma lo faceva per forza. “Babbo, non è un mestiere che fa per me”. “Ti capisco”rispose il padre “vedo che non è tagliato per te codesto impiego. Che vorresti fare?” “Vedete babbo, quando nei giorni di festa do una mano qui alla “Gatta”, non
sento la fatica, mi piace, son contento, felice, mi va a genio ecco; in un attimo è subito sera, e mi rattristo perché è già terminato e penso all’indomani sul carro”. “Ho capito Augusto, allora?” “Dovete sapere babbo, che durante il servizio si parla pure con de’ clienti, di mille argomenti, o ben inteso che non son io a principiare, rispondo solo; poi si ascolta pure e tra le tante ragioni ascoltate mi son fatto un’idea”. “Dunque? Sentiamo!” “Si dice, ed è verità perché l’ho controllata parlando con altri, che c’è una buona richiesta di codesto mestiere a… all’estero e più precisamente in Isvizzera”. “E tu vorresti fare l’emigrante, con un lavoro qui?” “Avete ragione babbo, ma coll’onestà che vi è propria, dovreste pur riconoscere che l’è un lavoro che dà poco, l’è misero come guadagno; si, si vive appena appena per non far la fame ecco… per giunta l’è assai faticoso”. “È vero, è vero, non stai dicendo una falsità, lo riconosco”. “Lo riconoscete e ciò vi rende onore babbo. E quale potrebbe essere il mio futuro, il vostro medesimo che avete avuto? Vorreste, in tutta coscienza, far fare a vostro figlio la stessa vita che avete fatto voi?” “No figlio, no. Un padre buono ed onesto non deve obbligare nessun figlio a continuare il proprio lavoro, ti capisco pienamente. Se il tuo volere, che mi sembra derivi da un’attenta analisi, è un altro… seguilo. Ognuno prepari il suo avvenire, è libero di farlo ed è giusto che lo faccia. Vai pure caro figlio, con tutta la mia benedizione”. Mah, chissà se esistono ancora padri così saggi! Così, quando Augusto venne a sapere che il Granduca Leopoldo II abbandonò il Granducato per rifugiarsi a Gaeta a fine febbraio del ’49 e fu instaurato il triunvirato, decise di lasciare la terra natia. Appena dopo Pasqua partì. Approdò a Losanna e si recò subito presso un parente di un cliente conosciuto alla “Gatta”. Ebbe tosto un impiego come sguattero al “Gran cafè de la
Princesse”. La prima difficoltà fu la lingua, ma solo per poco, poiché il ragazzo ne aveva molta di voglia d’imparare. Salì abbastanza in fretta la gerarchia ed in soli due anni diventò un cameriere di punta; abile, solerte, premuroso, attento, ligio ai comandi. La paga era soddisfacente, oltre a vitto e alloggio gratuiti. A vent’anni era diventato capo cameriere; con buona padronanza del se anche scritto, un po’ d’inglese e di tedesco. Non spendeva quasi nulla, per cui aveva messo da parte quattro soldini. Tre anni più tardi un cliente del caffè, al momento di andarsene gli mise tra le mani un bigliettino con scritto a matita un indirizzo e un orario “Morgen früh” disse. L’indomani mattina Augusto si presentò davanti ad una palazzina in riva al lago, picchiò all’ingresso e attese; non era agitato nè preoccupato, solo curioso e… all’erta. Salutò il domestico che aprì la porta e gli porse il bigliettino; quello lo lesse e gli disse “Monsieur” poi abbassando leggermente il capo gli spalancò la porta. Era da poco nel soggiorno quando dall’ampia scala di marmo scese il tizio della sera prima “Guten Tag” disse porgendo la mano destra “Guten Tag, Herr” rispose Augusto stringendogliela. Si sedettero ed il padrone di casa, senza preamboli gli disse a bruciapelo: “Vuoi venire a lavorare a Basel?” “Dove?” rispose il nostro senza pensare. “Hotel Goldene Schlüssel” Augusto si tese tutto e riuscì ad ostentare indifferenza. Era quello uno dei più rinomati hotels d’Europa, li vi scendeva “l’èlite”, la “crème de l’aristocratie”; tutto era splendido, maestoso. “Warum nicht!” rispose.
“Bene, dimmi quanto vuoi guadagnare!” disse l’altro usando il tono tipico di chi è abituato a comandare, ad impartire ordini senza perder tempo. Augusto lasciò cadere il giusto risentimento che tale domanda, posta come ordine sprezzante, poteva suscitare e rispose con calma e molto garbo: “Abbiate la cortesia di fare voi una proposta, signore”. “Bist du Italienish?” “Jaa!” rispose risoluto nello stesso istante in cui l’altro stava pronunciando il “nish” finale; come per dire “ora sai di che pasta son fatto, razza di mangiapatate”. Questo rispondeva al nome di Aaron Wiesenthal, proprietario dell’hotel e di molto altro; un grosso affarista tedesco di origini ebraiche. “Quanto prendi lì dove stai!” urlò. “Attendo una vostra cortese offerta… signore” rispose con calma. La trattativa fu breve ed intensa; Augusto ottenne la promessa di una paga tripla rispetto a quella che percepiva al “Cafè de la Princesse”. Si alzarono “Aspetta, ti metto per iscritto e firmo”. “Non serve, mi basta solo la vostra parola, signore”. L’hotel era situato nel centro storico di Basilea, a pochi i dal Reno in direzione della quattrocentesca porta Spalentor. Ci stette quattro anni in quel posto; la sua formazione professionale era completa; parlava correntemente le tre lingue principali, più un poco di spagnolo oltre ovviamente alla nostra. Prese poi la strada per Salisburgo dove rimase due anni; poi fu la volta di Augsburg, in Baviera. Infine prese servizio a Lucerna, appena fuori dalla città verso Sant Niklausen, in riva al lago, al “Wilhelm Hotel” da dove provenne. A trentasette anni era un personaggio unico, uomo di mondo; sapeva cucinare, servire, ottimo maestro di vini; cantava con buona voce, poliglotta; sapeva ben
trattare gli uomini e le donne pure; prudente, arguto, di buona compagnia, onesto, abbastanza colto, riservato quando doveva. Difficilmente si trovava in difficoltà, aveva il dono d’inquadrare al volo ogni situazione, valutarla ed in breve scegliere la più conveniente strategia di comportamento. Una persona affidabile e leale, un buon amico per chi aveva la fortuna di averlo come tale.
Osvaldo entrò all’”hostaria della gatta” tranquillamente, non mostrava di aver premura, o meglio, riusciva a nasconderla bene. Cercò collo sguardo Augusto e lo vide seduto ad un tavolo con altri due avventori; lo guardò in volto fin quando quello se ne accorse, allora gli fece cenno col capo. Dopo un attimo Augusto si alzò dal tavolo tenendo le mani appoggiate alle spalle dei due, gli mormorò qualcosa all’orecchie e venne dritto verso Osvaldo. “Oh, eccolo… Osvaldo come state?” “Bene, bene… pure voi vedo con piacere… e…” “Sediamoci” lo interruppe l’altro “Due bianchi secchi van bene?” Osvaldo piegò velocemente il capo a destra e a sinistra “Ma sì, ma sì, veloci…” “C’e fretta Osvaldo? Che t’è successo per venirmi a cercare sì di premura?” disse con tranquillità, ma colla consapevolezza che poteva essere necessaria la sua opera. Un cameriere pose i due calici di vino bianco secco sul tavolo dov’erano seduti i due “salute” “salute” glub, glub. “Dunque Augusto, oggi a palazzo si terrà una cena commemorativa in occasione del…” proseguì in una breve ed esauriente esposizione dei fatti accaduti, evitando di menzionare il nome della coppia principesca “…della quale tu e Savina sarete i sostituti all’insaputa di tutti. Fine”. Osvaldo non guardava in volto l’altro, teneva gli occhi fissi sul bicchiere e coi polpastrelli gli dava dei piccoli colpetti.
Augusto rifletteva con calma, poi fissò in volto l’altro “Andiamo!” gli disse. Si alzò, pagò il conto e tutt’e due uscirono diretti a palazzo Braccioforte. Osvaldo si affacciò alla porta dello studio, dove il conte sedeva sulla poltrona come l’aveva lasciato, mentre la moglie era seduta su di un bracciolo di quella, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le dita intrecciate. “Avanti, venite avanti” disse Alberto. I due entrarono. “Augusto… e sì… Augusto… sei proprio tu… quanto tempo… quanto tempo”. “Signor conte… riverisco contessa”. Rimasero muti, guardandosi, scrutandosi a vicenda. Augusto non fu per niente turbato dalla “mise” a dir poco spigliata dei due e per primo ruppe il silenzio. “Conte Braccioforte di Gavorrano, permettetemi di rivolgere la parola alla vostra consorte” e senza aspettare il consenso proseguì “vi trovo in eccellente forma signora contessa”. “Ma… a me… in… in codesta guisa? Ma come osate! Dovrei nascondermi sotto la poltrona, non dovevo neppure uscire dalla mia camera conciata in codesto modo! E voi… voi mi dite che mi trovate in eccellente forma?!” “Appunto contessa. Con licenza, se voi stessa sostenete che dovreste nascondervi sotto alla poltrona e non lo fate; non dovevate neppure uscire dalla vostra camera e ne siete uscita; ciò significa che siete in possesso di uno spirito battagliero, pugnace, che non vi arrendete facilmente; che avete intenzione di prendere il toro per le corna; ciò vi rende molto onore signora contessa. Sono a vostra completa disposizione”. Rimase senza parole; guardava Augusto con… non lo sapeva nemmeno lei; mah, un po’ così come… come ad un amico ecco, e gli sorrise con pudore. “Augusto” “Ditemi signor conte” “Augusto, prima di tutto cerchiamo di ristabilire la vecchia amicizia, che gli anni non hanno potuto cancellare. Ti prego di rivolgerti a me come allora, con più
rispetto di codesta amicizia, usando il pronome della seconda persona singolare”. “Come desideri. Vedi? Ho già rimediato… con grande gioia”. “Guarda un po’ in che guaio siamo finiti, non per volontà o per colpa nostra, solo per…” “una grossa sfortuna, solo per una grossa sfortuna”. Lo interruppe l’altro. “Hai domande da fare Augusto?” “Sì, ne ho”. “Falle”. “Il principe dunque, da dove viene, quanti anni ha, che tipo è, che figura ha intendo dire; è conosciuto, è stato visto dai partecipanti alla cena? Ecco per iniziare”. Erano domande pertinenti ed il conte subito rispose. “Sì, è alto più o meno come noi, quarantatre o quarantaquattro anni mi sembra, portati molto bene, niente barba o baffi; per quanto ne posso sapere penso che nessuno degli ospiti l’abbia mai visto prima e… è napoletano, discendente diretto di un’antichissima casata aragonese del quattordicesimo secolo giunta a Napoli nel sedicesimo a seguito del Viceré. È rimasto vedovo l’anno scorso, e da poco si è risposato con una giovine nobile di origini corse. Si tratta di Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina”. “Accidenti” sbottò Augusto “pescare più grosso non si poteva vero?” “Lo conosci? Ne hai già sentito parlare?” “Conoscere non penso, no di certo; ma non è detto che non sia sceso in qualche hotel in cui abbia prestato servizio, Basel per esempio. È abbastanza nominato fra la nobiltà, questo di sicuro: un personaggio molto rispettato, tenuto in grande considerazione e… temuto, sì temuto, per tutto quel che rappresenta e per l’influenza che può esercitare in ogni campo”. “Come sei messo in merito all’abbigliamento?”
“Nessun problema: frac completo di panciotto bianco in seta; farfalla, camicia sempre in seta; scarpe nere di vernice, sai col mio lavoro…” “Certo, certo, capisco… come potrebbe essere altrimenti!” “Mi arrangio un poco anche colla lingua napoletana, conosco pure alcune canzoni e le canto se necessario”. “Devi sapere Augusto, che il principe non presenziava alla cena a solo titolo gratuito, il suo diciamo… interesse, consisteva nel fatto di metterlo in contatto col…” Osvaldo tossi forte; tale gesto fu molto apprezzato dal conte “rimani, rimani pure, di te mi fido… servitore amico”. Quello s’impettì tutto sentendosi quasi come di famiglia. “Il compenso, ti dicevo, era di metterlo in contatto col marchese Carati di Monteforte, il solo referente del ministro in carica per… per appunto un affare che è meglio che ti spieghi bene…” “È… è di metterlo in contatto col marchese, e certo lo farai” interruppe Augusto “Ritieni sia opportuno che elimini i baffi?” “No, non modificare nulla, va bene così come sei; escluso l’abbigliamento. Certo che ti presenterò al marchese; presenterò il principe di Salamarsina al marchese Carati di Monteforte”. “Alberto” intervenne Elvira “il principe c’è, è qui, è già arrivato. Rallegriamoci e pensiamo alla principessa”. Gli occhi le brillavano. “Sì, sì cara Elvira, ora pensiamo alla principessa”. Il conte si alzò dalla poltrona “Ora ti accompagno Aug…” avvertì una fitta lancinante all’alluce infortunato. “Che hai fatto Alberto?” chiese incuriosito Augusto. “Ma no, nulla… sto coso qui pesante che m’è rovinato sul piede… nulla,
erà”. “Ristai, ristai; immergilo nell’acqua fredda… conosco la strada. Ci vediamo per… per le quattro, può andar bene?” “Per le quattro, d’accordo per le quattro” rispose Alberto “vai in pace amico… e grazie”. “Signora contessa, ossequi” “A dopo… Augusto” rispose quella, chissà perché imbarazzata. Osvaldo accompagnò Augusto all’uscita. “Che ne dici Elvira?” “Dico che sì, sì… andiamo avanti”. “Vedi cara moglie, tutto codesto succedersi di fatti, avvenimenti; il cambiamento repentino e inaspettato, lo stravolgersi delle situazioni, sollecita molto il mio umore; o da uno stato di gioia piena ad un altro di disperazione, poi ancora felicità, quindi tristezza. Insomma intendo dire, mi è difficile discernere con tranquillità, poiché l’ho persa, temo sempre il dopo. Non ho più certezze, mi sovvengono solo preoccupazioni; nulla è più come prima: ho paura. E vivere con paura non vale la pena”. “Ti comprendo Alberto, ma devi, devi ritrovare un po’ di fiducia… oh, se fosse stato presente…”. Non lo nominò ma Alberto capì a chi si riferiva, e gli vennero in mente in modo chiaro le parole che si sentì dire meno di ventiquattr’ore prima “…Ma in ogni occasione fate presente… con preghiere, suppliche… e la pace del Signore, che supera ogni intelligenza umana…”. Rifletté un poco su quelle ultime parole. “…supera ogni intelligenza umana! Che significa di preciso? Ogni… tutte, sì, tutte le intelligenze degli uomini sono da essa superate; da essa, la pace del Signore, e… alt, sto andando troppo avanti. Cosa vuol dire con l’intelligenza umana? Cos’è… a cosa si riferisce… sapienza? Cultura? Capacità? Forse, ma di cosa, più in concreto? Intelligente… intellego, intellegis, intellexi, intellectum, intellegere, verbo della terza coniugazione, transitivo: leggere dentro. Va bene, va bene, da capo, da capo. Dunque, il più intelligente di codesta terra, colui che risolve tutti i problemi; colui a cui tutti gli altri si rivolgono, che ha il più grande successo in tutti i campi della vita, se mai esistesse un individuo
di tal fatta… la sua somma intelligenza sarebbe, verrebbe superata dalla pace di Dio… più o meno dovrebbe essere così… o no? Si ma allora se uno possiede, si trova in codesta condizione di pace vuol…”
Savina
“Eccomi di ritorno signor conte” “Oh, sì Osvaldo. Ora pensiamo alla principessa. Chi è? La conosco?” “No, signor conte non la conoscete affatto, è… è mia nipote” “Tua nipote?!” “Esattamente… la figlia di mia sorella vedova” “E dove sta, com’è, quant’anni ha, è… è onicofaga?” “L’è una ragazzona di quindici anni, mora, sta fuori in un podere sulla strada per Prato, appena prima di Campi… poi per l’altra cosa li… la noc… gnogofa ecco, non so nulla”. “Scusa, scusa Osvaldo, intendevo dire se si rosicchia le unghie…” “Certo che no signor conte, non si rosicchia le unghie, no, no, per nulla; sa, è una famigliola… umile, ma tutte le buone costumanze le si sono impartite a dovere, con giudizio e soprattutto coll’esempio”. “Bene, bene… e naturalmente non legge vero?” “Invece sì, sì che legge e scrive pure”. “Bene, ancora bene, son contento per lei… frequentò le scuole allora e quali?” “No signor conte, non frequentò nessunissima scuola; sa, il podere, la campagna, la stalla, fratelli e sorelle… fin da piccolina, essendo la prima, dette subito una mano a mamma, mia sorella e…” “Ma se non frequentò come fa a leggere e scrivere?”
Osvaldo si schernì un poco, non sapeva come rispondere, non desiderava che il conte si fe beffe di lui; comunque così rispose: “Vi ricordate signor conte, quel poco d’insegnamento che, bontà vostra, mi deste parecchi anni indietro? Mi regalaste pure un vostro vecchio sussidiario. Proseguii da solo nello studio, con molta fatica; poi, durante i pochi momenti liberi, in ispecie d’inverno, mi recavo al podere e… facevo partecipe Savina di quel poco che sapevo e… pian piano, anno dopo anno… insomma signor conte, mi sto vergognando un po’, io ignorante che insegna… cosa? A chi? Ecco tutto”. Alberto non disse nulla; si stupì grandemente. Aveva ancora una cosina da domandargli, per ultima, ma in realtà la voleva porre per prima, solo la prudenza lo trattenne. “E dimmi, com’è?… intendo dire… di viso, è gradevole o…” Osvaldo rimase un po’ sorpreso dalla domanda, ma non più di tanto; allargò le braccia e disse:”brutta non è di certo; bella non so, l’ho sempre veduta in opera e sapete come ci si può presentare quando si è appena terminato di mungere o…” “Ho capito, ho capito, ma come la vedi tu, intendo dire come la immagini… insomma come…” “Come principessa?” lo interruppe il maggiordomo “e… e come me la immagino? Come la… secondo voi, signor conte, esistono facce da principessa, da regina, da duchessa? Penso che ogni viso abbia una sua personalità; poi colei che guarda, che parla, che si esprime con quello, se è regina sarà senza dubbio un viso da regina; se principessa da principessa, se marchesa da marchesa… ecco, mi sono spiegato?” “Chiarissimamente Osvaldo, chiarissimamente”. Una cosa gli era certa, che brutta non fosse, e non era roba da poco; poi un’altra importante, doveva avere le unghie intatte e non solcate da segni di denti o cortissime e sanguinanti. Pensava, se durante le varie presentazioni fosse avvenuto qualche baciamano, cosa per altro non improbabile, e la cosa li avesse avuto… beh, non voleva più pensarci. “Ma dimmi un’ultima cosa… è grassa?”
“No, no signor conte, non l’è grassa; ho detto ragazzona per dire che l’è piuttosto altina e con due belle spallotte, ecco… sapete, i muscoli li move per bene”. Alberto diede un’occhiata alla pendola “Le undici e mezza! Osvaldo, fa preparare la berlina, la si va a pigliare; il tempo corre veloce”. “Subitissimo signor conte” rispose quello, e se ne andò. “Vedi Elvira come mutano in fretta gli avvenimenti? Non si fa in tempo a risolvere un problema che già un altro più grosso rispunta, con altri contesti; chissà se riusciremo a portare a termine codesta impresa!” “Alberto, non crucciarti oltre ogni limite. Appena un’ora prima eravamo distrutti, finiti… sai dove mi vedevo? Lasciamo perdere… pensavo ai nostri figli… ora invece ci stiamo dando da fare per portare a compimento codesto travaglio; ma non siamo soli, abbiamo amici che ci danno un grande aiuto, eppoi… penso che lui… intervenga ancora. Proseguiamo con fiducia e coraggio; non sprechiamo più le nostre risorse in doglianze che hanno il solo risultato di aumentare il pessimismo, e quando questo si fa strada inibisce ogni pensiero positivo, utile per la riuscita dell’opera”. “Sì, Elvira, sono d’accordo. Ma vedi codesti momenti vuoti, vuoti d’azione intendo dire, non è facile riempirli con pensieri positivi… insomma, mi è difficile pensare, non ne ho voglia, non me la sento; quindi la mente si adagia dove gli comoda, quasi fosse indipendente dalla volontà che dovrebbe governarla… poi, poi c’è sempre codesto timore che aleggia su tutto… non riesco a scacciarlo… devo avere più fiducia, fiducia in… e che ne so in chi, in che cosa? Accidenti… ma è necessario proseguire con lucidità, determinazione e… pensare; pensare, pensare… a cosa penso se non so a cosa pensare? Non mi viene un’idea che non sia… aaah!”chiosò con rabbia. “Quando la tua mente si adagia sulle tristezze ate, toglila di lì Alberto, dalle un altro indirizzo, maltrattala, insultala, combattila, dominala, vincila…” “fosse così facile Elvira… oh, se non ci fossi stata tu, sarei di già traato!” “Ma che dici?! Non vedi che ricadi ancora nella tristezza, che genera malinconia, la quale prende per mano l’ipocondria che trascina dietro l’accidia e…” “Ne so qualcosa di codesta tremenda disgrazia!” la interruppe Alberto.
“Con permesso signor conte, la berlina aspetta. Quando vi comoda…” Alberto si vestì confortato ancora dalla consorte, quindi scese nel cortile. Era appena ato mezzogiorno quando la carrozza uscì dal palazzo prendendo a destra per la Fortezza, quindi piegò a sinistra per la via pratese. Procedeva ad andatura moderata, sotto un cielo coperto che prometteva pioggia se non neve, poiché l’aria era fredda, fredda da neve. Tuc, tuc, tuc “Fermati alla locanda San Rocco” ordinò Alberto al vetturino. “Non rinunceremo al pranzo Osvaldo, non è giusto e non si deve”. “Come desiderate signor conte; sono della vostra medesima opinione”. Entrarono e presero posto vicino al camino scoppiettante, dove un bel fuoco riscaldava l’ambiente e rallegrava l’atmosfera. Presero una zuppa di cavolo nero e ceci, e mezzo litro di vino rosso in due; poi versarono dell’olio dentro un fondo, con un pizzico di sale e una spolverata di pepe; poi ognuno intinse nel proprio piatto il pane, fino a consumare tutto il contenuto. La carrozza proseguì la sua andatura tranquilla fino in vista del fosso; poi Osvaldo si rivolse al cocchiere “ata l’acqua prendi la prima carreccia a dritta”. Alberto si sentiva abbastanza tranquillo, tuttavia avvertiva un qualcosa che non si poteva chiamare apprensione e neppure semplice curiosità; era una leggera emozione che stava in mezzo alle due. Pensava “Stiamo arrivando dalla principessa… ecco la sua magione… povero me… che Dio me la mandi non tanto cattiva… poi lei, la principessa alias Savina, non sa ancora nulla, non sa di essere la consorte del principe Diego Antonio Olivares di Salamarsina”. “Di un po’ Osvaldo, ma codesta tua nipote sta sempre qui? È mai stata in altri luoghi?” “Oh si signor conte. L’è stata, e questo lo so per certissimamente certo poiché fui io ad accompagnarla, l’è stata per ben quattro volte in città, in occasione della
Colombina; poi la riportai subito indietro”. Alberto, sconsolato, non gli chiese più nulla. Il “castello” della principessa era la più scontata, ovvia costruzione in pietra a due piani che guardava verso sud; di fronte, a circa venti i la stalla con sopra il fienile. Tutt’intorno i campi riposavano colle zolle rivolte al cielo, mostrando la loro nudità. All’abbaiare del cane la sorella di Osvaldo guardò fuori dalla finestra, vide la carrozza fermarsi in mezzo al cortile e da essa scendere il fratello e l’altro che non conosceva; uscì tranquilla andandogli incontro. “Osvaldo! Che ti mena qui in codesta ora?” disse la donna strofinando le palme e il dorso delle mani sul grembiule stretto ai fianchi. “Olà Gilda, come ti va? So’ qui col signor conte per un affare che ti spiego tosto se ci fai entrare”. “Riverisco eccellenza, accomodatevi… prego”. I due entrarono e si sedettero vicino al lungo tavolo; nel camino ardeva un focherello stentato; appoggiata alla parete di fronte una cassapanca e sopra di essa due mensole in legno; intorno alcune sedie e due panche. Non c’era più nulla da rilevare; un arredamento sobrio, equivalente a povero detto con enfasi. Gilda, mentre il fratello spiegava brevemente il motivo della visita, aprì la cassapanca, tolse un bidoncino di metallo e un fondo con sopra un coperchio e li mise sul tavolo; prese poi una tovaglietta bianca, la spiegò e vi pose sopra due piatti di legno e due tazze in terracotta. “Se gradite c’è un po’ di latte munto stamane mattina e… quattro mostacciuoli” disse sollevando il coperchio. Alberto guardò in viso l’altro facendogli capire chiaramente che si asteneva dal prenderne. Osvaldo tolse il tappo dal bidoncino ed empì mezza tazza; un soave profumo di
latte diede aroma al locale. Ne bevve un sorso poi prese un dolce e ne stacco un pezzo con un morso; stralunò e fece cenno cogli occhi al conte di servirsi; quello obbedì. “Sbaglierò, ma quella non accetta” sentenziò Gilda. Alberto prese un mostacciuolo e lo addentò; fece cenno ad Osvaldo di versargli del latte nella propria tazza. Fu tutto preso dalla squisitezza ineffabile di quel tronchetto bruno, decise di gustarselo senza perdere nulla e non si interessò più a ciò che sorella e fratello si dicevano. “Dove sta ora?” chiese Osvaldo alla sorella. “Sarà di certo alla latrina; poi si reca in stalla”. “Signor conte, se avete terminato e se vi garba, proporrei di andarle a far visita” “Dove? Alla latrina ?!” rispose quello allibito. “Ma no, no di certo signor conte… beh, intanto prendiam tempo”. Il conte ringraziò e uscirono all’aperto dirigendosi verso il lato sinistro della stalla, dove si trovava una costruzione di un metro quadro alta quanto una persona e chiusa da una porta sgangherata. Osvaldo vi si avvicinò “Lì dentro non ci sta, il chiavistello l’è al posto; sarà di certo nella stalla. Andiamoci”. Stranamente in quel momento Alberto si sentiva ottimista. La porta era accostata; Osvaldo la spostò quel tanto per introdurvi il capo e dette la voce “Savina?” silenzio; la aprì tutta ed entrarono “Savina!” gridò. “Oh zio, che ci fate qui, volete latte?” Udirono la voce ma non videro nulla, se non i posteriori di tre mucche e due bovi.
Il tanfo acre e pungente di stallatico saliva deciso alle narici poco avvezze dei due; tutto era avvolto in una penombra scura. “E dove stai Savina?” “Ora esco zio”. Dalle zampe di una mucca uscì una forma nera che si avvicinò annusando i due: era una capretta. Il conte guardò esterrefatto Osvaldo, che si affrettò a scrollare il capo in senso di diniego. Qualcosa di chiaro sembrava uscire a brevi scatti dai fianchi delle bestie; era il manico del forcone manovrato dalla nipote. Poi apparve una sagoma scura simile a quella di una persona; calzava due scarponi o stivali, non si capiva bene; il capo era coperto da un panno scuro annodato sotto il mento; la copriva una coperta, forse un mantellone. Mah! “Eccomi, che c’è zio?” disse alzandosi ritta e girandosi verso di loro. “Come vedete stavo regolando la lettiera. Chi c’è con voi?” riprese appoggiandosi con tutte e due le mani al manico ritto del forcone puntato a terra. Alberto fu preso da un forte scoramento “La principessa, eccola!”. L’abbigliamento era in pratica indecifrabile, dal copricapo uscivano strisce scomposte di capelli neri e unti che si appiccicavano al volto sudato. “Ascolta Savina, ti devo parlare di un servigio che dovrai fare al qui presente signor conte”. Alberto strinse un avambraccio al maggiordomo mormorando:”No, no, è inutile, andiamocene”. “Aoooh zio, siete venuto per comandarmi? Il servigio preferisco farlo a questi animali che ci dan da vivere, non a quello lì”. “Mi spiego Savina, stai a sentire dunque, devi sapere…”
“Nooo, non avete capito zio, non voglio stare a sentire e non ho nulla da sapere. Chiaro?” Urlò. Alberto si vide perduto, ritornò ad essere gravemente afflitto; primo per la visione della “principessa”, poi per il rifiuto della stessa ad ascoltare lo zio. “Osvaldo” disse con tono calmo, grave e deciso “voglio distendermi nella lettiera, cogli animali. Lì è il mio posto!” “Oh zio, dovevate portarlo al Bonifazio non qui; ehi tu ascolta bene, il tuo posto non sta qui, ma al Bonifazio capito? Al Bo-ni-fa-zio!” “Savina, ti prego ascoltami, solo…” “Voglio andar lì dentro” urlò il conte “voglio tuffarmi nella lettiera, nuotarci dentro, affogarci!” e si avviò deciso verso le mucche. Savina prese a due mani il forcone e lo puntò dritto al collo di Alberto che si arrestò di colpo. “A grullo, o grullone! Vuoi assaggiare le punte del mio forcone?” Tale presa di posizione della ragazza, ebbe come conseguenza di fermare tutto e tutti. Gli sguardi s’incrociarono, gli occhi del conte e di Osvaldo fissi su quelli di Savina; le pupille nere dei suoi si muovevano alternativamente a sinistra e a destra compiendo brevi scatti, fissando ora l’uno ora l’altro. “Sav…” “State zitto zio!” lo interruppe urlando “uscite di qui tutt’e due!” Detto, fatto; la capretta cedette il o agli umani ed uscì per ultima. Ora potevano vederla meglio la nipotina; era alta poco meno del conte, due occhioni neri su un tondo bianco come il latte; il resto era coperto da ciarpume. Osvaldo alzò le mani come in segno di resa mostrando le palme. “Posso parlare?” “Parlate zio”.
“Senza che tu m’interrompa?” “Se sarete sbrigativo!” Quello brevemente espose tutto: “…e come vedi è una questione di vita o di morte. Ora che sai, cosa decidi?” Ci stava pensando la giovine; rivolse lo sguardo in basso e a piccoli i cadenzati, quasi danzando, sollevando le gambe tese, fece un ampio giro intorno ai due, poi si fermò dando loro di spalle. arono millenni, poi, bontà sua, si girò. “Aa… allora?” mormorarono con un certo timore i due. Savina teneva un volto da sfinge; calcò i pugni sui fianchi. Si scrutarono ancora un poco: li stava cucinando a fuoco lentissimo, un giuoco crudele, una perfidia inumana. Poi d’un tratto alzò il mento con uno scatto facendo schioccare forte la lingua fra il palato e gli incisivi superiori: “‘Nzzccc!”; così nel modo più villano e sprezzante pronunciò il suo schifato rifiuto. Osvaldo perse il controllo immediatamente, urlando improperi e vituperando la nipote, dimentico che la madre era sua sorella. Savina rispose per le rime sovrastandolo come potenza di urlo. Il conte, fuori di sé, sbraitava senza pudore i più feroci insulti; il cane abbaiava senza fermarsi per prender fiato; nella stalla gli animali muggivano sonoramente; la capretta fuggì nei campi desolati. Il cocchiere faticò molto a tener fermi i cavalli agitatissimi. Gilda, sentendo tutto quell’inferno, afferrò l’attizzatoio e corse fuori aggiungendosi al gruppo e inveendo a squarciagola. Tutti si urlavano addosso, tutti contro tutti, non esisteva più parte; nessuno comprendeva ciò che gli altri strillavano; ognuno pronunciava parole insensate, versi che sembravano nitriti, ululati prolungati, risa isteriche, offese irripetibili. Il piccolo podere era diventato il centro della follia umana che faceva salire verso il cielo la sua disperazione.
