sco Ratti
Futbolario Compendio di calcio e di vita
Prefazione a cura di Stefano Paolini
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Titolo | Futbolario – Compendio di calcio e di vita Autore | sco Ratti Immagine di copertina di sco “Frankie” Federico ISBN | 9788891100580 Prima edizione digitale: 2012
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A chi mi ha ato in questa avventura A chi mi sopporta
Ti voglio dire questo: la cosa dannosa del fascismo è che induce gli imbecilli a credersi molto furbi. Quanto più uno è idiota, tanto più il fascismo lo fa sentire orgoglioso di sé. Ci sono iniziative da tutte le parti, inaugurazioni, bandiere, preti, fútbol e molto silenzio. Ti tranquillizza non dover pensare, e finisci schiavo di un principe fantoccio.
OSVALDO SORIANO, Fútbol. Storie di calcio, Einaudi, 1998
Prefazione
4 dicembre 2011: ultima giornata del Campionato del Brasile. Finalmente scopriremo quale sarà il Club campione. Nella terra di Pelé, è una consuetudine lasciare i “torcedores” (tifosi) con il fiato sospeso fino all’ultimo. Alcuni sostengono che, in questo modo, c’è più gusto a vincere e a sfottere gli avversari. Le emozioni che si vivono in quella terra sono da sempre forti. Lo erano già ai tempi delle civiltà precolombiane, con i riti officiati dai “caciques” (stregoni), poi arrivarono i “Conquistadores”. Ed infine le emozioni vissute nel periodo in cui combatterono i “Libertadores da America”.
Nell’ultima giornata del Brasileirão, il Corinthians e il Vasco da Gama si contendono il titolo tanto ambito. Assieme, le tifoserie delle due squadre, totalizzano qualcosa come 45 milioni di anime votate ad un solo scopo: la vittoria finale. Il Corinthians per tutto l’anno ha dimostrato di essere una squadra concreta, ma è arrivato alla fine del campionato con il fiatone e ha vinto le ultime partite più per fortuna che per abilità dei suoi Moschettieri. Considerando solo i meriti sportivi, dovrebbe essere il Vasco da Gama a vincere. Il Club di Rio de Janeiro ha vissuto una stagione esaltante. Inoltre, per tutta la seconda parte del campionato, la squadra è stata guidata da Cristovão Borges, un carneade che ha preso le redini della situazione dopo che Ricardo Gomes, l’allenatore titolare, è stato colpito da un aneurisma cerebrale mentre veniva disputato un derby con il Flamengo. Dopo un periodo di apprensione per le condizioni del Comandante della Caravella, la squadra comincia ad inanellare una serie incredibile di successi, grazie anche alla rapidità con cui le condizioni di Gomes migliorano. L’allenatore si è ripreso talmente bene, da essere in grado di visitare i suoi ragazzi alla vigilia dell’ultima giornata, per infondere loro il coraggio necessario per osare e vincere. I presupposti per la bella favola ci sono tutti e così, sabato 3 dicembre, vado a letto convinto che gli “dei del calcio” staranno dalla parte del Vasco.
Purtroppo, il risveglio nel giorno di Santa Barbara mi fa esplodere in lacrime.
Apprendo che è morto Socrates. Una notizia che mi lascia attonito e profondamente triste. E’ morto il pensatore, l’artista, il Dottore, il calciatore. Le sue condizioni non erano buone da tempo, ma confidavo che ancora una volta, con un sorprendente colpo di tacco, “Magrão” (ovvero magrone, così era chiamato dai tifosi del Corinthians) avrebbe di nuovo spiazzato tutti. E invece se ne va, nel giorno più importante per il suo Corinthians. Socrates viene assunto nell’Olimpo degli dei del calcio, e cambia un destino che sembrava già scritto. Mancano circa 10 ore all’inizio delle partite finali. So perfettamente come andrà finire. Il Corinthians vince il Brasileirão 2011, e festeggia con il pugno chiuso alzato al cielo, come piaceva fare il Dottore.
La prima persona con la quale ho parlato quel giorno è stata sco. Sapevo che poteva comprendermi. sco è un grande conoscitore della storia politica e calcistica dell’America Latina. Mi disse che, proprio in quei giorni, stava ultimando la stesura di un suo libro sul calcio. Egli è un osservatore attento e sono certo che ha illustrato al meglio i movimenti calcistici che nacquero in America Latina, e sono altresì convinto che questa sua indole curiosa ed attenta, lo porterà in futuro ad analizzare l’altrettanto importante storia del calcio europeo. sco non vuole formare un’opinione, non gli interessa. So che gli piace dire la sua argomentando le sue ragioni con dei dati. Da troppo tempo la diffusione delle televisioni via cavo ha permesso una proliferazione isterica di esperti di calcio, la maggior parte, mi duole dirlo, poco preparati in termini di storia e di attualità. La capillare diffusione dell’informazione, delle mode e dei modi di dire ati dai mass-media bombarda quotidianamente i miliardi di apionati di calcio, propinando loro appena una infarinatura. La cultura? E’ roba che non fa audience. Meglio lasciar perdere.
Con questo libro, sco si propone di illustrare ai suoi lettori ciò che gli apionati di calcio a volte non sanno perché non hanno tempo, o voglia per scoprirlo. Ovvero: il calcio così com’è. La lente di ingrandimento che sco usa, non la rivolge alla marca dello scarpino dell’atleta, tantomeno all’opera avveniristica e sponsorizzata che rappresenta uno stadio moderno. sco ci parlerà di emozioni, di fatica, di sudore, di ambizioni, di voglia di vincere e di possibilità sociali che il calcio dovrebbe offrire a tutti, come accadeva in ato. Se in America Latina ancora (spero non per poco) si respira un’aria differente,
ciò non deve essere visto come un sintomo di arretratezza. Il rinnovamento non reca con sé solo migliorie. Il calcio moderno che è approdato prepotentemente in Europa, ha spazzato con un colpo di spugna realtà storiche che hanno dato tanto all’evoluzione culturale di questo sport e che, loro malgrado, sono rimaste indietro. Purtroppo nessun organo che presiede il calcio ha interesse a mutare questa situazione. Nazioni come Austria e Ungheria sono rimaste al palo, dimenticate e gettate nell’oblio. Quanti fedeli telespettatori delle televisioni via cavo sanno del grande contributo che questi paesi hanno dato al calcio?
In questi ultimi tempi va molto di moda seguire la Premier League. Un campionato ricco, che dà parecchie emozioni, grazie anche ai campioni pagati milioni di sterline. Quanti sanno che c’è una squadra inglese, attualmente in seconda divisione, che ha vinto più Coppe dei Campioni che scudetti?
Spettacolo. E’ questa la parola d’ordine del calcio attuale. Mi troverei concorde se lo spettacolo si riferisse a quanto avviene in campo. Purtroppo, gli sforzi degli uomini del merchandising, della comunicazione sono rivolti a perseguire un ottimo fatturato, a far gonfiare le casse. E così la bella partita diventa un plus.
Il vero spettacolo a cui siamo stati abituati da ragazzi, quando ancora si giocava per le strade, è veder emergere il talento. Che sia il talento la discriminante e non la capacità economica. Solo in questo modo si potrà tornare ad avere dei campionati elettrizzanti ed equilibrati fino alla fine, dando la possibilità di vincere a tutti.
Certamente l’ultima Premier League è stata spettacolare, con un risultato incerto fino all’ultimo. Vorrei ricordare, però, che il City ha vinto a suon di milioni e la contendente (lo UTD) non era certo l’ultima arrivata. Ciò che è accaduto in Inghilterra quest’anno è stato sorprendente, ma c’è chi fa di meglio. Se guardiamo i campionati degli ultimi 40 anni, le statistiche parlano chiaro. Il campionato nazionale in Gran Bretagna è stato vinto da 11 Club differenti. In Italia e in Germania da 9, mentre solo 7 squadre spagnole hanno vinto il
campionato negli ultimi 4 decenni. In pratica, in Spagna una tifoseria gioisce ogni 6 anni. In America Latina la situazione è ben differente. Sono 16 in Argentina e 17 in Brasile infatti, le squadre che hanno vinto il campionato nazionale negli ultimi 40 anni e la maggior parte di questi club nel corso degli anni ha conosciuto la seconda e a volte la terza divisione.
Dunque la parola d’ordine è equilibrio, ma non solo economico. Al giorno d’oggi i grandi patrocinatori e gli introiti televisivi milionari sono arrivati ovunque, America Latina compresa. Spesso si vedono le maglie dei grandi Club piene zeppe di sponsor, ma l’emozione di una partita che non ha il risultato scontato, lì è ancora viva.
sco sa bene tutto ciò, e per questo ha voluto scrivere questo libro, rivolto agli apionati e agli storici del calcio che, sicuramente, ne sanno più di lui e del sottoscritto messi insieme. Anche chi ha seguito fin dall’inizio il calcio solo nella “caverna via cavo” può, grazie a questo libro, avere degli spunti di riflessione interessanti e scoprire cose nuove. sco non ci parla di ombre, ma di uomini, uomini che hanno fatto il calcio. Dopo aver letto questo libro non avremo paura di uscire dalla nostra “caverna” e convinceremo i nostri amici a leggere ciò che sco ha elaborato per noi.
E’ il mito della caverna. Elaborato da Platone migliaia di anni fa per parlare dell’ingiusto processo subito da Socrate.
Adesso che Socrates non c’è più, invito tutti a non rimanere incatenati al mondo dell’opinione e ad uscire dalla caverna.
Buona lettura,
Stefano Paolini
Introduzione alla lettura
Scrivere un libro, per un autore occasionale, è come approcciare a un esame universitario senza avere la benché minima base per affrontarlo. Oltre alle idee che ciascuno di noi può e deve possedere, l’attività necessita di una mole di tempo che un soggetto plurimpegnato come il sottoscritto trova la sera, spesso la notte, con le conseguenti difficoltà al risveglio mattutino prima di recarsi come di consueto in ufficio. Una volta iniziato, si è più volte sul punto di interrompere il manoscritto, stretti in una morsa dal sonno travolgente e dalle temporanee perdite d’ispirazione. Sono i momenti in cui emergono ione e motivazione, nell’esercizio di un’arte che potrebbe ripagare lo scrittore con l’apprezzamento dei lettori e non solo con l’orgoglio di aver portato a termine un’opera del tutto personale.
L’idea di scrivere un libro sul calcio, anche se non tratta esclusivamente la materia sportiva, nasce dalle centinaia di articoli prodotti per il blog personale, pubblicati su portali specializzati o semplicemente riposti in un cassetto, per la gioia di esprimere un pensiero o un’opinione personale. Più in generale, è la smisurata ione per questo sport, tale da rasentare la malattia, a convincermi del fatto che l’unico antibiotico possibile per guarire è l’illustrazione dei fatti calcistici. Domandandomi il perché non fosse possibile organizzare questi appunti in un unico testo, emerge così la volontà di offrire vecchi articoli, adattarli al mutamento dei tempi, rielaborarli e implementarli con nuove tematiche. Questa è la genesi della bizzarria di procedere alla stesura del manoscritto, che assume un significato solo dopo aver catalogato gli appunti in differenti aree.
I capitoli in cui si articola il libro, intendono rappresentare gli elementi che considero il motore del gioco più popolare al mondo. In primis il gesto tecnico, espressione dell’abilità individuale nel decidere le sorti di una partita entusiasmando il pubblico, proseguendo con il ruolo chiave dell’allenatore, senza far mancare un elogio alla fantasia del numero 10, ripercorrendo le reti più
significative della storia del calcio e proponendo un’apionata descrizione della partita che, per nessuna ragione al mondo, potrei perdermi. Procedo successivamente all’illustrazione dei principali sacrari del calcio, impianti che portano in dote innumerevoli memorie sportive, mentre non è possibile non mettere sotto la lente d’ingrandimento la crisi del gioco nostrano e un dilettantismo giovanile sempre più esasperato. Quando il fútbol sconfina nella tragedia, sfocia poi nel dramma: è questo l’ultimo capitolo dell’opera, prima della gustosa appendice finale.
Futbolario è sicuramente un libro sul calcio, ma non di storia del calcio. E’ piuttosto una rilettura, tramite episodi calcistici che ritengo salienti, della storia contemporanea e dell’evoluzione del nostro corpo sociale. In poche parole, un compendio di calcio e di vita, in cui emerge a più riprese la visione dello sport come spaccato della società in cui viviamo, in un costante parallelismo tra accadimenti sportivi e storico-politici. Per i più, il gioco del calcio dell’era moderna coincide con il mondo patinato dello show-business, con divergenti valutazioni tra chi ne decanta le lodi e chi lo disprezza a tal punto da ripudiarlo. In queste pagine, proverò a indirizzare il punto di vista del lettore sul significato autentico del gioco del pallone, il più democratico degli sport, dove tutti partono alla pari, in cui a vincere non è sempre il migliore in campo, ma nemmeno il più ricco e aristocratico.
L’origine del gesto tecnico
Quando si è giovani e alle prese con l’esercizio del pallone, una delle cose più divertenti e stimolanti è la simulazione di azioni e movenze tipiche di calciatori famosi, apprese tramite la televisione e, da qualche anno a questa parte, sui principali motori di ricerca per video in internet. Eseguita in maniera ordinata, naturale oppure goffa, la ripetizione del gesto tecnico ci fa sentire per un attimo campioni affermati, giocolieri raffinati, attori principali di uno sport sempre proteso alla ricerca di nuovi interpreti. In poche parole voliamo con la fantasia, smettere di farlo significherebbe invecchiare.
I mass media pronti a spettacolarizzare ogni singolo movimento, anche il più banale, enfatizzano il tutto con la produzione di neologismi urlati a squarciagola. Spesso la loro memoria si ferma agli interpreti del calcio moderno, dimenticando le origini di gesta che risalgono ai tempi in cui la televisione non dominava i terreni di gioco. Questo capitolo ha l’obiettivo di restituire la paternità di reti al limite dell’incredibile, movimenti impossibili e terminologie finite nel dimenticatoio.
Il calcio moderno, che offre alle squadre asfissiate dai ritmi di gioco ossessivi zone di campo sempre più ridotte, impone lo sfruttamento delle palle inattive. Situazione che ogni allenatore, me compreso, intende far fruttare al meglio è quella del calcio d’angolo. Schemi disegnati alla lavagna e testati per ore in allenamento possono essere cancellati in un colpo solo, quando la parabola disegnata dal giocatore calciante s’inarca fino ad assumere un effetto strano, sino a depositarsi in rete senza la benché minima deviazione di un compagno, avversario oppure arbitro. E’ il gol olimpico.
Corre l’anno 1924 e la IFAB, organismo deputato alle modifiche regolamentari, autorizza il gol diretto dalla bandierina. Ne approfitta della situazione il
britannico Billy Alston, che sigla la prima rete della specie il 21 agosto dello stesso anno, nell’anonimato generale. E’ un gesto tecnico di estrema difficoltà che richiede grande perizia nell’accarezzare il pallone, con l’interno collo del piede e, per avere una maggiore risonanza, necessita di essere eseguito in un incontro di cartello.
Ne è ben consapevole l’esterno sinistro dell’Atlético Hurácan e della nazionale albiceleste, il giovane Cesáreo Onzari, che sente di avere questo colpo in canna. Per poterlo eseguire attende una partita che gli argentini sentono particolarmente, ovvero l’amichevole del 2 ottobre 1924 contro i rivali dell’Uruguay, freschi vincitori dell’Olimpiade di Parigi. In pratica la squadra più forte del pianeta, quando i mondiali ancora non esistevano.
Si gioca sul terreno dello Sportivo Barracas e la partita è molto spigolosa. Il risultato finale sarà di 2-1 per i padroni di casa, ma poco importa. Ciò che gli storici ricordano di quella partita è l’episodio che avviene al 15’ di gioco, quando sulla bandierina si presenta Onzari, per calciare un pallone che i più si aspettano corto sul primo palo o lungo sul secondo. Tra lo stupore degli increduli avversari ne esce un disegno perfetto, una traiettoria che si alza pian piano per poi scendere sino a depositarsi nella rete, senza che nemmeno un soffio di vento abbia sospinto la sfera. Di quell’esecuzione rimane solo un’istantanea in bianco e nero, ma non vi sono dubbi sul fatto che sia andata così. Cesáreo Onzari segna il primo gol olimpico, che mai sarà siglato in un’Olimpiade ma solo in un’edizione dei Mondiali. E’ il 1962 ad Arica, nel Cile settentrionale: il colombiano Marcos Coll mette in ginocchio sua maestà Lev Yashin.
Alzi la mano chi, anche solo per una volta, non ha mai aperto un pacchetto di figurine dei calciatori della serie A italiana. Forse lo avete solo accarezzato, rubato o semplicemente visto, rapiti da quel logo che vi compare dalla metà dagli anni ‘60. L’Italia vanta importanti interpreti del gesto tecnico della rovesciata, da Riva ad Anastasi, ma prima di loro a eseguirla è il difensore juventino Carlo Parola, quello immortalato dalle figurine appunto. Un movimento perfetto, che nella specifica situazione ha l’obiettivo di liberare
l’area dagli attacchi avversari, giunto nel paese di Garibaldi nell’immediato dopoguerra.
La storia del calcio, che dovremmo imparare a leggere su scala planetaria e non semplicemente nel nostro amato orticello, ci insegna che la prima sforbiciata risale al 1914 per opera di Ramón Unzaga. Sul campo del porto cileno di Talcahuano “con il corpo sospeso nell’aria, di spalle al suolo, le gambe lanciavano il pallone all’indietro nel repentino andirivieni delle lame di una forbice”¹. Il gesto atletico si rivela al mondo con l’appellativo di chilena solo qualche anno dopo, nel 1927.
La squadra del Colo Colo, fondata appena due anni prima, si trova in Spagna per un ciclo di amichevoli. Il suo leader è David Arellano, un’ala sinistra consacratasi al recente Sudamericano dopo aver segnato 7 reti, giocatore di tecnica squisita e dalle ottime prospettive. Il venticinquenne incanta il pubblico con questo gesto sconosciuto agli europei, mentre la stampa spagnola si affretta a identificare tale meraviglia con la nazionalità del giocatore.
Il pallone alto, il corpo che spinto dall’irrazionalità si solleva nel cercarne il contatto, le gambe che in maniera fulminea, ma elegante, sforbiciano la sfera cercando di sorprendere il portiere avversario. E con ciò stupire il pubblico, esaltare le folle oppure deprimerle, riportare il calcio a una dimensione puramente estetica, ma anche librare l’animo alla ricerca dell’extraterreno. La rovesciata è uno dei movimenti più difficili, se non il più difficoltoso, dicotomizza “i bravi” e “gli scarsoni”, i predestinati e i senza futuro. Il perfetto esecutore della chilena è un superbo folle, consapevole dei propri mezzi, che sfodera il colpo quando lo ritiene opportuno e senza preoccuparsi di ciò che potrebbe scaturire da una pessima esecuzione.
L’eroe che inventa la rovesciata entra nella mitologia del calcio ed esce da tutti i campi di gioco lo stesso anno. Nella sfida contro il Valladolid cade in un contrasto e, colpito da peritonite, muore in ospedale. La sua squadra gli intitolerà
il proprio stadio e non poteva essere altrimenti. Nel testamento non scritto, Arellano lascerà in donazione al gioco del pallone il “suo” gesto, con la precisa condizione che non venga abusato da interpreti dell’ultim’ora.
A evolvere ulteriormente il movimento, sino a renderlo una bicicleta, ci penserà il brasiliano Leônidas, il diamante nero destinato a diventare una leggenda del San Paolo, l’autore di gol “talmente belli che persino il portiere avversario si rialzava per congratularsi”². Un altro brasiliano, Rivaldo, renderà il gesto sublime: la rovesciata che all’ultima giornata della Liga Spagnola 2000/01 schianta il Valencia è l’emblema della perfezione artistica.
Nelle semifinali dell’Europeo 2000 disputato in Olanda e Belgio, la lotteria dei calci di rigore riserva agli occhi degli apionati una piacevole sorpresa. Dopo 120 minuti di autentica sofferenza catenacciara, che contraddistingue dal dopoguerra la nazionale in maglia azzurra, la competizione calcistica attende ancora di conoscere chi, tra Italia e Olanda, accederà alla finalissima. Le imprecisioni dei tulipani dal dischetto aprono la strada alla morbida esecuzione di sco Totti, che mette a sedere il lungo portiere Van der Sar con un delizioso scavetto. In Italia nasce il mito del cucchiaio. La mania del rigore “alla Totti” imperversa in tutto lo Stivale, acquisendo nel giro di pochissimo tempo una folta schiera di imitatori. Solo qualche storico del calcio, dall’alto della propria obiettività, ricordava però le vere origini del gesto.
L’anno è il 1976, in Italia impazza il terrorismo, Seveso è devastata dalla diossina e il Friuli distrutto dal terremoto. Nasce sco Totti e il rigore “alla Panenka”, dal nome del suo inventore. Ma andiamo con ordine.
Nel nefasto ‘76 che vede morire il monumentale Mao Tse Tung si giocano anche i campionati europei di calcio, che dopo un’intensa fase eliminatoria giungono alle finali disputate nella Jugoslavia del socialismo autogestito. Le semifinali premiano la tenacia e la preparazione atletica di Germania Ovest e Cecoslovacchia, capaci di sconfiggere rispettivamente i padroni di casa e
l’Olanda totale dopo i tempi supplementari. Lo scenario che si apre è quello di una finale dall’esito scontato, considerata la levatura dei teutoni capitanati da Kaiser Franz Beckembauer. I cecoslovacchi sono un collettivo ben amalgamato, ma che sulla carta non sembra reggere il confronto con la prestanza di Vogts, i calci piazzati di Bonhof e la fame di gol di Dieter Müller.
Contro ogni pronostico, sospinti dall’entusiasmo di uno sparuto gruppo di sostenitori, i ragazzi di Jezek ano rapidamente in vantaggio per 2-0 e lo mantengono per un po’, grazie soprattutto alle prodezze del portiere Ivo Viktor. Poi i tedeschi dimostrano per l’ennesima volta di avere sette vite, accorciando le distanze e pareggiando in chiusura con Hölzenbein, mostrando finalmente la prima sfida a calci di rigore decisiva nella storia delle competizioni ufficiali per nazioni.
Gli undici metri che separano il dischetto dalla porta assumono i gradi di una tesi di laurea per un calciatore. Come lo studente modello deve dimostrare di saper arrivare a conclusione del percorso universitario, con un elaborato adeguato alla media voti e corredato da un’ottima esposizione, il rigorista deve mostrare qualità che trascendono da un mero discorso tecnico. La freddezza nel controllare le naturali emozioni, la lucidità nel leggere i movimenti del portiere, l’abilità squisitamente balistica nel calciare la sfera: queste sono le caratteristiche del perfetto uomo dei rigori.
Ne sa qualcosa Uli Hoeness, giovane attaccante del Bayern Monaco e prolifico come pochi, che dopo una partita di sacrificio spara altissimo sugli spalti del Marakana. Sul dischetto si presenta quindi il baffuto Panenka, centrocampista di ventotto anni che milita orgogliosamente nel Bohemians Praga, una squadra che vivacchia tra la Prima e la Seconda divisione Cecoslovacca. Un giocatore tecnico, ma di cui si conosce poco, complice una cortina di ferro che separa capitalismo e socialismo reale. La rincorsa del cecoslovacco è lunga e lascia presagire una soluzione di potenza, egli giunge veloce al pallone fermandosi bruscamente davanti a questo, accarezzandolo col piede destro e depositandolo morbidamente in fondo al sacco. Sepp Maier steso al suolo vede il pallone
entrare lentamente al centro della porta, beffato e deluso da un calcio di rigore mai visto sino allora. Panenka cercava l’occasione internazionale per far conoscere al mondo il proprio modo di calciare dal dischetto, uno stile già esibito nelle partite del proprio campionato nazionale, e l’ha trovato in questo caldo 20 giugno a Belgrado. Lo consacrerà negli anni a venire nel campionato austriaco, vincendo scudetti e coppe d’Austria.
Ciò che conta è che nel 1976 nasce La Panenka, ovvero lo scavetto su calcio di rigore, un modo per prendersi burla di un portiere oppure per vincere un Europeo.
Alla vigilia dei Mondiali di Sudafrica 2010 l’International Board, organismo integrato alla FIFA e deputato alle modifiche regolamentari, ha privato il calcio dell’ennesima follia sudamericana. Forte delle “seducenti” pressioni lobbistiche europee, cui si dimostra sempre sensibile, la controversa federazione sportiva planetaria da deciso di abolire la paradinha. Cancellare ogni forma di protesta e sana irriverenza è prerogativa dei regimi tirannici. Funziona così anche nella dittatura Blatter, sempre in poltrona per conseguire l’obiettivo di rendere gli addetti ai lavori un ammasso di automi senza possibilità di dissentire. Un calcio senza fantasia, è questo l’impegno preciso che i tecnocrati della FIFA sembrano essersi dati nel tempo. Non sono casuali le schermaglie tra i vertici calcistici mondiali e Maradona, rimpiazzato nel cuore e nel portafoglio dai più accomodanti Pelé e Platini.
Il testo della modifica dell’IFAB recita: “fermare la rincorsa di un rigore per confondere l’avversario è permesso, mentre fintare il calcio alla palla una volta che il tiratore ha concluso la corsa, è ora considerato un atto antisportivo per il quale il giocatore dev’essere punito con il cartellino”. Niente più portieri a terra prima ancora di calciare il pallone, poco importa a Neymar, la sua classe gli consentirà di mettere a segno comunque i tiri dal dischetto. Certamente, se la regola fosse stata introdotta con la nascita del gioco del calcio, non ci saremmo goduti l’esecuzione con cui Meazza, complice la rottura dell’elastico del pantaloncino e l’annessa sosta in prossimità del pallone per reggerlo, decideva la
semifinale del Mondiale 1938 contro il Brasile.
La modifica lascia comunque un ampio margine di discrezionalità ai direttori di gara, che mai come in questa occasione sono chiamati a decidere tra anticonformismo e conformismo, fantasia e uniformità. L’International Board sembrerebbe autorizzare la finta prima di calciare, ma quanti giocatori la vorranno azzardare col rischio di una forzata ripetizione dell’esecuzione? Forse anche il millesimo di gol di Pelé, che imitò il gesto dal connazionale Didì, sarebbe da annullare.
Prima che la FIFA decida di invalidare i calci di rigore a mezza altezza, quelli troppo angolati oppure la Panenka, autorizzando semplicemente la soluzione di forza, offro la modalità che un allenatore della mia gioventù sportiva consigliava: fissare lo sguardo verso un angolo per poi calciare su quello opposto. Non è un sistema scientificamente testato, spesso però funziona.
La sfera che si dirige al calciatore in attesa, sul lato debole. Il piede naturale che si sposta dietro quello d’appoggio, incrociandolo, calciando la palla con un colpo secco alla base. Un giorno, un imprecisato Dio del Pallone chiese al Pelusa Maradona di arricchire il proprio bagaglio tecnico, che già poteva permettergli di giocare nel Regno dei Cieli, di un gesto tanto geniale quanto complicato: la rabona. Diego eseguì perfettamente l’ordine e diffuse l’incrociata in tutto il mondo, deliziando le folle affamate di tecnica e imprevedibilità. A Maradona seguirono numerosi e abili interpreti, di nazionalità e colori diversi.
Prima che lo eseguisse il Pibe de Oro, quel gesto già esisteva, anche se le origini sono imprecisate. Il neologismo spagnolo che deriva da “rabo”, in altre parole “coda”, ricorda lo scodinzolare degli animali che ne sono provvisti. Come spesso ricorre nel gioco del pallone è la terra latinoamericana a produrre queste giocate esaltanti e folli, che sanno rapirti a tal punto da spingerti a provarle sino al raggiungimento dell’obiettivo: l’emulazione del campione. In Argentina è il cannoniere Ricardo Infante, bandiera e simbolo dell’Estudiantes del dopoguerra,
a regalare il primo gol di rabona. Correva l’anno 1948, e nella sfida casalinga contro i rosarini del Central, il giocatore vede dirigersi la palla sul piede sinistro, con il quale cammina a malapena. I trentacinque metri che lo separano dalla porta non possono spaventare un professionista della rete come lui, che decide di calciare di chaleira, come viene definito il movimento in Brasile. E’ una realizzazione istintiva, geniale, irrazionale.
L’Italia conosce l’incrociata grazie al barese Giovanni Roccotelli, che con la maglia dell’Ascoli sorprende la difesa del Modena grazie a un assist mai visto prima nel Belpaese. Corre la stagione professionistica 1977-78 e nasce il “cross alla Roccotelli”, marchio di fabbrica dell’ala destra che non voleva calciare col sinistro. Alla base di questo gesto ci sono tecnica, forza, equilibrio, coordinazione, ma anche la consapevolezza di non saper calciare in maniera equivalente con entrambi i piedi. E quindi debolezza. Una debolezza che porta l’abile calciatore, che si trasforma in esteta, a realizzare cross imprevedibili, assist deliziosi o dribbling improponibili. La rabona è l’elevamento all’ennesima potenza della tecnica e della raffinatezza calcistica, poesia che si fonde con lo sport più praticato al mondo, è l’elegia della finezza.
Infante, Roccotelli, poi Maradona, Borghi e Rivaldo. Paciocco che delizia il Comunale di Reggio Calabria con un rigore di rabona. E altre gambe che si incrociano per dar vita all’esaltazione della tecnica e dell’eleganza, gesta desiderose di emergere dal soffocamento di un tatticismo esasperato. Che viva la rabona, che sopravviva il fútbol!
Tra i giocatori che alleno, ve n’è uno particolarmente incline ai virtuosismi. Non potrebbe essere altrimenti dopotutto, poiché il suo idolo calcistico è Ronaldo De Assis Moreira, in arte Ronaldinho. Non sempre la giocata gli riesce, specialmente nelle partite ufficiali, ma il suo entusiasmo contagia proprio tutti, me compreso. L’esercizio che prova più frequentemente in allenamento è l’elastico, una movenza che accomuna i principali prestigiatori del calcio moderno, coloro i quali calcano il terreno di San Siro con lo stesso approccio di una partitella ai Giardini Pubblici.
La palla che si muove, nel giro di una frazione di secondo, dall’esterno all’interno dello stesso piede. L’avversario sorpreso, immobile davanti al dribblomane, che non accenna a reagire. La rapidità che si fonde con l’intuito, la genialità, il controllo di palla e la preparazione. Immagini da anni ‘70, quelli che vedono alla ribalta uno dei più grandi giocatori di sempre, il brasiliano Roberto Rivelino. Ovvero l’inventore del Flip Flap.
Trequartista che fa del dribbling una delle proprie armi, Rivelino a alla storia come uno dei migliori interpreti del calcio di punizione, come dimostra la patada atomica calciata contro i malcapitati cecoslovacchi al mondiale messicano. In un fútbol ricco di talenti, il centrocampista di San Paolo si distingue però per questa giocata imprevedibile, che lascia l’avversario di stucco quasi ad applaudire il gesto, impossibilitato a intervenire dalla rapidità d’esecuzione. Un movimento che Rivelino esegue a ripetizione sui campi del Paulistão e del nascente Campionato Brasiliano, con le maglie di Corinthians e Palmeiras, ma che trova ampia cassa di risonanza nel centinaio di partite che disputa con la casacca verdeoro.
Mettendo a frutto l’esperienza giovanile nel futsal, il paulistano elabora un controllo di palla eccellente, imparando a sorprendere l’avversario che nel corso della partita gli concede sempre meno spazio per la giocata. Nasce così una movenza che nel corso della storia sarà imitata, emulata e storpiata. Oppure elaborata, per opera del romanista Rodrigo Taddei, capace di coniugare Flip Flap e rabona con l’elastico inverso, in un Roma-Olympiakos di qualche anno fa.
L’elastico porta i baffi di un funambolo brasiliano, campione del Mondo 1970.
Cuauhtémoc è il nome dell’ultimo sovrano azteco, protagonista di un’eroica difesa contro gli invasori spagnoli. Rifiutandosi di consegnare l’oro di Moctezuma a Cortés, fu barbaramente ucciso per impiccagione; il suo nome sarà
ereditato qualche secolo più tardi da un estroso calciatore, che ama dribblare gli avversari trattenendo la palla tra i piedi. Ai Mondiali di Francia ‘98 nasce la Cuauhtemiña, per opera di Cuauhtémoc Blanco.
Si è molto dibattuto sulla validità regolamentare del gesto tecnico, anche se nessun direttore di gara ha osato fermare Blanco nell’esecuzione del movimento. Ciò ha costituito un limite alla diffusione della Cuauhtemiña, la quale è rimasta quasi a esclusivo appannaggio del suo fondatore, un abile fromboliere del gioco del pallone. Il messicano divenuto stella della Tricolor saprà deliziare il palcoscenico mondiale con numeri di alta scuola, gol dall’altissimo coefficiente di difficoltà e qualche intemperanza di troppo, che non ne ha scalfito però la carriera eterna.
Nell’immaginario collettivo, Blanco rimane però legato alla movenza di cui è ideatore, promotore e diffusore. Rapito dalla non convenzionalità del gesto, lo spettatore medio finisce per ignorare la stella di Cuauhtémoc, che finisce per essere schiavo del proprio numero. Non per il pubblico nordamericano, che ancora si esalta per la classe e il carisma di questo giocatore immortale, un’autentica gloria nazionale.
L’Italia e le sue mille contraddizioni. Il paese dall’immenso patrimonio artistico e letterario, che disprezza la cultura a tal punto da sotto retribuire ogni laureato all’approccio col mondo del lavoro. La nazione che sconfigge il fascismo grazie all’azione partigiana, salvo poi tristemente rimpiangerlo qualche decennio dopo, offendendo la memoria dei caduti per la libertà. La buona cucina che nel mondo fa scuola, nello Stivale lascia spazio alla finta allegria da fast food, incessante macchina capitalista per la produzione di bambini obesi. Il panorama calcistico che ha saputo uscire dall’età della pietra con l’avvento dei primi zonisti, salvo poi ripiombarne drasticamente con l’inizio del XXI secolo.
Questo paese capace di reprimere ogni forma di talento, che non lascia spazio al proliferare di alcuna forma espressiva dell’intelletto, pare voler rimanere
all’interno di quella caverna di platonica memoria. Se il calcio è cultura, e in fondo lo è, la memoria storica dovrebbe essere viva in noi. Invece si ripiomba nel solito errore di cancellare ogni ricordo, o meglio sacrificarlo all’altare dell’opportunismo più bieco o alla tendenza del momento.
Nel calcio moderno non troverebbe mai spazio un talento del calibro di Mario Corso, un mancino delizioso con il solo difetto, se così si può definire, di camminare per il campo. Eppure è lui, oltre quarant’anni fa, a calciare la prima italica punizione a foglia morta, che costituirà un esempio per le generazioni successive di cecchini. La palla che si alza sopra la barriera, posta a protezione dell’altrimenti inerme portiere, con un movimento ascendente che lascerebbe presagire un’innocua soluzione. Ma ecco che al momento dello scavalcamento della muraglia umana la sfera muta il proprio effetto, dopo aver preso quota sembra soffrire di vertigini e decide di scendere, lentamente ma inesorabilmente verso l’angolo indifeso della porta. L’estremo difensore che sorpreso dalla soluzione prova un estremo, inutile tentativo di protezione della rete, ma può solo chinarsi di fronte a un’esecuzione balisticamente perfetta, raccogliendo il pallone all’interno del sacco, in segno di resa.
Le punizioni del Mariolino nerazzurro sono figlie dell’ennesimo gesto che arriva dal Sudamerica, inventato da uno dei massimi esteti del gioco del calcio: il brasiliano Didi. O Príncipe Etíope, regista il cui scarso dinamismo lascerebbe più di un dubbio sul suo ipotetico utilizzo nel gioco moderno, possiede un tocco vellutato da far invidia agli operatori del settore abbigliamento. Maestro dei calci da fermo, trova il modo di eseguirli anche in precarie condizioni fisiche. Infatti, una contusione procurata durante un contrasto gli suggerisce di provare la soluzione con l’interno del piede, la parabola arcuata ed efficace ricorda la caduta delle foglie: nasce la folha seca. Il leggendario giocatore carioca raffinerà il gesto, lo esporterà in tutto il Brasile e nel mondo intero, come se fosse sempre autunno.
A distanza di anni, lo scavalcamento della barriera umana rimane la soluzione preferita dei tanti aspiranti al Premio Nobel per la fisica, che nel corso
dell’ultimo decennio hanno assunto forma e sembianza di Juan Roman Riquelme, Pierre van Hooijdonk, Arnulfo Valentierra e Ronaldinho. Si accettano nuove nomine, astenersi mestieranti.
Ci sono gesti, nel gioco del calcio, che da soli rendono perfettamente l’idea dell’eccentricità dei propri esecutori. Figuriamoci se il protagonista è un portiere, notoriamente un “freddo” calcolatore, ancorato all’area di rigore come un parlamentare italiano alla propria poltrona.
Il ruolo dell’estremo difensore è rimasto per molto tempo legato all’immagine poetica di Umberto Saba, vincolato alla propria porta con il preciso compito di immunizzarla, lasciando ai propri colleghi la proposizione dell’azione offensiva, limitandosi a gioire per la realizzazione del compagno centravanti. Poi è arrivato il portiere sudamericano che, stanco della limitatezza del ruolo tradizionale del portiere, ha rivendicato il proprio diritto a partecipare all’azione d’attacco. Prima si è concesso qualche gesto eccentrico, a dir la verità di scarsa incisività nell’economia del gioco, ma col tempo si è lasciato andare sempre più, con tentativi di conclusione da fermo e imperversate nell’area avversaria.
Una sera di settembre, l’anno è il 1995, un portiere fa qualcosa di mai visto. E che si vedrà raramente in seguito, visto l’elevato coefficiente di difficoltà del movimento, direttamente proporzionale alla dose di coraggio necessaria solo a concepirlo. Nel tempio sportivo di Wembley spiove un cross innocuo verso l’area della nazionale colombiana, giunta fin qui dopo un buon terzo posto in Copa América e con la morte di Escobar nel cuore. La parabola di Jamie Redknapp è lenta, inoltre l’arbitro ferma l’azione e le due compagini si avvicinano progressivamente alla metà campo, rendendo nulla la scontata uscita in presa alta dell’estremo cafetero. Alzi la mano chi si sarebbe aspettato, in tale contesto, quelle braccia aperte pronte al decollo, il corpo teso in avanti, il pallone lasciato alle spalle e i talloni uniti che lo respingono. Nessuno ci aveva provato, forse nemmeno pensato, sino a quel momento. A Londra, René Higuita inventa la Mossa dello Scorpione, emulando il tipico movimento dell’aracnide.
L’eccentrico arquero colombiano appartiene alla generazione di chi ha rivoluzionato il ruolo dell’estremo difensore, dopo Hugo Gatti, prima di Jorge Campos e del maestoso José Luis Chilavert. Abile con la sfera tra i piedi, ha finito per essere schiavo di questa virtù, concedendosi errori clamorosi ma soprattutto facendo are in secondo piano le proprie capacità tra i pali. Higuita è per i più un portiere pazzo, ai limiti dell’autolesionismo, scenico ma poco efficace, personaggio prima ancora che calciatore. Io invece lo considero l’ottimo portiere che ha inventato lo Scorpione. Per informazioni, chiedere a Maturana.
Quando si affacciò nel panorama calcistico internazionale, per lui si spesero elogi sperticati e paragoni ingombranti. Ci mise del suo anche Diego Maradona, accostando idealmente il proprio sinistro divino a quello del Cabezon, firmando così una condanna a morte per il giovane emergente. Andrés D’Alessandro prometteva parecchio, tanto da collezionare titoli argentini con la maglia del River Plate, conquistando la nazionale albiceleste a suon di prestazioni convincenti, ottenendo la prestigiosa fascia di capitano delle Galline prima di emigrare alla Volkswagen-Arena. Arrivarono le deludenti stagioni nella fredda Germania, il rapido aggio al Portsmouth e la retrocessione con il Real Saragozza, a delineare una carriera al di sotto delle iperboliche promesse, con l’etichetta del talento incompiuto già appiccicata sulla schiena nonostante l’età relativamente giovane.
Nonostante tutto, ciò che fa innamorare di questo giocatore è la sua giocata tipica: la suola del piede sinistro che accarezza il pallone facendolo arretrare, poi d’improvviso la sfera cambia direzione muovendosi in avanti, superando il diretto avversario sorpreso e incredulo. La Boba rimane uno dei gesti tecnici più imitati dalle giovani generazioni alle prese con l’esercizio del pallone, nei primissimi anni del secolo XXI, complice la massiccia copertura televisiva degli eventi calcistici e l’affacciarsi dei siti di condivisione video. Niente di eccezionale da un punto di vista balistico, ma un movimento frutto di genialità e intuizione, assai difficile da eseguire nell’atmosfera adrenalinica di un incontro ufficiale, ancor più se di cartello.
D’Alessandro non è solo il numero 10 che esegue la Boba, ma un trequartista completo che calcia il pallone in maniera precisa e potente, salta l’avversario con efficacia creando superiorità numerica e fornisce assist precisi. E’ un giocatore che possiede una discreta varietà di colpi, necessiterebbe semplicemente di un progetto tattico adeguato e un po’ più di fiducia, egli non è portato per i compiti di copertura. Molti si aspetterebbero un mesto ritorno ai millonarios, ma El Cabezon trova inaspettatamente il proprio rilancio in Brasile, nelle file dell’Internacional di Porto Alegre, dove conquista la Libertadores e il Balon de Oro. Molti sono disposti a scommettere che la sua ultima casa sarà il Gigante da Beira-Rio, ma è difficile giurarci, considerata l’imprevedibilità del personaggio. Il palato fine degli amanti del calcio, invece, spera di ricevere il giusto soddisfacimento a lungo.
E’ inutile negarlo. In fondo, se il calcio può essere vissuto come metafora di vita, può anche essere considerato come l’iconografia della nostra attività sessuale. Sempre di sforzo fisico si tratta, ma anche di una valvola di scarico delle tensioni quotidiane, oltreché fonte di emozioni cui ciascuno può offrire la propria interpretazione, a seconda di ciò che sente o avverte. Quel che è certo, è che l’atto sessuale, scaturito da amore o ione, è quanto di meglio possa auspicare un impiegato dopo una giornata lavorativa nervosa, un operaio dopo il faticoso turno alla pressa, uno studente universitario alle prese con la preparazione di un difficile esame. Come nel gioco del pallone, il fine ultimo è il raggiungimento della rete, tramite un’azione manovrata degna del calcio associativo blaugrana oppure, come da tradizione inglese, dopo un lancio lungo a scavalcare il centrocampo.
Ma cosa spinge il calciatore, in altre parole l’amante, alla ricerca spasmodica e talvolta ossessiva del corpo avversario, inducendolo a divaricare le gambe con fantasiose finte di corpo? Forse una smisurata dose di autostima, oppure l’oggettiva abilità nell’affrontare uno contro uno, frutto di una spiccata personalità. Il tunnel rimane nel calcio una tipologia di dribbling davvero stuzzicante, quasi scontata se l’apertura proposta dall’avversario ricorda il collegamento de La Manica, per certi versi orgasmica se a generare il pertugio è proprio l’offendente, certamente mortificante quando assume i caratteri della sfida.
La storia del calcio ci regala tunnel memorabili, gli autori sono campioni affermati, mestieranti del pallone e carneadi. Il gesto può essere eseguito con l’interno, l’esterno, la punta o il tacco; un campione ci è riuscito con la suola e le spalle rivolte all’avversario, egli risponde al nome di Juan Román Riquelme e appartiene alla categoria degli eletti. La palla oltrea lo spazio delimitato, per poi essere recuperata sul lato opposto, generando un’azione offensiva che può tramutarsi in gol come del resto può essere vanificata dall’intervento di un arcigno difensore, magari lo stesso avversario diretto. L’inebriante magia dei preliminari amorosi, interessante preambolo a un’esecuzione fulminea oppure lenta e angolata, frenetica oppure dolce, i corpi compiacenti travolti in un turbine di piacere che questa notte non conoscerà fine. Il tunnel, ovvero el caño, è questa l’immagine che raffigura l’esplosione della virilità calcistica.
“Che succede? Dov’è finito il pallone?” deve aver pensato quella sera all’Olimpico di Roma il ceco Pavel Nedved, davanti a 80.000 tifosi, rumoreggianti e sbalorditi. In effetti, la sfera era sparita dalla vista dell’ex Pallone d’Oro, ai tempi colonna di una Lazio spumeggiante, ricca di campioni in ogni reparto. A muovere la palla a ritmo di samba era Marcos Cafu, uno dei massimi interpreti del ruolo di terzino destro, quella sera capace di un gesto forse irripetibile nel calcio moderno del ritmo tambureggiante: triplo sombrero sul medesimo avversario.
Il pallonetto sul diretto concorrente per la conquista della sfera non è molto apprezzato dagli integralisti del “gioco a terra”, come del resto non trova riscontro nei profeti del “fair play ad ogni costo”, pronti a etichettare il gesto come una ridicolizzazione dell’individuo. Cosa si prova di tanto speciale nel far are il pallone sopra la testa dell’avversario, per poi riprenderla sul lato opposto? Come si spiega questa esplosione di goduria nel palleggiare ad alta quota, elevata all’ennesima potenza quando il tutto viene eseguito senza lasciare battere la palla sul terreno di gioco? Una buona dose di narcisismo, l’elogio della tecnica, la ione per il bel gioco. Non vi sono altre spiegazioni.
Tecnica individuale e personalità, ma anche intuito e sfacciataggine. Il DNA del perfetto esecutore del sombrero è presto fatto, cultore di una gestualità che affonda le proprie radici nella tradizione messicana, legata alla particolare forma di quel cappello tanto ombreggiante quanto ingombrante. Una parabola arcuata che disegna un copricapo sopra la testa del difendente sorpreso, inerme, forse un po’ deluso.
La seconda metà degli anni Novanta è contrassegnata da teste rasate, numeri 10 su sfondo nerazzurro, bandiere brasiliane che sventolano nei principali stadi italiani a ritmo di improbabile samba da cantina. Ronaldo Luís Nazário de Lima è secondo molti uno dei più forti attaccanti della storia del calcio, dopotutto i numeri di una carriera quasi ventennale non hanno ragione di essere smentiti, nemmeno da quei tragici infortuni che l’hanno colpito nei vertici massimi di successo. O Fenomeno si è prontamente rialzato, in ogni occasione, modificando il suo stile di gioco senza perdere l’innata classe, la quale gli ha permesso di inserirsi in pianta stabile nel Gotha del calcio globale, al fianco di qualche connazionale invidioso. Marchio di fabbrica del calciatore carioca, cresciuto calcisticamente nel Minas Gerais, è il doppio o fulmineo e ubriacante. Le gambe che si muovono a mulinello, descrivendo circoli immaginari intorno al pallone, poche finte senza particolari fronzoli, la velocità inaudita che spiana un’autostrada tra l’attaccante e la porta. Un gesto che gli consentirà di segnare molte reti, alcune davvero memorabili, ma anche di subire gravi infortuni, complice il peso corporeo sempre crescente. Un movimento imitato nel corso di quegli anni dal connazionale Denilson, esterno sinistro fantasioso e fumoso, che proverà ad aggiungere al colpo un pizzico di estetica in più, rendendo il doppio o una sinfonia dolce ed elegante.
Da sempre gesto che contraddistingue i giocatori offensivi brasiliani, e che ora trova in Robinho un degno esecutore, il doppio o rimane invenzione di un italiano. Il bolognese Amedeo Biavati, ala destra veloce e validissima sul piano squisitamente tecnico, dribblava con grande dimestichezza gli avversari nonostante i piedi piatti, ricorrendo molto spesso a questo movimento appena abbozzato dal funambolico Raimundo Mumo Orsi. Biavati farà la storia del Bologna e della nazionale fascista, che vincerà il mondiale se del 1938, giocando sino all’immediato dopoguerra. Il felsineo erà però agli annali per
le sue finte ingannevoli, per la rapidità e la costanza nell’esecuzione della movenza, per la capacità di illudere gli avversari. In un mondo in cui la televisione ancora non trasmetteva le partite, Biavati si ritaglia il proprio spazio di celebrità, e le sue gesta sono raccontate dai cronisti e dagli addetti ai lavori dell’epoca. E’ italiano l’ideatore del doppio o.
