a cura di Luigi Pachì
Il cane e l'anatra
di Luca Sartori
ISBN versione ePub: 9788867751570 © 2014 Luca Sartori Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0 gennaio 2014
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Indice
Colophon
Luca Sartori
Il cane e l'anatra
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Delos Digital e il DRM
In questa collana
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Luca Sartori
Luca Sartori è nato a Torino nel 1973 ma è cresciuto vicino a Urbino. Ha vissuto e lavorato nel nord Italia per molti anni, soggiornando anche all’estero per brevi periodi. Dal 2011 risiede nuovamente a Urbino, dove è iscritto a un corso di laurea in lingue e culture straniere. Pur avendo scoperto la vocazione alla scrittura relativamente tardi, ha sempre avuto una grande ione per Sherlock Holmes e sin da giovanissimo colleziona tutto il materiale che riesce a trovare sulle opere di Sir Arthur Conan Doyle in particolare e il mondo tardo vittoriano in generale. Attualmente sta collaborando con la Delos Books in veste di traduttore per la collana Baker Street Collection e ama anche dedicarsi alla traduzione di testi poetici nonché alla stesura di componimenti originali in lingua inglese. E’ stato inoltre coautore di una biografia romanzata di Lord Alfred Douglas, Il garofano blu, pubblicato nel 1999 da Simonelli Editore. Sottile conoscitore del Canone, ha scritto finora due romanzi brevi sotto forma di apocrifi sherlockiani, e altri due ne ha già in produzione.
Capitolo 1
Ogni volta che viene Natale non posso fare a meno di ripensare a quei lontani giorni di fine dicembre del 1889 quando, stando ai miei appunti, mi trovavo a eggiare in Oxford Street senza una meta ben precisa. Avevo fatto visita al dottor Cyril Wotton, un vegliardo di settant’anni che era stato un mio professore all’università e che, distintosi nel campo dell’oftalmologia, aveva recentemente pubblicato un interessantissimo opuscolo sulle degenerazioni maculari della retina. Mi ero ripromesso di leggerlo con attenzione e per questo ero ato dal suo studio in Cavendish Square per ritirare una copia dalle sue stesse mani. Lo studio del dottor Wotton era uno di quegli ambienti in cui ogni medico con un minimo di ambizione avrebbe sognato di esercitare: tre stanze al quarto piano di un elegante edificio in pietra bianca e mattoni ocra, arredate con buon gusto secondo l’ultima moda e provviste di tutte le attrezzature di cui un buon fisiologo aveva bisogno. Avere uno studio ben avviato in Cavendish Square voleva dire avere una clientela ricca e abbondante che certo avrebbe permesso al titolare di disporre di un invidiabile reddito nonostante gli affitti della zona fossero tra i più cari di Londra. Avevo chiacchierato vivacemente con il dottor Wotton per un’oretta, e ci eravamo lasciati facendoci gli auguri di buon natale, ma non appena mi confusi con la folla della strada mi sentii assalire da una subdola forma di frustrazione. Ero troppo orgoglioso per ammettere che il confronto tra quell’empireo della medicina e il mio modestissimo ambulatorio nei pressi di Paddington, che tra l’altro condividevo con il collega Anstruther, era impietoso e umiliante, e perciò imputai il mio stato d’animo a una specie di avvilimento natalizio, ovvero quella tristezza che s’insinua silenziosamente nell’allegria più chiassosa, corrodendo il buon umore come una goccia d’acqua corrode la roccia. Troppi pagliacci travestiti da Santa Claus, mi dicevo. Troppi dolciumi al mercato del Covent Garden. Troppi polli, troppi capponi e troppi maiali sbudellati nelle botteghe dell’East End. E poi le immancabili voci bianche del coro di St. Paul, e i tre spiriti di Dickens che puntualmente tornavano a infestare ogni casa d’Inghilterra. La gente sembrava esser preda di un eccessivo fervore per un avvenimento che si ripeteva una volta ogni trecentosessantacinque giorni, il che strideva con la flemmatica indifferenza che regnava sovrana durante tutto l’anno, come se Gesù
Cristo non fosse mai nato. Cercai di rimediare alle mie malsane elucubrazioni e spesi due scellini per acquistare una copia del Beeton’s Christmas Annual, una rivista di atempi che piaceva molto a mia moglie Mary. A dire il vero anch’io mi concedevo qualche sbirciatina al suo interno, qua e là, prediligendo le commedie teatrali e i racconti polizieschi. La copertina del 1889, pittoresca e colorata come sempre, annunciava un intrigante delitto della camera chiusa. Cominciai a leggiucchiare distrattamente e, quasi per associazione di idee, una forza misteriosa mi attrasse verso Baker Street. In effetti, non vedevo Sherlock Holmes da un paio di settimane, essendomi concentrato sulla professione e sulla vita matrimoniale. In un paio d’occasioni mi aveva spedito dei telegrammi per informarmi sui casi che aveva risolto con successo. Erano casi semplici e poco interessanti, ovviamente, che gli servivano più che altro per fare cassa. Avrei potuto star certo che, non appena si fosse presentato qualcosa di succulento, Holmes non avrebbe esitato a convocarmi. Arrivai davanti al 221B che già imbruniva. Un vento freddo spazzava la strada, perdendosi in un cielo color ametista sporca, dove le fumarole dei comignoli disegnavano inquietanti ombre nere. Una luce tenue e giallastra filtrava da una finestra al primo piano, la finestra del soggiorno dov’ero stato così tante volte. Il mio amico era in casa, dunque, e sapendolo un’anima inquieta, già m’immaginavo cosa stesse facendo per lenire il suo malheur de vivre. Mi calcai il capello in testa e mi strinsi nel mio Ulster, rialzando il bavero. Poi, infilato l’opuscolo del dottor Wotton all’interno del Beeton’s Christmas Annual, ripiegai in due la rivista natalizia ed entrai nell’andito. Salii i diciassette scalini che mi separavano dal primo piano e bussai con vigore alla prima porta a destra dopo le scale. – Entri pure, Watson – rispose una voce familiare. Entrai senza farmelo dire una seconda volta, richiudendomi la porta dietro. Un forte odore di ammoniaca mi aggredì le narici. In compenso, c’era un calduccio corroborante e un bel fuoco ardeva nel caminetto. Holmes era in piedi di fronte al caminetto e aveva appena gettato un pezzo di legna tra le fiamme. Mi sorrise e mi salutò cordialmente. – Oh, buonasera, Watson. Che posso dirle: buon Natale! Le prometto che è l’unica cosa banale che le dirò stasera.
– Buon Natale, Holmes – risposi prima di togliermi il capello e il cappotto per appenderli sull’attaccapanni. – Che cosa ha combinato con i suoi alambicchi? C’è un odore tremendo qua dentro. – Ah, solo un piccolo e interessante esperimento. Ma la prego, si sieda! Tra dieci minuti la signora Hudson dovrebbe essere qui con il tè. Mi sedetti su una poltrona e Holmes fece altrettanto. Mi guardai attorno, scrutando tra i tanti curiosi oggetti che affollavano la stanza, e notai che c’erano uno spruzzatore, dei barattoli con delle polveri e alcuni becchi contenenti del liquido sopra il tavolo con il piano rivestito in acciaio. – Ma che razza di esperimento ha fatto? – domandai. – Oh, nulla di particolarmente straordinario – rispose lui. – Ho solo riprodotto un campione d’inchiostro simpatico. – Inchiostro simpatico? E perché mai? – Perché oggigiorno è molto usato dai truffatori. Eh sì, caro Watson, la scienza non è soltanto al servizio degli onesti. Per un investigatore è essenziale saper riconoscere il caratteristico odore acidulo e persistente che emana un foglio su cui si è scritto con l'inchiostro simpatico. Lo sapeva che per far apparire l’affascinante scrittura invisibile è sufficiente tracciare un testo con un pennino intinto in una soluzione con sali di ferro o rame, e poi spruzzarlo con del ferrocianuro liquido o ammoniaca? Si otterrà un colore blu di Prussia o marrone. In questo caso io, con i sali di rame e l’ammoniaca, ho ottenuto un colore marrone. Se non si ha la soluzione d’ammoniaca si può usare, all’occorrenza, il succo di un limone molto maturo. Ma mi dica: come le va la vita? Vedo che oggi pomeriggio non ha visto alcun paziente, che non ha ancora incontrato sua moglie, e che è andato a trovare quel suo vecchio professore che ha lo studio in Cavendish Square. – Sì, è tutto vero. Risulterei scontato se le chiedessi come ha fatto a dedurlo? – Oh, non mi ci è voluto poi così tanto. Oggi lei indossa degli scarponcini neri con la punta arrotondata, e io conosco fin troppo bene le sue abitudini per non sapere che quando fa il giro dei pazienti si mette sempre gli stivaletti marroni che sono leggermente più appuntiti. Inoltre, noto anche che non ha con sé la sua valigetta di cuoio e lo stetoscopio infilato sotto il cappello. Se non è uscito per
andare a fare delle visite professionali è evidente che deve aver avuto qualche altra ragione. Se osservo quella rivista natalizia che stringe piegata tra le mani posso vedere chiaramente spuntare la parte superiore di un libello al suo interno, dove si può distintamente leggere il nome dell’autore: professor Cyril Wotton. Per quanto ne so, nessun opuscolo del professor Cyril Wotton è attualmente in circolazione. Per cui deve necessariamente averlo preso direttamente da lui, in Cavendish Square. Per quanto riguarda il fatto che lei non abbia ancora incontrato sua moglie, bé, è elementare, Watson: il Beeton’s Christmas Annual è la rivista preferita di sua moglie Mary, e certamente l’ha comprata per lei. E se l’ha qui tra le mani vuol dire che non ha ancora avuto modo di vederla per dargliela. – I suoi ragionamenti non fanno una piega – osservai. – In effetti devo vedermi con mia moglie più tardi, verso le sette. Pensavamo di cenare al Trocadero. – Ah, un po’ caro. Hanno degli ottimi vini di Borgogna. Il fois gras è un po’ unto, ma in compenso la tarte tatin è eccezionale. – Sì, è un po’ caro. Ma oggi festeggiamo nove mesi di matrimonio, e abbiamo deciso di concederci un piccolo lusso. A ogni modo, c’è una cosa che non ha dedotto: il Beeton’s Christmas Annual non piace solo a mia moglie, piace anche a me. I racconti polizieschi che pubblica mi sembrano di buona qualità, tutto sommato. – Buona qualità? Lei crede, Watson? Ho provato a leggerne qualcuno, e sinceramente devo dire che mi sono a stento trattenuto dal ridere. Gli investigatori letterari sono dei pasticcioni e degli incompetenti, e alla fine risolvono i loro casi così come un prestigiatore tira fuori il coniglio dal cilindro. Certo, non nego che certe storie intrise di romanticismo e sensazionalismo possano far presa sui lettori più ingenui e sentimentali, ma i crimini della realtà sono ben altra cosa. Molto meno poetici e molto meno ovvi. Mi viene in mente quel detective se, frutto dell’immaginazione di uno scrittore americano: mi pare si chiami Dupin. Ah, è davvero un bel tipo di tenebroso, un maudit di prima scelta, ma i suoi metodi sono fin troppo statici e affidati alla sola elucubrazione astratta. Un detective così avrebbe ben poche possibilità di risolvere un mistero reale. Ciononostante, lo Strand e il Blackwood Magazine offrono dei buoni esempi di letteratura investigativa, a volte. Come ebbe finito di parlare, Holmes si alzò di scatto come se si fosse
improvvisamente ricordato di qualcosa. Lo vidi andare verso il tavolo per gli esperimenti chimici e frugare tra le varie ampolle. Prese una scatola di peltro argentato e una boccetta di vetro opaco e le ripose in uno stipetto incassato in una nicchia del muro. Poi tornò a sedersi, sorridendomi con un candore imbarazzante. – Come vede non ho segreti per lei, Watson. Ma è meglio che la signora Hudson non trovi certe cose in giro. – Già, – commentai – vedo che anche oggi ha preso la sua dose di veleno. – Oh, sono le mie piccole e umane debolezze. Ma mi creda: sono perfettamente in grado di controllare la mia dipendenza dagli oppiacei e dalla cocaina. Le confesserò che la soluzione al sette per cento che ho assunto non più di due ore fa sta già sortendo un benefico effetto. Sento di avere una straordinaria lucidità mentale. Allora, come erà il giorno di Natale? – Credo che lo erò come un comunissimo inglese. Il che vale a dire con mia moglie e la sua famiglia. Lei, invece, che impegni ha? – Per il momento nessuno. A meno che non debba lavorare su un qualche caso dell’ultimo minuto. – Ah! – esclamai. – Dimenticavo che lei sarebbe capace di lavorare anche il giorno di Natale. – Certo che sì. Se fosse necessario, non vedo perché non dovrei. Vede quelle lettere appoggiate sul tavolinetto in malachite? – Sì, le vedo. – Bene. Sono tutti inviti a cena da parte di clienti che ho avuto. Tra i tanti, potrei citarle i reali di Boemia e d’Olanda, i conti di Morcar, il colonnello Warburton, un paio di allibratori della City e Sir Henry Baskerville. – Sir Henry Baskerville? Lo squire del Devon? – Sì, proprio lui. Le confesso che l’idea di rivederlo mi alletta, dato che è un uomo di notevole cultura e di buone maniere. Però non sono molto incline a ritornare nella Brughiera dopo esserci stato non più di due mesi fa. Se si
stupisce, allora si sbalordirà ancora di più nel sapere che ho ricevuto inviti anche da parte di due vecchi amici come Victor Trevor e Reginald Musgrave. Osservai Holmes pensoso, come per interrogarlo su qualcosa che mi sfuggiva. – Ma certo, Watson! Lei non può averli conosciuti, dato che non li vedo entrambi dall’80 o dall’inizio dell’81. All’epoca abitavo in Montague Street e noi non ci eravamo ancora incontrati. Ho avuto il piacere di occuparmi di due casi che li riguardavano, che poi sono stati i primissimi della mia perfettibile carriera. Non è commovente pensare che ci siano persone che si ricordano di te anche dopo una decina d’anni? – Sì, è commovente – risposi in tono leggermente polemico. – Soprattutto quando non si incoraggiano molto le amicizie. – Dice bene, Watson. Io non sono certo il tipo che incoraggia le amicizie o le visite. Tant’è vero che, ora come ora, l’unico vero amico che ho è lei. – Ah, ma quale onore… – No, nessun onore. Solo molta pazienza. – Gliene servirà molta per decidere quale invito accettare. Tra nobili, militari, borghesi altolocati e vecchie conoscenze non c’è che l’imbarazzo della scelta. – Al contrario, Watson. Non credo che avrò alcun imbarazzo, perché non sceglierò nessuno. Domani telegraferò a tutti, declinando gli inviti. Una pendola d’ebano appesa a una parete scoccò le cinque, e pochi istanti dopo vedemmo comparire la signora Hudson che ci servì dell’ottimo tè nero aromatizzato allo zenzero. Lo sorseggiammo in silenzio e poi, rinfrancato dalla calda bevanda, mi permisi di azzardare una domanda più intima. – Nessun invito femminile? Holmes mi scrutò per qualche attimo, mentre un mezzo sorriso gli si disegnava sulla bocca. – Quando vuole sa essere molto acuto e sottile – disse. – Sa benissimo che per quanto riguarda il gentil sesso il gran conoisseur è lei, Watson. E sa altrettanto
bene che accetterei l’invito di una sola donna al mondo, se dovesse mai giungermene uno. – Irene Adler. Holmes mi rispose senza proferire parola, limitandosi ad annuire con un cenno del capo: – Se mai dovessi amare una donna, quella donna potrà essere soltanto lei – soggiunse. Poi si rifugiò in un meditabondo silenzio. Capii di aver toccato uno dei suoi pochissimi punti deboli e cambiai discorso. – Comunque, sappia che alla nostra tavola, mia e di mia moglie intendo dire, ci sarà sempre un posto libero per lei. – Ah! Bene, bene! Il buon Watson pensa alla solitudine del suo amico Sherlock Holmes. Accetterei molto volentieri se non sapessi che suo suocero è un grande apionato e assertore dell’astronomia, una disciplina che io ignoro quasi del tutto, reputandola totalmente inutile. E temo che un’eventuale diatriba a tavola le rovinerebbe il pranzo di Natale. Per cui, vedrò di fare qualcosa di utile per me stesso e non dannoso per gli altri.