D’un tratto il conte si fermò di colpo; stese le braccia colle mani prone e le dita allargate; le abbassò e le alzò più volte stringendo il muso. Tutto tacque d’incanto; gli altri lo guardavano ammutoliti; la capretta venne a i lenti verso di loro col capo chino. Alberto parlò rivolto a Savina: “Ti rifaccio il podere come nuovo e ti riempio la stalla”. Le due donne rimasero senza parola, con un solo pensiero fisso. ò del tempo come se lo stesso si fosse fermato. Silenzio assoluto. Occhi fissi. Gilda per prima rientrò in casa seguita dalla figlia, poi dal fratello e dalla capretta. Alberto si accomodò nella berlina e attese. Quante emozioni ancora quel giorno, sembrava non finire mai; si chiedeva cosa mai sarebbe potuto ancora succedere del tutto che era già successo: non osava, per il momento, pensare alla cena. Quell’attesa gli toglieva la carne di dosso. Uscì Osvaldo, dando le ultime assicurazioni alla sorella con tanto di mano aperta sul petto; infine Savina, e si avviarono verso la carrozza. La porticina era spalancata, salirono a bordo. La capretta emise un flebile belato “Sta bona Bina, domani son di ritorno”. “Vai!” diede ordine Alberto. La berlina si mosse lentamente ripercorrendo in senso inverso il sentiero che la collegava alla strada; prese poi a sinistra ad andatura vivace. Il conte tolse l’orologio dal taschino, lo apri e guardò l’ora: le tre e trenta; gli venne male. Diede uno sguardo da capo a piedi alla selvatica che aveva a bordo; si raccomandò a Dio con preghiere, suppliche… Savina prese posto in fianco allo zio e di fronte al conte; non avevano nulla da dirsi, tutto era stato chiarito prima.
Guardava fissa le mani che il conte teneva incrociate a mezza gamba; quello se ne accorse e se le ficcò infastidito nelle tasche del pastrano, non facendo nulla per nasconderlo. Gli guardò dritto in bocca, fissa e ostinata; Alberto non sapeva più cosa escogitare, non poteva nasconderla; si morse il labbro inferiore, poi l’altro, assumendo involontariamente atteggiamenti infantili, ridicoli. Quella non mollava; salì un poco sopra e gli fissò il naso, poi di nuovo la bocca e ancora il naso. Alberto girò il viso guardando il paesaggio scorrere lentamente, però si accorse, sforzandosi di considerare solo la parte sinistra del campo visivo, che lo stava fissando ancora. Decise allora di accettare la sfida e la guardò negli occhi con sussiego. La ragazzona non aveva affatto le intenzioni che il conte le attribuiva, era per lei un atempo, un diversivo, visto che nessuno parlava; però si accorse di quelle del suo… avversario; “Vuoi battagliare? Bene, ti scateno la guerra.” Posò le sue pupille nere su quelle castane dell’altro; sembravano due bocche di cannone puntate contro due vecchie imposte consumate dal tempo; la lotta era impari. Il conte resistette stoicamente, poi cominciò a perdere cipiglio, fiducia; si sentì all’improvviso insicuro, pavido; come nudo. Provò un sentimento che l’aveva abbandonato da adolescente, si vergognò. Quello sguardo impietoso, tenace, lo stava sottoponendo ad un esame troppo duro. “Osvaldo!” urlò all’improvviso. L’altro, che si era appena appisolato favorito dall’ondeggiare della vettura e dal silenzio claustrale, fece un sobbalzo “Ee che è?” “Scusate signor conte, sa la carrozza, il silenzio… l’abbiocco…” “Non fa nulla, non fa nulla… ehm, ti credevo vigile a… a pensare sul da farsi. Riposa, riposa ancora un poco, un miglio più o meno e saremo a palazzo”. Savina lo fissava sempre colla stessa intensità, esageratamente seria. Allora
Alberto incominciò, senza un perché, ad ispezionarle il viso, evitando di fissarla negli occhi; si muoveva lungo l’ovale, lo accarezzava, ne percep… “Ooooh!” urlò quella facendo sobbalzare di nuovo lo zio “non hai mai visto una donna te?” Il conte si fece cupo in volto, la tristezza si stava ancora impossessando di lui. Quel rimprovero sparato così all’improvviso l’aveva ripiombato nella malinconia più grigia. La ragazza lo rifissò con prepotenza, con uno sguardo d’acciaio, durissimo; le due bocche di cannone sparavano a tutto fuoco contro un bersaglio privo di difese; senza pietà, contro un bastione che non aveva più nulla di eretto; con i suoi poderosi colpi ne stava sbriciolando anche le fondamenta. Povero conte, gli si inumidirono gli occhi; tolse le mani dalle tasche, la guardò con occhi che supplicavano pietà; si era arreso, aveva voluto sostenere una battaglia senza le armi adatte, su di un terreno scabroso e ne stava pagando le conseguenze. Aveva perso, si sentiva umiliato, disonorato. La perfida si accorse immediatamente della sonora lezione che aveva impartito allo sventurato, ma nello stesso tempo cinicamente pensò agli affari. Il suo sguardo divenne meno duro, i muscoli facciali si distesero; il conte provò sollievo. Quella reclinò leggermente il capo, abbassò gli occhi fin a socchiuderli, mostrando le grandi ciglia arricciate all’insù, simili ad una sella fra due monti appuntita di abeti. Ora Alberto, vedendola cogli occhi bassi, poteva ammirarla senza correre il rischio di una nuova rampogna; provava come un sentimento di tenerezza verso la fanciulla. Savina alzò leggermente gli occhi senza fissarlo, socchiuse le labbra; sul suo volto apparve qualcosa che di li a poco sarebbe stato un abbozzo di un timido sorriso. L’altro se ne accorse e subito mutò umore, si ritonificò, copiando le medesime movenze della ragazza.
Stettero un po’ così, in una situazione di stallo; Alberto aveva timore di osare un poco oltre; Savina l’aveva in pugno, e lo sapeva bene. Toccava a lei condurre la danza suonando le musiche che più le garbavano. Allargo di un niente le labbra; ora mostrava un sorriso pudico, schivo, ma non ancora palese, conclamato. Reclinò ancora il capo su un lato seguito da un civettuolo sbatter di ciglia – Ah, le donne!Il conte la guardava incantato; quel mutare di atteggiamento gli provocava un senso di benessere, lo rendeva alquanto felice; adesso la vedeva decisamente bella. La giovine tolse dalla faretra una della tante frecce che aveva a disposizione, la fisso sull’arco, ne tese la corda e ‘szacc… la scagliò. Rizzò il capo ed esplose in un sorriso di tale splendore e potenza da far invidia al sole. Mise in mostra due file di denti bianchissimi che si sovrapponevano perfettamente; dagli occhi uscivano lampi fulminei che ai più esperti avrebbero potuto indicare qualcosa di preciso, non di certo ad Alberto, che ormai privo di peso, volteggiava all’interno della carrozza. Quindici anni, nessuna esperienza di nessun tipo coll’altro sesso, solo per sentito dire così lontanamente; nessun colloquio con nessun conoscente se non dei banalissimi ed ingenui accenni con coetanei – Ah le donne, le donne; che arte innata!Ma non aveva ancora terminato la sua opera; si servì di un’altra freccia. Protese leggermente in avanti il viso vicino a quello del conte, poi con voce suadente, mielosa, sensuale, gli mormorò sulle labbra: “Se vostra eccellenza illustrissima mi permette…”, e subito si inginocchiò, gli prese delicatamente la mano destra fra le sue, vi pose sopra le labbra carnose di poco allargate; indi gli posò il capo sulle ginocchia “Non vi deluderò” mormorò. Alberto era ormai in preda di mille emozioni diverse che lo squassavano. Voleva accarezzarle il viso, ma non lo fece; voleva gridare la sua gioia ma si astenne. Ciò gli procurava più dolore della sconfitta precedente. “Oooh, finalmente siamo arrivati signor conte… signor conte… vi sentite bene? Signor conte!”, “E tu togliti dalle ginocchia del signor…”. Alberto lo fermò
alzando tosto la destra “Scendi Osvaldo, avvisa Elvira”. “Subitissimo signor conte, e alla mia nipotina un bel bagno, un doppio bagno, anzi triplo!”. Il conte lo impietrì con un’occhiata feroce. “Vado, vado ad avvisare signor conte… vado”. “Savina, ascolta. Sai che tutto dipende da voi due… tutte le promesse che ti feci verranno mantenute… sii docile ai coman… ai consigli di Augusto. Fidati, fai tutto ciò che ti dirà! Per qualsiasi altra cosa chiedi a me. Ora qui si giuoca un’altra partita, altri avversari, altre armi; ma tu hai un potente alleato: tuo marito il principe”. Le prese delicatamente il viso fra le mani lo avvicinò a sé e le diede un casto bacio paterno in fronte. “Vai figliola cara, il Signore sia con te”. Savina scese dalla berlina dirigendosi verso una cameriera che l’attendeva; tosto fu accompagnata negli appartamenti della contessa.
La sala
Troppe, troppe emozioni; dal mattino, nel momento in cui aprì il telegramma, fino ad allora, un continuo mutare di avvenimenti; situazioni che si presentavano come definitive ma venivano subito dopo annullate da altre; codeste modificate da nuove. “Vedrò mai la fine di codesto giorno?” si chiedeva con insistenza Alberto. Tutto ciò aveva provocato nel suo animo un profondo rivolgimento; non aveva più nessuna certezza fondamentale, dubitava su tutto, era insicuro; si muoveva con eccessivo timore, pur sapendo che toccava a lui decidere, non poteva delegare nessun altro. Rimase ancora un poco a bordo della vettura riflettendo su ciò che gli ava per la mente, senza un indirizzo preciso. Due pensieri vennero a consolarlo: il colloquio col padre Patrizio il giorno prima e Augusto. Si sollevò un poco, riprendendo fiato e vigore. Annusò dov’era stata seduta la ragazza e coll’aiuto della memoria, rivide la stalla, ne intuì l’umore umido e insistente degli animali; sorrise sereno. Consultò di nuovo la cipolla sfilandola dal taschino del panciotto: le quattro e un quarto. Bene, era tempo di agire; stava per scendere ma attese ancora un poco. Perché? Non lo sapeva il perché, era come se aspettasse… sì, come se la sua mente cercasse di afferrare un pensiero, un motivo su cui… su cui cosa? Boh! Vigilissimo, manteneva tutti i sensi allertati, stava per… eccolo che arrivò dal nulla, all’improvviso come sempre, senza preavviso; una flebile vibrazione cerebrale che tosto fece sua. “Signore, tu meglio di me sai per quale motivo sto facendo tutto ciò. Se nelle mie intenzioni ci fosse qualche cosa che va contro la tua volontà, cancellala, non tenerne conto; fa che sia possibile che tutto abbia compimento. Non pronuncio voto poiché non avrei la costanza di mantenerlo, ma ti prometto che non oserò mai più oltre il lecito. Sarò più ligio ai tuoi comandi; se ho peccato perdonami”. Si sentì mutato in positivo ancora una volta. Sortì fuori dalla carrozza.
I primi radi fiocchi scendevano minuti e senza peso da un cielo basso e scuro, andandosi a scegliere un posto dove non ce n’erano altri. Girò lo sguardo intorno e vide Augusto che lo stava aspettando. “È molto che sei in attesa?” gli chiese. “No, no, non molto… era quella… la principessa?” “Sì” rispose il conte sorridendo “Ora vieni, vieni con me. Si va ad ispezionare la sala, ti va?” L’altro annuì col capo. Entrarono prima in un locale che fungeva da precamera, dov’era sistemato un lungo appendiabiti; alcune poltroncine e due tavolini riempivano la saletta. Da qui, per mezzo di un’ampia porta a quattro ante pieghevoli si entrava nella sala dove si sarebbe svolta la cena commemorativa. Scostarono le due metà di una pesante tenda in velluto liscio beige chiaro, sormontata da una fascia uguale sagomata a greca, bordata con una amaneria marrone. Era un ampio locale rettangolare il cui lato maggiore misurava poco meno di venti metri, alto un piano più l’ammezzato. Il pavimento in parquet medio scuro formato a quadri di un metro per lato, i cui listelli concentrici componevano un grazioso disegno; nel centro lo stemma di famiglia: scudo sannitico bipartito azzurro e argento, in cotto a raso. In corrispondenza perfetta l’imponente soffitto a cassettoni alti trenta centimetri, al cui interno spiccava un rosone in legno finemente lavorato color oro. Le pareti color panna, tutte ricoperte da una fittissima composizione di foglie molto arricciate in gesso, che si intersecavano, si insinuavano con una estremità dell’una nell’ansa formata da un’altra; riccioli che terminavano con altri più piccoli portanti delle minute bacche. A dividere le pareti dal soffitto, correva a distanza di una spanna da questo, una catena a festoni in gesso color oro; nello spazio interno un rincorrersi di fiori, foglie, frutti sempre in gesso pitturati in porpora. Sulla parete maggiore di sinistra, tre enormi finestre scendevano dall’alto fino ad un metro dal pavimento; una fascia di velluto uguale a quella dell’entrata in alto
e due ai fianchi, contenevano una raffinatissima tenda veneziana in seta di un tenue giallo paglierino. Quattro enormi specchi, della stessa misura delle finestre, sembravano contenere le medesime; davano loro sostegno delle stupende cornici in legno di frassino riproducenti delle fragole e relative foglie, con colori naturali da farle sembrare vere, fresche, commestibili. Sulla parete di fronte due specchi uguali agli altri, in corrispondenza del primo e dell’ultimo, davano il senso della profondità senza fine. Nel mezzo un grande camino riscaldava e dava luce. Quasi a filo muro era la base in marmo rosa, sulla quale poggiavano due colonne in bronzo con capitello dorico; sopra, un architrave dello stesso marmo chiudeva la grande apertura. L’immediato parquet era protetto da un manufatto in rame a forma di arco sesto scemo. Due enormi lampadari in ferro battuto stavano appesi a due carrucole fissate al soffitto; alle pareti diversi candelieri multipli completavano l’illuminazione rendendola buona. Guardando il camino, l’angolo di sinistra della stessa parete era riservato ai musicisti; un ampio tappeto rettangolare ne stabiliva i limiti entro i quali avrebbero preso posto di li a poco. I quattro tavoli tondi erano sistemati a semicerchio nell’angolo opposto, sempre a sinistra, volgendosi verso il fuoco. Per ogni tavolo vi erano otto comodissime poltroncine in legno lavorato color oro; con sedili, schienali e braccioli ricoperti di raso di seta a righe verticali azzurre e grigie. Un gran colpo d’occhio, di forte effetto, Augusto si complimento col conte; dalla sua lunga e collaudata esperienza approvò tutto incondizionatamente. Lungo le pareti, cinque divanetti con poltroncine uguali e tavolini, riempivano gli spazi vuoti. “Come ti pare?” chiese il conte. “Eccellente. Uno spiccato gusto raffinato unito alla praticità, e di questa se ne deve tenere conto se si vuole che tutto fili liscio, senza intoppi” “ma, esiste un’uscita diversa? Non ne vedo! Sai, potrebbe venire comoda”. “Certo che c’è” rispose Alberto “vieni, te la mostro”.
Lo condusse nell’angolo dov’era sistemato il tappeto per i musicisti e gli additò una porticina che si notava solamente ad un metro di distanza, non prima; una piccola ed ingegnosa opera d’arte che stupì grandemente Augusto. “Stupefacente, ha del prodigioso. Incredibile” sentenziò. “Sì, sì, ingegnoso indubbiamente. Ora veniamo alla sistemazione del tavolo principesco. Come vedi, ho fatto sistemare dei graziosi cartoncini segnaposto, con scritto il nome di ogni commensale, così da evitare ogni confusione e senz’altro togliere d’impaccio qualcuno; vedi Augusto, il posto l’è lì bell’assegnato, nessuno se l’è scelto e va bene per tutti. Si è tenuto conto di tutto, parentele lontane, simpatie e non, affinità di attività; fisime delle gentilissime consorti… pericolosissime; amanti pregresse e attuali ed altro ancora che non sto a dirti”. “Ne sono ben consapevole, ne so qualcosa di tali intrecci di lavoro, di sentimenti, di invidie, gelosie… si deve usare molta prudenza, misura; a volte basta uno sguardo non del tutto pertinente, seppure innocente, per rovinarti una serata, un’amicizia. Nel mio mestiere Alberto, sono diventato senza rendermene conto, uno scrutatore di persone, un attento osservatore degli aspetti umani in molte delle loro sfaccettature e ti posso assicurare che in codesto settore mi so muovere con sufficiente capacità”. Si avvicinarono intanto al loro tavolo a i lenti, gli girarono intorno da direzioni opposte per poi ricongiungersi; infine Alberto disse “Ecco, la disposizione dei commensali è stata effettuata tenendo presente le esigenze primarie del principe, in merito alle promesse che gli feci… che ti feci durante la mia visita a Napoli e… tu, il principe, abiti in un palazzo di via Toledo, famosa in tutto il mondo. Ti sei risposato da poco, dopo un periodo di vedovanza di circa un anno, con una giovine donna, il cui nome ignoro, di lontane origini corse. Ma poi sta a te districarti nelle varie situazioni che si potranno creare; sono certo che saprai uscirne indenne, almeno lo spero”. “Riguardo a ciò tranquillizzati… ho già in mente… poi, quando parla un principe…”il” principe Diego Antonio Olivares di Salamarsina… insomma quando parlerò, gli altri dovranno solo ascoltare e credere a ciò che dirò e… e, se avranno domande da pormi, dovranno essere a modo, pertinenti, non tendenziose e del tutto dilettevoli. Ti garba in codesto modo?”
“Sì, sì, moltissimamente Augus… principe Olivares. È opportuno chiamarvi già da ora col vostro appellativo esatto ed usare il pronome adeguato… eccellenza illustrissima”. “Concordo conte Alberto Braccioforte, mi trovate perfettamente in sintonia col vostro giusto pensiero”. “Bene, ora che abbiamo stabilito le esatte gerarchie non rimane che rispettarle” chiosò Alberto mentre toglieva dal taschino l’orologio. “Le cinque! Andiamo dalla principessa, andiamo, animo, in fretta su; dai Augusto muov…” “Ma conte Braccioforte, vi rivolgete in codesto modo sì volgare ad un principe la cui casata risale al quattordicesimo secolo?” “Vi chiedo umilmente perdono principe Olivares… seguitemi”. Sorrisero soddisfatti e si diressero prima verso lo studio del conte, dove Osvaldo stava rimettendo in ordine ciò che era stato stravolto durante la terribile esperienza del telegramma. “Eccoci Osvaldo, penso non sia successo nulla di… beh, se non mi hai avvertito…” “Pensate bene signor conte. Ben arrivato signor principe, son ben lieto di mettermi a vostra disposizione, come comandatomi dal signor conte”. “Grazie Osvaldo” rispose il principe “ora siamo tutti entrati nella nostra parte, in vero più nella mia… facciamoci coraggio e proseguiamo con assoluta tranquillità”. I due annuirono con sicurezza e determinazione. “Dunque principe Olivares, come vi promisi allora, sarà presente alla cena commemorativa il marchese Carati di Monteforte, referente del ministro… sapete, per quel completamento della tratta ferroviaria Asciano-Grosseto. Ecco, sta a voi fare in modo che… insomma, con una delle vostre aziende dovreste… vi auguro e spero riusciate ad ottenere un posto di privilegio nella gara d’appalto per la costruzione della linea… per poi portare la notizia al nostro comune amico che ora si trova… ehm, degente a Siena”.
“Oh si certo, una delle mie aziende… mentre le altre?” “Beh le altre… nessuno sa quali siano… se non lo sapete voi, chi altro potrebbe saperlo?” “Giusto, giustissimo, solo io lo posso sapere e… che tipo è codesto marchese Carati di… di Monteforte?” “Eh, bella domanda caro principe, a cui segue una risposta del tutto insufficiente. Mi dispiace, sono desolato, ma non vi posso essere di aiuto… sta a voi indagare con cautela la psiche del nostro… ma stando a quanto avete appena affermato è codesta un’arte a cui siete avvezzo, vero?” “Vedrò come comportarmi in base alle informazioni che riuscirò a percepire… in un modo o nell’altro riusciremo a conseguire il risultato prefissato!” “Certo principe, ce lo auguriamo vivamente… dunque voi sederete alla mia destra ed alla vostra sederà la principessa…” “Maria Bambina signor conte, si chiama Maria Bambina, pronipote dei conti di Macinaggio”. “Finalmente sappiamo anche il nome, Maria Bambina… e lei? La principessa dico…” “Ora mi recherò nel suo alloggio e glielo comunicherò”. “Avete intenzione di farle visita ora, caro principe?” “Si certo, ora subitissimamente… dobbiamo pure conoscerci e… in un certo senso prendere accordi prima che inizi codesta storica cena commemorativa”. “Va bene, come desiderate”. “Vi dicevo dunque, alla destra della vostra consorte prenderà posto la baronessa Cavalcanti e in fianco a lei il marito Guidobono Cavalcanti; alla destra di questo si troverà il marchese Carati, quindi la marchesa; chiuderà il cerchio mia moglie Elvira. Ecco, penso possa andare bene!” “Sì, confermo, è meglio evitare un contatto diretto… potrebbe insospettire.
Bene, ora è meglio che vada…” “Principeee!” interruppe Alberto “principe fermatevi!” “Che c’è conte, vi vedo alquanto turbato”. “Principe, siamo nella me… nella melassa fino al collo… accidentiii! La fascia, la fascia con i colori giallo e blu della casata degli Olivares principi di Salamarsina!” “Questa poi… accidenti a tutti… questa poi… non disperiamo!” disse il principe “Eh… eh non disperiamo, la fate troppo facile voi; sì, invece disperiamo… il frac va bene, la camicia con farfalla bianca pure, il bellissimo gilet di seta bianca… ma senza fascia, senza la fascia non potrete mai, mai presentarvi al cospetto degli invitati… è come se entraste nudo… capite?” Si guardarono in volto basiti. I minuti avano inesorabili, Alberto fu preso di nuovo da grande scoramento. Osvaldo guardava ancora il soffitto con aria sufficiente, infine si decise a parlare “Ehm… se il signor conte mi concede il permesso” e senza averlo punto ricevuto si mosse, prese una seggiola, la spostò di fianco alla porta e vi sali sopra; sciolse il drappo di chiamata, lo piegò e lo porse al principe “Eccellenza illustrissima… la vostra fascia completa di fiocco… col vostro permesso vi aiuto ad indossarla”. Il conte rimase muto, strabiliato; rigirato ancora una volta da una stato di depressione ad un altro di euforia in breve tempo. Si sentiva come uno straccio, senza più nerbo… anzi no, no, rinvenne, aveva dimenticato l’angoscia precedente, era pronto ad accogliere gli ospiti “Ora Alberto Braccioforte, conte di Gavorrano, farà la sua parte” “Ragazzi… formiamo un bel trio… rimaniamo uniti… nulla più temeremo. Osvaldo, accompagna il principe dove sai” e uscì.
La principessa
Tutto si aspettava Elvira, ma non tanto quanto si vide davanti nel momento in cui la cameriera introdusse nella saletta Savina. Le cascarono le braccia, ma non tradì nessuna emozione; rispetto al conte era molto più lucida, più presente a sé stessa; non si lasciava condizionare da apparenze, supposizioni, avvenimenti. C’era in lei una razionalità che non la abbandonava e questo l’aiutava a superare difficoltà, imprevisti, ostacoli di ogni tipo; se non ne usciva vincente del tutto, in qualche modo ci metteva del suo addolcendo non poco la negatività dello specifico. Il primo riscontro che ebbe dalla giovine fu il pungente odore di stallatico che la circondava; poi rilevò automaticamente l’altezza: quasi di una spanna superiore alla sua; infine la colpirono gli occhi neri, tondi tondi, con molto bianco intorno alla pupille; le ciglia lunghe e flessuose. “Savina?” “Sì, signora contessa, m’hanno trascinata qui e…” “Non preoccuparti, lascia fare e sii docile ai comandi. Sai cos’é un bagno?” “Sì, certo che lo so”. “Allora andiamoci, di tempo non ce ne resta molto. Non sciupiamolo”. Entrarono nell’ampia sala da toeletta dov’era già pronta la vasca riempita d’acqua calda. Savina si tolse il mantellone scuro che la copriva e una specie di cuffia, rimanendo con addosso un abito di foggia ata che poteva essere ancora quello che indossava la mamma da ragazza. “Via tutto, togliti tutto ed entra nella vasca”. Così ella fece obbedendo docilmente; abbandonò anche gli zoccoli rimanendo senza nulla addosso.
Elvira le volgeva le spalle rovistando fra le boccette dei vari sali e profumi, mentre la cameriera si caricò degli indumenti e li portò lontano, compresi gli zoccoli. “Oh, eccoli finalmente” disse la contessa aprendo uno stipetto “per prima emo quest’essenza al lim…” Allorché si girò, stringendo nelle mani i flaconi, si ritrovò la ragazza di fronte “Mio Dio” mormorò a voce bassa al punto che Savina non comprese. “Mio Dio” ripeté con tono ancor più basso, rimanendo cogli occhi fissi su di lei. “Non ho compreso signora contessa, dicevate…?” La ragazza pronunciò codeste parole nel modo più naturale, non provando nessun imbarazzo; il pudore non c’entrava per nulla, non aveva motivo di esistere; era annientato da una semplicità, da una naturalezza, da una purezza biblica da paradiso terrestre. Elvira, che ormai si avvicinava alla soglia della vecchiezza con i suoi trentasette anni, non aveva mai visto nulla di più stupefacente in vita sua. Dire che ciò che ammirava era bello, non solo risultava banale, ma quasi offensivo. Ciò che più la impressionò furono le proporzioni anatomiche: perfette! Si poteva rimanere delle ore ad ammirarla. Le spalle dritte, larghe e arrotondate dai deltoidi pronunciati; le labbra rosa e carnose, molto ben appuntite sotto il naso, dritto e corto; le mascelle squadrate e le guance rientranti mettevano in risalto gli zigomi leggermente rosati. Un seno molto generoso, alto e ritto come solo a quell’età si può possedere. Un vitino da vespa; il ventre, piatto e liscio, terminava sul pube coperto da folti ricci neri. Le anche dolcemente tondeggianti si raccoglievano a cuore sopra le gambe lunghe, affusolate e dritte; l’interno delle cosce non si toccava, lasciando un’ampia luce fra loro. I piedi, a dispetto degli zoccoli, da fatina; gentilissimi, con dita minute e sottili. Elvira le girò dietro la schiena lentamente, reggendo sempre le bottigliette colle mani; la perfezione era ancor più evidente. La sottigliezza della vita era accentuata dalla larghezza della spalle e dalla rotondità pronunciata delle natiche, due bocce rosa leggermente separate da un gentilissimo e raffinato solco. Nessuna pur piccola imperfezione offendeva l’epidermide.
“Nulla, nulla… entra nella vasca”. Quella obbedì. Mise dentro prima un piede, poi l’altro, s’accucciò e sparì nell’acqua, lasciando fuori solo la testa. La cameriera ritornò portando con sé altre boccette e degli arnesi per rimettere in ordine i capelli alquanto scomposti e sudici. “Orbene, sei arrivata finalmente… hai portato tutto?” “Sì, signora contessa, erano i ferri per i cap…” “Va bene, va bene, lascia perdere e aiutami”. Le due donne procedettero alacremente nell’operazione di pulizia generale della ragazza non trascurando nulla; per scrupolo e sicurezza ripeterono un altro bagno con essenze più decise. “Ecco, ora esci e indossa questo telo, così non prenderai freddo” disse Elvira. Savina si alzò ritta nella vasca; aveva una pelle resa lucida dall’acqua che gocciolava lungo il corpo; profumava di buono, di molto buono. La cameriera la guardò esterrefatta “Oooh… oooh” non riuscì a trattenere la meraviglia, e ancora “Siete di uno splendore accecante… signorina!” La ragazza si avvolse nel telo che le avevano porto, in maniera che pareva indossasse una dalmatica bianca, poi le asciugarono i capelli, ponendole alla fine sul capo un panno a mo’ di turbante. “È permesso?” era la voce di Osvaldo che si annunciava alla porta. “Un attimo Osvaldo, che c’è?” Senza farsi vedere quello rispose “È con me sua eccellenza illustrissima Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina”. Le tre donne si girarono verso la porta guardandosi in volto stupite; la ragazza sorrise ed annuì col capo. “Venite, venite pure avanti” Rispose Elvira con tono calmo e rassicurante. Osvaldo apparve sulla soglia del locale, la oltreò di un poco ponendosi di
fianco “Sua eccellenza il principe Olivares”. Pochi secondi dopo apparve il principe. Alto, sorridente, curato nei capelli e, in viso, due baffetti perfetti, gli occhi luminosi. Vestiva un frac impeccabile, fra questo ed il gilet, la fascia principesca blu bordata di giallo scendeva morbida dalla spalla destra verso il fianco sinistro, lasciando intravedere il fiocco. Era sontuoso. Sorprese, le tre non aprirono bocca; toccò al principe rompere il ghiaccio. “Contessa vi chiedo perdono per la mia impudenza, ma, come ben sapete, è necessario che conferisca con la mia consorte Maria Bambina”. Elvira era in modo molto evidente confusa, se non l’avesse visto qualche ora prima mai avrebbe sospettato che potesse essere qualcosa di diverso da ciò che ammirava. “Certo signor prin… ehm eccellenza… se desiderate, cioè ecco io… come desiderate…”. L’imbarazzo era al culmine; la cameriera fece un accenno d’inchino e sparì; Osvaldo rimase tranquillo al suo posto incuriosito, la situazione venutasi a creare lo intrigava non poco, desiderava morbosamente di assistere al prosieguo. Elvira tentò di riprendere senza sapere ciò che diceva “come vostra alt… scusate eccellenza… signor Oliv… principe di… diii…” s’interruppe di botto; un nodo alla gola la soffocava e le provocava dolore. Chinò il capo arrossendo, un movimento convulso del mento trattenuto a forza, indicava uno scoppio imminente di pianto. Il principe se ne accorse ed intervenne. “Esimia contessa Braccioforte, spero vogliate concedermi l’onore di fare la vostra conoscenza… senza prima avermi degnato e deliziato di un vostro sorriso” disse don Diego Antonio avvicinandosi a i lenti, con viso gioioso e rassicurante. La contessa alzò il capo rinfrancata, sorrise e allungò la mano destra; due goccioloni scesero dagli occhi a testimonianza della sofferenza patita. Il principe le prese la mano delicatamente, chinò il capo portando le labbra ad un paio di centimetri dal dorso, ma non la baciò; rialzò il capo e le lasciò morbidamente l’arto accompagnandolo.