Il mediano Ardiles scende sulla fascia, con la regalità che lo contraddistingue. Gli si fa davanti un avversario, muscolare ma deficitario in termini d’intelligenza, non a caso è un nazista convinto. La logica consiglierebbe un dribbling a uscire, a rientrare, un aggio corto; lo spazio di giocata è ampio e c’è tutto il tempo per impostare. Osvaldo, con quel busto perennemente proteso in avanti, decide di uscire dalla banalità eseguendo una giocata piuttosto rara sui campi di calcio, molto più vicina alla cultura brasiliana che alla natia Argentina: è la Lambreta.
Il termine, però, ha chiare origini italiane: è a Milano che viene concepito e realizzato l’innovativo scooter che segnerà un’epoca e farà il giro del mondo, fermandosi nell’India preindustriale. La Lambretta, appunto, quella moto resa celebre dalla caratteristica accensione a pedale che ricorda il movimento di Ardiles. La palla si sposta dal collo al tacco del piede opposto, in maniera vellutata e dolce, quest’ultimo lo scalcia fin sopra la testa, come il pedale della Lambretta, in maniera decisa e imprevedibile. Se eseguito perfettamente, la sfera scavalcherà l’avversario offrendo inaspettati spazi di campo, il pubblico rileverà il tutto con un fragoroso applauso e i media non si fermeranno un secondo nell’incensare il novello campione. Qualora la realizzazione fosse inceppata, come è facile che avvenga dato l’altissimo coefficiente di difficoltà della movenza, al calciatore non rimane che presentarsi al banco perenne degli imputati.
Quella di Ardiles è una giocata cinematografica che risale al celebre “Fuga per la vittoria”, liberamente ispirato alla Partita della morte del 1942 a Kiev, in cui una rappresentativa locale sconfisse una compagine di ufficiali tedeschi, aprendo la propria strada verso la morte. Nel film di Huston non manca invece il lieto fine,
come del resto appare troppo gioiosa la vita nel campo di prigionia; il regista statunitense colpisce al cuore del pubblico grazie a un cast di primo livello, che annovera ex campioni tra cui il compianto polacco Kazimierz Deyna.
Il gesto tecnico di Ossie Ardiles, laureatosi Campione del Mondo nel 1978 ma completatosi calcisticamente nella successiva e felice permanenza nel Tottenham Hotspur, verrà in seguito imitato dal geniale e folle Djalminha, un brasiliano che ha saputo conquistare la Galizia con le sue giocate estrose e fulminanti, la classe tipica del numero 10 sudamericano e un carattere certamente fumantino. Ultimamente a proporci la Lambreta è il promettente e ambito Leandro Damião, un attaccante dall’altissima media realizzativa ma che non disdegna di “dare del tu” al pallone. Di certo rimane una movenza piuttosto elitaria, forse semplicemente un modo per rompere la monotonia.
L’Ottocento è il secolo delle scoperte e delle invenzioni. Ne sa qualcosa Robert Chesebrough, che dopo approfondite analisi di laboratorio brevetta una miracolosa gelatina, ottenuta dal petrolio per raffinazione: nasce la vaselina.
Lubrificante dai mille utilizzi, diffuso tanto nella farmaceutica quanto nella cosmetica, il petrolato viene comunemente (e forse troppo banalmente) associato alla pratica sessuale. Citata per alludere alla “prova d’amore” che descrive, in chiave profondamente omofoba, una certa delusione o fregatura, la vaselina è il terrore di ogni portiere che si trova qualche metro fuori dai pali. Questo termine, infatti, viene utilizzato in Argentina per descrivere il pallonetto che, eseguito da un punto non precisato del rettangolo verde, si deposita docilmente alle spalle dell’arquero lasciato di stucco. Il tiro richiede una certa sensibilità nel piede, è vero, ma anche un costante e ripetuto allenamento specifico. Ciò che fa la differenza è l’estro e la genialità che spinge il calciatore, di colpo divenuto artista, a proporre la giocata nell’arco dei 90 minuti, unita alla lucidità nel colpire la sfera nel punto esatto. Una conclusione nella parte inferiore del pallone, che spinge questi in una parabola prima ascendente, poi discendente, certamente lenta, ma inesorabilmente beffarda e imprendibile. Il pallonetto ha reso celebri campioni del calibro di Maradona e Messi, attaccanti sempre pronti
all’appuntamento con la rete come Hernán Rodrigo López e Santiago Silva, ma anche centrocampisti vittime del gesto. E’ il caso dello spagnolo Nayim, un buon giocatore senza ombra di dubbio, ma il cui nome è indissolubilmente legato alla prodezza realizzata nella finale di Coppa delle Coppe 1994/95: è beffardo il pallone scagliato, da circa 40 metri, alle spalle del monumento dei Gunners David Seaman.
Nel calcio ipertecnologico degli anni 2000, dove il pubblico è indotto a esaltarsi per una goccia di sudore sul volto di Kevin Prince Boateng, la vaselina rimane un gesto tecnico apprezzato e celebrato dagli apionati non solo di fútbol, ma anche di futsal. Non può essere che Alessandro Rosa Vieira, meglio conosciuto come Falcão, a rivendicare la fattibilità del pallonetto nel Calcio a 5: è il gol numero 301 della sua carriera con la maglia della nazionale brasiliana, quella casacca che lo ha reso il più forte giocatore del pianeta. Sui terreni di gioco di tutto il mondo si decanta la vaselina, un metodo indolore per beffare l’avversario.
1 EDUARDO GALEANO, Splendori e miserie del gioco del calcio, Limina, 2002 2 EDUARDO GALEANO, Splendori e miserie del gioco del calcio, Limina, 2002
Il ruolo dell’allenatore
E’ un piovoso sabato di novembre a Dolzago, la temperatura comunque gradevole non rende bene l’idea del calore con cui i cittadini si apprestano ad accogliere il celebre telecronista. Eroe vittorioso di mille battaglie, fiero depositario di preziosi segreti calcistici, Bruno Pizzul entra nella biblioteca comunale sospinto da un’ovazione degna degli stadi da egli frequentati, nelle epiche sfide commentate con la classe che lo contraddistingue.
Bruno è il classico uomo qualunque, senza troppe smanie di protagonismo né eccessi da divo isterico. Con estrema naturalezza si accinge ad affrontare una breve ma intensa chiacchierata sulla storia del calcio, partendo da Di Stefano e concludendo con Bojan, moderata dal sottoscritto un po’ a disagio nella veste di sparring-partner.
L’atmosfera familiare mette l’ospite nelle condizioni di esprimere tutto il Pizzulpensiero, senza restrizioni mediatiche e pubblicitarie, escludendo ogni condizionamento dovuto a quella sorta di “regola aurea” che ha sempre dominato il calcio professionistico in Italia, ovvero esprimere pareri banali. Ecco che Bruno espone una tesi senza dimostrazione, che più o meno relega l’allenatore a un ruolo da comprimario nel gioco del calcio. Cercherò di invalidarla, con l’ausilio di qualche esempio pratico.
A dominare la scena nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali sono due moduli di gioco. Il sistema, ideato dal celebre allenatore dell’Arsenal Herbert Chapman, e il metodo di Vittorio Pozzo, commissario tecnico dell’epoca fascista, incontrano negli anni imitatori ed evolutori. Uno di questi è l’austriaco Hugo Meisl, allenatore di una nazionale che diventerà il Wunderteam, una squadra meravigliosa che incanterà l’Europa grazie al possesso palla e al dinamismo dei propri interpreti, capace di sintetizzare i due moduli.
Forte di una compagine ricca di talento, che negli anni diventerà d’oro (Aranycsapat), il dopoguerra mitteleuropeo è invece dominato dai progetti mondiali di un’Ungheria davvero sublime. Gli interpreti di questo gioco maestoso sono i vari Puskas, Bozsik e Kocsis, ma l’artefice di questa meraviglia sportiva è l’allenatore Gusztav Sebes, un uomo tanto intelligente quanto scrupoloso. Ammiratore del classico sistema, a questo elabora una modifica sostanziale, suggerita anche dall’assenza di un vero e proprio uomo di sfondamento: a ricoprire il ruolo di centravanti è Nandor Hidegkuti, in posizione più arretrata rispetto ai geniali interni Kocsic e Puskas, per sfruttare il proprio bagaglio tecnico e la lucida visione di gioco. L’ala destra del Voros Lobogo si trasforma così da brutto anatroccolo in cigno, mutando le modeste prestazioni sino allora disputate con la maglia della nazionale in sensazionali lezioni di calcio. Forse il buon Pizzul dirà che, in fondo, è tutto merito di Hidegkuti; la storia invece ci riporta che, a schierarlo in quella posizione, fu un saggio allenatore.
La leggenda dell’Aranycsapat è un formidabile esempio di estetica applicata al calcio, spazzato via dai carri armati sovietici in un triste autunno del 1956. Vengono tarpate le ali a una rivoluzione colpevole di aver chiesto maggiore autonomia da Mosca, dopo i difficili anni dello stalinismo, pur nell’ambito di un sistema economico socialista. Molto ancora si dibatte sull’importanza storica e sulla natura della rivolta degli studenti del Politecnico in difesa del polacco Gomulka, la quale scatenò gli eventi sino al triste epilogo dell’intervento militare sovietico. Personalmente la interpreto come una rivoluzione socialista libertaria, mirata alla ricerca di una migliore partecipazione alla cosa pubblica, tesa alla recessione del cordone ombelicale con l’Unione Sovietica. Il dato di fatto è che il dissolvimento della Grande Ungheria inizia proprio in quel freddo novembre, con la dipartita dei migliori calciatori della Honved, la squadra dell’esercito autentica dominatrice in patria, verso i principali campionati europei. Puskas e Kocsis sono i principali esempi.
Il cammino iniziato solamente sei anni prima si è interrotto. Sebes non può che vivere del ricordo di una squadra cui manca solo un Campionato del Mondo,
quello del 1954, vittima del miracolo sportivo (e non solo) di Berna. Novanta minuti sono troppo pochi per osservare un gioco così incantevole, ma quel 4 luglio l’incantesimo si spezza sotto i durissimi tackle dei tedeschi dell’Ovest, la cui esplosività atletica lascia molti dubbi a distanza di anni. Le splendide parate di Turek e l’eleganza monca di Puskas, vittima di un fastidioso infortunio, calano il sipario su questa quinta edizione dei Mondiali, segnata in maniera indelebile dalla vittoria magiara contro il Brasile ai quarti di finale, una delle migliori partite di sempre.
Altro capolavoro di questo allenatore maniacale, che ama curare i minimi dettagli di ogni sfida, è la duplice vittoria in amichevole contro i “maestri” inglesi, una delle quali a domicilio per 6-3. Un trionfo che forse vale più dell’Olimpiade conquistata nel 1952 in quanto, è risaputo, il calcio ai giochi decoubertiani non ha mai tirato troppo.
Fare un bilancio numerico di questa splendida età del calcio non rende pienamente l’idea di cosa rappresenti l’Aranycsapat, anche se aiuta a comprendere il fenomeno. In fondo non abbiamo molti filmati, ma principalmente testimonianze scritte, che Bozsik è il miglior mediano di ogni epoca e Puskas una leggenda. Il bottino di 143 reti in 34 incontri tra il 1950 e il 1954, con la bellezza di 29 vittorie, dovrebbe far pensare che il ruolo dell’allenatore non è poi così marginale. Si chiude sotto i bombardamenti l’aurea esperienza di Gusztav Sebes alla guida della Grande Ungheria, un uomo che grazie al lavoro e a una geniale intuizione ha saputo innovare il calcio degli anni cinquanta.
Nei primi anni ‘70, nelle sale cinematografiche esce “Arancia Meccanica”, capolavoro di Stanley Kubrick che prefigura una civiltà estremamente violenta ed esasperata. Ancora una volta il visionario regista statunitense anticipa i tempi, ipotizzando una società caratterizzata dalla crisi giovanile e dalla propaganda come strumento di condizionamento delle masse. Un film destinato a dividere l’opinione pubblica, tra ammiratori inneggianti al capolavoro e censori della violenza a loro dire “gratuita”, che in Italia sarà trasmesso in televisione
solamente trent’anni dopo.
Chi invece sembra unire in un plebiscitario consenso la gente è un’altra Clockwork Orange, meno violenta di quella cinematografica ma egualmente intensa e spettacolare: è la nazionale olandese di Rinus Michels, il profeta del calcio totale. Una squadra contestualizzabile in una sola edizione dei Campionati Mondiali, quelli tedeschi del 1974, ma che poggia su solide basi storiche.
Dopo un’onesta carriera da attaccante, Michels appende gli scarpini al chiodo per intraprendere la carriera di allenatore, naturale sbocco per un perfezionista come lui. Ama il bel calcio ma desidera innovare, non rimane ancorato agli schemi prefissati ma crede nello scambio delle posizioni, profetizza il pressing a tutto campo e il gioco arioso. Nasce così il Totalvoetbal che caratterizzerà il panorama calcistico mondiale degli anni settanta, e soprattutto farà scuola per molti allenatori emergenti disseminati in tutta Europa. Un calcio fatto di ricerca spazi nel possesso palla e di anestetizzazione dell’avversario in fase difensiva, il tutto ato da un’eccellente preparazione atletica che il carismatico allenatore imposta ogni volta, richiedendo a tutti i giocatori della rosa una solida base tecnica e intelligenza tattica. Le squadre del Generale Rinus applicano il fuorigioco in maniera sistematica, quasi abusandone e sono solite disporsi con un 4-3-3 dalle spiccate caratteristiche offensive, con un giro palla rasoterra rapido.
Ai critici che identificano il bel gioco con l’assenza di risultati, Michels risponde con i fatti. Solamente con l’Ajax, il grande amore della vita e negli anni in cui i Paesi Bassi dominano il continente, vanta quattro campionati nazionali, tre coppe olandesi e la Coppa Campioni 1970-71, cui aggiungere i trofei conseguiti sulle panchine di Barcellona e Colonia.
La grande occasione mondiale arriva con i gradi di outsider, nel clima gioioso di un ritiro esteso a mogli e compagne. Per la massima competizione calcistica per nazionali Michels disegna una squadra di talento, che a per l’intelligenza di
Haan, i piedi sapienti di Van Hanegem, le avanzate di Krol, l’intraprendenza di Rep e Rensenbrink, la completezza di Neeskens e la classe di Cruijff. A fare da regista difensivo è il portiere Jongbloed, un semiprofessionista che arrotonda lo stipendio da calciatore gestendo una tabaccheria di Amsterdam. Dopo una fase eliminatoria francamente facile, gli olandesi si scatenano con l’Argentina del Loco Houseman (4-0), si sbarazzano di una DDR che fa quasi tenerezza per poi sconfiggere i maestri brasiliani per 2-0, candidandosi al ruolo di guastafeste per le ambizioni della corazzata teutonica di Beckenbauer.
La finale di Monaco si apre con un continuo possesso palla dei tulipani, che appena affondano trovano un rigore per atterramento di Vogts ai danni di Cruijff, realizzato dallo stesso Pelé bianco con naturale freddezza. Gli uomini di Michels calano troppo presto però, sia in termini di concentrazione sia di condizione atletica. La spinta dell’Olympiastadion porta i tedeschi occidentali a pareggiare prima e a marcare il 2-1 poi, con il cannoniere Gerd Müller. Una delusione che proseguirà quattro anni dopo in Argentina, senza Michels in panchina e senza Cruijff a dirigere l’orchestra, spettatore volontario di una controversa competizione.
Rinus saprà prendersi la giusta rivincita nel 1988, sempre in Germania, conquistando l’Europeo ai danni dell’Unione Sovietica del Colonnello Lobanovsky. Il calcio non è più totale, maggiormente performato all’abilità dei propri interpreti, ma è sempre una delizia per gli esteti dello sport più seguito al mondo. La parabola con cui Marco Van Basten trafigge Dasaev sfida ogni legge della fisica, consolidando il risultato già sbloccato da Gullit e contribuendo, in qualche modo, ad affossare il sogno di un URSS in dissolvimento politico. La sconfitta di quattro anni dopo per opera dei sorprendenti danesi, ormai lontani dai fasti della Danish Dynamite ma pur sempre capaci di vincere il titolo, spinge Rinus Michels a lasciare il mestiere dell’allenatore.
De General si congeda invece dalla vita a 77 anni, nel 2005. La FIFA gli aveva tributato, pochi anni prima, il riconoscimento di Allenatore del secolo, onorificenza che dovrebbe far riflettere sulla grandezza di questo maestro che ha
saputo rivoluzionare il modo di interpretare il calcio, valorizzando le capacità dell’individuo pur all’interno di un contesto organizzato. Muore Rinus Michels, l’autentico inventore del calcio totale.
Nel calcio, purtroppo, vittoria non fa sempre rima con estetica, specialmente nei tempi dell’esasperazione del risultato. E nemmeno la simpatia è uno dei caratteri distintivi dei vincenti, che si rendono ancora più odiosi all’atto della conquista di un nuovo trofeo. Come in una sorta di visione proletarizzata del gioco del calcio, l’allenatore della squadra di seconda fascia attinge alla compattezza del gruppo e all’impagabile arma dell’intelligenza per sostenere, a pari condizioni, la sfida contro i club più ricchi e attraenti. Il trionfo di Davide contro Golia rende giustizia a questo sport sempre più ingiusto, ma alcune volte ciò significa accettare e condividere lo smisurato utilizzo di sistemi difensivi ermetici con il solo scopo di preservare l’inviolatezza della porta, aprendo lo spiraglio a una vittoria in contropiede oppure ai calci di rigore, il più delle volte prorogando l’agonia. Tutto quello che un amante del calcio, e dell’estetica applicata all’oggetto sferico, dovrebbe ripugnare.
Chi ha saputo vincere, anzi stravincere, con squadre di seconda fascia senza applicare il catenaccio è l’austriaco Ernst Happel, un uomo che avrebbe potuto dedicarsi ad attività strategiche qualora non avesse sfondato nel mondo del calcio. Ma col gioco del pallone Happel ci sapeva fare, prima da difensore del Rapid Vienna, poi da allenatore girovago per l’Europa, spinto anche da un carisma al di fuori della normalità. Il calcio predicato dal mai sorridente austriaco è fatto di corsa, pressing a tutto campo, un mix esplosivo di aggressività e velocità capace di valorizzare tutti gli elementi del collettivo. Caratteristiche che ritroveremo in qualche modo nel modulo di sacchiana memoria.
Nella parentesi olandese che domina la scena calcistica europea, il Feyenoord si inserisce di prepotenza, con due titoli nazionali e una Coppa Campioni, pur non disponendo di una rosa all’altezza della fenomenale e stupenda Ajax di Michels. Arrogante e dittatoriale, Happel contribuisce in qualche modo a costruire la
Grande Olanda, che erediterà in occasione del Mondiale 1978, quello che per una trama già scritta doveva finire nelle mani di arella e Videla.
Uomo di poche parole e dallo smisurato egocentrismo, non si può dire che l’allenatore viennese non ami le sfide. Nel triennio al Bruges conquista tre titoli nazionali, consolidando il club fiammingo nel panorama calcistico belga, ma soprattutto approda a due finali europee pur perdendole contro la corazzata Liverpool. Happel riuscirà a vincere la massima competizione europea per squadre di club nel 1983, con il suo Amburgo, ben tredici anni dopo la precedente vittoria con la formazione di Rotterdam. Decisivo, oltre alla parabola imprendibile di Felix Magath, è l’impianto tattico predisposto dallo stratega austriaco, impeccabile nello studiare le contromosse ai ben più blasonati avversari della Juventus.
Tra i trofei vinti da Ernst Happel è doveroso citare i due titoli nazionali conseguiti al ritorno in patria, con lo Swarovski Tirol, club che si scioglierà nel giro di pochi anni costituendo una vera e propria meteora sportiva. L’autoritario e carismatico mister mostra i primi segni di cedimento per l’avanzare di un male incurabile, ma si sente quasi in dovere di accettare l’incarico propostogli dalla federazione austriaca di rilanciare la nazionale, all’affannosa rincorsa di un posto ai Mondiali Usa 1994. L’inizio è incoraggiante, grazie alla vittoria casalinga per 5-2 su Israele, ma di lì a poco si consumerà il triste epilogo. In un triste e gelido 14 novembre muore Ernst Happel, l’allenatore che ha saputo vincere con tutti e contro tutti, l’uomo che è riuscito a sovvertire ogni pronostico, un vincente antipatico che amava follemente il suo lavoro. Il suo ricordo continuerà a vivere nella mente di tutti gli apionati del mondo, dopo la saggia decisione di intitolare alla sua memoria il Prater-Stadion, uno degli impianti sportivi più raffinati e romantici dell’intera Europa.
Ci sono squadre che, nel corso della storia, hanno saputo aprire cicli di vittorie e poi dissolversi come fumo. Solo una di queste, il Nottingham Forest, è riuscita a conquistare più Coppe Campioni (2) rispetto all’unico campionato nazionale vinto. Gran parte del merito va attribuito al geniale allenatore Brian Clough,
tanto arrogante quanto abile nella gestione del materiale umano, un tecnico che nel calcio moderno fa ancora scuola.
La grandezza di questa impresa sportiva assume dimensioni ancor maggiori se pensiamo da dove è partito quel Forest, ovvero la mediocrità della Seconda Divisione inglese, davvero poco per un club ispirato dalle imprese di Giuseppe Garibaldi. La squadra è povera di talento e al City Ground c’è molta delusione. Per riaccendere gli animi di Nottingham la società decide di affidarsi, nel 1975, alle cure di questo allenatore quarantenne, con alle spalle una solida esperienza alla guida del Derby County, coronata da uno scudetto e una chiassosa sconfitta nelle semifinali di Coppa Campioni per opera della Juventus. Davvero niente male per l’ex attaccante del Boro, che rischiava l’isolamento dal calcio dopo la fallimentare esperienza con il Leeds durata 44 giorni.
La ricostruzione parte dall’ingaggio di Peter Taylor, storico alter ego di Clough, l’acquisto del talentuoso Martin O’Neill, il lancio del giovane Viv Anderson e il recupero di John Robertson. Al resto ci pensa l’istrionico allenatore di Middlesbrough, con il suo gioco aggressivo in ogni zona del campo e l’utilizzo delle fasce laterali, dando molta attenzione alla preparazione atletica. E’ un calcio un po’ diverso dalla tradizione inglese, come sempre fatta di lunghi lanci e sponde centrali, anche se non la snatura drasticamente. Il football di Clough non riempie gli occhi dei tifosi ma, complice la bravura dei propri interpreti, è molto efficace, specialmente nel finale di stagione. Dopo l’iniziale assestamento, arriva la promozione in Prima Divisione.
L’ossatura della squadra è buona ma non perfetta, Clough sa che per migliorarla deve blindare la difesa. Arriva dallo Stoke City il portiere Peter Shilton, già nel giro della nazionale e destinato a segnare la storia dei Leoni d’Inghilterra sino a Italia ‘90. Parte proprio dall’irrisorio numero di reti subìte la splendida cavalcata del Forest verso il primo titolo della sua storia, davanti ai Campioni d’Europa del Liverpool un po’ distratti dalle fatiche di Coppa. Un’impresa impensabile ai giorni nostri, in cui è semplicemente assurdo aspirare alla conquista dello scudetto da parte di una neopromossa. E’ il trionfo del lavoro e dell’ambizione,
anche se Clough riesce a rendersi antipatico agli occhi degli inglesi con dichiarazioni spregiudicate e prive di ogni forma di diplomazia, tagliente e arrogante a tal punto da inimicarsi i vertici federali. Ma l’allenatore del Forest sa anche essere molto riconoscente nei confronti dei propri calciatori, cui chiede disciplina e rispetto, ma per cui spende elogi importanti.
Clough non nasconde di ambire a qualcosa di più per la stagione 1978-79 e ingaggia Trevor Francis, talentuoso attaccante del Birmingham strappato a una folta concorrenza. Il campionato scorre via fra troppi pareggi, mentre è in Coppa Campioni che la compagine di Nottingham esprime il meglio. Dopo aver eliminato il Liverpool al primo turno, il che potrebbe già rappresentare un’autostrada verso il titolo, gli Arcieri arrivano agevolmente alle semifinali, dove affrontano il Colonia di Weisweiler, profeta del calcio offensivo e autentico professore del pallone. Dopo il pareggio casalingo la squadra di Clough mostra gli artigli in terra tedesca e a per 1-0, rendendo una semplice formalità la finale di Monaco. Con l’identico punteggio il Forest sconfigge il Malmoe di Prytz, grazie alla rete del funambolico Francis, all’esordio in Coppa Campioni, conquistando per la prima volta la coppa con le orecchie.
Il football genius del calcio inglese si ripeterà l’anno successivo sul notevole terreno del Santiago Bernabeu, contro i tedeschi dell’Amburgo, grazie a una rete dello scozzese Robertson. E’ un trofeo storico perché poche squadre in Europa hanno saputo conquistare due titoli consecutivi, ma soprattutto perché l’ultimo della storia continentale del club inglese. Il sodalizio Clough-Forest prosegue sino al 1993, anno della retrocessione in Seconda Divisione e del ritiro dell’allenatore di Middlesbrough a vita privata, tra alterne fortune, rifondazioni e la strage di Hillsborough. In totale 12 trofei, tra cui la Supercoppa Europea del 1979, e la delusione di aver sempre fallito l’appuntamento con la FA Cup, il torneo cui il vecchio testone ha sempre ambito.
Il 20 settembre 2004, all’età di 69 anni, cala il sipario sulla vita di Brian Clough, l’allenatore che ha saputo conquistare la vetta d’Europa più volte rispetto al titolo nazionale, partendo dalla Seconda Divisione. Lascia pochi amici, molti
nemici e un’eredità che, a distanza di tempo, una buona parte degli allenatori moderni prova a conquistare senza successo.
Nell’incantevole Buenos Aires, César Luis Menotti si sente solo. Ha dovuto smettere necessariamente di fumare, piegandosi alle direttive dei medici dopo aver lacerato in maniera indelebile i propri polmoni. La sigaretta, dolce compagna della vita quotidiana, lascia spazio ai ricordi di una carriera sportiva esaltante e sempre controcorrente, che ha riservato vittorie, sconfitte e un gioco esaltante.
Menotti, ribattezzato El Flaco ovvero “lo smilzo”, inizia molto presto la sua carriera di allenatore alla guida dei Piromani dell’Hurácan, che trasforma ben presto in un collettivo armonico portandolo alla sorprendente vittoria del Metropolitano 1973, con l’apporto di talenti del calibro di Brindisi e Houseman. Un’impresa davvero storica per un tecnico quasi esordiente, che dimentica ben presto i fasti di una vita da attaccante breve e intensa, che l’ha visto duettare persino con Pelé nel Santos di fine anni ‘60. Quasi a sorpresa arriva, per lo più a seguito delle mille indecisioni dell’AFA, la chiamata a guidare la nazionale albiceleste, che ha l’unico dichiarato obiettivo di conquistare il Mondiale casalingo del 1978.
L’allenatore rosarino è ben consapevole dell’opportunità concessagli, come del pericolo derivante da un ipotetico flop; egli crede nella forza del lavoro ma soprattutto dei propri ideali, pertanto accetta l’incarico iniziando una lunga preparazione non priva di rovesci imbarazzanti. Nel frattempo, il crollo più importante che avviene in Argentina è quello della democrazia, con l’instaurazione del regime tirannico guidato dal generale Videla. L’Argentina che faticava a raggiungere una stabilità economica e politica, cade nelle mani dei militari che fino a quel momento controllavano il Ministero dell’Interno, apprestandosi a vivere una pagina storica nera fatta di desaparecidos e voli della morte. Molto si è detto e si è scritto, purtroppo a distanza di anni, sulla drammaticità di questo regime durato sette anni, sulle misure repressive nei confronti di tutti gli oppositori, sulle torture della Scuola di Meccanica della
Marina e sulla segretezza delle operazioni. Molto è rimasto nascosto e continua rimanere sottotraccia, complice una classe politica che rifiuta il confronto col ato nell’ottica di un’improbabile pacificazione nazionale tra vittime e oppressori, compresi gli oltre 30.000 individui che le Madri di Plaza de Mayo porteranno per sempre nel cuore. Con l’avvento del kirchnerismo qualcosa si è mosso, con la riapertura dei processi a seguito dell’incostituzionalità dell’indulto concesso da Menem, anche se troppi sono ancora gli interrogativi sul ruolo giocato dalle istituzioni religiose e i paesi cosiddetti occidentali.
Occasione più unica e rara costituisce questa competizione sportiva per il regime, in termini di visibilità mediatica. Lo sanno bene i generali che poco tollerano la libertà di pensiero di Menotti, ma che in fondo lo considerano come l’allenatore che potrà condurli alla vittoria del titolo e pertanto non lo destituiscono dal ruolo di commissario tecnico, nonostante le iniziali intenzioni. La dissonanza di fondo tra un uomo di sinistra e un regime repressivo ultraconservatore è un caso storico difficile da analizzare, se consideriamo Menotti da una duplice prospettiva: lo strumento asservito a Videla e l’allenatore che vince per il popolo. La nazionale argentina, dopo le iniziali difficoltà, inizia a vincere anche grazie alla benevolenza del portiere peruviano (la cosiddetta marmelada peruana) e dell’arbitro italiano Gonella, eccessivamente tollerante verso alcuni rudi interventi nei confronti degli avversari olandesi. Kempes e compagni si aggiudicano una Coppa dall’esito già scritto, che il proprio allenatore aveva chiesto di vincere per dovere nei confronti del popolo sofferente, senza voltarsi a guardare il cinico volto dei militari in divisa.
Menotti avrà modo di trasferirsi in Catalogna, terreno sicuramente ideale per esportare il proprio credo calcistico fatto di eleganza e piccoli tocchi, da un sistema difensivo a zona e un gioco arioso che, in qualche modo, ha gettato le basi per le vittorie degli anni duemila. Il ritorno in Argentina dopo la dittatura è un atto doveroso prima che una scelta lavorativa, la carriera dell’allenatore intellettuale subisce un lento declino più nei risultati che nel gioco.
Ora César Menotti vive di ricordi calcistici privo della fino a poco tempo prima
inseparabile sigaretta, analizzando il calcio di allora e di oggi senza riuscire a trovare analogie. Tra una critica al capitalismo e una disamina tattica, riesce sempre a non essere banale.
E’ un cupo 21 aprile a Belo Horizionte. Sopra un letto di ospedale giace Telê Santana, ricoverato per un’infezione intestinale, consapevole di dover morire a poco più di un mese dall’inizio dei mondiali. Egli ripensa alle gioie, alle delusioni e agli incubi di una carriera sportiva trascorsa sulle montagne russe, ando da picchi vertiginosi a tonfi inaspettati. A 74 anni la giostra si è fermata, l’uomo che ha reso il calcio un’arte attende la sua ora, fiero e orgoglioso delle proprie convinzioni. Telê ripensa all’infanzia trascorsa nella città mineira di Itabirito, alla famiglia numerosa e ai primi i nel mondo del calcio, nel ruolo di portiere. Le istantanee scorrono nell’ultima proiezione della propria vita, rapide come le sue discese sulla fascia destra, una volta raggiunto il professionismo con la maglia del Fluminense. Santana ripercorre i 162 goal che hanno contraddistinto la sua carriera di calciatore, intensa ed entusiasmante, appagante ed elettrizzante.
La mente si ferma un secondo, giusto per riprendere fiato. Poi riassapora i primi trionfi da allenatore alla guida di importanti club brasiliani, prima della chiamata della Federazione alle prese con la sostituzione di Cláudio Coutinho, ma con un poco trascurabile consenso popolare. E proprio dalla spinta propulsiva del popolo verdeoro nasce il calcio del Maestro, che non profetizza particolari alchimie scientifiche, ma lavora per un ritorno alle origini, un futebol bailado che rappresenta la vera essenza dello sport brasiliano come un carattere ereditario trasmesso di generazione in generazione, che non può essere cancellato da una forzata impostazione atletica filo-europea.
Il Mundialito uruguayano dei golpisti, che come spesso accade nella storia amano lavarsi la faccia sporca nelle acque infinite del pallone, mostra notevoli segnali di cambiamento che trovano conferme puntuali nelle amichevoli premondiale. Corre l’anno 1982, e l’atmosfera goliardica che si respira nella Seleção va necessariamente letta in chiave socio-politica. Il Brasile è governato
da una dittatura repressiva, e dal calcio arrivano forti segnali di ribellione. Non è un caso che il capitano di questa splendida squadra sia Socrates, leader della Democracia Corinthiana, movimento sportivo-politico impensabile ai giorni nostri, specialmente in Europa. Socrates predica calcio non solo nei confini nazionali, ma anche nella Spagna post-franchista di quella calda estate, trovando in Telê Santana un favoloso mentore.
Santana ripensa a quella folta barba che sprigiona colpi di tacco e giocate sublimi, ad un baffuto terzino sinistro in costante proiezione offensiva, all’Ottavo Re di Roma che detta i ritmi del gioco con cadenza orchestrale, al vivace esterno sinistro col cannone nel piede, all’ex ragazzino dal fisico esile che, col numero 10 sulle spalle, dipinge opere d’arte ogni volta che tocca il pallone. E’ un intero collettivo che si muove a ritmo di samba, cercando costantemente spazi liberi della pista da occupare, senza offrire il minimo segno di cedimento. Il fine ultimo non sembra il risultato, ma la ricerca della perfezione artistica, che è possibile ottenere gestendo delicatamente quell’oggetto che risponde al nome di “pallone”. Telê però ha un sussulto quando rivede un ragazzo tanto alto quanto goffo, ovvero Serginho Chulapa, ripensa a quel fantastico dinamitardo lasciato in panchina e realizza di aver compiuto il più grande errore della propria carriera di artista. Una vita trascorsa tra splendide opere, quali le sonanti vittorie contro Scozia e Argentina, prima della tristissima Tragedia del Sarrià, che segnerà per sempre la vita del Maestro. Come può un’Italia moribonda e catenacciara sconfiggere per 3-2 i ballerini di Santana? E’ una domanda che questo grande uomo si pone da quel triste 5 luglio, senza trovare uno straccio di risposta.
L’allenatore stimato diventa Pé Frio (piede freddo), triste destino per chi, in fondo, ha perso semplicemente una gara di ballo. La vita però gli riserva un’altra occasione per dimostrare che, ricercando la dimensione artistica del gioco del calcio, è possibile vincere. Non tanto nel 1986, al primo mondiale post-dittatura, ma nella splendida ed entusiasmante cavalcata alla guida del San Paolo, con cui si aggiudica due edizioni della Coppa Intercontinentale. Non più Socrates sul terreno di gioco, ma il meno talentuoso fratello Raì, insieme allo schizzofrenico Luis Muller e all’eterno Toninho Cerezo, quest’ultimo splendido esempio per le future generazioni di calciatori.
Il Maestro ripensa ai primi problemi di salute, all’addio al calcio datato 1996, a un calvario durato una manciata di anni ma forse iniziato ancor prima, con le parate di Zoff e gli errori di Serginho, ando per l’infortunio pre-mondiale di Antonio Careca. Poteva issare sulla vetta del mondo la nazionale più spettacolare di sempre, ma non ci è riuscito. Di sicuro non per colpa di un sistema di gioco sublime quanto elevato, che gli amanti del calcio ricorderanno per sempre, alla faccia dei cultori della statistica. Si chiude il 21 aprile 2006 la vita di Telê Santana, l’uomo che ha reso il fútbol un’arte.
Prima di disperdersi in commenti tecnici frutto di smisurata saccenza, e soprattutto prima di dedicare anima e corpo alla causa del berlusconismo, Arrigo Sacchi è stato un rivoluzionario. Innovatore di un calcio italiano ancora troppo ancorato al catenaccio e alle marcature a uomo in ogni zona del campo, indice di una ività particolarmente marcata in campo internazionale, il Vate di Fusignano ha saputo mietere successi al ritmo disarmante del pressing praticato dal suo Milan.
Profondamente ispirato all’Olanda di Michels e ossessionato dall’ambizione di portare il calcio totale in Italia, il suo curriculum da allenatore rimane profondamente segnato dai trofei conseguiti alla guida del Milan di fine anni ‘80. Niente male per un ex dipendente del settore calzaturiero, la cui smisurata ione per il fútbol era inversamente proporzionale alle proprie abilità balistiche, che vede decollare improvvisamente la propria carriera sportiva dopo un Milan-Parma di Coppa Italia. Arriva l’ingaggio dei rossoneri per la stagione successiva, e una miriade di campioni da allenare.
L’opinione pubblica si divide ancora sugli effettivi meriti di Sacchi nella costruzione del ciclo vincente, tra chi esalta il contributo del tecnico e chi sostiene che, in fondo, quei giocatori avrebbero vinto anche senza un allenatore. In realtà Arrigo ha il grande merito di aver portato in Italia un modo di giocare che altrove, e nella storia, già esisteva. L’allenatore romagnolo ha saputo imporre a campioni affermati il proprio credo calcistico, fatto di pressing asfissiante in
ogni zona del campo, squadra racchiusa in 30 metri, difesa altissima protesa alla ricerca del fuorigioco, ripartenze fulminee e portatore di palla con due-tre soluzioni alternative, assenza di un numero 10 funambolico e fuori dagli schemi. Un’idea socialista del gioco del calcio, dove tutti collaborano con eguale sforzo e sopratutto pari trattamento al bene comune della squadra, ovvero la vittoria. Per certi versi un po’ totalitaria, purtroppo, dove il didattico mister pretende di poter sostituire i giocatori come pedine del Subbuteo. Inizia in quel momento la fine del sacchismo, cioè quando l’egocentrismo del despota accresciuto dai risultati, già intriso di populismo berlusconiano, valuta la squadra come una somma di unità asservite al potere. I risultati post-Milan gli volteranno le spalle, e lo stress da panchina lo relegherà al ruolo di commentatore sportivo e di uomo pubblicitario, in pieno spirito Mediaset.
Eppure gli allenamenti imposti dall’Arrigo, davvero suggestivi, hanno fatto scuola per un certo periodo in Italia. Poi il Bel Paese, sprezzante del proprio patrimonio culturale fino a odiare il buon calcio, ha ripudiato i suoi insegnamenti tornando al preistorico catenaccio. Una preparazione fisica mirata, la cura maniacale dei dettagli nella ricerca della perfetta distanza tra i reparti e l’assimilazione mnemonica degli schemi in fase di possesso sono le basi di un 44-2 vincente, che ha fatto dell’imperforabile difesa in linea la pietra miliare. Poi i giocatori hanno fatto il resto, Van Basten con l’innata classe, Gullit con lo strapotere atletico, Rijkaard con l’innato senso del gioco, Maldini con le proprie discese sulla fascia, solo per fare alcuni esaustivi esempi.
Finisce dopo pochi anni l’era di Arrigo Sacchi, un rivoluzionario diventato reazionario, colui che ha contribuito in maniera sostanziale a far uscire il calcio italiano dalle caverne.
Francisco Maturana – futbolandia.ilcannocchiale.it, 20 maggio 2009
Francisco Antonio Maturana García nasce il 15 febbraio 1949 a Quibdó, nella Colombia nordoccidentale, figlio di un rappresentante di medicinali e di una
maestra. “El Pacho” coltiva sin dai primi anni di vita la ione per il calcio, e a soli 12 anni entra in quello che diventerà il club della sua vita: l’Atlético Nacional di Medellín, arrivando fino alla prima squadra.
Maturana calciatore
Francisco Maturana è un difensore dal fisico prestante ma dal tocco di palla felpato, imposta l’azione e si concede qualche colpo di tacco in mezzo all’area. Con la squadra in maglia verde gioca dieci stagioni, conquistando due titoli nazionali. Il primo con un punto di vantaggio sui Millionarios di Bogotà, il secondo davanti all’Once Caldas.
Nel gennaio del 1981 Maturana a all’Atlético Bucaramanga, per una stagione professionalmente da dimenticare, mentre le ultime soddisfazioni da calciatore le coglie l’anno successivo con la maglia del Deportes Tolima, secondo in classifica a tre punti dall’America Cali. Chiude la carriera di calciatore dopo 12 anni e una manciata di presenze in nazionale.
Ascesa e consacrazione in Colombia
A volte un incontro ti può cambiare la vita. Terminata la carriera da calciatore, Maturana sembra avviato verso una nuova attività professionale, quando un colloquio con il mister uruguayano Luis Cubilla lo convince a diventare viceallenatore al Nacional. Maturana capisce che è il momento di “mettersi in proprio”, e la stagione successiva è all’Once Caldas, squadra modesta che il Pacho riuscirà a plasmare a sua immagine e somiglianza.
Nel 1987 è giunta l’ora di tornare all’ovile, quel Nacional che ha
contrassegnato la sua vita da calciatore, giungendo al secondo posto in campionato. Ma è soprattutto la bellezza del suo impianto di gioco a raccogliere consensi: un calcio più offensivo, fatto di possesso palla e continui aggi in orizzontale, frutto di allenamento ed organizzazione, e con un pizzico di creatività tutta sudamericana. Alla vigilia del torneo preolimpico in Bolivia la nazionale si trova in crisi di gioco e risultati, e la Federazione decide un po’ a sorpresa di nominarlo nuovo CT. Dal quel momento la carriera del Pacho inizia a correre su due binari: la Colombia, i club.
Puntando tutto sul blocco Nacional, in tre anni i Cafeteros raggiungono un dignitoso terzo posto in Copa America, ma soprattutto la qualificazione ai Mondiali ‘90, traguardo che mancava da ormai 28 anni.
La partita perfetta
Corre l’anno 1989, e il Nacional di Maturana conquista a sorpresa la Copa Libertadores, battendo 5-4 ai rigori i paraguayani dell’Olimpia Asunción. I biancoverdi entrano di diritto della storia, in quanto diventano i primi a portare in Colombia il trofeo. Quel successo vale la finale di Coppa Intercontinentale, che vede opporsi i due nuovi profeti del “calcio totale”: Arrigo Sacchi e, appunto, Francisco Maturana.
Noi di Futbolandia, non senza provocarci qualche antipatia, abbiamo sempre sostenuto che Milan – Nacional Medellin è stata la cosiddetta “partita perfetta”, almeno da un punto di vista tattico. Due squadre che giocano in maniera speculare, racchiuse per quasi 120’ in 30 metri di campo, con i sudamericani costantemente in possesso palla cercando il gioco in orizzontale. Naturale conseguenza, la partita scivola via senza particolari occasioni da rete, fino alla punizione di Evani che gela Higuita ad un minuto dai calci di rigore.
E’ una doccia gelata per i colombiani, ma non per Maturana, che nonostante la sconfitta riceve ripetuti elogi a livello internazionale.
La nazionale e la gloria
Alla vigilia di Italia ‘90 c’è molta curiosità per vedere all’opera la “zona dinamica” di Maturana, ma il ritorno della Colombia alla competizione mondiale si fa subito in salita. La squadra è inserita nel gruppo con Emirati Arabi Uniti, Germania e Jugoslavia, quest’ultima vera forza emergente del calcio europeo. Eppure gli uomini di Maturana centrano la qualificazione agli ottavi grazie a Freddy Rincón, attaccante transitato anche per Napoli, oltre ad un calcio sempre propositivo e spumeggiante.
Il 23 giugno Valderrama e compagni si giocano l’ingresso nelle migliori 8 contro la sorpresissima Camerun, ma una dormita colossale di Higuita a centrocampo spiana la strada a Roger Milla e ai Leoni d’Africa.
Maturana ci riprova allora con la Copa América 1993, classificandosi al terzo posto, venendo eliminato in semifinale dall’Argentina futura vincitrice del torneo. Nello stesso anno si qualifica per il campionato del mondo 1994, il secondo consecutivo da allenatore della nazionale.
La squadra si presenta carica di aspettative e di sogni, in primis quello di brillare agli occhi del mondo. Ma l’obiettivo principale di Maturana è quello di unire una nazione colpita dalle ingiustizie e dal narcotraffico, in preda al sangue e all’odio. Il mondiale si rivela però un fiasco colossale, con l’uscita prematura in un girone molto accessibile, e con il triste omicidio del difensore Andres Escobar, episodio che segnerà in maniera indelebile la nazione.
Il Pacho torna in sella ai Cafeteros nel 2001 e, grazie alle reti di Aristizabal, regala alla propria nazione la prima Coppa America della storia. In una competizione snobbata dalle grandi, per motivi di ordine pubblico, sono decisive le parate del portiere del Boca Jr. Oscar Cordoba, oltre al gol nella finalissima contro il Messico dell’omonimo Ivan Ramiro. Maturana chiude la propria esperienza in nazionale nel novembre 2003, con la fallita qualificazione ai mondiali di Germania. E’ la fine di un ciclo spettacolare, fatto di 51 vittorie, 33 pareggi e 22 sconfitte.
Maturana girovago
Dopo Italia 90, Pacho approda in Europa al Real Valladolid, e con Higuita, Valderrama e tanta terra bruciata retrocede in Seconda Divisione. Torna allora in Colombia, dove vince il campionato con l’America di Cali, prima di tornare in Spagna, per un esonero lampo all’Atletico Madrid.
Nel 1995 approda alla guida tecnica dell’Ecuador, fallendo però l’accesso alle fasi finali del Mondiale di Francia. Ha comunque il merito di costruire un gruppo solido, da cui ne trae beneficio il suo ex vice, Hernan Dario “El Bolillo” Gomez, che guida l’Ecuador alla spedizione di Corea e Giappone 2002.
Tornato ad allenare in patria al Millonarios di Bogotá, vi rimane un anno prima di approdare in Costa Rica, per poi partecipare alla Gold Cup 2000 con il Perù. Nel 2002 è in Arabia all’Al-Hilal, per vincere il campionato saudita e guadagnare diversi petroldollari.
Nel 2004 è il primo allenatore colombiano ad approdare in Argentina, al Colon de Santa Fè, salutando tutti dopo un 11esimo posto. Torna tre anni dopo, questa volta al Gimnasia La Plata per rimpiazzare Pedro Troglio, ma viene esonerato dopo risultati deludenti.
Lo scorso anno viene nominato CT della nazionale di calcio di Trinidad e Tobago, ma nell’aprile del 2009 si dimette dall’incarico, lasciando la nazionale caraibica nelle mani di Russell Latapy.
Vita privata
Sul finire della propria carriera da calciatore, Maturana consegue la laurea in odontoiatria, al termine di un percorso universitario durato 16 anni. Tolti i panni del calciatore apre uno studio, ma poi preferisce tornare sul rettangolo verde in qualità di allenatore.
Sposato con donna Margarita e padre di quattro figli, Maturana è un uomo di grande cultura. Nel 1991 entra in politica, come candidato del Movimiento 19 de Abril, movimento appartenente alla sinistra riformista, venendo eletto per la Asamblea Nacional Costituente. Da sempre feroce oppositore dei narcos, è celebre per il famoso monito “il nostro calcio e la nostra società hanno bisogno di maggior cultura”. L’appello di Maturana è anche quello di Futbolandia, che si è sempre distinta per la trattazione colta degli argomenti calcistici.
Giornalista per Telecinco e autore di ben due romanzi, El Pacho è un degno ed acclamato cittadino onorario di Futbolandia!
Damiano è un ragazzo umile, forse troppo per le sue innate capacità, e al calcio giocato ha offerto un tributo importante: il proprio ginocchio sinistro. Dopo anni di inattività vuole riprenderselo con gli interessi, anche se questo calcolo metterebbe in difficoltà il più apionato della matematica finanziaria. Le reti non bastano a saziare questo implacabile cannoniere, che a una tecnica sopraffina unisce un’innata abilità realizzativa, frutto di un tiro pressoché
infallibile e di una capacità nello smarcamento più unica che rara. La folla dello Stadio San Giorgio lo acclama a gran voce chiedendogli uno sforzo ulteriore, quasi inumano, che significa catalogare il soggetto tra gli eletti. Damiano diventa così allenatore di una delle squadre più indisciplinate e ionali dell’intero panorama calcistico lecchese, con l’obiettivo di dimostrare che il lieto fine non esiste solo nelle favole, e il gioco più popolare del mondo può produrre emozioni anche nell’angolo più sperduto del pianeta. Nasce la favola di Mister 33 schemi.
Davanti al Portiere, istrionico a tal punto di ricordare il romeno Duckadam, è schierato il roccioso Libero, che gioca a protezione del giovane e rampante Marcatore. Mentre sull’esterno di destra vige un sano e produttivo ballottaggio, la fascia sinistra è affidata alle incursioni del Capitano. In mezzo al campo dirige il traffico il Mediano, che deve necessariamente coniugare fase difensiva e offensiva, per calciare in porta o indirizzare verso la stessa la Punta, il cui obiettivo è di raggiungere le 30 segnature in campionato. Questa è la formazione tipo del Mister, o della Punta, e non dite che mancano quattro giocatori: la squadra disputa un campionato di calcio a 7.