Capitolo 2
La nostra discussione sarebbe potuta andare vanamente avanti per chissà quanto se Holmes non fosse stato distolto da un qualcosa che aveva intravisto fuori dalla finestra. Si alzò e guardò meglio attraverso il reticolato di vetri. – Ma bene – disse. – Abbiamo un cliente in arrivo. Poco dopo, il cliente comparve sulla soglia. Era un gentiluomo sui trentacinque anni, di bassa statura, con occhi e capelli piuttosto scuri, e folte basette che cominciavano a ingrigire. Indossava un paletot di lana grigio perla e una bombetta low derby dello stesso colore. Lo osservai con una certa attenzione, almeno inizialmente, poiché il suo volto mi era familiare. Non mi ci volle molto per riconoscere un vecchio compagno d’università, James Hedger, che per un po’ aveva anche fatto parte della nostra squadra di rugby, dimostrandosi come una delle ali più veloci di tutta l’Inghilterra meridionale. Nonostante fosse invecchiato e avesse cambiato stile nel vestire, il suo fisico tarchiato e i suoi lineamenti piuttosto marcati erano rimasti gli stessi. – James Hedger! – esclamai, sollevandomi dalla poltrona. – Quanto tempo! Non ci si vede da almeno dieci anni. – Anche undici, John Watson! – rispose lui, prolungando la stretta di mano. – Credo che ne abbiamo di cose da raccontarci… Pur essendo un solitario non molto incline alle visite di cortesia, Holmes si dimostrò un perfetto anfitrione. Fece accomodare il cliente con più riguardo del solito. Poi prese una bottiglia di Porto del ’69 che conservava nella credenza e mescette tre calici del prezioso vino per brindare “alla salute del dottor Watson e del suo compagno ritrovato”. Così bevemmo e chiacchierammo un po’ dei bei tempi della prima Calcutta Cup e delle regate studentesche sul Tamigi. Holmes si mantenne silenzioso, ma come sempre ascoltava con grande attenzione. Quando non ci fu più vino nei bicchieri tornò a essere l’uomo diretto e pragmatico che era. – Bene, signor Hedger, ora che siamo tutti comodamente seduti in poltrona e
abbiamo ancora sulle papille il sapore di un così nobile nettare può tranquillamente espormi il suo caso. Immagino che non sia venuto fin qui solo per rivedere il suo vecchio amico Watson. – No, infatti. Ho una questione molto spinosa da sottoporle – rispose Hedger. – La ascolto – disse Holmes prima di distendere le gambe e assumere la sua classica posizione con i piedi accavallati e le dita intrecciate davanti al mento. – Vedo che non vive a Londra, e che in un ato piuttosto recente è stato in Francia. Sul volto di Hedger comparve un’espressione di stupore che non mi stupì più di tanto, abituato com’ero allo stupore che le deduzioni Holmes suscitavano negli altri. – Devo ammettere che la sua fama è meritata. Come fa a sapere queste cose? – È stato sufficiente osservare alcuni piccoli dettagli. Potrei cominciare col dirle che non si possono non notare i suoi bagagli sulla vettura che l’ha condotta qui e che la sta ancora attendendo fuori. È evidente che lei è appena arrivato in città da qualche altra località, e ha intenzione di fermarsi a Londra per alcuni giorni, più o meno una settimana, direi, a giudicare dal volume delle sue valigie. Noto anche un leggero strato di fuliggine sul suo capello e sulle spalline del suo paletot, quel tipo di fuliggine che si può trovare solo nell’aria densamente inquinata di vapori carbonici una stazione. Stando a quel che vedo, lei è un uomo che cura molto il proprio abbigliamento, e quella fuliggine mi parrebbe una stridente incongruenza se non fosse dovuta al fatto che lei è arrivato in una stazione di Londra oggi stesso e non ha ancora avuto modo di are al suo albergo per scaricare i bagagli e farsi spazzolare come si deve il capello e il paletot. «Per quanto riguarda il soggiorno o il viaggio in Francia, mi basta guardare i suoi stivaletti di vernice color avorio: è un tipo di calzatura che non viene commercializzato qua in Inghilterra, ma solo in alcuni paesi dell’Europa continentale. Ho pensato alla Francia perché chiunque voglia andare dall’Inghilterra al Continente è praticamente obbligato a are dalla Francia, a meno che non voglia trascorrere una settimana in mare. Oltretutto, mi è anche parso di sentire una lieve erre uvulare nel suo naturale accento inglese settentrionale. A giudicare dallo stato di usura dei suoi stivaletti potrei supporre
che il suo viaggio in Francia non risale a più di due anni fa. James Hedger rimase basito per un lungo momento, fissando Sherlock Holmes con gli occhi quasi spalancati, finché una specie di sorrisetto compiaciuto e quasi crudele che lo contraddistingueva fin dai tempi dell’università non gli comparve sulla bocca, conferendogli un’espressione da giullare di carte da gioco. – È tutto dannatamente vero – disse. – Mi stupirei se così non fosse – rispose Holmes. – Ma ora può espormi il caso in assoluta tranquillità e nei dettagli. Le prometto che non la interromperò più con i miei esercizi di vanità. James Hedger cominciò a parlare con voce molto pacata, quasi impostata: – Si tratta di una questione delicata, molto delicata fin dall’inizio. Deve sapere che una volta conseguita la laurea in medicina alla London University decisi di specializzarmi in malattie nervose studiando nelle università di Vienna e Berlino. Dopo un periodo di non troppo felice esercizio della professione medica, due anni fa ebbi la grande occasione di seguire un ulteriore corso di specializzazione alla Salpêtrière di Parigi, sotto la guida del professor Charcot. Sono sempre stato molto interessato alle teorie dell’origine organica ed ereditaria delle malattie nervose, e senza dubbio la scuola di Charcot è la migliore in Europa e forse in tutto il mondo in questo campo. Per lui è stata appositamente creata la cattedra di neurologia, un insegnamento che non esisteva fino a pochi anni fa. Oltretutto, il mio lavoro di ricerca e sperimentazione sulla fisiologia delle isterie gli piacque così tanto che decise di raccomandarmi per un posto allo York Retreat, avendo manifestato la mia intenzione di tornare a vivere ed esercitare in Inghilterra. «Nel marzo del 1888 presi servizio come assistente medico allo York Retreat, e quasi contemporaneamente aprii un piccolo studio ad Harrogate, che essendo una città termale mi garantiva un discreto flusso di pazienti, perlomeno sufficiente ad arrotondare il modesto stipendio da assistente medico di un ospedale psichiatrico di provincia. La mia carriera avrebbe potuto tranquillamente procedere su questi binari se un giorno non si fosse presentato nel mio studio un emissario di Lord Normanby, pari del Regno e già duca di Buckingham. Sarebbe superfluo dilungarmi troppo sul prestigio della casata Phipps, già presente negli almanacchi del peerage fin dai tempi della regina Anna. L’uomo mi disse che Lord Normanby mi richiedeva per un consulto medico di estrema importanza. Accettai senza domandarmi perché un
personaggio così importante avesse scelto proprio me. Quel giorno venni scortato in carrozza fino all’immensa tenuta di Lord Normanby, circa centocinquanta ettari di laghetti e basse colline boscose tra Harrogate e Keighley. Solo quando arrivai a una maestosa residenza neoclassica che, a quanto mi hanno detto in seguito, riproduceva un’antica villa palladiana che si può ammirare nei pressi di Vicenza, in Italia, capii che non si trattava di uno scherzo. Fu Lord Normanby in persona a ricevermi, cosa abbastanza insolita per un uomo del suo lignaggio. Mi condusse nel suo studio, un’ampia stanza dal soffitto altissimo e affrescato, per potermi parlare a quattrocchi di un caso clinico che gli stava terribilmente a cuore: sua nipote Emily. Non sapevo spiegarmi come, ma Lord Normanby era al corrente dei miei trascorsi alla scuola di Parigi e apprezzava molto le teorie di Charcot sull’origine e i possibili trattamenti dell’isteria. Dovete sapere che Emily Phipps è sempre stata una ragazza psicologicamente fragile, fin dalla primissima infanzia, e la sua anamnesi giustifica pienamente quelle che erano le condizioni del suo più recente stato di salute. – Erano? – lo interruppe Holmes. – Mi sta dicendo che… – Sì, – rispose Hedger interrompendo a sua volta Holmes – le sto dicendo che purtroppo Emily Phipps è deceduta al Bethlem Royal Hospital due giorni fa, il 18 dicembre. Si è suicidata, a quanto pare. Lo sguardo di Holmes si fece più affilato, il che denotava un già vivissimo interesse per il racconto di Hedger. – Continui pure, prego. – Come le stavo dicendo, – proseguì Hedger – la storia personale della signorina Phipps giustificava pienamente il suo stato mentale. La madre di Emily, una bellissima donna di origine italiana da cui la figlia aveva ereditato il nome, morì di parto, dando alla luce la piccola. La mia opinione professionale è che questo evento traumatico abbia in qualche modo segnato il suo destino clinico. Uso la parola destino con molta cautela e certamente non nel senso comune che solitamente gli si attribuisce: sono pur sempre uno scienziato, e il destino, per uno scienziato, non è ciò che si definisce fato, bensì un’inevitabile e logica conseguenza di una serie di accadimenti nella vita di ogni essere umano che si combinano con le predisposizioni ereditarie e caratteriali dell’individuo. Emily ha sempre avuto dei sensi di colpa per questo, anche se nessuno, stando a quanto
Lord Normanby mi ha raccontato, le ha mai fatto pesare di aver causato la morte di sua madre per il solo fatto d’essere venuta al mondo. «Se poi aggiungiamo che il padre, un caporale dell’esercito se assegnato al secondo corpo d’armata del generale Douay, è morto nella battaglia di Wissembourg nell’agosto del 1870 a soli trentadue anni, pochi mesi dopo la nascita di Emily, mi pare evidente come la ragazza sia dovuta crescere senza entrambi i genitori, seppur circondata da ogni lusso e ogni premura. Il vecchio Lord Normanby, ormai settantenne, si è preso cura di lei come fosse sua figlia, e credo che in parte lo abbia fatto perché lui stesso non ha avuto figli. La giovane nipote era tutto ciò che rimaneva della sua discendenza, ed era già promessa al marchese di Zetland. Il vecchio Normanby avrebbe voluto vedere la nascita di un erede maschio prima di morire, e non riesce a darsi pace per la morte così improvvisa e violenta della nipote. Io stesso, in qualità di medico personale della signorina Emily, non riesco a spiegarmi le ragioni che l’abbiano condotta al suicidio. – Era chiusa in un manicomio di Londra, – osservò Holmes – e per quanto ne so la vita là dentro deve essere tutt’altro che allegra. – Su questo non le posso dar torto – ammise Hedger. – Ma il fatto è che io stesso le avevo fatto visita non più di quindici giorni fa, e avevo notato dei considerevoli miglioramenti nella sua salute mentale e nel suo umore, tanto da prometterle che sarebbe stata dimessa entro un paio di mesi, con l’inizio del nuovo anno. – È stato lei a farla ricoverare, allora? – domandò a bruciapelo Holmes. – Sì, sono stato io. Ho firmato io la richiesta di internamento dieci mesi fa, per un periodo non superiore a un anno. Ma le garantisco che l’ho fatto dopo una attenta e oculata diagnosi. – Va bene, non ha bisogno di giustificarsi. Se ho ben capito, lei aveva la piena autorità sulla salute fisica e mentale della signorina Emily Phipps, e ora, come Lord Normanby, non sa darsi pace per il fatto che si sia suicidata. James Hedger si ammutolì per alcuni istanti, e nei suoi occhi vidi are uno di quegli sguardi che tradivano un malcelato senso di colpa. Come sempre, l’acume e la schiettezza del mio amico avevano colpito nel segno.
– E va bene, – ammise Hedger – non posso certo negare le mie responsabilità. È un peso che mi porterò dietro per un bel pezzo, e non è un fardello leggero, glielo assicuro. Sono stato io a far rinchiudere Emily al Bethlem Royal Hospital, e con il senno di poi sono costretto ad ammettere che è stata una scelta sbagliata. La morte di Emily è per me un fallimento professionale. – Già, è comprensibile. Immagino che Lord Normanby fosse al corrente di tutta la faccenda. – Certo che lo era. Era al corrente e mi aveva dato il suo placet per l’internamento. – Ah, allora suppongo che lei godesse della piena fiducia di Lord Normanby. Evidentemente deve avergli fatto un’ottima impressione fin da subito. Per quanto ne so, non è mai facile guadagnarsi la fiducia di un vecchio Lord inglese. – Ha ragione, ma solo in parte – rispose un po’ stizzito Hedger. – La fiducia di Lord Normanby me la sono guadagnata poco a poco, grazie alle mie capacità professionali e ai risultati che ottenevo nel trattamento dell’hysteria recurrens. Non credo di essergli piaciuto solo per il buon gusto che ho nel scegliere le cravatte. Lord Normanby è una persona molto pragmatica e non è affatto il tipo che si lascia convincere da una buona prima impressione. Ricordo ancora il primo colloquio che abbiamo avuto, di cui le accennavo poco fa: il vecchio Lord mi chiedeva in maniera accorata, quasi supplicandomi, di occuparmi della salute della nipote, ma al tempo stesso c’era nei suoi occhi un qualcosa, come dei lampi intermittenti di ammonimento e dispotica autorità che mi volevano ricordare a quali responsabilità sarei andato incontro se avessi accettato, e ancor più se non avessi fatto il mio dovere come andava fatto. – E posso chiederle come mai ha deciso di accettare un incarico che le appariva così oneroso? – Ah, per una mera questione economica, lo ammetto. Anche io sono un uomo pragmatico. Lord Normanby mi ha offerto un salario mensile quattro volte superiore a quello che percepivo come assistente medico allo York Retreat, oltre a un alloggio gratuito in un elegante appartamento della dépendance del maniero. Che altro avrei potuto fare? Occasioni del genere non capitano molte volte nella vita. E poi le confesserò che ero un po’ stanco di fare i turni all’ospedale psichiatrico, e anche di dover battagliare ogni santo giorno per
conquistare i pazienti per il piccolo studio che gestivo ad Harrogate. – Avevo? Dunque non lo ha più. – No, l’ho lasciato in mano al mio socio John Everton quando ho assunto l’incarico presso la residenza di Lord Normanby. Dovevo occuparmi a tempo pieno di Emily come psichiatra e di tutta la famiglia come medico generico. Ma temo che tra non molto dovrò ricominciare da capo, altrove. Non so quanto possa essere ancora utile dopo quel che è accaduto. E inoltre, credo che Lord Normanby mi ritenga in qualche modo responsabile della morte della nipote. Sia ben chiaro: non mi ha mai fatto alcun accenno in merito, ma tuttavia ho la percezione di una specie di segreta delusione da parte sua, che prima o poi sfocerà in aperta ostilità. E allora mi ritroverò disoccupato. – Quand’è che ha assunto l’incarico presso Lord Normanby, esattamente? – Nell'agosto del 1888. Lo ricordo perfettamente perché ho l’abitudine di tenere un diario privato. – E quand’è che Emily Phipps ha lasciato la residenza per essere ricoverata al Bethlem? – Circa dieci mesi fa, come le ho detto, nel febbraio di quest’anno. – Quindi lei ha curato personalmente la signorina Phipps per circa sette mesi, giorno più giorno meno. Posso sapere che tipo di sintomi presentava e in che cosa consistevano le cure? – Certo che può. Emily era affetta da una grave forma di hysteria recurrens dovuta a una predisposizione congenita e agli avvenimenti tragici di cui le ho parlato poc’anzi. Quest’isteria si manifestava a tratti, senza alcun preavviso, e aveva due forme espressive: in un caso scoppiava in lacrime e piangeva ininterrottamente per una decina di minuti, per poi sprofondare in un silenzio rotto solo da tremori e singhiozzi; nell’altro caso, la sua isteria si manifestava in una certa aggressività verso persone di sesso femminile, come le figlie di altri nobiluomini in visita o le ragazze della servitù. Ricordo un episodio che impressionò molto Lord Normanby: a tavola, Emily aveva cercato di infilzare più volte con una forchetta la mano di una giovane cameriera… senza riuscirci, fortunatamente. Per quanto riguarda le mie cure, esse si articolavano su due linee principali: la terapia organico-farmacologica e la terapia umanistico-ambientale.
– Ah, estremamente interessante – commentò Holmes. – Mi potrebbe spiegare in cosa consistevano queste due terapie, per favore? – Certamente – annuì Hedger. – La terapia organico-farmacologica si basava sull’assunzione di gocce di valeriana e lauroceraso, due volte al giorno, e di una dieta vegetariana con l’aggiunta di brodo di pollo, due volte alla settimana, avendo cura di evitare le carni rosse e la cacciagione, soprattutto alla brace, e i dolciumi troppo grassi o zuccherini. Quando mi stavo specializzando alla Salpêtrière ho potuto assistere più volte agli esperimenti del professor Charcot, il quale ha inequivocabilmente dimostrato come l’isteria sia di origine meramente fisiologica, ben diversa dalle altre affezioni eteree dello spirito alle quali era sempre stata associata. Oltre alla ereditarietà della malattia, però, ho potuto io stesso comprovare come l’intossicazione progressiva dovuta all’assunzione prolungata di alimenti ricchi di zuccheri e grassi animali possa generare disfunzioni dell'epigastrio, i cui miasmi infetti salgono fino alle cellule nervose del cervello, provocando il cosiddetto globo isterico. Vi sembrerà paradossale, ma la gotta e l’isteria hanno origini molto più vicine di quanto non si possa pensare. «Per quanto riguarda la terapia umanistico-ambientale, vi posso dire che essa è un mio grande vanto, poiché è una mia personalissima rielaborazione delle teorie sull’isteria fisiologica di Charcot: così come i tessuti del nostro corpo e tutto ciò che sta dentro di noi, anche tutto ciò che sta al di fuori di noi, a cominciare dall’aria, dalla luce, dagli odori e dai rumori, può avere lo stesso effetto benefico o malefico sulla salute mentale di un individuo predisposto alle crisi isteriche. Nello specifico, ho potuto riscontrare dei miglioramenti nell’umore di Emily dopo averla spostata da una camera all’altra del castello, dato che la prima aveva un’esposizione di luce non adatta e troppi scricchiolii dovuti all’età dell’impiantito, e ogni qual volta le facevo fare delle eggiate leggendole poesie ad alta voce: non immaginerete quanto I canti dell’innocenza di William Blake possano sortire un effetto addolcente, se ben recitati. Alle volte, li facevo declamare da una voce femminile, così da lenire l’aggressività di Emily verso le donne. Anche in questo caso avevo notato dei miglioramenti. Emily era una ragazza di straordinaria dolcezza quando non cadeva preda di una crisi. Holmes annuì un paio di volte con il capo. – Un bel quadretto idilliaco, non c’è che dire. Però sta di fatto che Emily Phipps è finita comunque al Bethlem Royal Hospital. Che cosa l’ha fatta decidere in
merito al suo internamento? James Hedger squadrò Sherlock Holmes. Appariva piuttosto irritato dall’ultima considerazione del mio amico, ma al tempo stesso faceva di tutto per contenere la stizza, perché in fondo sapeva che Holmes aveva espresso un’indiscutibile verità. – Il suo bon ton non è all’altezza del suo acume. A ogni modo le posso dire che secondo la mia ultima diagnosi, Emily aveva bisogno di socializzare con altre persone nella sua stessa situazione. – Con altri malati, per farla breve. – Sì, esatto. Emily è praticamente cresciuta nella tenuta di Lord Normanby, in un’atmosfera ovattata e a volte troppo scontata e cerimoniosa. Non ha mai avuto un’amica del cuore, per esempio. Credo che le mancasse un po’ di conoscenza del mondo esterno, un po’ d’esperienza esteriore per raggiungere una maggiore consapevolezza interiore. Purtroppo, la sua natura mentale non le permetteva di frequentare liberamente i salotti della buona società, e men che meno altre ragazze della sua età. Per questo ho pensato a un ricovero in un ospedale psichiatrico, per farla stare un po’ tra persone nella sua stessa condizione, in un luogo dove non si sentisse inferiore o giudicata. Inoltre, lo ammetto con un po’ di reticenza, nelle ultime crisi, Emily aveva manifestato una certa tendenza alla ninfomania, suscitando l’imbarazzo di ogni abitante di sesso maschile della residenza. – Uhm, capisco. E mi dica, come mai ha scelto proprio il Bethlem Royal Hospital? Perché, per esempio, non l’ha fatta ricoverare allo York Retreat? È l’ospedale dove lei ha lavorato, uno dei più antichi ed efficienti d’Inghilterra, e oltretutto è decisamente più vicino alla tenuta Normanby. Lì sarebbe stato molto più facile seguirla e tenerla d’occhio, non crede? Da quel ci ha detto lei doveva esserle molto affezionato. Ancora una volta James Hedger rimase senza parole, ma questa volta non sembrava stizzito o irritato. Era semplicemente rattristato, e vagava in una specie di fredda nostalgia. Era incredibile come Sherlock Holmes riuscisse a gettar luce anche sui i misteri dell’anima oltre che su quelli della realtà tangibile. – Gli ero affezionatissimo – disse Hedger. – Molto più di quanto vi possa spiegare ora. Ho dovuto a malincuore mandarla al Bethlem. La scelta
dell’ospedale non è stata mia, ma di Lord Normanby. E ho troppo rispetto per la sua perspicacia, signor Holmes, per sentirmi in dovere di spiegarle il perché. Holmes tacque, ma notai una strana espressione di compiacimento intellettuale sul suo volto: – Ma certo. Non è affatto necessario che mi spieghi il motivo. Siamo sempre nella vecchia Inghilterra, dopotutto. E se non le dispiace, vorrei are ad argomenti più pratici. Immagino sia stato Lord Normanby a chiederle di venire qui a consultarmi. – Immagina bene, è così. – E potrei domandarle in merito a cosa dovrei indagare? Da quel che mi ha raccontato si tratta di un suicidio. Devo supporre che questa tesi non la convince… – A dire il vero non mi piace, e non piace nemmeno a Lord Normanby. – Il fatto che non vi piaccia non vuol dire che debba esser falsa. Avete in mano degli elementi che possano far pensare a qualcosa di diverso? – No – rispose Hedger scuotendo il capo. – Non abbiamo in mano nessun elemento in tal senso. Il coroner ha stabilito che si tratta di suicidio dovuto ad annegamento. – Annegamento? Non nel Tamigi, spero. – No, il suo cadavere è stato rinvenuto nella prima mattina del 18 dicembre nel laghetto artificiale che si trova all’interno del piccolo parco che circonda l’ospedale. – Scotland Yard è stata informata dell’accaduto? – No, la commissione metropolitana ha ritenuto che non fosse necessario. Il suicidio è quasi all’ordine del giorno nei manicomi del nostro Paese. – La commissione metropolitana? Ah, intende dire gli undici commissari che vengono nominati dal ministro dell’interno e che hanno il compito di ispezionare gli ospedali psichiatrici e verificare che le condizioni di vita dei pazienti non siano disumane. Se ben ricordo, ciò è prescritto dal Lunacy Act del 1845, tuttora in vigore.
– Vedo che ha una buona conoscenza del diritto britannico. – Sì, è così. Ma c’è di più: di fronte a voi avete uno degli undici commissari. – Complimenti, ha fatto una bella carriera. – Devo ringraziare il mio datore di lavoro anche per questo. Lord Normanby è intimo amico di Sir Henry Matthews, il ministro dell’interno del governo Salisbury. È lui che nomina i componenti della commissione. E dato che per legge ci devono essere almeno tre dottori nella commissione, eccomi qua. Ho avuto la fortuna di conoscere Sir Henry Matthews a pranzo, e lui mi ha preso in simpatia. – Da quanto tempo fa parte della commissione? – Da quattro mesi. – Allora mi chiedo come mai lei debba rivolgersi a me per far luce su delle circostanze che non la convincono. – È molto semplice, caro signor Holmes. Non voglio sollevare polveroni, e neppure Lord Normanby lo vuole. Un’indagine ufficiale della commissione non erebbe certo inosservata. Deve sapere che… – … che la notizia della morte di Emily Phipps non è nemmeno uscita sui giornali. Per abitudine leggo sempre il Times, il Morning Post, il Daily Telegraph, la Pall Mall Gazette e The Evening Standard. Nessuno di questi quotidiani ha riportato la notizia di un suicidio al Bethlem Royal Hospital negli ultimi due giorni. – Esatto. Ho fatto di tutto perché la cosa non diventasse di pubblico dominio. E poi ci sarebbe un’ulteriore precisazione da fare. Ma per rivelarle di cosa si tratta devo poter contare sulla sua discrezione professionale. E per questo devo sapere subito se ha intenzione di accettare o meno l’incarico che le offro. – Accetto l’incarico – disse Holmes dopo una breve pausa. – Benissimo! Lord Normanby mi ha autorizzato a darle un anticipo sulla parcella. Detto questo estrasse il portafogli dalla tasca interna del panciotto e lo aprì per prendere un assegno che poi allungò a Holmes. Il mio amico gli dette
una rapida occhiata, e quindi volse per un attimo lo sguardo a Hedger prima di infilarsi l’assegno in una tasca interna della vestaglia. – Molto bene. E ora, se vuole gentilmente aggiungere le informazioni mancanti, l’ascolto. – Quando indagherà dovrà indagare sul suicidio di Georgina Valmont, e non di Emily Phipps. – Ah, i segreti non finiscono mai. – Questo è l’ultimo, glielo giuro. L’abbiamo fatta ricoverare sotto falso nome e lei capirà il perché. – Certamente. E anche in questo caso non le chiederò spiegazioni. Suppongo anche che non avrò la possibilità di esaminare il corpo. – Questo è assolutamente impossibile – sentenziò Hedger. – Il cadavere è già stato traslato nello Yorkshire e ora giace nella cappella di famiglia dei Phipps. E una eventuale esumazione è fuori discussione. – Immagino che sia stata fatta nessuna autopsia. – No. Solo il rapporto del coroner. Lo so, non è un caso limpido. Ma per questo ho scelto di rivolgermi a lei, signor Holmes. – Nessun caso è limpido, anche quelli che possono apparentemente sembrarlo. La verità non è mai un cielo assolato, ma un orizzonte opaco e nuvoloso. E l’avverto: la verità che potrei scoprire potrebbe essere più spiacevole di quella che già immagina. – Sono disposto a correre questo rischio. E poi, nulla è più spiacevole della vaghezza. – Potrebbe fornirmi una descrizione fisica della signorina Phipps, anzi della signorina Valmont? – Farò di più. Le darò una sua fotografia.