“Contessa, permettetemi di esprimervi tutta la mia felicità di avervi incontrato ma… nessuno mai mi ha accolto con simile commozione… oppure debbo pensare che vi abbia intimorito? Che forse mi sarei mosso da Napoli per giungere nella capitale del Regno e… cibarmi di affascinanti contesse?” Risero tutti in modo fragoroso, esagerato, come il contesto che si era creato in qualche modo esigeva. Eh si, ci sapeva fare il nostro, ci sapeva fare, senza dubbio. Elvira si interrogò sul perché di tale debolezza; si venne a trovare in uno stato d’animo che sembrava, forse, un sentimento. Proprio a lei, di solito ben salda, senza tentennamenti, tenendo sempre presente l’obiettivo da raggiungere e perseguendolo con tenacia. Quel giorno in poche ore era la seconda volta che soccombeva; le risultava difficile trovare se non una ragione, almeno un motivo che potesse essere un indizio di qualche dato sicuro. Le sovvenne d’improvviso un pensiero impossibile; non gli permise di avvicinarsi e lo prese a calci. “Orbene finalmente sappiamo anche il nome della nostra prin-ci-pes-sa, Mariaaa Bambinaaa. Ma che fantasia vero? Di grazia, dove siete andato a pescarlo caro il mio signor prin-ci-pe?” disse deridendoli. Osvaldo ebbe un forte impulso di urlare in faccia alla contessa quel che si meritava, ma chissà quale santo gli venne in soccorso e tossì fortemente, più volte, stizzito, senza pudore: era il suo modo di gridarle: “villana travestita da contessa”. Il principe strinse i denti, tenne a freno lingua e… mani, sì, mani; gli venne voglia di buttarla dalla finestra. Con tutto ciò che stavano facendo per il conte e naturalmente anche per lei, subire un’offesa similmente grave, senza nessun motivo… ma perché! “Gentile contessa, dovrei chiederlo ai genitori, miei suoceri, ma… ahimè… sono di già traati; sono desolato di non potervi esaudire”. La principessa, in dalmatica e turbante, non si scompose più di tanto, anzi per nulla; quale essere di sesso uguale, comprese tosto il motivo di tale improvvida… esternazione. “Mi chiamo Savi…”, “Voi siete la… la! Principessa Maria Bambina Olivares di
Salamarsina” la interrupe perentorio il principe, dal cui volto scomparvero la luminosità ed il sorriso e presero posto la tenebrosità e la durezza; solo per breve tempo, brevissimo, ma tutto il necessario perché la sventurata contessa capisse il danno che aveva procurato in un momento molto delicato: deridere due persone che stanno tentando di salvarle onore, dignità, nobiltà e patrimonio. Appena pronunciata l’ultima parola avrebbe desiderato subito aggiungere che stava scherzando e naturalmente tutto si sarebbe risolto con un’altra sonora risata; ma così non fu, qualcosa glielo impedì, una volontà che non dipendeva da lei; sapeva il male che aveva procurato, ma in un certo senso, per altro molto difficile da spiegarsi, le stava bene così. Era come se avesse detto: “Ricordati che tu sei un’ochetta ignorante e per giunta contadina e vivi assieme alla vacche, nella stalla; e tu altro un camerierucolo emigrante: ma quale principe e principessa”. Don Diego Antonio si avvicinò a questa fermandosi a meno di un metro di distanza, ignorando completamente la contessa: si guardarono in viso lungamente, poi si sorrisero come di solito fanno un ragazzo ed una ragazza quando si incontrano alle Cascine in primavera. “Principessa Maria Bambina”, “Principe Diego Antonio” rispose lei chinando leggermente il capo in segno deferente. Il principe le prese la mano destra e rimanendo ritto, la portò alle labbra e ve la tenne lungamente, guardandola negli occhi. Lei lasciò fare, come moglie ci poteva stare no? Intanto teneva d’occhio la contessa cercando una conferma di ciò che pensava, e questa non tardò ad arrivare. “Principe, il vostro baciamano mi ha provocato un brivido, siete molto carino colla vostra consorte”. La contessa arrossì fortemente e si girò di scatto, cercando qualcosa fra le ampolline che nemmeno lei sapeva, facendone tintinnare alcune e si mise a chiamare a gran voce la cameriera “Marta! Martaaa! Dove diavolo ti sei cacciata?! Scalda i ferri per i capelli, dai ch’è tardi, muoviti! Martaaa!” La principessa rise sommessamente alzando le spalle e incassando il collo: aveva ricevuto la conferma dell’esattezza di ciò che pensava. Il principe annuì e le fece cenno colle labbra unite di contenersi; ciò che l’altra fece immediatamente. La contessa e Marta, nel frattempo sopraggiunta, misero a sedere la ragazza, le sciolsero il turbante di panno e si avventarono su di lei; sembravano indiavolate;
ferri ati e riati, pinze, spazzole… Alle donne si sa, piace giuocare; non che ce ne sia uno di prediletto, ma allorché un avvenimento si presenta loro in modo che può essere assimilato ad un giuoco, beh… se possono non se lo lasciano sfuggire. Può essere che ciò avvenga per via, in cucina, di notte, di giorno, in modisteria, in un caffè… non ha importanza; ciò che conta è che non sia pernicioso e che sollazzi, si sollazzi molto, sollazzi assai, sia sollazzissimamente sollazzoso. Aaah, che goduria! “E se ci presentassimo così? Pensate principe che ci potrebbe essere uno… scandalo?” sbottò improvvisamente la principessa. Elvira uscì di senno “Ehi tu ragazzina” urlò istericamente “se avessi ricevuto un’educazione da principessa e non da…” “Ne ha ricevuta un’altra di educazione, certissimamente migliore!” l’interruppe Osvaldo ad alta voce. Sapeva benissimo che con codesta sortita si stava giuocando l’impiego ma, insomma… quando ci vuole, ci vuole! “Ma stavo dicendo così per dire, per allentare un poco la tensione; chiedo perdono se ho offeso. Comunque se non mi ritenete all’altezza, se pensate che possa nuocere alla vostra causa… ecco, son qui a disposizione… signora contessa”. Tali parole di umiltà, sottomissione, furono apprezzate dalla contessa, non tanto per il loro significato, ma bensì per il riconoscimento del ruolo subalterno che la ragazza riconfermava, ristabilendo così la giusta gerarchia. “Basta così, ora sta zitta stupida oca. E in quanto a te… bellimbusto… sai già quale sarà la tua fine!… visto che apprezzi di più l’educazione di una contadina povera, ignorante, insolente, analfabeta, cattiva, irrispettosa, bugiarda e… e ancora di più, a quella di una principessa vera, vera, veraaa!”. “Signora contessa, l’unico vocabolo esatto, vero, con cui avete definito la principessa è il primo” disse Osvaldo con fermezza. “Hai ancora il coraggio di parlare? Taci! Animaleee!!!” Era veramente fuori di senno. Cercava con tutte le sue forze di trattenersi ma non vi riusciva; la voglia matta di sfogare tutto il suo livore prese il sopravvento; non si chiedeva più il perché lo faceva: godeva nel farlo. Un godimento malsano, inquietante, quello che deriva dall’acredine. Proseguì ancora urlando “per ciò che riguarda te,
principe della mie mutande sporche, principe… principe del pitale colmo, principe della latrina; non osare più rivolgermi la parola… pezzente ubriaco, straccione ladro, mendicante sozzo. Non are mai più davanti al palazzo dei conti Braccioforte di Gavorrano, altrimenti… altrimenti ti faccio sparare in bocca!” Più la contessa scatenava la sua crudeltà, più la principessa prendeva sicurezza e ne godeva. Pure codesto godimento era insano, poiché proveniva dall’ira altrui; se ne accorse e mutò atteggiamento la giovine. “Che ore sono, di grazia principe?” chiese al consorte. “Le sei in punto” rispose Diego Antonio riponendo l’orologio nel taschino. Seguì un momento di silenzio imbarazzante; tutti si resero conto che si doveva correre, far presto, non si poteva più sprecar neppur un solo secondo. Il principe riprese l’aria simpatica che gli era propria e sorridendo si avvicinò ad Elvira “Signora contessa, permettetemi, visto che mi rimane ancora la bocca intatta, per ora…” Chissà perché, codesta volta a sproposito, ci fu una seconda sonora e sguaiata risata collettiva a suggello, come pietra tombale, di quanto era stato detto e fatto precedentemente. Il ato era ato e non contava più per nessuno. “Dite don Diego, dite pure senza timore” Quello le si avvicinò guardandola fissa negli occhi, allungò le braccia tese, colle palme a breve distanza dalle spalle senza toccarla. La vipera fece un leggero accenno di avanzamento nella speranza di essere almeno sfiorata. Il principe percepì la lieve mossa ma si astenne dal toccarla. “Signora contessa, vi sto vedendo, ammirando con stupore; le attenzioni ed i servigi che state compiendo verso la principessa, vi rendono molto onore” “Ma no, ma che dite principe, non…” “lasciate dire, lasciate dire, è la verità! Ora è giunto il momento di pensare all’abito… abbiate la bontà di mostrarmi, se non vi chiedo troppo…”
“Certo, subitissimo. Venite con me principe, seguitemi tosto” Elvira, che non aspettava altro, prese la palla al balzo. Sentiva una forte attrazione verso di lui e non la nascondeva; si prendeva, in un certo senso, una rivincita sulla principessa. Giunsero al fine, in un locale dove c’erano alcuni armadi. Elvira ne aprì uno “Ecco, questi sono gli abiti più adatti, secondo il mio parere”. Pronunciò codeste parole mentre il principe le si avvicinava lentamente, fermandosi a brevissima distanza. “Se volete… dare… uno sguardo a…” Era turbata di nuovo, agitata, fremente. Il principe notò alcuni lampi velocissimi scintillare negli occhi della contessa; si avvicinò ancora quasi a contatto di naso.”Elvira” le sussurrò. Lei reclinò leggermente il capo sulla spalla destra alzando il mento. Lui alzò una mano e le accarezzò il viso col dorso delle dita. Un fremito perentorio la percorse tutta; emise una specie di gemito simile ad un bramito, poi sospirò in attesa… “Elvira, voi meritate tutte le attenzioni degne di una splendida donna quale siete, e ancora di più, ma il conte vostro sposo è mio amico” e la baciò castamente su una guancia. Lei perse l’equilibrio e si aggrappò a lui “Oh… oh… non mi lasciate, non mi lasciate vi prego”. Si ricompose subito. “Dunque ditemi contessa, come vestono solitamente le dame, sempre in bianco?” “Sì, sì, in bianco… è quasi d’obbligo. A volte è possibile notare qualche balza in colore tenue, che so, in giallino, verdino, rosa chiaro chiaro…” “Ho capito e… abbiate la compiacenza di descrivermi da capo a piedi una signora, diciamo la signora tipo, che potrebbe rappresentare la maggior parte delle invitate”. “Ecco principe, si può dire con sufficiente sicurezza che la donna tipo, entrando nel merito delle commensali, porti un’acconciatura ricca, con composizioni floreali, cappellini di varia foggia. Occhi, labbra e guance ben colorite, talvolta pure in maniera esagerata; profumatissime, dall’essenza alle rose a quella alla violetta, fino ad altre dolciastre e nauseanti, queste ultime sono proprie delle più… insomma, di quelle più avanti negli anni. Quasi tutte portano il collarino, in velluto od in raso di seta, con al centro solitamente un cammeo: per la paura della pur minimissima presenza di un piccolissimo accenno di ruga si coprono…
ci copriamo tutte, e chi non lo fa, si vede scrutare la gola dalle altre in modo ossessivo. Eh sì, nascondere, nascondere… ma dico io nascondere cosa! Gli anni che ano? Pura illusione !” “La vostra saggezza contessa, unita alla vostra bellezza, vi rendono insuperabile; eppoi la vecchiaia non è affar vostro”. “Ancora per poco… purtroppo” “Non dite sciocchezze, suvvia” “Ritorniamo nel merito principe, veniamo all’abito, che rimane sempre di colore bianco, come del resto tutti i cavalieri vestono il frac. Normalmente le maniche son sempre lunghe, poiché coloro che hanno superato i quarant’anni devono nascondere le braccia, per cui poche con le maniche a gomito. La crinolina più ampia possibile, sostenuta da quanti più cerchi di metallo sia possibile. Per finire calze bianche in seta e scarpine delle più strane, a patto che siano molto arricchite, anche ricamate, nastri, lacci, laccetti. Ecco, è tutto”. Il principe stette a pensare un poco; non era convinto del tutto che la principessa si potesse infilare in uno di quegli abiti convenzionali, stereotipati, tutti eguali. “Dite contessa, com’è la principessa? Come vi pare? Secondo voi, come la vedete, intendo come fisico, in quale abi…” “Voi avete lo stramaledetto vizio di farmi innervosire, principe; ancora di quella la mi venite a parl…” “Ma contessa, non sarete…” “Nooo, no che non lo sono! E perché dovrei esserlo!” urlò lei. “Essere… cosa?” “Ciò che voi intendete!” “E cosa intendo, di grazia?” “Aaah principeee! Quanto siete fortunato che non sia in possesso di una pistola!”
“Contessa, voi siete in possesso di una cosa molto più potente di una pistola” Elvira lo guardò furibonda “Ma come vi permettete…” “Ma contessa, non penserete…” “Nooo, no che non lo penso! E perché dovrei pensarlo?” “Pensare… cosa?” “Ciò che voi intendete!” “E cosa intendo, di grazia?” “Principe, mi state smontando… pezzo per pezzo. Smettetela, vi prego”. “Allora decidetevi a dirmi cosa ne pensate della principessa, come vi pa…” “È… è… insomma, è l’essere più perfetto che abbia mai visto”. “Ma ne siete proprio sicura?” “Bastaaa!” urlò Elvira “ma quando la finirete di tormentarmi! Cosa volete che vi dica, eh? Che vorrei essere giovine come lei? Alta quanto lei? Essere dotata di un seno come lo ha lei? Bella come lo è leiii? Essere guardata da voi come guardate lei? Ebbene, lo volete sapere?” Il principe allargò le braccia alzando le sopracciglia come per dire “fate voi”. “Ebbene sìii, sì, sì, sì, sìii che lo vorrei! Lo vorrei, lo vorrei, lo vorrei come primo e ultimo desiderio della mia vita, poiché non esiste essere più ancora che perfetto su codesta terra…”. Aveva gli occhi di fuoco, sembravano schizzar fuori dalle orbite; sbavava schifosamente, era diventata un essere repellente, a testimonianza di come l’invidia aggiunta all’odio possano ridurre l’essere umano. Riprese a voce lenta e rauca “Pur di essere come lei sarei disposta a… vendere l’anima al… sìii… al diav…” “Nooo, per l’amor di Dio, non lo dite, non pensatelo nemmeno, non lo pronunciate!” la interruppe urlando la principessa. “E tu cosa ci fai qui? Stavi origliando vero? Sgualdrinella! Non lo sai che si fa
peccato? Che ad origliare si fila dritti all’inferno? Ti ci porto io se ci tieni tanto, ci andiamo insiemeee! All’infernooo!” “Ma che dite contessa! No che non ci voglio andare all’inferno… e neppure voi sapete! Noi tutti siamo stati concepiti per il paradiso, lo dice pure Paolo, l’apostolo, e là dovremo finire. Eppoi non stavo affatto origliando; ho solo udito che urlavate fortissimamente e son corsa verso la voce, fermando in tempo la vostra bestemmia. Non mi considero come voi dite, ma se in qualche modo la mia apparenza può nuocere, allora ve lo ripeto, potrei rimettermi i miei abiti”. “Ma cosa dici… tu, tu vorresti” “Sì, se ciò vi acquieta e vi da un poco di pace. Ma fatelo dopo non ora, dopo la serata, perché la cena andrà di un gran bene che non ne avete idea!” “Ma cosa ti da codesta certezza… bimba mia?” “Voi contessa” “Io?!… e come, dopo ciò che… dopo tutto il… quello che ho fatto… non capisco… la certezza da me?!” “Avrete tutta la sera e la notte per riflettere contessa”. Elvira si guardava intorno attonita, confusa, in cerca di uno sguardo, di un conforto; ma non ne trovò. Quanti stravolgimenti subì dal mattino; tutte le sue sicurezze si scioglievano come neve al sole. Mutava umore continuamente e ciò la rendeva ancor più vulnerabile. “Ma dove è finita l’Elvira che conosco e che son sempre stata?” “Signora contessa” apparve Osvaldo che da tempo si era recato al suo impiego nella sala della gran festa “Vostro marito, il signor conte, mi ha ordinato di portarvi in sala così come siete e di peso per giunta. Devo eseguire gli ordini” e le si avvicinò. “No, no Osvaldo ti prego, vieni con me. Voi fate ciò che dovete”. “Signora contessa, non mi sono mai permesso di contraddire gli ordini del signor conte, li ho sempre eseguiti, devo prelevarvi immantinente”. “Aspetta, seguimi”.
“E dove signora contessa, mancate solo voi e loro due”. Elvira uscì in fretta rincorsa da Osvaldo; si diresse verso la sua camera per darsi gli ultimi ritocchi, poi docilmente seguì il maggiordomo.
Gli invitati
Poco dopo che Osvaldo accompagnò il principe presso la camera della contessa, si affacciò all’entrata della sala grande il maestro di cappella con il seguito dei musicisti “È permesso entrare signor conte? Colla più riverita buona sera”. “Avanti, avanti accomodatevi. Ho fatto preparare laggiù come da vostro consiglio. Seguitemi”. “Oh bene, eccoci qui. Vi presento i maestri, signor conte. I tre violini” e quelli chinarono il capo “la viola da gamba” pure lui inchinò “il violoncello” ultimo inchino. “Signori siete i benvenuti, vi auguro un’eccellente serata” “Grazie signor conte” echeggiarono le cinque voci all’unisono, e presero posto sul tappeto, già completo di sedie e leggii. “Ora maestro ascoltatemi bene, molto bene, poiché difficilmente potrò rivolgervi la parola dopo codeste che udrete” “Dite, comandate signor conte, vi ascolto con attenzione”. “Dunque, comincerete subito, da quando siete pronti, eseguendo brani del settecento italiano come concordato, in modo leggero, sottotono quasi, avete compreso?” “Certissimamente sì signor conte, ho compreso” “Bene. Allorché udrete un doppio scamlio vi fermerete; attenderete che il maggiordomo annunci il titolo ed il casato, lascerete che la coppia appaia, quindi inizierete tosto con un allegro sostenuto, vivace; gli allegri dovranno essere tutti diversi uno dall’altro, nessuna ripetizione! Intesi?”
“Va bene, va benissimo, di allegri ne abbiamo in repertorio quanti ne desiderate signor conte”. “Ad un più lungo e triplo tintinnare di camlo, vi fermerete come al solito, attenderete l’annuncio e all’apparire della coppia attaccherete con il Kanon di Pachelbel fino a completarlo. Chiaro?” “Chiarissimo, perfettissimamente chiaro signor conte; anzi, per sicurezza ordino ai maestri di approntare immantinente lo spartito medesimo sui leggii”. Poi rivolgendosi agli orchestrali “Signori maestri per favore, esporre tosto lo spartito del “Kanon in d dür” di Johann Pachelbel. Eseguire!” “Eccoci, è già pronto sul leggio” risposero quelli all’unisono. “Ecco, signor conte, come potete constatare le partiture son di già dispiegate… volete ascoltare il brano?” “Perché no, volentieri maestro, così vi scaldate un poco”. Dlin, dlin, dlin... dlin, dlin, dlin. Un maggiordomo annunciò: “Il barone Guidobono Cavalcanti e consorte baronessa Cristina”. “Allegretto, allegretto, no, no, no… non abbiamo ancora accordato!” Il conte guardò il maestro e annuì bonariamente; meglio non eseguire un brano piuttosto che suonarlo cogli strumenti non perfettamente accordati. Quello prese dalla borsa una custodia di velluto verde, dalla quale estrasse il diapason argenteo; ne afferrò il fulcro fra il pollice e l’indice della mano destra e percosse con un’estremità della forcella il leggio: “laìiinnng”, poi ancora e ancora, finché tutti accordarono perfettamente il loro strumento. “Guido, Guido… baronessa… amici miei, miei cari amici… che grandissima gioia mi procurate; prego, prego accomodatevi… siete splendida signora baronessa; grazie, grazie di cuore, venite, rimanete con me, come state?” “Bene… bene” rispose un po’ confusa la baronessa. “Alberto, che c’è; ti vedo agitato, che diavolo è successo?” Il conte baciò la mano alla signora e abbracciò il barone.
“Guido… oh Guido, che giornata, che giornata… ma ora, ora tutto bene; un giorno poi ti racconterò, a te sì, solo a te, solo a voi due lo racconterò… aaah Guido che…” “Alberto, ascolta e calmati, hai necessità che faccia qualcosa per te?” “No, no… ora non più, ora è tutto… rientrato… sediamoci”. I baroni presero posto su un divanetto, Alberto avvicinò loro una poltroncina e si sedette. “Maestro, allora?” disse. Quello picchiò quattro volte la bacchetta sul leggio e subito attaccò il basso continuo del violoncello le prime due battute del tema di base; alla terza entrò il primo violino e diede inizio allo svolgimento Kanonico. Alberto, anche per via della musica soave, a volte taumaturgica quanto il vino, si calmò, si tranquillizzò e riprese pian piano l’aria consueta. “Quante, quante emozioni da stamane Guido, non te lo puoi immaginare. Ho rischiato… la vita!” “Ohibò Alberto, ma che dici, qualcuno ti ha attentato?” “Ma no, no; gli è che codesto mutamento repentino di fatti, notizie, avvenimenti, prima tragici, subito dopo gioiosi; neppure il tempo di assaporarli e di nuovo si ripresentano in modo catastrofico per poi riprendere uno svolgersi tranquillo, quindi tutto daccapo. Ora è… sembra tutto ato”: “Bene Alberto, son più tranquillo anch’io. Mi compiaccio e godiamoci il finale del Kanon”. “Sì, sì, quanto mi siete preziosi sapete! Nella bufera, quando stai lottando da solo e ti senti quasi sopraffare, la sola vista di amici ti rincuora e ti dona nuova forza. Così voi per me”. “Ciò ci lusinga grandemente conte Alberto”. “Alberto, allora per quell’intesa che sappiamo… tutto confermato?” “Sì Guido, certamente, tutto confermato com’eravamo rimasti d’accordo; ma la baronessa tua moglie, l’hai messa al corrente del merito?”
“Sì, più o meno, non precisamente. Aspettavo che fossimo giunti qui e sentire te per… per definire il tutto”. Il conte rimase un poco pensieroso; era indeciso se informare l’amico che il vero principe era infermo e non poteva presenziare e tutto il resto seguente. L’indecisione lo consigliò, per il momento, di non dire nulla. “Ecco Guido, ad un mio cenno, ti farai prossimo alla…” “Dì pure senza timore Alberto, mia moglie Cristina sarà un’alleata preziosa, vedrai che sosterrà pure essa la sua parte se ce ne sarà la necessità”. “…alla contessa Annarita Pandini Bianco di Colfiorito, e sarà la tua sensibilità ad insinuare la possibile presenza del… tua moglie…” “No Alberto” lo interruppe Guidobono “no, non lo sa. In verità, visto l’altissimo blasone della casata che rappresenta, pensavo che fossi giustamente tu ad informarla” “Ora voi due mi fate rimanere sulle spine… ingiustamente”. “Vi chiedo perdono baronessa, non era per nulla mia intenzione mettervi in ambascia. Come sapete, ci sarà una grandissima personalità a dar lustro ed importanza alla cena commemorativa, agli invitati, a tutta la capitale intera; si sta parlando dell’illustrissimo… don Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina e consorte”. La baronessa rimase immobile cogli occhi fissi su Alberto. “Ma, ma… non è pos… come avete… non è possibile…” “È possibilissimo, è realtà. Gli illustrissimi principi sono da poco giunti a palazzo ed ora si stanno riposando; poi saranno con noi per tutta la serata!” Alberto prese sicurezza, sentì prepotente la forza di dar vita alla grande serata. Era lui in prima linea, lui ci metteva la faccia, lui si giocava la reputazione e quanto di altro ne conseguiva; era ad un punto di non ritorno. Doveva, desiderava, poteva, voleva con tutto sé stesso dar compimento a tutto nel migliore dei modi. “Ad un mio cenno Guido, quando l’ultima coppia sarà giunta, non prima. Ad un
mio chiaro cenno”. “Sarò prontissimo Alberto, sommamente felice di farti codesto servigio, toto corde”. “Grazie amico caro, grazie; vi ringrazio amici miei carissimi”. Ribaciò con delicatezza la mano alla baronessa e strinse forte quella di Guidobono. “Perdonatemi conte Alberto, ma vostra moglie non è ancora…” “È con loro baronessa, a loro disposizione, per servirli in prima persona in tutto ciò di cui abbisognassero”. “Capisco, certo, comprendo. Che cara e umile moglie tenete conte!” Il barone sfilo dal taschino del gilet l’orologio “Le sei e un quarto” mormorò “ormai ci siamo Alberto, fra poco cominceranno gli arrivi” e si alzò. Così il conte. “Buona fortuna Alberto”. “Anche a te Guido, grazie ancora”. Seguì un abbraccio spontaneo e sincero. Osvaldo entrò subito dopo e si avvicinò al conte “Eccoti finalmente, dimmi, come procede di là?” Il maggiordomo lo rassicurò con un sorriso ammiccante. “E mio fratello l’hai visto? Chissà dove si sarà cacciato!” “Il conte Emilio e la signora contessa hanno lasciato da poco i loro all… eccoli signor conte, eccoli che arrivano”. “Buona serata a tutti” esordì Emilio. “Oooh baronessa Cavalcanti, che grande piacere avervi qui. Caro barone Guidobono benvenuto”. Bacio della mano alla baronessa e stretta a quella del barone “Grazie di essere venuti amici, e pure prima del sottoscritto”. “Bontà vostra conte Emilio; riverisco contessa. Con grande piacere ci faremo una gioiosa e allegra compagnia vero?”
“Certissimamente” rispose la contessa con voce tremula. Era costei una donna dall’aspetto dimesso, del tutto insignificante; non lasciava traccia della sua presenza, se non una polla d’aria dolciastra, fra il caramello e la menta, ovunque asse. Vestiva l’abito di circostanza, con maniche lunghe e collarino in seta bianco senza cammeo. Portava i capelli castani lisci, divisi a metà; scendevano dalla fronte compiendo una leggera curva, coprendo parte delle guance e tutte le orecchie, andandosi a raccogliere sulla nuca con una crocchia, tenuta ferma da due spilloni incrociati, perlati a cuoricini. Gli occhi appena messi in risalto da un trucco leggero; le gote, per quel che si scorgeva, poco rosate, mentre le labbra, di un rosso fuoco, rompevano l’equilibrio di quella figura diafana stonando assai, molto più di un principiante di violino. Ecco descritte più o meno, salvo qualche rara e lodevole eccezione, come si presentavano le dame della serata. Dlin dlin dlin... dlin dlin dlin... Il maestro allertò i musici “Veracini, sesta sonata, secondo movimento, presto”. Osvaldo annunciò la coppia a voce alta “Il barone Toscano di Sanquintino e consorte”. I due apparvero sulla soglia sorridenti, felici; il barone porse il braccio destro alla moglie e si avviarono verso i conti Braccioforte ritti appena dietro lo stemma della casata al centro del parquet. Il quintetto d’archi eseguiva l’allegro di Veracini con un primo violino strepitoso, esaltante, commovente, finché i due giunsero di fronte ai conti. Ci fu un applauso spontaneo, sentito: bello, veramente tutto molto bello. La vista della sala che si animava, il grande camino in cui ardevano grossi ceppi di gelso, robinie e lecci; gli enormi lampadari, i tavoli stupendamente e riccamente apparecchiati: un gran colpo d’occhio. Il maestro fece proseguire poi con le musiche barocche con cui aveva iniziato. Lo stemma separava, a breve distanza, i conti dai baroni. Emilio parlò per primo come da accordi presi col fratello “Colendissimo barone Toscano di Sanquintino, gentilissima baronessa, benvenuti. Ci onorate grandemente colla vostra graditissima partecipazione alla cena commemorativa. Vi auguro una felice
serata; che abbiate motivo di ricordarla a lungo. Emilio Braccioforte conte di Gavorrano”. Inchino. “Conti Braccioforte di Gavorrano, sono felicissimo di conoscervi; vi ringrazio per l’invito. Io e la baronessa, vero cara? Non credevamo ai nostri occhi allorché ricevemmo il vostro carinissimo biglietto. Per noi è la prima volta, non siamo mai stati nella vostra… sontuosa dimora. Devo poi aggiungere, vedete eziandio che siamo abbastanza avanti cogli anni, che un’accoglienza simile non ce la ricordiamo, vero cara?” Toccò poi ad Alberto presentarsi, con rinnovo di benvenuti eccetera, eccetera: tutti i convenevoli, quasi uguali e monotoni, subiti ed espressi con pazienza. “Venite barone Toscano di Sanquintino, desidero farvi conoscere il barone Guidobono Cavalcanti, prego baronessa”. Alberto fece cenno a Guido che si avvicinò colla moglie. “Permettete che mi presenti, barone Guidobono Cavalcanti Forte. Sono felicissimo di incontrarvi esimio barone Toscano di Sanquintino, unito alla mia consorte baronessa Cristina”. “Barone Guidobono Cavalcanti, con molto piacere vi stringo la mano… baronessa Cristina”. “Se non erro” proseguì “mi accennò di voi, vero cara? Chi mi accennò di voi?… dunque, dunque. Abbiate pazienza, ma la memoria alla mia età… ecco, ecco sì; fu ai primi del mese, durante il concerto per l’Immacolata al… al… beh non importa; fu ad accennarmi di voi il… si… il conte Pandini Bianco di Colfiorito”. “Oh certamente” rispose “ne sono molto lieto. Abbiamo un buon amico comune, vero cara?” Non voleva dirlo, ma non riuscì a trattenersi, suscitando la bonaria risata dell’altro, la cui consorte non merita alcuna menzione. Dlin dlin dlin... dlin dlin dlin “Eccellenza Sommariva dei Signori di Joannina”. Subito il pronto maestro “Veracini, sonata prima in fa, presto”. Altra presentazione, stessi convenevoli, stessa gestualità. Ancora un tintinnare di camlo.
“Marchesi Almerico degli Albruzzi”. “Barone Galli Crotti e consorte”. Ora gli arrivi non davano tregua, si susseguivano a breve distanza l’un l’altro; la sala si stava riempiendo, un vociare disinvolto si mescolava al delicato suono degli archi. L’atmosfera si stava caricando, tutto si svolgeva splendidamente, senza intoppi. I conti padroni di casa sostenevano la loro parte con maestria, ormai avvezzi da tempo a tale arte, con affabilità e dolcezza, disponibilità totale e gentilezza squisita. Dlin dlin dlin… dlin dlin dlin “Duca... De Cardonas Belli e duchessa”. “Le quattro stagioni di Vivaldi, presto maestri. Pronti?” Ci fu un “oooh” generale ed un applauso contenuto; in tale modo gli invitati fino ad allora riuniti, davano il giusto riconoscimento al grado più elevato della gerarchia nobiliare presente. Giunsero altre coppie, pure il marchese Carati di Monteforte con la marchesa; ne mancava soltanto una. Molti dei presenti si conoscevano, avendo partecipato a diversi ricevimenti comuni; si sa, quando si fa parte di una ristretta cerchia, di un’”élite” per di più nobiliare è normale che ciò avvenga. Si trovarono così a contatto la baronessa Sorbaro Olli della Ricona e la pari baronessa Contini di Roccaparuta. Chiacchieravano del più e del meno, vale a dire spettegolavano a tutto spiano; attività privilegiata delle signore in ispecie in tali occasioni. “…e così, cara baronessa Sorbaro, siam qui ad aspettare!” “Ad aspettare cosa, di grazia baronessa Contini?” “Ma comeee! Non vi siete ancora accorta?” “E di cosa avrei dovuto accorgermi, che non mi sono accorta?” “Non avete fatto un giro d’orizzonte coi vostri occhioni?”