Ai più grandi allenatori della storia, Damiano ruba un segreto: l’importanza del dialogo, la necessità dell’ascolto. “Cinque minuti di silenzio” tuona il Mister prima di ogni partita, per introdurre la formazione che nella magica serata del venerdì affronterà l’ostico avversario di turno, oltre a qualche semplice indicazione tattica frutto di uno studio maniacale del match. Poi si scende sul terreno di gioco e via, con la solita raffica di emozioni, sequenza alternata di gioie e dolori, dolce zucchero sui piedi degli avanti e gusto amaro in quelli dei difensori, il calore e l’azione incessante del pubblico a testimoniare un legame indissolubile con la squadra, degno della 12 azul y oro. Uno schema dopo l’altro, al termine di ogni partita se ne contano almeno 33, gli stessi provati e riprovati in allenamento con una cura maniacale.
Chi si azzarda a definire prematuramente calcio inferiore quello che sto narrando, semplicemente non ha avuto il piacere di assistere alla sinfonia di quella squadra, capace di alternare vittorie importanti e tonfi clamorosi, di
abbattersi e riprendersi nell’arco dello stesso incontro, di affacciarsi alla porta avversaria con la stessa facilità di rubare una caramella all’oratorio, con la certezza matematica di subire un goal a partita. I risultati? Vittorie, pareggi, sconfitte, playoff solo sfiorati. Poco importa, la squadra di Damiano produce gioco e divertimento, emozioni senza limiti, situazioni adrenaliniche, qualche sporadica rissa.
Dopo una cavalcata entusiasmante durata tre stagioni, Damiano decide di chiudere questa parentesi di calcio e di vita. Ci sono persone e situazioni con cui convivi piacevolmente per un certo lasso di tempo, ma che poi abbandoni sul più bello, per lasciare spazio ai ricordi di un ato gioioso e senza rimpianti, senza affrontare quella che inevitabilmente diventerà una parabola discendente. La nostra esistenza è contrassegnata da esperienze, ma soprattutto da compagni di viaggio con cui affrontiamo questo percorso. Mister 33 schemi pensa di aver offerto anima e corpo a questa squadra, e un valido contributo a tutti gli allenatori del pianeta, ma ritiene anche di aver ricevuto tanto. Si assume pertanto la responsabilità di una scelta che ai più può sembrare insensata, impopolare, ma in perfetta linea col personaggio; il Mister abbandona il calcio per dedicarsi completamente alla sua vera e autentica ione, la musica. Anche nella nuova veste saprà raccogliere soddisfazioni, ma questa è un’altra vicenda che potrà raccontare chi ne seguirà, ma soprattutto apprezzerà, le gesta.
Quella che ho appena terminato è la storia di Damiano, allenatore capace di regalare calcio spettacolo alla frazione di Imberido.
Simone non ha ancora trent’anni e allena da una stagione. Come ogni tecnico è molto protettivo nei confronti dei propri giocatori, ama giustificare ogni loro azione, in maniera però eccessiva. Attribuisce a fattori esterni alla propria squadra le cause di ogni sconfitta, celebrando quest’ultima come una specie di vittima sacrificale di arbitri malavitosi, avversari senza scrupoli e malasorte monodirezionale. I ragazzi di Simone vivono in un mondo ovattato, dove ogni errore è legittimato e le colpe sono sempre da scaricare. Così facendo il giovane allenatore giustifica se stesso e i suoi sbagli marchiani, così evidenti agli occhi di
addetti ai lavori e sostenitori. Simone allena una squadra carente da un punto di vista prettamente tecnico, ma che con una gestione maggiormente oculata potrebbe valere ben più dell’ultima posizione in classifica che ricopre, facendo leva sulla grande professionalità e spirito di sacrificio dei propri ragazzi.
Il calcio è uno sport davvero democratico, permette a tutti di esprimere la propria opinione in piena libertà, scadendo talvolta con insulti al direttore di gara e alla panchina avversaria. Ma gli addetti ai lavori conoscono le dinamiche di questo divertimento, le controllano e le dominano in maniera direttamente proporzionale alla propria esperienza, le superano e ne escono quando ne sono indignati e nauseati. Ciò che non conosce Simone è il rispetto dell’avversario, dell’arbitro e del fatto che si può perdere una partita, per propri demeriti o per meriti altrui. Il calcio dell’inesperto ragazzo è fatto invece di complottismo, vittimismo e distanza dalla realtà, caratteristiche imprescindibili per perdere nello sport come nella vita.
Il calcio permette a Simone di allenare, in aperto contrasto con lo spirito del divertimento più bello al mondo. Ma in fondo egli è giovane, e può ancora mutare il suo modo di pensare.
Il panorama degli allenatori moderni si suddivide in “amanti della manovra”, che vede nel catalano Guardiola il principale interprete, “personaggi televisivi” alla Josè Mourinho, neocatenacciari e tanti onesti lavoratori che cercano di valorizzare il materiale umano messo loro a disposizione. Ciò che li accomuna è il fatto di non essere innovatori, bensì sintetizzatori di idee e concetti altrui, attingendo allo sterminato patrimonio che la storia di questo meraviglioso sport concede loro.
Mentre l’immediato dopoguerra lasciava agli operatori del settore un ampio margine di scoperta, nel calcio attuale c’è poco da inventare. O forse è solo questione di tempo non concesso per sperimentare, attanagliati come siamo, a tutti i livelli, dalla logica del risultato ad ogni costo. In questa chiave possiamo
leggere l’intervento massiccio del capitale nel mondo pallonaro, capace di trasformare i propri interpreti in dorate statuine del presepe, sostituibili al primo segno di cedimento tale da far presagire il mancato raggiungimento degli obiettivi. E’ in questo contesto che nasce l’ammirazione generale per il gioco barcelloniano, che affonda le proprie radici nel terreno predisposto da Michels, Menotti, Cruijff e Rijkaard, bello a vedersi proprio perché in questo momento non rintracciabile in altri contesti. L’attuale allenatore detiene evidenti meriti nella gestione dello spogliatoio, nella scelta della formazione migliore e nella valorizzazione di alcuni interpreti, ma lavora nel solco tracciato da altri. Lo stimo e lo apprezzo per quanto riesce a trasmettere alla squadra, e non riesco proprio ad addormentarmi nel vedere una qualsiasi partita dei blaugrana. Ma non può essere considerato un rivoluzionario, bensì un ottimo allenatore.
Ovviamente il mister catalano potrà smentirmi quando, lasciata la città di Gaudì, vincerà e convincerà altrove.
L’eleganza del Numero Dieci
Dinamico o statico, mancino oppure ambidestro, nell’antica distribuzione dei numeri in distinta, il Dieci è l’impersonificazione dell’eleganza calcistica. Subentrate a gamba tesa le politiche di marketing aggressivo nell’industria pallonara, con l’introduzione delle magliette personalizzate viene un po’ meno l’assegnazione della prima doppia cifra al calciatore più talentuoso della squadra, relegando il Dieci in secondo piano rispetto a “prodotti” maggiormente commerciabili.
Questo capitolo intende restituire il giusto valore a una maglietta che, nel corso dei decenni, ha offerto spettacolo e reti, gioie e beffe atroci. Fumoso funambolo o raffinato trequartista, concreta mezzapunta o dinamico realizzatore alle spalle del centravanti, il Numero Dieci è un patrimonio sportivo da difendere al pari degli orsi bianchi al Polo Nord. Specie in via di estinzione, certo, ma anche elemento imprescindibile per ogni compagine che si rispetti: di seguito si andranno a tracciare i profili dei trequartisti che più mi hanno entusiasmato, nella mia giovane vita di apionato sportivo.
Lajos Detari, il Divino – futbolandia.ilcannocchiale.it, 20 gennaio 2010
“Non c’è nessun problema per vincer la partita, non c’è nessun problema se c’è Detari gol”, recitava un coro ultras dei primissimi anni ‘90. Il soggetto in questione, abile negli assist quanto nell’infilare la porta avversaria, era il Magico Magiaro di Budapest, ovvero Lajos Detari.
Detari cresce calcisticamente nella mitica Honved, e ciò lo esporrà nel tempo ad un paragone tanto inutile quanto dannoso col fenomeno Puskas. Due giocatori
estremamente diversi, cresciuti in epoche calcistiche totalmente differenti, ma accomunati da leggiadria e carisma. Lajos si segnala nella prima metà degli anni ‘80 come uno dei talenti emergenti del calcio mondiale, forte di tre scudetti conditi da altrettanti titoli di capocannoniere. Agile e felpato, si muove in punta di piedi e a testa alta, sforna assist a ripetizione ed è abile nel dribbling. Ma è grazie al suo destro preciso e potente che balza alle cronache, un mix letale che lo porta in poco tempo a diventare il centro nevralgico della propria nazionale. Una selezione ungherese che, dopo anni di oscurità, torna alla ribalta qualificandosi per i Mondiali 1986 e permettendosi di rifilare un perentorio 3-0 in amichevole alla Seleçao.
Il 24enne Detari trova allora la propria consacrazione nella Bundesliga tedesca, con la maglia del glorioso Eintracht Francoforte, con il quale disputa una sola ma strepitosa stagione, siglando la rete decisiva nella finale di Coppa di Lega contro il Bochum. Al centro di numerose trattative di mercato, il n.10 magiaro accetta la sontuosa offerta dei greci dell’Olympiakos, con il quale metterà a segno diversi gol e vincerà un’altra Coppa di Lega. Il Divino si conferma come uno dei più talentuosi giocatori dell’epoca, e se si confronta il calcio europeo di allora con quello attuale, forse anche ai più allucinati pallonari filo-italioti risulterebbe facile smettere di esaltarsi per Totti & C. L’arresto del presidente Koskotas lascia la società ellenica in subbuglio, e al Pireo si decide di svendere i gioielli: Lajos a all’ambizioso Bologna di Scoglio, approdato alla Coppa Uefa. L’inizio di stagione 1990/91 è buono, ma dopo sole 15 giornate l’ungherese si infortuna, e il Bologna retrocede. S’interrompe anche il cammino europeo dei felsinei, nonostante una gemma di rara bellezza regalata da Lajos contro gli scozzesi dell’Heart of Midlothian. Tra l’Italia e Detari nasce un legame importante, che lo porterà anche ad indossare le casacche di Ancona e Genoa.
Terminerà la propria carriera di giocatore girovagando tra Austria e Ungheria, iniziando successivamente quella di allenatore, che forse non sarà all’altezza del suo grande talento bizzarro ed imprevedibile. Detari lascia agli apionati di calcio un ricordo indelebile della propria classe. Un talento unico, consacratosi come uno dei più fini numeri 10 del panorama calcistico mondiale tra gli anni ‘80 e ‘90, espressione autentica della vera essenza del calcio. Lajos è degno
cittadino di Futbolandia, in quanto detentore di fantasia e genio, caratteristiche che nel calcio europeo moderno stanno purtroppo scemando. Chi l’ha criticato, e chi lo critica, continui pure a guardarsi l’Italia di Lippi…
Non ha mai siglato reti degne di essere conservate in una teca del calcio. La sua bacheca è avara di trionfi, individuali o di squadra. Il suo nome è associato, dall’opinione pubblica, alla folta chioma bionda e riccioluta che ne ha accompagnato l’intera carriera sportiva, oltre ai baffi folti e scuri che lo hanno reso icona mondiale e personaggio da imitare. Eppure Carlos Valderrama è stato uno dei migliori calciatori sudamericani del dopoguerra, con il suo gioco fatto di tocchi raffinati, dribbling efficaci, aggi orizzontali e assist filtranti, con la pazienza e la perspicacia che compete ai più raffinati interpreti del gioco del calcio. Un mago dell’intelligenza, che conosce la posizione dei suoi compagni quasi senza guardarli e che gli consegna il pallone come se lo fe con le mani, secondo César Menotti, uno che di pallone indubbiamente ne capisce.
Assoluto protagonista in Colombia e nell’intero continente Sudamericano, che ha rappresentato nel migliore dei modi con la conquista del Balón de Oro 1987 e 1993, El Pibe non ha incantato in Europa, con le maglie dei si del Montpellier e degli spagnoli del Real Valladolid. Non potrebbe essere altrimenti per il più illustre interprete dello slow foot, il cui stile è assolutamente distante dai frenetici ritmi del Vecchio Continente, abile com’è nel nascondere il pallone dalla visione dell’avversario e a calibrarlo, con tutta la calma che gli compete, sui piedi dell’attaccante lanciato verso la rete. Valderrama, nell’arco della propria carriera, non ha mai fatto un cambio di o; ciò gli ha garantito la possibilità di giocare fino a 42 anni, anche se avrebbe potuto proseguire oltre, predicando al mondo che la sfera è un oggetto da maneggiare con cura e attenzione.
La carriera professionistica di Carlos inizia dopo il diploma, nell’Unión Magdalena, la squadra di quel padre vero punto di riferimento nella sua vita, sportiva e non solo. Il salto di qualità avviene nel 1985, con il aggio al Deportivo Cali e il connubio sportivo con Bernardo Redín, calciatore che
condivide con Valderrama ruolo e abilità tecniche. I due spingono il proprio club ai vertici del campionato nazionale, pur senza vincerlo, ottenendo le prime convocazioni con i Cafeteros, che non navigano nel miglior periodo della loro storia. El Pibe entra in pianta stabile della nazionale due anni dopo e, con Maturana in panchina, da vita a quella che può essere considerata la rinascita del calcio colombiano, grazie a un gioco spumeggiante che non può prescindere dall’estro e dall’imprevedibilità dei suoi interpreti.
Il pubblico italiano conosce Valderrama in occasione dei Mondiali 1990, ammira quella folta chioma che lo rende il Gullit biondo ma non s’innamora di quella squadra rivoluzionaria che annovera talenti del calibro di Freddy Rincon, Arnoldo Iguaran e Miguel Angel Guerrero. Demerito di René Higuita e quella maldestra uscita palla al piede sul camerunense Milla, al San Paolo di Napoli, che di colpo declassa le intenzioni bellicose degli uomini di Maturana e li riporta alla realtà. Il baffuto ed elegante centrocampista brilla con la maglia del Junior Barranquilla, con la quale conquista due titoli nazionali, ma è con la maglia della nazionale Cafetera che intende rivelare l’evoluzione del movimento calcistico locale. Nel cammino che porta i colombiani al Mondiale USA ‘94 c’è una data precisa, il 5 settembre 1993, che gli apionati di calcio ricordano in maniera indelebile: la squadra di Maturana sconfigge l’Argentina di Basile per 5-0 al Monumental di Buenos Aires. Nonostante il calcio spumeggiante e le ottime premesse, l’edizione americana della rassegna mondiale si rivela un fiasco, specialmente per il 33enne Valderrama, reduce da uno strappo a un legamento guarito in tutta fretta.
Si apre un periodo buio per il calcio colombiano, che riflette la crisi di una società dilaniata dal narcotraffico. Il 2 luglio 1994, all’uscita del ristorante dove aveva appena cenato con la moglie, viene ucciso con alcuni colpi di pistola il forte difensore Andrés Escobar, reo di aver commesso l’autorete decisiva nella sconfitta contro i padroni di casa statunitensi. Si dimette al contempo il CT Maturana, lasciando al vice Hernan Dario El Bolillo Gomez il compito di ricomporre i cocci e tentare l’assalto ai Mondiali si del 1998. E’ qui che si celebra il congedo al palcoscenico internazionale del Pibe Valderrama, con la maglia di una Colombia troppo brutta perché sia ricordata. Il numero 10 vintage, forse fuori moda per i canoni atletici del calcio moderno, sicuramente delizioso
per gli esteti del gioco, spende gli ultimi scampoli di carriera nella neonata Major League Soccer, predicando nel deserto di un mondo artefatto in cui il calcio difficilmente può attecchire.
Se un pallone potesse parlare, alla richiesta di quale giocatore lo abbia trattato con più cura e perizia, nell’arco di una carriera di onorato servizio, risponderebbe sicuramente: Carlos Valderrama.
Nella Romania di Nicolae Ceauşescu, i roboanti anni Ottanta ergono ai vertici calcistici la formazione dell’esercito. La Steaua Bucarest, rifondata dallo stratega Emerich Jenei con giovani calciatori di ottimo livello, conquista la Coppa Campioni 1985/1986 e una serie lunghissima di scudetti, grazie anche all’apporto, a partire dal 1987, di un giocatore tanto talentuoso quanto influente: Gheorghe Hagi. Nato nel distretto di Costanza, pertanto cresciuto nella compagine locale del Farul, dopo il dovuto rodaggio con gli Studenti dello Sportul si afferma con la maglia rossoblù dei miliziani, prima di spiccare il volo verso l’Occidente dopo il crollo del regime del Conducător.
Con un curriculum di tutto rispetto, fatto di trionfi in campo nazionale e continentale, il trequartista romeno si approccia al Real Madrid con intenzioni bellicose, con l’obiettivo di conquistare quella Coppa dei Campioni sfuggita per opera dei marziani di Arrigo Sacchi. Egli non riuscirà a conquistare l’ambito trofeo, nei quasi vent’anni di onorata carriera, nonostante l’incredibile talento gli abbia concesso la possibilità di militare in squadre importanti, strappare ingaggi stellari ed esplorare nuovi mondi sportivi. Il Maradona dei Carpazi vivrà però una seconda giovinezza sportiva con gli emergenti e sempre ostici turchi del Galatasaray, portando a Istanbul la prestigiosa Coppa Uefa e, ancor più sorprendentemente, la Supercoppa Europea grazie a una doppietta di Super Mario Jardel, un centravanti che per abilità tecnico-realizzative meriterebbe un capitolo a parte di questo libro.
Se la carriera da allenatore di Hagi non è, per il momento, all’altezza di quella da
calciatore, vi è un solo motivo: la seconda risulta decisamente al di sopra della media mondiale. La spiccata personalità ha, nel bene e nel male, condizionato il rendimento di un calciatore regale, che avremmo visto volentieri scendere in campo con una corona in testa, in sella a una carrozza intento nel calciare con precisione chirurgica il pallone, sopra un tappeto rosso di inestimabile valore. Il suo modo di approciare al lancio lungo o all’esecuzione dalla lunga distanza ha fatto scuola, come del resto non si è ancora rivelato al mondo un degno erede dello scettro. Per informazioni in merito, chiedere al portiere colombiano Oscar Córdoba, trafitto dal capitano romeno con un tiro dai 35 metri in posizione defilata, al Mondiale 1994.
Con la fascia di condottiero, Gheorghe Hagi contribuisce in maniera decisiva alla crescita del movimento calcistico nazionale nell’arco degli anni Novanta, ato dall’abilità di compagni quali Giga Popescu, Miodrag Belodedici, Dan Petrescu, Dorinel Munteanu, Florin Răducioiu, Ilie Dumitrescu, Viorel Moldovan, Marius Lacatus e il portiere Bogdan Stelea, solo per citare i nomi più altisonanti. L’uscita di scena con i Tricolorii è però incolore, indegna di questo campione dello sport, nell’Europeo 2000 che segna il aggio di consegne alla nuova generazione di Adrian Mutu e Cristian Chivu. La brutta entrata sul mediano azzurro Antonio Conte e la successiva espulsione sono due istantanee da non consegnare alle nuove leve del calcio della nazione di Dracula, due flash da rimuovere dalla memoria di chi ha vissuto i tocchi felpati del numero dieci, che anche nel modesto Brescia dei primi anni Novanta regala un calcio per palati fini. Il miglior giocatore romeno di tutti i tempi, affermazione che potrebbe mettere d’accordo il più becero dei conformisti e l’anticonformista più incallito, chiude la propria esperienza in nazionale con oltre cento presenze, tre mondiali giocati e la convinzione che a Sacele non nascerà più un nuovo Gheorghe Hagi.
L’eleganza sopravvive alle mode del momento, la classe è il miglior antidoto all’atletismo imperante. Il Maradona dei Carpazi ne è la dimostrazione lampante.
El Flaco – futbolandia.ilcannocchiale.it, 30 luglio 2007
Sin dai tempi del blog Fernando Redondo ci siamo occupati di grandi campioni, al di la di colori, bandiere e maglie. Abbiamo sempre esaltato le gesta di giocatori che, nonostante il proprio legame con squadre di nostro scarso gradimento, hanno lasciato un segno indelebile nel panorama calcistico internazionale. Per cui, pare doveroso dedicare questo post al grande Enzo scoli, ex capitano del River Plate e della nazionale uruguayana.
scoli rappresenta per l’Uruguay quello che è stato Baggio per l’Italia, Zidane per la Francia o Romario per la Seleção: un trequartista creativo, abile in fase realizzativa, un leader carismatico in grado di segnare per molti anni le sorti della propria nazionale. Enzo nasce a Montevideo il 12 novembre 1961, e inizia la propria carriera nel Wanderers, club con il quale conquista (a soli 22 anni) la stima di River Plate e nazionale uruguayana. Con la maglia delle Galline è amore a prima vista: con 43 centri in tre stagioni conquista una Primera Division, due titoli di capocannoniere, il titolo di calciatore sudamericano dell’anno 1984 e le prime offerte europee.
A spuntarla è una piccola squadra se, il Matra Racing Paris (seconda squadra della capitale), con la quale disputa tre stagioni che gli valgono l’approdo al ben più blasonato Marsiglia di Tapie. E’ una stagione agrodolce quella nella ionale città se, costellata da 11 reti e diversi infortuni che a tratti sembrano limitarne il rendimento. Nel frattempo l’estro di scoli arretra di qualche metro: dalla fantasiosa e concreta seconda punta di inizio carriera, diventa un regista abile nell’innescare le punte o cercare la conclusione. Si specializza inoltre nei calci piazzati, specialità in cui eccelle.
Abbandonata la parentesi se con uno scudetto in tasca, il trentenne Principe approda nella meno ambiziosa Cagliari. Dopo le prime giornate difficili, in cui il giocatore si dimostra forse troppo lezioso per il rude calcio nostrano, emerge la classe del campione. In tre stagioni, 17 centri, molti assist, due agevoli salvezze e una storica qualificazione Uefa. Il trentaduenne capitano della Celeste viene svenduto al Torino, dove disputa una stagione “a sprazzi”, in cui realizza sole tre reti per via di una posizione ormai definitivamente
consolidatasi al centro del campo. L’amore della propria vita chiama, ed Enzo risponde: le ultime tre stagioni al River Plate sono da cineteca, con il River di Salas e Cruz riportato ai vertici del Sudamerica, un titolo di capocannoniere (1996) e la riconquista del trofeo di miglior calciatore sudamericano (1995).
E’ il 1997, e dopo aver vinto Apertura, Clausura e Supercopa Sudamericana, Enzo scoli chiude col calcio, a 36 anni. Anche la propria esperienza con la Celeste si chiude, con 73 match all’attivo, condite da 17 reti e tre Copa America vinte (1983, 1987 e 1995). Si chiude la carriera di un giocatore a cui Zinedine Zidane si è ispirato per lunghi tratti della carriera, riuscendone ad ottenere la maglia solo in uno storico River Plate-Juventus di Coppa Intercontinentale.
La preadolescenza calcistica del sottoscritto è contrassegnata da una fissazione a strisce rosse e nere: il Milan di Fabio Capello, una squadra capace di asfaltare qualsiasi avversario, blaugrana compresi. Se il diario scolastico si riempie di slogan e colori, gran parte del merito è di un centrocampista offensivo tanto geniale quanto anarchico: Dejan Savićević.
Cresciuto nel Budućnost, il montenegrino Dejan si afferma con la maglia della Stella Rossa Belgrado, al fianco di campioni quali Belodedici, Jugović, Mihajlović, Prosinečki, Sabanadžović e il leggendario Dragan Stojković, conquistando la Coppa dei Campioni che lo lancia definitivamente nel firmamento del Grande Calcio mondiale. Ma è una sera novembrina del 1988 che gli italiani conoscono per la prima volta Savićević, quando nella nebbia dello stadio Marakana emerge la sagoma della riccioluta mezzapunta e trafigge Giovanni Galli. Il discusso arbitro decide che le condizioni atmosferiche sono troppo proibitive per il club di Silvio Berlusconi, dispone la ripetizione del match con conseguente vittoria dei rossoneri ai rigori. La Jugoslavia sarebbe crollata di lì a poco, come un castello di sabbia, orfana del Generale Tito e delle sue certezze. Il Genio montenegrino raggiunge proprio la compagine di Milano, dopo una corte spietata, alla conquista di nuovi trofei e di quel Pallone d’Oro che mai riuscirà a vincere, nonostante i riconosciuti meriti.
L’eleganza rende il mancino di Podgorica un ballerino del Bolshoi, mentre la posizione in campo pare disegnata da un testo di Kropotkin. Tanto sono entusiasmanti le incursioni palla al piede quanto è indecifrabile la sua posizione in campo, svincolata da schemi studiati a tavolino e provati in allenamento. Nel calcio europeo dei primi anni ‘90, dove l’atletismo assume un ruolo fondamentale e la tattica raggiunge livelli equiparabili all’esasperazione, Savićević riesce a far saltare il banco della partita con giocate individuali di altissima scuola. Il repertorio dell’estroso numero 10 comprende dribbling stretti, un controllo di palla più unico che raro, sfondamenti centrali, l’accentramento da destra, aggi filtranti e tiri improvvisi. Ne sa qualcosa il portiere basco Andoni Zubizarreta, autentico mostro sacro di un Barcellona che si appresta a vincere la Coppa Campioni 1993-1994, forte di una coppia di attaccanti di valore unico: Romario e Stoichkov potrebbero segnare in una porta difesa da 22 giocatori, figuriamoci a un Milan privo di Baresi e Costacurta. L’ottima partita difensiva dei rossoneri coincide con una delle prestazioni più importanti del Genio, sbarcato ad Atene per egemonizzare l’Europa, il quale sfodera una palombella improvvisa che non lascia scampo alle speranze di rimonta degli uomini di Johann Cruyff, che torneranno in Catalogna con quattro reti sul groppone.
Il calcio di Savićević non è essenziale, nemmeno banale. Quando la dinamica della partita suggerirebbe un alleggerimento, un aggio elementare oppure il progressivo avvicinamento alla porta avversaria, Dejan mostra il lato migliore di se, sfoggiando la giocata meno scontata e ai limiti del rischio. Ciò lo rende un autentico prestigiatore del pallone, capace di estrarre dal cilindro le soluzioni più improbabili, lasciando l’avversario e talvolta i compagni stessi di stucco.
Come per tutti gli individui estrosi, il carattere di Savićević è contrassegnato da cambiamenti frequenti di umore, che incidono sul proprio rendimento sportivo. Quando il fantasista montenegrino appare in giornata negativa, la prestazione dell’intero collettivo ne risente in maniera eccessiva, quasi fossero legati da un cordone ombelicale difficile da tagliare nell’occasione. La continuità non è una prerogativa del funambolo dei Balcani, il quale risente di una serie interminabile
di infortuni muscolari, dovuti all’utilizzo spropositato nei primi anni di una carriera che poteva essere ancora più folgorante. Quando a 35 anni decide di gettare la spugna, dopo due stagioni con i biancoverdi del Rapid Vienna, Dejan ha il solo rammarico di non aver espresso tutto il proprio potenziale con la maglia della nazionale, complice l’instabilità geopolitica dell’area di provenienza.
Croce e delizia di ogni allenatore, capace di stravolgere le partite ma anche di rendere vano ogni dispositivo tattico provato nell’arco di una settimana, il Genio rappresenta un elogio all’estetica e all’irrazionalità. Nonostante la posizione in campo distante dalla porta avversaria, egli si dimostra discreto finalizzatore specialmente nei momenti topici, caratteristica indispensabile per un trequartista vincente. Al di la delle stupide bandiere del tifo sfrenato, Dejan Savićević rappresenta l’amore per uno sport sempre più repressivo e scientifico.
Il Divin Codino – articolo scritto da Ruggero Ratti (allenatore) per il defunto fernandoredondoblog
Oggi vorrei parlare di un Campione, perché un uomo che ha giocato per vent’anni ai massimi livelli praticamente con una gamba sola e ha fatto quello che ha fatto lui non può che essere chiamato Campione…
Roberto Baggio nasce a Caldogno in provincia di Vicenza il 18 febbraio 1967. Sin da piccolo si nota la sua innaturale ione per il calcio, tanto da mettere in secondo piano la scuola (viene respinto in seconda media e non riesce a conseguire il diploma di ragioniere).
La carriera di Roby comincia a 17 anni con il L.R. Vicenza in serie C. Mentre si disputa la partita Vicenza-Rimini subisce una grave lesione ai legamenti del ginocchio destro. Il 21 settembre 1986 con la Fiorentina fa esordio in seria A,
ma un nuovo infortunio al ginocchio lo ferma per quasi tutto il resto della stagione e viene portato a Saint Étienne per essere operato. L’operazione riesce alla grande e ,dopo il miracoloso recupero, Baggio rientra a fine campionato per segnare il suo primo goal in A, è il 10 maggio, e si tratta della punizionegoal contro il Napoli che dà ai viola la matematica salvezza.
Baggio, innamorato di Firenze e dei tifosi, rimane per ben quattro anni nella società viola, finché nel 1990 viene ceduto alla Juventus per una cifra record, scatenando le ire della tifoseria.
In estate viene convocato per i Mondiali e disputa ottime partite contribuendo da protagonista al terzo posto della nazionale italiana.
L’avvio del campionato con la Juventus agli ordini di Maifredi non è dei più felici, Baggio viene accusato dalla stampa di essere incostante e di non saper essere un leader per la squadra; il 6 aprile 1991 torna per la prima volta a Firenze da avversario, si rifiuta di battere un calcio di rigore e la Juve perde 1 a 0.
La stagione seguente, agli ordini di Trapattoni, Roberto dimostra di saper prender per mano la squadra. Così il rapporto inizialmente difficile e la diffidenza della tifoseria vengono cancellati dalle giocate e dai gol di Baggio.
Negli anni in cui il Milan spadroneggia in Italia e in Europa, Baggio, pur giocando bene con la Juve e con la Nazionale, non riesce a vincere un titolo, e così in molti fra i suoi detrattori ne approfittano per affibbiargli l’etichetta di “perdente”. Finalmente il 19 Maggio 1993, la Juventus batte in finale di coppa UEFA il Borussia Dortmund e Roberto può alzare da capitano il suo primo trofeo. Nel dicembre del ‘93 dopo una stagione favolosa, giocata alla grande sia in Italia sia in campo internazionale, viene consacrato tra i grandi del calcio
mondiale vincendo il Pallone d’oro.
Nel 1994 viene nuovamente convocato nella rosa della nazionale per partecipare ai Mondiali negli Stati Uniti. Roby, dopo un inizio non esaltante, trascina la squadra sino in finale grazie alle sue splendide giocate e ai suoi gol di pregevole fattura. L’Italia perde col Brasile ai rigori, ma la tecnica e il carattere di Baggio vincono su tutto.
Si apre la stagione 1995-1996 e Roberto decide di andare al Milan. Nella rosa rossonera incontra diversi allenatori come Sacchi (allenatore della Nazionale al Mondiale di Usa ‘94), Tabarez e Capello. Viene sostituito 17 volte in una stagione, ma nonostante ciò riesce a segnare e totalizzare 7 gol nella prima stagione e 5 nella seconda.
Dopo due anni di sacrifici al Milan, Baggio decide di andare a Bologna. Grazie alla sua tenacia e alla presenza di un allenatore capace ed esperto come Ulivieri, Roberto conquista il miglior record in campionato segnando 22 gol in 30 presenze e fa splendere il Bologna conquistando così la convocazione in azzurro per i mondiali di Francia 98 a furor di popolo.
Purtroppo l’avventura di Baggio e della nazionale ai Mondiali del 1998 è ancora negativa: l’Italia esce ai quarti di finale con la Francia, sempre ai calci di rigore.
Nella stagione successiva Roberto viene ceduto all’Inter. Anche qui viene tenuto spesso in panchina e fatto giocare 11 volte nella prima stagione e 5 nella seconda e, durante l’ultima stagione riesce a regalare la qualificazione in coppa Italia contro il Milan e la qualificazione alla Champions League: durante quest’ultima partita segna due reti fantastiche.
Dopo il divorzio con Lippi, Baggio si ritrova a dover cercare squadra, le offerte dall’estero non mancano, in particolar modo dalla Spagna. Roberto però al prezzo di un ingaggio meno alto preferisce rimanere in Italia e sceglie il Brescia dove con Mazzone spera di rinascere per l’ennesima volta.
Al Brescia, Roberto Baggio trascorre ben quattro stagioni, in cui riesce grazie alle sue magie a portare la squadra sempre alla salvezza.
Malgrado l’infortunio che nel 2002 lo colpisce fortemente (rottura crociato), Roberto riesce a recuperare portando il Brescia alla salvezza, per poter sperare in una convocazione in nazionale che non arriva.
Nella quarta e ultima stagione tra le rondinelle prima dell’addio, Baggio ha due obiettivi: siglare il 200° gol in A e lasciare la nazionale.
Il primo lo raggiunge il 14 marzo 2004 contro il Parma; il secondo lo raggiunge il 28 aprile 2004 nell’amichevole contro la Spagna.
Roberto Baggio conclude la sua carriera calcistica a 37 anni, con alle spalle 205 gol siglati in Serie A, 36 in Coppa Italia, 32 nelle coppe europee e 27 in Nazionale.
Amato e nello stesso tempo odiato, Baggio rimane senza dubbio il miglior giocatore italiano degli ultimi 30 anni, uno dei più grandi talenti che il calcio abbia saputo proporre, e un grande esempio di carattere e di consapevolezza nei propri mezzi.
Grazie Roby.
Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi. Per definire il Genio di San Fernando non esiste miglior descrizione di quella operata da Jorge Valdano, il calciatore-intellettuale che tanto ama il calcio da analizzarlo con minuzia, rendendolo materiale di studio per giovani maturandi. Dopotutto Román, che quando esulta porta le mani alle orecchie per simboleggiare il celebre Topo Gigio, è uno di quei calciatori destinati a dividere l’opinione pubblica: campione affermato o funambolo sopraffino e fumoso? Per un convinto sostenitore dell’estetica applicata al calcio, la presa di posizione è scontata. Riquelme è il tesoro inestimabile di uno sport in continua crisi di identità, l’ultima specie che i seguaci del calcio da laboratorio vorrebbero estinguere, l’artista malinconico che a breve dovrà riporre gli strumenti da lavoro nel cassetto.
Ne ha percorsa di strada El Nene, tanto bravo col pallone tra i piedi quanto poco propenso alle lezioni scolastiche, cresciuto nel sempre prolifico Semillero Rojo dell’Argentinos Juniors tra mille sacrifici e qualche panchina di troppo. Le buone prestazioni con le nazionali giovanili e la spiccata fede xeneize lo portano a vestire la maglia del Boca Juniors, per quello che può essere considerato, fatta salva la “pausa di riflessione” spagnola tipica di ogni coppia, l’amore di una vita. Vi è un giorno in cui questa unione si presume possa durare in eterno, ovvero il 28 novembre 2000, quando la squadra guidata da Carlos Bianchi sconfigge il Real Madrid e conquista la Coppa Intercontinentale. Sembra essersi concretizzata la presenza di Dio in Terra quando il numero 10 boquense offre al compagno Martin Palermo, letale al punto giusto, i due assist decisivi per entrare nella storia. Le vittorie in campo continentale garantiscono a Romy l’ambito Balon de Oro, entrando a colpi di suola nel gotha dei campioni sudamericani di sempre, con quel tocco raffinato che richiama antichi predecessori e raccoglie estimatori in ogni angolo del mondo. Il controllo di palla rimane però unico,
inimitabile, inestimabile. Il piede appare un guanto atto a facilitare la presa della sfera, specialmente se calciata da lunga distanza o con eccessiva imperizia, per poi rilasciarla con lanci di precisione chirurgica, aggi filtranti in profondità, parabole arcuate sulla testa del centravanti di giornata.
La grande capacità di Juan Román Riquelme è di impressionare l’osservatore con la giocata più improbabile, comunemente la più difficile in quel momento. Se l’eccesso di pragmatismo europeo non ha adeguatamente valorizzato questa qualità, non è certo demerito del Mudo, il quale non ha snaturato il proprio modo di occupare il terreno di gioco. Riquelme condiziona il modo di giocare di una squadra, per via della propria ricerca ossessiva e morbosa del pallone, quasi fosse un oggetto con cui viaggiare, coricarsi la notte o intraprendere un prolungato rapporto sessuale. Questa immagine degna di una puntata di Holly e Benji lo rende a mio avviso ancor più apprezzabile e, soprattutto, conciliante con lo sport più praticato e seguito al mondo, anche se un corposo numero di allenatori fanatici del ribaltamento veloce potrebbe pensarla diversamente.
Con la maglia della nazionale Riquelme non sfonda, stritolato com’è da una concorrenza folle e qualche incomprensione con la guida tecnica. Nonostante ciò si ritaglia uno spazio importante con i colori dell’Albiceleste, ma si ritrova suo malgrado a far parte della Generazione dei Perdenti, in altre parole quel gruppo di assi che poteva dominare la Terra e si è ritrovato con un pugno di mosche in mano. Romy affonda i tacchetti nell’attraente Camp Nou in uno dei momenti più bui della storia del Barcellona, per poi cercare di fare grande il Sottomarino Giallo del Villareal: i sogni di gloria si spengono inesorabilmente dopo un calcio di rigore fallito contro i Gunners, nella semifinale di Champions League 2006.
Sono maturi i tempi per il ritorno al grande amore. Regalo di nozze è la Copa Libertadores 2007, traguardo cui la squadra del popolo xeneize pare abbonata da diverso tempo. Il Deportivo Cúcuta prova a far tremare i giocatori di Miguel Angel Russo, ma è il Mudo a far vibrare la Bombonera con una punizione che sfida le leggi di gravità, facendo ancora meglio nella doppia sfida finale con i brasiliani del Gremio. Prima di concludere la propria carriera, c’è da giurarci che
il campione bostero proverà un nuovo assalto alla massima competizione per club. Nonostante gli acciacchi fisici lo tormentino da parecchio tempo, Román continua a muoversi con eleganza per i campi infuocati della Terra d’Argento, anche se con minor frequenza. Fino a quando?
Nella transizione da calcio a sport muscolare, caratteristica fondamentale che deve possedere un aspirante professionista del pallone è la velocità di giocata, senza la quale potrebbe trascorrere novanta minuti senza toccare la sfera. Può un giocatore lento e con poca dimestichezza con la rete dominare la scena internazionale, vincendo un Mondiale e il prestigiosissimo Pallone d’Oro? Certo, se il giocatore in questione risponde al nome di Zinédine Zidane, milita nelle squadre più titolate d’Europa e trascina una Francia concreta e ricca di stelle. Il tutto risulta ancor più straordinario alla luce della quasi ventennale carriera del transalpino, che resiste alla trasformazione di uno sport sempre meno tecnico e sempre più “da laboratorio”, terminando però la propria carriera nella maniera più indegna.
Se la sconfitta se contro i rivali italiani è in qualche modo preventivabile, in un’edizione mondiale che vede crollare l’intero lotto delle favorite come un castello di domino, appare inconcepibile la reazione violenta del campione di origine berbera alle provocazioni del macellaio azzurro Marco Materazzi, specialmente alla luce dell’esperienza maturata in campo internazionale. Zidane abbandona senza appello uno sport che gli ha concesso onori, gloria e qualche espulsione; l’ultima di queste è letale per la propria nazionale, che si ferma a 11 metri da una vittoria che forse avrebbe meritato. L’addio di Zizou priva il calcio di uno degli ultimi esteti del pallone, che porta con sé una merce rara sui campi di gioco del nuovo millennio: la velocità di pensiero. Leggere il gioco in anticipo e offrire variegate soluzioni sono la vera peculiarità del trequartista marsigliese, prima ancora della tecnica squisita.
L’esordio professionistico del giovane Zinédine, figlio di emigranti algerini, avviene con la maglia del Cannes nel lontano 1989. Il suo nome circola rapidamente sulla bocca dei principali addetti ai lavori transalpini, che notano in
lui l’uomo nuovo in grado di risollevare le sorti di una Francia sempre più in crisi di identità. Gli italiani, o meglio i milanisti, lo scoprono solo nel 1996, quando con la maglia del Bordeaux elimina gli strafavoriti rossoneri dalla Coppa Uefa e si impone all’attenzione degli operatori di mercato, insieme all’amico e compagno Christophe Dugarry, attaccante che sembra essere uscito da una soap opera.
La consacrazione del giocatore avverrà con la maglia della Juventus, in pieno rifacimento dopo alcune cessioni importanti. Dopo le legittime difficoltà iniziali, il giocatore conquisterà trofei e opinione pubblica, ergendosi a leader morale di una Francia che nel 1998 salirà sul tetto del mondo, sconfiggendo un Brasile cotto e irriconoscibile. La multimilionaria cessione alle meringhe del Real Madrid, che offre agli opinionisti moltiplicatisi a dismisura materiale di cui dibattere, garantisce al giocatore la vittoria della Champions League.
Quando si muove per il campo, Zidane sembra un elefante, tanto è statuaria la sua struttura fisica per essere una raffinata mezzapunta. Quando il pallone gli si avvicina, pare allungare la proboscide per arpionarlo, per poi partire con una sinfonia fatta di cambi di campo, verticalizzazioni millimetriche, finte di corpo e dribbling disorientanti. Ogni tanto ci scappa pure il gol, quelli di testa sono i più letali: chiedere a Taffarel per conferma. Ma la qualità tecnica che più caratterizza il suo gioco, a tal punto da diventare un autentico marchio di fabbrica, è il movimento rotatorio di 360 gradi, facendo perno con la pianta del piede sulla sommità del pallone e spingendo se stesso oltre l’avversario. E’ la roulette marsigliese, più comunemente chiamata veronica, una gestualità che le giovani generazioni provano a imitare nella speranza di poter assomigliare, anche solo per una frazione di secondo, a uno dei più forti giocatori della storia. Anche se spero proprio che, tra qualche anno, Zinédine Zidane non sarà ricordato solamente per essere “colui che eseguiva la veronica”.
Può un giocatore correre più velocemente col pallone tra i piedi anziché senza? Ovvio, se la sfera è una semplice protuberanza del corpo e il campione in questione risponde al nome di Lionel Messi, il più forte di questa epoca. Nel
calcio dei fisici scultorei creati in palestra, svetta un atleta alto meno di un metro e settanta, la cui accelerazione sorprenderebbe persino il più fenomenale pistolero del west. Se il Barcellona di Pep Guardiola è la squadra del nuovo millennio sportivo, Leo è il suo trascinatore sul campo, con una varietà di giocate da far invidia a Phillip Hellmuth: niente male per chi rischiava di rimanere nel dimenticatoio, a causa dei noti problemi di ipopituitarismo.
La storia di Messi ha fatto il giro del mondo commuovendo un po’ tutti, non solo gli addetti ai lavori, mostrandoci come il talento unito alla perseveranza e alla ione può superare uno scoglio apparentemente insormontabile. Il ragazzino di Rosario che nelle giovanili del Newell’s rimaneva piccolo piccolo, vedendo crescere compagni e avversari, grazie alla fiducia concessa dal club catalano è riuscito a realizzarsi come sportivo e come uomo, conquistando trofei individuali e di squadra che ormai faticano a trovare un posto libero nella già ricca bacheca personale. Ma cosa sarebbe successo se Charlie Rexach non avesse creduto in lui, bloccando il talentuoso tredicenne in un’anonima caffetteria argentina, impegnando i blaugrana ad accollarsi le onerose spese per le cure ormonali di cui il giovane necessitava per svilupparsi? Forse Leo Messi avrebbe lasciato lo sport per dedicarsi alla ricerca di un lavoro, figlio di una nazione allora in piena crisi economica, o magari sarebbe diventato il trascinatore degli arrancanti leprosos in maglia rossonera.
Meglio non pensarci, la realtà ci parla di un giocatore che, nel pieno della maturità sportiva, potrebbe anche decidere di ritirarsi avendo ormai conquistato tutto. Anzi no, manca ancora quell’affermazione mondiale con la maglia dell’Albiceleste che ha reso immortale Diego Maradona, dai principali massmedia considerato il termine di paragone ideale per la Pulga, ormai diventata gigante anche in termini di compensi e introiti pubblicitari. In fondo, tra i tanti presunti eredi del Pibe de Oro, Messi spicca per classe, rapidità e voglia di vincere, avendo tra l’altro emulato le gesta del Maestro realizzando reti davvero impossibili. In realtà i due giocatori sono più diversi di quanto possa sembrare: Maradona è un funambolo che affronta gli avversari a campo aperto, con la forza di una tecnica unica, mentre Leo irrompe nelle serratissime difese avversarie con la velocità tipica del centometrista. Diego, in più, dimostra di avere il telecomando nel piede quando si tratta di tirare a rete, specialmente sui calci da
fermo. Dettaglio non trascurabile è il carisma con cui El Pelusa trascina, dentro e fuori dal terreno di gioco, il Napoli di Ferlaino o l’Argentina di Bilardo verso traguardi sino allora inaspettati. Da questo punto di vista Messi ha molto da imparare, ma il tempo gioca a suo favore.
Alzi la mano chi non si è innamorato, o quantomeno invaghito, di quel baricentro basso che controlla docilmente il pallone più difficile, accelera improvvisamente come Jacky Ickx sull’asfalto bagnato e punta l’avversario, saltandolo come il più immobile dei birilli e poi calciando a rete con la precisione chirurgica dell’infallibile cecchino. La sua abilità nello smarcamento, che lo porta a occupare il più delle volte la trequarti avversaria, produce nel tifoso e nel semplice osservatore il presentimento che qualcosa di importante sta per accadere, perché il campione di Rosario possiede una visione di gioco tale da offrire preziosi assist ai compagni meglio smarcati. L’intelligenza tattica porta il giocatore a occupare la migliore posizione in campo, in fase di possesso e non: in questo senso Messi è un maestro, esentato dai compiti difensivi per esaltare al meglio la propria lucidità nella fase di gioco offensiva.
Se il destro rimane un piede utilizzato per pigiare il pedale dell’acceleratore della propria automobile, il sinistro è per Lionel un’arma di distruzione di massa. Molti portieri sono periti dopo un tiro radente, un calcio a mezza altezza o una beffarda vaselina, altri continueranno a subire l’atroce fine, consapevoli del fatto di aver avuto l’onore di affrontare uno dei migliori giocatori della storia. Ovvero chi ha provato a imitare Maradona a velocità doppia, riuscendoci sotto certi aspetti.
Il 3 luglio 2010 è uno dei giorni più difficili per l’Argentina calcistica, che da qualche anno ingoia rospi amari nonostante una rosa di fantastici solisti. La disorganizzata compagine Albiceleste cade sotto i colpi dei giovani tedeschi di Joachim Loew, gruppo affiatato e talentuoso guidato da un allenatore che pare uscito dalla più rinomata discoteca milanese. Cala il sipario su una sfida tra due scuole estremamente diverse, protagoniste in ato di epiche sfide: il pragmatismo tedesco, avvalorato dalla sorprendente qualità tecnica di alcuni
interpreti, prevale sui ballerini di tango giunti in Sudafrica senza le giuste distanze tra i reparti. Il Commissario Tecnico argentino, Diego Armando Maradona, osserva quasi in lacrime la disfatta e, forse, riflette sulla propria inesperienza nella gestione di una nazionale che ha troppo talento per uscire ai quarti di finale.
Il Maradona allenatore non ha lasciato il segno nella storia dello sport, forse non lo farà mai. Questa storia pertanto non è degna di essere raccontata, a differenza di quella del Maradona calciatore, ovvero il migliore di tutti i tempi. Se la figura carismatica del Pibe de Oro è destinata a dividere l’opinione pubblica, tra chi lo considera un eterno perseguitato oppure un delirante personaggio in preda a crisi di vittimismo, la classe del fenomeno non può che unire i pareri di chi lo ha seguito anche solo una volta nell’arco della ventennale carriera. Un percorso lungo e tortuoso, iniziato con la maglia delle Cebollitas dell’Argentinos Jr. e impennatasi subito con le prime apparizioni in nazionale; scontato è il suo aggio al Boca Jr., la squadra del cuore, alla ricerca dell’affermazione in campo internazionale che non tarderà ad arrivare.