Il mio ex compagno d’università si frugò nuovamente in una tasca del panciotto e ne estrasse una piccola fotografia di circa otto pollici per quattro che porse a Holmes. – Bene. Credo di avere in mano tutti gli elementi per avviare la mia indagine. Un’ultima cosa: avrei bisogno del suo recapito qui a Londra, in caso dovessi inviarle un telegramma per comunicazioni urgenti. – Alloggio al Clifton Hotel, in Welbeck Street. – Quanto tempo ha intenzione di trattenersi qui? – Fino a Natale, credo. – Perfetto. Non ho altro da chiederle. Le farò sapere l’esito delle mie indagini quanto prima.
Capitolo 3
James Hedger si congedò da noi promettendomi che prima o poi ci saremmo fatti una bella rimpatriata goliardica in ricordo dei vecchi tempi. Quando la vettura con lui e i suoi bagagli scomparve dalla nostra vista, Sherlock Holmes ravvivò nuovamente il fuoco e si accese la pipa. Poi tornò a sedersi, e tra i primi sbuffi di fumo, un fumo odoroso di spezie e tabacco americano, mi chiese che cosa pensassi di tutta la faccenda. – Cosa vuole che le dica, – risposi – l’investigatore è lei. A una prima impressione direi che si tratta di un caso di coscienza. – Un caso di coscienza, dice? Sì, è probabile. Ma forse io lo definirei più un caso di ipocrisia. – Un caso di ipocrisia? E perché mai? – Perché in tutta questa storia, che tra l’altro James Hedger mi ha ingenuamente raccontato prima che decidessi di accettare l’incarico, c’è un sottile filo conduttore che lega tutti gli eventi, ed è il filo sdrucito dell’ipocrisia. Abbiamo due uomini: un giovane medico, la cui carriera dipende esclusivamente da un uomo più anziano e potente che si preoccupa solo di salvare la sua rispettabilità. – Bé, questa è sempre stata la regola del Regno Unito. Ma non capisco come la rispettabilità di Lord Normanby possa essere minacciata dal fatto di avere una nipote con problemi psichici. – Non è poi così difficile da capire, Watson. La gente giudica, e lo fa sempre sulla base delle apparenze. Il pregiudizio nei confronti della follia è vecchio quasi quanto il mondo e ancora oggi, nonostante il progresso della scienza, l’idea dell’essere folle è connessa a un’immagine di colpa e sporcizia morale. Basti pensare che fino a sessanta o settant’anni fa nei manicomi ci finivano indistintamente i criminali, i poveri e i pazzi, come se fossero una cosa sola. Le nuove leggi hanno ovviato a un simile scempio, ma per quanto possano essere vincolanti, le leggi non possono estirpare i pregiudizi dalla testa della gente. E questo lo sa anche Lord Normanby che, per quanto possa essere affezionato alla
nipote, preferisce che la sua immagine non venga associata a quella di una donna malata di mente. – Non posso darle torto, Holmes. Mi chiedevo anche come mai ha deciso di accettare l’incarico. – Ah, la risposta è quanto mai banale, Watson: ho accettato perché non posso mai fare a meno di scoprire la verità. E poi, se non avessi accettato, ora non avrei in tasca un assegno da cento sterline. – Cento sterline? – trasalii. – È una bella somma per essere solo un anticipo. – Sì, infatti. Equivale a poco più di quello che una governante guadagna in due anni. Non che io sia particolarmente attaccato al denaro, ma sa, i soldi fanno sempre comodo. – Ah, non lo venga a dire a me. Potrei vedere la fotografia di Emily Phipps? Sono piuttosto curioso di vedere il suo aspetto. Immagino che dovesse essere una bella ragazza. – Giudichi lei stesso – disse Holmes porgendomi la fotografia, che mi trattenni a osservare per un paio di minuti. Era un ritratto a figura intera di una ragazza non molto alta, dal fisico esile, quasi gracile, con dei lunghi capelli mossi color nero corvino, di una lucentezza quasi metallica. I delicati tratti mediterranei si addolcivano in un ovale allungato del volto e nella carnagione non troppo scura. Anche nel bianco e nero sbiadito della vecchia fotografia la sua bellezza risaltava come fosse vivissima. – Come mai ha voluto sapere che aspetto avesse? In fondo non sta indagando sulla sua scomparsa, ma sulla morte. – Bé, visto che mi è stato impossibile vedere il cadavere, devo comunque avere un’idea di come fosse, nel caso dovessi imbattermi in eventuali tracce come capelli o frammenti di pelle. E poi mi interessava sapere che numero di scarpe portava. A giudicare da quello che vedo nella fotografia direi un cinque e mezzo. Stasera sul tardi farò una visitina non ufficiale al manicomio di Bethlem per vedere se ci sono impronte interessanti intorno al laghetto dove è stata ritrovato il corpo di Emily Phipps. La notte tra il 17 e il 18 ha piovuto abbondantemente, e poi il tempo è rimasto asciutto per due giorni. Se sono fortunato, potrò trovare
qualcosa di interessante. Ah, non è necessario che mi accompagni, almeno in questa prima visita non ufficiale. – Se parla di una prima visita non ufficiale deduco che lei abbia intenzione di farne una seconda ufficiale. – Ottima deduzione, Watson. Certamente sì. Ci sono cose che si possono scoprire di nascosto e altre alla luce del sole. Ma ora non vorrei farle fare troppo tardi all’appuntamento con sua moglie. Sono quasi le sei e mezza. Le chiedo solo un’ultima cortesia prima di andarsene. Potrebbe gentilmente armi il volume lettera B dell’Enciclopedia Britannica che sta sulla scaffalatura alla sua destra? Mi alzai e presi il volume che Holmes voleva. Lui lo sfogliò fino ad arrivare alla voce Bethlem ROYAL HOSPITAL, LONDRA e cominciò a leggere a voce alta:
“Il Bethlem Royal Hospital viene fondato nel 1247, durante il regno di Enrico III, con sede nel quartiere di Bishopgate. Il già sceriffo e consigliere della gilda di Londra, Simon FitzMary, dona dei terreni su cui l’arcivescovo eletto di Betlemme, Goffredo De' Prefetti, decide di costruire un ricovero per i crociati meno abbienti diretti in Terra Santa di modo che possano essere riforniti di viveri, armi e armature. Il ricovero rimane sotto la tutela della Confraternita della Casa di Betlemme fino al 1375, quando re Edoardo III lo requisisce con la forza per farlo are sotto il diretto controllo della Corona. All’inizio del XV secolo risale la conversione a manicomio, ed è in questo periodo che l’ospedale si guadagna il soprannome di Bedlam, che significa letteralmente “gabbia di matti”. Nel 1547 re Enrico VIII lo lascia alla custodia della Città di Londra, alla quale si aggiungerà, nel 1600, il patronato della prigione di Bridewell. Il diciassettesimo secolo non è un periodo felicissimo per l’ospedale, per via della carenza di medicine e delle pessime condizioni igieniche. Nella prima metà del secolo si mettono in scena drammi e commedie all’interno dell’ospedale, tra cui merita di essere ricordato La baldracca onesta di Thomas Dekker. Ripetuti sono i casi di maltrattamento e malnutrizione dei pazienti, un disordinato ammasso di criminali, poveretti e lunatici stipati in celle fatiscenti. Nel 1676 si costruisce una nuova sede a Moorfields, più spaziosa e attrezzata. Ciononostante, il XVIII secolo non è più felice né umano del precedente, poiché ai maltrattamenti si aggiungono le visite guidate ai malati di mente, data la crescente e morbosa
curiosità della gente verso i “pazzi”. Alcuni pazienti illustri di questo periodo sono i letterati Alexander Pope e Jonathan Swift, e il pittore William Hogarth che nel 1733 si fa volontariamente rinchiudere per alcuni giorni per dipingere un episodio della Carriera di un libertino. Va menzionato anche il caso di Hannah Snell, una paziente del 1791 che aveva lavorato come mozzo sulle navi per molti anni, che vestiva da uomo ed era convita di essere un uomo. Nel 1812 si inizia a costruire una nuova sede molto più salubre che apre i battenti nel 1815 con il trasferimento di tutti i lungodegenti nell’edificio neoclassico che si può vedere tuttora a St. Georgès Fields. Una curiosità è che sullo stesso terreno aveva operato per diversi decenni la famosa locanda e centro termale The Dog and Duck, poi chiuso per immoralità nel 1796. Nel 1816 si avvia un’inchiesta parlamentare per maltrattamenti. Nello stesso anno si completa la costruzione dei due blocchi criminali, i cui ospiti vengono poi definitivamente trasferiti a Brooor nel 1864. L’attuale sede di St. Georgès Fields può ospitare fino a 300 persone.”
Com’ebbe terminato di leggere, Holmes mi porse il volume con un delizioso sorrisetto stampato sulla bocca. Io riposi il volume al suo posto e lui mi disse: – È sempre meglio essere informati. Ora può andare, Watson. Ah, non dimentichi la copia del Beeton’s Christmas Annual e l’opuscolo del dottor Wotton.
Capitolo 4
Il giorno seguente stavo tranquillamente pranzando con mia moglie quando il postino mi recapitò un telegramma da parte di Holmes:
“Possibili interessantissimi sviluppi nell’indagine. Se può si faccia trovare oggi pomeriggio alle tre davanti all’ingresso principale del Bethlem Royal Hospital, Lambeth Road.”
Chiusi il foglietto del telegramma e lo posai sulla tovaglia. Poi mi tagliai un pezzo di bistecca e lo addentai, masticando velocemente. A mia moglie Mary non sfuggì il mio stato d’eccitazione intellettuale. – Se proprio devi andare, vai. – Mah… oggi pomeriggio avrei un paio di visite da fare. – Ma potresti sempre spostarle dopo le sei. So benissimo quanto tu non possa fare a meno delle avventure assieme al tuo amico Sherlock Holmes. Mia moglie Mary mi conosceva fin troppo bene, nonostante fossimo sposati da poco più di otto mesi, ed era una donna fin troppo comprensiva. In effetti, le indagini di Sherlock Holmes erano l’unica cosa che rompeva la monotonia della mia vita di borghese della classe media. Alle due e un quarto saltai su una vettura a Paddington che dopo aver attraversato i quartieri di Kensington e St. James’s e percorso il ponte di Westminster mi lasciò all’incrocio tra Lambeth Road e Kennington Road. Camminai sul marciapiede per altre duecento iarde, seguendo una lunga cancellata e lasciandomi dietro un gruppetto di infreddoliti suonatori dell’Esercito della salvezza che eseguivano una di quelle melliflue canzonette natalizie atte ad aprire il cuore e il portafoglio dei anti. Ad attendermi davanti al grande cancello d’ingresso dell’ospedale c’era l’inconfondibile sagoma di Sherlock Holmes, che indossava un pesante cappotto
Inverness e l’immancabile cappellino a due punte, da cacciatore di cervi. Mi salutò calorosamente, come sempre, e il suo gesto servì a riscaldarmi nell’aria pungente. Ci avviammo a piedi sul vialetto verso l’ospedale, che si ergeva davanti a noi in tutta la sua imponenza. Era un edificio di quattro piani, in stile neoclassico, con una facciata punteggiata da finestre e lunga più o meno un mezzo miglio, al cui centro troneggiava un colonnato con timpano e architrave molto simile a quello del British Museum. Sopra il timpano, l’edificio si allungava in una specie di collo esagonale che culminava in una cupoletta a spicchi, anch’essa esagonale e sormontata da una sottile lanterna. Una volta giunti all’ingresso dell’edificio, proprio sotto il colonnato, un usciere ci chiese chi fossimo. – Sono Sherlock Holmes – rispose prontamente il mio amico. – E questo è il mio socio, dottor Watson. Siamo qui per la morte di Georgina Valmont. L’usciere sembrò impallidire e corse subito a chiamare un responsabile dell’ospedale, lasciandoci in attesa nell’atrio deserto e silenzioso. Affissi alle pareti notai due grandi ritratti di gentiluomini in costume medievale, che con ogni probabilità dovevano essere Simon FitzMary e Goffredo De' Prefetti. Poco dopo vedemmo ritornare l’usciere accompagnato da un uomo sulla quarantina, di media statura, lievemente stempiato e straordinariamente abbronzato. Un’altra cosa che non sarebbe potuta are inosservata era che zoppicava vistosamente, tanto da dover aiutarsi con un bastone. Doveva avere la gamba destra piuttosto malridotta. – Sono il dottor Ernest Huxley – disse l’uomo. – In che cosa posso esservi utile? – Stiamo svolgendo delle indagini sulla morte di Georgina Valmont – rispose Holmes. – Vorremo dare un’occhiata all'interno per chiarirne meglio le circostanze. – Chiarirne meglio le circostanze? Il coroner ha già chiarito tutto, mi pare, e anche la commissione metropolitana non ha ritenuto di dover svolgere ulteriori accertamenti. – Questo lo so perfettamente, – replicò Holmes – ma la famiglia della ragazza, unitamente a un componente della commissione, mi hanno ufficialmente chiesto di occuparmi del caso. Si tratta solo di fare un’indagine supplementare e ricostruire con maggior precisione le circostanze del decesso. Il rapporto del
coroner è piuttosto vago, mi pare. Non credo che potremmo crearvi molto disturbo. Huxley non rispose subito e ci squadrò con un’espressione di diffidenza. – Io sono solo il vice direttore. Dovrei chiedere l’autorizzazione al dottor Robert Percy Smith, il direttore titolare. – Allora gliela chieda quanto prima – rispose fermamente Holmes. Huxley ci scoccò un’occhiataccia che avrebbe voluto sconfinare in qualcosa di molto più aggressivo, ma si limitò a girare sui tacchi e dire: – Seguitemi, prego. Fummo condotti nell’ufficio del dottor Robert Percy Smith, il quale si dimostrò molto più cordiale del collega Huxley e ci concesse tutta la disponibilità del caso. Ci assegnò come accompagnatore un giovane ufficiale medico, Theophilus Bulkeley, che era di turno la notte tra il 17 e 18 dicembre. Era un uomo sui venticinque anni, alto e magro, con languidi occhi azzurri e capelli mossi di colore castano che incorniciavano il viso quasi imberbe. La persona di Bulkeley si dimostrò molto più amabile di quella di Huxley, che si allontanò da noi con la sua andatura penosamente claudicante. – Bene – disse Holmes. – Possiamo cominciare col vedere la scheda di ricovero di Georgina Valmont. Bulkeley ci condusse nella stanza dei dottori, dove si trovava anche l’archivio. Era un locale di circa sei iarde per otto, abbastanza confortevole e notevolmente più riscaldato rispetto all’atrio e ai corridoi. Una stufetta a carbone diffondeva un bel tepore. C’erano tre scrivanie vuote, disposte su ogni lato della stanza, eccezion fatta per la parete dove si trovava la porta d’ingresso. Accanto a essa, incassato in una grande nicchia, stava il mobile-schedario. Bulkeley aprì il cassettino scorrevole contrassegnato dalla lettera V ed estrasse una sottile cartellina piegata in due. Poi la posò su una delle scrivanie. Holmes si sedette e cominciò a leggerla con attenzione:
Nome del paziente: Georgina Valmont Età: anni 19
Data di ammissione: 18 febbraio 1889 Precedente dimora: Harrogate, Yorkshire Precedente occupazione: nessuna Stato civile: nubile Persuasione religiosa: Chiesa Anglicana d’Inghilterra Stato generale di salute: discreto Grado di istruzione: buono Età riportata dei primi sintomi di insanità mentale: 11 anni Data riportata dell’ultima crisi isterica prima del ricovero: 9 gennaio 1889 Medico o familiare richiedente il ricovero: dottor James Hedger, specialista in malattie nervose Durata richiesta del ricovero: 12 mesi Ricoveri precedenti: no Certificato medico: allegato alla presente scheda Anamnesi clinica del paziente e storia familiare: Madre deceduta al momento del parto. Padre deceduto nella guerra franco-prussiana. La paziente, stando a quanto riportato, alterna momenti di catalettico silenzio a esplosioni di collera improvvise. Natura dei sintomi e delle crisi isteriche: Grida, pianto continuo, aumento disordinato della verbosità, aggressività nei confronti delle persone di sesso femminile. Nessuna allucinazione dei cinque sensi. Nessuna tendenza suicida. In alcuni casi la forma isterica si traduce in atteggiamenti ninfomani. Terapia farmacologica consigliata: Gocce di valeriana, infusi di camomilla, dieta priva di carni rosse e cacciagione. Bagno caldo due volte alla settimana. Attività extra terapeutiche: danza, spiccata attitudine al disegno.
Attitudine alla socializzazione: scarsa Personale responsabile in degenza: infermiere capo Samuel Lockhart”.
Seguiva poi la cronistoria della permanenza di Georgina Valmont nell’ospedale, con le indicazioni delle varie attività e altri fatti più o meno rilevanti. Il tutto si interrompeva bruscamente il giorno 18 dicembre. Una fotografia della ragazza, una copia esatta di quella che Hedger aveva dato a Holmes, era attaccata a un lato della cartella. Notai anche che questa era un modulo prestampato, con l’aggiunta a penna delle informazioni specifiche sul singolo internato. Anche Holmes sembrava molto interessato all’aspetto della scheda, e la stava esaminando con la sua lente. Lo vidi osservare con particolare attenzione le parti scritte a penna e poi annuire tra sé e sé. A un certo punto, chiese di poter vedere un’altra scheda, una qualsiasi. Bulkeley gli porse un’altra cartella presa a caso dal cassetto già aperto, e Holmes la ò al setaccio sotto la lente. Poi tornò a controllare la scheda di Georgina Valmont, soffermandosi in particolare sulla data di ammissione all’ospedale, e terminò con un’altra scrupolosa osservazione del certificato medico redatto da James Hedger. – Chi è che si occupa di compilare le schede dei pazienti? – domandò a Bulkeley. – Il dottor Ernest Huxley – rispose questi. – E le schede vengono compilate il giorno stesso del ricovero? – Di norma dovrebbe essere così, ma in pratica può are anche qualche giorno. L’unica persona autorizzata a compilare le schede di ricovero è lui, che a volte è piuttosto indaffarato. Il direttore titolare si occupa dell’amministrazione generale assieme a un economo, e noi ufficiali medici possiamo solo redigere dei brevissimi bollettini di terapia e osservazione del paziente che poi confluiscono nella scheda di ricovero. – Capisco. Lei quindi non saprebbe dire con esattezza il giorno in cui un paziente viene ammesso in ospedale. – No, sarebbe quasi impossibile, se dovessi basarmi su ricordi personali o su quello che ho visto. Qui entra ed esce gente quasi tutti i giorni. Attualmente
abbiamo duecentoquattro ricoverati. Quando devo sapere la data di accettazione di un paziente vado a consultare la scheda, previa autorizzazione del dottor Huxley. – Ah, bene. Credo che dovremo fare una chiacchierata con il dottor Huxley, ma non ora. Quand’è l’ultima volta che ha visto la signorina Valmont? – Più o meno a fine aprile, se ricordo bene. – Adesso mi piacerebbe vedere la stanza dove dormiva, se non le dispiace. – Niente affatto – rispose Bulkeley, rimettendo a posto le schede prima di accompagnarci fuori dalla stanza dei dottori. Percorremmo nuovamente l’atrio, sotto lo sguardo incuriosito di alcuni inservienti che stavano accompagnando i pazienti ai bagni caldi o alla sala di lettura, secondo quanto ci precisò Bulkeley. – Oggigiorno non è più come cinquant’anni fa – disse. – La maggior parte dei nostri degenti viene dalla media e alta borghesia, e non ha mai commesso reati in vita sua. Osservai quei pochi internati che ci avano accanto, e in effetti Bulkeley aveva detto la verità: gli uomini e le donne che vedevo avevano lo stesso abbigliamento e lo stesso aspetto di un qualsiasi ante in cui ci si poteva imbattere eggiando per lo Strand o in Hyde Park. Erano dei normalissimi comuni cittadini. Ma a una più attenta osservazione non mi sfuggì un qualcosa di strano e inquietante nei loro sguardi, come se certi pensieri stessero vagando per conto proprio senza renderne conto alla coscienza e al corpo. Una donna, in particolare, mi colpì: aveva un volto con tratti decisi e regolari, ma al tempo stesso sembrava quasi deforme, di una deformità inusuale e poco palese. La curvatura delle sopracciglia era quella di un arco cadente, e gli occhi troppo grandi e sporgenti sembravano voler gridare il silenzio di un dolore muto. Quando oltreammo le cucine venni investito da un odore acre e dolciastro che mi fece pensare a una zuppa di cavoli. La porta era semiaperta, e all’interno potei scorgere quattro cuochi indaffarati attorno a enormi calderoni fumanti. Poco più avanti, svoltammo in un andito semibuio, non illuminato dalle lampade a gas, e notai una porta foderata di una stoffa molto spessa. – La stanza imbottita – disse Bulkeley – per i casi più estremi di isteria autolesionista.