“Ma sì che l’ho fatto, più volte eziandio” “E allora?” “Allora cosa baronessa, mi fate innervosire!” “Ma non vedete i nostri baroni e gli altri allocchi come sono in trepida attesa; si sono ati la parola… guardateli, guardateli come osservano di sottecchi il maggiordomo annunciatore. Vedete come scalpitano, che risolini, quali ammiccamenti, come si danno di gomito. Tutti in prima fila” “A far che di grazia, mi volete far ammattire?” “Marchesaa! Marchesa Forno d’Albisegna perdonate; volete degnarci un attimo della vostra attenzione?” “Con piacere baronessa Contini. Scusate voi signori”. “Volete per cortesia annunciare alla baronessa Sorbaro Olli della Ricona chi stiamo aspettando?” “Subitissimo vi accontento. Siamo in febbrile attesa del barone e della ba-ro-nessa Sontel del Prado!” “Ma comeee! C’è pure leiii? Aaah, maledizione, quella, quella vipera; pronta a mostrare tutto quel che si può e specialmente quel che non si deve. La seconda Virginia, perché l’altra l’è a Parigi e non si mostra più!” La baronessa in questione era una giovine donna molto bella; ben formata, generosa in tutte le forme anatomiche, le quali, come si sa, ostentava senza pudore, sicura di ottenere il risultato più ambito dalle donne in codesti ricevimenti: essere la prima fra tutte e oscurare le altre umiliandole; avere appiccicati addosso gli occhi dei cavalieri presenti, occhi che scrutano, s’appoggiano, s’infilano dappertutto. Di ciò ne godeva grandemente. In più dalla sua aveva pure l’età, alla soglia dei trenta mancavano ancora due anni, mentre le altre li avevan tutte ati da gran tempo. Il marito barone stava al giuoco, non curandosi molto della fedeltà della consorte; aveva già preso le misure rendendola becca più e più volte; per giunta con donne molto meno attraenti, così la vendetta risultava tremenda. Si era reso
conto, essendo uomo mondano, allorché una donna è molto bella, attraente, appetibile, non può essere di un uomo solo. Sara poi vero? mah! Scamlio, maggiordomo, annuncio. “Il barone e la baronessa Sontel del Prado”. Ultimo allegro eseguito dal quintetto d’archi. La coppia avanzava lentamente verso i conti, che l’attendevano oltre lo scudo sannitico bipartito. Il barone in frac, mentre la baronessa indossava un abito giallino tenue, tenue; non trasparente, ma in un certo senso, che lasciava intravedere per poi immaginare, e si sa, l’immaginazione degli uomini quanto corra velocissima senza nessuna frontiera come in codeste occasioni. Un’ampia scollatura mostrava in parte un bel seno che la perfida ostentava con arte, inchinandosi leggermente verso le signore, e molto di più rivolta ai mariti, in modo villanamente palese e provocatorio; mostrando loro quella leggera mollezza cadente che gli faceva brillare gli occhi. Nessuna delle dame presenti, neppure la più inviperita, lasciava trasparire alcuna reazione; era come se accettassero ivamente quell’umiliazione, riconoscendole in fondo, il ruolo di prima donna. “Ultima piuttosto che prima con quel comportamento” codesto era il pensiero che le accomunava. Però, conoscendole un poco le donne, nulla vieta agli uomini di pensare l’esatto contrario “beh, dite così perché siete ciò che siete; mentre se eravate ciò che non siete, vale a dire belle ed attraenti quanto lei, forse vi sareste comportate in maniera peggiore”. Questo ultimo pensiero, in realtà, non è possibile confermare o smentire. Alberto fece cenno ad Osvaldo che immediatamente si avvicinò “Son tutti arrivati, vai e di ai principi, allorché son pronti, di venire subito in sala; poi prendi la contessa e portala qui di peso capito? Di peso! Ora va”. Poi si guardò intorno cercando Guidobono, lo scorse e gli si avvicinò; gli fece il cenno chiaro convenuto, al quale l’altro rispose con un abbassamento del capo in senso affermativo. La baronessa Sorbaro incrociò la pari Sontel, le sorrise e le rivolse la parola, con un certo malcontenuto fastidio “Oh, pure voi ci siete, non potevate mancare voi
vero?”, “Quanto mi fa piacere vedervi baronessa Sorbaro Olli della Ri-co-na! Ma è naturale che ci sia; se siete presente voi, per quale motivo non dovrei esserci io?” L’altra, che aveva provocato, decise di raccogliere la sfida; in fondo non aspettava altro, anzi, la provocazione palese aveva tale intendimento, per cui, scopo raggiunto. “Per un motivo di… decenza, contegno, pudore…” “Mi trovate indecente baronessa? Villana? Spudorata? Chiedetelo a vostro marito, di grazia” l’interruppe l’altra. La baronessa Sorbaro le si avvicinò, viso a viso e sempre sorridendo, per non destare sospetti, le sussurrò “Certamente baronessa, sono le vostre peculiarità, aggiunte ad altre peggiori. In quanto a mio marito so io cosa chiedergli!” “Quanto siete cara, amica mia; vi aiuto ad elencare altre mie… doti. Mi piace mostrare ciò che voi, purtroppo per voi, possedete in misura del tutto… irrilevante; mi piace essere guardata, si, proprio lì. Godo enormemente allorché vedo gli occhi dei mariti altrui che si abbassano fino ad entrare nella mia scollatura; in ispecie quando quelli appartengo al vostro”. “Brutta strega, possiate invecchiare di vent’anni in un secondo!” “Avete pronunciato l’aggettivo iniziale in modo errato, vi correggo. Bella strega, mia cara; strega ma bella, bellissima, straordinaria, voluttuosa, soavissima, a detta di vostro marito. Voi invece non siete né strega, né tanto meno bella” “Vi farò una tale fattura, una fattura di quelle che vi tormenterà per tutta la vita”. “Quanto mi siete cara, mi fate tenerezza, tesorino mio. Ah scusate, mi sono scordata di comunicarvi un’altra mia dote, la più importante. Vi farà enormemente felice, ne sono certa: sono fedifraga, reiteratamente fedifraga. Non avete idea di quanta soddisfazione mi colmi l’esserlo, non per mio marito, lui penso mi ripaghi con altrettanta moneta e solerzia; ma per le consorti inconsapevoli e… e cretine, poverine. Come voi”. Detto questo le fissò gli occhi sul collo nudo. L’altra duellante accusò il colpo, non aveva più argomenti né parole; solo una bruciante sconfitta che segna nel
profondo. Per di più gli occhi dell’altra rimanevano fissi sulla sua gola, mentre un sarcastico sorriso le apparve in volto “Ora vi lascio baronessa Sorbaro. Dicono che l’anno prossimo, vale a dire fra poche ore, sarete… vecchia!” Rise di gusto, poi a voce alta, quasi cantando, mentre si allontanava agitando in modo provocatorio una manina “Il collarino cara, il collarino; non dimenticatelo la prossima volta. Col-la-ri-nooo!” Poi ritornò sui suoi i; non ancora contenta, volle sferrarle un colpo diabolico, letale “Baronessa Sorbaro, ve la siete presa? Ma stavo scherzando suvvia!” Poi , con tono perentorio e tremendamente serio, al limite del cattivo proseguì “Ora invece non scherzerò affatto, osservatemi attentamente, non perdetevi nulla, neppure una sillaba; poi giudicherete voi stessa, non avrò nessun appello!” La maligna individuò un quartetto di ospiti cha stava amabilmente discorrendo, naturalmente si trattava di soli uomini. Attirò l’attenzione di uno dei quattro, lo fissò sorridendo e gli si fece incontro. Quello fece cenno agli altri di acquietarsi e alzando il mento indicò loro la baronessa che si avvicinava. “Baronessa Sontel del Prado, che piacevole sorpresa, siete incantevole!” “Solo… incantevole marchese Almerico degli Albruzzi?” Disse mentre s’inchinò profondamente rimanendovi per un bel po’, deliziando i presenti di una spettacolare visione. “Certamente no baronessa, siete incantevole e… e tutto il resto… ehm” “Siete molto cortese marchese, ma… non vorreste presentarmi a lor signori, di grazia?” rispose guardando in modo civettuolo e chiaramente esplicito verso gli altri tre. “Subitissimo baronessa. Il marchese Carati di Monteforte, l’eccelenza Sommaria dei Signori di Joannina, il conte Pandini Bianco di Colfiorito. Colendissimi amici, sono felicissimo di presentarvi la stupenda baronessa Sontel del Prado” Lei abbassò in avanti ancora il busto mostrando tutto, al punto che quelli fecero molta fatica a trattenersi. “Baronessa!” “Baronessa!” “Baronessa!”. “Lietissima di conoscervi, quanto mi siete cari; vorrei avervi tutti con me!” “Tutti insieme baronessa?” chiese divertito il conte Pandini. “Ma certo conte, e che male c’è! Non vi garberebbe?” e gli porse la mano.
L’altro la prese nella sua, la portò alle labbra che posò sopra di essa, dandole un piccolo morso sul medio. La baronessa lo guardò, sorrise e abbassò il capo due volte. Gli altri due si contennero e stettero nella norma con immane sforzo. “Ora che siamo diventati amici, vi auguro una felice serata. A presto, a presto!” E si inchinò ancora una volta in modo volgare. Ritornò poi verso la inorridita baronessa Sorbaro “Allora, come sono andata? Ho superato l’esame di etica? Ma cos’avete baronessa, non state bene? Siete scaciata in volto”. “Dopo ciò che ho visto e sentito vado in bagno a vomitare” rispose. “L’ultimo consiglio cara. Se incontraste qualche difficoltà ad evacuare, guardatevi allo specchio: vi verrà un getto spontaneo!” Mamma mia, diabolica, da evitare assolutamente. Girò e rigirò tutta la sala incontrando tutti e tutte, sempre colle medesime modalità; le altre lasciavano fare. Chi aveva osato sfidarla, aveva riportato più o meno le stesse ferite della sventurata baronessa Sorbaro Olli della Ricona. Si muoveva con assoluta sicurezza; dove giungeva lei tutto diventava come un porto franco, non esistevano barriere. Tutto le era concesso, tutto le era permesso; tutto di lei si sopportava; grande e prepotente era la sua superiorità, agevolata eziandio da un eloquio disinvolto, fluente e disinibito. Ciò che le altre non osavano neppur pensare, per lei era quotidiana “routine”. Era l’indiscussa protagonista della serata. Giovine, bellissima, affascinante, spregiudicata, libera, licenziosa.
A questo punto tutti si erano presentati a tutti; si percepiva un vociare sostenuto. Gli unici a rimanere in certosino silenzio erano gli orchestrali e la servitù. Guidobono, ricevuto il segnale entrò in azione; come un segugio si mise a cercare la contessa Annarita Pandini Bianco di Colfiorito. La vide in un angolo, mentre in compagnia di altre persone, stava sorseggiando un liquido poco
alcolico di un colore rosato, molto tenue. Prese dal vassoio che un cameriere stava veicolando col palmo della mano destra, una coppa di cristallo contenente un aperitivo rosso scuro e si avvicinò alla contessa quanto bastò per essere da lei notato “Alla vostra bellezza e simpatia contessa Annarita Pandini Bianco di Colfiorito”. “Oooh, barone Cavalcanti, carissimo, aggiungetevi a noi prego” “Con piacere contessa cara. Ho visto vostro marito il conte in splendida forma” “Sì, sì” disse lei con tono di rimprovero “l’ho visto, l’ho visto pure io, sta in forma, sta in forma. Con “quella” poi la forma si trova subito vero? Giunge sempre per ultima per farsi ammirare, desiderare, invidiare, odiare, e ci gode tantissimo”. “Perdonate dolcissima contessa, non volevo alterarvi l’umore” “Oh no, non vi crucciate barone, non fa nulla, non fa nulla” “Vi ringrazio per la vostra bontà contessa”. Non sapeva come iniziare l’approccio per compiere ciò che doveva, così tolse distrattamente l’orologio dal taschino del panciotto “Che ora è di grazia barone ?” “Le sette e trenta appena ate contessa” “Però, come vola il tempo quando si è in lieta compagnia, in una serata splendida come codesta” “Confermo contessa, poi rimaniamo in attesa di…” “Oh sì, certo, barone Guidobono, me ne stavo quasi dimenticando, affascinata dall’atmosfera meravigliosa che si è creata vero?” “Certo contessa, certo. Bellissima, stupenda, straordinaria festa” “A proposito barone Cavalcanti, voi che siete molto amico dei conti Braccioforte, in particolare di Alberto…”
“Sì, signora contessa, mi onora della sua amicizia” “Ma codesta grandissima personalità… chi potrebbe… insomma, ne sapete qualcosa di più voi?” Il barone tirò un sospiro di sollievo e ringraziò il cielo. “Posso contessa?” le disse porgendole il braccio. “Certo barone, dove mi conducete di grazia?” “Oh non temete, ma ritengo opportuno defilarci un poco, onde evitare orecchi indiscreti e occhi spioni” “Vengo, vengo con voi subitissimo e ansiosissima”. Si appartarono dirigendosi verso l’ultima finestra, di fronte ai musici. “Scusate gentilissima contessa se mi sono permesso d’incomodarvi, ma sapete, si tratta di argomento assai delicato, alquanto dubbio; va a mio umile avviso interpretato, ecco! Poi… poi…” e si fermò. “Po… poi?” allungò lei come ad invitarlo a proseguire. “Poi confido nella vostra consueta, provata, rispettosa, sicura discrezione!” “Riguardo a ciò, carissimo barone, rimanetene fin d’ora certissimamente certo!” “Perfetto” pensò Guidobono “in breve verranno tutti coinvolti”. “Sappiate dunque, mia soavissima signora…” “Ooh barone, basta con le lusinghe, ne avete profuse a sufficienza; dite, dite, su!” “Va bene, vi accontento subitissimo. Un mio carissimo amico, scrive qualche articolo sul più importante giornale della capitale e…” stette così sospeso ad arte. “Sì, sì, intendo e allora quel vostro amico? Dite, dite su” “Ecco, l’incontrai ieri l’altro al caffè che si trova vicino alla redazione. Saluti,
convenevoli, poi mi dice, così all’improvviso…” altra sosta. “Che v’ha detto barone, che v’ha detto? Su coraggio che si fa l’anno nuovo, parlate dunque, non tenetemi così sospesa! Che v’ha detto?” “Subitissimo contessa. Mi dice “Oh, Guidobono, ci va’ tu poi alla festa dei conti Braccioforte?” dico “sì, perche?” “Nulla, nulla d’importante, però…” dice lui. “Però?” gli ribatto; “Però?” ancora a lui rivolto…” “Però, però, perooò… barone, accidentiii! Mi state sottoponendo a tortura mentale, vi cito in giudizio!” “Calmatevi angelica contessa, dopo avermi prestato ascolto senza più interrompermi, cercheremo di imbastire insieme delle congetture, delle ipotesi; m’aiuterete a dipanare codesta matassa, se ciò non vi turba e vi garba un poco”. “E me lo chiedete? Assaissimo mi garba! Parlate dunque, parlate!” “Dunque, ah sì, ecco “nulla, nulla d’importante, però…”, “Però?” dico io…” “Questo l’avete già detto barone; mi fate venir voglia di correre, accidenti! State accorto, sono al limite, non mi trattengo più. Parlate, parlate, ve lo ordino!” “Vi chiedo umilmente scusa se involontariamente ho abusato della vostra pa…” “Baroooneeeee!” “Eccomi, eccomi, subitissimo. Dunque dov’eravamo? Ah sì, “però?” dico io…” “Barone voi non mi conoscete affatto, sono capacissima di staccarvi di netto con un morso… un orecchio!” “No, no… promettetemi che… l’avete già promesso, sì. Dunque, “però?” dico io…” La baronessa perse ogni controllo e a buona voce disse “Ti cascassero i coglioni!” L’aveva stracotta, ora poteva tranquillamente proseguire e tutto d’un fiato senza più interruzioni continuò “Mi disse: ‘dei colleghi provenienti da Napoli,
m’hanno riferito che laggiù corre voce che il più importante e blasonato rappresentante della nobiltà napoletana, di antichissima casata aragonese, prossimamente si muoverebbe dalla città, per partecipare ad un grande evento che si terrebbe nella capitale l’ultimo giorno dell’anno’” La contessa si aggrappò al braccio dell’altro scuotendolo forte. “Signora, state tentando di dar compimento al vostro ultimo desiderio?” Lei guardava fissa nel vuoto e scuoteva, scuoteva. “Devo pensare di sì contessa?” “Ma che dite, che dite suvvia barone; stavo solo riflettendo”. “Perdonate signora, ma se voi usate riflettere in codesto modo con vostro marito, egli è eunuco da molto tempo” “Non distraetemi con i vostri eunuchi, per Giove!” poi proseguì “Dunque, in primis: il grande evento dell’ultimo dell’anno che si terrebbe nella capitale è fuor di dubbio la cena commemorativa alla quale noi partecipiamo”, “Concordo baronessa”. “Di antichissima casata aragonese… aragonese! Aiutatemi barone vi prego, sciorinate alcuni nomiii!” “Non è facile… il più importante e blasonato non può essere il re fuggito a Roma; questo è fin troppo chiaro…” “Ma certo che nooo! mi prendete per un’ochetta? Ma dopo, dopo come gerarchia viene il… principe!” “Dite bene contessa, vi seguo. Quindi potrebbe essere un principe aragonese e…” “Sss!… tacete, tacete! Principe aragonese, nome spagnolo… Napoli… regno, no, no…Viceré… Aragona, Sarag… no, no, antica, antichissima… Huesca… Huesca, Huesca… chi potr… O… Oli… Oddio, Oddio barone, è… è luiii? Il principe Oliv… è luiii? barone, mi viene male, mi vien timore, datemi il braccio. Dite, è luiii?”
“E, e, e… contessaaa! È lui, è lui! Come si può affermarlo con certezza? Ve la sentireste voi di annunciarlo ora, a tutti? Vi accollereste la responsabilità?” “Sì, sì certo! No, no, no voglio dire… ecco barone, tutti gli indizi portano a lui, ma rimane un margine d’incertezza, è dubbiosa la questione che sia veramente lui!” “Concordo perfettamente con la vostra tesi… ma dove andate di grazia, dove correte contessa… la promessa… rammentate la prom…” Missione compiuta! Annarita si allontanò con addosso una carica spaventosa, usava parole adattissime a suscitare interesse, curiosità, ricerca, probabilità, identificazione dubbiosa: ma, forse, potrebbe, parrebbe. Era di certo un’artista indiscussa per alimentare e far montare ad alti livelli la spasmodica attesa della personalità che si apprestava a partecipare alla grande cena di commemorazione all’elezione comitale dei Braccioforte. Il vociare disordinato e casuale, si ammorbidì; si udì più chiaramente il quintetto d’archi proseguire mirabilmente nella sua esecuzione; si composero spontaneamente dei piccoli gruppi, dei crocchi, dove ci si scambiava delle informazioni, dei pareri. Saccentoni che pontificavano sull’araldica, sedicenti storici, esegeti presunti; tutti portavano il loro contributo. L’attesa montava in modo esponenziale. Elvira, che da tempo aveva raggiunto Alberto, notò subito il cambiamento d’umore nella sala “Ma che sta succedendo Alberto? Hai notato quale mutamento in pochi minuti? Mi preoccupa alquanto!” “Stai tranquilla cara, tutto procede secondo il piano messo a punto precedentemente per alimentare l’attesa e rendere la sorpresa di più grande effetto; poi allorché tutti saranno al colmo dell’eccitazione…” “Ho capito, capito, sì certo… ma chi… basta, mi sta bene così”.
I principi
Quando Elvira li lasciò soli, i principi si sentirono più a loro agio “Marta per favore, mostrami degli altri abiti”, “Ma principe, quelli adatti son qui dentro”. “Per favore Marta, per favore!”, “Come comandate principe”. Aprì un secondo armadio. “Ecco”. Quello fece are gli abiti uno alla volta visionandoli velocemente; neppure lui sapeva di preciso quel che cercava, ma una cosa gli era certa: non voleva per nessun motivo vedere la principessa vestita come tutte le altre dame, col solito abito di “ordinanza”. “Principessa, indossate questo; Marta per favore” e le indicò un abitino rosa molto carino. Intanto scrutava con più interesse il volto, i capelli, gli occhi della consorte. Marta tolse dalla gruccia l’abito, lo prese per le spalle e si girò verso di lei “Prego principessa, quando volete”. Maria Bambina si stava togliendo il telo che la copriva. “Principe”. “Oh, certo, subito” e si volse dall’altra parte. Lei lasciò scivolare il telo per terra, infilò prima un piede, poi l’altro, nell’apertura posteriore dell’abito. “Principessa, cercate di stringer le spalle verso di me, trovo difficoltà ad allacciare i bottoncini… ecco così… ancora un poco… fatto. Come vi sentite?” “No, Marta, non è possibile, non potrei respirare a pieni polmoni; mi stringe troppo… poi guarda in vita com’è largo, fa molto molle che ben non sta di certo. Siamo nei guai se codesti abiti hanno tutti la medesima foggia”. “Posso?” chiese il principe e si rigirò. Non guardò direttamente il volto della principessa; la sua attenzione era rivolta alle spalle. “State ferma” le disse mentre le girava intorno lentamente.
Era tutto vero purtroppo; il tessuto che le avvolgeva i deltoidi pronunciati era tesissimo, l’allacciatura al limite della rottura: no, per niente. Per non parlare dell’abbondanza che si stranotava in punto vita. In quanto alla lunghezza era sì cortino, ma ci poteva anche stare. Don Diego si mise a eggiare lentamente per la camera, colle dita incrociate sul petto battendo i pollici ritti su questo. Stava riflettendo “Situazione complicata. Tempo poco; donne agitate. Spalle, spalle; vita larga. Calzature, piede piccolo. Acconciatura. Vestiario contessa. Scollatura, collier”. “Togliete, togliete quell’abito che vi segna troppo dove stringe”. “Marta!”. “Comandate principe”. “Marta… voglio vedere tutti, dico tutti, gli abiti della signora contessa”. Quella si diede subita da fare; aprì gli armadi, tolse le custodie ad alcuni; prese da sopra delle grandi scatole che scoperchiò tosto “Ecco tutto, è tutto sotto ai vostri occhi principe”. “Bene, Marta, bene. Principessa seguitemi” ò in rivista tutto quanto, aiutato dalla consorte. “Che ne dite principessa?” “Beh, principe, sono sì confusa!” Pronunciò l’ultimo vocabolo con la “c” iniziale molto aspirata, per nulla presente nel linguaggio napoletano. “Metteremo apposto anche il vostro accento, non vi preoccupate”. “La mia parlata è… è troppo toscana vero?” “Sì cara, ma ora pensiamo all’abito. Sceglietene uno che vi garba e che abbia le maniche corte a palloncino”. “E perché a palloncino?” “Così le vostre spallotte ci staranno meglio e vi sentirete più libera, ciò vi agevolerà durante tutta la serata, che prevedo sarà lunga”. La ricerca continuò, ma ahimè, senza risultati significativi.
“Marta, nulla più?”, “No signor principe, nulla… in verità ce n’è ancora un paio di là, in camera della signora contessa. Li aveva messi da parte poiché li sentiva stretti in vita; vado tosto a prenderli”. “Principessa ascoltate, dovete sforzarvi nella dizione dei vocaboli che iniziano come casa, cosa, cucina, camino e simili, a pronunciare la “c” come la pronunciate in chilo, chilometro, mi sono spiegato?” “Sì principe, mi sforzerò, mi impegnerò”. “Ecco, brava; poi se ci saranno degli intoppi interverrò come m’ispira in quel momento. Dobbiamo avere fiducia in noi stessi, uno nell’altra”. Marta giunse di corsa reggendo i due abiti per gli appendini, tenendo alte le mani il più possibile onde evitare di farli strisciare per terra “Ecco principi, ne rimane uno solo, ma lo indossa ora la signora contessa”. “Quello azzurro” dissero all’unisono i due. La cameriera lo liberò dalla gruccia, lo sbottonò e lo porse a Maria Bambina. “Principe”. Quello si girò di nuovo. Nessuno fiatava, erano tutti e tre tesi; si avvertiva solo il leggero frusciare a scatti del tessuto. Poi tutto tacque. “Principe”. Don Diego si voltò molto lentamente, temeva di veder svanire l’ultimo tentativo. Ciò che vide lo tenne custodito dentro di sé fino all’ultimo giorno della sua vita. La principessa era raggiante; i capelli neri acconciati in tanti boccoli che scendevano fino alle spalle; neri puri gli occhi che brillavano di gioventù. L’abito era in raso di seta azzurro forte, molto ; le maniche corte a palloncino dalle quali uscivano le braccia candide e perfette. Il seno, alto e prorompente, alzava l’ampia scollatura squadrata ed era contenuto a fatica mostrandosi per una buona parte. Era un solenne inno di gioia alla vita. “Principe, oooh principeee!” sbottò a voce alta Maria Bambina. Don Diego fece un o verso di lei poi si arrestò.
“Principe parlate, parlate… mi fate paura… parlateee!” “Ringrazio nostro Signore che ha avuto la bontà di mandarci un angelo dal paradiso”. Era emozionato, gli tremavano le gambe; ma si riprese in fretta, non aveva tempo per cose simili… ora. Si pose al fianco della principessa, le porse il braccio e sorridendo disse: “Come stiamo Marta?” Quella stava per aprir bocca ma fu vinta dall’emozione e pianse. “Eddai Marta, ch’è tardi, ci serve ancora il tuo aiuto”. “Dite principe, di che avete bisogno ancora?” rispose asciugandosi il viso. “Dico, vuoi mandare in sala la principessa scalza?” “No, no di certo eccellenza… ma le calzature della signora contessa son più lunghe assai, le balla il piede dentro”. Giunse Osvaldo di gran carriera “A che pun… Signore Santooo!” “Che ne dite zio, se mi presentassi così alle quattro “b”?” “E chi sono le quattro “b”?” chiese incuriosito il principe. “Sono la Bianca, la Bella, la Bionda, le tre mucche; l’ultima “b” l’è per la mia capretta, Bina”. “Non scherzate suvvia; ora siete la principessa Maria Bambina Olivares, mia moglie da pochi mesi, intesi?” Lei sorrise ed annuì. “Mi manda il signor conte… principi. Son di già le otto; tutti vi aspettano. Stanno facendo incetta di vermout e stuzzichini; qualcuno è già mezzo brillo. Sbrigatevi! C’è un’attesa spasmodica; si mormora persino il nome vostro, pure fra altri. Sbrigatevi! I signori conti Braccioforte fanno fatica a tener tutti calmi. Sbrigatevi!” Sparì subito. “Principe, io e la vostra consorte abbiamo il piedino simile, purtroppo per me solo quello” Rise di gusto poi riprese “In camera mia tengo due paia di scarpe e calze di… cotone bianche, ma nuove, mai indossate”.
“Vai, vola Marta” la incitò don Diego. Poi si pose di fronte alla principessa e allargò le braccia “Posso?” Lei si fece seria ed annuì col capo; lui la abbracciò delicatamente posandole la guancia destra sulla sua. Nessuno dei due osava parlare; gustavano immensamente quei momenti di tenerezza prima della battaglia. “Eccomi, eccomi qui colle…” Marta li guardò con grande gioia e stupore. “Coraggio Savina, andrà tutto bene” “ne sono certa Augusto”. Si staccarono. “Principe” Quello si girò ancora una volta. Lei s’infilò le calze aiutata da Marta; quindi prese le calzature, le osservò un poco e scelse le più semplici, nere, con un tacco medio e se le mise ai piedi “Principe”. “Benissimo principessa, siete perfetta; i tacchi vi alzano quanto basta per dar il giusto slancio alla vostra figura… beh, non è facile trovare l’aggettivo adatto per descrivervi. Avrò tutta la serata per pensarci, poi ve lo comunicherò!” Risero ancora tutti insieme; un riso liberatorio. “Marta!” “Comandate principe” “Per favore Marta, procura un drappo,qualcosa che assomigli ad una fascia; sul giallo se è possibile” “Sul giallo… vedrò cosa mi riesce di scovare. Vado!” Osvaldo ritornò in sala, che ormai era diventata una chiucchiurlaia. Si avvicinò al conte che lo interrogò cogli occhi. Guardò in alto, sorrise e si fregò le mani. “Alberto, allora?”domandò il conte Emilio. “Ancora un attimo, pazienta ancora un poco” “Ma guardati intorno Alberto, vedi che non si può più attendere oltre!” “Pazienza, si deve aver pazienza; è una virtù Emilio. Pratichiamola!” I servitori erano impegnatissimi, chi girava ritirando i bicchieri e le coppe vuote e chi le offriva colme. Vi erano trenta persone che parlavano, bevevano,
ridevano, sbocconcellavano; formavano gruppi per poi scioglierli ed infilarsi in altri. Si era formata una divisione fisiologica che solitamente e naturalmente si compie in simili occasioni: dame con dame e cavalieri con cavalieri; si voglia per un’affinità di argomenti su cui disquisire, per diverse forme di pettegolezzi e altro ancora. “Oooh conte, conte Alberto di grazia” “Eccomi barone Toscano, eccomi a voi” “Carissimo conte, non vorrei essere impertinente, perlomeno non è mia intenzione, vero cara?” “Ma che dite! Proferite in tutta libertà, vi ascolto barone Toscano” “Ecco conte Braccioforte, noi siamo stati i primi a giungere qui, vero cara? Vi chiedo se la… la sorpresa che ci state preparando è… è codesta? Non c’è…” Alberto afferrò deciso l’avambraccio del barone interrompendolo “Barone, barone Toscano di Sanquintino; vi supplico, vi scongiuro; abbiate pazienza” “Ancora?! Ve la abbiamo già dimostrata a lungo, vero cara?” Alberto si rese conto che doveva esporsi, fare qualcosa in più. “Caro barone, ascoltatemi, ascoltatemi vi prego!” così dicendo gli strinse forte gli omeri. “Abbiate pazienza, ne vale la pena; più si attende e più si godrà dopo. Vi prometto solennemente” e si portò la destra al petto “evocando la presenza di nonno Emilio; che voi, barone Toscano di Sanquintino e la vostra gentile consorte, sarete i primi, dico i primi, ad essere presentati agli augusti prin…” si fermò. Grande astuzia. “Avete detto princ…”, “Vi prego, vi prego, non divulgate, mi raccomando barone. Ad un mio segnale voi e la vostra consorte vi posizionerete di fianco a me, appena dietro e godrete della stupenda visione dei…” gli si avvicinò all’orecchio “Tenete d’occhio il maggiordomo annunciatore, non perdetelo di vista!”. “Oh si, certamente conte, vi ringrazio del privilegio che ci avete accordato”.
Intanto, in un altro settore della grande sala… “Eccovi finalmente, baronessa Sontel del Prado; deliziateci della vostra presenza. Siete insuperabile, in-su-pera-bi-le!” “Marchese Forno d’Albisegna, barone Galli Crotti, riverisco”. Solito inchino, solita vetrinetta, soliti sguardi, solite dame inviperite: tutto come da copione. “Siete quanto di più affascinante esista nella capitale baronessa; vi esterno i miei più sinceri complimenti”. “I complimenti soli, marchese? I vostri occhi penetrano nel mio “décolleté” accarezzandone il… contenuto meglio di due mani esperte” “Baronessa, baronessa vorrei… vorrei… siete meravigliosa; non avete idea di quanto vi vorrei…”, “Cosa e quanto le vorreste caro… posso aiutarvi nell’individuare la “cosa” e la “quantità” di essa?” La marchesa Forno giunse alle loro spalle improvvisamente e sorprese il marito nell’ardire. “Cara, cara consorte, si stava scherzando sapete; dopo qualche bicchierino l’atmosfera si scioglie e si dice un po’ così, tanto per dire, per essere allegri…”. “Scherzando, bicchierino, atmosfera… ricomponetevi marchese, siete eccitato… e si nota eziandio!” “Per Giove, dite sul serio moglie? Perdonate sono eccit… ehm desolato” e sparì in fretta lontano insieme al barone Galli Crotti. “Voi baronessa Sontel” disse la marchesa Forno con un largo sorriso “siete la stella, l’attrazione principale della serata; non temete nessuno, giustamente; la vostra bellezza non lascia dubbi, siete la prima in tutto, riconosciuta da tutte le altre. Ma state accorta, verrà un giorno… in cui dovrete chinare la testa ad una bellezza superiore a voi”. “Veramente marchesa Forno d’Albisegna? Ora vaticinate pure! Che cara vecchietta. Sapete, leggendo Leopardi “…siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella…” rivedo la vostra immagine, si, così come siete ora. Figuriamoci
poi in abiti meno importanti come possa ancora più scadere; non so come definirla… ah si, ecco, ho trovato il sostantivo adatto: salma, sal-ma! Vi calza alla perfezione sapete? Salma!” “Verrà, verrà un giorno nel quale un’altra donna molto più bella vi reciterà il “De profundis”. Statene certa, quel giorno verrà”. Rispose la marchesa mantenendo una calma serafica ed una serietà impressionante; al punto che la Sontel ne fu scossa e reagì violentemente. “Ascoltami bene, cadavere in putrefazione; ora lo recito io a te il “De profundis”, e a tutte le vecchie cagne come te, rognose e portatrici di pulci; sei un pattume ambulante, vatti ad annegare!”. “State accorta baronessa, verrà quel giorno, verrà; è solo questione di tempo”. La baronessa ebbe uno scatto d’ira, le si avvicinò ad un orecchio e le sussurrò: “Crepa, crepa male, crepa il più presto possibile nel dolore più forte, crepa, crepa!” Girò i tacchi e se ne andò a mostrare il seno a chi era in attesa. Eh, che dire! Veramente un bel tipino accidenti.
“Allora baronessa Cavalcanti Forte, quando? Non vi sembra che la “personalità” si prenda un po’ giuoco di noi? Ma sarà poi vero oppure il conte Emilio e suo fratello ci stan minchionando per bene, quasi fosse un anticipo di carnevale?” “Vi prego duchessa De Cardonas Belli, con tutto il rispetto che nutro per la vostra casata, per voi; siete quasi una venerazione per me e lo sapete pure…” “Beh, venerazione o no mi sono stancata, va bene? Ora vado da quei… da quei due, per non dire altro, gli dico ciò che si meritano e me ne vado, ce ne andiamo. Trattare in codesta maniera noi, i duchi De Cardonas Belli!” La baronessa si decise a giocare il tutto per tutto, e con la massima decisione disse: “Ascoltate duchessa, potrebbe trattarsi dei principi Oliv…”
“Uuuuh!” l’urlo della duchessa echeggiò nella sala; l’orchestra si fermò; tutti si voltarono verso le due donne. Giunse di buon o il duca, giustamente in ambascia “Che è successo cara? Baronessa Cavalcanti, esigo da voi una spiegazione!” disse con sussiego. Il quintetto riprese l’esecuzione dei brani in programma; Alberto ed Emilio si diedero da fare per riportare la sala alla normalità. La baronessa si avvicinò al duca. “Eccellentissimo duca De Cardonas Belli, mi… mi giurate di non dir nulla a nessuno?”, “Sì…sì, ve lo prometto!” “È probabile che siano, più si che no, i principi Oliv…” “Orpo!!” Stralunò quello. Di nuovo l’orchestra si fermò di botto, tutti guardarono basiti il duca evidentemente confuso. Alberto si decise, non si poteva più attendere oltre, ciò era molto pericoloso. Diede subito l’ordine ad Osvaldo di andarli a prendere. Consultò per l’ennesima volta l’orologio: mancavano quindici minuti alle nove.