Il ragazzo che palleggiava nell’intervallo delle partite casalinghe del Semillero è ora uno dei giocatori più appetiti del Continente, anche se le prime esperienze con la maglia della nazionale guidata da Menotti non sono certo memorabili. Il Mondiale spagnolo del 1982 non si rivela una buona vetrina per il calciatore nato a Lanús, che subisce le dure marcature avversarie e mostra alcuni limiti caratteriali: questa esperienza lo aiuterà a crescere. Nonostante ciò, al termine della massima competizione per nazionali viene ufficializzato il aggio di Maradona ai catalani del Barcellona, a caccia di una stella per tornare in vetta al campionato e sconfiggere una concorrenza che ultimamente appare sempre più agguerrita. Il biennio spagnolo di Diego non è per nulla memorabile, egli non raccoglie particolari riconoscimenti sia a titolo personale sia con il club, subendo in compenso un grave infortunio alla caviglia che lo tiene lontano dai terreni di gioco per diverso tempo. I rapporti ormai deteriorati con la dirigenza catalana fanno il resto, avvicinando il giocatore al Napoli, alla ricerca della giusta occasione di riscatto.
Qui inizia il capitolo più sensazionale e apionante della vita sportiva di Diego Armando Maradona, che si mette al servizio di una squadra certamente non tra le più ricche e forti di una serie A ad alto livello, trascinandola al successo. Ma è anche la storia di un’Italia meridionale che celebra il proprio riscatto sul Nord, che dal dopoguerra domina il calcio come l’economia del Paese, colmando per qualche stagione quel divario che appariva abissale. L’acquisto di Maradona apre la strada a un rafforzamento globale dell’organico, che porterà in maglia azzurra giocatori del calibro di Giordano, Careca e Romano, ma soprattutto a un cambio di mentalità che vede nel Pibe de Oro il principale artefice. Eccezionale palla al piede, semplicemente sublime sui calci da fermo, carismatico e trascinatore anche al di fuori del rettangolo di gioco: nessuno come lui ha interpretato, interpreta e interpreterà l’appagante mestiere del calciatore. Fare reti impossibili è un qualcosa che riesce a una determinata categoria di calciatori, renderle decisive per la conquista di un trofeo appartiene solo al Pelusa. L’espressione massima di Diego Armando ha luogo nel Mondiale messicano del 1986, quando il funambolo argentino trascina una compagine di buoni giocatori alla conquista del titolo, superando la concorrenza di squadre ben più blasonate e attrezzate. Se il ricordo annebbiato di molti opinionisti è legato alla doppia realizzazione ai danni dell’Inghilterra di Gary Lineker, la vera essenza di Maradona risiede nell’assist “al buio” per il vivace Jorge Burruchaga, per il diagonale che consegna la Coppa ai ragazzi di Bilardo. Un Diego più esperto e consumato riporta l’Argentina in finale quattro anni dopo, ma questa volta i tedeschi non si fanno fregare, grazie allo stimolo del pubblico italiano e all’aiutino dell’arbitro designato per l’incontro.
Da questo momento la carriera del Diez subisce un declino che non rende onore al campione argentino, una discesa negli inferi fatta di positività all’antidoping, ritorni non memorabili all’attività agonistica, un Mondiale di cui avremmo volentieri fatto a meno e il ritiro con la maglia del Boca Jr. Poi i problemi di salute e la morte mai così vicina, la rinascita come uomo e poi come sportivo, cogliendo appieno la canonica “seconda chance” che la vita ti offre. Il racconto si interrompe qui, con la rappresentazione di ciò che Maradona ha rappresentato per me: un artista del pallone, l’unico campione in grado di fare i miracoli, il più forte di ogni epoca.
La politica del goal
La storia del calcio annovera reti stilisticamente impeccabili, frutto di esercizi di stile eseguiti ripetutamente in allenamento. Ci sono invece goal apparentemente semplici, che persino il calciatore alle prime armi sarebbe in grado di realizzare, ma il cui coefficiente di difficoltà è determinato dall’importanza dell’incontro che vanno a decidere. Infine troviamo quelle realizzazioni che segnano la storia di un paese e, pertanto, la loro bellezza è irrilevante al cospetto della propria importanza. In questo capitolo cercherò di sviscerare quest’ultima categoria, utilizzando a o alcuni esempi che reputo rappresentativi e che il grande libro di questo sport, scritto idealmente dai suoi principali interpreti, inserisce di diritto tra i più rilevanti.
Quando una rete segna la vita sportiva di una nazione, spesso finisce per intersecarsi con la storia della stessa, quasi a ribadire che il calcio è una rappresentazione fedele della società e l’evoluzione di questa può essere letta attraverso la dinamica degli eventi calcistici. Il goal che fa gioire un intero popolo entra di diritto nei libri scolastici, come a rappresentare un’occasione di riscatto inattesa e inaspettata, che fa mobilitare pacificamente persone di ogni età ed estrazione sociale per i festeggiamenti che possono durare una notte, un giorno o settimane intere.
Il Mondiale del 1966 è ricordato dai più come la prima e unica vittoria dei “maestri” inglesi, organizzatori dell’evento e spavaldi sin dalle prime battute. Chi gode di memoria appena sufficiente non può dimenticare l’epilogo della finalissima di Wembley, in cui l’attaccante Hurst sigla una storica tripletta nei 120 combattutissimi minuti di gioco. Peccato che il secondo di questi tre goal, cioè quello che decreta la svolta definitiva dell’incontro, è un gentile omaggio dell’assistente arbitrale sovietico Tofik Bakhramov, uomo di esperienza internazionale ma poco incline a decifrare i goal fantasma.
Si rivela al mondo l’attaccante Eusèbio, in tutta la sua classe e concretezza. La Perla nera del Mozambico spingerà, grazie alle sue nove reti, i portoghesi verso un terzo posto di grande prestigio, miglior risultato della storia mondiale dei lusitani. Gli italiani, invece, ricordano Inghilterra 1966 per la sconfitta più drammatica mai subita su un terreno di gioco; basta rievocare la Corea del Nord per irretire le memorie storiche del Belpaese. Azzurri a casa dopo il girone eliminatorio, coreani che sfiorano le semifinali dopo un accesissimo quarto contro i portoghesi.
Eppure la nazionale di Fabbri, dopo le prime incoraggianti amichevoli, appare tonica e promettente. La vittoria all’esordio contro il Cile, nonostante qualche lacuna di gioco, è la rivincita della scazzottata di quattro anni prima in Sudamerica; va decisamente peggio tre giorni dopo, quando l’Unione Sovietica impartisce una severa lezione che va oltre l’1-0 conclusivo. Per are il turno sarebbe servito vincere contro i dilettanti della Corea, a conti fatti sarebbe bastato un pareggio striminzito.
La nazionale italiana mostra un buon organico e l’attacco, sulla carta, appare esplosivo. Il blocco su cui si fonda è quello del Bologna, con i suoi Bulgarelli, Fogli, Janich, Pascutti e Perani, mentre suscita scalpore l’esclusione dai convocati del cagliaritano Gigi Riva, attaccante emergente già adocchiato dalle big del campionato. I nordcoreani, invece, sono una formazione misteriosa quanto la propria nazione: il loro esordio internazionale risale a soli due anni prima e, nelle due partite del girone sin qui affrontate, hanno lasciato una pessima impressione. Inoltre, la loro qualificazione ai mondiali è il frutto del ritiro delle compagini africane dalla corsa, in aperta protesta contro la FIFA per la scarsità di posti assegnati.
Dello stato nordcoreano si conosce la forma di governo (è uno stato socialista per Costituzione), il carattere dittatoriale dei suoi reggenti (la massima carica viene trasmessa per via ereditaria) e la vicinanza geopolitica alla Cina di Mao Tse-tung. Appare impossibile agli spocchiosi italiani che una nazione simile, senza una cultura calcistica radicata, possa ambire anche solo al pareggio. A
Middlesbrough, il 19 luglio, palla al centro significa la risoluzione di una formalità.
Dopo pochi minuti di gara, il centrocampista Giacomo Bulgarelli, autentica bandiera del fortissimo Bologna, si infortuna ed esce dal campo. Non essendo previste sostituzioni neanche in caso di infortunio, la squadra italiana prosegue in inferiorità numerica, forte del maggior tasso tecnico. Gli avversari mostrano buona volontà e vigore atletico, aggredendo gli azzurri con più uomini, palesando però limiti enormi nella gestione della sfera. L’atmosfera inglese nel frattempo si fa sempre più grigia e cupa, la squadra di Fabbri fatica a creare palle goal e cattivi presentimenti iniziano a pervadere la testa dei sostenitori italiani.
Il primo tempo sta per terminare quando un innocuo colpo di testa coreano a centrocampo, complice il cattivo posizionamento della difesa azzurra, offre all’attaccante Pak Doo Ik la possibilità di calciare dal limite dell’area: il suo è un diagonale fulmineo, non troppo pulito ma angolato, che sorprendentemente porta in vantaggio la squadra in maglia rossa. I giocatori italiani, sicuri di poter rimontare, non danno troppo peso alla rete avversaria, ma col are dei minuti aumentano le incertezze e gli spettri di una sconfitta che assumerebbe i contorni della tragedia. Quando l’arbitro fischia la fine dell’incontro, la squadra italiana progetta la fuga per evitare un’insurrezione popolare; all’aeroporto di Genova sono tanti i sostenitori impegnati nella specialità del “lancio del pomodoro allo sconfitto”.
La notte di Middlesbrough nasconde delle insidie anche per i vincitori: il aggio in birreria costa caro ad alcuni membri della squadra, accusati di essersi venduti al capitalismo per l’eccesso di festeggiamenti. Al rientro in patria, saranno spediti da Kim Il-sung in un campo di lavoro, nel nome di una dittatura personalistica che sempre meno rappresenta le istanze del proletariato. L’eroe di giornata, che a alle cronache occidentali come dentista di professione, mentre in realtà risulta inquadrato nell’esercito locale, è invece risparmiato. A Pyongyang diventerà un idolo e lavorerà ancora nell’ambito sportivo, arrivando persino ad assumere il ruolo di tedoforo nell’avvicinamento
della fiaccola olimpica verso Pechino. Dopotutto, oltre al Grande Leader, qualcuno dovrà pure celebrare la prima qualificazione di una squadra asiatica ai quarti di finale di un mondiale. L’Italia, nel frattempo, si lecca le ferite guardando le comiche di Ridolini.
Haiti è una nazione americana situata nel Mare dei Caraibi che, nel corso della storia, ha conosciuto mille sfortune. Nel pieno di una dittatura segnata dalla repressione e dalla corruzione, nel 1974, l’ex colonia se coglie una importante opportunità: la partecipazione alla fase finale di un Mondiale, la prima e unica della sua storia.
In effetti, questa qualificazione è figlia della dittatura Duvalier, nella persona del giovane Jean-Claude soprannominato Baby Doc; da persona spregiudicata e autoritaria riesce a ottenere, con metodi quantomeno sospetti, l’organizzazione della fase finale della CONCACAF Championship, in altre parole il trofeo che decreta l’unica partecipante centroamericana alla massima rassegna calcistica per nazionali. La vittoria finale, ottenuta ai danni delle più quotate Messico e Trinidad, è facilitata da qualche arbitraggio non proprio imparziale; non vanno però messi in secondo piano i meriti effettivi di una compagine contraddistinta da qualche buona individualità e tanto, tanto impegno.
Dopotutto, si sa, la strumentalizzazione del gioco del calcio è tipica dei regimi dittatoriali, alla ricerca del consenso perenne con mezzi sempre al limite della liceità. Funziona così anche nel paese più povero delle Americhe, il quale potrebbe allocare meglio le risorse disponibili piuttosto che destinarle al finanziamento di un progetto sportivo-propagandistico dal dubbio esito. In questo senso anche i giocatori sono vittime del sistema, poiché costretti a vincere per il governo nazionale prima che per il popolo; un’eventuale figuraccia potrebbe produrre effetti nefasti.
Haiti non ha mai conosciuto la democrazia. Dopo la lunga era del colonialismo, lo stato isolano dichiara la propria indipendenza nel 1804 ma, come accade
anche nel resto dell’America, l’ostilità delle superpotenze imperialiste non tarda a presentare il proprio conto. Preoccupato dalla pressione economica straniera sull’isola, in particolare di matrice tedesca, il governo degli USA applica fedelmente la dottrina Monroe e invade l’isola, nel 1915. Un comportamento che spesso accadrà nel corso della storia, sino ai giorni nostri. Le prime elezioni a suffragio universale, dopo la rinnovata indipendenza, portano al potere il medico François Duvalier, grazie al decisivo appoggio dell’esercito. Papa Doc non tarda a mettere in mostra il proprio carattere repressivo, unito a quell’elemento mistico che lo porta a sdoganare le divinità vodoo; per consolidare la sua posizione non esita a riscrivere la Costituzione, autoproclamandosi Presidente a vita e istituendo una milizia di volontari per puro scopo protettivo. Duvalier cancella il dissenso con lo strumento dell’assassinio e, anche dopo la sua morte nel 1971, il regime del terrore non si placa: gli succede il figlio Jean-Claud, appena ventenne, che pareva avviato a una carriera da playboy.
Il quadro storico appena dipinto aiuta a leggere meglio i fatti accaduti dopo la qualificazione mondiale. Il giovane dittatore americano spedisce con largo anticipo la selezione nazionale in Germania, per preparare al meglio la competizione si dice, per sbarazzarsi di tutti gli oppositori politici senza troppi strilli in realtà. L’esordio mondiale è da brividi, in quanto l’avversario è uno dei peggiori che possano capitare: l’Italia vice-campione, che il tempo rivelerà al capolinea, vanta sulla carta una rosa di primo livello.
I calciatori haitiani, perfetti sconosciuti al mondo, sembrano intimoriti al cospetto dell’illustre avversario e difendono senza alcun criterio tattico; nel primo tempo si salvano grazie ad alcune prodezze del portiere Françillon, che pare calamitare le offensive di Rivera e Mazzola. L’apertura di ripresa è col botto; il centrocampista Vorbe, poco dietro la metacampo, fa partire un lungo lancio in verticale verso il centravanti Sanon, che come una gazzella brucia Spinosi e dribbla Zoff, depositando comodamente il pallone in rete. Un lampo, è il goal che cambia la storia dal mondiale di Haiti, del suo paese. Per le vie di Port au Prince si festeggia la prima rete di Haiti nella massima competizione internazionale, inconsci del fatto che essa rappresenta l’inizio della distruzione del calcio nel proprio paese.
Dopo soli sei minuti Rivera pareggia il conto, poi gli italiani ribaltano la partita e vincono per 3-1, ma ben presto si accorgeranno che per loro è terminato un ciclo ed è giunto il tempo del rinnovamento. I ragazzi di Antoine Tassy invece, stanchi e frustrati da mesi di ritiro, molleranno ben presto il colpo e subiranno durissime lezioni da Polonia e Argentina; torneranno in patria consapevoli delle ritorsioni di Baby Doc e decideranno, nel corso del tempo, di abbandonare l’isola per cercare fortuna altrove. Il gruppo che poteva ritentare l’avventura quattro anni dopo, con maggiore esperienza alle spalle, sparisce come del resto il calcio dall’isola caraibica. Ora ad Haiti esistono un campionato e una rappresentativa nazionale, ma la povertà diffusa non consente lo sviluppo del sistema calcio. Le priorità sono altre e il terremoto del 2010, che si accumula alle inefficienze di una debole democrazia, fa riemergere gli spettri del ato sotto forma di ingerenza statunitense.
Forse ci vorranno interi decenni per rivedere Haiti in un mondiale di calcio, ma il goal di Sanon, poi emigrato verso il Belgio e scomparso nel 2008, ancora qualcuno lo ricorda. Dopotutto è la prima rete di Haiti in un mondiale, quella che ha fatto sognare un intero popolo prima dello smantellamento di un intero sport.
Può una pallonata far crollare un muro, a distanza di quindici anni? Sembrerebbe impossibile, tanto quanto una vittoria internazionale di San Marino. Eppure l’entusiasmante e sempre ricca storia del calcio ci riserva anche questo inaspettato capitolo, dove tutto ha inizio in una sera di Amburgo e la fine è un blocco che si scioglie come un ghiacciolo al sole. Termina una guerra fredda e con questa crollano le ideologie, anche se per qualcuno, me compreso, rimane viva l’idea di una società più giusta ed egualitaria. Nonostante la campagna a stelle e strisce sembri offrire al consumatore le possibilità più diversificate, le speranze di un mondo migliore sono oggettivamente rimandate a data da destinarsi.
E’ il 1974, l’anno di un mondiale che sarà ricordato come uno dei più belli e avvincenti, e sui terreni di gioco tedeschi si fronteggiano le principali scuole
calcistiche mondiali. Fra gli inossidabili padroni di casa capitanati da Beckenbauer, gli olandesi del calcio totale e il Brasile orfano di Pelé, chiede spazio l’utilitaria Germania Est, reduce da una buona Olimpiade con tanto di bronzo conseguito. Uno scherzo del destino offre agli occhi del pianeta la possibilità di assistere, nell’ultima giornata della prima fase, alla sfida tra le due nazionali divise da un muro. L’esito sembrerebbe scontato, considerata la splendida rosa degli occidentali e la loro spiccata propensione alle partite che contano, anche se in palio non c’è solo il primo posto nel girone. A contrapporsi vi sono due modelli: da una parte il capitalismo con tutte le sue disparità e contraddizioni, dall’altra un socialismo reale autoritario e sempre più distante da un’ideologia costruita nei secoli. La rivalità tra i due blocchi offre alla vincente la possibilità di rivelarsi al mondo come l’esempio vincente e da imitare; questa è una prerogativa delle sfide sportive est-ovest, che vengono giocate senza esclusione di colpi fino all’ultimo respiro.
Al Volksparkstadion arrivano migliaia di spettatori dall’Est, in possesso di un permesso che dura giusto il tempo della partita, carichi di un entusiasmo che nasconde i timori di una goleada al ivo. La punta di diamante della DDR è Jürgen Sparwasser, un offensivo rapido che ha appena conquistato la Coppa delle Coppe con la maglia del Magdeburgo, ai danni del favoritissimo Milan; nell’altra metà del campo si schierano Sua Maestà Kaiser Franz, Maier, Vogts, Breitner, Hoeness, Müller, Overath e compagni. Morbido è l’approccio alla gara dei federali, mentre generosi appaiono i meno quotati avversari, i quali mostrano qualche evidente limite tecnico-tattico.
Quando la partita pare avviata verso un pareggio a reti bianche, arriva un colpo che trafigge il capitalismo e porta in paradiso la classe operaia. Dalla destra spiove un traversone lungo e senza troppe pretese, che l’attaccante in maglia numero 14 decide di non rendere innocuo; il taglio che da sinistra lo porta al centro dell’area è accompagnato da uno stop a seguire un poco fortuito, che elude la marcatura dei centrali in maglia bianca. Il tiro che infrange la rete difesa da Sepp Maier è una sassata che eleggerà Sparwasser quale uomo simbolo del regime di Honecker: è l’1-0 che porta la Germania Est al turno successivo, contro Olanda, Brasile e Argentina. I rivali dell’Ovest vinceranno il titolo nella sentitissima finale contro gli Orange di Michels.
Per il capelluto giocatore del Magdeburgo il futuro era già scritto. Al termine della carriera sarebbe diventato un allenatore e avrebbe consolidato la propria figura di uomo-immagine della DDR, progetto che nei fatti inizialmente si rese concreto. Poi, nel 1988, Sparwasser fugge con la famiglia verso l’Ovest, proprio lui che il capitalismo lo aveva sconfitto anni prima. La bordata calciata da Jürgen nel 1974 prolunga la propria corsa oltre lo stadio di Amburgo e, tra lo stupore e l’incredulità dei massimi vertici della DDR, apre un varco nel Muro di Berlino già traballante. La Barriera di protezione antifascista crollerà l’anno successivo, ma il nuovo corso della storia tanto auspicato, basato sulla libertà e la solidarietà, tarda purtroppo ad arrivare.
Il 21 giugno 1978 si disputa a Córdoba, nell’ambito dei discussi mondiali argentini della dittatura Videla, una partita apparentemente priva di senso. All’esito del match dello Stadio Olimpico, poi divenuto Estadio Mario Alberto Kempes, sono legate le possibilità tedesche di accedere alla finale di consolazione, la quale rappresenta da sempre una sconfitta per gli immortali teutonici. Gli avversari di turno sono gli austriaci di Senekowitsch, ultimi nel gironcino ma orgogliosi di un cammino che li ha portati, dopo vent’anni di assenza dalla competizione internazionale, al superamento del primo turno. Sono le 13.45 e nel frattempo, a Buenos Aires, Italia e Olanda si giocano nello scontro diretto la qualificazione alla finalissima del Monumental: ad avere la meglio saranno gli uomini di Happel, con il portierone azzurro Zoff non certo privo di colpe.
Nonostante l’esito dell’incontro appaia scontato, con la sola nazionale di Rummenigge ad avere un briciolo di motivazioni, l’accesa rivalità tra le due compagini sconsiglierebbe ogni pronostico, anche se da ben 47 anni l’ex Wunderteam non batte i tedeschi dell’Ovest. Dopo un primo tempo soporifero contrassegnato dalla rete del cannoniere del Bayern Monaco, la partita si accende inaspettatamente con l’autogol di Berti Vogts, alle ultime apparizioni con la massima selezione. ano pochi minuti e il cannoniere viennese Hans Krankl, uno che quando si tratta di segnare non si fa mai pregare, controlla nell’area di rigore un traversone da sinistra e al volo, con il piede sinistro,
spedisce una sassata alle spalle di Sepp Maier. E’ uno dei goal stilisticamente più belli della storia dei Mondiali di calcio.
I tedeschi hanno sette vite, proprio come i gatti, e quando scendono in campo per rincorrere un pallone spesso vincono, come affermava il celebre attaccante inglese Gary Lineker. Dopo un solo minuto, lo stacco imperioso di Hölzenbein, uno dei giocatori simbolo dell’Eintracht Francoforte, concretizza al meglio un preciso calcio da fermo di Bonhof e spiana la strada verso la finalina contro il Brasile. Contemporaneamente, l’Olanda post-calcio totale ribalta lo svantaggio iniziale e si avvia verso una finalissima che non renderà merito al valore assoluto degli Orange.
I giocatori austriaci, nonostante la partita non conceda loro alcuna possibilità di accesso alle finali, non appaiono certo arrendevoli e rimangono in partita. Uno dei motivi per cui questa sfida risulta particolarmente sentita risiede nell’Anschluss, una delle pagine nere della storia nazista e dei rapporti AustriaGermania. I due imperi, usciti distrutti dalla Prima Guerra Mondiale, vivono nei primi anni Trenta una fase autoritaria che li pone in aperto contrasto: da una parte l’austrofascismo di Dollfuss, vicino alle posizioni del dittatore italiano Benito Mussolini, dall’altra il regime totalitario di un Adolf Hitler in preoccupante ascesa, sostenuto da un numero sempre più crescente di nazisti austriaci favorevoli alla formazione di una Grande Germania. Saranno proprio questi ultimi i protagonisti del Putsch di Vienna che, nel 1934, fallirà nonostante la morte del cancelliere federale. Per assistere all’annessione dell’Austria alla Germania nazista è solo questione di tempo, ovvero quattro anni in cui si consolida l’asse Roma-Berlino e si disintegrano le resistenze italiane in materia, chinando nella maniera più servile la testa al “padrone” tedesco. La soluzione politica trova riscontro solo in una parte della popolazione, anche se il referendum indetto per confermare l’annessione potrebbe dire il contrario; peccato che al voto non siano ammessi ebrei e oppositori politici, il clima del terrore instaurato dai nazisti consiglia di evitare ritorsioni post-elettorali e la casella del “no” sulla scheda è un punto impercettibile che il votante fatica a rintracciare. Anche la Germania approva l’Anschluss, con una percentuale così schiacciante che anche i più accesi sostenitori del regime forse si pongono qualche legittimo dubbio.
Il progetto di Grande Germania, chiodo fisso di un dittatore psicopatico che porta il mondo vicino alla totale distruzione, crolla insieme alle potenze dell’Asse. L’Austria troverà la piena indipendenza solo nel 1955, con la Dichiarazione di neutralità che sancisce il definitivo ritiro delle truppe Alleate e, pertanto, il 26 ottobre diventa festa nazionale. Hans Krankl, a due minuti dal termine dell’incontro in terra argentina, decide che per i cittadini austriaci è giunta l’ora di festeggiare con quattro mesi di anticipo. Dalla fascia destra giunge un cambio di gioco millimetrico e l’attaccante del Rapid Vienna, Scarpa d’Oro al termine della stagione, elude l’intervento dell’avversario diretto con un controllo di testa e, giunto in area, mette a sedere il malcapitato Kaltz con una finta. Il tocco di punta con cui il cannoniere austriaco beffa l’estremo difensore tedesco è la naturale conclusione di un’azione epica, che il telecronista Edi Finger non manca di decantare a squarciagola: ai mondiali della vergogna si consuma il Miracolo di Córdoba, che non verrà mai più ripetuto dai danubiani.
La vicenda ha però un triste epilogo. Quattro anni dopo, le due nazionali tornano ad affrontarsi nella fase a gruppi del mondiale spagnolo; dopo l’iniziale vantaggio Hrubesch le squadre rinunciano a giocare, praticando un possesso palla sterile. Austria e Germania ano quindi al secondo turno, l’Algeria di Madjer prepara le valige e torna a casa. In barba alle macerie riportate dalla storia, le due nazioni firmano il Patto di non belligeranza di Gijón, dando vita a un biscotto particolarmente indigesto per il calcio e i propri sostenitori.
Da tanto, troppo tempo si parla delle nazioni africane come possibili dominatrici del calcio che verrà. A furia di aspettare, inizierò a sperare nell’arrivo di Godot. Fatti salvi alcuni sporadici trionfi, vedi la Nigeria alle Olimpiadi di Atlanta 1996, il football della Terra degli Afri rimane un enorme cantiere aperto. La scena continentale, divisa tra certezze che stentano a decollare a livello internazionale (Egitto, Costa d’Avorio), compagini incostanti o addirittura in declino (Camerun, Sudafrica) e sorprese di stagione (Zambia, DR Congo), non appare ancora pronta ad affrontare le più quotate compagini europee e latino-americane, non tanto nella sfida secca ma quanto nell’arco di un torneo strutturato.
Le cause non vanno ricercate nel talento dei singoli interpreti, tutt’altro: quanto ad abilità individuale, la media dei calciatori africani non è inferiore a quella degli altri continenti. La carenza strutturale dei paesi in via di sviluppo, frutto del colonialismo occidentale, è un elemento che da solo potrebbe giustificare il fenomeno, anche se non l’unico. Probabilmente l’incapacità dei tecnici, specialmente europei, di trasmettere agli atleti un’idea di gioco, oppure il fatto che il tatticismo esasperato è particolarmente indigesto ai calciatori africani, sono ingredienti da tenere in assoluta considerazione. Nel frattempo, generazioni di ottimi giocatori si susseguono e l’imperialismo, come affermava il Presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, continua a dominare culturalmente.
Per attendere il primo sussulto di una squadra africana in un mondiale di calcio, dobbiamo attendere Messico 1986. A giudicare le convincenti prestazioni del Marocco nell’arco del torneo, forse ne valeva la pena. La compagine guidata dal brasiliano José Faria, dinamica ed esteticamente apprezzabile, è inserita in un girone apparentemente di ferro: Inghilterra, Polonia e Portogallo appaiono avversari ben più quotati, sopratutto sul piano dell’esperienza. I Leoni di Gary Lineker si inchineranno, nel corso del torneo, a Diego Armando Maradona; i polacchi saranno la copia sbiadita della squadra vista quattro anni prima in Spagna, mentre Pacheco e compagni faranno dormire notti insonni a Eusébio, date le pessime figure rimediate.
Dopo gli incoraggianti pareggi nei primi due incontri, che mostrano una tenuta difensiva a dir poco sorprendente, i marocchini giungono a giocarsi la qualificazione contro i portoghesi, il giorno 11 giugno. Il ritmo di gioco e l’intraprendenza dei calciatori in maglia rossa lasciano intuire sin da subito quale sarà l’esito del match, che vede il centrocampista Khairi particolarmente ispirato. La rete del 2-0 siglata dal giocatore del FAR Rabat, raro esempio di coordinazione coniugata a precisione, entra di diritto tra i goal più belli della storia dei mondiali. Quando l’attaccante Merry Krimau si defila sulla destra per ricevere un pallone proveniente dalle retrovie, il terzino destro Khalifa è ben appostato per proporre un cross arcuato. Il pallone sembrerebbe innocuo, fino all’arrivo di Khairi, che accelera il o per entrare in area e impattare il pallone
con un tiro al volo, eseguito magistralmente col piede sinistro. La sfera, che secondo le più comuni leggi della fisica tenderebbe a innalzarsi oltre la traversa, assume invece una traiettoria rasoterra e angolatissima, sul palo opposto all’angolo di tiro. E’ la splendida realizzazione che offre agli uomini di Faria la consapevolezza di essere, almeno quel giorno, superiori ai portoghesi: l’incontro terminerà per 3-1 e, per la prima volta nella storia del calcio, una squadra africana vince il girone di un mondiale qualificandosi per il turno successivo.
Sei giorni dopo, i Leoni dell’Atlante usciranno a testa alta dopo l’onorevole sconfitta contro la Germania Ovest, trascinata dal carismatico Lothar Matthäus. La squadra del Magreb, sempre ricca di talenti estrosi e bizzarri, dopo l’exploit nella terra degli aztechi non offrirà continuità di rendimento e, nonostante le premesse ci fossero tutte, non intraprenderà quel percorso di crescita che sembrava possibile. Ma la vittoria di Guadalajara, immortalata dalla botta al volo di Khairi, sarà ricordata per sempre. Essa rimarrà la rivincita africana sul dispotismo calcistico europeo e, più in generale, sul colonialismo.
Quando si parla di calcio, sarebbe opportuno evitare di scomodare le divinità. Non tanto per la sensibilità più o meno marcata verso le tematiche religiose dei singoli individui, ma quanto per riportare la questione alla giusta dimensione terrena: sui campi di gioco esiste solo la sacralità del divertimento. Solo un giocatore, nella storia dello sport più praticato al mondo, può vantare doti soprannaturali non riscontrabili nei colleghi: Diego Armando Maradona è il Dio del Pallone, nel senso figurato del termine, mentre lo Stadio San Paolo di Napoli è stato per anni il suo sacrario. E’ forse anche per questo motivo che, come affermato dallo stesso Pibe de Oro, la prima rete di Argentina-Inghilterra ai mondiali messicani del 1986 è opera de La Mano de Dios, quasi ad autocelebrare una superiorità tecnica a tratti imbarazzante.
In realtà, Maradona vuole evidenziare come la massima divinità, di cui è un credente, abbia fornito alla propria nazione un’incredibile e inaspettata occasione di riscatto. Quattro anni prima, infatti, l’Argentina dei militari subiva una delle principali sconfitte geopolitiche della propria storia, per opera
dell’imperialista Gran Bretagna di Margaret Thatcher, una signora tanto ambiziosa quanto nemica delle classi sociali meno abbienti. L’oggetto del contendere è un arcipelago dell’Atlantico Meridionale, ribattezzato dagli uni Falkland Islands e dagli altri Islas Malvinas, territorio d’oltremare del Regno Unito rivendicato, per la vicinanza alla terraferma e per i diritti acquisiti dai precedenti invasori spagnoli, a più riprese dagli argentini.
Il regime dei generali, alle prese con la contestazione civile e la devastante crisi economica, prova a scaldare il cuore dei connazionali giocando la carta del riscatto nazionalistico: parte l’invasione delle isole, con un’offensiva lampo che rompe le relazioni diplomatiche instaurate nei mesi precedenti. I britannici, veloci a organizzare una pressione diplomatica contro l’Argentina, predispongono una task force navale; dopo 74 giorni di guerra e oltre 900 morti, le Falkland ritornano territorio del Regno Unito, ridando forza alla leadership di una Thatcher in pesante declino.
Il 22 giugno 1986, allo Stadio Azteca di Città del Messico, Diego Armando Maradona decide che è giunta l’ora di rompere una monotonia durata oltre 50 minuti. Avanzando palla al piede sino al limite dell’area, il numero 10 dell’Albiceleste prova a scambiare con Valdano, il quale è seguito dal diretto marcatore Steve Hodge; il difensore inglese alza maldestramente il pallone a campanile all’interno dell’area di rigore, sul quale si avventano il portiere Shilton e Maradona. Il pallone sembra essere preda dell’anziano estremo difensore, non tanto per la bravura dell’ex guardiano del Forrest di Clough, quanto per le dimensioni tascabili del paffuto trequartista argentino, il quale non ha molta dimestichezza con il colpo di testa. Il Pibe de Oro allunga una parte del corpo che non è lecito utilizzare nel gioco del calcio, eccetto che per il portiere; in diretta televisiva non se ne accorge quasi nessuno, e ciò rende Maradona il Numero Uno anche nel baro. I giocatori inglesi, invece, se ne rendono conto all’istante: non riusciranno a convincere però il direttore di gara tunisino Ali Bin Nasser, il quale convalida la rete.
Come ad aver combinato uno scherzo simpatico e divertente, El Diez ora vuole
fare sul serio e, dopo tre minuti dal colpo di mano, dimostra al mondo di saper segnare anche un goal regolare: sarà la rete del secolo. Non basterà la rete della bandiera di Lineker, perché l’Argentina ha inserito la quinta marcia verso la conquista del suo secondo mondiale.
A distanza di anni, la terra di Belgrano è una democrazia compiuta, dove il popolo è tornato a rialzare la testa e la ricchezza viene distribuita in maniera più equa. Con l’appoggio del Mercosur e di altre nazioni del mondo, l’Argentina continua a reclamare la sovranità sulle Isole. In ogni comune argentino esiste un monumento o una via che rievochi le Malvinas Argentinas, alle quali è stato dedicato persino uno stadio, quello di Mendoza. La sua rivincita, Diego Armando Maradona se l’è già presa, nel 1986, con una pallonata che mira al cuore della Corona.
La Costa Rica è uno stato tanto piccolo quanto affascinante, per le sue bellezze paesaggistiche e per lo stile di vita tranquillo dei suoi cittadini. Anche se i gusti sono una questione puramente oggettiva, mai potresti pensare che il livello di gioco espresso dal movimento calcistico nazionale possa essere superiore alla deliziosa qualità del prezioso rum costaricano, quest’ultimo apprezzato in tutto il mondo per il sapore ricercato. Eppure, gli italiani arriveranno a conoscere il famoso distillato centroamericano dopo diversi anni rispetto all’affermazione del fútbol costaricense nello Stivale. In una serata genovese di metà giugno, infatti, il Belpaese applaude la dinamica nazionale che sorprende le consolidate realtà europee.
Sono i Mondiali di Italia ‘90, quelli delle Notti Magiche, dei costi astronomici e delle opere mai concluse. Le favorite sono le solite: la corazzata tedesca, gli argentini di Bilardo, il samba lento dei brasiliani, i tulipani olandesi e i padroni di casa, spinti dal pubblico e da un calendario apparentemente agevole. I verdeoro di Lazaroni, allenatore che non si farà certo ricordare per la propria competenza, affrontano un girone che li vedrà dominare a punteggio pieno. Sulla carta, il secondo posto dovrebbe premiare Svezia o Scozia, mentre gli esordienti costaricani sembrano destinati a recitare il ruolo dello sparring-partner. Sulla
panchina degli americani siede il tecnico giramondo Bora Milutinović, un serbo diventato grande in Messico e poi transitato sotto le pensiline di mezzo mondo, cercando imprese impossibili e talvolta riuscendoci. In campo, invece, scendono giocatori ai più sconosciuti, provenienti dal campionato locale che non è raggiunto dai circuiti televisivi del mondo; si conoscono i loro nomi ma non le caratteristiche tecniche, pertanto vengono un po’ snobbati.
L’esordio in un mondiale dei Ticos è assolutamente incoraggiante: viene sconfitta per 1-0 una Scozia a tratti remissiva. Se l’onorevole sconfitta contro Dunga e compagni è il giusto tributo alla massima competizione internazionale, le speranze di qualificazione dei costaricani alla fase successiva sono legate all’esito del match contro la Svezia. La nazionale scandinava, sin qui deludente, annovera giocatori del calibro di Strömberg, Ravelli, Ingesson, Limpar e Schwarz: i favori del pronostico tendono dalla parte dei gialloblù.
In effetti gli svedesi partono forte, solidi a centrocampo e propositivi in fase offensiva. Da una punizione respinta dal portiere Conejo, nasce il vantaggio degli europei, con l’attaccante Johnny Ekström, un ato nelle fila dell’Empoli, lesto ad avventarsi sul pallone prima di tutti gli altri. Gli avversari, che nel corso della prima frazione di gioco rischiano di capitolare più volte, provano a recuperare lo svantaggio. L’ingresso in campo del rapidissimo esterno Hernán Medford, che negli anni diventerà un’autentica istituzione per il calcio costaricano, fornisce nuova linfa vitale a una squadra che fino al 45’ sembrava derelitta. Il pareggio di capitan Flores, con un preciso colpo di testa sugli sviluppi di un calcio di punizione, offre maggiori certezze alla squadra di Milutinović, mentre pochi minuti dopo il mediano Ingesson fallisce una buona occasione per regalare ai connazionali il nuovo vantaggio.
La compagine scandinava lascia ampi spazi per i contropiedi in maglia bianconera, non potrebbe essere altrimenti. Le maglie difensive si allargano e tra queste, con le sue falcate, penetra il numero 7 in maglia bianconera, dirigendosi indisturbato verso la porta gialloblù. Mancano due minuti al termine della partita, Medford taglia il campo in diagonale e, fattosi incontro Ravelli, trafigge
l’estremo difensore con un tiro beffardo sul palo più lontano. E’ l’apoteosi: uno stato di quattro milioni di abitanti, alla sua prima partecipazione mondiale, festeggia il aggio del turno. Grazie a questa rete, Medford approderà in Europa e persino in Italia, nella Zemanlandia foggiana, pur senza lasciare una traccia indelebile del suo aggio.
Tre giorni dopo, i costaricani soccomberanno sotto le reti di Skuhravý, il quale spinge la Cecoslovacchia di Venglos ai quarti di finale. Poco male, è stato un esordio internazionale convincente ed entusiasmante. Successivamente arriveranno altre edizioni mondiali, giocatori del calibro di Walter Centeno e Ronald Gomez, un allenatore abile come Alexandre Guimarães e l’esplosione di nuovi, interessanti talenti. Ma è quel 20 giugno 1990, nella città Medaglia d’Oro alla Resistenza, che la Costa Rica dimostra di essere un paese avvezzo al gioco della sfera, oltreché pacifico e rispettoso dell’ambiente. Hernán Medford, con la sua fuga verso Ravelli, ne rappresenta l’emblema.
Una rete ai mondiali, bella o brutta che sia, può aprirti scenari inaspettati sino al momento di calciare in porta. Più aumenta la rilevanza storica della realizzazione, più sarai glorificato, specialmente se il calcio è, per il regime politico che rappresenti in quel momento, una vetrina internazionale irrinunciabile. Il calciatore saudita Saeed Al-Owairan ha avuto il merito di segnare un goal importantissimo, addirittura storico, per giunta bellissimo: per lui si sono aperte le porte del carcere.
La vicenda inizia in un bollente mercoledì di fine giugno, a Washington. Al Robert Kennedy Memorial Stadium è mezzogiorno, la colonnina di mercurio segna l’allucinante temperatura di 43° e in sella alla FIFA c’è João Havelange, il vecchio marpione brasiliano che impone alle nazionali orari folli per garantire la ricchissima copertura televisiva. Sul terreno di gioco, per il gruppo F, scendono il Belgio di Vincenzo Scifo e la misteriosa Arabia Saudita, che nei due precedenti incontri ha ben impressionato. Mentre dei Diavoli Rossi si conosce tutto, compreso l’elevato tasso tecnico dei principali solisti, del collettivo asiatico si faticano a leggere i nomi: l’esito del match appare scontato, alla luce
del primo posto degli europei nel girone.
L’Arabia Saudita si affaccia per la prima volta alla rassegna internazionale; questa potrebbe rappresentare di per se un’esperienza utile per il futuro, anche qualora non riservasse il aggio del primo turno, ma la vittoria ai danni del Marocco fa sperare i sauditi in un obiettivo sin lì improponibile. Trascorrono solamente cinque minuti di gioco quando la stella della squadra, il centrocampista Saeed Al-Owairan appunto, raccoglie palla nella propria trequarti e si invola verso la porta avversaria. L’iniziativa è inizialmente snobbata dai centrocampisti belgi, i quali non contrastano adeguatamente la cavalcata del giocatore arabo, che prende velocità e risulta, nel proseguimento dell’azione, sempre più difficile da fermare. Giunto nei pressi dell’area, l’offensivo saudita è fortunato nel vincere le resistenze dell’immediato difensore belga che, sbilanciato, gli lascia lo spazio interno; gli si fa incontro il secondo centrale belga e, in seconda battuta, il monumentale portiere Preud’homme: entrambi saranno uccellati dalla scivolata di Al-Owairan, che deposita il pallone in rete.
La gioia incontenibile del trequartista in maglia bianca ben si coniuga con l’attenzione tattica dei Figli del Deserto, i quali mostrano un’invidiabile organizzazione nel difendere il vantaggio; il caldo farà il resto, sciogliendo le velleità di rimonta dei belgi che, pur con questa sconfitta, sono qualificati al turno successivo. Quando l’arbitro tedesco Krug decreta la fine delle ostilità, il fischio viene accolto da tutti i presenti come una sorta di liberazione: Arabia Saudita e Belgio qualificate agli ottavi di finale, insieme all’Olanda vincitrice contro i marocchini di Naybet, il pubblico a casa per una tonica doccia gelata. Gli asiatici perderanno poi contro la sorprendente Svezia di Kennet Andersson, dopo una partita senza storia.
Il ritorno a casa dei calciatori è salutato con felicità dalla nazione, mentre quello del Maradona del Golfo è addirittura ricompensato lautamente da Re Fahd in persona. Per lui il destino è segnato: avrà denaro e gloria, ma non potrà abbandonare la patria. Schiavo del personaggio che è diventato, Saeed appare quotidianamente in televisione, sui cartelloni pubblicitari o comunque sotto i
riflettori di una nazione che coniuga, in maniera apparentemente incoerente, gli eccessi del capitalismo e il dogmatismo della religione islamica. Quando AlOwairan viene sorpreso, nel febbraio del 1996, all’uscita di un locale notturno del Cairo, per lui si chiude una carriera e si apre il portone di una polverosa prigione saudita. Ha violato la Shari’a e, in quel momento, maledice quel goal che lo ha reso una celebrità, suo malgrado.
Il finale, però, è davvero inatteso. L’Arabia Saudita si qualifica per i mondiali si del 1998, anche se la squadra guidata da Carlos Alberto Parreira appare del tutto inadeguata alla competizione. Come rinforzare una compagine priva di talento e solidità, destinata all’ultimo posto di un girone che annovera, tra le altre, i padroni di casa? Ci pensa il vecchio monarca saudita che, in preda a un romanticismo di chiaro stampo utilitaristico, concede l’amnistia all’eroe di Washington. Un’operazione mediatica o l’estremo tentativo di rinsavire il calcio locale? Di sicuro un atteggiamento tipico dei regimi autoritari, abili a utilizzare lo sport come un elemento propagandistico agli occhi del mondo. In terra se, i Verdi rimedieranno un misero punticino ma Saeed, fuori condizione e privo della cattiveria agonistica vista quattro anni prima, tornerà finalmente a esercitare il suo lavoro.
L’organizzazione economica denominata FIFA, che nei ritagli di tempo si occupa anche di pallone, da qualche tempo pare perseguire politiche tese alla promozione e all’enfatizzazione dei gesti di fair-play, trasmessi in diretta televisiva dalle emittenti che ormai determinano il calendario calcistico mondiale. Non vi è nulla di più ipocrita che una stretta di mano forzata, se poi sul terreno di gioco ci si ammazza per un contrasto o ci si rotola in area alla disperata ricerca di un calcio piazzato. Meglio apprezzare la sportività di chi, lontano dai riflettori, mostra il miglior lato di se cercando di conseguire la vittoria nel pieno rispetto delle regole, bandendo la furbizia e la disonestà. Sarebbe pertanto opportuno evitare forzature: la correttezza è il frutto della propria socialità, l’affidabilità è una capacità che va conquistata nel tempo e con le proprie forze.
Che cosa avrà pensato la maggioranza degli iraniani al fischio finale della partita che, nel 1998, consegnava loro la gioia di sconfiggere la nazionale statunitense? Ma soprattutto, come avranno reagito i nostalgici sostenitori dell’Ayatollah Khomeini nei minuti immediatamente antecedenti l’inizio dell’incontro, quando le compagini si facevano ritrarre in abbracci e scambi di fiori, nel segno di un’amicizia non troppo convinta? Lo sport può essere veicolo di pace e fratellanza, sono il primo a dirlo, ma non si può essere alleati per cinque minuti davanti all’obiettivo dei fotografi salvo poi, sino all’ultimo giorno della propria esistenza, minacciare alla controparte l’invasione aerea o l’utilizzo della bomba atomica. Forse le due nazionali, quel 21 giugno a Lione, erano veramente convinte di quel gesto: ma allora, perché a questo non è stato dato un seguito? Perché la politica, ancora una volta, non ha saputo cogliere questo segnale?
Vent’anni prima di questa partita, in Iran scoppia una ribellione che, nel febbraio 1979, porta Khomeini ad assumere la guida politica e spirituale del paese. Il dispotico Scià Reza Pahlavi, sempre più incalzato da un’opposizione variegata, abbandona di conseguenza un paese desideroso di democrazia e nel cui ordinamento entrava la religione islamica. Il monarca, malato di cancro, trova accoglienza in terra statunitense: si apre una crisi che porta al sequestro, da parte di un gruppo di studenti iraniani, di 52 funzionari dell’ambasciata americana. La vicenda si concluderà solo nel 1981, quando il rilascio degli ostaggi sarà ricompensato con armi da utilizzare nella guerra contro l’Iraq, quest’ultimo vero e proprio alleato dell’amministrazione Reagan. Vale a dire, l’ennesima dimostrazione che l’imperialismo statunitense non guarda in faccia a nessuno, ma bada esclusivamente al portafoglio.
‘98 non verrà ricordato come il mondiale più bello e, con tutto il rispetto per le squadre in campo, USA-Iran non contribuisce certo allo spettacolo dell’intero torneo. La vigilia di questa partita è però vissuta con particolare eccitazione da entrambe le parti, tifoserie comprese, consapevoli del fatto che questa è una partita che va ben oltre i tre punti da assegnare. In fondo il aggio del turno è già assegnato a Germania e Yugoslavia, che nella prosecuzione della rassegna non lasceranno una traccia indelebile. La nazionale asiatica si presenta ai giochi per la seconda volta nella sua storia, Daei e Bagheri occupano il posto di Danaeifard ed Eskandarian nel cuore dei sostenitori e la
squadra gioca un calcio pulito e ordinato. Gli statunitensi sono reduci dall’ottimo mondiale casalingo di quattro anni prima e, avendo a disposizione un parco giocatori carente sul piano tecnico, provano a fare leva sulla propria fisicità.
L’attaccante a stelle e strisce McBride, negli ultimi minuti di un secondo tempo molto tirato, riesce solo a dimezzare lo svantaggio accumulatosi. Ai fini pratici, la rete decisiva dell’incontro è quella di Mehdi Mahdavikia, un esterno tuttofare che in Germania conoscono molto bene, visto che da quelle parti ha speso quasi l’intera carriera sportiva. Quando mancano pochi minuti al fischio conclusivo, le energie residue sono ridotte al lumicino e la squadra americana sferra le ultime offensive, il dinamico giocatore della Squadra Nazionale scatta sulla fascia sinistra. Egli è consapevole che il più forte attaccante asiatico della storia, Ali Daei, lavorerà in maniera egregia quel pallone che si ritrova nei piedi e lo servirà in profondità. E così avviene, Mehdi si invola verso la porta e, quando l’estremo difensore gli si fa incontro, lo trafigge con un piatto destro a fil di palo, un attimo prima del sopraggiungere della retroguardia.
Mahdavikia entra nella storia del calcio e del proprio paese, non tanto per le comunque apprezzabili abilità atletiche prima ancora che tecniche, ma per una rete decisiva. Il centrocampista del Bochum regala alla nazionale iraniana la prima vittoria in un mondiale, ma soprattutto sconfigge lo Scià di Persia e l’ingerenza a stelle e strisce.
Nel corso della storia, Spagna e Paesi Bassi si affermano come imperi coloniali su scala planetaria, fondati essenzialmente sulla navigazione e sul commercio. Lo sviluppo di moti rivoluzionari porta, a partire dei primi anni dell’Ottocento, al progressivo indipendentismo delle ex-colonie; l’immediato dopo-Seconda Guerra Mondiale segna la liberazione degli ultimi protettorati anche se, purtroppo, il tramonto dell’imperialismo ancora tarda ad arrivare. Nel 2010, seppur su un campo di calcio, le due nazioni si sfidano per la conquista del titolo più ambito: quello di Campione del Mondo. Il terreno di gioco è quello del First National Bank Stadium a Johannesburg, in Sudafrica, paese che gli olandesi conoscono molto bene: lo hanno sottomesso per anni.