E poi accelerò il o. Salimmo quattro rampe di scale fino al secondo piano, dove una copia esatta dell’andito al piano terreno si apriva su una galleria che ospitava non so quante camere. – Il padiglione femminile – proseguì Bulkeley. – A quest’ora la maggior parte delle pazienti fanno il riposino pomeridiano. Chi non dorme va a farsi un bagno caldo o sta in sala di lettura.
Capitolo 5
La galleria aveva l’aspetto di un lunghissimo ed elegante vagone ferroviario. Una guida rosso scuro correva sul pavimento fino alla parete di fondo. Sul lato destro, c’era una fila di finestroni arcuati senza tende che lasciavano filtrare tutta la luce del giorno anche con il cielo coperto. Il soffitto, piuttosto alto, era con volta a botte e rivestito di un impiantito di legno pitturato in grigio chiaro. Sul lato sinistro, c’erano le porte delle stanze, distanziate di circa due iarde l’una dall’altra. Alcune infermiere andavano su e giù per il corridoio, e un paio si erano fermate a guardarci. Bulkeley le salutò con un cenno del capo e poi ci guidò fino a metà galleria, fermandosi davanti alla porta contrassegnata dal numero 27. – La stanza della signorina Valmont – disse mentre faceva girare la chiave nella serratura. Quando spalancò la porta ci apparve una cameretta piuttosto piccola, con una sola finestrella quadrata protetta da una grata. Oltre a un lettino privo di lenzuola e con il materasso arrotolato c’era solo un tavolinetto con una sedia. Le pareti, di un bianco molto sbiadito, erano spoglie eccezion fatta per un crocifisso di legno appeso al muro a un’altezza fuori dalla portata di qualsiasi braccio teso. Entrammo, e Sherlock Holmes si mise a esaminare accuratamente la stanza con la lente, scrutando palmo a palmo il pavimento e gli angoli. Poi aprì il cassettino del tavolo, dove c’erano alcuni disegni a pastello su carta. – Li ha fatti la signorina Valmont – intervenne puntualmente Bulkeley. – Disegnare era uno dei suoi atempi preferiti. Di norma questi fogli non avrebbero dovuto essere qui, perché i pazienti con tendenze suicide li appallottolano e li inghiottono per soffocarsi. Ma la signorina Valmont non era considerata una paziente con tendenze suicide. Come potete vedere aveva una predilezione per le nature morte. Io e Holmes osservammo i disegni; la nostra attenzione si soffermò in particolare su uno di essi. Era un bouquet di fiori vari e colorati, stilizzati un po’ alla maniera stencil. Ricordava una di quelle delicate miniature giapponesi che si potevano vedere raffigurate sulle stampe da uno scellino in vendita al mercatino
di Portobello Road. – Certo, non aveva tendenze suicide, – arguì Holmes – ma pare che si sia tolta la vita. È un’incongruenza non da poco. – Secondo il mio modestissimo parere la diagnosi sulla sua personalità era sbagliata – affermò Bulkeley. – Eh già, può capitare a tutti di sbagliare una diagnosi. Ma mi dica: non vedo guardaroba per i vestiti né armadietti per gli effetti personali in questa stanza. Come mai? – Non ne vedrebbe in nessuna delle stanze. Ogni sera, quando i pazienti si coricano, un inserviente li spoglia, li riveste con la camicia da notte e fa un fagotto dei vestiti che poi ripone nelle apposite cassettiere che si trovano fuori, nel corridoio. Questo per evitare che i pazienti si feriscano con degli oggetti che hanno parti taglienti, come le cinture, gli occhiali o le forcine per capelli. Naturalmente le donne vengono spogliate da inservienti di sesso femminile e gli uomini da inservienti di sesso maschile. – Naturalmente. E visto che lei era di turno la mattina del 18 dicembre, mi saprebbe dire com’era vestita la signorina Valmont quando il suo corpo è stato rinvenuto nel laghetto artificiale del parco, che tra l’altro si trova dalla parte opposta dell’edificio, oltre il padiglione maschile? – Se ben ricordo, indossava la camicia da notte e le babbucce di lana dell’ospedale, ma la cosa curiosa è che indossava un capotto da uomo. – Un cappotto da uomo? E dove l’avrebbe preso? – Per quanto ne so, era un cappotto che indossano gli infermieri dell’ospedale. – Era mi dice? – Sì, tutti i vestiti che la signorina Valmont aveva indosso sono stati bruciati dopo la visita del coroner. – Ed è una procedura normale, questa? – A dire il vero non tanto. Di solito i vestiti e gli effetti personali di un paziente
deceduto si riconsegnano ai familiari, ma in questo caso c’è stata un’esplicita richiesta per farli bruciare. – E da parte di chi? – Da parte del dottor James Hedger, mi pare. Così mi è stato detto. – Ah, molto interessante. Suppongo anche che ogni sera le porte delle camere dei pazienti vengano chiuse a chiave. – Sì, esatto, lo facciamo per ragioni di sicurezza. – Capisco. Per tenere a bada i pazienti ci sono due modi: o si sedano con degli oppiacei o si costringono fisicamente. – Bé, questo può accadere, ma le assicuro che non è la regola. Cerchiamo di limitare al massimo l’uso dei sedativi, e non usiamo quasi più i sistemi di restrizione meccanica. Non siamo carcerieri. Holmes si concesse qualche attimo di silenziosa riflessione, e poi gli chiese: – E lei ha una sua teoria in merito all’accaduto? Non si è chiesto come Georgina Valmont sia potuta uscire da una stanza chiusa a chiave, percorrere l’intero edificio fino all’altro padiglione, uscire nel parco e finire annegata nel laghetto? Bulkeley apparve disorientato e fece spallucce: – Non sarebbe affar mio – disse. – Se il coroner e la commissione metropolitana non si sono posti delle domande non vedo perché dovrei farlo io. Mi dia pure del menefreghista, ma il mio lavoro è quello di redigere rapporti sull’efficienza del personale e sull’igiene dei locali dove soggiornano i pazienti, e non scoprire perché o come qualcuno di loro se ne è andato a so di notte. – Lei potrà anche considerarsi un menefreghista ma di certo mi sembra un giovanotto sveglio – rispose Holmes. – Per cui, mi stupirei se non si fosse fatto un’idea sua, tutto qui. – In effetti, non vi posso negare che ho una mia teoria in merito, perlomeno sul possibile percorso della signorina Valmont. – E allora ce la dica, Bulkeley. Siamo tutt’orecchi.
– Farò di meglio. Ve la illustrerò sul campo. Se volete seguirmi…
Capitolo 6
Uscimmo dalla cameretta e Bulkeley richiuse a chiave la porta. Poi ci condusse in quasi in fondo alla galleria, dalla parte opposta rispetto a quella da dove eravamo entrati. Lì, il corridoio si congiungeva con un’estensione trasversale dell’edificio che si allungava nel prato circostante. Scendemmo poche rampe di scale e ci ritrovammo al piano terreno di quel piccolo fabbricato che, stando a quanto ci rivelò Bulkeley, ospitava la stanza degli incurabili. Percorrendo il prato del cortile interno, dove i pazienti potevano eggiare sotto sorveglianza, notai un uomo che camminava molto lentamente, sorretto per un braccio da un inserviente. A giudicare dal suo aspetto non doveva avere più di quarant’anni. A un certo punto si bloccò davanti a una specie di lapide incavata nel muro in cui si intravedeva qualcosa di simile a un bassorilievo. Avvicinandoci potei distinguerlo meglio: si trattava di un disegno scolpito che raffigurava un cane mentre stringeva tra le fauci il collo di un’anatra morta. Bulkeley, più informato e preciso di un professore, ci spiegò che quella lapide era l’ultima traccia di ciò che sorgeva al posto del Bethlem Hospital prima che questo fosse costruito: era un’antica locanda risalente alla rivoluzione del diciassettesimo secolo che aveva ospitato i soldati di Cromwell e che nel secolo successivo era stata convertita in un centro termale e di svago. Uno dei atempi preferiti dei soldati puritani era appunto quello di rinchiudere un cane e un’anatra in un recinto e scommettere per quanto tempo il cane avrebbe inseguito l’anatra prima di azzannarla e ucciderla. Mi ricordai di ciò che Holmes aveva letto nell’Enciclopedia Britannica il giorno prima. Quando ammo accanto alla lapide l’uomo si voltò verso di noi, rivelando un viso da marinaio, molto segnato dal sole e dal vento. Notai anche delle cicatrici sulle tempie e sugli zigomi, alcune ecchimosi e delle bruciature che lo facevano sembrare un selvaggio disgraziato. Non appena facemmo per andarcene il suo sguardo si riempì di un’infinita tristezza, come se fosse sul punto di piangere e volesse renderci partecipi del suo dolore. Ci fissò per alcuni secondi e poi si volse nuovamente alla lapide, allungando le braccia per accarezzarla. – Un pover’uomo – ci disse Bulkeley a bassa voce. – Mi pare si chiami John Spedner. È un ex militare che soffre di allucinazioni e manie di persecuzione. Credo sia impazzito dopo aver dilapidato una piccola fortuna. Ha un’ossessione
per quel bassorilievo del cane e dell’anatra, e Dio solo sa il perché. Vidi Holmes piuttosto interessato alla spiegazione sommaria di Bulkeley e capii che stava già elucubrando una sua personale teoria. In effetti anche io non riuscivo a spiegarmi come mai quell'uomo si trovasse nel cortile riservato alle donne. Riprendemmo quindi il nostro cammino verso il lato opposto del grande edificio centrale. Il cortile di eggio maschile e quello femminile erano divisi da un muretto alto circa sei piedi che correva dalla parete dell’edificio fino alla barriera esterna. C’era un unico cancelletto attraverso cui si poteva are da un cortile all’altro e, come potemmo constatare, non era mai chiuso a chiave. Il cortile maschile aveva meno alberi e meno panchine di quello femminile, anche se appariva leggermente più spazioso. Il prato era più o meno lo stesso: un’erbetta rada e rinsecchita che tendeva a un color verdastro. Proseguimmo fino all’estremità dell’edificio, dove si trovava il laghetto artificiale. Devo confessare che a questo punto mi lasciai distrarre dall’ambiente circostante. Dietro di noi, non molto lontano dal grande edificio centrale, sorgeva una palazzina più piccola dall’aspetto piuttosto sinistro: si alzava per tre piani in muratura di mattoni grigi, con tutte le finestre protette da sbarre ormai arrugginite; tutta la palazzina sembrava dismessa e abbandonata. Doveva essere l’ex blocco criminale che ospitava i malati di mente poi trasferiti a Brooor nel 1864. Oltre la palazzina e il muro di cinta, a meno di mezzo miglio di distanza, notai un cantiere dove fervevano dei lavori di costruzione. Anche da dove mi trovavo era possibile distinguere chiaramente un enorme cartello con la scritta St. Georgès Fields Mansions. Erano delle nuove unità abitative che a Londra stavano spuntando come funghi, vista la sempre crescente popolazione. Quando tornai a concentrarmi su ciò che stava accadendo, vidi Holmes che si aggirava attorno al laghetto di acque scure, esaminando il terreno circostante palmo a palmo. Poi, con l’aiuto di Bulkeley, saggiò il fondo del laghetto con una rudimentale asta ricavata da un ramo d’albero. Infine, dopo aver misurato a i la distanza tra l’edificio centrale e la palazzina dell’ex blocco criminale, si trattenne per qualche minuto a osservare una finestrella della palazzina e un finestrone dell’edificio. Conoscendolo piuttosto bene non ebbi difficoltà a rendermi conto che stava tracciando delle traiettorie ideali tra i due punti. Tornammo indietro appena in tempo per ripararci dalla pioggia che aveva cominciato a cadere, una pioggerella leggera ma fitta. ando nuovamente all’interno dell’estensione dell’edificio, Holmes esaminò accuratamente tutti gli
scalini delle rampe, e dalla sua espressione mi parve che fosse piuttosto soddisfatto di ciò che poteva dedurne. A un tratto, indicò una porta chiusa e chiese a Bulkeley se quella fosse la stanza degli incurabili. – Sì, è questa – confermò l’ufficiale medico. – Lei permette che gli diamo un’occhiata? – Nulla in contrario, dato che è vuota. Ma non so se è chiusa a chiave. Se così fosse, dovremmo chiamare l’infermiere capo Lockhart per farci aprire. Holmes non si fece pregare e, com’era nella sua natura impetuosa al limite della prepotenza, afferrò il pomello e lo fece girare, spingendo vero l’interno la porta che si aprì di scatto. – Siamo fortunati – disse sorridendo. Entrammo così nella stanza degli incurabili, e devo sinceramente ammettere che per un nome così caustico mi sarei aspettato un ambiente molto più squallido e tetro. Si trattava invece di un locale mediamente spazioso, arredato con buon gusto. C’erano sei letti disposti in due opposte file di tre, e accanto a ciascun letto stava un sedia per un eventuale parente in visita. Le pareti erano di color celestino, e il pavimento era ricoperto da una moquette a motivi regimental. Dal soffitto pendeva una specie di lampadario in tubicini di ferro che terminava con un’apertura a quattro punte, e su ciascuna di esse era agganciato un globo per l’illuminazione a gas. Altri tubi, un po’ più spessi di quelli del lampadario, partivano dal centro del soffitto e correvano esternamente alla muratura fino a raggiungere due piccoli termosifoni attaccati alle due pareti opposte. Dalla temperatura rigida che c’era nella stanza dedussi che in quel momento nei tubi non doveva scorrere acqua calda. La debole luce del tardo pomeriggio invernale poteva filtrare da ambo i lati attraverso sei finestre con le immancabili sbarre, il cui profilo era addolcito da una leggera forma arcuata. – Non abbiamo pazienti ritenuti incurabili da più di un mese. È una buona notizia, mi pare. – Ah sì, non c’è dubbio – risposi. Holmes rimase silenzioso, invece, e non tardai a capire il perché. Fissava uno degli armadietti addossati alla parete, ai lati della porta. Si avvicinò a essi e mi
invitò a seguirlo. Senza dirmi nulla, mi indicò uno dei disegni stampati e laccati di una delle ante. Lo osservai con attenzione: era una composizione floreale a vari colori in cui spiccava il verde smeraldo delle foglioline e il bianco immacolato di piccoli gigli. Aveva un che dell’Estremo Oriente. Holmes mi interrogò con lo sguardo, come a volermi dire quel disegno non le ricorda qualcosa che ha già visto, Watson? Un lampo di intuizione mi attraversò la mente, e tutto fu chiaro. – Mi dica, Bulkeley, – domandò Holmes – che lei sappia, Georgina Valmont è mai stata degente in questa stanza? Bulkeley rifletté per alcuni istanti prima di rispondere: – Che io sappia no, non mi pare proprio. Dovrei controllare nell’archivio delle degenze, ma dacché nella scheda generale della signorina Valmont non c’è alcuna annotazione in merito, deduco che non è mai stata tenuta nella stanza degli incurabili. Come mai me lo chiede? – Ah nulla, nulla. Semplice curiosità. Ora, se non le dispiace, vorrei poter parlare con l’infermiere capo Lockhart. Dovrebbe spiegarmi alcune cose. – In questo caso dobbiamo ritornare al padiglione maschile. Ma sarà meglio are dall’interno. Bulkeley ci guidò un’altra volta attraverso gli anditi del Bethlem Hospital, facendoci scoprire ambienti che non avevamo visto prima. ammo per un salone che un tempo doveva essere stato un refettorio, riadattato a sala da ballo, con tanto di palco per un’orchestrina formata da inservienti dell’ospedale e con un grande abete addobbato con nastrini e palline colorate. Evidentemente, anche i malati di mente avevano il diritto di festeggiare il Natale. Il padiglione maschile si rivelò una copia quasi perfetta di quello femminile, forse un po’ meno curato nell’arredamento del corridoio. C’erano infatti meno suppellettili, quasi nessuna pianta e nessun quadro appeso alle pareti. Bulkeley ci indicò la guardiola dell’infermiere capo a metà galleria, accanto a una stanza che era adibita a magazzino per i medicinali. La porta era aperta, e dentro intravidi due uomini che discutevano animatamente. Da quelle poche parole che riuscii a cogliere mi parve di capire che uno dei due si stesse lamentando per un inspiegabile ammanco di farmaci. – Il farmacista, dottor Purcell, e l’economo, signor Smithers – commentò
laconicamente Bulkeley. ammo dalle sue parole a quelle di un’altra persona che stava all’interno della guardiola, un prete sulla cinquantina: – …E allora per quei pazienti che vogliono assistere alla funzione serale del ventiquattro li conduca in cappella per le sette, grazie. Come ebbe terminato di parlare, il prete sgusciò fuori dalla guardiola e si allontanò dopo averci salutato con un rispettoso inchino. – Il reverendo Vaughan, il nostro cappellano – spiegò Bulkeley. – E questo è il signor Samuel Lockhart, infermiere capo. Ci trovammo di fronte a un uomo dalla mole imponente, non eccessivamente alto ma piuttosto massiccio e pesante, a occhio e croce avrei detto sulle duecento libbre. Poteva avere quarantacinque anni, e mostrava quel volto rubizzo tipico di chi fa uso di un eccessivo consumo di alcolici. Le guance un po’ flaccide erano incorniciate da una barbetta incolta e grigiastra che se non altro armonizzava con il colore dei suoi radi capelli. Ci rispose con un tono ben poco amichevole. – Sì? Che cosa volete? – Signor Lockhart, il signor Sherlock Holmes vorrebbe solo farle alcune domande. Si tratta della morte della signorina Valmont. Lockhart ci squadrò con aria diffidente e seccata: – Non vorrete dare la colpa a me. Di problemi ne ho già abbastanza. Bulkeley fece per rispondergli, ma Holmes intervenne con fermezza. – Nessuno ha intenzione di attribuirle delle colpe, a meno che lei già non si senta responsabile di qualcosa. Lockhart scoccò un’occhiataccia a Holmes, ma nel suo astio indovinai una specie di timorosa agitazione. – Vediamo di far presto, però. Ho un bel po’ di cose da fare. Quest’ultima affermazione mi parve fuori luogo, o perlomeno in contrasto con la figura di Lockhart: sprofondata nella sedia e con una scatola di sigari sul
tavolinetto davanti a lui che si affrettò a nascondere sotto una pila di scartoffie. Bulkeley uscì dalla guardiola perché il dottor Purcell voleva parlargli, e così rimanemmo soli con l’infermiere capo. – Mi saprebbe dire, più o meno, quando è stata ricoverata la signorina Valmont? – Non saprei. Io sto nel padiglione maschile e vado in quello femminile solo la sera, quando è ora di chiudere tutte le porte – rispose Lockhart facendo tintinnare il grosso mazzo di chiavi che gli pendeva dai pantaloni. – Da quel che ho sentito dire dovrebbe essere arrivata verso la metà di febbraio. – Ma da quel mi risulta lei era il responsabile di degenza di Georgina Valmont – replicò Holmes. – C’è scritto sulla sua scheda di ricovero. – La seguivo da aprile, ma in realtà intervenivo solo nei casi in cui si mostrava aggressiva con le infermiere. – Capisco. E la sera del 18 dicembre ha chiuso tutte le porte come al solito, immagino. – Certamente. È il mio lavoro. – Ma Georgina Valmont è comunque riuscita a uscire dalla sua stanza. Lei come lo spiega? La porta non presenta segni di scasso, e a ogni modo non credo che una ragazza alta cinque piedi fosse così forzuta da poterla sfondare. Il volto di Lockhart si rabbuiò di colpo, facendosi più feroce di quanto già non fosse. Nei suoi occhi rilessi lo stesso odio mescolato a un po’ di paura. Nel tempo che impiegò a rispondere, Holmes si guardò attorno, e con lo sguardo mi indicò un cappotto marrone appeso a un attaccapanni. Molto probabilmente era identico a quello che Georgina Valmont indossava al momento della morte. – Ah, e come dovrei spiegarmelo? – ribatté stizzito. – Dicono che forse abbia dimenticato di chiudere a chiave la porta della stanza dove dormiva Georgina Valmont. Può capitare, no? Per questo mi sono preso una nota di demerito e una multa che mi verrà detratta dallo stipendio. – È una bella spiegazione, non c’è che dire – rispose Holmes. – Potrei vedere la suola della sua scarpa sinistra?