Marta ritornò reggendo morbida sugli avambracci, una mussolina giallo canarino “Ho trovato questa” “E cos’è?” chiese il principe. “È una tenda del bagno della signora contessa, non ho trovato altro sul giallo”. Don Diego prese la tenda fra le mani e la attorcigliò leggermente, poi la avvolse con due giri attorno alla vita di Maria Bambina e la fissò con un nodo semplice ed un asola. “Ecco principessa, con questa stretta in vita abbiam fatto sparire l’ampiezza dell’abito, e allo stesso tempo s’è completato i colori della casata: blu e giallo”. “Marta, il trucco presto”.
“Subito eccellenza, seguitemi”. Entrarono nella camera di Elvira “Accomodatevi qui principessa” disse Marta indicando una poltroncina e aprendo i due stipetti sotto al grande specchio. “Marta, un tratto di matita nera agli occhi; le ciglia van bene così”. “No eccellenza, un piccolo tocco e stan più su”. “Va bene Marta”, consultò l’ora: le otto e mezza “dobbiamo sbrigarci”. “Calma principe, calma” rispose la consorte con fare tranquillizzante. “Marta, alle guance nulla. Le labbra leggermente rosate, poco poco; aumenta di un niente le punte sotto il naso. Bene così, dai, dai Marta che ci siamo quasi”. “C’è una pietra sull’azzurro da metterle al collo?” Quella frugò in un cassetto e tolse una goccia di lapislazzuli appesa ad un filo in argento, che porse subito al principe. “Va bene, va bene. Dai mettigliela al collo. Orecchini, orecchini, dove stanno?” Marta gli indicò col mento un cofanetto verde. L’altro lo aprì e vi fece are le dita a modo di rastrello più volte; infine scelse due pietre nere incastonate in un cerchietto argento. “Agganciaglieli ai lobi, svelta; dai Marta, per favore, dai!” “Va bene, un attimo solo… ecco fatto!” “Alzatevi su, di grazia” disse il principe a Maria Bambina “Sì, sì, così… cosììì” “Marta, Marta” urlò. “Eccomi principe, comandate”. “Un nastro, un nastrino azzurro come l’abito oppure blu; dai Marta, dai veloce, dai che ce la facciamo”. Arrivò Osvaldo “Questa l’è l’ultima chiamata principi. Andiamo, seguitemi!” “Aspetta Osvaldo, aspetta ancora un attimo”. “Non è possibile; quanto vi manca?”
“Un quarto d’ora, non di più Osvaldo”. “Non posso, devo portarvi in sala. Ho l’ordine tassativo del signor conte!” “Osvaldo, ascolta, non rovinare tutto ora che siamo alla fine. Ora tu ritorni in sala e metti tranquillo il signor conte. Poi fai sciogliere i tendoni in velluto così da occultare l’ingresso. Giuoca un po’ col camlo; fai delle finte, come fossimo lì, lì per giungere; ingegnati come t’ispira, non ti mancano le idee. Ah, metti due valletti dietro le tende, ti avviseranno quando saremo arrivati e pronti ad entrare”. “Vedrò di far del mio meglio, ma sbrigatevi” e se ne ritornò verso la sala. Riapparve Marta “Vedete principe se questo nastrino può andar bene”. “Sì, sì, il colore ci sta” misurò una spanna abbondante e tagliò “permettete principessa”. Prese un boccolo fra le dita, fece are il nastro intorno e lo fermò con un’asola, mentre i due dormienti scendevano di un paio di centimetri. Ne tagliò altri nove uguali e ne diede qualcuno a Marta “Dai, annoda com’ho fatto prima, dai, dai, dobbiamo sbrigarci; dai Marta coraggio, abbiam terminato quasi!” L’orologio segnava le nove meno cinque minuti. La principessa fu acconciata con i dieci nastrini azzurro disposti a caso fra i boccoli neri; i due orecchini neri ai lobi; la goccia di lapislazzuli al collo. L’abito in azzurro forte non era sostenuto dalla crinolina, aveva solo un leggero strascico contenuto; la fascia gialla in vita completava il tutto. Era uno splendore. “Siamo pronti, andiamo principessa!” “Andiamo principe!” Marta si inchinò reverente seguendoli collo sguardo. Era soddisfatta. Osvaldo intanto aveva raggiunto la sala “Slacciate i tendoni, uscite ed aspettate i principi” disse ai due valletti di servizio all’entrata, i quali eseguirono immediatamente. Alberto fece un cenno col capo come dire: “Perche?”. Osvaldo
non rispose. “Baronessa Cavalcanti, hanno sciolto i tendoni!” “Sì duchessa, ho notato. Osserviamo attentamente il maggiordomo, dai suoi movimenti dovremmo capire quando sarà il momento”. Osvaldo era diventato il personaggio più importante, tutti guardavano lui, non lo perdevano di vista un solo istante. Il brusio si fece più cupo, tutti avevano addosso una tensione spaventosa. Osvaldo reggeva molto bene la sua parte, in simili frangenti era un maestro; si girò verso le tende, le allargo un pochino e vi infilò la testa. Le richiuse e si rigirò allungando la mano verso il camlo; il brusio si affievolì fin quasi a scomparire. “Ci siamo, ci siamo” pensavano tutti quanti. Osvaldo, a poca distanza dal camlo tentennò; stette colla mano sospesa per alcuni interminabili secondi poi lentamente la ritirò a sé. Il brusio aumento di nuovo fino a diventare un vociare alquanto scocciato: l’avrebbero volentieri preso a calci. Lui ne godeva grandemente guardando l’assemblea con occhi di sfida. Che disgraziato! Ma non faceva altro che il suo dovere come gli era stato comandato. “Ci siamo principessa, siete pronta?” “Pronta principe!” La coppia scorgeva in fondo al corridoio le tende di velluto beige chiuse e i due valletti. Avanzavano molto lentamente, quasi ad assaporare ancora un attimo il silenzio che sembrava per ora custodirli. Giunsero al fine vicino ai servitori che li aspettavano, fermi sull’attenti uno di rimpetto all’altro. “Avvisate il maggiordomo” disse il principe. Uno dei due si avvicinò alle tende e senza scostarle diede la voce ad Osvaldo “Pronti!” Quello, udito il chiaro avviso, battè i tacchi, s’impettì e allungò la mano verso il camlo; tutti trattennero il respiro. Tentennò ancora colla mano alzata; vide sessanta occhi truci che lo fissavano: rischiava il linciaggio; lo alzò lentamente all’altezza del viso, senza farlo tintinnare. Poi…
La sorpresa
Dlin dlin dlin, dlin dlin dlin; dlin dlin dlin, dlin dlin dliiinnnn… La musica cessò; i presenti sembravano statue di cera; solo il fuoco che ardeva nel grande camino dava segnali di vita. Osvaldo depose il camlo, si schiarì la voce, si mise sull’attenti e tuonò “Principessa Maria Bambina!” silenzio; silenzio assoluto! “Don Diego… Antonio… Olivareess. Principe di Salamarsinaaa!”. Parevano tutti morti. Silenzio da paura. Impressionante! Ognuno sentiva il cuore battere in gola, alle tempie, negli orecchi. Apparvero allora due mani guantate di bianco, agganciarono le tende e le aprirono. Eccoliii! I principi fecero due i, varcarono la soglia e si fermarono lì. Dal camino provenivano dei colpi secchi che nell’assoluto silenzio sembravano spari di fucile. Il principe ritto, perfetto, le braccia giù lungo le cosce; la fascia blu coi bordi gialli spiccava enormemente sul fondo bianco del gilet e sotto al frac nero. Il viso simpatico esprimeva gioia e felicità; privo di austerità e sussiego. La principessa coll’abito azzurro , alla sua destra, teneva le mani incrociate sul basso ventre, con naturalezza. Era alta quasi quanto il principe; la fascia gialla stretta in vita, lasciava cadere sul fianco sinistro due lembi fino a metà polpaccio. Per tentare di descriverla eziandio i superlativi paiono riduttivi. Altro che sorpresa, pure codesto vocabolo risulta insufficiente; nessuno dei presenti, pur scatenando la propria fantasia, si sarebbe mai immaginato nulla di simile. L’unica certezza assoluta che li colpiva, consisteva nel fatto che mai prima d’ora, a memoria d’uomo, si era presentata una coppia principesca, o reale, ducale o di diverso titolo nobiliare, similmente a quella presente; e che mai
in futuro si sarebbe raggiunta una tale perfezione. Nessuno più neppur pensava; gli unici organi super attivi erano gli occhi. Si viveva solo del presente; ciò bastava, soddisfaceva al punto tale che altri desideri, diversi da codesto, risultavano del tutto scomparsi. I principi si facevano tranquillamente ammirare dal popolo di cera, come se non persona viva li guardasse. Tutto fermo; tutto inerte; tutto silenzio, solennissimo silenzio. Anticipo del giudizio universale? No, no certo, ma sembrava tale. Nessuno si sentiva di turbare codesto momento prendendo l’iniziativa; era come se si fosse formata una bolla nel tempo che imprigionava tutto e tutti, ed impediva allo stesso di scorrere. Era sopraggiunta la fine del mondo proprio nel momento in cui, i principi si arrestarono dopo aver varcato la soglia? Così sembrava. Nessuno desiderava che quegli attimi finissero mai; ognuno cercava di imprimere nella propria memoria quell’immagine come un dagherrotipo. Eccetto una sola persona.
Il maestro di cappella, all’annuncio di Osvaldo, protese le braccia verso i musicisti; nelle prime tre dita della mano destra stringeva la bacchetta leggermente obliqua; il busto in mezza torsione verso il camino, lo sguardo rivolto all’entrata. Così si trovava tuttora. Fu il primo a far rifunzionare il cervello; fece segno due agli orchestrali ed iniziò col primo lento movimento delle braccia che si chio, poi il secondo e si allargarono; al terzo movimento il violoncello attaccò il basso continuo del “Kanon in d dür” di Pachelbel. Re, la, si, fa diesis; sol, re, sol, la. Alla terza battuta entrò il primo violino eseguendo il suo tema. Il principe guardò la consorte; la vide un po’ tesa. Non le porse il braccio come vuole l’etichetta; la prese semplicemente per mano, stringendogliela con lievità. Le sorrise; la principessa non mutava atteggiamento. Allora le diede delle piccole strette d’incoraggiamento; lei ebbe un piccolo accenno di sorriso; il
principe lo allargò tutto; lei fece altrettanto: fu come il sorgere del sole. In codesto modo avanzarono, mano nella mano, lentissimamente, sorridendo, la principessa non in bianco; erano fuori da tutti gli schemi, per questo più ammirati; senza saperlo stavano dettando una nuova moda. Come in una giornata ventosa all’improvviso si spalanca una finestra, e si genera un violento turbine di corrente d’aria che soffia via tutti i fogli sparsi sulla scrivania, disperdendoli ovunque; così fu l’incedere della principessa. Spazzò via tutto. Era come un pavone con la ruota spiegata, che avanza su un’aia gremita di galline bianche del Mugello e di corvi. La sua straordinaria e ineffabile bellezza era devastante; incuteva timore e rispetto. I suoi quindici anni dettavano la spietata legge della gioventù. La baronessa Sontel del Prado, equivalente del primo foglio volato via ed introvabile, a tale vista frantumò un bestemmione fra i denti. I principi distribuivano sorrisi a tutti, girandosi da una parte e dall’altra; ricevendo come risposta, solo dalle più anziane, qualche timido accenno col capo; tutto il resto dei presenti rimaneva ancora immobile; guardavano solamente ad occhi sbarrati e nulla più. Era difficile ritenerli ancora in vita, se non per la posizione eretta che assumevano. Qualcosa di impensabile, d’incredibile, d’indefinibile, d’indecifrabile, d’insondabile, di misterioso, di assurdo, di spaventoso, di occulto, di trascendente, gli aveva come annullato la volontà. Ma che stava accadendo in quella sala?! Il Kanon era al crescendo finale. I padroni di casa, attendevano trepidanti i principi dietro lo stemma della casata. Il quintetto terminò il famoso brano, eseguito con somma bravura. Il silenzio calò di nuovo solenne, sembrava quasi infastidito dal crepitio robusto e incalzante del focone che ardeva nel magno camino. Ora i conti di Gavorrano avevano di fronte i principi di Salamarsina.
L’unico a non trovarsi in imbarazzo era il principe, seguito subito dopo dalla consorte. Il conte Emilio sarebbe corso volentieri dove giustamente si presume; della moglie non si notava neppure la presenza. Alberto fissava incredulo i due, per la verità più la principessa; sapeva chi in realtà fossero, ma ora vendendoli così, fu colto da timore; Elvira voleva gettarsi ai piedi della principessa e supplicare perdono.
Emilio per primo, essendo il più anziano dei due fratelli, aprì la bocca, ma non articolò nulla; non uscì nessun suono. Gli occhi dei principi si posarono su Alberto, toccava a lui. Era emozionatissimo, frastornato; pensieri perniciosi gli avano per la mente. Si rivedeva poche ore prima sulla carrozza, duellare con la ragazzina prelevata poco prima da una stalla ed ora se la trovava davanti principessa. Si decise “vada come vada ma non posso rimanere muto”. “Principi…” voce rotta dall’emozione. Sforzo immane e ripresa. “Prin…principi…” silenzio. Situazione drammatica. Don Diego lasciò la mano della consorte e allargò leggermente le braccia; studiò il timbro della voce, poi con tono baritonale, rotondo e suadente: “Conti Braccioforte di Gavorrano, gentilissime e splendide consorti, ricevete tutta la mia gratitudine per il gentilissimo invito a partecipare alla serata commemorativa del quarantesimo anniversario dell’elezione alla famiglia comitale della vostra casata. Vedo tutt’intorno tanta bella gente, una stupenda nobiltà e posso? Mi date licenza di chiamarvi amici?” Pronunciò quest’ultimo vocabolo sorridendo largamente e compiendo un mezzo giro, prima a sinistra poi a destra, abbracciando così tutti i presenti. Si udirono un paio di piccolissimi “sì”, pronunciati con eccessivo timore e a bassa voce. Non si era ancora rotto il ghiaccio. “Ora carissimi conti di Gavorrano, permettetemi di presentarvi la mia consorte, principessa Maria Bambina”
“Principessa, con… con…” Emiliò si fermò lì. La di lui consorte rimase inespressiva, sembrava una presenza meramente casuale, trovatasi chissà come e perché lì di fianco. Alberto provò di nuovo ad articolare un abbozzo di saluto ma, abbassato il capo, tacque. Elvira la guardava insistentemente e basta. Poco prima l’aveva accolta, lavata, pettinata, vituperata, e ora se la vedeva di fronte meravigliosamente bella, lieta, sorridente, affascinantemente giovine. Avvertiva netta la sensazione di trovarsi in un’altra dimensione, in un altro mondo. Preoccupante! La principessa rimase in attesa ancora un poco, ma i saluti si erano esauriti ancor prima d’iniziare. Con semplicità disse “Conti Braccioforte di Gavorrano, signore contesse; rendo omaggio alla vostra ospitalità, mai mi sarei aspettata un’accoglienza di cotanta importanza; vi prego di accettare il mio devoto saluto”. Detto ciò, alzò colle dita i fianchi dell’abito e piegò il ginocchio destro fino a terra, mantenendo il busto eretto e gli occhi rivolti verso lo stemma azzurro e argento. Emilio si scosse non poco “Ma no, no! Principessa cosa fate! Non dov…” Gli altri tre componenti della casata rimasero fortemente impressionati da tale gesto, così pure tutti i presenti; si domandavano il perché di tale umile e deferente omaggio, che offerto da una principessa diventava grandioso. Si alzò e riprese la precedente posizione in fianco a don Diego; si accorse della favorevole situazione e osò. “Permettetemi” disse rivolta ai conti, ricevendo da loro la solita risposta muta ad occhi sbarrati. Poi, compiendo quasi un giro completo su sé stessa, si rivolse così ai presenti “Un saluto anche a tutti voi, gaudium magnum, nell’attesa d’incontrarvi singolarmente… se ciò non v’incomoda di troppo”. Silenzio, nulla, tutti fermi. Evidentemente regnava ancora la fortissima emozione che la loro comparsa provocò. Si avvertiva comunque che in qualche modo, ognuno desiderava grandissimamente manifestare ai principi la propria felicità di essere presente alla grande festa, ma nessuno prendeva l’iniziativa, pavidamente, temendo di fallire il momento, il modo, l’approccio, le parole: si era creata una situazione di stallo. Il principe invitava cogli occhi il conte Alberto ad intervenire: nulla, bloccato.
La principessa temette di aver commesso qualche errore, ma nella breve analisi del suo comportamento e delle sue parole, non ne trovò. “Ma in che guaio mi sono cacciata” pensò “ora lascio tutti questi… questi cosi qui e me ne vado”. La baronessa Cristina Cavalcanti guardò in modo molto preoccupato il marito Guidobono, il quale come tutti gli altri rimaneva fermo immobile, rigido, vitreo. Allora si risolse ed aprì bocca, e con estrema decisione a voce altissima urlò: “Grazie principessaaa!”. Il tappo era saltato, il vulcano esplose! Tutti quanti nello stesso istante si misero a gridare il loro benvenuto, applausi violenti, ripetuti, spontanei, prolungati; “Evviva i principi Olivares!”, “Bravi eccellentissimi principi!”, “Benvenuti, grazie principi!”, “Principessa siete divina, ancora di più che divina!”. Ognuno urlava più forte nel tentativo di farsi udire, in un tripudio di alzate di braccia, battimani che non cessavano; persino le più insignificanti presenze, di cui si è detto, con trasporto e strepito insospettati, contribuivano al frastuono assordante con le loro vocine stridule. Pure i servitori ne furono contagiati, cosa assaissimamente rara se non unica. Osvaldo, commosso e contento, dal fondo della sala si godeva la scena incapace di urlare la sua felicità. Allo scoppio dell’entusiasmo generale il maestro di cappella perse un poco di lucidità e freddezza, unendosi alle grida e agitando le braccia con grande energia. In un movimento mal controllato gli sfuggì la bacchetta dalla mano, e ricadde colla punta sulla cassa armonica del violoncello. Lo sguardo minaccioso del violoncellista lo riportò alla realtà, si impossessò in fretta dell’arnese e urlò “Hallelujah, Hallelujah di Haendel presto”, “Batto due, tutto fortissimo altrimenti non ci sentono!” Come un boato iniziò l’allegro del grande compositore; ciò fece da volano al tripudio generale che aumentò d’intensità, scatenando la gioia di tutti. Eccetto una sola persona.
Non esisteva più freno a nulla e a nessuno; gente che saltava, urlava, applaudiva, si abbracciava “Evviva gli splendidi principiii!”, “Lunga vita ai principi di Salamarsina!”, “Bravi principi, siete bellissimi!”, “Principi, siete più che
principi!”. Poi si udì una voce su tutte, apparteneva a Guidobono “Gloria ai principi di Salamarsina ed ai conti di Gavorrano!”. Riesplosione del gaudio e ancora applausi scrosciantissimi: “Grazie ai principi Olivares ed ai conti Braccioforte, siete meravigliosi!”. Il maestro di cappella ordinò tosto la ripetizione dell’Hallelujah. Il ghiaccio si era rotto, frantumato, liquefatto; ora la grande sala assomigliava ad una polla d’acqua sorgiva calda e sulfurea della val d’Orcia. Urla a più non posso si sovrapponevano agli applausi che avevano un andamento sinusoidale; allorché perdevano un poco d’intensità, subito qualcuno s’incaricava di rinvigorirli e via così di seguito “Lunga vita ai principi e ai conti”, “Abbiamo la più bella nobiltà”, “Principi, siete i migliori”. Tutti gli invitati si erano stretti intorno alle tre coppie vicine allo scudo sannitico bipartito azzurro e argento; la felicità manifesta non dava segnali di cedimento; il maestro fece eseguire per la terza volta di seguito l’Hallelujah senza interruzioni. Tutti salutavano i principi con frequenti inchini, più e più volte; non si capiva più nulla; qualcuno si abbracciava piangendo: reminiscenze patriottiche? Può darsi, nulla era da escludere. Le zucche si sfioravano pericolosamente a causa dei frequenti, profondi ed eziandio pericolosi inchini. Fu così che il conte Alberto, inchinandosi da tutte le parti senza alcun ritegno, girandosi improvvisamente si trovò a bocciare la fronte del barone Toscano di Sanquintino, il quale, come da promessa ricevuta, si trovava a poca distanza e pure lui era affetto da tale, ormai lo si può affermare, patologia. “Oh barone Toscano, proprio di voi cercavo!” “Caro conte… mi avete trovato! Ehm, scusate conte, ma voi in codesto modo andate in cerca del prossimo?” “Vi chiedo perdono barone, vi ho procurato dolore?” “A chiii?! A meee? Ho partecipato alla battaglia di Curtatone e Montanara nel ’48 col battaglione Toscano, il glorioso battaglione Toscano! Cosa mi deve ancora far paura! Vero cara?”. Risero i due di gran cuore.
Alberto fece dei cenni ad Osvaldo che a fatica si accorse dei segnali, ma non potendo avvicinarsi cercò di interpretarli; infine mostrò da lontano il camlo al conte, il quale annuì più volte colla testa. Si udì la nota squilla tintinnare senza interruzione fino a che tutto fu quieto, musica compresa. Che pace ritrovata! Alberto prese la parola “Bene, ora che abbiamo espresso il nostro corale “benvenuto” ai colendissimi principi, proporrei di far conoscenza diretta e personale per ogni coppia invitata”. “Sì, bene”, “Proposta accolta”, “Procedete conte”. Solo Alberto ed Elvira erano rimasti al loro posto; il conte Emilio si rifugiò tosto dove giustamente si ha da pensare; la rispettiva consorte era sparita nel nulla. “Permettetemi principi… la mia consorte, contessa Elvira”. “Contessa, sono onoratissimo e felicissimo di conoscervi; siete una donna splendida” disse don Diego “Onoratissima” mormorò lei. “Contessa, sono oltremodo lieta di essere qui con voi, siete una donna stupenda. Indossate un abito meraviglioso, chissà come sarà completo e ricco il vostro guardaroba! Portate inoltre, un bellissimo nome, ringraziate i vostri genitori che ve l’hanno scelto”. La principessa pronunciò codeste parole con una semplicità disarmante. La contessa incassò il colpo, chinò il capo e tacque. Invano Alberto attese la risposta della moglie; poi, spostandosi un poco, fece spazio alla prima coppia come promesso “Barone Toscano di Sanquintino e consorte”. Il quintetto riprese sottotono l’esecuzione dei brani programmati; le voci si udivano perfettamente; tutto filava in maniera meravigliosa. “Don Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina, principessa consorte. Se esternassi tutto ciò che provo in questo momento mi prenderei tutta la serata, vero cara? Vi basti solo questo: è valsa la pena vivere tutti codesti anni per assaporare tale gioia inestimabile quale la vostra conoscenza!”. Inchino. “Barone Toscano di Sanquintino, gentile baronessa. Troppo buono barone, vi ringrazio, non merito tanto. Avremo poi tutta la serata per scambiare ancora qualche parola in allegria; quando vorrete, con piacere”. Il barone si stava congedando allorché la principessa lo chiamò “Barone Toscano
di Sanquintino”. Quello sorpreso si fermò. “Sì, principessa?” rispose. “Ho appreso da voi stesso, mentre dicevate al conte Braccioforte, che avete preso parte alla battaglia di Curtatone e Montanara vero?” “Esatto principessa, dite bene” “Sono felicissima di aver incontrato un valoroso, un eroe; sì, un eroe!” Il barone si stupì moltissimo, batté fortemente i talloni e si mise sull’attenti a fronte alta; l’orchestra cessò di suonare; la sala ritornò in silenzio. La principessa riprese. “Il vostro glorioso battaglione Toscano fece parte della divisione Toscana comandata dal generale De Laugier, nella quale furono presenti pure due nostri battaglioni, uno di effettivi e l’altro di volontari. Nonostante la disparità di forze e di cannoni a favore degli austriaci, teneste impegnate codeste truppe nemiche per un giorno intero, infliggendogli gravi perdite. Lode, onore e gloria al battaglione Toscano e ai due napoletani!” il tutto proferito con solennità. Il barone era rimasto nella posizione di attenti: esterrefatto, commosso, fiero. La principessa parlò conoscendo i fatti come se ella stessa avesse partecipato alla battaglia; il nonno suo fu uno dei volontari, e fintanto che rimase in vita, raccontava spesso la sua avventura condita di episodi, nomi, luoghi, ordini, orari precisi. Finito ch’ebbe fece un o verso il barone e lo baciò su una guancia con semplicità, come fosse il redivivo nonno. I musicisti ripresero a far vibrar le corde degli strumenti. Il barone abbandonò il luogo dell’encomio postumo; quel bacio valse più di una decorazione sul campo. “Bravo barone Toscano”, “I miei complimenti più vivi barone”, “Non ne eravamo a conoscenza, bravo!”. Ricevette così le felicitazioni da parte di tutti i presenti; mai avrebbe immaginato ciò che avvenne. Alberto rimase allibito, non trovava nessuna spiegazione; come poteva sapere la ragazza di tali avvenimenti successi ventun anni addietro!? Toccava ancora a lui. “Duca De Cardonas Belli e duchessa!” Era giustamente deciso di procedere rispettando la gerarchia, iniziando dai gradi più alti.
“Principe Olivares, principessa. Finalmente ho, abbiamo, il grande onore di conoscervi, grazie al conte Braccioforte e alla vostra bontà. Dopo averla letta sui libri di storia, ecco la casata da voi degnamente rappresentata. La mia felicità est incommensurabile, ineffabile, inimmaginabile”. Inchinone. I principi erano splendidi, brillavano di luce propria. “Duca De Cardonas Belli, duchessa; vi ringrazio per le vostre bellissime parole. Considero un grande privilegio incontrarvi; rimango a vostra disposizione, pronto a soddisfare ogni vostra richiesta” rispose il don Diego. “Perdonate l’ardire principe, avrei subito una richiesta da porvi” “Dite, Duca, con la più ampia libertà; vi ascolto” “Ecco eccellentissimo principe Olivares, ho grande desiderio di baciare la mano alla vostra stupenda consorte”. Il duca pronunciò codeste parole con voce insicura intimidita; traspariva comunque la sincerità della richiesta, non inquinata da alcuna pur piccola forma di morbosità. “Carissimo duca, avete piena licenza subitissimo, ma… domandate pure alla principessa, non credo vi negherà la vostra soddisfazione”. “Princip…” quella aveva già allungato la mano destra verso il volto del duca, sfoderando un sorriso solare. L’altro la prese delicatamente e la baciò. “Vi ringrazio della gratificazione che mi avete elargito principessa Olivares. Inoltre debbo aggiungere che mai nome fu più adatto alla donna che lo porta come a voi!”. Altro inchino. La principessa sorrise ritirando il braccio a sé. “Duca, siete di una dolcezza soave; che animo buono tenete”. Alberto proseguì le presentazioni colle famiglie marchionali. “Marchese Carati di Monteforte e consorte” Don Diego se l’aspettava, eccolo qui, l’uomo da lavorare. Mise in azione prontamente tutta la sua esperienza; già dal primo approccio s’incomincia a studiare un individuo per cercare di comprendere quale sia il modo migliore per raggiungere l’obiettivo finale. Rimaneva sempre fedele ad un suo convincimento
più volte riconfermato. “Felicissimo, principe Olivares. Principessa”. “La vostra felicità è la mia Marchese Carati di Monteforte. Marchesa onoratissimo”. Fu un incontro sobrio, scarno, essenziale; ma molto vero, sincero, nulla di artefatto. Il principe aveva la straordinaria dote di adattarsi a fatti, persone, avvenimenti, situazioni; se non sempre gli riusciva di mettere a proprio agio l’interlocutore di turno, perlomeno non ne aveva mai messo a disagio alcuno, neppur in situazioni alquanto scabrose. “Marchese Talpa Lando dell’Arcese e consorte”. “Principe Olivares, mai mi sarei aspettato d’incontrarvi: oggi è accaduto! Posso affermare, con assoluta certezza, che codesto è il più bel giorno della mia vita; vi prego di credermi. In quanto a voi principessa, non esistono vocaboli degni di magnificare la vostra straordinaria, estrema, superba bellezza!”. Pronunciò le ultime parole con enfasi e a voce alta. “Marchese Talpa Lando dell’Arcese, gentilissima signora marchesa; vi auguro di cuore di trovarne di migliori di giorni; vi ringrazio infinitamente. Ci vedremo certamente ancora durante la cena di commemorazione; una grande festa che sarà sicuramente un evento da ricordare a lungo; grazie in modo particolare alla stupenda magione dei conti Braccioforte di Gavorrano ed alla loro sensibilità ed ospitalità eccellentissime”. Detto ciò applaudì al conte Alberto ed alla consorte, gli unici della casata presenti. Fu tosto emulato da tutti con grida di “evviva” e tutto il resto. Il marchese Talpa Lando si stava accomiatando allorché la consorte si rivolse improvvisamente a don Diego “Perdonate principe Olivares…”. Voleva, chissà perché, osservare ancora il principe da vicino mentre parlava. C’era qualcosa che la spingeva inconsciamente ad avvicinarsi a lui; per rendersi conto di che? Non lo sapeva ma lo fece ugualmente. La marchesa era contenuta a fatica da un abitino “conforme”, naturalmente bianco, con qualche balza, collarino in seta nero con cammeo centrale. Decisamente cicciotta e non poco, intorno ai quarant’anni se non ati;
piuttosto bassa di statura, una vocina da bambina tendente a diventare stridula. Un viso tondo tondo, ma con lineamenti ben proporzionati; il che faceva supporre, con sufficiente sicurezza, che in gioventù e con molti chili di meno addosso, avrebbe potuto essere una donna del tutto gradevole. “Eccomi a voi, cara marchesa”. Quella non aveva nessuna intenzione di cosa chiedere; si limitò a guardarlo in viso, poi fisso negli occhi; con interesse misterioso, senza proferir parola. Il principe percepì tale impalpabile curiosità; colla sua esperienza non si poteva sbagliare. Stette in guardia. Il conte Alberto proseguì nelle presentazioni col marchese Almerico degli Albruzzi e consorte; indi i marchesi Forno d’Albisegna. Alla fine di quest’ultima, la marchesa Forno si rivolse alla coppia principesca: “Degnissimi principi Olivares, la vostra antichissima e nobilissima casata vi rende fieri di far parte di essa, ma pure lei gode nell’annoverare due discendenti quali siete voi”, “Principessa Maria Bambina, la vostra presenza in mezzo a noi la considero riparatrice, purificatrice. In voi la bellezza raggiunge la sua degna dimensione, la sua più giusta collocazione; da voi traspaiono una semplicità ed una purezza primordiali; per tale motivo siete inarrivabile, insuperabile. Siete un angelo del paradiso inviato sulla terra”. Il principe rimase imibile; l’altro che era in lui si turbò. “Quanto siete buona marchesa Forno d’Albisegna, spero di non deludervi” rispose la principessa colla voce lievemente alterata. I marchesi si defilarono. “Marchesa Forno siete stata bravissima”, “Ottima marchesa, avete correttamente interpretato i nostri pensieri”, “Finalmente marchesa, finalmente, siamo tutte felici”. Codesta fu l’accoglienza della altre signore. Eccetto una sola.