La Spagna possiede un gioco spumeggiante e interpreti di massimo livello. La squadra di Vicente del Bosque, tecnico che col Real Madrid ha vinto di tutto, non ha grande confidenza con l’appuntamento intercontinentale sino ad ora; alla vigilia della competizione è però di diritto tra le pretendenti e, complice la progressiva caduta delle principali rivali, arriva alla finalissima con i favori del pronostico. L’Olanda invece è la squadra che ha incantato il pianeta con il suo gioco spumeggiante, salvo poi perdere per ben due volte la sfida per il titolo, nel 1974 e nel 1978. Van Bronckhorst e compagni, partiti con il ruolo di outsider, compiono un autentico miracolo sportivo battendo il Brasile e, dopo la sofferta vittoria in semifinale contro la Celeste di Tabárez, si appellano al carisma di Robben e Sneijder per la partita decisiva.
La partita, come ogni finale che si rispetti, è bloccata e poco spettacolare. Regna il nervosismo che il bravo direttore di gara inglese Webb, poche settimane prima arbitro della finale di Champions League, doma con una lunga serie di cartellini gialli. E’ bravo l’allenatore degli Orange, Bert van Marwijk, a imbrigliare le molteplici fonti di gioco spagnole; un po’ meno abile si rivela l’esterno Robben, quando sciupa la grande occasione per entrare nella storia. Si va ai tempi supplementari, con le squadre visibilmente stanche e provate: entrambi gli allenatori attingono a piene mani alle proprie panchine, cercando energie residue da impiegare sul campo.
Quando mancano solo cinque minuti al termine e le squadre sembrano convinte a rimandare ogni verdetto ai sempre drammatici calci di rigore, sugli sviluppi di un’azione offensiva olandese, le Furie Rosse recuperano palla e provano a ripartire. Quando la sfera a sulla fascia sinistra, il mobile attaccante Fernando Torres prova a cambiare gioco; la difesa avversaria respinge corto, sui piedi di Fabregas, il quale vede un compagno completamente libero, leggermente defilato, decidendo di servirlo. Andrés Iniesta, una giovane carriera spesa per i colori blaugrana del Barcellona, è giocatore affermato e sufficientemente freddo da poter concretizzare la palla goal. L’aggancio è perfetto e, prima del ritorno dei difensori orange, il centrocampista scarica un diagonale imprendibile per il portiere Stekelenburg: è l’1-0 che regala il primo
titolo mondiale alla Spagna.
Per gli olandesi, noti in Sudafrica con il termine boeri, si tratta dell’ennesima sconfitta a pochi i dal traguardo. Tutto ciò avviene a un secolo di distanza dalle due guerre anglo-boere che, agli inizi del Novecento, uniscono la Culla dell’umanità sotto la Corona britannica. Ironia della sorte, a portare alla vittoria la Roja è il calciatore più “olandese” in campo; Iniesta, con la sua completezza, abilità tecnica e dinamismo, è infatti un perfetto interprete del calcio totale. In questo senso, è possibile affermare che Rinus Michels abbia vinto un mondiale a decenni di distanza.
La partita che non potresti mai perdere
L’Argentina è arte, cultura, cucina, musica, paesaggi degni di essere vissuti. Territorio vastissimo suddiviso politicamente in 23 Provincias e una Capitale Federale, nel corso della storia ha conosciuto povertà, crisi e dittature sanguinarie. Grazie alla splendida tenacia del suo popolo, quello che non alberga nella stanza dei bottoni o nelle forze armate, ha saputo rialzare la testa e ora vive una fase di crescita economica e sociale. La Nación Argentina è anche calcio, e se da qualche anno sono accanito sostenitore del fútbol sudamericano lo devo essenzialmente al campionato argentino, che seguo con estrema ione e interesse.
Ultimamente mi sono fissato un obiettivo: visitare l’Argentina entro il 2014. Sarà l’anno dei mondiali brasiliani, quelli della probabile vittoria verdeoro. O di un nuovo Maracanazo?
Ciò che affascina un comune mortale al primo contatto calcistico con la terra natìa di Ernesto Guevara è l’atmosfera delle sfide al vertice, accolte dalle ionali tifoserie con interi rotoli di carta igienica riversati all’interno del terreno di gioco. Ma entrando più nello specifico, e cioè assistendo a un incontro, scopri un calcio fatto di tecnica e grinta, talento e temperamento, follia ed emozione. Un mix esplosivo che i principali tornei europei non sfiorano neppure, specialmente quello italiano, quest’ultimo condizionato in maniera eccessiva dalla fobia del cattivo risultato e dall’ingombrante peso dei preparatori atletici.
Quello argentino non è un calcio eccessivamente ricco. La crisi economica dell’ultimo decennio ha colpito anche i club più prestigiosi, costringendoli di fatto a cedere i migliori talenti alle principali formazioni europee. Il livello di gioco non si è però abbassato, perché i vivai sono stati stimolati alla produzione
di nuovi campioncini in grado di esordire molto giovani in prima squadra, talvolta minorenni. L’Argentina ha perso campioni del calibro di Maradona e Redondo, ma senza questo sacrificio probabilmente non sarebbero sbocciati i vari Riquelme, Verón e Ortega. Il processo di “ricambio” è ulteriormente accelerato nel corso degli ultimissimi anni, basti pensare al precoce esordio in campionato del Kun Aguero, a soli 15 anni, poi trasferitosi ai colchoneros dell’Atletico Madrid un lustro più tardi. La Primera Division, così differente anche dal punto di vista regolamentare rispetto ai principali tornei europei, è illuminata dalla classe cristallina di Giovanni Moreno, Rogelio Funes Mori e Sergio Araujo. Accanto a loro vi sono maestri illustri, disposti a spendere gli ultimi anni di una carriera piena di trionfi ma per nulla appagati, registi illuminati o arieti dell’area di rigore che siano.
Ogni volta che le squadre più titolate d’Argentina si scontrano, danno vita a match molto avvincenti e dall’esito sempre incerto. Anche se negli ultimi anni il torneo si è molto livellato, complice l’ascesa di compagini emergenti, i Clasicos che coinvolgono le Cinque Grandi sono vissuti in maniera molto emozionale da tifosi e addetti ai lavori.
Non ho mai nutrito particolare interesse per il Racing Club, squadra che dal Campionato Apertura 2001 non conquista il titolo. Dopo una cavalcata straordinaria, alla squadra di Ubeda e Diego Milito bastò un punto in più, rispetto alla corazzata River Plate, per tornare alla vittoria dopo un digiuno lungo 35 anni. Da quel momento la storia del club ha conosciuto aggi di proprietà, stagioni in chiaroscuro e numerosi cambi di allenatore. Con i suoi 16 titoli nazionali rimane comunque un esempio per il calcio albiceleste, anche se bisogna considerare che il club di Avellaneda vinse ben 7 titoli consecutivi prima del 1920 (l’alter-ego del Genoa in Italia, non me ne vogliano i tifosi rossoblù). Dal 1950 il Racing disputa le partite casalinghe allo stadio intitolato all’ex Presidente Juan Domingo Perón, ma che per via della propria conformazione è soprannominato Cilindro.
Ultimamente non se la a troppo bene nemmeno la rivale cittadina
dell’Independiente, il cui ultimo appuntamento col titolo risale all’Apertura 2002. I Diavoli Rossi seppero cogliere il titolo davanti al Boca Juniors, trascinati dai gol di Silvera e dalla vena creativa di due talenti puri come Rolfi Montenegro e Federico Insúa. La squadra che fu di Bertoni e Burruchaga non è più riuscita a ripetersi, complice una forte instabilità tecnica che dura da qualche anno. Eppure El Rojo rimane, con le sue 7 Libertadores, uno dei club più titolati al mondo ma soprattutto un punto di riferimento per tutto il Sudamerica. Al Doble Visera, che dista solo pochi metri dal Cilindro, si sognano ancora i aggi filtranti dell’indimenticato Bocha Bochini.
Dal quartiere Almagro di Buenos Aires arriva invece il San Lorenzo, storico club fondato nel 1908 per opera di Padre Lorenzo Massa, arrivando a vincere 10 titoli nazionali e persino una Copa Mercosur. L’ultimo titolo festeggiato al Nuevo Gazometro è di poco tempo fa, correva l’anno 2007 e la coppia Gata Fernandez-Ezequiel Lavezzi regalava un successo piuttosto inaspettato. Una squadra ampiamente inferiore a quella in cui militava anni prima El Cabezón Ruggeri, ma un buon complesso amalgamato dall’ex attaccante Ramón Diaz, transitato negli anni ‘80 in diverse squadre italiane.
Quando affronto una discussione sul calcio argentino, mi piace identificare questo club come la squadra di Osvaldo Soriano, uno scrittore che ha lasciato un segno tangibile nella letteratura mondiale e nella società argentina. Soriano era un uomo libero, che si è battuto in prima persona contro la dittatura militare e i poteri forti, e ci ha lasciati troppo presto. La ione per il calcio si riflette nella propria letteratura, basti pensare alle sue raccolte di racconti, in cui il fútbol è una sorta di metafora della vita. Osvaldo amava scrivere di notte, cosa che faccio pure io, anche se per ragioni di tempo più che d’ispirazione. Ciò mi sembra un ottimo modo per ricordarlo, visto che a differenza sua non fumo, ne ho intenzione di iniziare a farlo.
Ma il “classico dei classici”, la partita che vede opporsi le squadre più vincenti d’Argentina, è Boca Juniors-River Plate. Ovvero il Superclásico.
Per nessuna ragione al mondo rinuncerei a un Superclásico. Nemmeno per un festival letterario, un’uscita con Monica Bellucci o un seminario di tattica calcistica con Arrigo Sacchi. Solo cause di forza maggiore potrebbero ostruire la visione del match, come qualche anno fa, quando dalla piattaforma satellitare sparì quel maledetto canale che mi faceva seguire l’intero campionato. Era una domenica sera, e ancora non conoscevo il calcio in streaming: decisi di uscire da casa in dolce compagnia, sperando che ciò alleviasse il mio malumore. Al termine della serata giungevo come al solito nell’ormai gloriosa zona industriale, teatro di dolci effusioni e ionali amplessi, con il raggiungimento della temperatura interna all’automobile quasi a livelli d’ebollizione.
Non c’è casualità, ma un’ideologia precisa dietro la scelta dei miei luoghi preferiti per la camporella, una sorta di rilettura della “lotta di classe” in chiave amorosa. La contrapposizione tra capitale e lavoro porta una coppia di giovani proletari a unirsi davanti ai luoghi dello sfruttamento, per una “pacifica” rivincita sui possessori dei mezzi di produzione, utilizzandone anche solo per una sera lo spazio antistante. La pratica sessuale in automobile è sempre più in disuso, specialmente dopo i 25 anni, e anche questo fenomeno può essere letto in chiave marxiana come un imborghesimento del rapporto di coppia, vittima quest’ultimo della ricerca ossessiva di agiatezza. L’illusione della comodità casalinga in antitesi con lo spirito avventuriero del posteggio automobilistico, la banalità di una stanza riscaldata dai termosifoni contro la fantasiosa voglia di vincere il freddo di un abitacolo, l’essere umano che si arrende alla noia pur di evitare un semplice raffreddore o mal di schiena. L’inganno di essere sessualmente appagati viene estremizzato a tal punto di spingersi alla ricerca di soluzioni sempre più sfarzose, minando così la vera essenza del rapporto sessuale, ovvero una semplice e naturale unione di due corpi. Il contesto, quindi, che prevale sulla situazione.
Quella domenica sera giungeva un messaggio sul telefono cellulare, ero certo del mittente per cui non esitavo un istante a estrarre l’aggeggio. Il prefatore di questo libro mi comunicava la sconfitta del Boca Juniors per opera degli odiati rivali, non era precisato il punteggio finale e i marcatori. Ciò bastava per anestetizzarmi al compito che mi accingevo a svolgere, e come tramortito decidevo di non scendere in campo. I miei idoli avevano perso, io non mi sentivo
nelle condizioni psicologiche di “fare goal”. Vi lascio immaginare il seguito.
River Plate e Boca Juniors, Millonarios e Xeneizes, due squadre nate nel quartiere della Boca per opera di emigrati genovesi. Una storia fatta di vittorie ed epiche sfide, una rivalità che dura nel tempo e si protrarrà in eterno, una contrapposizione per la supremazia cittadina e nazionale, uno scontro che spesso ha varcato i confini argentini per trasferirsi nelle principali competizioni latinoamericane. El Campeón del Siglo, come ribattezzato dalla rivista sportiva argentina El Gráfico per le sue vittorie in campo nazionale, contro El Rey de Copas, ovvero la squadra con più titoli internazionali insieme al Milan. Una concorrenza sportiva, sociale, culturale e politica.
Trasferitosi nel ricco quartiere di Nuñez, il River conobbe una lunga stagione d’oro sotto la presidenza di Antonio Vespucio Liberti, che investì ingenti somme tanto da far guadagnare alla propria squadra l’appellativo di Millonarios. Altro nome dei biancorossi, certamente poco gratificante, è quello di Gallinas. Correva l’anno 1966 e la squadra di Buenos Aires si fece rimontare dal Peñarol, che nella finale di ritorno infilò quattro reti e intascò la sua terza Copa Libertadores. I rivali cittadini del Boca amano utilizzare questo termine, compreso il sottoscritto.
In realtà la storia del River Plate è fatta di molti successi nazionali e qualche scorribanda internazionale, ma soprattutto è costellata di campioni e grandi allenatori. Basti pensare ai vari Di Stéfano, Sivori, Labruna, Fillol, arella ma soprattutto il Principe scoli, autentico idolo per me.
Non si è trasferito dal proprio quartiere invece il Boca Juniors, che nel tempo ha consolidato un rapporto quasi maniacale con i suoi sostenitori. Una nave battente bandiera svedese diede i colori azul y oro alla compagine che, dagli anni ‘30, iniziò a dominare il continente. E’ però all’avvento dell’eccentrico Juan Carlos Lorenzo, personaggio legato a doppio filo con l’Italia, che si deve la conquista della prima Copa Libertadores e Intercontinentale nel 1977. A due riprese calca
il terreno della Bombonera il divino Maradona, che pur conquistando un solo titolo Metropolitano nel 1981 lascia un segno indelebile nella storia del club di Buenos Aires. Il ritiro dal calcio giocato del Pibe de Oro apre la strada alla formidabile formazione di Carlos Bianchi, che domina la scena internazionale conquistando quattro titoli nazionali, tre Libertadores e due Intercontinentali. El Virrey costruisce una macchina fantastica, un mix di tecnica e pragmatismo, forza fisica ed esplosività, il tutto condito dall’imprevedibilità e genialità tipicamente latino-americana. Anche dopo l’addio definitivo di Bianchi nel 2004 il club della Boca ha conseguito ulteriori successi, senza però riuscire a raggiungere i livelli di questa epoca d’oro.
Il prototipo del tifoso italiano, così fedele al credo sportivo locale tanto da pensare che al di fuori del Bel Paese non vi sia nulla di calcisticamente rilevante, potrebbe ritenerlo un incompetente o peggio ancora un cialtrone. La sua (mezza) stagione alla Roma non è propriamente da ricordare, ma ciò non giustifica i media italiani che non esitarono a definirlo “bidone”.
Carlos Bianchi è stato un attaccante di buon livello, autore di molte reti nel campionato argentino e in quello se, protagonista di qualche presenza in nazionale negli anni ‘70. Folgorante è invece stata la sua carriera di allenatore, e chissà che non decida di tornare in panchina. Quello che ha consegnato all’altare del calcio è una serie impressionante di trofei, prima sulla panchina del Vélez Sarsfield e poi su quella del Boca, con cui conquista per ben due volte El Treble.
Il suo calcio non è votato alla spettacolarità come quello di Maturana, rivoluzionario calcistico colombiano a cavallo tra gli anni 80 e 90. Bianchi non è nemmeno un innovatore, ma solamente un sintetizzatore della tradizionale ideologia tattica argentina, che prevede un 4-4-2 con il centrocampo disposto a rombo. La solidità difensiva è garantita da una coppia centrale di sicuro valore, davanti alla quale gioca il classico “numero cinque”, in altre parole il giocatore tattico che, nella tradizione argentina, incarna il ruolo di mediano incontrista e primo organizzatore di gioco. I terzini sono molto attenti alla fase difensiva quanto abili in quella offensiva, difatti l’assenza di esterni di ruolo impone a loro
il o sulle corsie laterali. Il centrocampo è completato da due interni di resistenza e buon palleggio, davanti ai quali giostra il cosiddetto “enganche”, ovvero il trequartista che con i suoi aggi filtranti è il vero fulcro del gioco in grado di innescare le punte. La coppia d’attacco è solitamente composta da un centravanti fisico e potente, spalleggiato da una seconda punta tecnica e veloce, in grado di muoversi sulle corsie esterne.
Il Boca Juniors di Carlos Bianchi ha cambiato in corsa molti dei suoi interpreti, eppure il gioco non ne ha risentito. Il possesso palla, il fraseggio corto e le verticalizzazioni sono il marchio di fabbrica che ha portato la squadra xeneize sul tetto del mondo, e Bianchi a vincere per ben cinque volte il titolo di miglior allenatore sudamericano dell’anno. L’allenatore nato a Buenos Aires ha saputo plasmare un gruppo vincente, motivarlo e rinnovarlo, riuscendo a sopperire alle dolorose partenze di Walter Samuel, Juan Román Riquelme, Martin Palermo e Nolberto Solano solo per fare qualche esempio. Bianchi ha lasciato quando un ciclo era veramente finito, e forse erano esaurite anche le risorse finanziarie del club.
Per rendere l’idea di cosa rappresenti questa sfida nel mondo mi affido al periodico britannico The Observer, che nel 2004 pose la visione di Boca JuniorsRiver Plate in cima a un elenco di 50 avvenimenti sportivi da vivere in prima persona, prima di morire. Purtroppo una partita che ha conosciuto anche una tragedia, quella della morte di 71 tifosi schiacciati al Cancello 12 dello stadio Monumental, nel lontano 1968, evento che si ripeterà anni dopo in Europa.
Il Superclásico è soprattutto una sfida che travalica i confini sportivi. I Millionarios, il cui nome di per se dovrebbe essere rappresentativo, sono espressione dell’elite aristocratico-borghese della città, e difatti il tifoso medio del River è tendenzialmente un radicale di ceto medio. Il Boquense è di norma un proletario peronista, che vive in maniera ionale il rapporto con la propria squadra, e che interpreta il calcio come una sorta di riscatto sociale. Il Boca è la squadra più tifata in Argentina (la mitad más uno del país), e raccoglie fans in tutto il continente e non solo.
Queste differenze sociali sono leggibili con la posizione geografica dei due club: il River è situato in un abbiente quartiere nella zona nord di Buenos Aires, la Boca è invece è la zona del porto dove i poveri immigrati genovesi s’insediarono inizialmente. E’ per questo motivo che i genovesi sentono la gloriosa squadra azul y oro un po’ loro.
In Argentina è stretto il legame tra politica e calcio, e specialmente tra sinistra e pallone. Basti pensare al Pelusa Diego Armando Maradona, che dopo un trascorso accanto a Menem ha deciso di abbracciare il kirchnerismo e più in generale questo movimento sudamericano di opposizione alla dottrina Monroe. Odiatissimo dai rivali del River, Maradona non ha mai fatto mistero della sua devozione alla Revolucion Cubana, come del resto non ha mai rinnegato la famosa “Mano de Dios” di Argentina-Inghilterra 1986. Inglesi che ebbero un ruolo importante nella diffusione del calcio in Argentina, prima come ispiratori dei principali club albiceleste e poi come fondatori del Newell’s Old Boys, squadra che ha formato diverse stelle del firmamento mondiale tra cui Leo Messi. Sempre a Rosario nasceva un amante della palla, che poi sarebbe diventato un rivoluzionario in grado di infiammare i cuori di milioni di persone libere: Ernesto Che Guevara avrebbe poi scelto il Central come propria squadra di riferimento. Di estrazione socialista sono l’Independiente ma soprattutto l’Argentinos Juniors, chiamato così in omaggio ai Martiri dell’Haymarket di Chicago, impiccati nel 1886 per aver richiesto giornate lavorative di otto ore.
Le dittature hanno sempre visto il calcio e lo sport come ottimo viatico per diffondere all’esterno un’impressione positiva sul proprio operato, oscurando agli osservatori internazionali la repressione del dissenso interno e la limitazione delle libertà individuali. E’ stato così con Perón, ma soprattutto col regime militare di Videla, il quale consegnò nelle mani di arella la Coppa del Mondo 1978. Quella dei diritti umani negati, degli arbitri accondiscendenti e della marmellata peruviana. Sulla panchina dell’Argentina sedeva César Luis Menotti, che fedele ai propri ideali di sinistra chiese ai suoi giocatori di vincere per il popolo argentino, e non per la dittatura.
Menotti, Valdano, Bielsa, Cappa: allenatori che condividono fede politica e filosofia di gioco, improntata sulla fase offensiva e la difesa a zona. Insieme a Maturana, che seppe vincere e convincere con Nacional de Medellin e nazionale colombiana, posso considerarli un vero esempio per le nuove generazioni. Dotati di una buona razione di intelligenza, sono accomunati da fiducia nei confronti dei propri giocatori, oltreché senso dell’estetica calcistica. L’allenatore zonista crede essenzialmente nella bravura del calciatore, esaltandone le caratteristiche tecniche senza mai snaturarle, concepisce la propria squadra come una sorta di cooperativa in grado di lavorare per il risultato “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. Egli non accetta la logica iva del catenaccio, ma stimola la creazione del gioco accrescendo le potenzialità del singolo individuo, che si sente coinvolto in questo processo “produttivo”. Anche se non esiste ancora una formula scientifica per vincere una competizione, si può affermare che una squadra è il giusto connubio di organizzazione tattica e abilità dell’individuo, in cui la prima non deve soffocare la seconda e viceversa. L’allenatore-filosofo rifiuta l’idea di rincorrere l’avversario, magari tramite marcature a uomo, perché con grande dignità non accetta la propria inferiorità; egli applica semmai un sistema difensivo in grado di affidare a ogni individuo il proprio territorio, di cui si sente a pieno titolo cittadino. Non vincolato all’ossessione del risultato inculca ai propri giocatori un senso estetico alla propria azione, basato sul possesso palla corto e ragionato, che nel corso degli anni ha saputo dimostrarsi produttivo anche in termini di risultato. Zona e libertà, calcio e cultura vanno ogni tanto di pari o.
Nella mia vita di apionato calcistico ho frequentato in diverse occasioni lo stadio, alcune volte anche dalla curva. Il percorso che mi ha portato a svestirmi dei panni del tifoso , che senza dubbio ha accresciuto la mia obiettività sportiva e che di conseguenza ha provocato il progressivo allontanamento dagli stadi del sottoscritto.
Disprezzo la logica del tifo monodirezionale, prendo le distanze da alcuni gruppi organizzati che utilizzano il sostegno per la propria squadra come un giustificativo delle proprie attività imprenditoriali, mi piace assistere a un
incontro senza farmi influenzare da cori ed epiteti. Nonostante ciò, mi manca un poco l’atmosfera elettrizzante dello stadio, e specialmente alcune splendide coreografie prodotte dalle tifoserie più creative. Sicuramente all’avanguardia, sotto questo punto di vista ma non solo, è la mitica “12”.
Molte curve hanno tentato d’imitarla, provando a ergersi a dodicesimo uomo in campo nelle partite casalinghe, ma emulare le gesta di un mostro sacro è difficile e dannoso. La 12 in questo senso è unica, proprio perché il suo legame con il barrio Boca e la squadra è ionale. L’amore della curva boquense per la propria squadra unisce un popolo più che una tifoseria, quando tutto lo stadio salta a tempo la Bombonera emana vibrazioni. Ma è un cuore che batte, e non trema. La tifoseria organizzata ha persino inciso un album con i propri cori, anche se ciò non rende assolutamente l’idea di cosa sia la 12. Forse nemmeno le riprese televisive non fotografano pienamente la realtà, ne restituiscono un’immagine rimpicciolita, certe emozioni meriterebbero di essere vissute.
Il calore del tifo, i campioni che si sono susseguiti sul terreno di gioco e l’architettonica sono gli elementi caratterizzanti dello stadio Alberto Jacinto Armando. Uno dei suoi progettisti arrivò a paragonarlo a una scatola di cioccolatini, di fatto affibiandogli il soprannome che lo renderà celebre al mondo con il nome di Bombonera. Ispirato allo Stadio Comunale di Firenze, il cui progetto era in esposizione quel tempo a Buenos Aires, fu completato definitivamente solo nel 1952 con la costruzione del terzo anello di gradinata, ben 12 anni dopo la sua inaugurazione. Nel tempo si sono susseguiti interventi di rinnovamento, che hanno portato l’ex stadio Camilo Cichero all’attuale capienza di 57.000 posti. Quando visiterò la Bombonera non mi resterà che entrare al Museo de la pasiòn boquense, per ammirare tutti i trofei conseguiti dal club xeneize, sperando di non perdermi in mezzo a cotante vittorie. Mi fermerò davanti alla statua dedicata a Diego Armando Maradona, i cui tre metri di altezza non rendono comunque idea della grandezza calcistica del personaggio, e realizzerò che un campione di questa levatura mai più si vedrà sulla faccia della terra.
La storia del Superclásico è segnata da grandi cannonieri (Labruna su tutti), iperpresenzialisti (Merlo e Marzolini, uno per parte), mirabolanti gesti tecnici, autentiche meteore e giocatori che hanno disputato il sentito match con entrambe le maglie. Tra questi è doveroso citarne uno, perché è stato parte integrante della storia del calcio di Argentina: il portiere Hugo Orlando Gatti, El Loco per il suo carattere bizzarro. Le quasi 800 presenze nella massima divisione fanno di lui un monumento del calcio locale, considerato che si ritirò all’età di 44 anni dopo oltre un decennio di militanza xeneize.
La carriera ad alti livelli di Gatti inizia però con la maglia del River, come alternativa al leggendario Amadeo Carrizo, disputando 77 incontri in cinque stagioni. L’eccentrico portiere raggiunge la propria consacrazione con le maglie di Gimnasia e Union de Santa Fè, trasferendosi al Boca nel 1976. El Loco è un giocatore dalla spiccata personalità, rasenta la pazzia e dimostra un atteggiamento di profondo egocentrismo. In campo non lo si può non notare: indossa maglie dai colori sgargianti, una bandana in testa, detesta i parastinchi e porta i calzettoni perennemente abbassati. Gioca spesso fuori dai pali, e durante le partite è sorpreso in atteggiamenti poco consoni a un professionista, come pulire l’area di rigore con una scopa o sedersi sulla traversa della propria porta. Gatti è però un ottimo atleta, con mirabili doti muscolari che lo rendono uno spettacolare acrobata, provocatorio sino all’eccesso ma abile a conquistarsi una maglia da titolare anche in nazionale. La perderà alla vigilia dei Mondiali ‘78, per non smentire la propria fama. Chiude la carriera calcistica con il club azul y oro nel 1988, dopo essere entrato in polemica con la curva boquense per il proprio sostegno al presidente argentino Alfonsin. Gatti scrive di diritto il proprio nome tra i migliori portieri argentini della storia, e ispirerà le gesta di molti colleghi sudamericani nel corso degli anni.
24 maggio 2000, quarti di finale di Copa Libertadores, partita di ritorno. Dio esiste, indossa la maglia n. 10 del Boca Juniors e col pallone tra i piedi disegna parabole mirabolanti. A un ateo convinto come il sottoscritto non rimane che accettare tale divinità, e venerarla in tutti i modi e le forme possibili. Mettere a segno un calcio di rigore o effettuare un lancio millimetrico sono gesta cui ci ha da tempo abituato, Juan Román Riquelme, ma un tunnel di suola con le spalle rivolte all’avversario è intuizione geniale che mai si era vista su un terreno di
gioco. Chissà cos’ha pensato in quell’istante l’agnello sacrificale, il gigante colombiano Mario Yepes, colpito da un gesto tecnico che i difensori di temperamento disprezzano fino alla follia. Il perno della difesa Millionaria di lì a poco emigrerà in Europa, trovando alterne fortune tra Francia e Italia, in cuor suo sperando di non incrociare più i tacchetti del divino.
Riquelme cresce calcisticamente nell’Argentinos Juniors, detto “El Semillero” per via della propensione ad allevare potenziali campioni internazionali. Qui sono nati Claudio Borghi, Juan Pablo Sorín, Sergio Batista, Diego Cagna, Esteban Cambiasso e José Pekerman. Ma soprattutto hanno tirato i primi calci i miei massimi idoli, Diego Armando Maradona, Fernando El Principe Redondo e appunto Juan Román Riquelme. Il trasferimento al Boca Juniors porta al talentuoso ma acerbo trequartista la possibilità di crescere e affermarsi a livello internazionale, consacrandosi come uno dei massimi giocatori del continente, grazie alla guida sapiente di Carlos Bianchi e al contributo di una squadra eccellente.
Sei mesi dopo il celebre Superclásico di Libertadores, il Boca Juniors si aggiudicherà la seconda Coppa Intercontinentale della sua storia con una doppietta di Martin Palermo, grazie soprattutto a una prestazione mostruosa di Riquelme. Andrà in Europa e tornerà a casa per vincere, con la squadra di cui è tifoso, un’altra Libertadores. Alterne saranno invece le sue fortune con la maglia albiceleste, con la quale conquisterà comunque un Olimpiade.
Un esteta del calcio, pur con la vista annebbiata dal tifo per la propria squadra, non può non apprezzare lo stile di gioco di Topo Gigio. I profeti dell’anticalcio potrebbero ritenerlo non adatto alla loro idea di gioco “moderno”, per la sua scarsa propensione al pressing o per un certo deficit di rapidità (di gambe), ignorando invece una ben più importante velocità (di pensiero). Il loro parere non fa testo, perché all’altare del “risultato ad ogni costo” hanno offerto la vera essenza del calcio, ovvero la spettacolarità del gioco più bello del mondo. A colpi di catenaccio (alla faccia della modernità) hanno portato la fase atletica in posizione centrale rispetto alla preparazione tecnico-tattica, scambiano i
calciatori per maratoneti o centometristi. Riquelme sconfigge la distruzione del calcio con un gioco ragionato, fatto di tocchi leggiadri. Egli si pone sempre al centro del gioco, le sue soluzioni non sono mai banali né ripetitive. Come ogni buon Narciso ama specchiarsi nelle sue qualità, ma ciò lo rende mai essenziale nelle giocate, portando all’eccesso il celebre tocco di suola. Se il piede sinistro fa il suo dovere, il destro è invece un telecomando al servizio del suo intelletto, disposto a eseguirne ogni disposizione con precisione chirurgica. Esegue il lancio di 30 metri con la stessa naturalezza del aggio rasoterra; è un cecchino infallibile nei calci piazzati, i quali assumono le sembianze di una perfetta opera di Giotto. El Mudo affronta le problematiche più semplici con la soluzione più complicata: sotto questo punto di vista mi riconosco perfettamente in lui, e perciò lo decanto. In definitiva Riquelme è il peggior nemico di chi fa del sesso la propria professione: è semplicemente orgasmico.
17 giugno 2004. Carlitos Tévez è entrato ufficialmente tra i miei idoli. Nella bolgia del Monumental pareggia la rete dei padroni di casa, e a petto nudo imita il gesto della Gallina. Sarà espulso, ma ciò non impedirà al club azul y oro di sconfiggere i rivali ai calci di rigore, raggiungendo la finale di Copa Libertadores. A conquistare il trofeo sarà la meteora colombiana dell’Once Caldas, grazie ai superlativi calci piazzati di Arnulfo Valentierra e alla propria solidità difensiva. Agile, grintoso e tecnico. El Apache mostra sin dagli esordi di essere un giocatore speciale, uno che alle indiscutibili doti naturali unisce il temperamento necessario per emergere, frutto di un’infanzia difficile. Micidiale è il suo tiro dalla media distanza, bruciante è lo scatto nel breve, devastante è quando punta l’uomo. Il calcio europeo, abusando della sua generosità calcistica, lo ha costretto a compiti difensivi che ne hanno offuscato le doti realizzative. Nonostante ciò Tévez si è ritagliato un posto importante nella nazionale albiceleste, dimostrando che ai giocatori di talento un posto deve sempre essere garantito.
Carlitos incarna lo spirito del tifoso boquense, disposto a dare tutto se stesso per la gloriosa maglia. Non eccede in virtuosismi, perché non si chiama Riquelme, ma ha sempre pronta la soluzione a effetto. Come quella di firmare per il Corinthians, con il quale diventerà campione nazionale nel 2005 e di conseguenza idolo della Gaviões. Esteticamente inguardabile, Tévez non entrerà
mai nel mondo dorato dello star business, e rimarrà concentrato sugli obiettivi di una carriera che lo vedrà ritirarsi con una maglia azul y oro indosso.
Ci sono giocatori destinati a rimanere nella storia del calcio, altri invece che hanno mostrato la propria genialità solamente nell’arco di poche stagioni, una manciata di partite oppure solamente 90 minuti. Martin Palermo appartiene alla prima categoria, perché la propria carriera è ricca di successi vissuti in prima persona, con quel tocco di pazzia che l’ha sempre contraddistinto come un marchio di fabbrica. Poco importa se la sua esperienza europea è stata in chiaroscuro, complice un grave infortunio con il sottomarino giallo del Villareal: El Loco continua a rimanere l’uomo dei gol impossibili, e tremendamente decisivi.
Martin Palermo viene ricordato dagli incolti (calcisticamente parlando) spettatori italiani per i tre calci di rigore falliti in Argentina-Colombia, Copa America 1999. Purtroppo pochi rimembrano il palmares da urlo, il titolo di capocannoniere boquense della storia, il Pallone d’Oro sudamericano e le reti di straordinaria fattura. Perché nonostante un bagaglio tecnico non certo invidiabile, egli ha saputo sfruttare al meglio le proprie potenzialità con una tenacia spaventosa, risollevandosi da gravi infortuni e tornando la consueta macchina da goal. Difficilmente su un terreno di gioco si sono visti colpi di testa da 40 metri, oppure sulla linea aggrappandosi alla traversa; qualche comune mortale ha provato a “metterla nel sacco” dalla metà campo, non certo nel Clásico Independiente-Boca Juniors.
Martin ha segnato la storia del Superclásico con le sue realizzazioni, fino al recente ritiro. A 38 anni è il momento adatto per godersi il sole.
Rivalità è un termine utilizzato per sintetizzare una sana competizione tra controparti, pronte a sfidarsi per la conquista di un titolo o semplicemente della gloria, pur rimanendo in una logica di rispetto reciproco e lealtà. Marcelo Gallardo sembra esulare dal contesto, perché i suoi limiti caratteriali
rappresentano un freno al grande talento di cui dispone. Terminata la propria carriera, che non si è conclusa con la maglia della squadra del cuore, starà probabilmente meditando sulle occasioni mancate e sugli errori commessi.
El Muñeco, chiamato così per via del fisico non proprio longilineo, ha pagato probabilmente lo scotto di essere presto considerato il principale erede di Maradona. Seppur la tecnica sia sopraffina, specie nei calci piazzati, un Millonario non potrà mai raccogliere il testimone del fenomenale Diego. Gallardo si è macchiato di diversi episodi al limite del regolamento, vivendo il Superclásico come una sorta di sfida tra se e i rivali, spinto da un odio viscerale verso gli avversari e che purtroppo travalica i confini sportivi. Come quella volta alla Bombonera, Copa Libertadores 2004, protagonista di un graffio al volto del povero Pato Abbondanzieri, reo semplicemente di indossare la casacca più ambita al mondo.
Un altro giocatore off-limits è senza dubbio Antonio Barijho, uno cui basta vedere una maglia millonaria per mandare in ebollizione il sangue. L’odio è proseguito una volta terminata l’esperienza al Boca Juniors, tra l’altro ricca di reti decisive alcune delle quali proprio ai rivali concittadini. El Chipi sta ultimando una carriera che l’ha portato a calcare notevoli terreni, pur non entrando nell’olimpo dei grandi attaccanti argentini, e non ha mai militato nella Selección. Eppure è una punta di talento, completa, un po’ troppo aggressiva. Barijho ha militato anche nel Banfiled, e dopo la sua sostituzione in occasione di una sfida al Monumental nel 2006 si è rivolto ai tifosi di casa, facendo capire loro che nel suo cuore c’è la “camiseta azul y oro”. Per questo lo apprezzo.
26 marzo 2006, Campionato Clausura, Stadio Alberto Jacinto Armando detto “La Bombonera”. La partita sembra incanalarsi verso una vittoria del River Plate, che conduce per 1-0 grazie alla splendida rete di Ernesto Farías nel primo tempo. El Tecla, dopo aver eluso la marcatura dell’avversario grazie ad una veronica ben eseguita, calciava in porta con un preciso tiro all’incrocio dei pali. L’espulsione di Abbondanzieri e del Tucumano Krupoviesa sembrava aver complicato in maniera irreparabile i piani tattici di Alfio Basile, che forse in quel
preciso istante pensava già al successivo incontro.
Abbondanzieri, Ibarra, Silvestre, Diaz, Krupoviesa, Ledesma, Gago, Bilos, Insua, Palermo, Palacio. El equipo de memoria. Una formazione che si ricorda “a memoria”, come mnemonico è il gioco impostato dal Coco, fatto di possesso palla e dominio territoriale tale da esaltare la creatività degli avanti boquensi. Una squadra cui manca solo una Libertadores per dire di essere stata grande, ma che è tornata sul tetto del mondo per numero di trofei internazionali vinti. Una compagine troppo forte perché possa subire una sconfitta casalinga, per giunta ad opera del modesto River di arella. Sulla panchina del Boca era seduto colui che poteva cambiare quel match: Guillermo Barros Schelotto.
El Mellizo, che deve il soprannome alla parziale condivisione della propria carriera calcistica col gemello Gustavo, è il giocatore argentino più titolato. Membro storico del “Boca de oro” di Carlos Bianchi, ha incantato gli apionati con giocate rapide basate su una tecnica sopraffina, risultando spesso decisivo nell’arco dei match più importanti. Giunto ormai nella parabola discendente del proprio percorso sportivo, Guille ha saputo accettare il ruolo di “riserva di lusso”, in grado di cambiare il volto della squadra a partita in corso. Sempre con il canonico numero 7 sulle spalle, stava spendendo gli ultimi scampoli di carriera con la maglia azul y oro, prima dell’esilio dorato nell’inguardabile MLS americana. Anche quel giorno alla Bombonera, quando mancavano una manciata di minuti al triplice fischio finale, Schelotto era pronto a subentrare a Daniel Bilos. La 12 riprendeva a incitare i beniamini con maggior vigore.
Mancano due minuti al termine della partita, e al limite dell’area spiove un traversone lungo, che viene abilmente addomesticato da Guillermo dopo un rimpallo. Il grande giocatore, abituato a questi momenti topici, sa che potrebbe essere l’ultima occasione dell’incontro. Se all’esperienza riesci a unire una tecnica sopraffina, oltre alla personalità che contraddistingue i vincitori di trofei prestigiosi, ti viene tutto con estrema naturalezza. Consapevole di ciò, in un fazzoletto di terreno El Mellizo salta due uomini ed entra in area, di fronte a lui
si pone un terzo difensore che lo porta sull’esterno e sembra precludergli la buona riuscita dell’azione. Tecnica e fantasia significano anche imprevedibilità: Guillermo con una mossa improvvisa aggira Julio César Cáceres, detto El Emperador per la grande personalità nel dirigere il pacchetto arretrato, il quale non può sottrarre la gamba ormai distesa e provocare un evidente fallo da rigore. I giocatori millionari protestano, contestando una certa generosità nel concedere il penalty, ma farebbero bene a inchinarsi alla classe del Gemello. Trasforma Martin Palermo, che spiazza German Lux e regala al Boca Juniors un prezioso pareggio. Il club xeneize vincerà il Clausura 2006.
La simpatia e ammirazione personale per il Boca Juniors non è da considerare un tifo esagitato e monodirezionale. Amo in realtà tutto il movimento calcistico argentino, assisto piacevolmente all’ascesa di club emergenti e al consolidamento di una realtà quale l’Estudiantes de La Plata. Certo, gioisco per le disgrazie sportive del River Plate, ma sono pronto a riconoscere l’indiscutibile talento dei tanti campioni che hanno vestito la maglia biancorossa. Il giocatore millionario che ho apprezzato maggiormente è Enzo scoli, detto El Principe per lo stile unico nel muoversi in campo, uruguayano di nascita ma gallina d’adozione. Enzo non è stato un autentico rifinitore, ma un “nove e mezzo” capace di costruire e finalizzare, grazie alla tecnica sopraffina e all’innato fiuto del goal. Egli ha militato anche in attraenti squadre europee, ma il suo habitat naturale è sempre stato il club di Buenos Aires, con cui ha chiuso la carriera nel 1997. El Principe è stato inoltre fantastico condottiero della propria nazionale, con cui ha conquistato tre edizioni della Copa America, portandola a livelli che ora sembrano assolutamente improponibili.
Ultimamente mi ha molto colpito la storia di Diego Buonanotte, potenziale fuoriclasse in procinto di trasferirsi a qualche prestigioso club europeo a suon di milioni. Molto piccolo e gracile, il Nano è l’esempio tipico del giocatore tutto tecnica, fantasia e imprevedibilità. Utilizza solo il sinistro, ma lo fa con la naturalezza dei grandi campioni; giostra su tutto il fronte d’attacco rifornendo i compagni con assist millimetrici, cerca sempre la conclusione a effetto per ingannare il portiere con astuzia. Buonanotte ha esordito in Primera División all’età di diciotto anni, arrivando a vincere il Clausura 2008 appena ventenne.
Nella storia del Superclásico è scritto anche il nome di Diego Buonanotte, e memorabile rimane il tunnel con cui ridicolizza l’esterno boquense Neri Cardozo nel 2007, allo stadio Monumental. Il giocatore si era già rivelato in precedenza, con uno splendido goal al Rosario Central. Sfruttando la vetrina che il Superclásico offre a ogni giocatore, in altre parole la possibilità di mostrare le proprie qualità in mondovisione, il Nano si offre al palcoscenico internazionale come nuovo fenomeno emergente.
Diego ha rischiato di chiudere la propria carriera prima ancora di costruirla. Con un incidente stradale le cui cause sono ancora da accertare, in cui sono tragicamente morti i tre compagni di viaggio, Buonanotte ha subito fratture che non gli hanno impedito di proseguire col sogno di affermarsi come campione sportivo. E’ tornato in campo quattro mesi dopo il terribile evento, che dalle ricostruzioni operate pare aver causato il giocatore stesso con una velocità elevata, ed ha ripreso subito a segnare. Sarebbe opportuno che il giocatore pagasse il proprio debito con la giustizia, qualora le responsabilità fossero confermate, perché nessuno riporterà in vita le vittime di quell’incidente. Ma Diego una sfida l’ha già vinta: il ritorno sul terreno di gioco, per svolgere il proprio lavoro.
Ho un amico di nome Pietro, il quale è una persona priva di eccessi, salvo qualche bicchiere di troppo il sabato sera. Egli potrebbe fare la sua onesta figura nel calcio britannico, dato il fisico statuario che lo rende particolarmente temibile sui palloni alti, ma anche per l’abilità nell’involarsi verso le birrerie al termine delle partite. Il mio amico è un impiegato del settore paghe, e pratica il calcio a livello amatoriale, nel ruolo di attaccante. Pietro ama le belle donne, tanto da garantirsi il soprannome di Pulpo, come a rilevare che la propria abilità realizzativa non è solo circoscritta al terreno di gioco.
Inoltre Pietro mostra una leggera somiglianza con un altro famoso “polipo”, ovvero Silvio Gonzalez, giocatore davvero tentacolare all’interno dell’area di rigore. El Pulpo González ha militato in molte squadre argentine ed europee, ma
non ha mai avuto l’onore di giocare un Superclásico, perché salvo una piccola parentesi con il San Lorenzo non ha mai militato nelle Cinque Grandi.
Pulpo Pietro e Pulpo Silvio, il bomber di periferia e l’attaccante di professione, storie differenti accomunate dallo stesso soprannome. Due calciatori che non hanno mai avuto l’onore di giocare un Superclásico, e che forse mai lo faranno.
Parafrasando la teoria evoluzionistica delle specie viventi posso affermare che la mia ione per il calcio è nata seguendo gli incontri della squadra per cui tifavo (Milan), si è evoluta allargando il cerchio a tutto il panorama calcistico italiano, e poi tramite un processo di selezione naturale si è orientata verso alcuni campionati europei e soprattutto latino-americani. Il Milan ha rappresentato quindi la “prima volta”, quella che non si scorda mai, e dopo aver “amoreggiato” con l’intero panorama calcistico mondiale mi sono “innamorato” del Sudamerica. Dopo aver superato la fase idilliaca, che come nei rapporti di coppia è sostanzialmente biennale, complici gli impegni lavorativi ed extra ho raggiunto una mia stabilità. Ogni settimana non posso perdermi la partita “di cartello” della Primera División, che di solito faccio coincidere con la domenica sera. Il poco tempo libero a disposizione m’impedisce di documentarmi a fondo sulle cronache settimanali del campionato, limitandomi alle consuete panoramiche settimanali. Seguo con altrettanta ione, ma non con eguale assiduità, le evoluzioni calcistiche di Brasile e altri stati del continente. Senza omettere le competizioni continentali, specialmente le fasi finali di Libertadores, che oltre alle emozioni provocano l’effetto collaterale della sonnolenza il giorno successivo.
La profonda ammirazione per il popolo sudamericano, che dopo anni di ingerenza statunitense è tornato a rialzare la testa, rende ancor più piacevole e apionata la visione di questi campionati. Il Superclásico produce un fascino particolare che nemmeno il Clasico di Spagna racchiude, ed è forse il calore e la ione del pubblico a caratterizzarlo, oltre alla bravura degli interpreti sul campo. Un freddo televisore, o personal computer, non è in grado di trasmettere appieno le emozioni di questa partita, simbolo di un movimento calcistico senza
eguali. Il sottoscritto ha terminato lo scorso anno una carriera calcistica modesta, nell’arco della quale non ha partecipato sul campo ad alcun Superclásico. Riuscirò a beneficiare della gioia di vederne uno dal vivo, sulla gradinata della Bombonera, sorseggiando una famosa birra prodotta a 17km di distanza dalla capitale?
Il Tempio del Calcio
Attraverso il calcio è possibile studiare la storia dei popoli e delle nazioni. L’apionato curioso e assetato di informazione ama documentarsi ogniqualvolta due squadre di città differenti si sfidano, per approfondire la propria conoscenza in materia di geografia. Gli incontri internazionali possono essere occasioni per mettere a frutto le competenze linguistiche, mai così necessarie come ai giorni nostri. Il gioco del pallone, se analizzato in maniera più profonda rispetto alla fredda cronaca delle partite, è sinonimo di cultura e non potrebbe essere altrimenti, in quanto forma di spettacolo che genera partecipazione emotiva.
Lo stadio, inteso come luogo in cui si svolgono le manifestazioni sportive, contribuisce pertanto alla diffusione di tale forma di espressione e, per la propria funzione socializzante, è da intendersi come luogo di aggregazione. Punto di partenza e talvolta di arrivo di celebri architetti, l’impianto sportivo affonda le sue radici nell’Antica Grecia, da cui deriva il termine stadion, una misura pari a circa 200 metri che viene percorsa nelle prime edizioni dei giochi Olimpici. Ogni struttura sportiva è un contenitore di ricordi, emozioni, tradizioni e aneddoti; questo capitolo sarà un compendio di storie degne di essere raccontate.
Il cantautore Roberto Vecchioni, nei primissimi anni ‘70, incideva una canzone destinata a entrare nella storia della musica italiana. “Luci a San Siro di quella sera, che c’è di strano siamo stati tutti là, ricordi il gioco dentro la nebbia? Tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là” sono alcuni dei versi della splendida “Luci a San Siro”, il manifesto di un amore abbandonato per inseguire il successo, poi rimpianto dall’autore nostalgico dei tempi che furono. Dalle note di questa canzone non traspare l’arcinota ione di Vecchioni per l’Inter F.C., unico “difetto” di un artista che nel tempo ha saputo conquistare il pubblico con testi raffinati e carichi di significato, abbracciando tematiche quali l’amore, la politica e la letteratura, rimanendo fedele ai propri ideali. Anche il buon Roberto, dall’alto della propria intelligenza, ammetterà un giorno che il contributo offerto
dai nerazzurri alla storia del calcio mondiale, in termini di trofei vinti e di gioco espresso nel corso degli anni, non è lontanamente paragonabile a quello dei “cugini” rossoneri, i quali si contendono con gli argentini del Boca Juniors il primato dei titoli conseguiti a livello internazionale.