– Eccola! – fece Lockhart sollevando la gamba. – Le piace? Spero che ora sia soddisfatto. – Più che soddisfatto. Vedo che lei è un po’ come San Pietro: ha le chiavi di tutte le porte, ma purtroppo si dimentica di chiuderle. Lockhart diventò quasi paonazzo per la rabbia, ed ebbi l’impressione che sarebbe esploso saltandoci addosso. Ma per una qualche misteriosa ragione si contenne, limitandosi a schiumare come un cane ringhioso. – Andatevene! Uscite da questa stanza, subito! – Con molto piacere – disse Holmes. Uscimmo dalla guardiola lasciando Lockhart ai suoi astiosi pensieri. Evidentemente Holmes era riuscito a sapere quello che voleva, e si diresse verso uno dei finestroni quasi in fondo al corridoio. Lo seguii e rimasi a osservalo mentre scrutava fuori, in direzione della palazzina dell’ex blocco criminale. Capii che stava tracciando la stessa traiettoria ideale che aveva tracciato dal basso, nel cortile. Le finestre della vicina palazzina erano poco visibili, assorbite da un cielo ormai buio. La debole luce delle lampade a gas che pendevano dal soffitto del corridoio cominciava a risaltare nella semioscurità. Bulkeley ci venne incontro a grandi i. – Dovete scusarmi, – ci disse – ma il dottor Purcell ha qualche problema con dei farmaci mancanti. Tutto bene con Lockhart? – Sì, tutto bene – rispose Holmes. – Non abbiamo dovuto fare a pugni. Lei è davvero gentilissimo, Bulkeley. Le chiederò solo un ultimo favore. Vorrei parlare con il dottor Huxley, sempre ammesso che lui voglia parlare con noi. – Questo non lo so. Posso chiederglielo. Vedrò se posso farvi incontrare nella sala dei dottori.
Capitolo 7
Ci avviammo verso l’uscita del padiglione, ma a circa metà galleria ci imbattemmo in una scena alquanto penosa. Due inservienti stavano trascinando di peso un uomo in preda a una crisi isterica. Era lo stesso uomo che avevamo visto giù nel cortile. Venne portato in una stanza in cui Lockhart entrò poco dopo con incedere marziale. Quando ammo davanti alla porta ancora socchiusa udimmo la sua voce dire: – Stringete bene le cinghie del letto, se continua così dovremo sedarlo. Allo stesso tempo l’uomo continuava a farfugliare: – Il cane e l’anatra ti faranno ricco… il cane e l’anatra ti faranno ricco… Cinque minuti più tardi eravamo nuovamente nella stanza dei dottori, in attesa che Huxley si decidesse a colloquiare con noi. Io mi sedetti e cominciai a sfogliare distrattamente una delle tante copie del British Medical Journal che stavano su uno scaffale. Holmes, invece, si dimostrò come sempre molto più pragmatico e andò a sbirciare nello schedario dei pazienti. Quando si trattava di fare delle indagini non si faceva alcun scrupolo morale. Lo vidi consultare la cartella a nome di John Spender, l’uomo che in quel momento doveva essere ben legato a un letto. Era chiaro che il mastino di Baker Street aveva fiutato una possibile pista. Fece appena in tempo a riporre la cartella e a chiudere il cassettino scorrevole che sentimmo avvicinarsi dei i, e qualche attimo dopo Bulkeley entrò nella stanza seguito dal dottor Huxley. – Se non avete più bisogno io me ne andrei – disse il giovane ufficiale medico. Holmes lo ringraziò di cuore con una calorosa stretta di mano e lo congedò. Huxley zoppicò fino a una scrivania e si sedette facendo leva sul suo bastone con pomello in avorio. – Chiedetemi quello che dovete chiedermi, ma vi pregherei di farlo in fretta. – Certamente – rispose Holmes. – Vedo che qui dentro seguite tutti il motto il tempo è denaro. – Già – replicò Huxley. – E in tutta onestà devo dirle che lei, pur essendo qui da
due ore o poco più, si è già fatto notare per la sua invadenza. – Oh, io posso risultare invadente, a volte, ma le assicuro che l’ispettore Lestrade di Scotland Yard lo sarebbe molto di più se venisse qui con una delle sue squadre di bobbies. E di certo troverebbe molte cose da approfondire… – La devo considerare una minaccia? – No, è solo una semplice constatazione. Ma ora veniamo a cose più pratiche: lei mi conferma che la signorina Valmont è stata ricoverata il 18 febbraio scorso? – Sì, glielo confermo. Ho compilato io stesso la sua scheda. – E nessun altro può mettere mano alle schede? – No, solo io. Il direttore, dottor Percy Smith, potrebbe farlo, certo, ma non lo fa mai. Queste incombenze le lascia tutte a me. – E lei naturalmente scrive le schede di suo pugno, usando sempre la stessa penna? – Certo, uso sempre la mia Waterman. Non vedo che cosa ci sia di strano. – E in caso di errore che fa? – Si tira una riga sopra l’errore e si riscrive accanto. Non possiamo permetterci di sprecare troppa carta. – Ah, capisco. E lei visitava regolarmente la signorina Valmont? – Sì, due volte alla settimana. – E l’ultima volta che l’ha vista quand’è stata? – Il 15 dicembre, mi pare. – E qual’era la sua opinione professionale in merito alla signorina Valmont? Non è rimasto sorpreso dal suicidio? Lei stesso, nella scheda, aveva scritto che Georgina Valmont non aveva tendenze suicide. – Se mi vuol dare dell’incompetente faccia pure – rispose Huxley. – Ma la
psichiatria, anche considerando la sua giovane età, non è una scienza esatta. Vede, nella nostra scienza ci sono due approcci teoretici alla malattia mentale: quello del celebre alienista se, professor Jean Etienne Esquirol, ato anche dal dottor Daniel Hack Tuke, e quello di un giovane e rampante alienista inglese, Forbes Winslow, un uomo un po’ troppo attratto dal protagonismo che lo scorso anno salì agli onori delle cronache dopo aver dichiarato di conoscere la vera identità di Jack lo Squartatore. Devo candidamente confessare che io sostengo la visione del professor Esquirol, secondo cui l’origine della malattia mentale è da ricercarsi nelle ioni dell’anima. La follia non annienta completamente la ragione di un malato, ma la limita fortemente. In sostanza, la follia altro non è che un incontrollato disordine emozionale, da curare con il riordino delle emozioni stesse. Credo di poter dire che anche il disordine morale sia una forma di follia. Secondo quanto afferma Forbes Winslow, invece, la follia è un totale disfacimento dei nervi e della ragione, indipendente dall’emotività. Secondo il dottor Winslow, autore del famigerato saggio Anatomia del suicidio pubblicato nel 1840, la tendenza a commettere il suicidio avrebbe un’origine puramente organica e strettamente connessa con l’insanità mentale: in altre parole, ogni persona malata di mente è un potenziale suicida, e ogni suicida è un malato di mente. Ma si possono sentire simili stupidaggini? È sufficiente osservare come in tantissimi casi di suicidio le vittime non avessero dato alcun segno di squilibrio mentale in precedenza, e come molti malati cronicamente affetti da melancholia o taedium vitae non arrivino mai a commettere il fatidico gesto. Cosa significa questo? Significa che non esiste alcuna correlazione tra suicidio e follia. Significa che non esiste alcuna certezza di prevedibilità del suicidio da parte di una persona con problemi mentali. L’unica cosa che ci può aiutare è una costante e attenta osservazione, ma non sempre è sufficiente. Il suicidio può essere frutto di un temporaneo momento di sconforto e dolore causati da un imprevisto avvenimento esterno, o da un qualcosa che provoca un incontrollabile disperazione. Poi è ovvio che un evento esterno nefasto che colpisce una persona già debole di mente ha molte più possibilità di provocarne il suicidio. Non sto qui a elencarvi le statistiche dei suicidi nei nostri manicomi, perché mi verrebbe da piangere. Nel caso della signorina Valmont io parlerei di un evento incredibilmente scioccante per lei, e anche di negligenza del personale che avrebbe dovuto tenerla sotto sorveglianza. Ma d’altro canto, se si dovesse aprire un’inchiesta per ogni caso di suicidio in un manicomio, o se la famiglia del defunto dovesse sentirsi in diritto di avviare un’azione legale, bé, credo che si farebbe la fortuna di ogni singolo parruccone del Temple. Holmes si ritenne soddisfatto dell’accademica spiegazione: – Ora credo proprio
che possiamo andarcene, Watson. Il dottor Huxley si concesse un mezzo sorriso, ed ebbi l’impressione che fosse contento di potersi liberare di noi. Fece per alzarsi, aiutandosi con il bastone, ma la punta scivolò sull’assito lucido del pavimento e lui cadde battendo il fondoschiena. Lo aiutai a rialzarsi e Holmes raccolse qualcosa che gli era caduto dalla tasca sinistra. – Il suo bel portachiavi – disse mentre glielo porgeva. Mi bastarono pochi istanti per capire che quel portachiavi non era un portachiavi qualunque. Era identico al mio, ovvero gli esemplari destinati agli ex chirurghi militari dei fucilieri, con le lettere VR incavate sul dorso in bronzo. Anche a Holmes non sfuggì ciò che avevo notato anche io. Quando uscimmo dall’ospedale, il freddo ci aggredì con una certa violenza, nascondendosi nel buio. In compenso, però, fu quasi piacevole ritrovare i rumori della vita quotidiana, come il cigolio delle carrozza, lo scalpitio degli zoccoli, il fragore degli omnibus e il lontano vociare della gente. Era tutto così diverso dall’irreale silenzio del Bethlem, rotto solo da grida e lamenti. Holmes mi invitò a bere qualcosa e io accettai volentieri. Ero piuttosto infreddolito e avevo bisogno di un po’ di vigore alcolico prima di affrontare le due visite serali ad altrettanti pazienti. E poi m’immaginavo che mi avrebbe esposto quanto era riuscito a dedurre fino a quel punto. Non appena fummo nel salottino di Baker Street si premurò di accendere il caminetto e poi mi versò un liquore di colore rosso scuro. – Assaggi questo vino spagnolo, Watson. È uno Xeres, ma come lei ben saprà in Inghilterra viene comunemente chiamato sherry. Mi portai il calice alle labbra e sorseggiai con gusto quel nettare dolciastro e corposo. Holmes fece lo stesso, ma con più voracità, e in breve appoggiò il suo calice vuoto sul tavolino che stava in mezzo alle poltrone su cui sedevamo. – Temo che stiamo andando a mettere le mani in un cespuglio di rovi molto spinosi – disse. – Ah sì? Cos’è che glielo fa pensare? – Tutto quello che ho potuto vedere finora. Ieri notte, come le avevo detto, ho
fatto un sopralluogo in gran segreto nel parco dell’ospedale, e quasi tutt’attorno al laghetto. Ho trovato due tipi di impronte: una femminile, un’impronta liscia e senza rilievi, proprio come quella che può lasciare una ciabatta o una babbuccia, e la grandezza corrispondeva perfettamente al numero di piede di Emily Phipps: un cinque e mezzo giusto. La seconda impronta era invece maschile, e sia la grandezza che le losanghe corrisponderebbero perfettamente con la suola dello scarponcino di Lockhart. – Ah, ma credo che quel tipo di scarponcino che indossava Lockhart sia piuttosto comune, in fondo. – Non al Bethlem. Ho guardato le scarpe di tutti gli inservienti che ci sono ati davanti, ma nessuno portava quel tipo di calzatura. E poi c’è dell’altro: tre cose che ho osservato, una ieri notte, le altre oggi pomeriggio. – E quali sarebbero? – Segnali luminosi. – Segnali luminosi? Di che tipo? – Piccole lampade a olio o lanterne cieche. C’erano due persone che si scambiavano segnali. Una stava a un finestrone dell’edificio principale, il terzo del padiglione maschile, per essere precisi, e l’altra a una finestra del secondo piano della palazzina ex blocco criminale di fronte. Ora, non so chi fossero queste persone, né che cosa fero, ma so che erano lì. Quando si vedono due finestre aperte nella notte in pieno inverno ci si fa subito caso. – È certo che non l’hanno vista? Ha dei sospetti? – Sono stato molto attento a non farmi vedere, mantenendomi radente a un muro. Per quanto riguarda la sua seconda domanda la risposta è sì, Watson, ho dei sospetti. Ma i sospetti, per un investigatore che voglia esser preso sul serio, sono come i dolcetti di carnevale per un bambino. A ogni modo, ho una mia idea in testa, e alcune tracce che ho trovato oggi pomeriggio sembrerebbero confermarla. – Uhm, quali tracce? – Dei minuscoli frammenti di vetro marroncino, lo stesso tipo di vetro fumé che
viene usato per fabbricare le bottigliette e le fiale di molti medicinali. Ce n’erano sulle rampe delle scale che conducono al cortile, e anche nell’erba del cortile stesso. Posti di ritrovamento piuttosto insoliti per delle cose che si dovrebbero usare solo all’interno dell’ospedale. Ho paura che al dottor Purcell vengano attribuite colpe che non ha. – E qual è l’altra cosa che ha scoperto oggi pomeriggio? – Ah, è molto semplice: la scheda di ricovero di Emily Phipps alias Georgina Valmont è stata alterata. – Alterata? Ne è sicuro? – Più che sicuro. La data di ammissione non è esatta. Emily Phipps non è entrata al Bethlem il 18 febbraio, ma il 22 marzo. – E come fa a dirlo? – Mi è bastato esaminare la scheda di Emily Phipps e metterla a confronto con un’altra. Il giorno in cui Emily Phipps è effettivamente arrivata al Bethlem si è proceduto a compilare la scheda come da prassi. Ovviamente non si poteva compilare prima, perché nessuno dell’ospedale poteva sapere il giorno e l’ora esatta in cui sarebbe arrivata. Dopo il ricovero, nei giorni successivi, potrei ipotizzare che qualcuno ha cancellato la scritta originale con un solvente e ha riscritto la nuova data: 18 febbraio. Si ricorda dei miei piccoli esperimenti con l’inchiostro simpatico? La cosa curiosa è che la calligrafia di questa nuova data è la stessa che ha vergato il resto della scheda di Emily e di tutte le altre.” – Ovvero quella del dottor Huxley – osservai. – Proprio così, – convenne Holmes – Huxley era l’unico a poter aver accesso a quelle cartelle, ed era l’unico a poter essere in grado di falsificarne una. – Ma in questo caso avrebbe dovuto sapere che… – … che Georgina Valmont era in realtà Emily Phipps. Ovvio. E infatti lo sapeva, eccome se lo sapeva. – Ma allora anche…
– … James Hedger doveva esserne al corrente. Ma certo che sì. Anzi, temo che il suo ex compagno di studi abbia qualcosa da nascondere. Devo solo scoprire cosa. E poi c'è il disegno di Emily e il portachiavi del dottor Huxley… – Bé, per quanto riguarda il disegno di Emily posso seguirla. In effetti è quasi perfettamente identico a quello che si trova stampato sull’anta dell’armadietto nella stanza degli incurabili. E per quanto ci hanno detto, Emily Phipps non è mai stata tenuta in quella stanza, e dunque non può aver visto quel disegno floreale né poterlo riprodurre così fedelmente. E come direbbe lei stesso, una volta eliminato l’impossibile, quel che rimane, per quanto improbabile possa essere, dev’essere la verità: Emily Phipps è stata in quella stanza. Dio solo sa a farci cosa. Ma per quanto concerne il portachiavi di Huxley, mi scà, ma non vedo alcun nesso. – Lei non può vedere il nesso perché non ha letto la scheda di John Spender, Watson. Contiene delle informazioni interessanti. Huxley è stato un medico militare, altrimenti non avrebbe quel portachiavi con le iniziali della nostra regina con tanto di nome impressovi sopra. Ma anche John Spender è un ex militare. Così c’è scritto sulla sua scheda. Purtroppo non è stato annotato dove e quando ha servito, ma questo conto di scoprirlo domani, all’archivio di storia militare. – Archivio di storia militare? – Sì, c’è un’intera sezione con testi e giornali della storia militare inglese agli Archivi Pubblici, in Chancery Lane. Non lo sapeva? – Lo imparo ora. E dire che sono un ex militare! – Poi dovrò fare un salto al catasto e andare a consultare gli annuari degli studi medici, e infine dovrò allertare qualcuno dei miei informatori nei bassifondi. – Immagino che per tutte queste cose ci sia una spiegazione – dissi. – C’è, mio caro Watson, ma la saprà a suo tempo. Per ora posso solo dirle che domani notte, alle ore 11, sarò di nuovo al Bethlem Hospital. In incognito, ovviamente. C’è la concreta speranza di poter cogliere due manigoldi in flagrante delicto. Se vuole venire con me non ha che da dirlo. – Uhm, la cosa mi alletta, ma devo pensarci. Sa, con questo clima, non vorrei
prendermi una bronchite. – E allora ci pensi, Watson, e finisca il suo sherry. Dentro c’è tutto il sole caldo dell’Andalusia, ed è certo quel che ci vuole in una deprimente giornata invernale come questa.
Capitolo 8
Erano da poco ate le dieci e mezza di sera del 22 dicembre quando, seguendo scrupolosamente le istruzioni di Holmes, mi feci lasciare da un hansom cab in un punto preciso di St. Georgés Road. L’aria molto umida, quasi nebbiosa, era come un tumore che tentava di farsi strada fino alle ossa. Per tutto il tragitto mi ero stretto nel cappotto e mi ero maledetto più volte per non essere restato a casa. Mia moglie Mary non mi aveva chiesto spiegazioni, abituata a certe mie uscite notturne in compagnia di Holmes. Pagai il vetturino, un pover’uomo di sessant’anni che doveva aver preso più freddo di me e che cercava di scaldarsi bevendo del grog da una fiaschetta di metallo, e mi avviai verso l’ospedale. Ma ovviamente non sarei certo potuto entrare dal cancello principale. Holmes mi aveva chiaramente indicato un piccolo varco nella recinzione del fabbricato, raggiungibile dopo aver percorso una stradina sterrata che correva tra la staccionata dell’adiacente cantiere edile e i cortili posteriori del Bethlem. Percorsi la stradina nella quasi totale oscurità, sentendo il fango che mi si appiccicava alle scarpe, finché non scorsi un piccolo alone luminoso, un lampione a gas della recinzione, e con non poca fatica m’insinuai in una stretta apertura seminascosta dai cespugli, e mi ritrovai all’interno del cortile. Camminai radente la recinzione fino a raggiungere la parte posteriore della palazzina, attraversai velocemente il prato fino alla parete in mattoni, e strisciai lungo di essa per raggiungere la porta d’ingresso. Bussai secondo un segnale convenuto, due colpi brevi, uno lungo, uno breve, e poco dopo, con mio grande sollievo, Holmes mi aprì la porta facendo capolino sull’uscio. – Benvenuto Watson – sussurrò. – Alla fine ha deciso di venire, vedo. La sua curiosità non rimarrà insoddisfatta. Entrai e seguii Holmes su per una rampa di scale. Il lumino della sua lanterna cieca rivelava aggi di un ambiente desolato e in abbandono. Facemmo un giro di perlustrazione, ando da un corridoio all’altro, da una stanza all’altra. Il paesaggio era sempre lo stesso: muri spogli e corrosi dall’umidità, assiti dei pavimenti che formavano dossi innaturali e inquietanti, globi di vetro polverosi dove nessuna luce a gas avrebbe mai più brillato. Devo ammettere che rimasi piuttosto sorpreso quando Holmes mi condusse in una camera dove ancora si
poteva trovare un letto, un armadietto e uno sgabellino rotto. – È una cosa curiosa, no? Questa è l’unica stanza parzialmente arredata di tutta la palazzina. E non è tutto. Guardi qui… Holmes puntò la lanterna cieca sul pavimento, indicandomi una strisciata nerastra che correva fino a una parete dove mi parve di vedere qualcosa di simile a un sacco di cartone sfondato. – Carbone – sentenziò. – Carbone? – Sì. Come potrà notare su questo pavimento è stato trascinato un sacco di carbone… quello che vede là in fondo. Ci avvicinammo alla parete dove stava il sacco quasi completamente vuoto. – Un sacco da dieci libbre – soggiunse. – Giusto la quantità che serve ad alimentare una stufetta per qualche giorno. E guardi qua, sulla parete. Quegli aloni di fumo parlano da sé. Qui c’era una stufetta che è stata rimossa. – Allora ne deduco che questo letto ha ospitato qualcuno per alcuni giorni, e dev’essere stato in un periodo piuttosto freddo, vista la stufetta. – Ottima deduzione, Watson. Holmes puntò nuovamente la lanterna verso il letto. Era uno di quei giacigli da ospedale, scarni fino al minimalismo, con uno scheletro in ferro piuttosto arrugginito. Un materasso sporco e consunto ne accresceva il senso di miseria. A un certo punto vidi il suo sguardo farsi più acuto, come se avesse visto qualcosa di importante che prima gli era sfuggito. Si avvicinò di scatto al letto e mi pregò di reggergli la lanterna. Un minuto lembo di stoffa sporgeva tra la rete e il materasso. Holmes sollevò appena quest'ultimo per infilarci una mano sotto e prelevare il lembo di stoffa. Con nostra grande sorpresa il lembo si rivelò essere un asciugamano macchiato di sangue oramai seccato su cui erano a malapena visibili due lettere cucite in rilievo: S.T. – Sempre più complicato – commentai. – Cosa diavolo sarà accaduto in questa
stanza? – E quello che mi chiedo anch’io, Watson – rispose Holmes prima di ripiegare con cura l’asciugamano e infilarlo in una specie di borsello che portava a tracolla, al quale non avevo subito fatto caso. – Cosa ci tiene lì dentro? – Nulla di che. Un asciugamano sporco di sangue, due metri di corda, un bavaglio di lana, una rivoltella e una lanterna di riserva. Ah! È quasi mezzanotte! – esclamò guardando il suo cipollone da tasca. – Vediamo se quei lestofanti hanno il senso della puntualità. Ci trasferimmo in un altro locale, la cui finestra dava sul lato della recinzione da dove mi ero intrufolato non più di un’ora prima. Rimanemmo immobili e in silenzio per alcuni minuti a guardare fuori dalla finestra finché una sagoma scura non comparve nel prato sottostante. Avanzava veloce e furtiva. Era come una macchia d’olio scuro che galleggiava in un mare semibuio e punteggiato da aloni luminosi. – Lo vede, Watson? Tra poco sarà qui. Venga, nascondiamoci nella nicchia del corridoio, così potremo osservarlo senza essere visti. Ci acquattammo nella nicchia da dove, sporgendosi appena, si poteva avere una prospettiva quasi perfetta della stanza in fondo al corridoio, priva di porta, e del finestrone dell’edificio principale antistante. Dei i che salivano frettolosamente le scale mi fecero trattenere il respiro. In un attimo vidi sopraggiungere la sagoma di un uomo che si diresse verso la stanza in fondo al corridoio e si fermò di fronte alla finestra. Poi cominciò ad alzare e abbassare una piccola lanterna a petrolio. Nel giro di pochi minuti un lumino molto simile cominciò ad alzarsi e abbassarsi dall’altra parte del prato, dietro il finestrone. Non ò molto tempo che udii altri i salire le scale, ma questa volta erano più lenti e pesanti. Un’altra sagoma d’uomo, abbastanza massiccia, arrivò sul pianerottolo ed entrò nella stanza dove c’era l’altro, che appoggiò la lampada a olio sul pavimento. I due si inginocchiarono di fronte al lume e a una cassetta che l’uomo più robusto aveva posato per terra. Non riuscii a capire cosa questa contenesse, ma riconobbi perfettamente la figura del secondo uomo. Era l’infermiere capo Samuel Lockhart. L’uomo che non conoscevo controllò il contenuto della cassetta e poi allungò delle banconote a Lockhart, il quale disse:
– Bene, domani sera non venire. Ho la solita faccenda da sbrigare giù nei sotterranei. Poi si allontanò e ridiscese le scale più velocemente di come era salito. L’uomo sconosciuto rimase chino ancora per un po’ sul contenuto della cassetta finché non spense la lampada a olio, agganciandosela a un ante dei pantaloni. Holmes mi guardò senza fiatare, e nonostante la poca luce capii che mi invitava a tenermi pronto a scattare. L’uomo prese il contenitore e non appena uscì dalla stanza gli balzammo addosso, cercando di non fare troppo rumore. Io mi preoccupai di sorreggere la scatola, che doveva essere piena di boccette di vetro, a giudicare dai tintinnii sordi, mentre Holmes lo scaraventò a terra stordendolo con un pugno allo stomaco. – Presto, Watson! Mi aiuti a legarlo e a imbavagliarlo! Quando l’uomo giaceva per terra con mani e piedi legati, e con un bel fagotto di lana in bocca, esaminai sommariamente il contenuto della cassetta. C’erano boccette e fiale di farmaci di vario tipo, perlopiù oppiacei e vitamine, e qualche bottiglietta di idrato di cloralio. – Ecco dove finivano i medicinali del buon Purcell – disse Holmes. – Nelle mani di questo ceffo! È una vecchia conoscenza di Scotland Yard, del resto, e di tutti coloro che si occupano di eventi criminali a Londra. Un ricettatore di droghe per uomini e cavalli. Bé, Lestrade sarà contento di metterlo al fresco per un po’. – Già – risposi. – Ma Lockhart? Non mi va che la faccia franca. – E non la farà franca, stia tranquillo. Io non mi accontento di un piccione solo, li voglio tutti e due, o tutti e tre. Credo che Lockhart abbia molto di più sulla coscienza che un semplice furto di medicinali. Dopo un paio d’ore il ricettatore, al secolo Elias Drebber, era rinchiuso in una cella a Scotland Yard. Holmes aveva pregato Lestrade di non rendere pubblica la cosa, almeno per il momento, e di tenersi pronto con una squadra di uomini per fare un’irruzione nei sotterranei dell’ospedale la notte successiva. Io mi sentivo sfinito e tossii un paio di volte, ma nonostante la stanchezza e il freddo sapevo già che la notte tra il 23 e il 24 sarei stato accanto ad Holmes nei sotterranei del Bethlem Royal Hospital.