Furono presentati i conti Pandini, con grande effusione di complimenti da parte della contessa; si sentiva lei, in un certo senso, la persona a cui tutti dovevano essere riconoscenti per la comparsa dei principi. Fu lei ad indirizzare le ipotetiche previsioni sulla coppia che ora stavano incontrando singolarmente. “Barone Guidobono Cavalcanti Forte e baronessa Cristina” Alberto li presentò a voce ben chiara, marcata, soddisfatta. “Principi eccellentissimi, mai vi avrei immaginato così!” esordì Guidobono. “Così come, barone Cavalcanti Forte” chiese don Diego con curiosità. “Beh, principe… così… così come siete” rispose un poco timoroso. “E come siamo, di grazia barone!” disse con un lieve sorriso il principe. L’altro, rassicurato, stette al gioco e fingendosi pensieroso rispose: “Dunque, dunque… per tentare di definirvi dovrei sproloquiare un paratrattato sull’estetica, e penso non sia il caso. Oppure recarmi di massima urgenza presso la Crusca e richiedere nuovi vocaboli adatti, ma temo che difficilmente potrebbero accontentarmi”. I principi applaudirono e tutta la sala con loro. “Barone Cavalcanti, vorrei tenere il vostro spirito” chiosò don Diego. Per esaurire le famiglie baronali mancava solo una coppia, tutti l’attendevano con ansia, in particolare le signore; nessuna di loro voleva perdersi nulla dell’imminente incontro di presentazione. “Barone Sontel del Prado e consorte”. Ma quella si era di molto defilata ed era reticente a mostrarsi; temeva fortemente. Il quintetto stava eseguendo l’”Adagio” di Albinoni mentre il barone la raggiunse e le disse sottovoce: “Muoviti sgualdrina”; “Crepa, bastardo” ricevette come risposta; comunque si avvicinarono pure loro. “Principe Olivares, onoratissimo. Principessa, onoratissimo”. “Barone Sontel del Prado sono lieto di conoscervi. Noto con piacere che abbiamo lontane radici comuni, vero?”, “Sì, certo principe, vero” rispose.
Don Diego guardò con un sorriso il volto livido della baronessa; notò l’abbigliamento disinvolto a dir poco. Capì tutto. Lei stava di fronte alla principessa; avrebbe potuto toccarla solo allungando una mano. Teneva gli occhi bassi, fissi sullo stemma; si sentiva addosso quelli delle vecchie rognose portatrici di pulci. Immaginava i loro pensieri “Ben ti sta”, “Stai morendo d’invidia vero?”, “Quanto godo vederti umiliata”, “Non sei più la prima?”, “Baronessa Sontel, non v’inchinate più? E come mai?”. Ripensò alle parole udite dalla marchesa Forno d’Albisegna “Verrà un giorno, statene certa… più bella di voi… De profundis… state accorta, verrà… più bella di voi… più bella, più bella… bella, bella, bella…” Era ata poco meno di un’ora e l’infausta profezia si era già concretizzata. L’invidia era un sentimento nuovo per lei; la vedeva spesso di riflesso nelle altre, da lei stessa provocata, e ne godeva grandemente. Non se la immaginava, o almeno trovava molta fatica; vedeva codesto stato d’animo che stravolgeva le avversarie, sempre perdenti, e ciò che contava di più per la perfida, umiliate. Codesto era il vero obiettivo finale della malefica; precipitarle nel più profondo stato di avvilimento, mettendo in rilievo la loro inferiorità ed i loro difetti. Era spietata in tale pratica, non aveva rivali; le venivano spontanee, come da una perenne sorgente, le più feroci offese, vituperi inediti, pronunciati con una ferocia ed un’acredine diaboliche, sì, veramente diaboliche. Nessuna è mai resistita a tale crudeltà. La baronessa Sontel del Prado era certissimamente la quintessenza della cattiveria.
Allorché due realtà si trovano a confrontarsi, succede che i difetti dell’una mettono in maggior risalto i pregi dell’altra; di contro, i pregi dell’altra evidenziano maggiormente le mancanze della prima. Così era per le due donne; così era. La baronessa, di media statura, di fronte alla maggiore altezza della principessa, sembrava piccola. I capelli castano chiaro, raccolti a treccia e appoggiati alla spalla sinistra, parevano insignificanti rispetto ai lucenti boccoli neri a cui erano annodati i graziosi nastrini azzurro forte. Gli occhi, di un verde grigio, perdevano colore rispetto agli stupendi occhioni neri. Il seno, che ostentava
spudoratamente, pareva cadente e flaccido in confronto a quello alto, prorompente e ritto dell’altra. Il viso dai lineamenti tirati e cogli angoli delle labbra abbassati, faceva rabbrividire paragonato al sorriso splendido che si trovava d’innanzi. I denti, quasi ingialliti, facevano a pugni cogli altri candidi come la neve. La perversione si trovava di rimpetto alla purezza; mai perversione fu più pervertita e mai purezza più pura. Con più rimanevano una di fronte all’altra, più le loro peculiarità si allontanavano; le diversità si facevano più nette, marcate e distanti. Infine i baroni se ne andarono, con grande sollievo della baronessa, che non sopportava più il confronto diretto con Maria Bambina: l’avrebbe uccisa volentieri! Ritornando in mezzo a tutti notò, con grande meraviglia, che nessuno la guardava più; neppure i più sfrenati spasimanti la degnavano di alcuna seppur minima attenzione; veniva semplicemente ignorata, come se in quella sala non fosse presente. Quale potente e cocentissima umiliazione! Le dame consideravano eterna la lezione subita dalla Sontel; nessuna di loro si sarebbe mai più preoccupata in nessun modo della sua presenza in futuri ricevimenti, se mai ci fosse stata! I cavalieri presenti avevano scelto senza esitare, la casta e cristallina bellezza della principessa, e scartato quella concupiscente della baronessa; nessuno di loro si sarebbe mai più interessato alla volgare Sontel. Tutti in cuor loro la definivano solamente una donna da letto; mentre desideravano ardentemente avere la principessa come sorella, figlia, nipote, amica. Ciò può significare, in un certo senso, che a volte è errato fare di tutte le erbe un fascio; gli uomini non sono tutti eguali e neppur uno peggio dell’altro. In talune circostanze, a ragion veduta, può prevalere, emergere, una valutazione più alta di tutto l’essere femminile nel suo complesso, anima e corpo. Una valutazione “strappata” con la forza dell’evidenza, palese, conclamata fin che si vuole; ma pur sempre una decisione autonoma, libera. Non per questo il desiderio naturale del maschio che prova dinnanzi ad una femmina attraente viene declassato, anzi, rimane sempre, è sempre attivo, attento, vigile, sensibile; tuttavia qualcosa gli proibisce di scatenarsi, di sfogarsi; in quel contesto lo inibisce, lo rende innocuo.
Pur non si deve confondere codesto comportamento col medesimo di un adolescente in difficoltà di fronte al primo amore; non è insicurezza o pavidità, ma come s’è detto, timore e rispetto. La bellezza della giovine principessa era inarrivabile, altissima; come una montagna dalle alte pareti, ripide, impervie, incute timore a chi si avvicina per scalarla; ed al tempo stesso ne viene rispettata la sontuosità, quasi a preservarla, rendendo così omaggio all’opera magna del Creatore. Nel frattempo la vipera aveva accumulato tanto di quel veleno da annientare l’intera armata di Napoleone in Russia. Forte della sua potenza decise di sferrare un attacco mortale ai marchesi Forno d’Albisegna. Si avvicinò a loro mentre se ne stavano un po’ in disparte a conversare amabilmente, e con un coraggio unico disse: “Marchese Forno vedo che avete riesumato la marchesa. Stavate esprimendo un desiderio, mi volevate cosa e quanto, di grazia; sono a disposizione per “soddisfare qualsiasi” vostra richiesta”. E s’inchinò come al solito “Dite, marchese, dite pure”. “Avete il seno cadente baronessa. Quando e se, arriverete all’età di mia moglie, saranno decenni che non uscirete più di casa”. E le voltarono le spalle.
La cena
Con i Sommariva Signori di Joannina ebbero termine le presentazioni. Alberto era evidentemente soddisfatto; ne aveva ben ragione. Fino a quel momento tutto era filato splendidamente in merito ai principi, tutti li avevano accettati senza ombra di dubbio e ne erano rimasti fortemente impressionati. Questi avevano interpretato la loro parte in modo eccellente; semplicemente rimanendo il più possibile loro stessi, dimostrando una autorevolezza… principesca. Il conte prese la parola “Carissimi amici” disse ad alta voce “vi prego di degnarvi di far penitenza con noi. Possiamo prendere il nostro posto ai tavoli. Prego eccellenze”. “Senz’altro conte”, “Subitissimo, con piacere”, “Su forza, accomodiamoci”. Così ognuno si sedette dov’era posato il cartoncino con iscritto il proprio nome. Giunse trafelato pure il conte Emilio con la consorte come fosse un’appendice, prendendo posto al secondo tavolo in compagnia dei duchi De Cardonas Belli, dei conti Pandini e dei Sommariva. “Chiedo perdono a voi tutti del ritardo” disse rivolto agli altri sei. “Nessun ritardo caro conte Emilio Braccioforte, abbiam preso posto mentre ci raggiungevate”. Rispose il conte Pandini. “Bene, sono felice di non aver causato alcun disagio, vi auguro una magnifica serata cari amici”. I commensali erano dunque tutti seduti ai loro posti; avevano un ampio spazio a disposizione; inoltre si potevano parlare guardandosi in volto senza spostamenti od eccessive torsioni del collo. Al centro di ogni tavolo troneggiava una raffinata composizione di agrifoglio, pungitopo e rametti di abete, con nel mezzo un cero profumato. Sopra una tovaglia di lino di Fiandra color naturale, brillava la posateria tutta in argento. I calici, in leggerissimo e raffinato vetro di Murano, recavano inciso
finemente il monogramma “B” in azzurro, racchiuso da una corona di alloro, aperta verso l’alto, grigia argento. Pure i piatti e i fondi portavano lo stesso disegno; un’eleganza studiata e di grande effetto. Servivano due camerieri per tavolo, più alcuni valletti appostati alle pareti. Su tutti vigilava Osvaldo. Fu lui a dar l’ordine di servire il vino bianco spumante per il brindisi iniziale; così fecero tosto riempiendo per metà i calici. Alberto si alzò facendo cenno agli altri di rimanere seduti. “Ecco carissimi amici; il momento tanto desiderato è giunto”. Prese il calice e lo sollevò all’altezza del viso; così fecero tutti alzandosi. “Il motivo per cui siamo qui riuniti in piacevolissima compagnia, consiste nella celebrazione del quarantesimo anniversario dell’elezione della nostra famiglia al titolo di Conti di Gavorrano. Possa il carissimo ed indimenticato nonno Emilio goderne pure lui. Vi auguro una felicissima serata”. Fra “evviva, prosit, auguri” iniziò la grande festa, mentre il quintetto d’archi eseguiva in modo stupendo l’”Inno alla gioia” dalla nona sinfonia di Ludwig Van Beethoven. Un lieto e tranquillo vociare riempì la grande sala; nel capace camino ardeva un robusto fuoco, alimentato di continuo dai valletti addetti; la musica soave accompagnava dolcemente il tutto; fuori la neve scendeva continua, il suo mantello d’un bianco immacolato copriva tutto. Avrei voluto esserci anch’io in quella sala.
Osvaldo si rivolse ad un cameriere “Iniziate!”. Altri tre lo seguirono verso la cucina, dove l’attivissimo Giannino era da tempo pronto. I quattro tornarono reggendo altrettante zuppiere caldissime e profumate, che posarono come da ordine su di un tavolo di servizio. Scoperchiarono. Un aroma di buono raggiunse le narici dei commensali. “Uuhmmm, quale meraviglioso profumo! Di che si tratta?” chiese Cristina Cavalcanti. “Indovinate, baronessa, coraggio!” rispose Alberto.
“D’accordo. Dunque: brodo di manzo e gallina… vecchia” “E voi Marchesi Carati di Monteforte, desiderate partecipare alla gara?” riprese Alberto. “Certo che sì: brodo di pollo!” sentenziò il marchese “voi moglie cosa ne dite?” “Vediamo, vediamo… gallina, gallina” disse la marchesa. Il principe avvertì un leggerissimo accento tedesco, ma non ne era così sicuro, era stato poco attento; però le ultime parole, seppur pronunciate velocemente, gli avevano sollecitato tale dubbio. Riprese Alberto “Principe Olivares posso? Posso osare pure con voi, se ciò non vi disturba?” “Carissimo conte Braccioforte” rispose “come sta scritto nella Sacra Bibbia, gli antichi ebrei, per dimostrare la loro amicizia, solevano invitare a dividere il pane con loro chi lo meritava; era il massimo riconoscimento tributato. Con codesto spirito sono, siamo giunti da voi. Abbiate la bontà di rivolgermi la parola come fareste con uno dei vostri migliori amici; se mi ritenete degno”. “Oh principe, si certo; siete moltissimamente degno, voi e la vostra consorte”. “Bene, vi ringrazio conte. Allora dico: brodo di cappone e verdure”. Per lui non era difficile identificare gli ingredienti del brodo. “Oso pure con voi principessa?” disse ancora Alberto. “Sono d’accordo col principe” rispose lei “in merito alle verdure dico: cipolla, sedano, carota e forse un’altra di cui non sono certa”. “Mi stupite principessa!” disse allegramente il marchese Si udì il camlo tintinnare; il vociare diminuì. Osvaldo ritto in mezzo alla sala disse a voce alta: “Cappelletti in brodo di cappone. Buon appetito in pace”. I camerieri iniziarono a servire dalla principessa: Alberto fece cenno ad Osvaldo che tosto si avvicinò “Comandi signor conte”.
“Vai in cucina e chiedi a Giannino che verdure ha usato per il brodo”. “Subitissimo signor conte”. “Bene amici” riprese Alberto “vedo che tutti siamo serviti di cappelletti in brodo di cappone. Buon appetito”. “Buon appetito a tutti” rispose il principe. Gli altri risposero cortesemente, pure la principessa, la quale prima di iniziare si fece il segno della croce. Tale gesto di devozione era a dir poco inconsueto, se non del tutto bandito in simili occasioni. Fu peraltro apprezzato da molti; alcuni dei quali certamente lo avrebbero eseguito, se non li avesse trattenuti una sorta di pudore, come dire, ingiustificato. Un cucchiaio di brodo, un altro, un altro ancora; un grande sollievo per lo stomaco, un medicamento naturale e dei migliori in assoluto. Poi i cappelletti pescati dal fondo comitale; nessuno più parlava; si gustava in silenzio quella bontà difficilmente imitabile. “Conte Alberto” “Dite, marchese Carati” “Tenetevi stretto il cuoco” “Confermo” aggiunse la moglie. “Seguirò il vostro consiglio” rispose il conte. Pure in codesta occasione il principe notò nella pronuncia della marchesa una leggera imperfezione; la “erre” era stata “arrotolata” con difficoltà; non era fluita sciolta, in modo naturale come la si pronuncia noi. Cominciò ad osservarla quando poteva, per breve tempo, senza destare sospetti. Ma poi perché lo faceva? Perché gli interessava se quella provenisse o meno da una zona di lingua tedesca? “Mah!” pensava, “un’informazione in più non può portare che bene”. Aveva ragione. Ritornò Osvaldo. “Allora?” chiese Alberto. “Signor conte, il cuoco conferma che nel brodo di cappone sono state fatte bollire insieme: sedano, cipolla, carota ed
un’altra verdura di cui chiede licenza di non rivelare”. “Licenza concessa. Vai”. Il principe era attentissimo alla marchesa, certo che avrebbe parlato pure lei; pur non guardandola direttamente, ne percepiva ogni sua mossa. “Brava principessa!” dissero i baroni. “Principessa, ci stupite continuamente. Complimenti”. “Grazie marchese Carati di Monteforte; in verità mi è andata bene” rispose lei ridendo. Proseguirono così allegramente a consumare la prima minestra. Il marchese, appena ebbe terminato e posato il cucchiaio nel piatto, piegò il capo verso la moglie e le sussurrò: “Che ne pensi?”, “Di chi?”, “Di lei”. Il principe guardava verso gli altri tavoli, nello spazio fra Guidobono ed il marchese che aveva di fronte, ma era attentissimo alla risposta che quella si apprestava a dare. Ingoiato l’ultimo cappelletto la marchesa avvicinò la testa a quella del marito e a bassa voce e velocemente disse: “Schön, intelligent und jung. Shit!” Anche coll’aiuto del movimento delle labbra il principe riuscì, seppur con fatica, a capire. “Ah, ah, aaah, ti ho scoperto” si disse soddisfatto; ma fece come se nulla fosse, non tradendo nessuna emozione. Era convinto senz’altro, che i due si sarebbero ancora scambiati qualche parola in lingua tedesca. Non aveva torto. I marchesi sorrisero a tutti, convinti che nessuno avesse sospettato, ne tanto meno inteso la risposta che diede quella. “Lui?” le sussurrò ancora il marchese. “Uno che ci sa fare” rispose lei sempre nella sua lingua madre. Don Diego comprese senza la difficoltà precedente e si promise di prestare più attenzione alla pronuncia, ora che ne conosceva l’idioma, allo scopo d’individuare da quale luogo potesse provenire. I camerieri ritirarono i fondi ed i cucchiai sostituendoli con dei nuovi e mescerono del vino rosso proveniente dalla parte bassa della provincia di Siena al confine con quella di Grosseto; fu apprezzato in modo particolare da tutti. Tintinnio; voce di Osvaldo: “Tagliatelle al prosciutto!”. Ancora vino rosso, mentre qualche signora preferì un bianco secco della zona di Pitigliano. La festa proseguiva a meraviglia, molto ben avviata; un’allegria moderata che tendeva al vivace ora che ogni commensale aveva ingollato una buona dose di
vino. Il quintetto eseguiva di continuo i brani programmati senza mostrare alcun segno di cedimento, ed erano già più di tre ore e mezza che suonavano. Alberto chiamò Osvaldo “Chiedi ai musicisti se desiderano effettuare una sosta per cenare”. Ritornò subito colla risposta “Nessuna sosta signor conte; il maestro di cappella vi ringrazia molto. Hanno chiesto solo un poco d’acqua”. “Bene, vai”. Dal suo posto all’ultimo tavolo, la marchesa Talpa Lando dell’Arcese, posava di tanto in tanto gli occhi sul principe, non intendendo il motivo per cui lo faceva; le veniva così spontaneo, senza una spiegazione. Si chiese infine: “Non ho mai visto prima d’ora costui, ma non mi sembra un volto del tutto nuovo. È possibile che assomigli a qualcuno che conosca? Che ho conosciuto? Si può essere, ma chi, quando, dove? ‘mbhooo!?”. Frugava nella memoria senza un ordine preciso, così a caso; alla stregua di certe sciagurate signore che rovistano nella capace borsa, alla ricerca dell’agognata chiave della porta di casa, mentre ha iniziato a piovere a dirotto. Così non diede più importanza a tutto ciò e lasciò perdere, dedicandosi con trasporto, con molta ione al cibo ed ai vini. Tintinnio. “I princìpii” annunciò Osvaldo. “E che sono?” chiese furbescamente don Diego. “Sono antipasti eccellenza illustrissima” rispose Alberto “in altre contrade si servono per primi, mentre qui da noi rimane l’uso consueto di proporli dopo i primi piatti di minestre, in brodo o asciutte che siano”. “Vi ringrazio conte Braccioforte”. I camerieri si avvicinarono ai tavoli sorreggendo i vassoi di portata contenenti del prosciutto crudo, cotto affumicato, alcuni tipi di salame, lingua di manzo bollita; alcune tazzine con svariate salse di accompagnamento. Altri posero su ogni mensa dei grandi piatti con sopra diversi tipi di crostini: di capperi, funghi, acciughe e burro, tartufi, caviale; in ultimo una bacinella di rame finemente lavorato a sbalzo, con ostriche aperte sopra un letto compatto di neve fresca.
Ognuno si poteva servire come gli garbava. Che meraviglia! Che diavolo d’un Giannino! La principessa prese la mano a don Diego e lo interrogò cogli occhi; quello le avvicinò la testa e disse sottovoce. “Problemi?”. Lei indicò col mento le ostriche. Il principe le fece cenno di non preoccuparsi e quella si tranquillizzò. La marchesa, sentita la domanda che il principe pose al conte, chiese al marito sempre nella sua lingua: “Credo che non esca mai dalla sua tana questo qui!” “Lo credo anch’io moglie”. Il principe prese una grossa ostrica con un cucchiaio, le versò sopra del succo di limone e la offrì alla consorte, ritirando tosto la mano. “Vi chiedo perdono principessa, mi son dimenticato, scusate, non si ripeterà più”. “Non gradite ostriche, principessa?” chiese il marchese. “È da un paio di settimane che alcuni cibi, al solo nominarli, le provocano nausea” rispose don Diego. “Oh, toh! Dobbiamo pensare che… forse, eh?” “Chissà marchese, può darsi, vedremo più avanti” rispose il principe. “Se sarà, fatecelo sapere” disse il conte. Il marchese si rivolse alla consorte nella di lei lingua madre; ormai si sentivano abbastanza sicuri e tollerati; era normale, di uso consueto, che i nobili ammogliati con straniere si esprimessero a volte nella lingua delle loro mogli. Le disse dunque: “Non dovrebbe essere per nulla difficile ingravidare una sposina così giovine”. “Ti piacerebbe vero? Porco!”, “E me lo chiedi pure?”. Risero tranquillamente. Così il principe iniziava a farsi un’idea della coppia che si trovava di fronte, in attesa di iniziare il discorso a favore del principe vero. Non sapeva come, ma confidava nella sua capacità di trovare mille soluzioni a mille casi diversi. Il marchese proseguì il colloquio “Eh, poi lui ci sa fare vero?”.
“Sì, ma,” rispose la moglie “c’è qualcosa che mi turba in lui, di non chiaro; non so come spiegare, forse è solo una sensazione emozionale, senza motivo alcuno”. “Principe Olivares” disse Alberto “come va dalle vostre parti?” “In che senso conte, di grazia!” “Beh, perdonate se l’ho presa in senso lato. Intendo dire come si svolge la vita quotidiana, quali problemi, quali necessità; speranze, ambizioni, ecco…” “Eh caro conte, problemi di sempre, necessità di tutti, speranze di molti, ambizioni di pochi, rari. Lavoro, urge lavoro, dare un’occupazione a tutti; mentre lavorano pochissimi e tutti gli altri si arrangiano come possono, in situazioni raccapriccianti, per loro e per le loro famiglie, sempre più numerose! Accidenti! Ma come fanno a tirare avanti?! Mah! Agevolare lo scambio delle merci con nuove strade, e soprattutto colla ferrovia. Colla recente apertura del canale di Suez, non possiamo farci trovare impreparati, noi napoletani. Ci sarà senza dubbio un notevole aumento del traffico merci in tutto il Mediterraneo e se noi non saremo in grado di offrire strutture, servizi, trasporti adeguati, perderemo competitività a vantaggio di Taranto, Brindisi, Ancona, persin Venezia ne potrebbe godere delle nostre disgrazie; per non parlare di Livorno, Genova; addirittura Marsiglia potrebbe in teoria farci concorrenza. Vedete conte Braccioforte, come da una posizione privilegiata di partenza; si prenda in esame il primo tratto ferroviario costruito in Italia nel trentanove, che dalla città mena a Portici, a distanza di trent’anni da primi siamo diventati ultimi. Zone come il Sannio, l’Irpinia, il Cilento, rimangono tuttora quasi isolate, raggiungibili solo cogli animali da soma. Come è possibile lo sviluppo del commercio in codeste deprecabili condizioni?” “Certo eccellenza, comprendo il vostro stato di necessità” rispose Alberto. “Qui invece” proseguì il principe “già al tempo del granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, si era presa a cuore la questione strade e ferrovie. Ora siete più avanti di tutti, con Piemonte, Lombardia e Veneto; esiste una struttura di base che favorisce lo sviluppo delle vostre terre in tutti i campi praticabili”. Intervenne il marchese Carati con autorità: “Principe Olivares, ci avete offerto una disamina concisa ed esauriente; convengo con quanto avete proferito. Lo affermo con giusta cognizione di causa, in quanto referente del ministro nelle
commissioni regionali per la costruzione di nuove strade ferrate”. “Interessante, molto interessante, marchese Carati di Monteforte, non ne ero a conoscenza. Se poi vorrete concedermi la bontà di parlarvi, vorrei porvi un paio di domande a solo scopo informativo, nulla più. Son certo che dalla vostra posizione, colla vostra esperienza e capacità, non troverete difficoltà alcuna”. “Con piacere eccellenza, quando lo desiderate” rispose tronfio quello. La marchesa si rivolse al marito colle solite modalità “Ma cosa vuole?! Che si costruiscano strade e ferrovie a gente la cui occupazione principale è cantare, mangiare, rubare, non far nulla tutto il giorno e dormire cogli animali?” “Attenta moglie, siamo sicuri che non ci capisca? In fondo è sempre un principe!” “Sì, sì, in fondo, ma molto in fondo!” “Stai accorta ti prego, non vorrei rimediare una figuraccia; l’indomani lo verrebbe a sapere subito il ministro”. Il principe chiacchierava allegramente col conte, ma la sua attenzione era rivolta ai marchesi, al punto che Alberto, alquanto preoccupato dalle insulse risposte che quello forniva, lo interrogò cogli occhi. Don Diego gli batté la mano sinistra sulla coscia e sempre sorridendo e parlando, gli fece cenno coll’indice della stessa i marchesi. Alberto rispose con un cenno d’intesa e si acquietò. “Ma quale figuraccia!” rispose la marchesa a voce bassa “sono sicura che a casa sua mangia i maccheroni colle mani e s’insozza il volto. Chiedigli quante volte si lava al mese, glielo chiedo io?” “Guarda Marlene che ti rispedisco a Murnau se provochi uno scandalo!” Bene, molto bene. Ora il principe era in possesso di tute le informazioni che gli potevano tornare utili. “Sono perfettamente d’accordo con voi conte Alberto!” disse don Diego. L’altro lo guardò in modo interrogativo, come se dicesse: “Ma di che!?” Il marchese Carati di Monteforte conobbe la futura moglie durante una vacanza, di molti anni addietro, trascorsa sulle alpi di Ammergauer, a Garmish. Lei, la
signorina Marlene Schwarz, abitava a Murnau, pochi chilometri più in basso; era impiegata come cameriera in un hotel della località alpina. Il marchese se ne invaghì e la portò con sé. Voglio, posso, comando; semplice no? Fine. Osvaldo si portò vicino allo stemma, agitò l’inseparabile camlo e annunciò: “Frittate e torte di spinaci, cavolfiori, cardi e carciofi. ‘Sogliole alla Principe’ in onore degli illustri ospiti”. Applausi da parte di tutti i commensali; i principi si alzano, ringraziano e applaudono pure loro. “Conte Braccioforte” disse don Diego “vi ringrazio infinitamente per il sommo riguardo che tenete nei confronti della mia casata; ma siamo qui per celebrare degnamente il vostro quarantennale all’elezione comitale. Non vorrei diventare un ospite ‘troppo’ importante, potrebbe nuocere a voi e pure a noi”. “No, no eccellenza vi prego, non la ponete su codesta riga. Della pietanza a voi dedicata non ne ero a conoscenza; è tutta opera del cuoco. Sapete, definito insieme il contenuto del menù, lascio poi a lui ampia libertà di esprimersi come meglio gl’ispira. In quanto a voi, principe Olivares, rappresentate la più antica casata di discendenza diretta, quindi codesto giusto e doveroso tributo alla vostra nobiltà, codesto solenne rispetto per i vostri avi, non si può e non si deve frenare; sarebbe un insulto. Spero di essermi spiegato principe illustrissimo”. “A sufficienza conte Alberto Braccioforte, a sufficienza. Vi ringrazio di cuore”. Il chiarimento si può dire “chiamato” da don Diego, aveva uno scopo preciso: suscitare nei marchesi una sorpresa positiva per l’umiltà del suo significato. Ciò riuscì solo in parte, riguardo al marchese, mentre la sua consorte stette sulle proprie idee; riteneva il principe come qualcosa di inferiore a loro, pur rispettandone il più alto e nobile grado dell’antica casata. E osò! “Principe Olivares, posso disturbarvi con una domanda?” “Nessun disturbo, signora marchesa, rimango a vostra disposizione” “Posso chiedervi quanti anni ha la vostra… seconda moglie?” Il marchese cercò di rimediare ma fu preceduto dalle lesta risposta del principe.
“Certissimamente, ma chiedete direttamente alla mia consorte Maria Bambina.” In quel tavolo calò il silenzio, i volti si tesero; le mani prone appoggiate sulla tovaglia di lino, eccetto quelle della principessa che teneva in grembo, lo facevano sembrare alla sede di una seduta spiritica a cui mancava l’anello di congiunzione. La marchesa si rivolse dunque alla principessa in modo villano: “Ebbene?” Il rispettivo marito bolliva come una caldaia di una macchina a vapore. “Ho quindici anni, e voi marchesa Carati?” pronunciò codeste parole nella maniera più naturale possibile. Questa poi, chi se la sarebbe mai aspettata! Colse tutti di sorpresa; tuttavia l’abile e scaltra donna trovò un’onorevole via d’uscita: “Molti, molti più di voi principessa Maria Bambina; molti di più purtroppo!” “Siete dispiaciuta per codesto motivo marchesa?” “Sì!” “Dovreste esserne lieta invece. Coll’eccellenza vostro marito formate una coppia invidiabile; penso che dovreste ringraziare il Signore”. “Dite così perché siete giovine, allorché giungerete alla mia…” “Vorrei tanto essere come voi” l’interruppe la principessa “come vi vedo ora, così come siete; con uno sposo come il vostro; ve l’ho già detto: formate una coppia stupenda. Potesse succedere pure a noi, vero principe?” “Non ne avete idea di quanto lo desideri Maria Bambina; fin dal primo istante che vi vidi, lo scopo primo ed ultimo della mia vita divenne codesto: trascorrere il tempo il più possibile in vostra compagnia; fin quando il Signore lo vorrà”. La principessa sorrise guardandolo con affetto; lui era tremendamente serio, solenne; la penetrò cogli occhi. Poi si rivolse ad Alberto “Veramente eccellenti codesti filetti di sogliola; pure le tagliatelle al prosciutto, ottime”. “Mai quanto i vostri maccheroni, principe” rispose il conte.
“Un piatto che a Napoli non può mancare vero principe? Ma dite, se ciò non v’infastidisce, li mangiano colle mani i vostri concittadini?” chiese la marchesa. “Sono dolente marchesa dolcissima, devo smentirvi” rispose sorridendo il principe. Poi proseguì. “I maccheroni vengono portati in tavola, ma è più corretto dire all’aperto, dentro una grande pentola, dalla quale ognuno si serve prendendone un poco, stringendoli fra il pollice, l’indice ed il medio; sollevandoli alti sopra la testa e facendoli pendere alla guisa dei tentacoli di un polpo; gli va sotto allargando la bocca ed in essa li fa scendere. Confermo quindi che i maccheroni vengono consumati colla bocca e non colle mani” concluse divertito ed in tono scherzoso don Diego. “Dunque principe Olivares, confermate l’uso delle mani!” Il marchese Carati toccò leggermente un piede alla moglie, come ammonimento a desistere dalla sua impertinenza ingiustificata. D’altro canto il resto dei commensali non si spiegava la protervia della marchesa; ora chiaramente offensiva. Ma il principe la sapeva lunga, molto lunga. “In tutto il meridione la povertà è così feroce, da negare a molti posate, piatti, tavoli, scarpe, indumenti, un tetto, il necessario; molti in vita loro non hanno mai visto una banconota. Di una cosa sono ricchi: di dignità! Ricchi da venderla a chi ne fosse sprovvisto!” Il camlo di Osvaldo distrasse tutti gli otto dalla greve atmosfera che si era creata “Sorbetto di melagrana!” annunciò con enfasi. Giannino, oltre alla grande maestria, volle aggiungere alla cena qualcosa di inedito, d’inconsueto; desiderò creare una falsa attesa, una convinzione errata. Il sorbetto alla melagrana significava la fine della cena, ma così non era; sapeva che tutto ciò era un rischio potenziale, ma forte della sua convinzione procedette in tal senso. Il principe vedendo ciò decise di anticipare l’idea che gli era venuta in mente, allorché si accorse della forte contrarietà della marchesa. Si rivolse al conte sottovoce “Permettete che agisca?” “Quando e come lo desiderate”.