Eppure c’è anche il Biscione nella storia della Scala del Calcio, un impianto antico ma sempre moderno, denso di ricordi che la fitta nebbia meneghina non può offuscare, un’opera che nel tempo ha subito trasformazioni anche radicali, senza però perdere il fascino originario. Uno stadio che rischia di essere svuotato del proprio prestigio acquisito nei decenni, complice la volontà dei due club beneficiari di porre fine alla propria convivenza, perché il dio denaro comanda così e nel calcio moderno non vi si può opporre. Dopotutto Milan e Inter non si intendono nemmeno sulla denominazione della struttura: San Siro per i rossoneri, ovvero il quartiere milanese ove è costruito, Giuseppe Meazza per i secondi, l’intitolazione ufficiale dal 1980. Non se la prendano gli economisti che popolano da qualche tempo il mondo del calcio, ma sarebbe un sacrilegio perdere un simile museo dello sport, anche solo per un fine settimana ogni due: luci a San Siro devono sempre essere accese.
Costruito nel 1925 in una prima versione profondamente diversa da quella attuale, lo Stadio Meazza ospita inizialmente le partite dei diavoli milanisti. La sua cessione al Comune porta i rivali cittadini, che disputano gli incontri casalinghi all’Arena Civica, a trasferirsi nell’impianto, il quale nel frattempo vede aprirsi una lunga serie di lavori di ampliamento portandolo all’attuale conformazione su tre anelli e undici torri a forma di spirale. Gli oltre 80.000 posti a sedere fanno di San Siro uno degli stadi più capienti d’Europa, come del resto uno dei più suggestivi.
A renderlo invece uno dei templi del fútbol planetario ci pensano i fantastici interpreti che in quasi un secolo di storia hanno calcato questo terreno di gioco, il quale vanta l’invidiabile record di aver ospitato due edizioni mondiali, una rassegna europea e tre finali di Coppa Campioni. “Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che
incuteremo agli avversari” diceva il primo allenatore (e giocatore) della storia rossonera, Herbert Kilpin. I suoi successori lo seguirono fedelmente, specialmente dall’immediato secondo dopoguerra, aprendo una strada di successi che dura ancora oggi, fatta di campioni conclamati e giovani in rampa di lancio. Il trio svedese Gre-No-Li, la classe di Schiaffino, l’accoppiata RoccoRivera, la fedeltà di Franco Baresi, il calcio totale di Arrigo Sacchi, il terzetto olandese, il pragmatismo degli Invincibili di Capello, il fiuto del gol di Andriy Shevchenko, la dinastia dei Maldini: istantanee che non bastano a sintetizzare sessant’anni di trionfi, ma riescono comunque a rendere l’idea del patrimonio che questi colori, oggettivamente, hanno offerto all’intero movimento sportivo.
L’Internazionale può vantare però, rispetto agli odiati cugini, un invidiabile successo. Non parlo della tanto sbandierata perpetua permanenza nella massima serie italiana, ma della Coppa Campioni 1964/65 vinta tra le mura amiche, contro il Benfica della Perla Nera del Mozambico Eusébio, grazie alla rete dell’ala destra brasiliana Jair. Un successo che si somma al trionfo dell’anno precedente al Prater di Vienna e che consolida, pur con qualche critica sullo stile di gioco, il mito della Grande Inter di Angelo Moratti.
La forma squadrata cui si addossano le torri rende San Siro, pardon il Giuseppe Meazza, una fortezza che ha consentito alle squadre casalinghe di conseguire importanti trofei, ma che nel corso della storia calcistica è stata espugnata, con orgoglio, anche da squadre meno blasonate. E’ uno dei motivi per cui questo celebre impianto deve sopravvivere agli stimoli commerciali dello sportindustria di questo millennio. Luci a San Siro di quella sera, che c’è di strano siamo stati tutti là, ricordi il gioco dentro la nebbia? Tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là.
Il 23 luglio 1995 si disputa la finalissima della Copa América, giunta alla sua trentasettesima edizione. A contendersi il massimo trofeo latino-americano per nazionali sono il Brasile, trascinato dalle reti di Tulio Maravilha, e i padroni di casa dell’Uruguay, un gruppo affiatato ed elevato a potenza dalla classe cristallina di Enzo scoli. I favoriti della vigilia partono forte e ano
proprio grazie al calciatore goiano, ma non fanno i conti con Pablo Bengoechea, la cui classe è nota a tutti fuorché all’allenatore Nuñez, che lo utilizza con il contagocce. Calcio di punizione dal limite, El Profe disegna una parabola mirabile che il portiere verdeoro Taffarel può solo guardare, un perfetto colpo di biliardo che spinge le due squadre ai calci di rigore. I giocatori in maglia celeste si rivelano cecchini infallibili dal dischetto, mentre non può dirsi lo stesso per i brasiliani: l’Uruguay conquista per la quattordicesima volta la Coppa America. Si tratta della quarta finale vinta, su altrettante disputate, al Centenario di Montevideo, uno stadio che per l’ennesima volta si rivela roccaforte della nazionale, forse un amuleto.
La storia del Centenario inizia molti anni prima e affonda le proprie radici nelle lotte per l’indipendenza nazionale. Quando il generale José Gervasio Artigas organizza la rivolta contro gli spagnoli, apre la strada verso la costruzione di uno stato uruguayano, che avrà compimento solo dopo una guerra sanguinosa contro gli invasori brasiliani. Il 18 luglio 1830 viene emanata la prima Costituzione della Repubblica Uruguayana, cui seguono lotte intestine tra Blancos e Colorados, con il successivo consolidamento di questi ultimi al potere.
In ambito calcistico gli uruguayani dominano i primi anni del secolo, tanto da assicurarsi l’organizzazione della prima edizione dei mondiali di calcio. Nasce l’esigenza di un impianto sportivo in grado di ospitare i grandi eventi e l’architetto Juan Antonio Scasso, accettando di partecipare a questa folle corsa contro il tempo, progetta e dirige i lavori per la costruzione di questo stadio, dedicato al centesimo anno dalla promulgazione della Costituzione, Centenario appunto. Le piogge torrenziali, che nei mesi antecedenti il mondiale si abbattono sulla nazione, non interrompono l’eroico lavoro di centinaia di operai, ma lo limitano in parte: la gara inaugurale tra Francia e Messico viene disputata nel piccolo Estadio Pocitos, ai tempi casa del Peñarol, davanti a un migliaio di spettatori. L’opera di Scasso è invece pronta per l’esordio dei casalinghi, contro l’ostico Perù, primo successo che apre la strada a una cavalcata trionfale che si finirà il 30 luglio, contro l’Argentina sempre al Centenario. La Celeste è la prima nazionale Campione del Mondo.
Da quel momento il monumentale impianto di Montevideo, con i suoi 80.000 posti, diventa baluardo quasi esclusivo della nazionale. Forse è quella forma ellittica, con quelle quattro sezioni distinte e dedicate alle imprese della nazionale fino al 1930, oppure è il calore sprigionato dall’apionato popolo uruguagio, raccoltosi nella capitale per sostenere i propri beniamini, a incutere timore negli avversari. La forza dei numeri è inesorabile: in Copa América mai nessuno ha vinto qui.
Probabilmente è questo potere “magico” a indurre la Federazione, nel corso degli anni, ad adibire lo stadio unicamente agli incontri della Celeste, concedendolo di fatto solo sporadicamente alle squadre di club della capitale. La storia del Centenario si interseca comunque con i trionfi del Nacional e del Peñarol, i principali club della capitale, che usufruiscono del prestigioso impianto negli incontri di cartello del campionato e della Copa Libertadores, competizione cui sono storicamente abbonate. Particolare rilievo assume la sfida tra le due compagini, il Superclásico di Montevideo, che difficilmente potrebbe disputarsi su un terreno diverso dalla gloriosa arena, vista la sempre elevata richiesta di biglietti.
Tricolores e Carboneros, campioni e comprimari, la Celeste come punto fermo. Un filo conduttore che unisce Nasazzi e Martinuccio, in una linea ideale che traccia il perimetro del Centenario, chiudendosi nuovamente con l’immagine del glorioso capitano del 1930. Il “Tempio del Calcio” secondo Jules Rimet, un “Monumento del calcio mondiale” lo proclama nel 1983 la FIFA: basterebbe ciò per descrivere questo impianto a chi non lo ha mai vissuto, me compreso. Anche se l’immagine ideale per rappresentarlo è l’esultanza di Pablo Bengoechea, detto El Profe, dal 1995 nuovo eroe nazionale al fianco di Artigas.
C’è un bel sole in questo pomeriggio di primavera targato 2001. L’atmosfera del Prater è per noi, giovani studenti lecchesi alla scoperta di Vienna, tanto intrigante quanto eccitante, ammaliati come siamo dalla ruota panoramica Riesenrad. Una rapida sosta per acquistare il consueto gadget da destinare ai genitori, come a rimarcare la nostra uscita dalle mura domestiche, poi è il tempo di dirigerci alla
pista di go-kart, teatro di scherzi e goliardia collettiva. Forse è opportuno sfruttare al meglio il caldo e la luce del giorno, dirigendoci verso i prati che potrebbero trasformarsi in terreno di gioco, o meglio di battaglia, tra le opposte fazioni degli studenti della lingua se e della lingua inglese. Ancor più intelligente sarebbe aggregare due curiosi ragazzi marocchini seduti sulle panchine, che lanciano occhiate e sorrisi in attesa di una nostra chiamata, la quale potrebbe spalancare loro le porte dell’olimpo del grande calcio. La parità numerica è stabilita, l’arbitro immaginario fischia l’inizio dell’incontro, si parte.
L’esito dell’incontro ve lo lascio immaginare. Troppo schiacciante è la supremazia di se in ogni settore del campo, ho l’onore di guidare una difesa davvero imperforabile, caposaldo di una squadra che non ha eguali nel nostro istituto tecnico. Ma sono gli abbracci e le fotografie conclusivi a testimoniare che, dopotutto, questa partita l’abbiamo vinta tutti quanti, giocando come dei forsennati e divertendoci come dei matti. E’ questa la vera essenza del calcio, un gruppo di persone senza età che tira calci a un pallone, considerando il risultato come un semplice corollario o, meglio ancora, un appiglio per gli sfottò della giornata. Sono immagini dall’incantevole e raffinata Vienna, ancor più bella se baciata dalla primavera. Istantanee a pochi i dall’Ernst Happel Stadion, uno dei templi del calcio mitteleuropeo.
Il Milan di Alberto Zaccheroni, nell’affannosa ricerca di un posto tra le migliori squadre d’Europa, schianta contro il Deportivo La Coruña di Irureta e rende la propria stagione anonima. E’ una panenka del brasiliano Djalminha a decretare l’allontanamento dell’allenatore romagnolo dalla panchina rossonera, ponendo fine a un’improbabile coesistenza con il despota Silvio Berlusconi. A vincere quella edizione della Coppa Campioni, scialba tanto quanto la finalissima, sarà il Bayern Monaco del redivivo Stefan Effenberg.
In quel pomeriggio viennese, accompagnato dalle note soavi di Mozart, non è a Zaccheroni che penso; stranamente quel giorno Berlusconi non è il bersaglio preferito delle mie critiche, nonostante la notizia dell’epico scontro televisivo con Michele Santoro abbia rapidamente raggiunto il Palazzo di Schönbrunn.
Indosso una tuta ginnica piuttosto leggera, ma è come se portassi la gloriosa casacca del Rapid Vienna, il numero è il 10 del montenegrino Dejan Savićević. Mi sento un po’ Trifon Ivanov nel comandare il reparto difensivo, come il bulgaro sento il desiderio di spingermi in avanti, provando la conclusione di forza. E’ al talentuoso Andreas Herzog che mi ispiro all’altezza della zona nevralgica del campo, cercando lo spiraglio utile per servire le punte. Se Johann K Hans Krankl è irraggiungibile per chiunque, mi accontento di emulare le gesta dell’ex torinista Toni Polster nella fase conclusiva, anche se il colpo di testa e il calcio di sinistro non rappresentano i pezzi forti del mio bagaglio sportivo.
Il Prater-Stadion, terreno di gioco della nazionale austriaca e della finalissima di ÖFB-Cup, è uno stadio storico ma al contempo moderno, in quanto è stato di recente ristrutturato. L’impianto è un gioiello prezioso da esporre in campo internazionale, ospitando l’Europeo 2008 e alcune finali delle coppe continentali per club. Negli spogliatoi di questa struttura, dedicata al personaggio che forse più di ogni altro ha contrassegnato la storia del proprio paese, si sono cambiati giocatori del calibro di Mazzola e Di Stefano. Nel rettangolo verde Frank Rijkaard trafigge la difesa a zona del Benfica di Eriksson, Rabah Madjer si rivela al mondo come il Tacco di Allah e Patrick Kluivert riesce nell’impresa impossibile di girare la maglietta senza togliersela. La Spagna apre il ciclo vincente grazie alla vena realizzativa del Niño Torres, i campioni del Football Americano se le danno di santa ragione e il compianto Michael Jackson canta e balla sulle note di Billie Jean. Sono pronto a giurare che questo delizioso stadio potrà ospitare mille altri eventi degni di nota, tanto quanto le apionanti partite nel vicino parco pubblico, a pochi i dal maestoso Danubio.
Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé, è stato secondo molti il giocatore più forte della storia del calcio. Particolarmente sensibile all’odore inebriante del denaro, è in seguito diventato dirigente sportivo e persino ministro. Forse Pelé è il calciatore più completo sino ad ora visto su un campo di pallone, non si ha il minimo dubbio sulla maggiore varietà di colpi rispetto a Maradona, ma la classe, l’estro e il carisma del Pibe de Oro rimangono ineguagliabili da chiunque. In fondo, è lecito chiedersi, cosa ne sarebbe stato dei vari Di Stéfano, Puskas e Masopust se avessero militato in quella Seleção stellare?
Pelé vanta però un record ineguagliabile: è riuscito a farsi dedicare una targa per aver realizzato il gol più bello dell’epoca. E’ il 5 marzo 1961 allo stadio Maracanã, poi Estádio Jornalista Mário Filho, che quel giorno ospita la sfida tra Fluminense e Santos. Il giovane ma già affermato attaccante della nazionale decide di lasciare il proprio segno sull’incontro, affrontando in solitaria l’arrendevole difesa del Flu, e grazie a una superba serpentina si ritrova ad appoggiare il pallone nella porta sguarnita. E’ il Gol de placa, o meglio lo diventerà successivamente, quando gli addetti allo stadio appenderanno una targa di bronzo, commemorativa della rete più bella della storia dello stadio carioca.
Dopo questo indicativo episodio, in Brasile, ogni meritevole realizzazione per opera di un calciatore è ribattezzata con il termine anzidetto. Anche in Italia, dopotutto, parliamo di “rete da incorniciare”. Tante realizzazioni si sono susseguite nel monumentale impianto sportivo brasiliano, alcune forse più belle del gol de placa di O Rei, magari meritevoli di ben più celebrative targhe, ma solamente immortalate da una semplice istantanea. Di memorabile però c’è quel Santos, capace di far incetta di campionati statali, Taças Brasil (il campionato brasiliano ancora non è nato), Coppe Libertadores e Coppe Intercontinentali, sfornando Campioni del Mondo e offrendo futebol superlativo anche al di fuori di Vila Belmiro. Senza i vari Coutinho, Pepe e Zito, avremmo potuto parlare di gol de placa?
La storia dello stadio Maracana, chiamato così in onore del fiume che scorre nel quartiere che lo ospita, inizia però qualche anno prima, assumendo i caratteri della tragedia. E’ l’anno dei Mondiale 1950, quello che deve eleggere ad ogni costo “Brasil campeão”, nonostante gli avversari non siano certo da sottovalutare. Non sorprendono, dopotutto, i caroselli improvvisati dai tifosi verdeoro e le prime pagine trionfanti dei quotidiani, poche ore prima dell’incontro conclusivo; la squadra di Flavio Costa appare semplicemente imbattibile, dalla sua ha soprattutto questo impianto monumentale, inaugurato proprio in occasione di questa rassegna.
Quasi 200.000 apionati sono pronti a omaggiare i futuri campioni del mondo sugli spalti, il calore che si percepisce è semplicemente indescrivibile, le istituzioni hanno già stabilito il cerimoniale di premiazione dei padroni di casa. Tra il Brasile e il suo primo titolo planetario c’è solo l’Uruguay campione 1930; basterebbe un pareggio, anche se l’esterno Friaça appare deciso ad aprire la goleada: è 1-0. La torcida esplode di felicità, Jules Rimet scrive il discorso di congratulazioni e in pochi si accorgono che il capitano celeste Obdulio Varela carica i suoi compagni esortandoli a non mollare. E’ la svolta dell’incontro, perché gli uruguayani proseguono con il loro gioco ordinato, raggiungendo prima il pareggio con il leggendario Pepe Schiaffino e, approfittando dell’imbarazzante crollo psicologico dei casalinghi, siglando il 2-1 con il futuro romanista Alcides Ghiggia. È il Maracanazo.
Al fischio finale dell’incontro, quel 16 luglio, seguiranno lacrime, fughe, crisi depressive, infarti e persino suicidi. Il titolo di capro espiatorio della tragedia, non solo sportiva, sarà attribuito a uno dei più forti portieri brasiliani di sempre, Moacir Barbosa. La stampa locale descriverà l’evento in termini a dir poco catastrofici, richiamando gli eventi bellici di Hiroshima. Il Brasile impiegherà otto lunghissimi anni prima di rialzare la testa e vincere il suo primo mondiale, in Svezia, grazie anche a un giovanissimo Pelé.
All’Estádio Jornalista Mário Filho si alterneranno gioie e dolori, attimi di grande calcio e superbe performance musicali, oltre al raccoglimento spirituale in occasione delle visite di Giovanni Paolo II. L’impianto sarà ristrutturato subendo una riduzione considerevole della capienza; ciò non inficerà sulla bellezza e sulla rilevanza storica dello stesso, fonte inesauribile di calore. Dopotutto, solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã con un solo gesto: Frank Sinatra, il Papa e Alcides Ghiggia³.
Entrare al Santiago Bernabéu è molto semplice nei giorni nostri. Basta avere un po’ di soldi e la volontà di visitare l’incantevole Madrid, prendere un volo per la Castiglia e pagare il biglietto di ingresso. Si affronta un percorso guidato che
parte dalle tribune, a per le panchine e gli spogliatoi, poi termina nel museo dedicato al glorioso club della capitale, che racchiude i cimeli di una storia all’insegna del successo e del prestigio internazionale. E’ questa la logica di un calcio professionistico ormai convertitosi al marketing estremo, che offre la possibilità di avvicinarsi nella maniera più artefatta ai propri idoli, tanto simile a quel giochetto capitalista che ci induce a pensare di essere tutti uguali solo per il fatto di poter acquistare, senza distinzione di classe, gli stessi prodotti nei punti vendita.
Per giocare al Bernabéu devi essere bravo, meglio se a ciò unisci un gradevole aspetto esteriore, anche se qualche tempo fa dovevi necessariamente essere un campione. Nella squadra che domina la Spagna e l’Europa nella seconda metà degli anni Cinquanta militano infatti Alfredo di Stéfano, Ferenc Puskas, Francisco Gento e Raymond Kopa, ovvero quanto di meglio si possa chiedere al gioco del pallone. Le vittorie arrivano con estrema facilità e abbondanza, come del resto l’incondizionato appoggio del Generalissimo Francisco Franco, il dittatore che ama il calcio a tal punto da considerarlo un’ottima vetrina per il proprio regime. Non sono casuali i buoni rapporti che intercorrono tra il Caudillo di Spagna e il presidente madrilista Santiago Bernabéu, colui al quale viene intitolato il monumentale impianto madrileno, vista e considerata la devozione del secondo alle forze reazionarie nella Guerra Civile conclusasi nel 1939. I numeri ci parlano di 71 trofei vinti da parte del Presidentissimo, qualcosa di mostruoso, ma non smetterò mai di pensare che il fine non giustifica i mezzi.
Il Nuovo Stadio Chamartin, poi Bernabéu, viene inaugurato nel 1947 manifestandosi da subito come una delle più grandi strutture europee. L’impianto offrirà gioie per i colori azzurri nel 1982, con la sorprendente vittoria del Campionato Mondiale ai danni della Germania Ovest di Breitner, a conclusione di un cammino in crescendo e iniziato nel peggiore dei modi. Nel 2010 la ricca Madrid si rivestirà dei colori neri e azzurri, a celebrare la vittoria interista sul Bayern Monaco di Louis van Gaal, degna conclusione di una deludente edizione della Champions League. Quando solleva la coppa con le orecchie, l’allenatore interista José Mourinho, il profeta dell’anticalcio, conosce già il proprio futuro: fermarsi al Bernabéu e provare a scrivere, con la spocchia che gli compete, la storia delle meringhe.
Il gioco di colori, in quella calda serata madrilena, assume i colori della rivincita. Rare volte l’Inter ha gioito nella fabbrica dei sogni, negli anni ‘80 è spesso uscita con le ossa rotte. Chiedere informazioni in merito a Carlos Alonso González, in arte Santillana, degno erede di Amancio Amaro e autore di ben sei reti in quattro confronti con i nerazzurri. Quando l’impeccabile colpitore di testa invecchia, pur non facendo mancare il proprio nome nei tabellini, esplode la fenomenale Quinta del Buitre, un gruppo di cinque ragazzini talentuosi e sbarbati pronti ad approdare alla prima squadra dal Castilla. Manolo Sanchís è un carismatico difensore figlio d’arte, Martin Vazquéz un centrocampista ambizioso e di talento, Miguel Pardeza un attaccante intelligente, Míchel una mezz’ala elegante e dallo spiccato senso del gol, Emilio Butragueño semplicemente l’Avvoltoio che colpisce le difese avversarie con un repertorio di colpi apparentemente senza mancanze. Una delle squadre più forti di ogni tempo paga il dazio di non aver mai conquistato la Coppa dei Campioni, nonostante i sei titoli nazionali e le due Uefa in bacheca, un patrimonio di talenti inestimabile che si ferma a pochi i dalla gloria in più di un’occasione, cedendo definitivamente il testimone nel 1989 all’incantevole Milan di Arrigo Sacchi.
Il Bernabéu è lo stadio del “miedo escenico”, come esemplarmente definita da Jorge Valdano quella sorta di paura che avvolge gli avversari sul terreno di gioco, che da vita a quella legge che rende impossibile ogni impresa al Buitre e compagni. Ma è anche l’impianto che esalta la classe di Redondo, il fiuto del gol di Raúl, l’eleganza di Zidane e i guantoni di Casillas, in un trait d’union che ci conduce ai giorni nostri e si dirige in un futuro che mieterà comunque successi, come da tradizione.
Sono trascorsi più di quarant’anni da quando il formale telecronista Nando Martellini, in preda a un entusiasmo inaspettato, comunicava: “Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani”. Gianni Rivera, troppo remissivo sul palo in occasione del pareggio di Gerd Müller, decreta la vittoria azzurra sui favoriti tedeschi dell’ovest, con un colpo da biliardo frutto di precisione e freddezza. Dopo una battaglia nel segno dell’agonismo e dell’abbattimento di ogni logica tattica, dove non mancano gesti ai limiti dell’eroismo come il braccio fasciato
del Kaiser Beckenbauer, i ragazzi di Valcareggi si offrono così in pasto agli invincibili brasiliani di Zagallo, che gli faranno subire una delle sconfitte più nette e meritate della propria storia sportiva.
“El Estadio Azteca rinde homenaje a las selecciones de Italia (4) y Alemania (3) protagonistas, en el Mundial de 1970, del PARTIDO DEL SIGLO. 17 de junio de 1970” recita la targa commemorativa dell’incontro apposta sulle mura dello Stadio Azteca, a omaggiare quella che viene definita la partita del secolo, non senza infinite discussioni. Italia-Germania Ovest dei Mondiali 1970 è sicuramente una delle partite più interessanti, dal punto di vista emozionale, della storia del calcio professionistico; non va negato però che l’aspetto prettamente agonistico, uno degli elementi del gioco del pallone, abbia preso il sopravvento sulla tattica e sulla tecnica degli interpreti, che invece rimangono essenziali in uno sport che si affronta con i piedi e col cervello.
A distanza di soli sedici anni, nello stesso impianto sportivo, viene siglato il Gol del secolo, considerato tale da un sondaggio promosso dal sito internet della FIFA, di cui non ho alcuna ragione per contraddire. Dopo la Mano de Dios che rivendica la territorialità argentina delle Isole Malvinas, Diego Armando Maradona decide di entrare nella storia di questo meraviglioso sport con una serie di dribbling ubriacanti, lasciandosi alle spalle cinque avversari e il portiere Shilton, depositando la sfera nel sacco dopo una corsa di 60 metri.
La lotta senza esclusione di colpi, l’apoteosi dell’eleganza. I due differenti volti di un calcio che genera opinioni divergenti, racchiusi in uno stadio messicano dalle solide fondamenta precolombiane della civiltà Azteca. Il Coloso de Santa Úrsula, chiamato anche così per via dell’omonimo quartiere in cui sorge, è uno degli impianti calcistici più imponenti e moderni del pianeta, con i suoi oltre 115.000 posti a sedere che garantiscono ottima visibilità, grazie ad una struttura ellittica su tre anelli. Edificato in occasione della XIX Olimpiade, con l’incessante lavoro di numerosi tecnici e operai durato ben tre anni, l’Estadio Azteca si rivela agli apionati del gioco della sfera in occasione delle due ravvicinatissime rassegne mondiali ospitate, la seconda in sostituzione della
Colombia.
Il terreno di gioco è presto assegnato alla nazionale e alle aquile del Club América, che a onor del vero omaggeranno solo in parte la maestosità della struttura e, soprattutto, una storia fatta di illustri interpreti. La vittoria del Tricolor alla Confederations Cup 1999, contro i maestri brasiliani, offre lustro e visibilità a una squadra in ascesa, un popolo affamato di calcio e uno stadio in cerca di grandi appuntamenti, cui purtroppo segue una profonda incostanza nell’affermazione di un movimento calcistico comunque florido.
L’Azteca entra di diritto nel Gotha del Calcio Mondiale, non solo grazie a Rivera e Maradona, ma deve riconoscenza anche alle discese inarrestabili di Carlos Alberto Torres, il sinistro magico di Wolfgang Overath, la vena realizzativa di Gigi Riva, l’elevazione quasi divina di Pelé, i giganteschi guantoni di JeanMarie Pfaff, le rovesciate di Hugo Sanchez e Negrete, la grinta di José Luis Cuciuffo e il diagonale beffardo di Jorge Burru Burruchaga. Ma soprattutto deve ringraziare il vulcano Xitle e la sua antica eruzione, dalla quale vennero prelevate le rocce laviche necessarie per la sua edificazione.
Nel 1980 la Coppa Intercontinentale, disputata secondo la formula della duplice sfida di andata e ritorno, rischia irrimediabilmente di scomparire. Il trofeo, da sempre osteggiato da una FIFA gelosa dei propri interessi, registra nel tempo il calo d’interesse da parte delle compagini europee, che rinunciano talvolta alla partecipazione giustificandola con la difficoltà nel gestire le “intemperanze” dei calciatori sudamericani. La realtà, invece, parla di una sana paura di perdere. E’ evidente come i club europei, una volta sbarcati in America Latina, non trovino tappeti rossi stesi sul terreno di gioco. Ciò deve essere letto necessariamente in considerazione dei rapporti tra colonizzatori e post-colonizzati e, una partita di calcio, può rappresentare per le popolazioni locali una sorta di rivincita sul dominatore europeo.
Nel nome dell’interesse personale, un colosso automobilistico mondiale avanza
la propria offerta per rilevare i diritti della manifestazione, ponendo come conditio sine qua non la disputa del trofeo su gara unica, in Giappone. Uefa e Conmebol accettano di buon grado la proposta, che prevede l’assegnazione di una coppa accessoria all’attraente Intercontinentale, oltre alle chiavi di una rombante autovettura per il miglior giocatore in campo. Al National Stadium di Tokyo, il giorno 11 febbraio 1981 e con effetto eccezionalmente retroattivo, si disputa la prima edizione della Coppa in versione “griffata”, che vede contrapporsi il Nottingham Forest di Clough e gli uruguayani del Nacional, i quali conquistano il trofeo grazie alla superba prestazione di Waldemar Victorino.
Da quel momento e ininterrottamente sino al 2001, lo Stadio Olimpico della capitale giapponese ospiterà la manifestazione intercontinentale, che vedrà rivaleggiare i più grandi campioni del pianeta. Non me ne voglia il civilissimo ed entusiasta popolo nipponico, ma le emozioni calcistiche che il polifunzionale impianto di Tokyo saprà regalare nel corso degli anni saranno legate alla Coppa dei due continenti, facendo are in secondo piano le gesta eroiche della nazionale Samurai o l’impegno profuso dalle squadre locali per la conquista della Coppa dell’Imperatore. L’impianto, edificato in occasione dell’Olimpiade 1964, si presta all’esercizio di una pluralità di discipline, tanto da accogliere incontri di rugby e rassegne di atletica leggera. I quasi 60.000 posti a sedere schierati dietro la pista di atletica non garantiscono una visuale perfetta dell’incontro, ma l’entusiasmo del pubblico pagante rende questo stadio, per un giorno l’anno, la capitale mondiale del pallone. Piaccia o no, la storia di questo meraviglioso sport che ogni giorno andiamo a decantare a anche per questa struttura, posta all’interno di un’area geografica che, nonostante gli ingenti sforzi economici, non vanta una solida tradizione calcistica.
Uno degli idoli incontrastati del National Stadium è Arthur Antunes Coimbra in arte Zico, che grazie a una prestazione magistrale regala al Flamengo l’Intercontinentale 1981; i destini del Galinho e del calcio nipponico incroceranno a più riprese le loro strade, sia nelle vesti del fantastico giocatore, sia nei panni del competente allenatore. Il pubblico con gli occhi a mandorla vive la migliore edizione della Coppa, per livello tecnico e agonistico, nel 1985 con la sfida tra Juventus e Argentinos Jr: Platini e Scirea sconfiggeranno, dopo i
calci di rigori, la classe del trequartista sudamericano Claudio Borghi. Il 17 dicembre 1989 si disputa invece la “partita perfetta”, tra Milan e Nacional Medellin; le due squadre mostrano una condotta analoga in campo, come simile è la concezione del gioco dei due allenatori, i quali mai avrebbero accettato l’inferiorità della propria compagine rispetto all’altra, tale da giustificare una chiusura ermetica della difesa. Ne esce vincitrice la squadra di Sacchi, grazie a una punizione di Evani nei supplementari, che trafigge un Higuita non proprio incolpevole.
Se si eccettuano le performance sublimi di Raì, Cerezo e José Luis Chilavert, a dominare la scena negli anni novanta sono le compagini europee, forti di nuovi introiti garantiti dall’istituzione della Uefa Champions League. La riscossa argentina si consuma nel 2000 con il Boca Jr, che schianta il Real Madrid dei Galacticos grazie ad un Riquelme stratosferico, cui segue la pronta risposta europea con i tedeschi del Bayern Monaco. Nel 2002 la sede della manifestazione viene trasferita a Yokohama ed è il preludio all’abolizione di una sfida ultraquarantennale, nel 2005.
Con l’assurda decisione della FIFA di entrare a “gamba tesa” nella strutturazione dell’evento, senza peraltro mascherare il reale intento di cercare nuovo “sangue da succhiare”, la competizione è allargata alle rappresentanti di tutti i continenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: partite di livello mediocre sino alle semifinali, eccessivo divario tra calcio europeo/sudamericano e gli altri continenti, cancellazione di una storia fatta di epici scontri. Per la gioia del massimo organismo calcistico mondiale, che si assicura introiti da ogni angolo della terra, alle spalle di tifosi e apionati.
L’operazione commerciale che portò l’Intercontinentale a Tokio nel 1980, criticabile dai puristi come il sottoscritto, ebbe almeno il merito di “salvare” il torneo. Se il massimo organismo calcistico ha veramente a cuore le sorti dello sport più praticato al mondo, dovrebbe valorizzare lo spettacolo della duplice sfida Europa/Sudamerica, di cui personalmente auspico il ritorno, o in alternativa affidare la scelta della sede unica al sorteggio. Subordinare il calcio alla ricerca
di nuovi mercati è un’operazione che i veri cultori di questo sport non possono accettare, oggi più che mai, in un mondo che ha sempre più fame e non solo di fútbol. I petroldollari potranno acquistare miliardi di palloni, campioni in declino o terreni da edificare, ma non la vera essenza del gioco del calcio: bambini di ogni età che rincorrono la sfera, cercando di indirizzarla nella porta avversaria.
Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso. E’ questa una delle frasi più celebri ed espressive dell’immortale Nelson Mandela, un uomo di cui è possibile criticare l’operato come Presidente della Repubblica Sudafricana, ma il cui impegno per la libertà e l’uguaglianza del proprio popolo dovrebbe essere riconosciuto da tutti. Madiba è uno dei personaggi che maggiormente hanno contrassegnato la storia del pianeta nel XX secolo, con la sua fiera e convinta opposizione al regime dell’apartheid, orgoglio di quella maggioranza nera che ancora chiede libero accesso ai servizi sociali e piena uguaglianza sostanziale.
La segregazione razziale è primogenita del razzismo. Quest’ultimo, più che mai dilagante ai giorni nostri, è la riprova che l’ignoranza, intesa come mancato apprendimento degli errori del ato, può sfociare in un dramma dalle dimensioni epocali. La paura del diverso, modus vivendi dei più accesi campanilisti, rimane purtroppo radicata nelle “civiltà moderne” fino a raggiungere l’alta sfera politica, la quale non rappresenta altro che un piccolo spaccato della società. L’Italia, purtroppo, non si sottrae certo a questa tendenza: il radicamento del partito politico della Lega Nord e la riecheggiante nostalgia di un ventennio che ha prodotto solo morte e distruzione sono la triste conferma.
La mia ione per la storia del Sudafrica e per le tematiche antirazziste ha un inizio preciso: è il 1996 e i Bafana Bafana, padroni di casa guidati dal commissario tecnico Barker, vincono la Coppa d’Africa di calcio. Il successo assume i contorni dell’impresa, se si considera la lunga sospensione da parte della FIFA a seguito dell’apartheid e degli scontri di Soweto; l’abolizione del regime di segregazione razziale riporta la nazionale sudafricana prima sulla scena continentale e poi internazionale, con il suo calcio fatto di fisicità e
qualche buona individualità pronta a sbarcare in Europa. Dopo la convincente semifinale contro i brasiliani d’Africa del Ghana, Masinga e compagni abbattono le Aquile di Cartagine della Tunisia, che annoverano tra le proprie fila stelle del calcio continentale quali Chokri El Ouaer e Khaled Badra, guidate in panchina dall’esperto allenatore polacco Kasperczak. Sotto l’attento sguardo di Nelson Mandela, i Bafana Bafana conquistano il popolo del Soccer City di Johannesburg.
Il First National Bank Stadium, il nome autentico dell’impianto, è uno stadio di recente costruzione, se si considera che la sua inaugurazione è datata 1989. La sua conformazione è notevolmente mutata in ragione dei lavori di ampliamento subiti in previsione dei Mondiali del 2010, che l’hanno portato ad assumere le sembianze di una pentola africana di oltre 91.000 posti, senza però alterarne la rilevanza storica. E’, infatti, il Soccer City a ospitare il primo discorso di Nelson Mandela dopo la sua liberazione, avvenuta nel 1990 per decisione del presidente Frederik Willem de Klerk, davanti a migliaia di cittadini felici per il solo fatto di poterlo riabbracciare. ano solo tre anni e nel principale impianto sportivo sudafricano una nutrita folla, questa volta in lacrime, saluta per l’ultima volta il leader comunista Chris Hani, assassinato davanti a casa sua per aver cercato, dopo la distruzione dell’apartheid, di abbattere la discriminazione sociale.
Il calcio può rappresentare per gli individui un’occasione di riscatto sociale. Il concetto è ottimamente sintetizzato dal regista britannico Ken Loach nel celebre “Il mio amico Eric”, in cui l’ex campione del Manchester United Eric Cantona aiuta il protagonista della pellicola a superare le difficoltà di una vita monotona, la cui unica soddisfazione settimanale si materializza nella partita di campionato dei Red Devils. Il popolo sudafricano riscatta un ato macchiato di colonialismo, razzismo e barbariche uccisioni nella calda atmosfera del 3 febbraio 1996 al Soccer City, davanti a 80.000 tifosi che gioiscono indiscriminatamente per il “bianco” Tinkler e per il “nero” David Nyathi. Il trofeo a per le mani dell’esperto portiere Arendse, del promettente difensore centrale Mark Fish, poi il carismatico Lucas Radebe, il fantasioso centrocampista “Doctor” Khumalo, il cecchino Shaun Bartlett e via via tutti gli altri, artefici di una vittoria che “scalcia” il razzismo dal paese, nell’attesa di poter debellare il virus HIV e le disparità sociali figlie della dominazione inglese
e boera.
A distanza di qualche anno, la crescita del movimento calcistico sudafricano, complici alcune scelte federali poco azzeccate, ha subito un rallentamento, pur partecipando a tre edizioni dei Campionati Mondiali e ospitandone magistralmente una. Il paese paga le politiche neoliberiste imposte dal FMI e l’equità sostanziale è ben lontana dall’essere raggiunta. Ma il FNB Stadium, così recente ma già ricco di storie da raccontare, offre all’intero paese una speranza per proseguire il lungo cammino verso la compiuta libertà.
Recentemente ho visitato Monaco, capitale di una Baviera ricca di folklore e di esperimenti architettonici, splendido esempio di multi etnicità e fermento intellettuale. Appena fuori la città sorge il villaggio olimpico, a testimonianza dell’indimenticabile edizione dei giochi datata 1972, contrassegnata dalle imprese di Mark Spitz e dagli episodi di terrorismo sulla squadra israeliana, quasi a voler disegnare una tragica linea di continuità nella storia. A dominare il campo visivo è lo Stadio Olimpico, non tanto per le proprie dimensioni bensì per la stravagante copertura in plexiglass, sorretta da tensostrutture, che ricorda le reti utilizzate dai pescatori per intrappolare gli animali acquatici. La struttura, senza dubbio affascinante ad ammirevole, assume maggior rilievo se contestualizzata al paesaggio circostante, fatto di colline e verdi prati, laghetti e cigni.
E’ un peccato che le due principali compagini monacensi, Bayern Monaco e Monaco 1860, si siano trasferite nel 2005 all’Allianz Arena. Una struttura avveniristica, perfettamente in linea con gli standard di pubblico che rendono la Bundesliga il campionato con la maggiore affluenza negli stadi, ma anche l’emblema di come il capitalismo si sia impadronito del gioco del pallone. L’Olympiastadion, non più adattabile ai requisiti normativi previsti dalla FIFA, finisce così nel dimenticatoio, come del resto il prezioso patrimonio calcistico che nei decenni lo contraddistingue. Saprà lo Schlauchboot ereditarne il testimone? A giudicare dall’esito del Mondiale 2006, battesimo del futuristico impianto che come il camaleonte cambia colore, mancano le premesse.
Nel 1974, infatti, la Germania Federale conquista il mondiale di casa proprio a Monaco, grazie alla vittoria in rimonta sull’Olanda del calcio totale, quasi a voler benedire uno stadio che nel corso degli anni saprà regalare emozioni contrastanti, ma soprattutto momenti di grande calcio. E’ però la compagine più titolata di Germania, il Bayern Monaco, a costruire la storia dell’Olypiastadion, con le sue vittorie in campo nazionale ma soprattutto internazionale, in primis le tre Coppe dei Campioni consecutive tra il 1974 e il 1976. Una storia di successo che porta i nomi del mostruoso portiere Sepp Maier, il monumentale libero Franz Beckenbauer, il terzino maoista Paul Breitner, il ragazzo prodigio Uli Hoeness, il cecchino infallibile Gerd Müller e l’emergente Karl-Heinz Rummenigge, il quale sconfigge il nervosismo con un bicchiere di brandy prima delle finali. Mentre i “cugini poveri” del Monaco 1860 sono impegnati in un’altalena pericolosa tra prima e seconda divisione, sostenuti a livello politico dal partito cristianodemocratico della CSU, i Rossi di Monaco continuano a mietere successi grazie al determinante contributo di giocatori del calibro di Klaus Augenthaler, Lothar Matthäus, Mehmet Scholl, Stefan Effenberg e Giovane Élber.
Il celebre impianto sportivo della città di San Benno, dall’alto del proprio fascino, ospita ben tre finali di Coppa Campioni. Particolarmente interessante è quella del 28 maggio 1997, che vede opporsi il Borussia Dortmund di Hitzfeld e la Juventus di Marcello Lippi, la quale domina in Italia non senza polemiche di contorno. A segnare l’incontro è il redivivo Kalle Riedle, un attempato attaccante tedesco transitato anche per Roma, sponda Lazio, deciso a sfruttare una delle ultime opportunità che la carriera sportiva intende riservargli. Il terribile uno-due del centravanti ex-Werder Brema spiana la strada alla vittoria dei giallo-neri di Dortmund, per la gioia dei tanti tifosi e soprattutto degli antibianconeri, mai così abili a moltiplicarsi nella fase storica della triade MoggiGiraudo-Bettega.
L’Olimpico di Monaco è anche lo stadio dove, il 25 giugno 1988, si celebra uno dei gol più belli della storia. Marco Van Basten trafigge Rinat Dasaev con una parabola che nessuno oserebbe nemmeno immaginare, talmente difficile e improbabile, spianando la strada alla vittoria dell’Europeo alla propria nazionale.
Quante altre storie avrebbe potuto raccontare questa struttura, ormai relegata a ospitare competizioni di carattere secondario o sporadici concerti, immersa nel verde e sorta sulle ceneri delle distruzioni causate dalla Seconda Guerra Mondiale. Anche se per l’Olympiastadion non è previsto smantellamento e il Putsch di Monaco, per fortuna, è un ricordo lontano.
Non amo il calcio britannico, non apprezzo i suoi ritmi troppo elevati e la ricerca ossessiva del traversone, nonostante il prezioso contributo di allenatori stranieri abbia migliorato la qualità del gioco. Ma soprattutto detesto la tipica spocchia inglese nel considerare il football come una proprietà privata, per il semplice motivo di averlo inventato senza svilupparlo; gli apionati d’Oltremanica dovrebbero sforzarsi di ricordare la lezione subita dalla propria nazionale, che uscita dal guscio della propria autocelebrazione viene umiliata dall’Aranycsapat in due riprese. A distanza di pochi anni, gli inglesi riusciranno a vincere il mondiale casalingo con la compiacenza di un generoso guardalinee sovietico.
L’Inghilterra è la patria degli stadi-modello, dotati di ottima visuale per via della capienza mai eccessiva, dove è possibile gustarsi la partita a stretto contatto con i propri beniamini. Le strutture sono state profondamente rimodernate nel corso degli anni, specialmente in occasione dell’Europeo 1996: una di queste, lo stadio di Hillsborough, ha conosciuto la morte.
Il 15 aprile 1989 si disputa una semifinale di FA Cup che non richiede presentazioni. Da una parte il glorioso Liverpool pluricampione d’Europa, dall’altra il Nottingham Forest di Brian Clough, che prima di chiudere il ciclo vincente vorrebbe regalare ai Tricky Trees il trofeo mancante. Il clima soleggiato offre a sostenitori di ogni età, tra cui numerose famiglie, la possibilità di gustarsi un pomeriggio che si annuncia entusiasmante, a Sheffield. Gli organizzatori assegnano alla tifoseria dei Reds, non senza polemiche, la ridotta “Leppings Lane”, lasciando agli avversari l’opposto settore della Spion Kop, certamente più capiente. Nell’Inghilterra Thatcheriana della tolleranza zero e della macelleria sociale, quel giorno ci sono però tutti i presupposti per dimenticare le preoccupazioni di una politica economica scellerata.
Manca circa un quarto d’ora al fischio d’inizio e l’accesso agli spalti dei tifosi del Liverpool, complici i soli sei tornelli posti all’esterno, procede a rilento. Per velocizzare le operazioni d’ingresso, le forze dell’ordine aprono un enorme cancello d’acciaio, il Gate C, che garantisce l’accesso a un tunnel il quale conduce al settore centrale della curva e, in via accessoria, ai settori periferici. Circa 5.000 sostenitori vi si riversano, non consci del fatto che i settori centrali della curva iniziano a essere stracolmi, senza alcun ufficiale della polizia ad avvertire i tifosi del congestionamento. Alcune persone cercano di rifugiarsi sul settore nord della curva, altre tentano di spingersi verso le inferriate, le più sfortunate sono schiacciate l’una contro l’altra.
Nessuno degli addetti ai lavori si accorge di quanto sta accadendo e, mentre nella Leppings Lane si consuma la tragedia, la partita prende inizio. Mentre alcuni er provano ad accedere al campo per aprire una via di fuga, l’arbitro sospende l’incontro e le forze dell’ordine, nella totale incomprensione della situazione, praticano alcune cariche per respingerli. Solamente dopo l’apertura di alcuni varchi nella recinzione perimetrale, la polizia comprende la gravità degli accadimenti e apre le “gabbie” permettendo il deflusso, mostrando agli occhi dell’intero stadio uno scenario apocalittico. Quando le ambulanze accedono al luogo del disastro, trovano corpi di bambini e anziani inerti nel tunnel o nel settore riservato ai Reds, centinaia di feriti disseminati in ogni zona e l’incomprensibile atteggiamento della Polizia, che si preoccupa di evitare improbabili scontri tra tifoserie anziché rendere più celeri i soccorrimenti.
Il bilancio di quella che doveva essere una partita di calcio diventa, purtroppo, un bollettino di guerra: 96 morti, di ogni età. Il rapporto stilato da Lord Peter Taylor accerta i gravi errori commessi dai tutori dell’ordine e degli organizzatori sollevando, in contrasto con le campagne d’odio montate da alcuni media, i tifosi da ogni responsabilità. Nonostante ciò nessuna paga i propri atteggiamenti scellerati e le proprie colpe, non viene emessa alcuna condanna e, pertanto, le 96 vittime di Hillsborough muoiono due volte.
Ogni 15 aprile, la curva Kop della Fortezza Anfield da luogo a una commemorazione molto toccante dei compagni deceduti, per quella che rimane una ferita aperta della nostra civiltà. Nessuna condanna riporterebbe in vita i 96, ma chiarificare l’accaduto è un atto dovuto ai familiari e alle vittime stesse.
Lo Stadio Hillsborough muore alle 15.06 del 15 aprile 1989. You’ll never walk alone.
3 ALCIDES GHIGGIA, in riferimento al Maracanazo
Il lento declino del calcio italiano
Da qualche anno a questa parte l’Italia calcistica sta vivendo, se si eccettuano sporadici exploit in grado di mutare improvvisamente l’opinione pubblica sull’argomento, uno spettacolo indecoroso che forse non meriterebbe dibattimento in un libro che, nel suo piccolo, intende celebrare il gioco più bello al mondo. Una realtà fatta di povertà tecnico-tattica, interessi economici prevalenti, partite combinate e risultati alterati: è quanto viene offerto agli occhi di un pubblico che risponde in maniera sempre meno entusiasta al richiamo dello stadio, rifugiandosi nelle mura domestiche con la compagnia di un televisore, non sempre sintonizzato sulla partita della squadra del cuore.
Eppure, nel Belpaese, il rotolare sul manto erboso dell’oggetto sferico suscita emozioni incomparabili, inarrivabili per qualsiasi altro sport individuale o collettivo, espressione di un’insaziabile voglia di evasione e di riscatto insita nell’individuo. L’Italia ha contribuito alla costruzione della storia del calcio, ora è tra gli artefici della sua distruzione. La possibilità per riemergere è solamente una: il ritorno agli albori del ato.