Capitolo 9
La prima cosa che notai dopo aver sceso i ripidi scalini che conducevano al livello delle cantine fu una targa di ferro su cui c’era scritto M1A. Holmes, che a quanto pareva si era meticolosamente studiato le mappe dell’ospedale trovate al catasto, mi disse che il sotterraneo dove stavamo camminando, in ato veniva usato come una vera e propria galera. Attualmente ci finivano solo i pazienti particolarmente violenti o chiassosi, e non doveva essercene nessuno, dato che le celle erano tutte vuote. L’oscurità era quasi totale, appena rischiarata da poche lampade a gas che pendevano dal soffitto ammuffito dall’umidità che pervadeva l’aria di quella moderna grotta. – Appostiamoci qui – disse Holmes indicandomi uno sgabuzzino mezzo pieno di cianfrusaglie. Attendemmo in silenzio per non so quanto, una mezz’ora forse, finché non udimmo qualcuno scendere gli scalini. Holmes non sembrò affatto sorpreso quando vide comparire Lockhart che sorreggeva un uomo che, nonostante la poca luce, riuscii a identificare come John Spender. Lasciammo che ci assero oltre fino ad arrivare a una cella aperta più avanti. Lockhart entrò sorreggendo Spender, sparendo dalla nostra vista. Holmes mi fece cenno di seguirlo, ma con la massima cautela e nel massimo silenzio. Ci avvicinammo alla cella a i rapidi e leggeri, fermandoci a pochissima distanza dalla porta spalancata, dalla parte opposta del corridoio, da dove potevamo intravedere ciò che accadeva all’interno. La lanterna di Lockhart illuminava debolmente John Spender disteso su un tavolaccio. Sembrava non cosciente e inerme. Doveva essere imbottito di un qualche oppiaceo. Lockhart aveva un sigaro in bocca, e a un certo punto lo afferrò con due dita e lo premette contro il collo di Spender, che ebbe un lieve sussulto. Io stavo per scattare, ma Holmes mi bloccò prendendomi per il bavero del cappotto. – Ora vediamo quanto riesce a soffrire un pazzo – sibilò Lockhart. Spender continuava a fissarlo vacuamente. Lockhart estrasse una specie di cinghia ruvida da una tasca del suo giaccone e se la arrotolò sulla mano destra.
Quindi saggiò la durezza di quell’arma impropria picchiando un paio di volte il pungo destro sul palmo della mano sinistra. Poi sollevò il braccio destro, orientando il dorso della mano verso la faccia di Spender. Stava per picchiare un violento colpo che non andò a segno perché gli saltammo addosso come due puma. Essendo un uomo molto ben piantato non cadde, pur trovandosi sbilanciato: reagì ferocemente sbattendomi in terra e tentò di colpire Holmes con la mano cinghiata. Il mio amico riuscì a schivare il colpo per un soffio, e la mano di Lockhart finì contro la dura pietra del muro. Holmes approfittò del momentaneo e doloroso smarrimento di Lockhart per colpirlo al fegato con un gancio energico, ma la sua corpulenza lo fece resistere ancora una volta, e con una furia quasi cieca si avventò su Holmes, afferrandolo per il collo con tutte e due le mani. Holmes gemette e si piegò sotto la poderosa stretta, ma seppe conservare la lucidità per reagire. Colpì Lockhart con una ginocchiata e con una mossa di baritsu si liberò della stretta al collo, ma questi lo riafferrò per i fianchi. – Watson! – mi gridò. – Là, sul tavolaccio! Mi rialzai di scatto e vidi alcuni pezzi di assi rotte che potevano benissimo fungere da randelli. Ne ghermii uno e senza pensarci due volte colpii Lockhart alla testa con tutta la forza di cui ero capace in quel momento. Lui barcollò per alcuni istanti e poi cadde pesantemente al suolo. – È proprio vero, – sospirò Holmes – l’unione fa forza. Ora mi aiuti a portare questo sacco di patate nel corridoio. Trascinammo Lockhart fuori dalla cella, non senza un certo sforzo, e lo appoggiammo con la schiena contro una parete. Spender sembrava non essersi accorto di nulla e giaceva catalettico sul tavolaccio. – Tra poco Lestrade dovrebbe essere qui – disse. – Lockhart dovrà raccontarci un bel po’ di cose, ma non credo che riuscirà a parlare così com’è ora. Prenda la mia rivoltella, Watson, e lo tenga sotto tiro. Holmes andò nello sgabuzzino dove ci eravamo nascosti e tornò con in mano un oggetto che aveva tutta l’aria di essere un vecchio pitale. Lo riempì con dell’acqua stagnante che stava in un lavabo in disuso, un’acqua che doveva essere gelida e ben poco pulita, a giudicare dall’odore, e lo rovesciò sulla testa di Lockhart, che si riebbe quasi di colpo e ci guardò sbigottito, socchiudendo gli occhi porcini.
L’arrivo di Lestrade con un manipolo di uomini non si fece attendere molto. Lockhart fu portato a Scotland Yard per essere interrogato, mentre alcuni agenti rimasero al Bethlem per effettuare delle perquisizioni. L’infermiere capo, messo alle strette da prove inconfutabili e dalla testimonianza di Elias Drebber, vuotò il sacco, e quel che disse ci portò a fare un’ulteriore visita a un uomo che viveva a Camberwell, un tranquillo sobborgo del sud di Londra. Quando suonammo il camlo di una elegante villetta a schiera il cielo si stava già riempiendo della pallida luce di un’alba invernale. Una domestica venne ad aprirci: – Sì, desiderate? – Sono l’ispettore Lestrade, di Scotland Yard. Questi signori sono Sherlock Holmes e il dottor Watson. Il dottor Ernest Huxley è in casa? Dobbiamo parlargli subito. – A quest’ora? Credo che stia dormendo. Non so se… – Temo che dovrà svegliarlo, allora. La domestica, non poco intimorita, ci lasciò entrare e ci fece accomodare in una stanza che doveva essere lo studio e al tempo stesso la piccola biblioteca di Huxley. I libri, tra cui c’erano titoli di anatomia, chirurgia e fisiologia, erano disposti sulle delle scaffalature incassate in delle nicchie oblunghe che correvano dal pavimento fino al soffitto, inserite tra le vetrate di un bovindo semiesagonale. L’atmosfera raccolta della stanza era accresciuta dalle sue non grandi dimensioni e dalle pareti rivestite in noce, i cui intarsi richiamavano i disegni dei tappeti kilim davanti ai nostri piedi. La mia personale indagine venne interrotta dall’arrivo di Huxley, che comparve sull’uscio con un’espressione alquanto seccata e in parte assonnata. Indossava una vestaglia di lana a fantasia scozzese. Si trascinò fino a una sedia dietro a una scrivania e azionò la manopola che regolava il flusso di gas in una lampada dal paralume verde smeraldo. Ci scoccò un’altra occhiata non molto benevola in quell’alone di luce delicata. – Vi pare questa l’ora di irrompere a casa della gente? Che cosa c’è di così urgente da non poter aspettare un’ora più cristiana? – A dire il vero, – replicò Lestrade – non potevamo proprio aspettare, dottor Huxley. Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Samuel Lockhart, l’infermiere capo del manicomio di cui lei è vicedirettore. Sapeva che è stato arrestato per traffico di medicinali e maltrattamenti su un paziente?
– Me lo sta dicendo ora. Certo, è una cosa disdicevole, soprattutto per l’immagine pubblica dell’ospedale. Ma non vedo come questo possa avere a che fare direttamente con me. Pensate che io sia in qualche modo coinvolto? – Non lo pensiamo, dottor Huxley – intervenne Holmes. – Lo sappiamo con assoluta certezza. Lockhart ci ha raccontato tutto e non ha omesso nessun particolare. Sappiamo che lei aveva scoperto che trafficava in medicinali, e che invece di denunciarlo lo ricattava, usandolo come aguzzino e persecutore di John Spender. Inoltre, dalle indagini che ho svolto personalmente, mi risulta che lei ha falsificato la data di ingresso sulla scheda di Georgina Valmont, e che conosceva John Spender. Non l’ha certo visto al Bethlem per la prima volta. Ora, vorrebbe raccontarci cosa accadde nella terza guerra anglo–birmana, esattamente il 17 novembre 1885, dopo la battaglia di Minhla? O devo farlo io? Huxley impallidì di colpo e non proferì parola. – Benissimo. Lo farò io, allora – proseguì Holmes. – Lei era aggregato come chirurgo militare ai fucilieri dell’esercito sotto il comando del generale Prendergast. Anche John Spender faceva parte dello stesso reggimento, ma come soldato semplice. Il 17 novembre 1885 le truppe britanniche si scontrarono con quelle birmane a Minhla, sul fiume Irrawaddy, uscendo vittoriose e facendo strage di nemici. Gli inglesi, però, non dovevano soltanto difendere le posizioni guadagnate e arrivare a Mandalay, no. C’era un proposito molto più segreto: proteggere e portare in salvo un carico di preziosi idoli di giada che gli stessi avevano razziato in alcuni templi della valle di Bagan. Nonostante la vittoria a Minhla, il territorio era minacciato dalla presenza di guerriglieri che si nascondevano nella giungla. Stando a quanto raccontano le cronache militari, uno degli ufficiali del generale Prendergast ebbe un’idea brillante: far viaggiare la giada in incognito, mentre il Kathleen con il grosso delle truppe avrebbe risalito il fiume fino a Mandalay. L’idea fu quella di utilizzare un’imbarcazione di pescatori per non dare nell’occhio. Era abbastanza spaziosa da poterci caricare la giada, e con la sua vela quadrata e un tettuccio di paglia offriva la giusta protezione da sguardi indiscreti. Su quell’imbarcazione salirono otto fanti armati, tra cui John Spender, un interprete e lei, dottor Huxley. Purtroppo quel carico di giada non arrivò mai a Mandalay, la città che cadde nelle mani di Prendergast il 28 novembre. Un manipolo di guerriglieri pyu riuscì a sterminare quasi tutti gli occupanti dell’imbarcazione durante un attracco a un avamposto, ma assetati di sangue com’erano non si preoccuparono di perquisirla e non trovarono la giada. Si salvarono solo tre uomini: l’interprete, John Spender e lei,
dottor Huxley. Dell’interprete non si ebbero più notizie, mentre due di loro ricomparvero in Inghilterra a guerra ormai finita. Tutti pensavano che il carico di giada fosse andato perduto, e nessuno si preoccupò mai di indagare sull’improvviso arricchimento di John Spender, che cominciò a condurre una vita da gentiluomo altolocato e divenne socio maggioritario di un prestigioso antiquario in King Street. Ma la parabola di Spender era destinata a durare poco, perché tutto quel denaro di cui poteva disporre e al quale non era abituato lo fece scivolare in una spirale di nevrosi che lo condusse ben presto alla follia. Spender si è bruciato il patrimonio in prostitute e gioco d’azzardo, ed è finito al Bethlem, dove il caso gli ha fatto rincontrare un suo vecchio commilitone… ma credo che nessuno meglio di lei, dottor Huxley, possa raccontarci cosa accadde sull’Irrawaddy quattro anni fa, dato che Spender non è più nelle condizioni mentali per poterlo fare. E magari potrebbe anche spiegarci perché zoppica. Un lampo d’odio apparì sul volto di Huxley, ma lo illuminò di una luce più cupa del buio, come se tutti i suoi ricordi più sgradevoli si fossero dati appuntamento in quel preciso istante. – Quel bastardo di Spender non ha sofferto nemmeno la metà di quello che ho sofferto io! – sbottò picchiando un pungo sulla scrivania – Nemmeno la metà! Huxley si zittì per calmare i propri nervi, e poi riprese a raccontare con maggiore pacatezza: – Spender ha fatto la bella vita per tre anni, mentre io sono e resterò un povero zoppo. Quando salimmo su quel barcone carico di giada, trecento libbre di statuette di quella pietra preziosa, nessuno di noi pensava a come sarebbe andata a finire. Durante una sosta per caricare dell’acqua e viveri, fummo assaliti da una banda di guerriglieri che sterminarono la nostra guarnigione. Ci salvammo in tre: io, Spender e un interprete mezzosangue, solo perché in quel momento non ci trovavamo vicino all’imbarcazione. Con nostra grande sorpresa i guerriglieri non l’avevano distrutta né ripulita di tutto. Volevano solo uccidere. Proseguimmo il nostro viaggio verso Mandalay quasi sotto choc, e la mia ansia era accresciuta dal comportamento e dagli strani discorsi che Spender faceva: “Certo che tutta quella giada, e noi tre soli… ci potremmo sistemare per un bel pezzo, tutti e tre”. Continuava a ripetercelo come un ritornello ossessivo, e io mi rendevo conto che non scherzava affatto. «Aveva uno sguardo allucinato e perso, e non si staccava mai dal suo fucile. Se lo teneva al fianco anche quando andava a coricarsi. Di fatto era l’unico dei tre a essere armato, e quel che stava rimuginando non mi piaceva per niente. I miei
tremendi dubbi si tramutarono in ancor più terribili certezze quando un giorno, dopo esserci fermati per fare provviste e cercare qualche frutto sostanzioso per nutrirci, io e l’interprete tornammo al fiume e Spender, che era rimasto a fare la guardia alla giada, ci accolse con il fucile spianato. Ci obbligò a caricare le due ceste di frutta sulla barca, e lì capimmo che sarebbe ripartito da solo. Cercai disperatamente di fermarlo, ma non feci in tempo a saltargli addosso perché lui mi sparò, ferendomi di striscio a un ginocchio. Tutto ciò che potemmo fare fu vederlo veleggiare sul fiume finché non scomparve dalla nostra vista, lasciandoci soli, affamati, e malconci. Per fortuna la mia ferita non era gravissima, e riuscii a fare un bendaggio rudimentale con della stoffa sottratta alla manica della mia camicia. Ma ben presto avvertii degli strani bruciori, e capii che si stava infettando. Naturalmente non c’era nessuna possibilità di cura, e noi continuavamo a camminare nella giungla come due disperati. «L’interprete mezzosangue si stava ammalando di febbre gialla, e i suoi brividi sudati facevano rabbrividire anche me. Dopo due giorni di vagabondaggio nella giungla, senza cibo né acqua se non quella piovana, cominciai a pregare Dio che mi fe morire, e una sera mi sembrò che le mie preghiere fossero state esaudite. Eravamo seduti a un bivacco e mangiavamo delle radici che parevano commestibili e non velenose, quando udimmo dei fruscii tutt’intorno a noi. Ecco, pensai, sono i guerriglieri che vengono ad ammazzarci. Dio sia lodato. Ma non erano i guerriglieri. Erano degli indigeni che vivevano in un piccolo villaggio nascosto nel fitto della vegetazione pluviale. Parlavano una specie di dialetto indù–ariano che l’interprete riusciva parzialmente a capire. Ci condussero al loro modesto villaggio, dove ci dettero da bere e da mangiare, e per quanto povera fosse la loro alimentazione, quella sera mi parve di aver mangiato come un re. Ci dissero di appartenere a un’etnia chiamata rohingya, che un tempo viveva pacificamente nelle vallate lungo l’Irrawaddy prima che la dinastia reale birmana non occue i loro territori con la forza. Odiavano il re Thibaw Min quanto lui odiava e perseguitava loro. Noi eravamo inglesi, e forse fu per questo che ci accolsero con gentilezza. L’interprete morì di febbre gialla due giorni dopo, e anch’io ebbi i miei tormenti. Tenevo d’occhio la mia ferita giorno dopo giorno, e ben presto ebbi la terribile certezza di quel che mi stava accadendo. I batteri di quell’ambiente umido e fangoso si erano impossessati della lesione al ginocchio e la stavano facendo diventare un’ulcera tropicale. Fino a quel momento avevo visto quegli schifosi e maleodoranti bubboni grigiogiallastri solo nei libri illustrati, ma avercene uno addosso, ah, non lo augurerei a nessuno. «I rohingya cercavano di fare quel che potevamo per me, e del resto anche qualcuno della loro tribù era affetto dal mio stesso cancro, ma certo non
conoscevano l’acido fenico e le soluzioni di mercurio. Sentivo l’ulcera che mi scavava le carni e un giorno presi una decisione drastica. Mi arroventai un cucchiaio di ferro e poi mi feci asportare l’ulcera dall’anziano della tribù, che a quanto avevo capito era anche il loro chirurgo primitivo. Naturalmente, i rohingya non conoscevano nemmeno il cloroformio, e quel giorno dovettero tenermi in quattro, e con una tavoletta di bambù ficcata in bocca provai tanto di quel male da poter sopportare qualsiasi altro dolore. L’incisione sfiorava l’osso. Molte cartilagini e una parte del legamento erano irrimediabilmente compromessi, e per due giorni non fui in grado di muovere la gamba. Quando mi rialzai capii che sarei rimasto zoppo per il resto dei miei giorni. Riuscii a ristabilirmi nel giro di un mese, anche grazie a delle misture di erbe che i rohingya mi propinavano. Uno di loro mi guidò fino a Mandalay attraverso la giungla. Da lì raggiunsi Chittagong, dove mi imbarcai per l’Inghilterra. Tre mesi dopo il mio ritorno seppi che John Spender era un uomo ricco e che gestiva un negozio di antiquariato in King Street. Cosa potevo fare? Ucciderlo per finire io in galera? Tutti lo consideravano un uomo rispettabile, e solo io sapevo la verità su di lui. Ma non avevo alcuna prova per incastrarlo, così cercai di farmi una ragione e mi consolai dedicandomi alla professione medica. «Ma quando me lo trovai in corsia al Bethlem, sei mesi fa, una vocina interiore mi sussurrò che il tempo è un galantuomo, e che il fato ci rende sempre ciò che la crudeltà umana ci ha tolto. All’inizio pensai che tenesse ancora un po’ di giada nascosta da qualche parte, e tentai di estorcergli delle informazioni. Avevo scoperto che Lockhart trafficava in medicinali e pensai di sfruttare la mia posizione per ricattarlo. Quell’animale era proprio l’uomo che mi serviva per far parlare Spender. Dopo un mese mi resi conto che Spender non aveva più nulla, né denaro, né una mezza statuetta di giada, e così lasciai che Lockhart si divertisse con lui solo per il gusto di farlo soffrire, affinché conoscesse il dolore così come l’avevo conosciuto io. Sapete come si dice, no? La vendetta è un piatto che si gusta freddo. Quando Huxley terminò il suo racconto, così lucido e freddo, sentii un brivido di ribrezzo corrermi lungo la spina dorsale. Anche Lestrade e Holmes apparivano basiti da quello che avevano sentito. La storia di Huxley era una di quelle storie terribili, una storia in cui la crudeltà aveva generato altra crudeltà. Fu il mio amico, infine, a infrangere l’irreale silenzio che si era creato nella stanza. – C’è anche un altro detto – sentenziò. – La vendetta è una specie di giustizia selvaggia la cui mannaia, a volte, ricade sul vendicatore stesso.