“Bene, chiamate il vostro maggiordomo di grazia”. Alberto fece cenno ad Osvaldo di avvicinarsi. “Ascolta ciò che ti dice il principe”. Don Diego indicò a quello di mettersi fra il conte e lui e gli fece abbassare il capo quel tanto necessario a nascondere il volto ai marchesi; arretrò un poco il busto per maggior sicurezza e gli sussurrò: “Chiedi al maestro se possono eseguire ad un mio cenno… poi torna qui”. Quello andò e ritornò tosto colla risposta affermativa. “Bene, ora ascolta. Sei in grado di procurarti un rametto di abete di circa un metro e metterci sopra della candeline ritte?”. “Certissimamente, principe Olivares”. “Benissimo. Quando avrai tutto l’occorrente pronto mi farai un cenno”. “D’accordo eccellenza”. “Aspetta, non ho ancora terminato. Allorché mi alzerò e mi dirigerò verso l’orchestra in compagnia di una signora, farai tosto spegnere tutte le candele alle pareti. Poi, appena i musicisti inizieranno il brano, verrai verso di noi col ramo d’abete e le candeline tutte accese. Ah, portalo sopra un piano, un vassoio o che so io. Intesi?” “Perfettamente, signor principe”. Girò i talloni e se ne andò. Ognuno si occupò del sorbetto. “Una squisitezza, conte Braccioforte!” esclamò Cristina Cavalcanti. “Confermo, conte, una delizia. È stata un’ottima cena” riprese il marchese. “Vi ringrazio per i vostri giudizi lusinghieri, amici” chiosò Alberto. La marchesa accostò la testa a quella del marito “C’è qualcosa che non intendo bene nei principi” gli disse sempre in tedesco e a bassa voce. Don Diego era vigile.
“Ti prego cara, non infastidirli più!” rispose lui. Niente, partì lancia in resta “Principe Olivares, perdonate il mio ardire; la principessa vostra moglie è… è di origini… oppure proviene dal pop…” “Principe Olivares!” la interruppe a voce alta e paonazzo in volto il marchese Carati alzandosi dalla poltroncina “vi debbo le scuse più sentite per ciò che mia…”. Il principe lo zittì immediatamente mostrandogli il palmo della mano destra in modo molto franco, cupo in viso e con grande autorità. Stette così per alcuni interminabili secondi, poi abbassò due volte le dita tese comandando in tale modo al marchese di sedersi. Quello scaciò in volto e sedette zitto. Il principe sapeva che si stava giocando tutto o molto; si sforzò colla memoria, raccolse un poco di dati in fretta; poi si rese conto che doveva intervenire in prima persona. Pur non avendo tutto chiaro in mente sul cosa dire e come dirlo, si rivolse alla marchesa in modo del tutto naturale, col viso disteso come se nulla fosse successo “Amabilissima marchesa, ciò che desiderate sapere lo considero del tutto lecito, non avendo nulla da nascondere. Rivolgete direttamente alla principessa la vostra domanda, riceverete una chiara risposta”. Sul tavolo sembrava che fosse nevicato: gelo, nessuno fiatava. Ci pensò Maria Bambina “Signora marchesa cosa volete sapere? Osate senza timore”. “Voi mi permettete principessa?” “Certissimamente!” “Ecco, allora…” si trovò imbarazzata, ma la voglia era tanta “Ehm… le vostre origini, sono… sono…” le tremava la voce; stette un attimo in sospeso, indecisa, intimidita. Poi, nello sforzo di vincere la paura sbottò ad alta voce: “Sono nobili?” Mamma mia che bomba nella sala, squassò tutti quanti. Eccetto una persona. Toccò così l’acme dell’offesa, la prossima mossa sarebbe stata il vituperio palese. Il marchese Carati era un uomo ormai distrutto; si vedeva povero e solitario
nell’eremo della Verna e meditare sull’infausta vacanza ata in quel di Garmish. Fuggito prima che la rampogna del ministro lo raggiungesse, lontano da amici che non avrebbe più avuto; inseguito solo dai propri rimorsi che la coscienza mai doma, gli avrebbe continuamente ed incessantemente rivolto. Pensò seriamente alla morte. L’attenzione della sala era tutta rivolta al loro tavolo. Il giorno dopo tutta la capitale avrebbe saputo della nefasta “impresa” della consorte di Edoardo Carlo Elio Carati, Marchese di Monteforte. Si decise; doveva pur salvare l’onore, annunciando a tutti il suo ritiro dal mondo seduta stante; andandosene poi immediatamente a piedi solo, nella notte, in mezzo alla tormenta. Avrebbe avuto così un briciolo di comprensione. Della moglie non gliene importava più nulla. Indietreggiò la sedia, piegò il busto nell’atto di alzarsi quando la principessa intervenne a voce lieta e alta. “Sì, nobili, nobili tanto quanto le vostre, vero marchesa?” Mai risposta fu più perfetta di codesta. Totale imbarazzo. Le posate cessarono di tintinnare sui piatti; i musicisti smisero di solleticare le corde degli strumenti; i servitori rimasero immobili dove si trovavano. Intanto, ritornò Osvaldo che fece cenno al principe che era tutto approntato. Don Diego si sentì più sicuro e riprese in mano la situazione; sfoderando un grande sorriso disse a buona voce: “Ma che burlona, ma che burlona la mia principessina! Che burlona!” e la baciò applaudendola. La marchesa respirò a pieni polmoni, mentre il marito, ritornato improvvisamente alla vita mondana, proruppe in una fragorosa significativa risata, un’interminabile risata liberatrice; alquanto contagiosa e così tutta la sala ritorno a respirare la gaia atmosfera precedente. Don Diego si stava decidendo ad agire, quando la sua attenzione fu attirata dal marchese che così si rivolse alla consorte “Ti rimando a fare la cameriera al Kreuzeck hotel a Garmish. Parti domani subito. Ciò è certissimamente certo! Se te ne vai ora mi fai contentissimo. Non ti voglio più vedere in vita mia. Piuttosto la morte”.
Il principe sapeva ormai tutto della marchesa; rimase un poco a godersi quest’ultima nuova, poi si rivolse al marchese “Eccellenza, posso avere la compagnia della vostra gentile consorte?” “Certo principe Olivares” rispose secco. Poi, rivolgendosi alla consorte “Scusate principessa, sarò presto di ritorno”. Lei sorrise e abbassò la testa in segno di consenso. Il principe si alzò, fece tre i verso sinistra e si trovò fra il marchese e la moglie. “Gentilissima marchesa abbiate la bontà di accompagnarmi, di grazia”. “E dove principe?” rispose quella incredula e alquanto allarmata. “Non temete marchesa”. Allontanò la poltroncina dal tavolo mentre lei si alzava; le porse il braccio e si diressero a i lenti verso i musicisti; si ritrovarono addosso gli occhi di tutti i presenti. Osvaldo diede ordine di spegnere le luci alle pareti; nella sala calò la penombra. “Ma che succede, ne sapete qualcosa marchese Carati?” chiesa ansiosa Elvira. “Non so nulla cara contessa; spero solo che la getti nel fuoco del camino”. “Ma che dite eccellenza, suvvia, state scherzando vero?” “Sì, sì certo, scherzo; però mi rimane sempre la speranza”. “Oooh, marcheseee, siete incorreggibile!” lo ammonì lei. Tutti si interrogavano cogli occhi. Il silenzio regnava sovrano ancora una volta. La marchesa stava un poco sulle spine; le pensava tutte, ma non riusciva a trovare una ragione plausibile a quanto le stava accadendo. Don Diego la tenne per le mani colle braccia tese e la fece girare in modo che avesse la porta di spalle. La donna fu presa da timore ed ebbe una vigorosa reazione “Allora?” urlò stizzita cercando allo stesso tempo di liberarsi. Il principe la guardava dolcemente; il contrasto fra i due era palese: l’agitazione di lei, la calma sicura dell’altro. Don Diego fece infine cenno al maestro di cappella. Uno,
due e via; il quintetto iniziò l’esecuzione del valzer lento famoso in tutta l’Austria, la Baviera e non solo, che si è soliti cantare quando le famiglie sono riunite durante il periodo natalizio; mentre il principe, con eccellente voce, lo intonava in un tedesco perfetto: “O Tannenbaum, o Tannenbaum Wie true sind deine Blätter” “O Tannenbaum, o Tannenbaum Wie treu sind deine Blätter” Osvaldo procedeva lentamente verso di loro, sorreggendo un vassoio con sopra il ramo di abete addobbato con molte candeline accese. La marchesa era frastornata, non sapeva più dove fosse; forti emozioni la scossero. Il principe continuava a cantare soavemente, la musica era dolcissima; tutti guardavano i due con ammirazione. Chi se lo sarebbe mai immaginato! Sorpresa dopo sorpresa, in un crescendo di emozioni che facevano vibrare gli animi. Quando Osvaldo si trovò vicino allo stemma, don Diego, sempre cantando, fece delicatamente girare la marchesa, la quale vide ciò che non si sarebbe mai aspettata di poter ammirare lontano dal suo paese natale. “Du grünst nicht nur zur Sommerzeit nein auch in Winter, wenn es schneit. O Tannenbaum, o Tannenbaum Wie true sind deine Blätter!” La marchesa cedette. Appoggiò la testa sulla spalla del principe e pianse tranquillamente, senza pudore alcuno; senza timore di manifestare la tribolazione del suo stato interiore a tutti i presenti; mai come in quell’occasione fu vera e credibile, sincera e tenera. Fu un pianto sommesso, un pianto di ricordi; ricordi di volti cari, di voci indimenticate, di paesaggi, di amori, di profumi, di montagne innevate, di strudel, di rami di abete guarniti di tante candeline accese come quello che Osvaldo, con un inchino, le stava porgendo.
Tutti si erano alzati in piedi; si avvertiva qualcosa di solenne nella semplicità di quel canto natalizio; di codesto inno all’abete, sempre verde anche quando c’è la neve. Il principe prese il vassoio e lo avvicinò alla marchesa, che chinò il capo in segno di omaggio; poi, sempre cantando accompagnato dall’orchestra, lo presentò a tutti i commensali. Si mise a cantare pure lei, con voce a tratti interrotta, ma cantava ugualmente, con fierezza; il volto rigato dalle lacrime copiose, una mano appoggiata sul ramo d’abete. Si rivedeva quando era bambina, a Murnau, girare di casa in casa assieme alle amichette; col ramo simile a quello che portava per la sala ora; cantare lo stesso motivo che cantava ora. Le sembrava di vivere in un sogno. Eh, se ci sapeva fare il nostro principe. Eccome!
La marchesa Talpa Lando dell’Arcese, allorché vide il principe Olivares porgere il braccio alla marchesa Carati, fu sorpresa come tutti e rimase in attesa di cosa sarebbe potuto succedere. Vengono spente le luci alle pareti; il nervosismo della Carati; il principe che intona “O Tannenbaum” …Ebbe un fremito violento. Lo riconobbe.
Il topo
La marchesa Talpa Lando era alsaziana, di Colmar, una cittadina sulla sinistra del Reno. Fino a dieci anni prima gestiva una tabaccheria nella vicina Basel, sull’angolo formato dalla via che proviene dal fiume, con piazza di porta Spalentor, ad un centinaio di metri dal “Hotel Goldene Schlüssel”. Allora era una donna carina, minuta, dai lineamenti gentili; a dispetto della pinguedine attuale era snella; con un bel visino ovale. Insomma una donna appetibile. Con il suo lavoro riusciva a vivere dignitosamente, ma nulla più; non si poteva permettere lussi di nessun genere. Così di tanto in tanto prima, quasi tutte le sere più avanti, consentiva ai clienti più facoltosi e ben disposti, di rimanere fin dopo l’ora di chiusura. Nell’angusto retrobottega si trovava una brandina che serviva all’uopo. Che tristezza, che squallore. Ma così era! Aveva l’accortezza di invitare un solo amico per sera; si creò dunque un giro ristretto ed abitudinario; nessuno una volta entrato a farne parte era disposto a cederne il privilegio. A volte, la poverina preferiva una cena in un buon ristorante alla umiliante mercede in pecunia. Gli amici particolari li sceglieva con cura, discrezione; dovevano prima di tutto piacerle. Non si comportava meramente da meretrice, lo faceva in modo che fosse pure soddisfatta, non costretta, altrimenti niente; un principio a cui si atteneva scrupolosamente. Fu così che Augusto, da poco giunto nel nuovo posto di lavoro, notò la presenza di quella femmina carina, in compagnia di uomini diversi, che poi si ripresentavano seguendo un ordine giornaliero preciso; in tutto sei persone. Chiese lumi ai colleghi, anche se già si era fatto un’idea abbastanza precisa. “Ma non la conosci? È la tabaccaia della Porta!” Detto, fatto. Un giorno entrò in tabaccheria, lei lo riconobbe; si parlarono, si rividero, si fecero amici. Poco dopo Augusto sfrattò uno dei sei prendendo il suo posto. In tutta la sua vita, offrì solo in due occasioni denaro ad una donna per
godere delle sue grazie; successe durante il primo periodo a Losanna. Aveva un buon ascendente presso il genere femminile, non trovando di norma grosse difficoltà. Si era imposto comunque di non innamorarsi, lo considerava un ostacolo alla sua indipendenza. E come dargli torto? Pure la tabaccaia, per ben gestire la sua “attività” secondaria, si era imposta il medesimo principio; ma con lui non resistette e s’innamorò. Augusto di solito, allorché quelle cose prendevano tale indirizzo, troncava la relazione in maniera elegante, gentile, ma franca. In codesta occasione, chissà perché, non lo fece; rimase pericolosamente in giuoco rischiando, rischiando parecchio. “Me l’hai promesso, me l’hai promesso… Augusto, Augusto… ti supplico!” “In tutta sincerità, come faccio a sposare una come te Odette; so tutto o quasi di te. Ti rendi conto? Ma che vita sarebbe la nostra! Quale il nostro futuro!” “Col tempo, stando insieme, cambiano anche città, riusciremo a farci una vita nuova. Vedi la mia buona volontà; qui entri solo tu, nessun altro più” “Non me la sento Odette, non me la sento” “Perché allora mi hai illuso? Merito tutto ciò?” “No, non lo meriti di certo. Poi, poi il... il prossimo mese me ne andrò!” “Oddio nooo… nooo… Augusto, Augusto… non puoi farmi così male. Sai quanto male mi stai facendo? Augusto… tutto ciò che vuoi… ma non andartene… Augusto, Augusto nooo… mi sento morire… Oddio nooo!” “Ti chiedo perdono Odette, ti chiedo perdono in ginocchio; ma non chiedermi di fare ciò che non mi sento, per giunta d’importanza vitale” “Il mio perdono non l’avrai mai… mai!” Si accese un grosso sigaro e si mise a fumare nervosamente. “Odette, ascolta. Ti voglio bene lo sai; voglio il tuo bene, che non è quello di vivere con me, non sarebbe un bene, te l’assicuro. Ti sono amico, lo sarò per sempre, ma non posso condividere con te la mia vita, capiscilo Odette!”
“Non andartene Augusto, rimani con me; saremo felici vedrai, non ci mancherà nulla. Oddio Augusto, sto male… sapessi cosa sento dentro… Oddio nooo… nooo!” “È inutile insistere Odette, ho preso la mia decisione. Me ne andrò. Mi dispiace!” I due erano appoggiati con il fondo schiena al bancone. Le ultime frasi le avevano pronunciate senza guardarsi. Augusto la chiamò ancora allungando il palmo della mano destra verso di lei “Odette…”, la guardò , ma quella non si mosse. Allora girò lo sguardo verso la finestra. Stavano tutti e due in silenzio, un silenzio fradicio d’angoscia che preannunciava l’addio. La donna vide la mano supina ancora tesa verso di lei ed il suo volto girato dall’altra parte. Fu un attimo. Con tutta la forza che aveva gli spiaccicò il sigaro all’altezza del polso radiale. “Aaaaaagghh!” Un urlaccio tremendo, un dolore indicibile che arrivò fin all’interno del cuore di Augusto e sembrò spaccarlo in due. Odette piangeva affranta per aver provocato dolore alla persona che amava; distrutta poiché colui che amava la stava lasciando. Si ricompose “Vai pure Augusto, porterai con te il mio ricordo. Per sempre!” gli disse con il massimo del disprezzo. Tre mesi dopo la partenza di Augusto, entrò in tabaccheria un distinto signore straniero di mezza età. Odette lo servì, quello pagò e prima di andarsene “Posso farvi i complimenti madame? siete molto carina” “Grazie, siete molto gentile… signor?” “Talpa Lando, marchese Talpa Lando dell’Arcese”. Eccoli qui ora, tutti e due in sala i marchesi; nessuno era a conoscenza dei fatti successi dieci anni prima a Basel. La marchesa Talpa Lando si fece coraggio; se voleva aver la certezza che ciò che pensava fosse esatto doveva osare. Il principe e la sua accompagnatrice giunsero pure al suo tavolo, ostentando con fierezza il ramo d’abete colle candeline accese. La marchesa Talpa Lando allungò il collo fissando il polso destro del principe, dove dieci anni prima aveva ustionato col sigaro quello di Augusto, ma non vide nulla. Si fece forza, il cuore le pulsava forte in gola per la grande tensione, ma era molto decisa; costi ciò che
costi! “Scusate principe, potete allungare di più le braccia? Vorrei avvertire il calore delle candeline sul volto” “Vi accontento subito signora”. Allungò pian piano le braccia, lentamente, facendo attenzione a non rovesciare il ramo d’abete. La marchesa aveva gli occhi fissi sul polsino destro della camicia; le maniche del frac indietreggiarono di poco, mentre gli avambracci uscirono dai polsini come fossero due stanchi stantuffi, lasciando scoperti i polsi. Quello destro recava una cicatrice tonda all’altezza radiale. “Principe… oooh principe, che emozione… che emozione principe”. Era lui, Augusto, non si sbagliava; era la prova provata che fosse lui senza la minima ombra di dubbio! “E sì, e brava Odette; e con ciò cos’hai provato? Dico, dieci anni fa lo lascio cameriere ed ora lo ritrovo… principe? Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina! Ma andiamo, ma com’è possibile?! Il cameriere che conobbi quattordici anni orsono e che per quattro anni intrattenni con lui una relazione, del quale ero innamorata e che m’ha fatto soffrire, era in realtà un… principe? Oppure il principe che vedo ora è Augusto, il cameriere di Basel!” Così s’interrogava quella; non si raccapezzava più la marchesa cicciona. Il cameriere di allora non poteva essere un principe, come il principe presente non può essere un cameriere. Per contro la cicatrice esiste, l’ha vista chiaramente, nello stesso punto preciso in cui dieci anni prima spense il sigaro nella sua tabaccheria. Accidenti che guazzabuglio; altro che il nodo del re frigio Gordio! “Che c’è cara? Ricordi lontani?” le chiese il marchese. “Oh, sposo mio amatissimo; sapeste quale rivolgimento m’ha provocato la vista, il canto, le luci del “Tannenbaum”. Che dolce malinconia; ma la vostra presenza mi rincuora e mi consola alquanto”. “Capisco moglie, comprendo. Pure per noi, almeno per me, gli altri non so; chi assiste per la prima volta ad un evento simile, rimane senza parole; per di più non annunciato, una sorpresa; dopo quella principesca. Meraviglioso, tutto stupefacente!”
Il vassoio col ramo d’abete fu posato di fronte al camino, nel mezzo dell’arco sesto scemo in rame. Il principe e la marchesa Carati stavano al centro della sala; la principessa e tutti gli altri si avvicinarono applaudendo. “Bellissimo principe” “Grazie principe Olivares, che bel gesto”. “Siete tornata bambina, vero marchesa?” “Mi avete commossa!” “Mai vista una cosa così!” Ecco riassunti, più o meno, i commenti di tutti quanti. “Conte Alberto” il marchese Carati lo prese delicatamente per un braccio “devo dirvi due cosine se permettete”. “Vi ascolto con attenzione marchese, sono a vostra disposizione, dite”. Quello a bassa voce sussurrò all’orecchio del conte: “Primo, chiedo umilmente scusa a causa dell’atteggiamento irriguardoso tenuto dalla mia sciagurata consorte verso il principe, e di riflesso pure a voi”. “Ma no, nooo… ma che dite marchese! È tutto ato e di più, non ha lasciato alcun segno. Un fatto ato che non ha lasciato alcunché di sé, che valore ha?” “Vi ringrazio per la vostra misericordia. Secondo…” si staccò un poco dal conte e con autorità ed a voce alta disse: “Signori tutti e gentilissime consorti, stiamo vivendo una serata meravigliosa, in un crescendo di emozioni e sorprese diverse ed inimmaginabili. Avremo molto da raccontare a chi non ha avuto la grande fortuna di essere presente a codesta festa. Ringrazio di cuore i colendissimi principi Olivares di Salamarsina; i conti Braccioforte di Gavorrano e tutti voi amici. Domani riferirò direttamente, in prima persona, al ministro, alla stampa. Tutta la capitale ne sarà oltremodo fiera e lusingata!” Applausi, grida di evviva, esultanza, grande tripudio. “Ecco” pensò Alberto “scopo raggiunto; con sacrificio, sofferenza, lacrime… ma l’obiettivo è stato centrato. Una giornata interminabile, colma di contraddizioni, intensa come nessuna; drammatica, felice, tragica, entusiasmante. Una giornata simile non sarà più riscritta. Mai più!”
Aveva tutte le ragioni il provato e soddisfatto Alberto. Ma non era ancora terminata… la sua giornata! Dlin, dlin, dliiinnn… rieccolo il camlo di Osvaldo. Annuncio: “Petto di vitella da latte al forno; agnello arrosto con verdure miste alla gratellaaa!” “Ancora? Ma non è finita la cena?!”, “Ma che sorpresa, il sorbetto alla melagrana eppoi… magnifico!”, “Bravi conti, siete insuperabili!”, “Tutto grandioso, grazie”. Per tale motivo si creò un po’ di confusione; le emozioni vissute e che ancora si susseguivano, il vino che provocava il noto effetto; le voci che si sovrapponevano; i principi che rispondevano con cortesia e sintesi a tutti. In codesto contesto ognuno si districava per raggiungere il proprio posto. Fu così che la marchesa Talpa Lando si venne trovare un o dietro il principe Olivares, il quale stava rispondendo a tutti con la consueta affabilità. Lo chiamò semplicemente così, all’improvviso: “Augusto”. Lui si girò! Vide la marchesa che sosteneva col palmo della mano sinistra l’altro gomito e gl’incisivi superiori appoggiati all’indice destro ritto. La riconobbe. “Odette… Odette Aubert!” mormorò esterrefatto. Era la postura che assumeva Odette, per comunicare ad Augusto il desiderio di lui, allorché si apprestava a chiudere la tabaccheria “Appena ata la mezzanotte dovrai saldare il conto. Cogl’interessi. Bas-tar-do!” Gli sussurrò in un orecchio con un sorriso, poi ritornò lentamente dal marchese. Il quintetto d’archi stava eseguendo con una dolcezza infinita una nuova composizione di Johann Strauss figlio “An Der Schönen Blauen Donau”.
Augusto, ascoltando le prime note del violoncello, in particolare quelle prolungate, vedeva cogli occhi della mente lo scorrere lento, maestoso, solenne
del grande fiume, e si compiaceva di ammirarsi colla principessa a bordo di un battello, loro due soli, mentre si lasciavano trasportare placidamente dalla corrente verso il mar Nero; lontano, lontanissimo da dove si trovava ora. Provò paura, ebbe paura, masticò paura; ma non l’inghiottì. Come una bestia feroce si rivolta contro il domatore cercando di sbranarlo, ma egli impavido, forte, coraggioso, la ridoma e la riporta nella sua gabbia. Così fece. Nessuno si accorse di nulla. Non si chiese come fosse potuta finire lì Odette, non gl’interessava; del resto l’aveva dimenticata del tutto dopo il decennio trascorso. Ciò a cui pensava era il modo con cui avrebbe potuto evitare di saldare il conto. Appena dopo mezzanotte, nei primi secondi del nuovo anno, quella sciagurata avrebbe spifferato a tutti e a gran voce chi fosse in realtà il presente principe don Diego Antonio Olivares di Salamarsina. Ritornò a sedersi al suo posto conservando a fatica una discreta padronanza di sé, che impediva il trasparire della pur piccola agitazione. Solo il cervello lavorava convulsamente, sondando in tutte le direzioni una possibile soluzione ad un problema… insolubile. Niente, nulla, pensava a vuoto sprecando energie e tempo. Si fece violenza e smise di pensare. Gli vennero in aiuto i marchesi Carati. “Principe Olivares, dove avete imparato così bene il tedesco? Lo parlate meglio di me!” “Dove mi chiedete cara marchesa?” rispose “e dove s’impara una lingua meglio che nei luoghi dove la si parla!” “Allora voi, voi siete stato… anche, insomma…” “Anche al Kreuzeck hotel di Garmish” la interruppe il principe. Arrossì poi scaciò pure lei. Il marchese temette il peggio, di nuovo. Che travaglio! “Se mi consentite, cari marchesi Carati di Monteforte e pure voi conti Braccioforte di Gavorrano e voi, gentilissimi baroni Cavalcanti Forte, proseguirei ad esprimermi nella lingua della signora marchesa, a me tanto cara per dolcissimi ricordi di gioventù”
“Sì certo principe, proseguite pure nel modo e nell’idioma che ritenete più opportuni” disse Alberto, mentre i baroni si limitarono ad annuire con un cenno del capo. La marchesa alzò la mano come per chiedere il permesso “Bitte” le disse il principe; e quella iniziò nella sua lingua madre. “Allora voi avete compreso tutto ciò che ci siamo detti io e mio marito?!” “Sì, signora marchesa” “Ora cosa dobbiamo fare principe, dobbiamo abbandonare la sala? Oppure rimaniamo e ci esponete giustamente alla pubblica gogna?” “Nulla di tutto ciò marchesa” Gli altri del tavolo non capirono nulla, però intuirono che era meglio lasciarli tranquilli ed iniziarono a conversare allegramente fra loro. “Allora sapete pure che non provengo da una famiglia nobile” “Certo signora marchesa, purtroppo ne sono a conoscenza pure tutti i presenti” “Oddio no, e come fanno ad esserne a conoscenza?!” Il marchese fermò il principe con risolutezza alzando la mano. “Te lo dico io come fanno a saperlo tutti quanti. Una signora di origini nobili, non avrebbe mai, mai, maiii chiesto ad una sua pari se fosse pure lei di nobili origini. Sciagurata di una donna, sciagurata, sciagurata!” La marchesa era al limite di una violenta crisi di pianto; teneva gli occhi bassi, il mento tremava convulsamente. Si sentiva sola, abbandonata; le erano sparite la sicumera e la sfrontatezza precedenti; rimpiangeva di cuore la sua Murnau. Pure il marito aveva contro e ne aveva ben donde dopo i reiterati avvertimenti purtroppo inascoltati dalla poverina. Stava per scoppiare in pianto; il principe intervenne in tempo “Tranquillizzatevi marchesa! Vi siete riscattata durante il rito del “Tannenbaum”, non dovete più temere; siete apparsa credibile, vera”. “Ciò che mi dite mi risolleva, grazie principe” disse mentre si asciugava due goccioloni grossi così!
“Un’ultima cosa, per porre il sigillo a tutto quanto e non parlarne più!” disse il principe guardandoli con sussiego. “Avrò il piacere di ospitarvi nella mia tana quando lo vorrete e per quanto tempo lo desiderate!” Risero di gusto tutti. Eh? Che dire! Chi se lo aspettava un principe così! Don Diego non pensava più al conto pregresso da saldare. Si crogiolava tranquillamente nella voluttà della cena pantagruelica, pur rimanendo sobrio e vigile. Godeva della presenza della principessa, erano momenti intensamente vissuti; prodigo e ricambiato di dolci sguardi; sfioramenti di guance ripetuti, mano nella mano appena ce n’era l’occasione. “Principi di Salamarsina” sbottò la baronessa Cristina Cavalcanti “come si vede che siete sposi novelli!” Don Diego guardò sopra la testa della principessa facendo roteare le pupille, come se stesse seguendo il volo di un insetto. Lei se ne accorse “Che c’è principe, vedete qualcosa volare sopra i miei capelli?”, “Sì principessa”, “E cosa di grazia”, “Il mio cuore principessa!” “Oooh, quanto siete romantico principe” disse in modo spontaneo la baronessa. Elvira ebbe un sussulto e fece tintinnare un bicchiere contro l’altro, poi applaudì istericamente. “Siete molto fortunata principessa” disse la marchesa. “Più fortunato è lui!” aggiunse in tedesco il marchese, suscitando le risa della consorte e l’assenso del principe. Dlin, dlin, dliiinnn... “I dolci: babà, cotognata, apfelstrudel, amaretti con zabaione, zuppa inglese” così Osvaldo diede l’ultimo e conclusivo annuncio della cena. Il maestro di cappella richiamò i musicisti “Signori, l’ouverture dei “Vespri siciliani”, “Pronti?… batto due”. Uno-due e via; ed ecco il sanguigno Giuseppe Verdi alla ribalta; mai nessuno come lui ha usato tutto di un orchestra; mai nessuno come lui ha finora estratto suoni così potenti; tremolii di violini
talmente delicati da essere percepiti colla massima attenzione. Melodie sublimi; scale ascendenti e discendenti i cui gradini nessun mortale avrebbe mai immaginato di calcare. Il maestro di Busseto è un grande della musica, indubbiamente. “Veramente ottimo, tutto ottimo caro conte Braccioforte. Il finale dei dolci un… un’apoteosi. Lucullo al vostro confronto sembra un… dilettante. Grazie conte”. Così si espresse il marchese e chiesto il permesso si alzò, gli altri lo seguirono; la sala era un brulicare di persone; chi ballava, chi conversava con amici di altri tavoli, chi si andava a riposare sui comodi divanetti. I principi e i marchesi si posizionarono vicino al camino. “Marchese Carati, come vi ho accennato prima, sarebbe mio desiderio conoscere, confidando nella vostra squisita disponibilità e se lo ritenete lecito, alcuni dettagli riguardo alla nuova linea ferroviaria…”, “Asciano-Grosseto” lo interruppe l’altro. “Vi do subitissimo soddisfazione con piacere carissimo principe” e illustrò in breve i dati salienti della costruenda tratta. “Con ciò confermate, eccellenza, che non tutto è definito in merito al progetto finale” “Confermo principe, mancano ancora diverse verifiche e controlli sull’affidabilità delle ditte concorrenti alla realizzazione dell’opera”. “Perdonate il mio ardire marchese Carati di Monteforte. Vi chiedo se esiste una possibilità che una mia azienda possa presentare una proposta e concorrere alla ga…” “Don Diego Antonio Olivares, principe di Salamarsina!” lo interruppe solennemente il marchese. “Vi farò pervenire entro i prossimi quattro giorni tutto ciò che vi occorre. Quando giungerà in commissione la vostra proposta, sarò io, io stesso a presiederla ed a esprimere il parere, ascoltando pure gli altri componenti certo, ma… state tran-quil-lo!” “Vi ringrazio di cuore per la vostra bontà marchese. Vi trasmetterò nel più breve tempo possibile…” “Il tempo lo decido io, io decido modalità e tempistica. Non abbiate fretta, fate con calma. Sarà mia premura aggiungere, e sono certo che… apprezzerete,
alcuni elementi che altri non hanno. Non vi sarà difficile ottenere la priorità su tutti. Avete la mia parola!” e gli porse la mano tesa con fierezza. Don Diego s’impettì, lo fissò negli occhi e mentre gliela stringeva sussurrò “Avrete certissimamente occasione di gustare il mio… apprezzamento. Gli atti vi saranno consegnati “brevi manu” da un mio fidato collaboratore plenipotenziario”. “Anche questa è fatta!” pensò don Diego ringraziando la buona sorte. Di nuovo Osvaldo. Dlin, dlin, dliiinnn… “Onorevolissimi nobili signori e gentilissime consorti; mancano quindici minuti alla mezzanotte”. Odette non perdeva di vista il suo debitore. Gli si avvicinò fino a farsi notare; un sarcastico sorriso le mutò i lineamenti del viso. “Non agitarti Augusto” pensò il principe “non lasciarti vincere dalla paura, dal panico; saresti più vulnerabile. Cerca una via d’uscita con calma, serenità, fortezza, determinazione; non cedere alla disperazione, ti porterebbe dritto nel baratro. Stringi forte la barra del timone, cazza la scotta della randa fino a farti sanguinare la mano, ma mantieni il governo della barca; non lasciarla in balìa della tempesta”. Nonostante codesti propositi positivi, si vedeva steso prono sull’asse basculante della “Louisette”; le mani legate dietro la schiena; il collo immobilizzato tra le due lunette; lo sguardo fisso dentro il catino di zinco che di lì a poco avrebbe accolto la sua testa decollata dalla lama obliqua. Odette ne reggeva la cima. Che tormento! “Non avrai mai il mio perdono… mai!” ripensava a codeste parole; pareva che le avesse appena udite. S’immaginava ancora nella tabaccheria di Porta Spalentor; ne percepiva il profumo dei trinciati, delle spezie; rivedeva la cassettiera degli zolfanelli. Di quanti fatti fu testimone colla donna che ora lo braccava da vicino; la neve, poi il caldo d’estate, il caffè nella cuccuma, i fiori della primavera. Gli alti scaffali colmi di barattoli e vasi d’ogni dimensione, forma e colore; contenenti caramelle, cioccolatini, cialde; sempre tenuti in ordine e pulitissimi. Una sera pure la caccia a… a un… sì…sìii
“Sìii” pensò “sìiiii… dai Augusto, ce la puoi fare, vai cosììì! Fila la scotta, lasca la randa; barra a dritta, lascia la bolina stretta e vai al gran lasco. Fila, fila via veloce, allontanati dalla tempesta e lasciati trasportare lontano dai suoi venti portanti. La vedi laggiù in fondo quella lama di luce all’orizzonte? Ecco, valle incontro, vai; la vela ora è a segno, l’acqua del mare non ti spruzza più in viso; colla nuova andatura il vento è calato, la barca si è raddrizzata, la barra ora è morbida. La navigazione è ritornata piacevole. Vai, vai tranquillo Augusto… vai.” Ringraziò il Signore ed attuò il suo piano. Diede un’occhiata all’orologio: dieci minuti alla mezzanotte. Chiamò Osvaldo e gli parlò all’orecchio. “Si signor principe, subitissimo” rispose calmo. I valletti iniziarono a spegnere le luci alle pareti; Osvaldo confabulò col maestro di cappella, quindi fece cenno al principe che tutto era approntato. La sala era ritornata nella penombra; il conte Alberto non si chiese il perché, lasciò fare; la partita la stava giuocando l’altro. Don Diego si rivolse alla consorte “Principessa, mi concedete il privilegio di danzare con voi?”, “Sì, principe” Si posero vicino allo stemma bipartito; don Diego fece cenno al maestro. Il primo violino partì solo e solo eseguì la prima parte del “Valzer delle Candele”; la struggente melodia mise i brividi a tutti. “Conte, carissimo, ottimo conte Braccioforte; quale meraviglia, quale eleganza, quale sensibilità. Il valzer d’addio al vecchio anno; che atmosfera avete creato. Non avrò mai parole sufficienti per ringraziarvi come meritate!” “Siete molto gentile duca De Cardonas Belli. La vostra presenza, unita a quella della vostra soave consorte, basta e avanza. Sono io che ringrazio voi!” Ora nessuno parlava più; i principi muovevano i i al lento ritmo della musica guardandosi negli occhi, ammirati da tutti; in un silenzio che avvolgeva la loro intimità. Alla seconda tornata entrarono gli altri due violini, la viola da gamba ed il violoncello. Il principe, fra lo stupore generale, iniziò a cantare con voce melanconica
“Domani tu mi lascerai e più non tornerai…” La principessa, colta di sorpresa, basita, faceva cenno di no col capo. “Domani tutti i sogni miei li porterai con te…” “No!” urlò lei “non vi lascerò!” “La fiamma del tuo amor…” “Non vi lascerò mai, mai, mai!” ancora lei “che sol per me sognai invan è luce di candela che già si spegne piano pian” “Starò sempre con voi principe, non vi lascerò mai!” Erano tutti esterrefatti; molte dame contenevano a fatica la commozione; nessuno mai avrebbe potuto prevedere lo svolgersi dei fatti in codesto modo. Si trovavano nella sala più o meno da cinque ore; gli sembrava d’aver vissuto anni lì dentro! La realtà sembrava sfuggire a sé stessa; era diffusa la sensazione di trovarsi fuori dal tempo, in una dimensione sconosciuta; un teatro della vita umana intriso di paradossi, stravolgimenti emozionanti da scuotere le pur salde fondamenta della razionalità. Ma che stava succedendo ancora in quella sala!? Il quintetto riprese il ritornello, pure il principe “Domani tu mi lascerai…” La principessa si fermò, lo guardò supplichevole cogli occhi umidi mentre lui continuava a cantare, quasi sottovoce, dolcemente. Sentì un impulso più forte di lei, perentorio, prepotente, violentissimo; gli mise le braccia al collo e pose con forza le sue tenere labbra carnose su quelle del principe. Per la prima volta in vita sua baciava un uomo con un bacio vero, con trasporto, un bacio ionale.