Da sempre accreditata come una delle favorite, in ogni competizione internazionale in cui vi partecipi, la nazionale italiana vive ultimamente un periodo di appannamento non certo casuale. Eppure parliamo di una squadra che nel 2006, in una competizione di certo non memorabile dal punto di vista squisitamente tecnico, ha saputo conquistare il Mondiale 24 anni dopo gli eroi del Sarrià, accendendo nuovamente l’entusiasmo dei sostenitori delusi dalle recenti vicende calcistico-giudiziarie. Dopo l’estemporaneo successo dei ragazzi di Lippi, gli azzurri ripiombano in una crisi di gioco e di risultati che nemmeno il più nazionalista può negare, nel Paese in cui si accampa sempre una scusa per giustificare i propri errori. Le recenti scelte federali in materia di nomine aprono uno spiraglio che forse sarebbe opportuno continuare a percorrere, cui accompagnare però politiche radicali a cominciare dai vivai.
Il 21 giugno 1970, il discusso CT Ferruccio Valcareggi affronta gli imbattibili brasiliani con la seguente formazione: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato, Bertini, Riva, Domenghini, Mazzola, De Sisti, Boninsegna. Al Golden Boy Gianni Rivera, primo giocatore italiano a conquistare l’ambitissimo Pallone d’Oro, sono lasciate le ultime sei briciole di un incontro senza storia, rendendo ancor più facile il compito agli uomini di Zagallo. ano dodici anni e, davanti agli occhi del Presidente partigiano Sandro Pertini, l’Italia di Bearzot conquista il terzo titolo mondiale ai danni dei quotati tedeschi di Derwall. Nella finale del Santiago Bernabeu scendono in campo Zoff, Collovati, Scirea, Gentile, Cabrini, Oriali, Bergomi, Tardelli, Conti, Graziani e Rossi, cui seguirà l’ingresso di Altobelli e Causio. ano gli anni e il corso della storia è impietoso, come un fiume in magra che porta siccità alle popolazioni. L’Italia di Lippi è sconfitta per 3-2 dai modesti slovacchi di Weiss e viene relegata all’ultimo posto del girone F, dietro i semiprofessionisti della Nuova Zelanda. Quel giorno, all’Ellis Park di Johannesburg scendono inizialmente in campo: Marchetti, Zambrotta, Criscito, Cannavaro, Chiellini, Gattuso, Montolivo, De Rossi, Di Natale, Iaquinta e Pepe.
Leggere e confrontare le formazioni precedentemente elencate è sufficiente per immortalare la crisi del panorama calcistico azzurro, ma non per illustrarla. Le scelte tecniche degli allenatori che hanno contrassegnato la storia sportiva del Belpaese hanno inciso sull’andamento delle singole competizioni affrontate, ma in questo caso ci troviamo di fronte a un divario imbarazzante che assume i contorni dello scontro generazionale. L’impoverimento della qualità tecnica dei calciatori azzurri è evidente quanto lo scadimento del servizio televisivo pubblico o la volontà berlusconiana di legiferare ad personam, segni tangibili del declino di una nazione che vede crollare i propri pilastri, in primis la possibilità di manifestare e, a breve, la Costituzione. Il fatto che nei settori giovanili italiani si lavori poco sulla tecnica di base dei calciatori è un dato di fatto, come la preponderanza lasciata allo sviluppo fisico delle “risorse” future, automi meccanici asserviti ai voleri delle società affamate di denaro e di allenatori maestri della preparazione atletica.
Dopo la mesta uscita dall’Europeo 2000, la Germania ha affrontato un percorso
di ricostruzione dei settori giovanili che ha portato alla formazione, nel corso del tempo, di un serbatoio importante per la nazionale di Joachim Löw. I futuri campioni della Deutsche Fußballnationalmannschaft dominano ora i tornei internazionali e, di riflesso, la Bundesliga è diventata uno dei campionati più avvincenti e seguiti a livello europeo. Se talenti del calibro di Özil, Badstuber, Müller e Reus hanno preso il volo, è perché la federazione ha investito su di loro, istituendo centri di reclutamento giovanile, finanziando le piccole società e formando i tecnici dilettanti. Ciò ha consentito al movimento sportivo tedesco di svincolarsi dallo stereotipo del dominio atletico, rendendosi apprezzabile sotto molti aspetti.
In Italia, purtroppo, siamo molto lontani da soluzioni di questo tipo, le quali sarebbero auspicabili quanto un’influenza prima di un’interrogazione indigesta. Se il calcio è in qualche modo il riflesso della società in cui viviamo, l’esempio dei giovani è lampante: zero possibilità di emergere, specie se intelligenti e laureati, condannati a pagare le colpe di chi difende a spada tratta l’interesse personale. Fino a quanto la formazione dell’individuo sarà considerata un costo, saremo condannati al regresso socio-culturale.
Nonostante il gioco del calcio sia di chiara origine britannica, sono gli italiani a essere considerati i maestri della tattica, forse perché precursori di alcuni sistemi di gioco che si sono rivelati vincenti, anche se poco spettacolari.
Il governo fascista degli anni ‘30 trova nel calcio, al pari di molti regimi totalitari e repressivi che si sono susseguiti nel corso della storia, un ottimo strumento di propaganda. La nazionale azzurra annovera giocatori di grande qualità e un allenatore, il piemontese Vittorio Pozzo, che adotta un modulo di gioco del tutto particolare: il WW. Il “metodo” italiano, assai distante dal sistemismo inglese di Herbert Chapman, non è altro che un 2-3-2-3 molto attendista, che tende a ribaltare l’azione con lanci lunghi dalle retrovie prima di finalizzare con il centravanti. Questo sistema di gioco, sinonimo di concretezza e opportunismo, si rivela vincente non solo per gli Azzurri Campioni del Mondo 1934 e 1938, ma anche per club quali la Juventus pluricampione d’Italia e il
Bologna “che tremare il mondo fa”.
Il fascismo crolla, e con questo il metodo. Vittorio Pozzo si dimette da CT nel 1948, da qualche anno in Italia si sta ando al sistema. Il WM appare come un modulo più equilibrato, dove i giocatori mantengono le distanze e con queste il possesso del pallone, medianti aggi corti e prolungati. Si sviluppa l’idea del collettivo e, in tal senso, non può esserci squadra migliore del Grande Torino a concretarla: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola e il direttore tecnico Erbstein, gli artefici della consacrazione del sistema in Italia. Nel DNA delle squadre italiane è da sempre riconosciuta una certa propensione, anche se minima, al difensivismo. Ciò porta alla diffusione, negli anni sessanta, del modulo di gioco definito “catenaccio”, caratterizzato da corposa dose di ività e adattamento al gioco avversario, proteggendo esclusivamente la propria porta e rilanciando l’azione con rapidi contropiedi. Da sempre considerato un fenomeno tipicamente azzurro, il verrou è invece ideato dal tecnico austriaco del Servette Karl Rappan, consapevole delle difficoltà che la propria squadra poteva accusare contro compagini più blasonate. Più che un sistema di gioco, il quale non può prescindere da rigide marcature a uomo, il catenaccio è un atteggiamento di iva accettazione della propria inferiorità, di totale rinuncia alla competizione con l’avversario, difendendo la propria porta con una sorta di Linea Maginot, affidandosi alle divinità per quanto concerne la fase offensiva. In definitiva è la morte del gioco del pallone, nell’accezione più tradizionale e pura del termine, ovvero la distruzione del divertimento. Non saranno le vittorie di Rocco, Herrera e i catenacciari del nuovo millennio, in primis il portoghese Josè Mourinho, a farmi cambiare idea in merito.
Una ventata di freschezza, dopo i primi interessanti esperimenti di Luís Vinício con il suo Napoli, arriva sul finire degli anni ‘70 con l’avvento degli “zonisti”. L’idea di affrontare la fase difensiva “per zone di campo” anziché “sull’uomo”, tipicamente brasiliana ma sviluppatasi poi in Olanda, approda in Italia con differenti impostazioni. Allo scarso dinamismo delle squadre di Nils Liedholm, l’ambizioso Arrigo Sacchi oppone una “zona pressing” di chiara ispirazione Orange, accompagnato nell’opera da alcuni emergenti allenatori quali Zdenek Zeman, Giovanni Galeone e Gigi Maifredi.
La concezione zonista del gioco del calcio, così socialista da suddividere i compiti in maniera equa all’interno del collettivo, dura giusto il tempo di una stagione: quella delle vittorie rossonere in campo internazionale. In Italia, si sa, non sono mai attecchite le idee troppo rivoluzionarie, come del resto la proprietà privata è considerata diritto inalienabile. Per questo motivo il gioco a zona lascia spazio a un modello ben più edulcorato, identificato con il termine di “zona mista”, il quale non è altro che una sintesi dei moduli di gioco precedentemente descritti. Non troppo purista, non troppo difensivista, mai esteticamente apprezzabile, come si compete a ogni modulo che preveda marcature a uomo. L’allenatore moderno italiano tipo, legato alle tradizioni e alle ragioni di mercato, appare vittima di una scarsa propensione al rischio. Nel Belpaese che brucia il talento dei visionari, urge un innovatore in grado di farmi divertire.
Croce e delizia del nostro calcio è l’impiego di calciatori non italiani, specialmente da parte dei club di Prima Divisione. Valori aggiunti di un organico già valido, elementi in grado di cambiare il volto di una squadra, ma anche autentiche meteore pronte a dileguarsi nell’arco di una stagione: è il destino di atleti che hanno contrassegnato, nel bene e nel male, la storia dello sport in Italia.
Per leggere l’evoluzione dei flussi migratori di giocatori stranieri è necessario contestualizzare il fenomeno alla storia del nostro Paese, da sempre “poco sensibile” all’ospitalità di lavoratori immigrati, nonostante una sventagliata fedeltà ai precetti del cristianesimo. L’assoggettamento del mondo del calcio al regime fascista, nel 1926 con la cosiddetta Carta di Viareggio, è senza dubbio sintomatico di come lo Stato stia reprimendo ogni forma di libertà, nell’ottica di un processo corporativista e totalitario che durerà un Ventennio. Se da una parte il documento sottoscritto in Versilia apre al professionismo, istituendo inoltre un nuovo organigramma federale e la neonata Divisione Nazionale, dall’altra chiude le frontiere all’accesso di giocatori stranieri, ispirandosi ai concetti di nazionalismo e di autarchia ben radicati nell’ideologia fascista. Le grandi squadre dell’epoca decidono così di ricorrere al mercato sudamericano, cercando di accaparrarsi calciatori di chiare origini italiane, meglio se abili con la palla tra
i piedi: nasce l’era degli oriundi. Il primo a vestire la maglia della nazionale è Julio Libonatti, altri come Raimundo Orsi ed Enrique Guaita vinceranno un titolo mondiale, mentre il pluricapocannoniere Héctor Testina d’Oro Puricelli disputerà una sola partita con la squadra azzurra.
La fine della Seconda Guerra Mondiale segna la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ripartono i campionati e vengono riaperte le frontiere. Alle squadre della massima divisione è concesso il tesseramento di due stranieri e tre oriundi e, dopo le ottime prestazioni alle Olimpiadi del 1948, nel Belpaese giungono i principali talenti della Scandinavia. Nonostante la consueta schiera di campioni provenienti dal Sudamerica, la Svezia appare il Paese dell’avanguardia calcistica negli anni ‘50, grazie al trio rossonero Gren-Nordhal-Liedholm, ma anche all’Uccellino Hamrin e all’irresistibile nerazzurro Lennart Skoglund. Il 17 maggio 1953, in occasione dell’inaugurazione dell’Olimpico di Roma, l’Italia subisce una cocente sconfitta contro i magiari di Ferenc Puskas e il Sottosegretario agli Interni, l’immancabile Giulio Andreotti, chiude di fatto le frontiere calcistiche agli stranieri e limita l’accesso ai soli oriundi. Negli anni successivi vengono ridiscussi i regolamenti ma, nel 1965, la Federazione blocca le importazioni di giocatori provenienti dall’estero; il disastroso esito dei Mondiali del 1966 induce i vertici calcistici a protrarre il blocco, il quale è periodicamente rinnovato. Il numero degli stranieri in Italia pian piano diminuisce e, con l’addio al calcio di José Altafini e Sergio Gringo Clerici, dalla stagione 1978/79 il Campionato di Serie A è il trionfo dell’esterofobia.
A seguito di forti pressioni da parte delle società, degli organi di stampa ma soprattutto dei tifosi, delusi da un campionato povero di valori tecnici e ricco di scandali, i burocrati federali aprono nel 1980 le frontiere nei limiti di un solo straniero per squadra, numero elevato dopo qualche anno a tre. Lo spettacolo aumenta considerevolmente, gli stadi tornano a popolarsi e le squadre italiane tornano a recitare un ruolo importante a livello internazionale. Accanto a campioni conclamati, nel nostro Paese approdano giocatori che si riveleranno autentiche delusioni, a causa del difficile ambientamento, problemi fisici o effettiva sovrastima dell’atleta: è per questo motivo che, a differenza di molti “analisti” sportivi, non amo definirli bidoni. Per rappresentare la categoria è frequentemente citato il nome di Luis Silvio Danuello, modesto brasiliano
transitato per Pistoia nel 1980, sul quale girano tuttora leggende che sconfinano l’ambito sportivo.
Il processo di integrazione dello stato italiano alla Comunità (Economica) Europea apre uno scenario interessante con le successive aperture della stagione 1992/93, addirittura rivoluzionario dopo il ricorso di Jean-Marc Bosman alla Corte di Giustizia Europea, la quale consente a tutti i calciatori dell’Unione Europea di trasferirsi gratuitamente alla scadenza del contratto, proibendo alle leghe calcistiche nazionali degli stati europei di porre un tetto al numero degli atleti stranieri. Da quel momento in Italia si legifera solamente sul numero degli ingressi di giocatori extracomunitari, che nel pieno spirito della padanissima Legge Bossi-Fini è ora limitato a uno solo.
La libera circolazione dei calciatori porta in Italia fuoriclasse indiscussi, talenti emergenti, mestieranti del pallone, sportivi sul viale del tramonto, autentiche disperazioni e persino politici offertisi al gioco della sfera. Una società, il Perugia dell’esagitato presidente Gaucci, pare voler attingere a tutte queste sfere, con gli acquisti dei vari Hidetoshi Nakata, Luiz Muller, Milan Rapaić, Iván Kaviedes, Petter Rudi, Ibrahim Ba, Ma Ming Yu, Ali Samereh e Saadi Gheddafi, solo per citare alcuni nomi. La Sentenza Bosman, considerata dai suoi detrattori la causa del declino dei vivai italiani, migliora oggettivamente la qualità del gioco sui terreni dorati del professionismo, fino ai primissimi anni del nuovo millennio.
La vicenda, però, ha un amaro epilogo. Gli scandali che imperversano sullo sport italiano, l’esplosione di alcune realtà consolidate e il diffuso sentimento catenacciaro consigliano i migliori giocatori sulla piazza a spingersi verso altre nazioni, che favoriscono la tecnica a una tattica esasperata e un atletismo asfissiante. Per il momento, non hanno alcuna intenzione di approdare nel Paese della precarietà.
C’era un calcio in cui tutte le partite si disputavano in contemporanea, la
domenica pomeriggio. Ora non c’è più. C’era una fantastica trasmissione che trasmetteva brevi sintesi delle partite del campionato, coordinata da un giornalista esemplare e impreziosita da corrispondenti diventati, nel corso del tempo, autentici personaggi televisivi. Di questo programma televisivo resiste solo il nome: Novantesimo Minuto.
I più giovani non hanno vissuto, forse solamente sfiorato, l’epopea di Paolo Valenti. Solo i più anziani ricorderanno i famosi lapsus di Tonino Carino da Ascoli, la professionalità di Gianni Vasino, le celebri espressioni di Luigi Necco, l’artista Ferruccio Gard, il pugliese Franco Strippoli e un giovanissimo Lamberto Sposini da Perugia. Non semplici cronisti della domenica, ma inviati pronti a offrire un’analisi della partita, seppur non sempre obiettiva, quantomeno completa e corredata da simpatici siparietti tali da rendere il Novantesimo Minuto un appuntamento imperdibile per ogni italiano. Le partite si erano concluse da poco e gli apionati, alla conclusione di Tutto il calcio minuto per minuto, si accingevano a sintonizzarsi sulle reti Rai per assistere a quei gol che avevano semplicemente sognato e immaginato, per poi gustarsi la differita della partita di cartello della giornata.
Il calo di ascolti della trasmissione nel corso degli anni è ampiamente giustificabile, oltre che dal progressivo abbandono degli “storici” inviati, dal lento ma inesorabile consolidamento dell’istituto giuridico dei diritti televisivi in vendita. Si consideri, infatti, che fino al 1981 in Italia non esistevano diritti televisivi, né in chiaro né criptati. La principale fonte di guadagno delle società era rappresentata dagli spettatori paganti allo stadio, mentre i cronisti vi entravano gratuitamente per espletare le proprie mansioni lavorative. Dopo un decennio di concessione quasi gratuita del diritto esclusivo all’ammissibilità delle telecamere, da parte della Lega Calcio alla TV pubblica, nel 1993 viene assestato il primo colpo all’apionato pubblico italiano: l’assegnazione dei diritti televisivi criptati all’emittente Telepiù. L’era della pay-tv, di origine anglosassone e statunitense, trasforma il tifoso in utente, ma soprattutto ha l’effetto dirompente di svuotare gli stadi. Dal 1996, infatti, una Lega Calcio sempre più succube delle emittenti a pagamento, ma soprattutto delle società, le quali intravedono nuove forme di introiti, concede al monopolista Telepiù la possibilità di trasmettere tutti gli incontri della serie A, posticipi compresi,
illudendo l’apionato di poter sostenere la propria squadra pigiando semplicemente un tasto del proprio televisore.
Il bello, si fa per dire, deve ancora venire. Nel 1999 irrompe sulla scena il magnate australiano Rupert Murdoch con la sua Stream TV, originando un duopolio dei diritti criptati che provoca danni non solo all’alienato pubblico italiano, ma anche alle società calcistiche minori, le quali pagano in maniera tangibile l’introduzione dei diritti soggettivi in materia di televisioni. Non è più la Lega Nazionale Professionisti a negoziare con le emittenti, appunto, ma le società stesse, con il loro potenziale economico e il loro bacino d’utenza. All’alba del nuovo millennio, i diritti televisivi in chiaro, emanazione di quelli in vendita del 1981, sono ridotti praticamente al lumicino. La nascita di Sky Italia, per fusione delle due oligopoliste, porta a una situazione di monopolio che viene interrotta dall’avvento del digitale terrestre, ovvero l’ennesimo regalo del Governo Berlusconi a Silvio Berlusconi. Nei fatti, le televisioni impongono un calendario-spezzatino piuttosto salato, portando le telecamere persino nell’intimità di uno spogliatoio.
Se da una parte l’emittente di Murdoch e Mediaset sono rimaste le uniche pay-tv a spartirsi il mercato, per giunta su due piattaforme differenti, le condivisibili disposizioni della Legge Gentiloni-Melandri fanno scattare, dalla stagione 2010/2011, la ripartizione collettiva dei diritti televisivi. La torta, che per il 40% è suddivisa in eguali fette per ogni club, è inoltre ripartita per il 30% in base al bacino d’utenza, mentre il restante 30% è decretato in base ai risultati sportivi. Senza scivolare in tecnicismi normativi, a rigor di logica è lecito pensare che una più equa allocazione delle risorse dovrebbe portare maggiore equilibrio e, di conseguenza, l’elevamento dello spettacolo in campo. Al momento siamo ben lontani dalla realizzazione degli obiettivi prefissi da questa disposizione, ma l’eliminazione della contrattazione individuale è già di per se un buon motivo per sostenere l’operato del Governo Prodi II. Certamente sarebbe auspicabile un lento e progressivo spegnimento degli apparecchi televisivi, il ripopolamento degli stadi, l’inesorabile fallimento delle pay-tv e il ripristino del vecchio Novantesimo Minuto. Tutto ciò, purtroppo, fa parte del mio essere visionario.
La logica del risultato e l’arrivismo ossessionato di alcuni interpreti danno vita, nel corso degli anni, alla diffusione esponenziale di pratiche illecite per alterare le singole prestazioni degli atleti. Il fenomeno, esteso su scala planetaria a molteplici sport, trova appiglio al progresso farmacologico promosso da un’industria, quella del doping di nuova generazione, di cui ogni sportivo farebbe volentieri a meno. Se da un lato si deve rigettare la scorrettezza del baro, che in Italia riscontra interpreti numerosi e insospettabili, dall’altra parte non possiamo accettare l’alterazione irreversibile del nostro organismo e l’apertura di un’autostrada verso la morte. Eppure la circolazione di sostanze dopanti nel mondo calcistico italiano è viva più che mai, nonostante si conoscano rischi e pericoli: l’industria sportiva ha deciso di sacrificare il concetto di sport, nel nome del Dio Denaro e dell’autoaffermazione personale.
Pensare che il doping in Italia sia limitato ai pochi e sporadici casi acclarati dalle analisi post-partita e dalla giustizia sportiva è come accettare l’asserzione che la mafia non esiste, o meglio è stata definitivamente debellata. Il caso Lipopill che vede protagonisti nel 1990 i romanisti Andrea Carnevale e Angelo Peruzzi, poi squalificati per 12 mesi, è solo la testimonianza che i calciatori, con o senza l’ausilio delle società, alterano con farmaci illeciti le proprie prestazioni per renderle più efficaci e adatte ai canoni del gioco moderno. Le successive vicende occorse a Diego Armando Maradona e Claudio Caniggia non sono che una conferma del fatto che l’ossessiva ricerca della vittoria può mietere vittime illustri.
Una decisa spallata al sistema la offre il maestro boemo Zdenek Zeman, nipote dell’ex giocatore e allenatore juventino Čestmír Vyálek, il quale mostra tutta la propria ione per questo meraviglioso sport nella pesante accusa di abuso di farmaci nei confronti dell’intero sistema. E’ il 1998 e le dichiarazioni dell’allora allenatore della Roma innescano una spirale di omertà che coinvolge l’intero mondo del pallone, chiuso a riccio sui propri interessi e per nulla disposto a rompere quel muro di silenzio che lo circonda. Il magistrato Raffaele Guariniello, da sempre sensibile ai temi delle morti sul lavoro, porta in tribunale la società Juventus, dando inizio a un iter processuale che si concluderà nel
2007, con una sentenza della Corte di Cassazione che lascia aperti mille interrogativi. Cade la prescrizione sul reato di abuso di farmaci, palla al centro.
Se i casi di doping accertati dai laboratori italiani si contano sulle dita di poche mani, alcuni ex calciatori ancora in vita, spinti dal prematuro ma inesorabile decesso di alcuni ex colleghi, decidono di denunciare pubblicamente il mondo pallonaro. Il primo è il già centravanti del Milan Carlo Petrini, ora afflitto dai malanni di una vita che sente sempre meno sua, che produce una serie di libri e interviste sui lati oscuri del gioco della sfera. Il toscano dipinge la categoria dei calciatori come un gruppo di mercenari disposto a drogarsi e alterare risultati, nell’interesse esclusivo delle società, in cambio di denaro e belle donne, pur di non finire nel dimenticatoio. Anfetamine, strane siringhe, pastiglie di Micoren, raggi Roengten sono pratiche già in voga negli anni ‘60, le quali potrebbero costituire la causa dei suoi mali e di quelli di decine di ex sportivi professionisti.
Il secondo è Ferruccio Mazzola, una vita da comprimario nel gioco del pallone nonostante le importanti parentele, il quale mette sotto accusa la Grande Inter di Helenio Herrera, considerando quest’ultimo un distributore di pasticche in grado di aumentare le prestazioni atletiche dei calciatori. La denuncia di Mazzola, lanciata con un libro e un’intervista, coinvolge l’intero sistema calcio con particolare riferimento ad alcune società in cui ha militato, associando l’utilizzo di pratiche dopanti al decesso di alcuni giocatori in attività o ritiratisi da poco.
Non vorrei soffermarmi su disquisizioni mediche delle quali, onestamente, non possiedo le necessarie competenze. Alla luce di quanto denunciato da Petrini, Mazzola e dall’Associazione Vittime del Doping occorre però fare chiarezza, almeno come atto dovuto ai familiari e alle giovani generazioni, sulla scomparsa di Bruno Beatrice, Nello Saltutti, Ugo Ferrante, Giorgio Rognoni, Giuseppe Longoni, Gianluca Signorini, Adriano Lombardi, Giuliano Taccola, Armando Picchi, e sulle sofferenze dell’ex centravanti rossonero Stefano Borgonovo. L’universo dorato che genera fama e lauti guadagni, ma che utilizza consciamente i propri interpreti come cavie da laboratorio, può essere condannato solo dalla rottura del muro di gomma instaurato dagli addetti ai
lavori. Certamente ne guadagnerebbe il gioco del calcio in se, come pratica sportiva immune da ogni professionistica pulsione. In fondo però, come dimostrato in queste pagine, in Italia il calcio non è più uno sport.
Scrivi Juventus e leggi potere. Strisce bianche e nere che, accostate, danno origine a una storia ricca di trionfi, ma anche zone d’ombra mai sufficientemente portate alla luce. Se la Vecchia Signora è la squadra più tifata in Italia, al contempo risulta la più odiata: questo è il destino dei ricchi, vincenti e influenti. Sui successi del club torinese, legato fin dagli anni ‘20 alla famiglia Agnelli, non mancano le polemiche di contorno, dettate da un peccato originale che risponde al nome di Fabbrica Italiana Automobili Torino. Nonostante ciò ogni sportivo dovrebbe, nella maniera più obiettiva possibile, riconoscere l’importante patrimonio offerto dalle Zebre al panorama sportivo italiano.
L’Italia, è risaputo, risulta un Paese incline ai conflitti d’interesse. Dopotutto, il Ventennio berlusconiano è un esempio tanto banale quanto immediato per mostrare il concetto. Il calcio, nella sua veste di spaccato della società in cui viviamo, non può certo essere da meno ed ecco che, nel 1959, il democristiano Umberto Agnelli viene eletto presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio. Peccato che il giovane laureato in Giurisprudenza sia già presidente dei bianconeri di Torino, una squadra semplicemente devastante grazie al Trio Magico composto da Boniperti, Charles e Sivori, con El Cabezón al contempo ispiratore e finalizzatore di un collettivo che domina le stagioni a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Certamente si tratta di una squadra che non necessita di favoritismi regolamentari, quelli che le regaleranno il campionato 1960-61 ai danni dell’Inter di Helenio Herrera, il mago del catenaccio giunto da Barcellona a suon di milioni.
Il 16 aprile 1961 si disputa al Comunale di Torino il derby d’Italia, la Juventus è avanti di quattro punti e il pubblico risponde in maniera imponente al richiamo dello stadio, forse troppo. L’arbitro Gambarotta vede del pericolo nelle centinaia di persone disposte ai bordi del campo, interrompe il gioco e la Lega Calcio, pochi giorni più tardi, assegna come da regolamento la vittoria a tavolino ai
nerazzurri. Poco tempo dopo, però, la Corte di Giustizia Federale accoglie il reclamo dei bianconeri e dispone la ripetizione della partita; l’Inter protesterà spedendo sul terreno di gioco la squadra Primavera, l’incontro finirà 9-1.
Nasce in questa occasione, dopo le sfide leggendarie degli anni ’30 e qualche decennio prima di Calciopoli, il profondo odio sportivo che lega le due compagini. Accresce nel frattempo il palmares delle Zebre, come del resto la considerazione che di loro hanno gli arbitri italiani. Uno di questi, l’internazionale Paolo Bergamo, nel 1981 annulla per fuorigioco la rete del romanista Maurizio Turone, che nei fatti poteva significare soro in classifica e scudetto (quasi) assicurato. L’episodio, spesso ricordato per sintetizzare il concetto di sudditanza psicologica arbitrale, acuisce i contrasti tra la tifoseria bianconera e quella giallorossa, oltre a rendere quasi indissolubile, nell’immaginario collettivo degli anti-juventini, l’associazione Gobbi-ladri.
Il cambio dei vertici societari nell’anno 1994, che porta in seno alla Juventus una rivoluzione epocale, offre ai detrattori del club della famiglia Agnelli materiale su cui accanirsi. E’ l’ingombrante figura di Luciano Moggi, un ex ferroviere vissuto all’ombra di Italo Allodi, a suscitare l’antipatia degli apionati del gioco della sfera, infastiditi dai metodi di stampo mafioso con cui Big Luciano alimenta il calciomercato. La Vecchia Signora miete successi a ripetizione, in campo nazionale e internazionale, con un giovane allenatore che risponde al nome di Marcello Lippi, un nucleo di giocatori inesauribili e una società imponente alle spalle. Si susseguono cambi alla guida tecnica, nuovi campioni approdano in Corso Galileo Ferraris, ma perdura quella sinfonia di sottofondo, fatta di sudditanza psicologica e interpretazioni arbitrali sempre favorevoli, ad accompagnarne i trionfi.
Quando nel maggio 2006 Fabio Capello e i suoi giocatori festeggiano l’ennesimo scudetto conseguito, l’atmosfera che si respira sul terreno di gioco non è propriamente quella della festa. Gli organi di stampa hanno iniziato a pubblicare una serie di intercettazioni telefoniche molto compromettenti, che sembrano confermare quanto gli apionati conoscevano pur senza disporre di
uno straccio di prova: Moggi influenzava le designazioni arbitrali, recriminava presso la Federazione, ammaestrava giornalisti compiacenti e intimidiva giocatori poco inclini ai suoi metodi. L’aria di smobilitazione che si avverte quel 14 maggio, a Bari, lascia presagire che quello scudetto non sarà assegnato ai bianconeri. Nelle settimane successive verrà montato un processo che coinvolgerà dirigenti e calciatori di mezza serie A, ispirato ai principi di celerità e insabbiamento richiesti dal mercato delle televisioni e sponsorizzazioni. Il calcio italiano, anziché depurarsi dei propri mali con un salutare bagno, preferirà un rapido e indolore bidet.
Nel frattempo escono altre intercettazioni riguardanti i nuovi “padroni” del calcio italiano, la Juventus riparte dalla B e ritorna ai vertici del calcio italiano, la FIAT che delocalizza la produzione e licenzia gli operai costruisce uno stadio di proprietà, mentre Luciano Moggi è il nuovo re dei mass-media. Il mondo pallonaro del Belpaese supera la crisi con le armi di sempre: moralità zero, onestà pure.
Nel cammino sui Monti Liguri che contraddistingue la mia estate 2011, all’altezza di Bardineto, incontro il calciatore Paolo Ponzo, quarant’anni e un’onesta carriera spesa sui campi di gioco del professionismo. Apionato del proprio lavoro a tal punto da approdare al dilettantismo ligure, per spendere gli ultimi calci di una vita da gladiatore, Paolo gestisce al contempo, con il prezioso aiuto della famiglia, un albergo che raccoglie turisti e consensi. Il calciatorelocandiere è infatti persona seria, riflessiva e gentile, ovvero ben lontano dallo stereotipo del giocatore discotecaro e palestrato dei giorni nostri. Nella nostra discussione a 360 gradi sul mondo del pallone, mi soffermo su un’arguta riflessione dell’ex professionista, riguardante gli sviluppi dell’inchiesta della Procura di Cremona sulla compravendita di partite per favorire guadagni illeciti attraverso le scommesse sportive. Se il gioco può trasformarsi in pericoloso vizio per l’operaio che dilapida il proprio stipendio nelle slot machines, illuso dalla possibilità di un “facile” rientro a suon di gettoni, perché non lo può essere per uno sportivo dilaniato dai debiti? Nel secondo caso è evidente l’aggravante del peso sociale del gesto, inteso come perdita di attendibilità di uno sport che, in questi termini, pare si sia giocato praticamente tutto negli ultimi anni.
Il fenomeno delle partite truccate, in Italia, porta una data precisa. E’ il 1980 e, nell’anno degli Europei di casa, il commerciante ortofrutticolo Massimo Cruciani presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, sostenendo di essere stato raggirato da alcuni giocatori della Lazio, che lo avevano convinto a scommettere su alcune partite “combinate”. Sono tempi in cui gli allibratori fanno affari d’oro, in considerazione del fatto che il toto-scommesse di derivazione anglosassone ancora non è approdato nello Stivale, terra in cui il Totocalcio è l’unico modo per affidarsi alla sorte per un esperto calciofilo. Il 23 marzo, in diretta televisiva, scattano le manette per giocatori del calibro di Bruno Giordano, Giuseppe Wilson ed Enrico Albertosi, mentre il rampante Paolo Rossi riceve un ordine di comparizione. Nonostante il fatto non costituisca reato penale, viene provata l’accusa di illecito sportivo e pertanto, dopo i due celerissimi gradi della giustizia sportiva, partono le squalifiche per i giocatori coinvolti, che saranno clamorosamente amnistiati a seguito della vittoria azzurra al Mondiale 1982. Come da nostra tradizione.
Nel frattempo Milan e Lazio sono retrocesse d’ufficio, esplode la bomba mediatica che grida allo scandalo, ma tutto rientra nei ranghi “grazie” agli Eroi del Sarrià e ci si dimentica di quanto successo. Con estrema fretta, tra l’altro, visto che un’inchiesta nata da intercettazioni telefoniche, nel 1986, porta alla ribalta l’esistenza di un giro di scommesse riguardanti alcune partite di calcio nei campionati professionistici, dalla Serie A fino alla Serie C2, dal 1984 al 1986. L’ondata non coinvolge club di prima fascia, Udinese e Lazio subiscono penalizzazioni importanti, decine di calciatori e dirigenti vengono squalificati e la nazionale di Bearzot, schiacciata dal peso dell’età, esce distrutta dal Mondiale messicano.
Che l’Italia non abbia una cultura della legalità radicata è un triste dato di fatto, quanto la disuguaglianza sociale nel mondo. Come del resto non possiamo negare di vivere in una società che fa della ricchezza, meglio se “facile”, un obiettivo massimo, tendendo a estremizzare la propensione umana al guadagno. Se nei primi del Novecento il Gioco del Lotto è considerato da alcuni esponenti dell’opinione pubblica una “tassa sugli idioti”, i tempi moderni ci offrono la
visione di milioni di “contribuenti”, abbagliati da un successo istantaneo o illusi da una possibile occasione di riscatto. Dopo aver concepito svariati giochi a premi le istituzioni, protette dalla scusa di voler evitare una nuova epidemia di clandestinità, assumono la decisione di gestire le scommesse sportive allestendo sale di tipo anglosassone, nelle quali lo scommettitore conosce anticipatamente la somma percepita in caso di vittoria.
Il risultato è evidente agli occhi degli sportivi. Dopo la sfida di Coppa Italia tra Atalanta e Pistoiese datata 2000, sorge più di un dubbio sull’elevato numero di giocate sulla partita e sull’esito della stessa: nasce un processo sportivo che produrrà l’assoluzione, con molti punti interrogativi, di alcuni dei calciatori sul terreno di gioco. Uno di questi, l’atalantino Cristiano Doni, viene arrestato undici anni dopo con l’accusa di tentato inquinamento delle prove, nell’ambito dell’inchiesta Last Bet che lo vede coinvolto insieme con altri operatori del settore, faccendieri e semplici speculatori. Le denunce spaziano dall’illecito sportivo alla semplice violazione del divieto di scommettere per i tesserati; la fitta rete internazionale avrebbe pilotato i risultati per mezzo dei calciatoriscommettitori, garantendo lauti introiti ai membri della cerchia. Una sorta di élite cui non partecipano i giocatori Pisacane e Farina, che denunciano il tentativo di combine meritandosi l’applauso degli sportivi veri. Ovvero di chi vorrebbe un calcio pulito, necessariamente svincolato da ogni logica di tipo economico.
Una rete sociale, nell’accezione sociologica del termine, non è che un gruppo di individui connessi tra loro da legami sociali, come la semplice conoscenza o i rapporti di parentela. Nonostante la diffusione degli strumenti informatici abbia prodotto qualche interpretazione fuorviante, la rete sociale è un’entità fisica, come ad esempio le confraternite religiose o le associazioni a sfondo culturale. Nel corso dei decenni, in Italia, mutano quelle che sono le interconnessioni tra i soggetti, come del resto varia l’ambiente in cui sono inseriti. Se gli anni Settanta sono quelli del ribellismo politico e dell’impegno diffuso per la costruzione di una società egualitaria, il successivo decennio è segnato un nuovo fenomeno di aggregazione di massa: il tifo organizzato ultrà. Le disparità sociali nell’economia globale, ma più in generale la presa di coscienza che il capitalismo ha fallito, indicano come si sia mancato un importante appuntamento con la storia. Nel frattempo, il fenomeno ultras si è ingigantito notevolmente,
valicando i confini del sostegno alla squadra sportiva del cuore. Mentre i primi gruppi organizzati di tifosi nascono negli anni Cinquanta, il primo utilizzo del termine Ultrà è rintracciabile vent’anni più tardi. Gli anni Ottanta accentuano il carattere violento e antagonista di alcune tifoserie organizzate, si diffonde il ricorso allo scontro con gruppi avversari e ai gemellaggi con tifoserie “simili”. Il tentativo di autoregolamentazione del 1995, in cui gli ultras condannano l’utilizzo di armi da taglio durante gli scontri e le aggressioni in numero dispari, spinge l’universo del tifo organizzato a nuovi obiettivi di lotta. Le iniziative di protesta contro il rincaro biglietti e gli orari impossibili dettati dalle esigenze televisive appaiono condivisibili e nell’ottica di un ritorno agli antichi valori dello sport. Peccato che l’apertura di nuovi canali comunicativi, complice il libero accesso al web, faciliti il contatto tra le tifoserie ed è ottimo viatico per un’attività di proselitismo che, in perfetto stile nuovo millennio, non disdegna operazioni di merchandising. Le forze di polizia, considerate l’avamposto di uno Stato sempre più repressivo, con i provvedimenti Daspo e le restrizioni all’accesso degli stadi, sono i nuovi obiettivi della violenza organizzata. In questo senso, l’introduzione della tanto discussa Tessera del tifoso, che appare una misura talmente liberticida da richiamare le operazioni di schedatura del Ventennio, sembra unire buona parte degli addetti ai lavori, tifosi ovviamente compresi.
Negli ultimi anni si è resa ancor più profonda la connessione tra tifoserie calcistiche e politica, rendendo le prime veri e propri bacini d’utenza in chiave elettorale. Nonostante la legge 41/07 abbia vietato l’esposizione di messaggi politici sugli striscioni, con l’intento di eliminare lo scontro tra gruppi ideologicamente contrapposti, la politicizzazione delle curve continua a manifestarsi nei cori, nei simboli e nelle pubblicazioni distribuite all’interno e all’esterno di ogni impianto sportivo. Quello che si contesta non è il fenomeno in sé, ma l’apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. Le croci celtiche e le svastiche apparse a più riprese nelle curve di importanti società, una su tutte quella della Lazio, sono rimaste per lungo tempo ignorate e ivamente accettate da una giustizia sportiva troppo accondiscendente, eccessivamente impegnata a punire i goliardici cori antiberlusconiani della tifoseria livornese. Ancor più grave è l’incitamento alla follia da parte di tesserati, il camerata Paolo Di Canio su tutti, da una parte dell’opinione pubblica e senza troppe argomentazioni parificato al pugno chiuso di Cristiano Lucarelli, quest’ultimo un segno di libertà che non offende certo la Costituzione.
Un’indagine dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, presso il Ministero dell’Interno, evidenzia la capillare diffusione dell’estremismo di destra nelle curve italiane, specialmente nel Triveneto, mentre il Fronte di Resistenza Ultras che unisce livornesi, anconetani e ternani è l’ultima bandiera dell’antifascismo sportivo rimasta. La svariate tifoserie apolitiche o frazionate mostrano ultimamente, in analogia alla tendenza delle nuove generazioni, una spiccata propensione al neofascismo. Occorre inoltre rilevare l’esistenza del nucleo xenofobo-razzista Ultras Italia, a perenne seguito delle partite della nazionale azzurra.
In questo quadro disarmante, si registra l’aspetto più mafioso delle tifoserie organizzate, ovvero il business inaccettabile della distribuzione e rivendita dei biglietti, il finanziamento, l’organizzazione delle trasferte e l’assegnazione dei diversi settori dello stadio. Il tutto nonostante la legge vieti espressamente facilitazioni di qualsiasi genere alle associazioni di tifosi. Se la qualità del gioco pare essersi persa nei meandri del capitalismo più becero, con questa se n’è andata la ione dei er più accesi.
Italia paese violento. Non si potrebbe definire in altra maniera un paese che, dati alla mano, è tristemente alla ribalta per quanto concerne i maltrattamenti su donne e minori. La frenesia e la competitività di questa società, che pone la cinica autoaffermazione come uno dei massimi obiettivi cui può assurgere ogni persona, contribuiscono nei fatti all’inasprimento degli scontri tra gruppi sociali o singoli individui. A risolvere la questione non partecipano di certo trasmissioni televisive dal dubbio gusto, così crudeli da sfruttare i più efferati omicidi per elevare l’altrimenti modesto audience. Forse, al posto dei vari Porta a Porta disseminati nei canali televisivi, avremmo bisogno di profonda educazione a principi solidaristici purtroppo accantonati in soffitta.
Il mondo del pallone, come sempre specchio della nostra civiltà, non può essere da meno anche da questa prospettiva. Nel paese in cui si uccide per aver investito involontariamente un cane, si muore anche di calcio, per le cause più
disparate. Il primo a farne le spese è Giuseppe Plaitano, il 28 aprile 1963 a Salerno. Un rigore non concesso ai casalinghi fa scattare il raptus di follia di un er granata, che invade il campo a caccia dell’arbitro. Il sangue che cola dal suo volto, una volta bloccato dalle forze dell’ordine, scatena il pandemonio allo Stadio Vestuti. La folla cerca di scavalcare le inferriate, la partita è sospesa e la Polizia ritiene opportuno esplodere dei colpi in aria per intimorire ulteriormente i tifosi: uno di questi colpirà il povero tifoso granata, seduto in tribuna.
Nel 1979, in occasione del derby romano, si commemora invece la prima vittima del teppismo calcistico in Italia. Il suo nome è Vincenzo Paparelli, tifoso laziale colpito in pieno volto da un razzo per le segnalazioni marine lanciato dall’opposta Curva Sud, con la partita che viene disputata in un clima a dir poco surreale. In occasione degli scontri al termine di Triestina-Udinese, Coppa Italia 1984, il ventenne tifoso della Triestina Stefano Furlan è colpito al capo da alcune manganellate e finisce in questura. Dopo gli accertamenti è rilasciato, ma il mattino seguente Stefano sta male e viene condotto in ospedale: entra in coma profondo e morirà dopo 21 giorni. Lo stesso anno, al termine della partita MilanCremonese, il tifoso rossonero Marco Fonghessi viene accoltellato da un ultrà meneghino. La sua “colpa”: l’automobile targata Cremona.
L’escalation di violenza è appena iniziata, in puro stile Arancia Meccanica. Il mese di febbraio 1995 propone un’insolita domenica senza calcio, per sensibilizzare l’universo ultras a una regolamentazione interna, chiedendo alla politica misure più repressive contro la violenza negli stadi. L’elemento scatenante è l’accoltellamento del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo, per opera del diciottenne assassino rossonero Simone Barbaglia, poi condannato a quindici anni di carcere. Nel 1999 invece, il treno speciale che riporta a casa oltre 3 mila tifosi salernitani, dopo la deludente sfida salvezza contro il Piacenza, prende fuoco in una galleria. Il rogo, appiccato dagli stessi tifosi, provoca la morte di Simone Vitale, Giuseppe Diodato, Vincenzo Ioio e Ciro Alfieri. Il settembre 2003, l’arrancante Napoli di Andrea Agostinelli gioca al Partenio di Avellino un derby che si annuncia infuocato. I disordini accaduti a seguito della mancata concessione ai er azzurri di un maggior numero di tagliandi scatenano il finimondo: ne fa le spese Sergio Ercolano, 20 anni, vittima di una rovinosa
caduta da 20 metri di altezza.
La morte dell’ispettore capo Filippo Raciti, vittima degli scontri del derby tra Catania e Palermo, e la non meno drammatica fine di Gabriele Sandri, nel piazzale di sosta di un autogrill sull’autostrada A1, danno vita all’annus horribilis 2007 di un calcio italiano sempre più esasperato e violento, se si considera la terribile scomparsa del dirigente della Sammartinese Ermanno Licursi, nella terza categoria cosentina.
La dipartita del tifoso parmigiano Matteo Bagnaresi, in circostanze simili a quelle in cui ha perso la vita Sandri, forse non sarà l’ultima di un movimento che, anche da questo punto di vista, necessita di una profonda autocritica.
La violenza negli stadi è un fenomeno che ha coinvolto e coinvolge, in forme più o meno edulcorate, una molteplicità di paesi. Ne sono la triste riprova gli scontri allo stadio di Port Said in Egitto, con i suoi oltre 70 morti, e le perduranti intemperanze di alcune frange di er argentini, giusto per citare due esempi. Non si pretende che il tifoso italiano si trasformi tutto d’un tratto in Roligan danese, non sarebbe nella sua natura e cultura, ma il ridimensionamento di questa esasperazione sì: morire per una partita di calcio, ovvero in un’occasione di festa, è inconcepibile e assurdo. Il calcio italiano e, di riflesso, la società italiana necessitano un poco di umanità.
Nonostante l’assoggettamento del calcio al potere politico, per puri fini propagandistici, sia una prerogativa dei regimi totalitari, anche la democrazia (più o meno compiuta) italiana pare avere un rapporto privilegiato con il mondo pallonaro. Dopotutto non è necessario un manuale di Scienza Politica per dimostrare che, specialmente nei periodi di grave crisi economica, anche i governi sorretti da enorme consenso popolare si servono di misure repressive tipiche dell’autoritarismo, al fine di consolidare la propria leadership. Tipico esempio sono le misure restrittive operate per limitare la manifestazione del dissenso, sia in termini normativi, sia a livello economico, come i tagli alle
categorie più ostili o semplicemente meno inclini al servilismo.
A utilizzare il gioco del pallone come strumento di asservimento del popolo è inizialmente il fascismo, attratto dall’idea dell’uomo nuovo forte e impavido, che come il soldato in battaglia sacrifica se stesso per la gloria della propria nazione, al fine del raggiungimento dell’unico risultato possibile: la vittoria. Il regime totalitario introduce nei fatti la figura del calciatore di professione, chiudendo le frontiere all’arrivo di giocatori stranieri e cadendo in una delle sue mille contraddizioni: la questione degli oriundi.
Il 25 aprile 1945 spazza via il totalitarismo, e con questo una classe politica squadrista e servile, corrotta e incapace. I governi democristiani che contraddistinguono l’intera Prima Repubblica, tanto clientelari quanto accondiscendenti con i poteri forti, sviluppano una concezione della società fondata sulla locuzione latina Panem et Circenses: il calcio è un divertimento da concedere al popolo, a mangiare ci pensiamo noi. Se la famiglia Agnelli detta l’agenda politica dall’alto della propria condizione economica, con conseguente riflesso sulla politica sportiva del Paese, a fare il bello e il cattivo tempo è il Poltronissimo dello sport azzurro: Franco Carraro. Presidente del Milan per qualche anno, poi uomo per tutte le stagioni, l’ex campione di Sci Nautico ricopre una miriade di incarichi nel mondo del calcio prima di dedicarsi, con la tessera socialista in tasca, alla politica e all’amministrazione della città di Roma. Niente male per chi, probabilmente, conosce a malapena la forma di un pallone.
Il 1986 è l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi nel mondo pallonaro. Il fedele e servile craxiano acquista per poche lire un Milan all’orlo del fallimento e, con una campagna acquisti aggressiva, distrugge la concorrenza e costruisce un ciclo vincente. Il resto è storia recente, con l’approdo alla politica attiva, le leggi ad personam e il consolidamento del proprio patrimonio. Se una parte dei tifosi rossoneri non berlusconiani si affretta a riconoscere i meriti del Berlusconi Presidente Rossonero, non riconosce in maniera onesta i danni perpetrati dal Tiranno di Arcore al calcio italiano, con l’ingigantimento delle rose, monte ingaggi e valore delle transazioni dei calciatori. Con l’avvento di
Berlusconi nasce l’idea che si possa lucrare con lo sport, o che il calcio abbia il potere di offrire l’opportuna visibilità ai fini delle proprie attività imprenditoriali e politiche.
L’esplosione della bolla speculativa che fa crollare, con l’avvento del nuovo millennio, realtà consolidate come Lazio, Fiorentina e Parma, protagoniste di una campagna acquisti faraonica con i soldi del Monopoli, riporta la necessità di un sentiero della decrescita economico-calcistica. Nel frattempo i nuovi padroni del calcio italiano, con Diego Della Valle in testa, scrutano con attenzione la nuova situazione politica e premono per un non-disinteressato ingresso.