Huxley ci scrutò con un sorriso amaro, e poi volse il suo sguardo pietrificato alle tre vetrate del bovindo. Fuori c’era il giardinetto della villa avvolto nella livida luce del mattino, e dal cielo stavano cominciando a cadere dei pesanti fiocchi di neve.
Capitolo 10
Approfittai della mattina di vigilia, libera da impegni professionali, per recuperare le ore di sonno che avevo perduto nelle due notti precedenti. Mi alzai tardissimo e mi ritrovai nell’imbarazzante situazione di dover fare colazione a mezzogiorno ato. Come ebbi terminato le mie uova con pancetta ricevetti un telegramma da parte di Sherlock Holmes:
“Caso risolto. Interessantissime scoperte nella mattinata. Se non vuole perdersi il gran finale, venga in Baker Street alle ore 4 di questo pomeriggio.”
Queste poche righe racchiudevano tutta l’imprevedibile essenza del mio amico. Mentre io dormivo, lui, ignorando la stanchezza, aveva continuato a darsi da fare. Mi feci un’accurata toeletta e mi vestii di tutto punto per uscire. Fu quasi piacevole vedere Londra ormai imbiancata. La neve continuava a cadere, forse meno fitta del primissimo mattino, e andava a posarsi sul soffice manto di pochi pollici che ricopriva le strade e i marciapiedi. Certo, m’immaginavo l’immacolato candore delle colline del Sussex o del Devon, perché la purezza della neve cittadina durava ben poco: il bianco lasciava ben presto spazio al nerastro di una poltiglia acquosa che andava sempre più disfacendosi sotto le ruote delle carrozze e che schizzava sui anti ogni qual volta una di esse transitava sulla strada. Arrivai in Baker Street poco prima delle quattro. Holmes mi apparve stanco ma di buon umore. Era accanto alla finestra e scrutava il cielo opaco. – Buon pomeriggio, Watson. Vedo che ha riposato bene. Ha un aspetto magnifico. Purtroppo non posso dire lo stesso di me. Ma si sieda. Tra non molto James Hedger sarà qui. Mi sedetti e Holmes mi porse una copia del Evening Standard, invitandomi a leggere un breve articolo che compariva nella cronaca di Londra. Aprii il giornale e mi immersi nella lettura:
TRAFFICO DI MEDICINALI E MALTRATTAMENTI AL Bethlem ROYAL HOSPITAL Un deplorevole caso di maltrattamenti e traffico di medicinali al Bethlem Royal Hospital ha funestato la vigilia di Natale. L’ospedale psichiatrico, che è uno dei migliori di Londra, ha dovuto subite l’onta di due arresti eccellenti: il dottor Ernest Huxley, vicedirettore, e l’infermiere capo Samuel Lockhart, infatti, sono finiti nel carcere di Newgate con le accuse di favoreggiamento, vessazioni su un paziente e traffico di medicinali. In un primo momento era parso che tali episodi potessero essere collegati con la morte di una giovane paziente dell’ospedale, Georgina Valmont, avvenuta il 18 dicembre. L’ispettore Lestrade di Scotland Yard, però, che si sta occupando delle indagini ancora in corso, esclude categoricamente che questi avvenimenti possano avere a che fare con la morte della ragazza, che si presume sia stata dovuta a suicidio. Nel losco traffico di medicinali sarebbe coinvolto anche un certo Elias Drebber, noto ricettatore del sottobosco londinese. La vittima delle persecuzioni, John Spender, verrà trasferita all’asilo di Bethnal Green. Il direttore del Bethlem, dottor Robert Percy Smith, all’oscuro della vicenda fino a oggi, si è dichiarato molto amareggiato per l’accaduto. Inoltre, sia il ministro dell’interno Henry Matthews che il presidente onorario della commissione metropolitana, conte di Milltown, hanno dichiarato che la legge del 1845, che a tutt’oggi regola il funzionamento degli ospedali psichiatrici e il trattamento dei malati di mente, potrebbe essere oggetto di una riforma già l’anno prossimo.
Richiusi il giornale e guardai Holmes. Mi sorrideva amaramente. – Non ho mai amato farmi pubblicità – disse. – Un buon investigatore dovrebbe sempre leggere i giornali con molta attenzione, ma dovrebbe anche restarne fuori, se possibile. – Ah, se è questo il suo pensiero… certo che la storia di Huxley e Spender ha quasi dell’incredibile. Mai vista coincidenza più assurda, mai vista vendetta più subdola. E poi, quel John Spender, bruciarsi un patrimonio in dissolutezze e finire al manicomio… mi sembra il libertino di Hogarth. – Talvolta è la vita a imitare l’arte, e non viceversa. Ma se già si sorprende
rimarrà ancora più sbalordito di ciò che sentirà tra poco. Questo caso è come uno dei preludi di Chopin: quando sembra che la musica sia finita arriva puntuale un ultimo accordo di pianoforte, un accordo che non ti aspettavi. Ah! Ma ecco che arriva James Hedger. Holmes si scostò dalla finestra, e alcuni istanti dopo James Hedger era già nel nostro salottino. Si tolse cappello e cappotto, appendendoli all’attaccapanni, e appoggiò il bastone da eggio a un bracciolo della poltrona su cui si lasciò cadere. Aveva un’espressione molto corrucciata. Mi chiesi se l’esito delle indagini lo avesse appagato o infastidito. – Che ha? – gli domandò Holmes. – Non si sente bene ? – Ah nulla di grave – rispose Hedger. – È solo che stamattina sono stato vittima di un tentato furto. Diciamo che qualcuno ha frugato tra le mie cose nella stanza d’albergo. Per fortuna dev’essere stato disturbato, perché non ha portato via nulla di prezioso. Qualcuno del personale, è chiaro. Ah, ho fatto una bella ramanzina al direttore, e lascio Londra oggi stesso. Mi dica solo quant’è il suo saldo. – Non sia così precipitoso – rispose Holmes. – Devo prima esporle le mie conclusioni sul caso. – Bé, immagino che non siano poi così dissimili da quello che è stato riportato sui giornali del pomeriggio. Emily Phipps si è suicidata. Il resto mi interessa poco. – Ha ragione: stando a quanto ho potuto accertare, Emily Phipps si è suicidata, ma in un certo senso si può dire che è stata uccisa. Hedger aggrottò le sopracciglia: – Non capisco che cosa intende dire. Sia meno sibillino, per favore. – Intendo dire che senza ogni ombra di dubbio Emily Phipps si è annegata nel laghetto artificiale del Bethlem: la profondità dello stesso esclude una caduta accidentale, e nessuno l’ha affogata con la forza. Ma bisogna anche capire che cosa l’ha indotta al suicidio, e le assicuro, dottor Hedger, che questa è un’altra storia, ben più complicata. Hedger mantenne il suo sguardo critico e apparentemente distaccato, ma non
proferì parola. – Le impronte attorno al laghetto parlavano chiaro. Ce n’erano di due tipi: uno femminile, perfettamente corrispondente alla suola e alla grandezza della babbuccia ospedaliera di Emily Phipps, e uno maschile, perfettamente corrispondente alla suola dello scarponcino di Samuel Lockhart. Inoltre, Emily Phipps indossava un cappotto dello stesso Lockhart. Si può dunque affermare che la notte del 18 dicembre Lockhart ed Emily Phipps erano al laghetto, ma la natura e la profondità delle impronte mi ha fatto capire che Lockhart, a un certo punto, ha lasciato sola Emily Phipps, ed è poi ritornato, trovandola morta. Ha pensato di non dare l’allarme fino al mattino per non essere incolpato dell’accaduto. – Allora è tutta colpa di quel trafficante di medicinali se Emily è morta! – sbottò Hedger. – In parte, sì – rispose Holmes. – Lockhart ha avuto due colpe: la prima è stata la sua negligenza nella sorveglianza di Emily Phipps, e la seconda è stata la sua troppa ionalità in questa sorveglianza. Hedger sgranò gli occhi e fece per dire qualcosa, ma Holmes proseguì imperterrito: – Lockhart riservava delle attenzioni particolari a Emily, che a quanto pare non era nelle condizioni di poterle respingere con fermezza. Lui era il solo infermiere uomo autorizzato ad avvicinarsi a lei, e quando voleva togliersi qualche capriccio non aveva che da portarla nella stanza degli incurabili, ogni qual volta non ci fosse nessuno dentro. Altrimenti non si spiegherebbe come la ragazza abbia potuto riprodurre il disegno di una composizione floreale che può aver visto solo in quella stanza. Eh sì, la carne dell’uomo è debole, soprattutto di fronte a un’altra ancora più debole. Ma del resto, Lockhart non è stato l’unico uomo a subire il fascino malsano di Emily Phipps. Dico bene, dottor Hedger? Il mio ex compagno di università sembrò ammutolirsi ancor più di quanto non lo sembrasse già. Ci fissava con gli occhi quasi sbarrati, stringendo nervosamente le mani ai braccioli della poltrona. – Ho cominciato a sospettare qualcosa il giorno stesso in cui lei si è rivolto a me per chiedermi di indagare – proseguii Holmes. – Lei mi aveva detto di essere venuto per conto di Lord Normanby, ma l’assegno che mi ha dato era firmato da lei, e questo mi è parsa un’incongruenza. Mi sono bastati un paio di telegrammi
per accertare che Lord Normanby non sapeva nulla dell’indagine che stavo conducendo. A quel punto mi sono domandato perché lei avesse deciso di rivolgersi a me di sua spontanea iniziativa, e alla fine ho trovato la risposta: rimorso di coscienza e orgoglio professionale. Mi sono anche chiesto come mai avesse scelto proprio il Bethlem per il ricovero. In un primo momento avevo pensato all’eccezionale posizione del Bethlem nell’ordinamento giuridico britannico, dato che è l’unico ospedale in cui la commissione metropolitana non può svolgere ispezioni se non su esplicita richiesta di un suo membro interno. Il posto ideale per chi voleva nascondere qualcosa di imbarazzante. Poi, dopo aver conosciuto il dottor Huxley e aver fatto qualche ricerca nell’annuario degli studi medici, tutto è divenuto più chiaro. Lei e il dottor Huxley avete condiviso la pratica medica in uno studio a Selby, tre anni fa, e dunque vi conoscevate abbastanza bene. In nome della vecchia amicizia, lei ha chiesto ad Huxley di falsificare la data di ricovero di Emily Phipps e di proteggere la sua identità segreta. Huxley non ha voluto o potuto rifiutarsi. Quest’ultima considerazione ci porta a un’ulteriore domanda: perché falsificare la data di ingresso al Bethlem? Ebbene, c’era per lei una sola ragione: far credere che Emily Phipps fosse entrata là un mese prima l’avrebbe messa al riparo da qualsiasi sospetto in merito a una vicenda molto avvilente. Emily Phipps è entrata al Bethlem il 22 marzo, e non il 18 febbraio. L’ha fatta soggiornare per un mese presso una poco gentil donna che si occupa di ragazze poco fortunate, facendo credere a Lord Normanby e a tutti che fosse già al Bethlem. Doveva assolutamente essere certo che nessuno avrebbe potuto pensare a lei come colpevole nel momento in cui si fosse venuto a sapere che Emily Phipps era incinta. – Incinta? – allibì Hedger. – Lei farnetica, caro Sherlock Holmes. – Ah! Farnetico, dice? Vediamo se anche questo è farneticare. Holmes scattò in piedi e andò a frugare in uno stipo della credenza per prendere un vecchio borsello di pelle marrone, lo stesso che avevo visto la sera in cui ci eravamo appostati per sorprendere Lockhart e Drebber. Lo aprì e tirò fuori un asciugamano ben piegato che spiegò davanti agli occhi di Hedger. – Lo vede questo asciugamano? È macchiato del sangue di Emily Phipps, il sangue che ha versato per partorire suo figlio. – Mio figlio? Ma lei dev’essere impazzito!
– Non sono affatto impazzito, dottor Hedger. Guardi bene le due lettere ricamate sull’asciugamano: S.T. Non sono le iniziali di un nome, sono il monogramma del St. Thomas Hospital. Non è molto lontano dal Bethlem, e ci sono stato stamattina. Ho potuto fare un’interessante chiacchierata con un’ostetrica che il giorno 25 novembre è stata chiamata d’urgenza al Bethlem per far partorire in gran segreto una ragazza, Georgina Valmont, che veniva tenuta nascosta alla vista di tutti in un letto di una stanza della palazzina abbandonata dal 1864. Il parto è andato bene, ma il bambino, che peraltro si trova ancora al St. Thomas, è stato subito strappato alla madre, a cui è stato fatto credere che fosse morto. Ora capisce perché le ho detto che Emily Phipps si è certamente suicidata ma è stata anche uccisa. Una povera ragazza che viene fatta ricoverare in manicomio per nascondere una gravidanza non voluta dall’uomo che l’ha messa incinta, una povera ragazza che deve sopportare il dolore di un parto lontano da ogni faccia familiare e che per giunta si vede portar via il suo bambino. E s’immagini quale reazione può aver avuto dopo aver saputo che il bambino era morto. Direi che ce n’è abbastanza da indurre qualsiasi insanità puerperale, e a maggior ragione un suicidio. Hedger parve ammorbidirsi un po’, essendo evidentemente scosso dal racconto violento e diretto di Holmes, ma certo non era un osso tenero. – Lei non può provare nulla, Holmes. Quell’asciugamano che ha in mano e la testimonianza dell’ostetrica provano solo che Emily ha partorito al Bethlem, e nulla di più. Non c’è nulla che dimostri che quel bambino è mio figlio. – Ah, per essere più precisi, direi che non c’era, almeno fino a questa mattina. – Che cosa diavolo vuol dire? – Voglio dire che, stando ai tempi di madre natura, il concepimento dev’essere avvenuto nell’ultima settimana di febbraio. E a quell’epoca Emily non era ancora al Bethlem, anche se la data falsa doveva indurre a pensare che lo fosse. E direi che le date vere combaciano alla perfezione con ciò che c’è scritto in certe pagine del suo diario. – Il mio diario! – esclamò Hedger, scattando in piedi come una molla. – Lei ha frugato tra le mie cose nella stanza d’albergo! Ecco chi era il ladruncolo! – Si calmi, Hedger! – ribatté con molta decisione Holmes. – E veda di stare seduto ancora un po’. Le conviene, mi dia retta.
Hedger fu intimorito dalla reazione e dalle parole di Holmes e si rimise a sedere. – Lo ammetto, – continuò Holmes – ho dovuto compiere una piccola e ignobile azione, ma è stato a fin di bene. A volte si è costretti a commettere un piccolo crimine per scoprirne uno molto più grande. A ogni modo non le ho rubato nulla, mi pare, ho solo preso in prestito alcune pagine del suo diario. Lei mi aveva detto di tenere un diario privato, e io speravo di trovarci qualcosa d’importante, come in effetti è avvenuto. Ah, pessima abitudine per lei avere certe manie alla Samuel Pepys. “La mia dolcissima Emily sta soffrendo per colpa mia… ella porta in grembo il frutto proibito della mia e della sua lussuria… i sensi di colpa mi attanagliano, ma ormai non si può più tornare indietro… che il mondo non sappia mai che ho ceduto alle lusinghe di una meravigliosa pazza… il bambino che nascerà, se riuscirà a venire alla luce, non dovrà mai far parte della nostra vita.” Sono parole sue, Hedger, soltanto sue. Per la prima volta, e dopo molti anni che lo conoscevo, vidi James Hedger affranto e sconfitto. – È vero, sono parole mie – disse con un filo di voce. – E ora che cosa ha intenzione di fare? – Che cosa vuole che faccia? Emily Phipps è morta, e io non posso certo accusarla di averla uccisa materialmente, né di averla messa incinta. Però dubito che la sua professione medica potrà continuare serenamente se Lord Normanby viene a sapere che se l’è sata con sua nipote. Data l’influenza di quel vecchio gentiluomo, credo che lei non troverebbe più un cliente nemmeno in Australia. – E allora che cosa vuole fare? Rovinarmi? – Rovinarla? No, niente affatto. Sherlock Holmes difende solo la verità, non ama rovinare la gente. Lei ha commesso delle cattive azioni, indubbiamente, ma è ancora in tempo per riabilitarsi. Hedger lo interrogò con lo sguardo. – Al St. Thomas Hospital c’è un bambino che tra pochi mesi finirà in qualche squallido orfanotrofio. Lei è il padre, e tutto ciò che deve fare è riconoscerlo come figlio legittimo e prendersi cura di lui. Dia a quel bambino una possibilità di avere una vita migliore di quella che ha avuto sua madre. A proposito, è in
buona salute e l’hanno chiamato Thomas, per ovvie ragioni. Thomas Hedger. Che le pare, suona bene no? Se accetta, tutta questa storia rimarrà tra noi. Non vedo altra soluzione per lei, dottor Hedger. – Magari un’altra soluzione ci sarebbe – disse Hedger mentre estraeva di tasca il libretto degli assegni. – Devo saldarle la parcella, e potrei anche metterci su cento sterline in più. Che le pare, suona bene no? – Temo proprio che i miei principi etici non siano negoziabili, dottor Hedger. – E allora io temo proprio che dovrà accontentarsi dell’anticipo che le ho dato, signor Sherlock Holmes. – Me lo farò bastare. Devo dire che lei è stato alquanto generoso. Ma venendo da me si è tirato la zappa sui piedi. Hedger non replicò, ma proruppe in una risatina quasi isterica, ovvero quel ridere di chi non vuole scoppiare a piangere. – Fa bene a ridere – intervenne Holmes. – In effetti ho anche una buona notizia, per lei. Watson, vorrebbe cortesemente prendere quel quadretto che è appeso sopra la mensola del caminetto? Mi alzai e andai verso il caminetto ardente. Al di sopra della mensola in pomice c’era un quadro di piccole dimensioni a cui non avevo fatto caso. A giudicare dall’impasto di chiaroscuri doveva essere un’incisione o una specie di acquaforte. Raffigurava un cane che stringeva un’anatra morta tra le fauci, più o meno la stessa scena che era impressa nel bassorilievo sulla lapide del cortile interno del Bethlem Hospital. Lo staccai dalla parete per consegnarlo ad Holmes. – Ho comprato questa incisione stampata giusto stamattina – ci disse. – L’ho comprata in un negozio di antiquario e piccoli oggetti d’arte in King Street. Ora il proprietario è il signor Lefèvre, ma fino a un anno fa il negozio apparteneva a John Spender. L’ho pagata dieci scellini, e credo che li valga tutti. Anzi, ne vale molti di più, perlomeno per lei, signor Hedger. Holmes aprì il vetro della cornice e sfilò l’incisione, rivelando un altro foglio sotto di essa, più o meno di uguale grandezza. Lo voltò e ce lo mostrò. – Questo documento risale al 1813, e come potete vedere dal sigillo reale è
assolutamente autentico. Fu redatto da un segretario e firmato dell’allora principe reggente, futuro Giorgio IV di Hannover, quando il padre Giorgio III languiva nella sua follia religiosa in una stanza semibuia del castello di Windsor, assistito dal dottor Willis, un ciarlatano le cui assurde cure lo facevano sprofondare ancor di più nelle sue ossessioni. Lei sapeva che il suo bisnonno e omonimo aveva in concessione lo sfruttamento dei terreni di St. Georgés Fields, dottor Hedger? – No – rispose Hedger molto sorpreso. – Non lo sapevo. Non si conosce mai abbastanza la storia della propria famiglia. – Ah, non posso darle torto. Comunque, sta di fatto che uno dei vecchi proprietari della locanda The Dog and Duck e annessi terreni lasciò tutto in eredità a una giovane cameriera, Elizabeth Hedger, che assieme al figlio James avviò una florida attività di centro termale in cui andava a trastullarsi quasi tutta la bella società londinese dell’ultimo quarto del diciottesimo secolo. Nel 1796, però, The Dog and Duck venne chiuso per immoralità. Oltretutto, si scoprì che le acque contenute nel terreno circostante non avevano affatto delle proprietà benefiche; anzi, erano sature di elementi tossici come il mercurio e l’arsenico. Il suo bisnonno tentò di farsi rinnovare la licenza di sfruttamento dei terreni, che scadeva nel 1810, ma non ci riuscì. Il terreno ò alla Città di Londra e venne bonificato per poter costruire il Bethlem Royal Hospital. Tutto ciò che le ho appena detto è verificabile nei documenti conservati all’ufficio del catasto. – E quel documento che ha in mano… – Il documento che ho in mano è rimasto nascosto fino ad ora, non so per quale ragione. È difficile potersi spiegare come non sia mai stato reso pubblico durante la reggenza, né come sia finito dietro quella stampa. John Spender se l’era trovato tra le mani quando faceva l’antiquario, e ovviamente si era reso conto che quel documento avrebbe potuto assicurare una buona rendita a chiunque avesse portato un certo cognome, anche se non lo conosceva. Per farla breve, in questo documento c’è scritto che vengono concessi tutti i diritti di sfruttamento e costruzione sui terreni di St. Georgès Fields ai discendenti in linea diretta di John Hedger, a partire dal 1850 e per altri centocinquanta anni. In altre parole, lei può liberamente edificare sui terreni circostanti il Bethlem, e chiunque voglia costruire su quei terreni, come sta già accadendo, deve pagarle un affitto, e lo stesso dovrà fare con i suoi figli, e i figli dei suoi figli.