Rimasero così incollati. Il maestro di cappella fece procedere solo il primo violino. Il principe non resse più; abbandonò ogni lecita prudenza e diede sfogo a ciò che provava in quel momento. Sempre labbra contro labbra, ammirava gli occhi chiusi della principessa, le sue lunghe ciglia rivolte all’insù; le accarezzò il viso colle dita; le prese i boccoli neri infiocchettati d’azzurro e si solleticò il viso. La cinse delicatamente in vita e la sollevò, facendola roteare in un valzer levitato. L’attento maestro fece riprendere pure gli altri quattro archi terminando così il brano. Tutto finì, tutto tacque; l’anno esauriva le sue ultime gocce, il fuoco tendeva a brace. I due stavano ancora così abbracciati, bocca contro bocca. Il principe fu travolto dall’amore improvviso di una quindicenne; sperimentò per la prima volta la potenza, la dolcezza, la grandezza del sentimento che muove il mondo. Rischiò la sublimazione. Non mi è stata concessa la sapienza per poter descrivere il trascendente gesto d’amore tra i due; rimane cosa loro. Ed è giusto che sia così.
Dillin… dillin… dillinnn; dopo aver assistito alla scena, Osvaldo perse un poco dello smalto iniziale; agitava il camlo stancamente, come un monatto trascina stancamente le gambe a fine giornata, ed il camlo legato alle caviglie agogna l’attesa quiete. “Cinque minuti a mezzanotte” I due si sciolsero a fatica dall’abbraccio; avevano l’aria soddisfatta, ma non appagata. Anzi! Si videro circondati da tutti, a breve distanza; si scrutavano a vicenda allo stesso modo del loro ingresso. La principessa era avvinghiata al braccio sinistro del
principe; desiderava fortemente ancora il contatto fisico. I suoi occhi guardavano nel vuoto, grandi, neri, bellissimi, profondi; brillavano di una luce diversa. “Quattro minuti signori” disse Osvaldo ormai orfano della squilla. “Svegliati Augusto, svegliati. So che ti vien da star male distoglierti dalla tua principessa, ma fai ciò che devi fare. Ti procura sofferenza è vero, ma fallo; dopo ti troverai meglio, senza più temere. Coraggio.” Fece un movimento per staccarsi; lei gli sorrise, allentò la presa, poi lo ristrinse e gli appoggiò la testa sulla spalla. “Tre minuti a mezzanotte.” Il maestro si rivolse ai musicisti “Signori maestri “Jesus bleibet meine Freude” di Bach. Uno-due-un e via. Si distesero un po’ tutti. “Ci siamo conte”, “Sì, sì, ci siamo”, “non ci sono parole conte”, “L’ottava meraviglia del mondo”, “Tutto incredibilmente bello”. I commenti che si facevano erano più o meno di codesto tenore; giravano attorno allo stesso tema; lo stupore, lo sbigottimento, l’incredulità, la sorpresa. Affascinante. “Due minuti signori, due minuti.” Odette si avvicinò al principe in compagnia della baronessa Galli Crotti. Augusto se l’aspettava, non fu una sorpresa. Era pronto. La principessa gli stava sempre avvinghiata; le sussurrò all’orecchio “Non spaventatevi”. Lei lo guardò teneramente, gli sorrise e scrollò il capo. “È giunta l’ora marchesa Talpa Lando?” “Ancora un paio di minuti… principe, poi sapete già quale sarà il vostro destino.” “Avete ragione marchesa, l’ho saputo poco fa”. Lo scambio di parole avvenne sottovoce, nessuno se ne accorse o capì ciò che fu detto. “Un minuto signori. A quindici secondi inizierà il conto alla rovescia”. Il quintetto cessò di suonare. Si fece silenzio.
La marchesa Talpa Lando alla destra del principe, con a fianco la baronessa, era pronta per l’assalto finale. Gli occhi di tutti erano concentrati di nuovo su Osvaldo. Don Diego guardò in basso appena dietro alla marchesa. “Uuuh!” esclamò tenendo sempre lo sguardo fissò in quel punto. “Quindici, quattordici…” Osvaldo stava contando gli spiccioli dell’anno che se ne stava andando. “Che c’è?” disse la marchesa rivolta al principe a bassa voce. “Dieci, nove…” “Rimanete ferma dove siete per l’amor di Dio!” “Sette, sei…” “Cos’è dietro a me?!” “Ferma!” “Cos’è’???” “Quattro, tre…” “Un topo!” “Du…” Osvaldo fu bloccato da un urlo altissimo, ultrapotente, prolungato che stropicciò i timpani dei presenti. L’anno vecchio ò il testimone al nuovo senza che nessuno se ne accorgesse. Tutti fermi, di ghiaccio. La marchesa, una volta esaurito il fiato a disposizione, impregnato di schifosissima alitosi, svenne tra le braccia del principe. Si udì un altro urlo, maschile, di minore intensità, ma pure potente. “All’armi battaglione Toscano, all’aaarmiii!” Era la voce del barone Toscano di Sanquintino, il quale si era profondamente addormentato su di un divanetto; ed era nella beata fase del primo sonno, nel
quale sognava, rivivendoli, gli avvenimenti di Curtatone e Montanara. L’urlo forsennato della Talpa Lando innervosì Orfeo che, preso in malo modo il povero barone, lo ributtò nella realtà. Il poveretto se ne ebbe a male, ma tant’è. Il principe sussurrò all’orecchio della consorte “Il pericolo è ato, rimanete tranquilla non c’è più nulla da temere” “Non ho mai temuto con voi vicino principe!” L’urlo terrificante fu come se la grande sala si fosse saturata di miliardi di piccole sferette di cristallo, per poi esplodere tutte insieme, annullando ogni rumore. Alcuni dei presenti ebbero disturbi uditivi fino a tutto il giorno dopo; udendo normalmente i suoni gravi e percependo con difficoltà e dolore i più acuti. Accorse il marchese Talpa Lando “Ma che è successo?! Principe, voi che l’avete sorretta, ditemi di grazia” “Di certo non so; abbiamo scambiato qualche parola prima, poi d’un tratto…” “Vi ringrazio principe, ma ora che si fa?” Don Diego fece avvicinare Osvaldo “Mettetela su di una poltrona, poi portatela subito negli appartamenti della contessa.” Così fece alacremente aiutato da altri quattro valletti, sollevarono la poltroncina con sopra Odette svenuta e la trasportarono fuori con la massima cautela. Don Diego si avvicinò al conte e gli parlò in orecchio “M’ha riconosciuto, non deve più tornare in sala.” “Ci penso io, non preoccupatevi; farò chiamare un mio caro amico medico; ci metteremo d’accordo.” “Che sarà stato!” chiese la baronessa Contini alla pari Sorbaro Olli della Ricona “Ma avete visto baronessa Contini come si è riempita la Talpa Lando?” “Sì, sì certo, ho ben veduto; e quanto a bevuto pure. Ecco perché è così grassa,
cicciona si può dire” “Son d’accordo con voi. Si vede che al marito sta bene così! Ma che robaaa!” L’anno nuovo era iniziato da dieci minuti e nessuno aveva ancora festeggiato. Ci pensò il principe “Colendissimi signori e amabilissime signore, a tutti spiace per l’accaduto; auguriamo vivamente alla marchesa Talpa Lando che si rimetta tosto, con un grande applauso sentito”. Invito accolto prontamente da tutti. “Poi, visto che siamo da un bel po’ nell’anno nuovo, proporrei un brindisi, naturalmente col consenso dei conti Braccioforte” “Certo principe Olivares, mi sembra giusto e doveroso!” rispose Emilio. Diede subito ordine ai camerieri, che empirono tosto i calici. Alberto preferì recarsi di persona dall’amico medico, colla speranza di trovarlo in casa; prima di andarsene si rivolse alla moglie “Ascolta Elvira, ascolta bene. La marchesa a riconosciuto Augusto, non chiedermi come e perché. Non deve più ritornare in sala, hai inteso? Fa allontanare il marchese, chiudi le porte e non far entrare nessuno fino al mio ritorno.” “Va bene, va tranquillo e torna presto.” Era ata da poco la mezza quando il landò del conte si fermò davanti all’ingresso dell’abitazione del dottor Leoncillo Leoncilli. Alberto dovette più volte picchiare col battente per farsi sentire. “Albertooo! Che c’è dimmi” disse il medico apparso sulla soglia. “Che fortuna Leo trovarti a casa, sapessi…” “Perbacco, indosso subito il pastrano.” In carrozza il conte spiegò brevemente i fatti salienti, fidandosi dell’amico. “…per codesta ragione la marchesa Talpa Lando dell’Arcese non deve più ritornare in sala.” “Incredibile ciò che ti è successo caro Alberto; mi sa che tutte le negatività
messe insieme ti sono piombate addosso. Compirò il mio dovere di medico e di amico, stanne certo. Rimedieremo, te lo prometto!” A palazzo la marchesa Talpa si era un poco ripresa; si sentiva un po’ confusa, la testa pesante. Ricordava vagamente ciò che le era successo, desiderava rientrare in sala, non voleva sentir ragioni. “Voglio vedere il principe, devo parlargli; avete inteso?” Elvira non sapeva più a che santo rivolgersi. Chiamò una cameriera “Dì ad Osvaldo di accompagnare qui il principe.” Alcuni minuti dopo don Diego entrò dove era già stato poche ore prima, colla principessa sempre stretta al braccio. “Sono a vostra disposizione. Come state marchesa?” “Sei un impostore, farabutto!” gli urlò in faccia Odette. “Anche tu” rispose con calma il principe. “La pagherai ancora più salata, vigliacco.” “Anche tu.” “Finirai in galera, Augusto.” “Anche tu, Odette.” “Dirò a tutti che sei un cameriere e mi hai ingannata.” “Dirò al marchese che sei una meretrice e lo hai ingannato.” “Sei l’essere più spregevole della terra, Augusto.” “Anche tu, Odette.” “Ti farò ammazzare per…” Ad interrompere quell’assurdo colloquio fu il comparire del conte in compagnia del dottor Leoncilli.
“Ecco dottore, la marchesa Talpa Lando dell’Arcese.” “Signora marchesa… ditemi, cosa vi è successo.” “Ma, veramente di preciso non so… ecco, forse…” “Cosa ricordate. Con calma, con calma… ehm, di grazia signori, volete…” Se ne andarono tutti; il medico rimase solo colla marchesa. “Abbiate la cortesia di distendervi, signora marchesa.” Il dottore le tastò il polso radiale, auscultò il cuore, le ispezionò gli occhi, le palpò il fegato “respirone!”, “La lingua, fuori la lingua… aaa… aaa” “Bene, marchesa” concluse “niente di patologico, ma dite, avete un poco esagerato a cena vero?” “Sì, dottore, un… pochino.” “Ora, se mi consentite, vi do alcuni consigli che vi esorto a seguire con cipiglio.” “Ditemi” rispose quella con apprensione. “Per un paio di mesi niente alcool. Dieta, mangiate in bianco intesi? Dovete perdere almeno venti chili, dico almeno venti chili! In ultimo, e subito, subito ora, dovete liberarvi di tutto ciò che il vostro nobile stomaco contiene. Codesto è un ordine, capito?” “Ma dottore, subito qui?!” “No, non qui signora, non qui. È meglio un breve ricovero in ospedale; vi accompagnerò io stesso.” “Come decidete dottore… non avrò co… conseguenze… vero?” “State tranquilla, si farà in breve. Dopo aver là riposato, al vostro risveglio potrete tornarvene a casa!” “Che inizio di anno sfortunato. Avvisate il marchese, vi prego.”
Alberto diede ordine di approntare la berlina, dove vi salirono i marchesi ed il dottor Leoncilli. La carrozza uscì dal palazzo prendendo a sinistra, lasciando scolpita nella neve la traccia delle ruote. Della marchesa Talpa Lando dell’Arcese, alias Odette Aubert, non se ne ebbe più alcuna. “Che rischio, che rischio abbiamo corso principe; ma tutto è ato, nulla più ci può spaventare.” “Concordo conte, non pensiamoci più e ritorniamo in sala.” La festa continuò alla grande; danze, racconti, brindisi ripetuti, giuochi di intrattenimento, indovinelli, risate; una festosa allegria, libera e disinteressata. Tutto, tutto molto bello. Ma come tutti gli avvenimenti, anche quelli eccezionalmente belli, hanno un inizio ed una fine, purtroppo! Le voci non avevano più lo smalto precedente, sembravano attutite; qualche sbadiglio mal trattenuto apparve sui volti stanchi. Il camino ormai ricoperto di cenere bianca, reclamava il meritato riposo. Il quintetto intervallava pause sempre più lunghe. Si andava verso la fine della serata; contenti, esausti, soddisfatti, assonnati. I primi ad accomiatarsi furono i baroni Toscano di Sanquintino “Signori conti, contesse; principi Olivares. Porteremo sempre con noi il ricordo di codesta inimmaginabile serata, vero cara?” “Grazie di aver partecipato barone Toscano di Sanquintino, baronessa.” “Barone Toscano!” “Dite, principessa.” “Conservate lo spirito del soldato che vi anima ancora, andatene fiero” e lo ribaciò su una guancia. “Principessa, vi voglio bene come ad una nipote” batté i tacchi e se ne andò colla sua “cara”. “Grazie di essere stati con noi duchi De Cardonas Belli.”
“A voi eccellentissimi conti, grazie a voi. Non mancherò di ricambiare con gioia appena possibile”. Poi si girò verso i principi. Fece un profondo inchino. “Principi Olivares, siete uno splendore. Dio vi conservi.” “Eccellenze illustrissime, duchi De Cardonas Belli, vi auguro un felice anno colmo di soddisfazioni. Se verrete a Napoli fateci visita, vi accoglieremo con piacere e ricorderemo insieme codesta meravigliosa serata.” “Con permesso principi… ehm… principess…” aveva già la destra di lei a portata di mano. “Conti Braccioforte, vi ringrazio per la magnifica serata, indimenticabile. Come ho già detto, domani stesso informerò il ministro di quanto di meraviglioso, di splendido è successo nella vostra dimora. Da far invidia alla casa regnante!” “Troppo buono, marchese Carati, troppo buono, grazie.” “Principe Olivares, attendete con fiducia quanto vi ho promesso.” “Pure voi marchese Carati di Monteforte. Marchesa. Vi aspetto.” Rimaneva solo una coppia, dava l’impressione di essersi attardata in un angolo ad aspettare non so cosa; Alberto se ne accorse e le si avvicinò “Barone Sontel del Prado, baronessa. Vi ringrazio di essere stati partecipi e di aver condiviso la nostra felicità.” “Conte Braccioforte, ditemi, esiste un’altra uscita?” “Sì, certo, un po’ nascosta ma c’è.” “Abbiate la compiacenza di farci consegnare i nostri mantelli, usciremo da quella.” “Come desiderate barone, provvedo immediatamente.” Uscirono ando dalla porticina dietro ai musicisti, e si trovarono fuori, là fuori, dove c’è “pianto e stridor di denti”. Di loro non si seppe più nulla!
Rimasero solo Alberto con Elvira e i principi. “Che tristezza Alberto, vedete ora la sala com’è desolata, che malinconia!” “Non vi crucciate moglie, codesta stupenda grande sala è solo un contenitore, il più delle volte vuoto. Che lo ha animato fu la presenza di persone, di gente, di amici, coi loro gesti, le loro parole, la loro felicità, la loro meraviglia; colla loro composita diversità che arricchisce tutti.” “È vero dite bene, ne sono convinta.” “Vedete Elvira cara, immaginate un panorama stupendo, chessò io! Allorché spunta l’alba a Radicofani ed i primi raggi del sole indorano l’Amiata ad ovest, emergente dalla bruma. Ecco, se non ci fosse l’essere umano ad ammirarlo, quale valore avrebbe?” Alberto si recò vicino al maestro di cappella “Grazie del servigio colendissimo maestro, complimenti di tutto cuore, pure a voi signori maestri. La vostra arte ha indubbiamente svolto un ruolo determinante per la buona riuscita della serata. Tenete, eccovi quanto meritatamente avete guadagnato”. Porse al maestro una busta bianca chiusa, il quale la prese con due dita, soddisfatto e pieno di allegria. “Grazie signor conte. Sempre a vostra disposizione, con piacere.” “Grazie signor conte” echeggiarono all’unisono le altre cinque voci. Se ne andarono tutti, carichi dei loro strumenti e del loro compenso. Alberto parlò. “Ecco, ora tutto è finito, tutto si è compiuto. Una giornata interminabile, stento ancora a credere che ciò che ho vissuto in codesto giorno sia veramente accaduto; il telegramma, Augusto, Savina, Odette. Lo scopo è stato raggiunto grazie a voi, amici! E pure a te Elvira.” “Non ringraziarmi, non sai il pericolo a cui ti ho volutamente esposto. Solamente la pazienza dei principi ci ha salvato.” “Non dite così contessa, se non c’eravate voi a preparare Savina, non si sarebbe potuto far nulla.”
“Avete visto contessa? È stato un grande successo!” “Esattamente come mi avevi detto Savina; ma dimmi, perché fui io a darti codesta certezza?” “Fate come recita il salmo quattro: ‘…sul vostro giaciglio riflettete e placatevi…’, dovete trovarla da sola la soluzione” “Bene! Se il nostro compito è terminato, ce ne possiamo andare, se voi conte ce ne date licenza” disse Augusto. Nessuno parlò. In cuor loro temevano codesto momento, non sapevano come affrontarlo. “Non vorrete andarvene adesso… a quest’ora!’ e dove!?” sbottò Alberto. “A casa signor conte” rispose Savina. “Ma son di già ate le tre, quando arriverai a casa saran le cinque. Poi le strade innevate, impervie.” “Non fa nulla signor conte; arriverò in tempo per la mungitura.” “No, no, ma quale mungituraaa! Mi oppongo. Tu rimani qui! Augusto abita qui vicino, ma tu, tu no, tu rimani. Hai la tua camera calda che ti aspetta, col letto caldissimo.” Si convinse alla fine la selvatica. Augusto si avvicinò ad Elvira “Signora contessa, è stato tutto molto bello. Conservatevi.” Lei rimase di pietra. “Conte Alberto, è stata un’esperienza indimenticabile” “Augusto, non ci sono parole per ringraziarti. Una cosa sola ti prometto: ogni giorno mi ricorderò di te, ogni giorno… ogni… giorno…” Faticò molto a terminare la frase. “Prima di andarmene saluto la ragazza” disse Augusto. Lei stava tra lo stemma ed il camino; lo sguardo rivolto in basso; le mani incrociate sul grembo. Non manifestava nessuna emozione. Augusto le si
avvicinò. “Io vado… ciao.” “Ciao” rispose tenendo sempre la testa bassa. Augusto guardava nel punto in cui sembrava guardasse l’altra. Alberto ed Elvira attendevano un poco defilati. “Ciao, Savina.” “Ciao, Augusto.” “Cerca di star bene Savina…” “Pure tu, Augusto…” “Ciao… principessa…” Lei non rispose più e girò la testa dall’altra parte. L’aria si fece densa di tristezza, sospesa colla sua gravezza in attesa di piombare sui due. Augusto non si mosse, rimase ritto in piedi ad un metro di distanza da lei. Sembrava inchiodato al parquet. Lei una ragazzina, lui un uomo vissuto; venti e a anni di differenza; avrebbe potuto essere sua figlia: ma per fortuna non lo era. Alberto prese per mano la moglie ed in punta di piedi uscirono dalla sala. Chiamò un servitore. “Rimani qui e attendi. Ogni ordine che ti dovesse dare il principe è come se te l’avessi dato io.” Rimasero loro due soli, in mezzo alla sala vuota che sembrava immensa. Prima animata da voci, suoni; impregnata di profumi, di allegria. Ora invece nulla di nulla. Silenzio, freddo, cupezza. Il tempo scorreva senza che nulla cambiasse, tutto rimaneva uguale. Nessuno dei due pensava a qualcosa. Augusto si trovò in difficoltà!
Alzò lo sguardo sulle spalle di lei; si accorse che tremava debolmente. “Hai freddo” le sussurrò. Si tolse la giacca del frac e gliela pose delicatamente sulle spalle, coprendole per bene le braccia nude. Colle dita sugli omeri fece una leggera pressione per girarla; lei obbedì docilmente. Stavano uno di fronte all’altra, lo sguardo di lei sempre abbassato. “Savina” la chiamò dolcemente. Lei alzò il mento e lo fissò negli occhi. Augusto avvicinò a sé la ragazza. “Sento freddo Augusto, scaldami” La abbracciò teneramente, guancia contro guancia. “Savina… Savina… ti voglio bene.” “Anch’io ti voglio bene, Augusto.” “Non ti lascerò mai Savina.” “Sì, sì… io te l’ho già promesso.” “Staremo sempre insieme.” “Sì, Augusto, niente più ci separerà.” “Nemmeno la morte Savina, neppure quella.” “Il mio amore per te è più forte della morte, Augusto.” “Quanto sei dolce Savina, eppure t’ho fatto soffrire un po’.” “Come non mai in vita mia.” “Sono tuo per sempre.” “Sarò tua per l’eternità.”
Lasciarono la sala. Il servitore li accompagnò alla camera preparata per la ragazza.
Epilogo
Le campane del duomo annunciavano la messa solenne scandendo il primo concerto. La città era tutta imbiancata; gli ultimi radi fiocchi si posavano al suolo invisibili. Augusto chiamò una cameriera e si fece portare gli abiti di Savina. La ragazzina si era risvegliata donna; lui fu delicatissimo. Per loro iniziava una nuova vita. Osvaldo dovette rincorrerli fino all’androne “Ma… ma dove diavolo andate, tornate indietro… i signori conti vi attendono” disse ansimando alquanto. “Ringraziateli voi zio” rispose Savina. “Fermatevi vi dico… fermatevi! Ho l’ordine…” “State bono zio, non vi crucciate più per noi.” “Osvaldo, ti ringrazio per aver pensato a noi… ieri. Ti faremo sapere, riceverai nostre notizie” disse Augusto. “La carrozza, quella almeno non la potete rifiutare!” “Ringraziate i conti zio. Felice anno.” Usciti dal portone presero a dritta, dirigendosi verso l’abitazione di Augusto. Si lasciarono alle spalle tutto e tutti. Il giorno quattro di gennaio, il marchese Carati di Monteforte fece recapitare a palazzo Braccioforte un plico contenente quanto promesso. Alberto raggiunse Siena il giorno dopo; si recò all’ospedale di “Santa Maria
della Scala” dov’era ancora degente il principe Olivares. Gli spiegò brevemente quanto successo alla cena dell’ultimo giorno dell’anno “…i due sostituti si sono comportati egregiamente illustrissimo principe. Ecco il giornale, lo leggerete con calma. In ultimo, il risultato ottenuto col marchese Carati di Monteforte, referente del ministro per la costruzione della tratta di ferrovia di cui sapete. Eccovi il plico sigillato. Contiene in più, che gli altri non hanno, alcuni elementi che vi agevoleranno nella conquista di una posizione privilegiata; voi gli avete promesso che gusterà il vostro apprezzamento. Trasmetterete con calma i documenti necessari tramite un vostro plenipotenziario”. “Incredibile conte Braccioforte, ha tutto dell’incredibile; sembra una favola, una favola bellissima… voglio conoscerli, voglio conosc…” “Impossibile, principe Olivares.” Quello rimase male e fece valere tutto il suo peso. “Forse, dico forse, non avete inteso. Mi fate ripetere… conte! Ripeto!” Con tono secco, deciso, di comando “Voglio conoscerli!” “Impossibile” rispose Alberto. Il principe s’aggrappò colla mano destra alla maniglia a triangolo posta sopra la testa e si mise a schiena dritta. “Voglio conoscerliii!” urlò come un forsennato. “Impossibile, impossibile, impossibileee!” il conte straurlò più forte di lui. Accorsero la caposala ed un infermiere che furono rispediti indietro in malo modo. Alberto aveva gli occhi umidi, ma non desiderava mostrarsi troppo sensibile; resistette stoicamente. Don Diego se ne accorse e diventò più mite. “Ma cos’è successo quella sera! Me lo volete spiegare? Per filo e per segno. Per filo e per segno!”
“Subitissimo principe Olivares” Avvicinò una sedia in metallo verniciata di bianco latte e parlò per un’ora circa. “E tutto ciò… per… per causa mia!” “Ma non avete colpe eccellenza, nessunissima colpa illustrissimo principe.” “Un cameriere emigrante; una quindicenne che poche ore prima si trovava ad accudire le vacche in una… stalla, hanno potuto compiere tutta codesta incredibile meraviglia a vostro e a mio vantaggio. Leggete, leggete qui conte “… il giorno tren… eccetera, eccetera… Don Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina e consorte hanno stupito l’intera capitale, dando lustro ai conti Braccioforte e a tutta la collettività. La loro augusta presenza si è rivelata a tutti come la più importante del secolo. L’eleganza, la cortesia, l’affabilità, la brillantezza, il perfetto tedesco sfoderati dal principe… eccetera, eccetera… La bellezza inarrivabile della giovanissima principessa, il suo sorriso trascendente… Non si ricorda a memoria d’uomo un evento più raffinato e più importante!” “È la pura verità, la sola pura verità.” “Conte!” “Comandate, principe.” “Quando li vedrete, dovunque siano, con chiunque siano, li abbraccerete con affetto e direte loro ‘codesto è l’abbraccio di Diego Antonio Olivares principe di Salamarsina!’” “Sarà mia premura… principe. Farò del tutto per accontentarvi. Ora non mi rimane che una profonda nostalgia di quella serata meravigliosa ed in particolare di quelle due… meteore che mi hanno illuminato la vita.” “Vi comprendo… amico. Vi comprendo…” Alberto si alzò dalla sedia, chinò il capo e se ne andò. Una settimana dopo fece visita al podere della sorella di Osvaldo; doveva tener fede alle promesse fatte. Lo accolse Gilda che lo riconobbe subito.
“Oh, signor conte, buongiorno” “Buongiorno a voi, Gilda” rispose Alberto. Si guardò intorno… se lo sentiva. La capretta gli venne incontro a i lenti, colla testa china, senza un belato. Il cane non abbaiò. Il podere sembrava vuoto. “Quando… quando sono…” “Il giorno sette… signor conte.” “In… in…” “Sì… in Isvizzera” “E non… non…” “Quando si saranno sistemati torneranno a pigliare Bina e…”, Gilda si girò singhiozzando, nascondendosi il viso fra le mani. La capretta belò. Alberto si diresse lentamente verso la stalla; alzò lo sguardo al cielo; aveva voglia di bestemmiare. Si astenne. Abbassò il capo in segno di resa, di accettazione. Aprì la porta. Si appoggiò colle mani agli stipiti. Vi urlò dentro tutta la sua rabbia “Saviinaaa!!”.
Ora, mentre sto vergando codeste ultime righe, son ati quasi nove mesi dai fatti narrati. Poco dopo mezzogiorno è sortita la “Gazzetta del Popolo” in edizione straordinaria, recando la notizia che stamane mattina i Bersaglieri sono entrati in Roma, aprendosi a cannonate una breccia nelle mura di Porta Pia. La capitale non sarà più la nostra città; la “questione romana” finalmente s’è risolta; è finita come doveva finire. Il popolo tutto è sceso in istrada in massa; gaudente, festante, in tripudio. E sia. Ma che ne sanno loro di codesta storia, che ne sanno!
Firenze, 20 7mbre 1870
Alcuni riferimenti a fatti, luoghi, personaggi, avvenimenti, sono di invenzione dell’autore.