– Per Giove ! – esclamò Hedger. – Credo che smetterò di fare il medico e mi darò a una vita più comoda. – Dimentica un piccolo particolare, però. Lei potrà darsi a una vita comoda solo se accetta di riconoscere il bambino come figlio legittimo, in modo da garantirgli una buona rendita. Io consegnerò oggi stesso questo documento nelle mani di un mio avvocato di fiducia, che tra l’altro è già in possesso delle pagine più compromettenti del suo diario. Lui l’assisterà in tutto, a partire dal riconoscimento di Thomas Hedger come figlio legittimo. Nessuno saprà che l’ha avuto da Emily Phipps. Per una volta nella vita cerchi di uscire dal suo egoismo. Nel momento in cui io saprò che lei ha riconosciuto il bambino, l’avvocato le restituirà le pagine del diario e avvierà la procedura per richiedere tutti i crediti che le spettano su quei terreni. Ci pensi bene. Mi aspetto una sua risposta a mezzo telegramma entro quarantotto ore. James Hedger si alzò senza fiatare, si rimise cappotto e cappello e si diresse alla porta, premendo la mano sinistra sul pomello d’apertura. Poi puntò il suo bastone da eggio verso la poltrona dove stava seduto Holmes, a non più di tre iarde di distanza, e sibilò: – Lei è un maledetto ricattatore. Glielo hanno già detto, vero? – Oh, me l’hanno detto, ma ho sempre dato poco peso a certe accuse. Che vuole, sono i contrattempi del mestiere. Hedger sparì sbattendo la porta. – Lei crede che accetterà? – chiesi. – Se non accetta è più stupido di quel che si potrebbe pensare. È sempre un laureato in medicina alla London University, dopotutto. L’ultima battuta di Holmes mi strappò un sorriso, che mi spinse a domandare cosa avrebbe fatto quella sera: – Non vorrà mica stare solo la vigilia di Natale ? – In effetti l’idea non mi alletta, Watson. Credo che accetterò il suo gentile invito a cena, purché mi prometta che non si parlerà di astronomia. A quella cena, la cena della vigilia natalizia del 1889, non si parlò di astronomia, e per quanto posso ricordarmi ora fu una serata allegra e spensierata. Da allora non ho mai più rivisto James Hedger, il quale decise di accettare il compromesso
propostogli da Holmes. L’unica e ultima volta che ho avuto sue notizie è stato dieci anni fa, quando ho saputo che era morto d’infarto. Thomas Hedger è tuttora vivente ed è uno stimato immobiliarista della City. Anche oggi ci saranno sicuramente dei John Spender o delle Emily Phipps rinchiusi in qualche manicomio, ma queste sono altre storie, e io non posso certo raccontarle tutte.
FINE
Delos Digital e il DRM
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Sherlockiana in questa collana
Luca Martinelli, Sherlock Holmes e il tesoro di Sir Francis Drake Le intuizioni di Watson e le deduzioni di Sherlock Holmes alla ricerca della mente geniale del crimine che ha lanciato la sfida. ISBN: 9788867750368 Samuele Nava, Sherlock Holmes e la sfida dell'astrologo Un sedicente operatore dell’occulto, un astuto ingannatore, una sfida irrinunciabile per Sherlock Holmes. ISBN: 9788867750382 Luca Sartori, Sherlock Holmes e l'ultimo preraffaellita In questo romanzo breve, un’acuta indagine di Sherlock Holmes tra i segreti della vita, dell’arte e della morte! ISBN: 9788867750399 Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura del Carro di Tespi Sherlock Holmes e William Shakespeare: un'abbinata affascinante ISBN: 9788867750405 Luca Martinelli, Sherlock Holmes e l'avventura della corsa Londra-Brighton Lanciato a folle velocità nella corsa automobilistica Londra-Brighton, Sherlock Holmes deve risolvere il mistero del furto ai Lloyd’s. ISBN: 9788867750412 Enrico Solito, Sherlock Holmes e il mistero delle Dodici tavole Pergamene e misteri nella biblioteca di Padre Jorge ISBN: 9788867750900 Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura dell'enigma da Krakatoa Sherlock Holmes tra le pieghe di un'indagine al limite del sovrannaturale... Quale terribile segreto cela l’oggetto rinvenuto a Krakatoa? ISBN: 9788867750894 Samuele Nava, Il trovatello di Baker Street Un bimbo misterioso tra le braccia, e sotto la lente, di Sherlock Holmes! ISBN: 9788867750887 Enrico Solito, Sherlock Holmes Christmas Carol Natale a Baker Street: indagini sotto l'albero... ISBN: 9788867751211 Patrizia Trinchero, Il gioco è cominciato, Holmes! Tutta Londra è a caccia di Sherlock Holmes. Sarà stato lui a commettere il tremendo delitto di cui è accusato? ISBN: 9788867751266 Enrico Solito, Sherlock Holmes e il caso del giocatore di scacchi Una morte violenta, una torbida vicenda risolta dal grande investigatore. ISBN: 9788867751358 Luca Martinelli, Sherlock Holmes e il caso dei fidanzatini sfortunati Quando le apparenze indicano una soluzione, la logica di Sherlock Holmes dimostra che esiste un’altra verità. ISBN: 9788867751389 Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura della tredicesima porta Un'avventura mozzafiato tra le fogne di Londra e un piccolo grande uomo ISBN: 9788867751396 Luca Sartori, Il cane e l'anatra Sherlock Holmes, in questo
romanzo breve, indaga sul presunto suicidio in un ospedale psichiatrico in un viaggio nel mondo silenzioso e crudele della follia, dove nulla è come sembra, e dove i rancori più antichi riecheggiano come fantasmi inquieti. Un intreccio di misteri in un rocambolesco e imprevedibile finale. ISBN: 9788867751570
Gli ebook rapidi ed emozionanti
Erotismo Claudette Marceau, Io, Elisabeth Lo scoppio della Rivoluzione se sorprende Elisabeth, costretta a un percorso di emancipazione attraverso il sesso e l'amore, che non sempre convivono Senza sfumature ISBN: 9788867750443 Letizia Draghi, La sala delle punizioni È possibile progettare i luoghi delle fantasie erotiche altrui? E' questo il dilemma di Alessia Delfino, alle prese con il progetto della Sala delle Punizioni richiestole da un affascinante imprenditore Senza sfumature ISBN: 9788867750450 Ledra, Il ladro Una storia d’amore e di sesso tra due amici, che si scoprono innamorati loro malgrado Senza sfumature ISBN: 9788867750528 Macrina Mirti, Il dolce sapore della vendetta Una donna giovane, bella e in carriera torna in Italia e riscopre emozioni e sentimenti che aveva cercato di dimenticare. Ma anche un ato che credeva morto per sempre. Senza sfumature ISBN: 9788867750849 Emiliana De Vico, Incontri protetti Come può, Vivienne, fidarsi di Alex, un uomo forte e affascinante ma imbrigliato in una storia di responsabilità con un’altra donna? Senza sfumature ISBN: 9788867750542 s Shepard, Il suo gioco Lilian ha ceduto alla ione e sposato l’uomo che le ha fatto perdere la ragione: il principe Leonardo Alberto De Biagi. Ma lui custodisce un segreto nel suo ato, qualcosa che è finalmente pronto a condividere con lei Senza sfumature ISBN: 9788867750559 Emiliana De Vico, Zona d'ombra Vivienne incontra il tenebroso Oliver Di Nardi, perso in brutti ricordi, e gli offre il suo corpo, la sua conoscenza, la sua forza per riportarlo al qui e ora, tra le sue braccia, tra le sue gambe... Senza sfumature ISBN: 9788867750535 Letizia Draghi, La guardia del corpo Alessia conosce una giovane guardia del corpo russa: sarà vero amore o solo una piccante storiella estiva, in cui il sesso conta più tutto? Senza sfumature ISBN: 9788867750856
Fantascienza
Franco Forte, Chew-9 Il Chew-9 è la sostanza più preziosa della galassia. Un potente allucinogeno capace di fare interagire l’immaginazione con la realtà, manipolando la materia per ottenere effetti sconvolgenti. Una droga che solo i ricchi e i potenti possono permettersi. A costo di annientare intere civiltà... Chew-9 ISBN: 9788867751228 Franco Forte, La guerra coi Rems Perché gli umani sono in guerra con la razza aliena dei Rems? Che cosa nasconde, in realtà, di così prezioso il loro pianeta natale? Chew-9 ISBN: 9788867751303 Franco Forte, Sole giaguaro Ma quando Roxie viene ingaggiato per comandare una spedizione di soccorso, non può immaginare quello a cui si troverà di fronte: un buco nero sta per inghiottire la sua astronave… Chew-9 ISBN: 9788867751471 Franco Forte, Sentenza Capitale Riuscirà il detenuto Cash La Rocca a sopravvivere all’atmosfera letale di Mephistopheles, un gigante ghiacciato ricoperto da oceani di metano e ammoniaca da cui nessuno è mai tornato vivo? Chew-9 ISBN: 9788867751501 Franco Forte, Morte dell'Agglomerato Questa è la sua storia. La storia di come uccise l’Agglomerato... Chew-9 ISBN: 9788867751518 Dario Tonani, Mechardionica Il primo capitolo delle nuove storie di Mondo9 Mechardionica ISBN: 9788867750436 Dario Tonani, Abradabad Qualcosa di nuovo lacera l'immobilismo di Mondo9: volare salverà gli uomini dalla schiavitù delle navi? Mechardionica ISBN: 9788867750610 Dario Tonani, Coriolano Dai deserti alla giungla pluviale, sono sempre la ruggine e il metallo in cima alla catena alimentare… Mechardionica ISBN: 9788867751006 Paul Di Filippo, Il demolitore di astronavi Una grande astronave ormai in disarmo nasconde segreti impensabili. Ma ciò che si troverà Klom sarà il tesoro più inaspettato. E imprevedibile. Robotica ISBN: 9788867750504 Robert J. Sawyer, Mikeys Come l'astronauta dell’Apollo 11 Michael Collins il loro destino era quello di restare indietro, mentre i loro compagni conquistavano lo spazio. Robotica ISBN: 9788867750511 Barbara Baraldi, Paziente 99 L'umanità è ormai condannata a vivere nelle viscere della Terra. Ma le cose non sono come sembrano, e il piccolo mondo sotterraneo nasconde segreti sconvolgenti. Robotica ISBN: 9788867750627 Robert J. Sawyer, Sherlock Holmes e l'enigma definitivo Nel lontano futuro, un mistero eccezionale richiederà un investigatore eccezionale: Sherlock Holmes Robotica ISBN: 9788867750931 Nancy Kress, I fiori della prigione di Aulit Su Mondo chi commette un delitto è condannato all’esclusione dalla Realtà. E Uli vuole tornarvi a ogni costo. Premio Nebula 1996 Robotica ISBN: 9788867750948 Paul Di Filippo, Bleb L’amore al tempo degli elettrodomestici intelligenti. Lui. Lei. E i bleb. Robotica ISBN: 9788867750955 Vittorio Catani, Replay di un amore Una spiaggia, un mare, un bellissima ragazza che sapeva di amare. Ma non ricordava di averla mai conosciuta. Robotica ISBN: 9788867751365 Valentino Peyrano, Il
castello e il viandante In un mondo sconvolto dall'apocalisse gli uomini sono costretti a vivere chiusi in castelli isolati. Solo i Viandanti, depositari dell'antica scienza, mantengono i contatti tra gli ultimi baluardi dell'umanità. Tecnomante ISBN: 9788867750467 Valentino Peyrano, Bema Esteban il Viandante era stato accolto con tutti gli onori in quello strano castello, ma qualcuno tramava alle sue spalle. Tecnomante ISBN: 9788867750597 Valentino Peyrano, La strada verso nord C'è una speranza per l'umanità? Forse sì, se riusciranno a non affidarsi completamente ai Viandanti e a ritrovare la sete della conoscenza Tecnomante ISBN: 9788867750917 Valentino Peyrano, Il resoconto di Karl Per Esteban la minaccia della vendetta dei Viandanti è sempre più vicina. Tecnomante ISBN: 9788867750924 Valentino Peyrano, Korman Esteban il Viandante sta per trovare il suo destino, e svelare finalmente le origini del mondo distrutto e popolato da mostri nel quale agonizza ciò che resta dell'umanità Tecnomante ISBN: 9788867751280 Valentino Peyrano, Il monaco apocrifo Le prove a cui deve sottoporsi Esteban sono quasi insostenibili, ma ciò che lo attende al termine del percorso è qualcosa che nessun uomo sperimentava da secoli. Tecnomante ISBN: 9788867751495
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delle ombre ISBN: 9788867751204 Luca Di Gialleonardo, La daga di bronzo Konor è un "rinato" e il suo destino è essere reclutato nella Fratellanza della Daga. Che lo voglia o meno. Fantasy Tales La Fratellanza della Daga ISBN: 9788867750801
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sposarlo... finché nella sua vita entra Andrea Ruffini... ioni Romantiche ISBN: 9788867751259 Paola Picasso, Questione di pelle Stefano ancora non sa bene cosa abbia spinto sua moglie a lasciarlo. Sa solo che l'ama ancora e che farà di tutto per riconquistarla... ioni Romantiche ISBN: 9788867751242 Roberta Ciuffi, L'amore fa così La prima volta che lo vede lui indossa dei jeans al ginocchio, è sporco di calce e ha l'aria decisamente troppo virile ed energica, per una come Veronica, che non vuole più avere niente a che fare con gli uomini... ioni Romantiche ISBN: 9788867751464 Ledra, L'abete perfetto Vanessa ha il cuore infranto. Ma la ricerca di un albero di Natale la farà ricredere sul fatto che l’amore esiste… basta tenere aperta la porta del cuore. ioni Romantiche ISBN: 9788867751488 Angela Fassio, Brivido rosa L’amore è più forte del tempo e della separazione... ioni Romantiche ISBN: 9788867751556
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abilità variate, a letto e sui campi di battaglia Sex Force ISBN: 9788867751525
Steampunk Roberto Guarnieri, Il Circolo dell'Arca Chi avesse posseduto l’Alborg non avrebbe mai conosciuto la sconfitta. Ed era compito di John Fox fare in modo che nessuno vi riuscisse. Il circolo dell'Arca ISBN: 9788867751037 Roberto Guarnieri, La macchina delle vite perdute Una nuova avventura per John Fox e i suoi colleghi del Circolo dell'Arca, alle prese con una cospirazione che minaccia di riempire Londra di zombie assassini Il circolo dell'Arca ISBN: 9788867751341 Roberto Guarnieri, I misteri di Samotracia Una scoperta archeologica può far risorgere gli antichi ,oscuri, terribili, Grandi Dei? Il circolo dell'Arca ISBN: 9788867751532
Tecnologia Carlo Mazzucchelli, Tablet: trasformazioni cognitive e socio-culturali Una disamina socio-culturale sull'avvento del Tablet e sull'evoluzione della tecnologia TechnoVisions ISBN: 9788867750993 Carlo Mazzucchelli, Internet e nuove tecnologie: non tutto è quello che sembra Il mondo digitale sta cambiando e nel farlo cambia anche noi. Stiamo rischiando di essere imprigionati all’interno di una bolla piena di filtri idee della realtà lontane dai fatti reali e dai bisogni. Per evitare di esservi richiusi per sempre è necessario riflettere su temi quali la privacy, la cittadinanza, la relazione sociale, la democrazia, la ricerca di benessere e felicità personali, ecc. TechnoVisions ISBN: 9788867751440
Thriller Andrea Franco, Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer Entra nella mente di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee... Serial Killer ISBN: 9788867750474 Fabio Oceano, La quarta vittima Il serial killer che rapisce e sevizia i bambini di New York: Albert Fish, detto il cannibale... Serial Killer
ISBN: 9788867750573 Umberto Maggesi, Io, il mostro Andrei Chikatilo detto il mostro di Rostov, è forse uno dei più sanguinari serial killer della storia dell’umanità, certamente quello che ha potuto agire impunito per più tempo... Serial Killer ISBN: 9788867750566 Andrea Franco, Lungo la via del pensiero 1993. Anche l'Italia ha il suo Serial Killer: Gianfranco Stevanin. Una storia vera, una storia di orrore e violenze. Serial Killer ISBN: 9788867751563
Zombie Franco Forte, Stazione 27 Siamo nella metropolitana di una città non precisata. Il mondo finisce mentre Milo si trova a bordo di un treno. Riesce a fuggire inseieme a un gruppo di sopravvissuti, ma... cosa troveranno alle prossime fermate? E perché, una volta giunti al capolinea, la metropolitana sembra non finire mai? The Tube ISBN: 9788867750429 Ilaria Tuti, Carlo Vicenzi, La fame e l'inferno Mentre Milo, Marika e Ivan lottano per sopravvivere nel vagone della metropolitana che pare diretto verso il nulla, in superficie un nuovo personaggio si aggira fra i morti viventi: è Tea, una donna che custodisce un segreto terribile The Tube ISBN: 9788867750863 Antonino Fazio, Alain Voudì, Giorno Zero Mentre l'orda di non morti dilaga, lasciandosi dietro una scia di devastazione, una squadra dei reparti speciali inviata in missione di soccorso scopre che gli zombie non sono che l'avanguardia di un pericolo ancora più letale... The Tube ISBN: 9788867751020 Ilaria Tuti, Ceneri Mentre Milo, Marika e gli altri sono nel vagone e cercano di stabilire un contatto con le creature, sopra, nella città devastata, qualcuno sta rischiando la vita per raggiungere la metropolitana... The Tube ISBN: 9788867751082 Scilla Bonfiglioli, Progetto Bokor Il treno ferma alla stazione 28, dove Milo, Marika, Amina e Ivan incontrano i sopravvissuti della metropolitana. Ma qualcosa va storto... The Tube ISBN: 9788867751198 Antonino Fazio, Alain Voudì, Il bacio della morte Erano addestrati per le situazioni più pericolose, ma l'orrore del Centro Ricerche della dottoressa Calandra forse era troppo anche per loro The Tube ISBN: 9788867751327 Fabio Pasquale, Michela Pierpaoli, Legame di sangue Se stai facendo la chemio, gli zombie non ti mordono. E se sei un ladro d'auto, perché dovresti interessarti a una bambina che vaga per la città infestata dai morti viventi? The Tube ISBN: 9788867751433 Luigi Brasili, Il lupo Il lupo si aggira nei meandri della metropolitana, invisibile come un fantasma. Ma quando il mondo di sopra incontra da vicino quello di sotto, possono scatenarsi eventi che nessuno dei due
mondi avrebbe voluto conoscere... The Tube Exposed ISBN: 9788867751051 Roberto Zago, L'antro di Jona Quando l'orda di zombie travolge il mondo, solo un uomo ha la forza per risalire in superficie. Ma cosa troverà ad attenderlo? The Tube Exposed ISBN: 9788867751105 Diego Lama, Il cacciatore Mentre l'orda di non morti dilaga nella città, all’interno della stazione della metropolitana solo pochi esseri umani riescono a sopravvivere... Attenti al cacciatore... The Tube Exposed ISBN: 9788867751235 Camilo Cienfuegos, I ripulitori In un mondo dove il morbo sembra prendere il sopravvento, ci si deve inventare qualunque cosa per sopravvivere. Magari improvvisarsi ripulitori di zombie... The Tube Exposed ISBN: 9788867751419 Diego Matteucci, Il tempio della notte Un’antica costruzione celata all’interno di un parco nel cuore stesso della città assediata dagli zombie nasconde un mistero terribile The Tube Exposed ISBN: 9788867751426