Una stagione di ordinaria follia
Ci sono giocatori che, una volta terminata la carriera agonistica, si ritrovano sperduti come Jack Lemmon a New York. Altri invece che, dedicatisi alla più snervante carriera da allenatore, vivono con estrema difficoltà la fase di transizione che li vede cavalcare la fascia, come se fossero ancora nell’undici iniziale. Dopo una stagione da giocatore-allenatore nell’esaltante campionato a sette per calciatori in pensione, ho deciso di dedicarmi esclusivamente alla guida tecnica di una squadra giovanile, abbandonando definitivamente una carriera ricca di insoddisfazioni. Il aggio dal campo alla panchina non si è rivelato traumatico, forse perché nel calcio giocato non ho lasciato una traccia indelebile, o semplicemente perché nel libro del mio destino era scritto da qualche tempo che, prima dei trent’anni, avrei diretto la mia prima squadra. Certo, nel corso dell’anno sono subentrate difficoltà che non avevo messo in preventivo, il calcio attuale propone una serie di problematiche che i quattordicenni della mia generazione non offrivano, frutto dell’esasperazione della società moderna. La squadra affidatami, da me accettata “a scatola chiusa” per l’irrefrenabile desiderio di allenarla, ha mostrato una scarsa propensione alla disciplina e all’apprendimento, le cui cause vanno ricercate nel ato sportivo della compagine e in qualche singola situazione di disagio sociale.
In fondo, però, questa stagione mi è piaciuta, ma soprattutto non rinnego la scelta effettuata nell’estate 2011. Vado pertanto a descrivere il cammino intrapreso, utilizzando nomi di fantasia: non vorrei che qualcuno abbia un irragionevole motivo per offendersi.
A fine agosto entro in sede per firmare il contratto, che poi non è altro che un pezzo di carta propedeutico alla redazione del cartellino. Mi viene consegnata la lista dei giocatori, un po’ pochini per affrontare il campionato Giovanissimi Provinciali a 11 giocatori, ma è data la conferma che potrò contare, all’occorrenza, dei talentuosi ragazzi della formazione Esordienti. Per sommi capi mi sono illustrate le peculiarità dei singoli giocatori, che per la maggior
parte sono di origine extracomunitaria: una risorsa per il sottoscritto, che crede nella multiculturalità. Da questa sera sono un allenatore del Borgorosso, mentre il mio vice sarà il fido Rogerio.
Il primo allenamento si rivela una sommaria conoscenza dei ragazzi, sotto lo sguardo attento del distinto Presidente. Qualche buona individualità c’è, in particolare il carismatico Seymour, ma pare sin da subito difficile inculcare la mentalità del sacrificio e della dedizione; la squadra non solo evita di praticare il possesso palla, ma addirittura appare restia al rispetto delle posizioni in campo. Insegnare qualche schema d’attacco è pura utopia, vista l’anarchia degli interpreti; lavorare sulla solidità della difesa è invece possibile fino a quando il centrale Fortunelli, piede educato ma lentezza pari a un bradipo, interrompe il funzionamento dei propri neuroni per mostrare al mondo una stupidità non troppo recondita. Il dinamico centrocampista Haddaway appare subito in sintonia con la nuova guida tecnica e cerca di spronare i compagni, ma il suo livello di autorità appare inversamente proporzionale all’impegno profuso; fin troppo accondiscendente è il terzino Tirella, desideroso di mettersi in mostra per conquistare il posto fisso.
Nel frattempo l’esordio in campionato è alle porte, mentre i legittimi dubbi sulle capacità della squadra si consolidano nella canonica amichevole precampionato, persa per 3-0 senza alcuna occasione creata. Sarebbe opportuno un cambio di rotta: auspico che l’esordio ufficiale porti maggiore concentrazione e voglia di vincere. La seduta d’allenamento antecedente l’incontro, disputata con buona applicazione dei singoli, è un segnale incoraggiante che mi riservo di cogliere solo al termine della partita stessa.
La consueta dose di casino accompagna il prepartita di Borgorosso-Belate, il distinto Presidente interviene per calmare gli animi esagitati dei ragazzi e la partita può avere inizio. A sorpresa lancio dal primo minuto l’esordiente mancino M’Boma, un peperino tutto velocità e tecnica che, seppur pagando in termini di fisicità, potrebbe far ammattire qualsiasi difesa. Purtroppo non posso disporre dell’esterno nordafricano Chadely, che alcuni designano come il
naturale erede di Taarabt: dalla Federazione non è ancora giunto il transfer. Lacrima in panchina l’insoddisfatto El Hadji, che pretende maggiore considerazione nonostante la sua carriera sportiva conti zero presenze in qualsiasi campionato.
L’inizio è tambureggiante e M’Boma è davvero imprendibile; la coppia d’attacco Seymour-Mourinho segna a raffica e l’esterno destro Gigliotti pare in giornata positiva. Buono l’esordio in difesa del possente ma un po’ rozzo Utaka, per il resto il reparto arretrato non è particolarmente impegnato nella dilagante vittoria finale. Arrivano i complimenti della società, ma sono convinto di aver affrontato la Cenerentola del girone.
Vorrei una squadra dinamica e di personalità, che pratichi il possesso palla e rispetti le distanze. Ovvero un gruppo affiatato che, in fondo, impari a giocare al calcio in armonia e con ione. Ma soprattutto gradirei concentrazione ed elasticità mentale, elementi essenziali per essere una squadra affamata di calcio. Dopo l’allenamento del martedì successivo all’esordio in campionato, nutro seri dubbi sulle mie aspettative.
E’ evidente come sia improponibile chiedere a Riquelme di competere in velocità con Usain Bolt, ma credo sia almeno possibile vederlo affrontare i cento metri piani in meno di venti secondi. Non mi aspetto rigore e disciplina da chi non l’ha mai praticata, ma quantomeno un minimo di rispetto e attenzione verso chi cerca di insegnare futbol, con la speranza di riuscirci. Inizio a interrogarmi sulla consistenza del gruppo e sul fatto che, a mio avviso, in ato sia stata utilizzata molto la carota e poco il bastone: eccessivo è il casino e l’anarchia dei giovani giocatori del Borgorosso.
Interrompo anticipatamente l’allenamento con annesso richiamo ai casinisti, l’ambiente ne sembra giovare la seduta successiva. La trasferta del sabato pomeriggio a Casatevecchio inizia nel peggiore dei modi, complici le disattenzioni del difensore Seymour Jr., all’esordio stagionale, ma col are
dei minuti la squadra cresce di intensità, grazie soprattutto alla spinta propulsiva del capitano Maddai. Proprio quando sembriamo nelle condizioni di mettere la freccia per il soro all’avversario, il giovane e svogliato arbitro danneggia l’incontro con una serie di decisioni inconcepibili: la sconfitta di misura lascia l’amaro in bocca, oltre alla convinzione di poter disputare un buon torneo.
La consapevolezza aumenta la settimana successiva, grazie alla goleada ai danni del malcapitato Rogolo: prendiamoci per il momento gli applausi della società, in vista di tempi peggiori.
Domenica affrontiamo il Nibbono, indicato da tutti gli addetti ai lavori come il possibile dominatore del campionato. La squadra sembra demoralizzata sin dall’allenamento del martedì e, al di la delle canoniche frasi di circostanza, nemmeno io ci credo troppo. Provo a mettere sotto pressione la difesa con alcuni esercizi specifici, ma l’esito è pessimo: proviamo ad accendere un cero in vista della trasferta di domenica mattina, anche a non essere credenti.
La squalifica del solido portiere Pavolini, cresciuto alla scuola di Chilavert tanta è la sua bravura con i piedi, suggerisce l’esordio tra i pali del giovane Levato. Ragazzo tanto diligente quanto timoroso, appare baciato dalla sfortuna quanto la difesa in maglia rossoblù concede alla capolista ampio spazio ove affondare, abbandonando nello spogliatoio la grinta necessaria per sopperire all’imbarazzante divario fisico-tecnico. L’esterno difensivo Kabangu appare insolitamente distratto e il regista arretrato Fortunelli, dopo un buon inizio, si scioglie davanti alle offensive casalinghe. Solo un lampo di Seymour, che sembra predicare nel deserto, spiega ai tifosi assiepati sugli spalti che la partita può avere ancora un senso: ci pensa il numero 10 in maglia bianca a ricordare che le due compagini non possono competere.
La batosta di Nibbono si ripete sette giorni dopo, questa volta a Massaia, altra squadra attrezzata per affrontare un campionato di vertice. Questa volta la squadra depone le armi di guerra ancor prima di scendere in campo, così inadatta
a partecipare a un campionato federale che richiede un briciolo di serietà, troppo abituata a calcare i terreni oratoriani e poco dedita all’apprendimento dei rudimenti del gioco del pallone. La goleada dei giganti in maglia blu rispecchia le fragilità difensive di una squadra a tratti menefreghista, il cui atteggiamento indisponente fa irretire il sempre composto Joe Pavolini, dirigente societario e padre del bravo portiere. Il Borgorosso è ufficialmente in crisi e necessita un intervento deciso della società, per richiamare all’ordine i giocatori indisciplinati ed eliminare le situazioni che creano disagio; purtroppo la rosa è risicata, ciò non offre la possibilità di mettere i calciatori in competizione per una maglia e pertanto li legittima, nella maniera più infantile, alla strafottenza di chi ha il posto assicurato. Il distacco e l’indifferenza con cui è accolto il discorso del Presidente, il non plus ultra della giovane società brianzola, mi offre uno spunto di riflessione sul riconoscimento delle autorità da parte di una squadra che forse non diventerà mai tale.
Come la più inattesa delle sorprese pasquali, arriva l’applicazione dei giocatori nel gradevole allenamento del giovedì, che precede un impegno domenicale certamente non proibitivo. In effetti, il Panetto è un avversario messo male in campo e carente sul piano tecnico, a fronte di una forza fisica davvero invidiabile. L’attaccante Seymour trova ampi spazi tra le maglie larghe della difesa ospite e, grazie ai preziosi assist del compare Mourinho, sfoggia la migliore prestazione stagionale per un punteggio tennistico che non ammette repliche. Una piccola ma non trascurabile nota di colore la fornisce l’allenatore dei meratesi, che sfoga tutta la propria frustrazione prima sulla direzione arbitrale e poi, non soddisfatto dalle risposte del giovane fischietto designato per l’occasione, contro la mia persona con una leggera spinta non degna di replica.
Per certificare la definitiva uscita dalla crisi servirebbe una buona prestazione a Lomanda, altra compagine costruita per giocarsi la prima posizione. Il compito potrebbe essere più agevole se affrontassimo l’incontro in parità numerica, ma la partita di domenica 6 novembre 2011 rappresenta l’inizio delle difficoltà nel reperimento di 11 calciatori da schierare. Il Borgorosso pratica una tattica difensiva che definire catenaccio è riduttivo, costretto com’è a far galoppare sulla fascia il rientrante Chadely. Simpatico ragazzo di spogliatoio, risulta però l’antitesi del calciatore, tanto scoordinato nei movimenti quanto privo di tecnica,
per non parlare dell’anarchia tattica che ne contraddistingue il suo peregrinare per il terreno di gioco. L’esito della partita è quindi scontato, nonostante il bunker predisposto duri quasi 30 minuti: seguirà una goleada impronunciabile.
Più agevole potrebbe essere l’impegno casalingo della domenica successiva, contro la quarta della graduatoria: il Molveno vanta un percorso simile al nostro e, quindi, sulla carta appare alla portata. Per la mia gioia posso disporre del fantastico sinistro di M’Boma, un giocatore di cui mi sono follemente innamorato, vuoi per la squisita tecnica ma, soprattutto, per la simpatia travolgente che lo rende un personaggio apprezzato da tutti. Un po’ meno dagli avversari, che sudano le proverbiali “sette camicie” per soffiargli il pallone dai piedi, se ci riescono, talvolta con metodi non troppo ortodossi. Quando indossa la divisa prima di scendere in campo, il ragazzo pare coinvolto in qualcosa di sproporzionato in relazione all’esile fisico; bastano pochi minuti per realizzare come una partita non sia sufficiente per soddisfare i palati fini dei veri intenditori calcistici. Poco importa se il piccolo giocatore africano appare troppo innamorato del pallone, a tal punto di portarselo a letto come in una celebre puntata di Capitan Tsubasa: l’eleganza nel dribbling e le conclusioni a fil di palo rendono irrisorio ogni banale errore.
E’ proprio il talento di M’Boma, in concerto con Seymour, a formare la coppia goal che riacciuffa il Molveno a partita quasi conclusa, dopo che la nostra retroguardia aveva reso omaggio alla compagine ospite di un comodo vantaggio. Il tandem dell’anarchia che non conosce fraseggio, preferendo la percussione palla al piede, salva per il momento la stagione di una squadra alla ricerca di un reale obiettivo, che esuli dal canonico divertimento. A dire il vero l’arbitro facilita il compito del Borgorosso, espellendo dal campo il mediano ospite per un fallo non propriamente da “cartellino rosso”, ma come sempre il malcostume tipicamente italiano della disonestà regna sovrano e la società preferisce complimentarsi con i ragazzi e gli allenatori.
Il successivo impegno del sabato pomeriggio a Rodallate, il quale non prevede punti in palio in quanto squadra fuori classifica, conferma una teoria elaborata da
tempo: l’attaccante Seymour, nonostante esibisca atteggiamenti tipici del boss mafioso, è un elemento imprescindibile della squadra. Leader carismatico del gruppo, suscita in buona parte dei compagni un atteggiamento adulatorio ai limiti della venerazione, per le proprie abilità calcistiche, certo, ma anche per la personalità e la strafottenza. Dal punto di vista tecnico può essere considerato il prototipo del calciatore moderno: dinamico, fisico strutturato, ottimo in allungo, buona tecnica di base e discreto utilizzo di entrambi i piedi. Come amo spesso ripetergli, per essere un buon calciatore deve migliorare quegli aspetti che ancora lo distanziano dall’esserlo: è giovane e ha ampi margini di crescita. Seymour però difetta nell’elemento essenziale per emergere nello sport come nella vita: la testa, intesa come razionalità nei momenti topici e soprattutto intelligenza nel volersi applicare. Emigrare verso una squadra in grado di metterlo in competizione con elementi di pari valori potrebbe aiutarlo a crescere, per uscire da quel guscio di ovatta che la Polisportiva Borgorosso ha contribuito a creare con i continui discorsi sulla sua bravura in campo.
Nel frattempo Seymour diserta per impegni personali la partita di Rodallate e, nel frastuono generale, la squadra soccombe sotto i colpi di un avversario davvero rispettabile. In verità ci metto del mio con alcuni esperimenti tattici che si riveleranno fallimentari, ma la realtà si presenta come il salatissimo conto al termine di una cena in un ristorante di classe: senza Seymour e i migliori ‘99, il Borgorosso è una squadra da ultimi posti.
Il riscatto potrebbe avvenire la settimana successiva nell’agevole scontro contro il Barbago, ultimo in classifica e senza troppe ambizioni. Rientra Seymour ed esordisce il giovane difensore Scoppola, il quale mostra sin dall’inizio un invidiabile senso della posizione e una personalità davvero interessante. Arriva la vittoria ma non la prestazione, complici alcune amnesie del sempre più irritante Fortunelli, che non affronta le partite con la giusta concentrazione. Davvero un peccato perché il calciatore classe ‘97, nonostante la velocità di base tipica delle lumache, mostra un tempismo perfetto negli interventi e avanza con le giuste misure per praticare la tattica del fuorigioco, una vera ossessione per un fanatico della difesa in linea come il sottoscritto. Il ragazzo natio di Borgorosso, colonna della squadra vista la sua lunga militanza, meriterebbe talvolta la sostituzione, come del resto buona parte della squadra, vista la costante
indisciplina. Ma, come ogni domenica da qualche tempo, mi volto verso la panchina e osservo solo il volto sconsolato di El Hadji che chiede un’opportunità, ma ancora non lo ritengo pronto per una mezza partita.
La trasferta di sabato 3 dicembre a Simboli scoprirà le carte, e con queste le reali intenzioni della nostra squadra. L’atteggiamento concentrato dei ragazzi nello spogliatoio lascia ben sperare, anche se noto alcuni musi lunghi. Uno di questi è rappresentato dal sempre più carismatico Seymour, che pare essere alle prese con alcune vicissitudini personali; il mister lo rassicura circa la propria importanza all’interno della società e il ragazzo, scioltosi d’incanto, appare pronto per una superba prestazione. Il terzino sinistro Tirella arriva poco prima dell’incontro, giusto il tempo per essere inserito in distinta: comporrà una linea difensiva a quattro con Kabangu, Fortunelli e Scoppola, ben protetti dal sicuro Pavolini. Pochi minuti prima del fischio d’inizio, l’esuberante Mourinho mi rivela di essersi appena concesso ai piaceri dell’autoerotismo: giocando sulla fascia sinistra, disputerà un primo tempo fantascientifico.
Inizia la partita e il reparto arretrato appare un po’ distratto, difatti la compagine avversaria, senza elementi di spicco, a in vantaggio. Col are dei minuti sale in cattedra la coppia Seymour-Mourinho, mentre M’Boma appare abulico e un poco svogliato; il pareggio arriva però per mano dell’esterno destro Haddaway, che appoggia in rete un lungo traversone dalla sinistra. Subito arriva il vantaggio del Borgorosso con Seymour e la squadra pare dominare il campo, grazie alle geometrie del tecnico e rapido mediano Pischelli, un ‘99 da tenere in grossa considerazione per la qualità del gioco espresso.
Nell’intervallo mi mostro soddisfatto e non potrebbe essere altrimenti, richiamando la squadra alla massima attenzione e al rispetto di un avversario che ripartirà a tutta, al fine di recuperare lo svantaggio. I ragazzi recepiscono il messaggio e aprono subito con il 3-1 firmato Seymour, che mostra un atteggiamento irriverente e quasi canzonatorio nei confronti del marcatore diretto: non mi posso permettere di sostituire l’uomo chiave, nonostante il fido Rogerio mi consigli il contrario. Dopo aver respinto i flebili attacchi simbolesi,
Kabangu lascia il posto a Utaka, mentre l’insufficiente M’Boma concede a El Hadji l’onore di calcare uno dei campi più belli del campionato. A chiudere definitivamente l’incontro ci pensa ancora Haddaway, che impazzisce di gioia e poi si lancia nella difesa del largo vantaggio. Al centro del campo domina Maddai, un motorino inesauribile nel recupero del pallone e altrettanto abile nel ribaltamento dell’azione, un calciatore completo e mentalmente ben disposto all’apprendimento e al sacrificio: in poche parole, un capitano vero.
La vittoria, strameritata, rappresenta il punto più alto della stagione: l’aggancio al quarto posto è realtà. Forse non riusciremo a conservarlo, in considerazione del fatto che al Molveno manca una partita, ma sono finalmente orgoglioso dei miei ragazzi, i quali sfoggiano un impegno degno di questo campionato e una qualità di gioco interessante, sui quali noi allenatori abbiamo lavorato molto. E’ possibile migliorare, sia sotto l’aspetto comportamentale sia dal punto di vista tecnico, i principi tattici del 4-2-3-1 sono ben lontani dall’essere appresi e il possesso palla è sempre di problematica esecuzione. Io però ci credo, perché il gruppo è compatto e anche i ragazzi del ‘99, ben preparati dal loro allenatore, appaiono motivati. Conosco la loro refrattarietà alla disciplina e al silenzio, non amo l’eccesso di esuberanza e strafottenza, vorrei un gruppo affamato di apprendimento e non di partitelle per puro divertimento. Non desidero però un gruppo di schiavetti da sottomettere, magari privi di talento e ricchi solo di dedizione, perché il calcio è anche estro e fantasia, imprevedibilità e immaginazione. Lotterò per portare questo gruppo al massimo delle proprie possibilità, poi si vedrà.
La stagione invernale porta come ogni anno freddo, pigrizia e talvolta neve. Anche quest’anno i fiocchi hanno baciato la Brianza, con tutto il loro candore, evidenziando tutti i limiti e le debolezze della civiltà moderna. Se il traffico sulle strade si congestiona ai limiti della sopravvivenza, frutto dell’inconcepibile dipendenza italiana dall’automobile, figuriamoci se è possibile correre su un campo da calcio imbiancato. In fondo non ci lamentiamo; un po’ di riposo per ricaricare le pile prima dell’inizio del girone di ritorno, quando i terreni di gioco saranno più agevoli, non ci dispiace.
Quando però gli allenamenti ricominciano, i ragazzi sembrano aver perso il mordente delle ultime giornate del girone di andata, appare scomparsa ogni parvenza di serietà e regna sovrana la volontà di allenarsi esclusivamente per divertirsi. Dequalificato quello che è il ruolo dell’allenatore, da questa situazione, anche il mio approccio all’allenamento pian piano si involve, complice anche la scarsa considerazione dello staff societario nei confronti della squadra.
Sebbene la compagine dei giovanissimi sia stata costituita in piena mancanza di ragazzi, quasi a offrire ai giovani un’opportunità di gioco, sin dalle prime battute si percepisce un certo distacco da parte della dirigenza, ben mascherato dall’entusiasmo di un Presidente legatissimo a questo gruppo. L’ostracismo degli alti vertici si concreta in un atteggiamento di profondo disinteresse nei confronti della squadra, sia in termini di o logistico, sia per quanto concerne il sostegno alle trasferte; chiaramente di facciata sono gli applausi al termine delle vittorie casalinghe. Se limitato è l’uso degli spogliatoi dopo l’allenamento serale, vietato è l’utilizzo del pullmino societario per le trasferte domenicali, mentre inaccessibile risulta la calda e accogliente palestra comunale. A complicare la situazione contribuisce l’atteggiamento del “clan”, sempre più capeggiato da Seymour, che pratica uno sciopero fiscale di chiaro stampo federalista e preferisce non pagare; in tutta risposta il factotum societario, l’anziano e iperattivo Mattarella, evita di preparare il canonico thermos di the ai sempre più infreddoliti giovanissimi. La paradossale situazione complica i piani degli allenatori, costretti a riporre i panni dei tecnici per vestire quelli meno adatti degli educatori, assistenti sociali, tassisti e persino bodyguard. Davvero comionevole è l’atteggiamento delle alte sfere societarie, in occasione delle festività natalizie, di non omaggiare lo staff tecnico anche solo con gli auguri. Nasce questi giorni, in me, la convinzione che a Borgorosso sarò una meteora, spero di quelle vincenti.
Le sensazioni alla vigilia del ritorno in campionato non sono certo delle migliori, la condizione atletica è insufficiente e la concentrazione è ai minimi livelli. Inoltre l’avversario della prima giornata appare tutto fuorché arrendevole: il Casatevecchio è un ottimo banco di prova per testare le nostre ambizioni di alta classifica, visto e considerato il punteggio dell’andata. L’irritante atteggiamento
dell’allenatore ospite, teso a giustificare un’eventuale sconfitta ancor prima di scendere in campo, è un motivo in più per conquistare tre punti necessari quanto il pane in tempi di carestia.
La partita si rivela una salita difficile da scalare, visto l’iniziale e casuale goal avversario, frutto dell’ennesima disattenzione della nostra retroguardia. Questa volta il collettivo non si scompone e si butta con raziocinio all’attacco, trovando immediatamente il pareggio e mettendo la freccia del soro, grazie a un Seymour da cineteca. Il Casatevecchio del sempre più irritante mister, sempre disposto ad addossare le colpe dello svantaggio al bravo arbitro designato, subisce il colpo e sembra non potersi rialzare. L’intervallo è solo l’interruzione di un’agonia che si prorogherà per tutto il secondo tempo, visto che anche Mourinho sale in cattedra per il 4-1 finale che non ammette repliche.
A disturbare i festeggiamenti per la vittoria ci pensano alcune voci insistenti circa il futuro sportivo del terzino Tirella, sempre più propenso ad abbandonare il calcio per dedicarsi altre attività. Mi riserverò di affrontare l’argomento con i suoi genitori, anche se dalla bocca del ragazzo nulla ancora trapela. E’ evidente come un giovane di 14 anni abbia tutto il diritto di affrontare nuove esperienze motorie, ma è altrettanto corretto che si educhi ogni persona, specialmente in quella fascia di età così delicata, al rispetto dei propri impegni e soprattutto dei propri compagni. Nelle recenti sedute di allenamento il giovane, non sempre presente, appare svogliato ma soprattutto in contrasto con una parte del gruppo, la quale non sembra digerire i tipici comportamenti da “fighetta”.
Tirella rimane comunque un titolare fisso, come del resto tutti gli altri, vista la penuria di elementi in rosa, peraltro aggravata dalla cronica assenza di Chadely. L’oggetto misterioso della campagna acquisti del Borgorosso, più che un fenomeno la vera e propria mascotte della squadra, appare bloccato dal freddo pungente dell’Italia settentrionale e dalle oggettive difficoltà nel raggiungere il campo d’allenamento, causa mancanza mezzi di trasporto. E’ quest’ultima la costante della stagione sportiva 2011/2012, ovvero lo scarso seguito di genitori, parenti e amici, soprattutto per quanto concerne la locomozione: un problema
irrisolvibile che obbliga i soliti noti alla presenza pressoché obbligata.
Se il calcio è una rappresentazione micro della nostra società, non sorprendiamoci dei frequenti episodi di razzismo dentro e fuori i campi di gioco. Evitiamo pertanto di sminuirli, etichettandoli come un malcostume tipico della sottocultura calcistica, ma cerchiamo di interrogarci sul perché, in occasione di una tranquilla partita di ragazzini, sia possibile riscontrare insulti idioti dettati dal differente colore della pelle. Quello che doveva essere un tranquillo pomeriggio di sport, magari condito da una vittoria che sulla carta poteva essere agevole, si è trasformato nella peggiore esperienza vissuta da allenatore. Il sole, che di per se può rappresentare un’anomalia in pieno febbraio, bacia Rogolo ma non i suoi calciatori, protagonisti di episodi di razzismo apparentemente inimmaginabili per quattordicenni aspiranti uomini. Forse uomini non lo diventeranno mai, se seguiranno i modelli proposti da una televisione che non fa più riflettere, se assumeranno come idoli assoluti i profeti della banalità che calcano i terreni di gioco della serie A, se affideranno la propria educazione ai cattivi maestri della paura, se accetteranno ogni risposta preconfezionata senza cercare la propria verità, se vorranno chiudersi in una cerchia senza aprirsi alla diversità.
Gli epiteti razzisti lanciati ad alcuni miei giocatori fanno tanta, troppa tristezza, soprattutto se sminuiti e non condannati dai dirigenti di casa. Quelle parole nascondono però una verità, molto più grande di un terreno di gioco 105x65: la nostra società vive una crisi culturale profonda. Poiché siamo noi persone comuni a comporre la società, con le nostre avventure e i nostri sogni, siamo noi stessi a causare questa chiusura sociale, accettando ivamente modelli calati dall’alto e alimentandoli con l’odio. Germina il seme dell’individualismo e noi, con i nostri comportamenti protesi alla diffidenza, facilitiamo lo sviluppo di una pianta che, in un ato neanche troppo lontano, ha prodotto guerre mondiali e totalitarismo.
Forse, la tanto discussa “crisi dei valori” che affligge l’umanità siamo noi stessi a generarla, se non educhiamo al rispetto altrui i nostri figli o nipoti, se gli
insegniamo che il mondo viaggia a due velocità ed è giusto che sia così, se pensiamo che tutti debbano essere puniti in maniera esemplare fuorché noi stessi, per qualsiasi manchevolezza. Non può esistere società senza il principio solidaristico secondo il quale, per convivere, il più fortunato debba rinunciare a qualcosa in favore del meno abbiente. Altrimenti saremmo un ammasso di individui a se stanti, senza alcuna possibilità e volontà di comunicare, volti alla tutela dell’interesse personale e tristemente relegati a una vita senza relazioni.
Probabilmente mi sto dilungando in discorsi che ai miei calciatori poco interessano, ma mi pare doveroso comunicargli questo. Da Rogolo torniamo quindi sconfitti due volte: come squadra di calcio e come cittadini del mondo.
L’impegno casalingo contro il devastante Nibbono è proibitivo, figuriamoci se la domenica della partita subentrano importanti assenze. Il terzino Tirella sembra sempre più lanciato verso il Muro di Grammont, affascinato dall’idea di ripercorrere le orme di Fabian Cancellara; probabilmente non raggiungerà mai la velocità sul pavé del fenomeno svizzero, nemmeno alla guida di una lussuosa automobile, ma al momento pare aver sospeso la propria carriera da calciatore. Il pari ruolo Kabangu sembra invece afflitto da un male misterioso che lo allontana temporaneamente dai campi di gioco; il giocatore congolese, intelligente quanto basta per essere diligente e corretto, appare invece questi giorni molto vago.
Sul terreno scende quindi Figali, un ragazzino del 2000 che pare avviato a folgorante carriera. In lui abbondano talento e personalità, nel complesso è positiva la sua prestazione nonostante un divario fisico che ricorda il celebre scontro Davide-Golia. Altrettanto non si può dire per il resto della squadra, che soccombe sotto i colpi della squadra schiacciasassi.
La settimana successiva l’impegno è ancor più proibitivo, se si considera la difficoltà nel reperire 11 giocatori e la qualità di un avversario, il Massaia, che sul piano atletico sembra ancor più dotato del Nibbono. Costretto a schierare una formazione di emergenza, scatta la prima da titolare di El Hadj, con il grado di
centrocampista esterno destro, con l’esperimento Mourinho come terzino sinistro. Nello spogliatoio chiedo ai ragazzi di onorare la maglia, in fondo non potrei dire miglior frase di circostanza, rassegnato come sono a una sconfitta di dimensioni epocali. Tra le assenze spicca quella dell’assistent-coach Rogerio, che nella notte non digerisce una pizza e rimane “al palo” per un’intera giornata.
L’approccio degli avversari alla gara non è dei migliori, convinti come sono di avere in tasca i tre punti, e inizio a nutrire qualche speranza in occasione di una ghiotta opportunità fallita da Seymour. Arriva dopo pochi minuti il vantaggio casalingo con una punizione a “foglia morta” di Fortunelli, abile a trafiggere il portiere dalla lunga distanza. La risposta ospite tarda ad arrivare, perché lenta è la manovra e asfissiante è il pressing della coppia di centrocampo MaddaiHaddaway, ben coadiuvati dall’esterno sinistro M’Boma. I cronici problemi alla schiena moltiplicano in maniera esponenziale la risaputa lentezza di Fortunelli, che è costretto ad abbandonare la marcatura del centravanti in maglia azzurra in occasione del pareggio. A ristabilire le distanze ci pensa, però, il glaciale Mourinho, che realizza un calcio di rigore conquistato con caparbietà da Seymour, più che mai uomo squadra con l’incarico di unico attaccante. Ancora Seymour, poi rete avversaria, per il 3-2 che termina la prima soffertissima frazione di gioco.
Nell’intervallo mi rassicuro delle condizioni atletiche dei calciatori, comunicandogli che l’unica possibilità di vittoria risiede nella maggiore dedizione alla corsa e nel ripiegamento difensivo. Invito pertanto loro a sacrificare ogni energia residua per la squadra, sino a quando anche la riserva sarà esaurita e non ci sarà più la possibilità di rifornirsi. I ragazzi appaiono decisi a entrare nella storia di questo campionato, e quando subiscono il pareggio ospite non si abbattono come in altre occasioni. A rendere il compito più agevole ci pensa Seymour, con una rete di rapina che esalta tanto il sottoscritto quanto il pubblico sugli spalti. I minuti che ci separano dal fischio conclusivo sembrano un’eternità e, pertanto, contribuisco alle canoniche perdite di tempo con soccorsi spesso superflui agli stanchissimi giocatori di casa. La difesa regge meravigliosamente anche perché i missaiesi, che di certo non auspicavano una partita simile, portano alla rete difesa da Pavolini solo attacchi sterili, ben contrastati da un Seymour Jr. in bellissima forma. La partita si conclude, i
ragazzi cantano sotto la doccia, chi finora li ha criticati si spella le mani dagli applausi. Il giorno 11 marzo 2012, il Borgorosso risorge come l’araba fenice e sconfigge la seconda in classifica.
L’emozione dura poco, giusto il tempo di una settimana. A Panetto arriva una sconfitta, la più bruciante, contro una squadra anticalcio e un allenatore che pare la controfigura di Hannibal Lecter. Il punteggio è assolutamente meritato, considerate le poche palle goal create dalla mia squadra; inoltre devo necessariamente fare autocritica, per non aver caricato a dovere i ragazzi, i quali pagano nei confronti degli avversari un deficit motivazionale imbarazzante. Mai sottovalutare l’avversario, è la regola aurea del calcio.
Non accampo scuse e auspico un pronto riscatto, ma devo necessariamente appurare la perenne difficoltà nel raccogliere undici giocatori da inserire in distinta. Premesso che risulta impossibile schierare la stessa formazione ogni domenica, è evidente come disporre di alcuni giocatori solo la domenica non sia produttivo nell’economia dei risultati. Di questi tempi, accomodarsi in panchina accanto a un calciatore di riserva è pura utopia, quanto la realizzazione della società del libero baratto; in fondo, però, i sogni mi affascinano, e in tal senso continuo a sperare.
Continuo a immaginare un gioco più civile, responsabile e divertente, oggi più che mai, visto il comportamento a dir poco imbarazzante dei tifosi locali. Se l’ingiuria all’avversario sembra essere diventata l’assurda prassi che mai farà elevare la nostra società, è intollerabile l’insulto dell’anziano al potenziale nipote. Soggetti che non esito a definire irrecuperabili, alla presenza del direttore di gara, infangano uno sport sempre più esasperato e che non tollera l’errore. Medito di staccare la spina al termine della stagione, anche se sono convinto che la ione, ancora una volta, mi riporterà nei ranghi.
Quando la corrente ti trascina al largo, non c’è molto da fare. Occorre non perdere la calma ed evitare di nuotare contro, rischiando di annegare distrutti
dall’affaticamento; è opportuno invece farsi trasportare dalla marea, oppure nuotare nella stessa direzione. Alla fine il moto si fermerà, facendoti tornare a una situazione di calma apparente.
Succede così anche nel calcio, l’elettroshock per superare la crisi di risultati spesso è un palliativo che ingolosisce i presidenti, a ogni latitudine e livello agonistico. Personalmente sono dell’avviso che ogni gruppo che si rispetti abbia gli anticorpi per affrontare le difficoltà, se non li possiede non è squadra, pertanto merita i cattivi risultati. Dopo aver messo abbondante fieno in cascina, il Borgorosso sembra ora tirare i remi in barca, considerate anche le oggettive difficoltà che attanagliano il suo finale di campionato. Dopotutto è solo un momento che prima o poi finirà, magari non finirà, in ogni caso il nostro onesto campionato lo abbiamo disputato e non potevamo chiedere di più alla classifica, considerata la rosa a disposizione e l’indisciplina di una parte degli atleti.
Il percorso delle ultime giornate di campionato ricorda molto quello della corrente marina che spinge gli esseri umani al largo: le mie decisioni per il futuro le ho già prese, mi lascio trascinare dalla marea fino al termine del campionato, poi comunicherò il tutto. Porterò a termine in maniera dignitosa la mia avventura, spero che i miei compagni di viaggio facciano altrettanto. Sarebbe bello che ognuno di noi conservasse dentro di se questa esperienza, che tra alti e bassi ci ha portato a convivere diversi mesi, condividendo le gioie e i dolori della domenica calcistica e le continue tensioni degli allenamenti settimanali, vissuti nella maniera più elettrizzante e frenetica possibile. Di sicuro, la prima vera esperienza da allenatore mi ha fornito insegnamenti, spesso appresi da autodidatta, che custodirò gelosamente negli anni a venire. Ma il giorno 25 aprile 2012, Festa della Liberazione dal nazifascismo, rescinderò il mio rapporto con la società Borgorosso, nonostante i miei ragazzi in fondo mi considerino il loro futuro allenatore.
In queste ultime giornate la squadra sembra affrontare le partite con il freno a mano tirato e, in fondo, anche il sottoscritto ha riposto in un angolino la grinta delle scorse settimane. Trovo inutile cercare di insegnare calcio a chi non lo
vuole apprendere, specialmente a fine campionato, meglio spendere le ultime sedute di allenamento in elettrizzanti partitelle all’ultimo respiro. Ultimamente sembro inoltre risentire di stanchezza fisico-mentale dovuta principalmente al lavoro, e in via secondaria agli altri impegni extra lavorativi, pertanto preferisco evitare urla e schiamazzi finalizzati all’ottenimento di un barlume di disciplina.
Il rendimento della squadra ne risente, ma in questo senso non faccio troppa autocritica. E’ la squadra a volerlo, mentre la società appare sempre più distante dal collettivo da me guidato, troppo ancorata alle tradizioni per socializzare con cittadini stranieri, poco riconoscente nei confronti dell’impegno profuso dagli allenatori. La proibitiva gara casalinga contro il Lomanda si trasforma in un tiro al bersaglio dal quale esce vincitore il portiere Pavolini, eccezionale per tempismo e reattività; la sua mostruosa prestazione rende il ivo contenuto e maschera le lacune di una squadra a tratti priva di orgoglio, che al termine della partita festeggia sotto la doccia, che cosa non si sa.
Mentre Luca acchiappa tutti i palloni, il padre Joe mostra la consueta gentilezza e simpatia, sollevando il mio morale post-sconfitta. Non perde la calma e la sua disponibilità è sinonimo di ione e attaccamento alla squadra; ci dividono le opinioni sul mondo e sul calcio, ma è una persona con cui è piacevole discutere e sorridere. La bruciante sconfitta di Moleno e l’ecatombe infrasettimanale di Belate sono la certificazione che questa squadra non ha più nulla da chiedere al campionato, ma potrebbe almeno provare a salvare la faccia. La sufficienza di alcuni giocatori in campo è sempre stata oggetto delle critiche di Joe, il quale si irretisce in occasione delle sanzioni disciplinari, assolutamente evitabili, comminate in queste ultime giornate. Il nostro guardalinee crede nell’educazione e nella disciplina, nonostante questa squadra non sia mai stata ad applicarsi in quest’ultima; a prescindere da ogni discorso prettamente calcistico, Joe è il punto di riferimento della società per i Giovanissimi, nel deserto che ci circonda. Finché la sua automobile grigio-metallizzato sosterà nei parcheggi dei campi sportivi della Brianza lecchese, il Borgorosso avrà ragione di esistere.
Quanto sono triste. Da un paio d’ore è morto un calciatore professionista e noi,
che professionisti non lo diventeremo mai, corriamo appresso a un pallone disputando una partita priva di ogni significato. Nessun punto in palio nell’incontro contro il Rodallate, ma ancora non arrivano comunicazioni federali per la sospensione di ogni campionato, resesi necessarie dalla dignità umana. Si parte con un minuto di silenzio che non scalda i cuori dei 22 in campo, i quali non appaiono segnati da questa notizia: forse il tempo li aiuterà a capire che lo stesso destino beffardo potrebbe riguardare loro. Il sottoscritto invece rimane immobile sulla linea laterale, ripercorrendo mentalmente in una drammatica sequenza le immagini dei calciatori scomparsi su un terreno di gioco, divisi dai colori e dalle epoche storiche, uniti da un’atroce scomparsa. Mi commuovo, il fischio dell’arbitro decreta l’inizio dell’assurdo, che pertanto non merita di essere narrato.
La settimana successiva è il punto più basso della stagione sportiva del Borgorosso, che perde in casa dell’impresentabile Barbago, sotto una pioggia tambureggiante che nel secondo tempo lascia spazio a un pallido sole. L’aria di smobilitazione è quella tipica del finale di stagione e, nello spogliatoio, anche Joe Pavolini si abbandona a simpatiche gag comiche con i ragazzi. Tra i pali gioca Levato, il quale si rende protagonista di alcuni interventi in sicurezza, mentre la fantasia del trio Mourinho-Seymour-M’Boma fa pensare a una domenica di futebol bailado. Dopo il vantaggio iniziale e le tante occasioni fallite a due metri dalla porta, la nostra difesa si scioglie come la neve al sole, sotto i colpi di un avversario esaltato dall’azione di un pubblico incredulo. Il Barbago vince e noi allenatori non crediamo ai nostri occhi, ma in fondo non ci rammarichiamo, oggi è domenica e mercoledì ci congederemo, pertanto confidiamo in una chiusura di campionato dignitosa.
Il 25 aprile di ogni anno celebro l’Italia che resiste, che parteggia, che si ribella alle disuguaglianze. L’anniversario della Liberazione dal nazifascismo è occasione per ricordare chi ha sacrificato la propria vita per la libertà, ma anche per interrogarci sul perché, specie ultimamente, gli spettri del ato tendano a riapparire. Lego un fazzoletto rosso al collo e mi dirigo verso il campo, per l’ultima volta, prima di dedicarmi ai festeggiamenti.
Attendiamo i soliti ritardatari e Rogerio compila la distinta, l’ultima della stagione. Pavolini, Utaka, Gigliotti, Fortunelli, Seymour Jr., Maddai, Giarmuni, Haddaway, Mourinho, Seymour, M’Boma sono i prescelti per l’epilogo della stagione, con El Hadji e Kabangu pronti a subentrare. Il riscaldamento è come al solito irritante, ma in fondo ci scherzo sopra: spero che i ragazzi non si spompino prima dell’incontro. L’arbitro chiama per l’appello e i giocatori rispondono con il consueto disordine, il quale risulta anche divertente quando i loro cognomi vengono storpiati: è la dimensione umana di uno sport che sta diventando sempre più fantascientifico.
Si scende in campo e la squadra appare decisa a non farsi scavalcare dal Simboli, che nelle ultime giornate pare aver messo la freccia per superarci al quinto posto, forte anche di un buon numero di sostenitori al seguito. Il terreno di gioco emette invece una sentenza inappellabile, perché quando i miei giocatori offensivi si muovono in maniera organica sono concreti e belli a vedere, forse troppo per il malcapitato avversario in maglia bianco-verde: la supremazia del Borgorosso è schiacciante. L’allenatore ospite prova in tutti i modi a riportare nel match i suoi ragazzi, ma il Simboli non è il Celtic Glasgow, nonostante il colore della divisa dica il contrario. Questa sfida non è certo l’Old Firm e dopo mezz’ora appare già segnata, con il solito Seymour a tutto campo e il fratello a guidare la retroguardia, mentre abulico appare un Haddaway sempre meno propenso alla fase difensiva. Quattro reti, la girandola di cambi e la gioia finale dei calciatori oggi in blaugrana, che rendono omaggio al sottoscritto con il canonico gavettone di fine stagione. Commovente è l’abbraccio dei ragazzi, che appaiono sinceramente dispiaciuti dalla possibilità di non poterci più vedere; mentre discuto col distinto Presidente circa gli obiettivi e le intenzioni per il prossimo campionato, ci si accorda per una pizzata celebrativa. In ogni caso, nulla si è ancora è ancora terminato e gli sviluppi saranno descritti in un futuro ed entusiasmante capitolo.
Il dramma nel calcio
Il calcio, come ogni altro sport, è espressione di vitalità e vigore atletico. La pratica sportiva concilia inoltre con lo spirito, allentando i nervi sempre più tesi di una vita sempre più sotto stress. E’ per questo che pare impossibile morire di calcio, per il calcio o in un campo di calcio. Ma il dramma individuale diventa collettivo quando un’intera piazza scompare dal sistema, vittima di un cinico capitalismo sportivo che non conosce regole.
Questo capitolo, sconsigliato ai cagionevoli di salute, illustra come il calcio possa essere non solo fonte di gioia e divertimento, ma anche di dolore, da non confondere con la eggera delusione per una sconfitta o una retrocessione. Ecco allora dieci storie efficaci, per riportarci a terra dopo aver volato a lungo, nei precedenti capitoli.
Morire per un autogol. Sembrerebbe impossibile, eppure la grande enciclopedia del calcio, alla voce “pagine nere”, riporta anche questa drammatica vicenda. Il protagonista è Andrés Escobar, uno dei difensori-simbolo della frontiera del Nuovo Calcio, ovvero la Colombia del Pacho Maturana. Un buon giocatore, un uomo sportivo e leale, una persona uccisa per aver insaccato il pallone nella porta sbagliata: dodici colpi a bruciapelo e una dedica.
Per provare a illustrare il folle gesto, è necessario partire dal mese antecedente gli accadimenti. La nazionale colombiana si prepara a disputare un’edizione dei mondiali, quella di USA 1994, che può rappresentare la crescita definitiva di un movimento in grande fermento. Le premesse ci sono tutte: un gruppo di abili giocatori, un ottimo allenatore e un gioco divertente, da fare invidia alle compagini più prestigiose. Inoltre, grande visibilità internazionale viene offerta, a Valderrama e compagni, dalla storica vittoria nelle qualificazioni CONMEBOL contro l’Argentina di Basile, con il rotondo punteggio di 5-0 al Monumental di
Buenos Aires.
Il punto di forza della difesa cafetera è rappresentato da Andrés Escobar, un roccioso terzino che non disdegna sganciarsi in occasione dei calci piazzati offensivi. Il suo stile di gioco non è ruvido, cosa che Maturana apprezza molto sin dagli esordi con l’Atlético Nacional, arrivando a lanciarlo molto giovane nella massima selezione. Abile di testa e consistente nei contrasti, El Caballero è, dopo i successi con il proprio club e la pluriennale esperienza con la maglia della nazionale, uno dei difensori più apprezzati nel panorama LatinoAmericano. La sua fulminea esperienza con la maglia dello Young Boys di Berna, dopo la vittoria della Copa Libertadores 1989, non è certo un’esperienza memorabile; eppure il giocatore di Medellin vorrebbe provare una nuova avventura europea, al termine del Mondiale, per poi fare ritorno nella terra d’origine.
Il movimento calcistico colombiano non riflette la situazione reale del Paese, quest’ultimo dilaniato dal narcotraffico e dalla malavita che attorno a esso circumnaviga. Semmai lo sport più praticato nel paese, al pari del ciclismo, può rappresentare una via di fuga da un inferno che Maturana non esita a definire “un manicomio permanente”. Le mafie e i cartelli della droga si sono impossessati del paese, con la benedizione di Zio Sam, e dalla propria posizione il tecnico di Quibdo auspica una Colombia con più cultura, la quale potrebbe elevare le masse da questa situazione drammatica per ribellarsi. Una buona prestazione nella massima competizione per squadre nazionali potrebbe amplificare il messaggio di Maturana, esaltare il ruolo sociale dello sport per provare a fare esplodere questo sistema corrotto. Purtroppo, non sarà così.
Il girone A della prima fase a gruppi è apparentemente equilibrato. C’è la temibile Romania di Hagi, con i suoi solisti ben coordinati, ma anche la Svizzera che ha ben impressionato nelle qualificazioni contro l’Italia di Sacchi; i padroni di casa, invece, sembrano invece degli ottimi atleti avviati per errore alla carriera calcistica. L’esordio di Pasadena è dei peggiori, dove si riscontra una condizione atletica precaria oltre a qualche meccanismo difensivo da oliare. La sconfitta per
3-1, sigillata dal magico sinistro del Maradona dei Carpazi, è un camlo d’allarme ma certamente non una resa, poiché vi sono ancora due partite alla portata di chi, poco tempo prima, relegava la gloriosa Albiceleste agli spareggi contro l’Australia. La partita contro gli USA, quella che doveva rappresentare la riscossa cafetera, è anticipata dalle minacce di morte contro il centrocampista Gabriel Gómez, capro espiatorio della sconfitta con i rumeni. L’ambiente è scosso, i giocatori in campo sono ovviamente contratti e, al minuto 35, Escobar devia nella propria porta un innocuo traversone proveniente dalla sinistra, nel tentativo di anticipare gli attaccanti avversari. L’errore, che appare banale per un giocatore di quel livello, è evidentemente frutto di una situazione di tensione nervosa estrema. Nell’economia della sconfitta finale per 2-1, l’autorete del giocatore del Nacional è decisiva; la vittoria nel match conclusivo contro la Svizzera è solo una triste formalità.
Al rientro in patria, la stampa è inferocita per la deludente prestazione della nazionale; anche il numero 2 dei Cafeteros non è esente da critiche, il quale prova a distrarsi in compagnia della futura moglie, in un ristorante di Medellin. Uscito dal locale, Andrés è raggiunto da un gruppetto di persone con cui si instaura una discussione conflittuale, che dura poco: “Grazie per l’autogol”, gli spari, l’inutile corsa verso l’ospedale. L’esecutore materiale del gesto, l’ex guardia giurata Humberto Muñoz Castro, viene presto riconosciuto e portato in prigione: dopo 10 anni sarà inspiegabilmente scarcerato.
Ancora poco chiaro risulta il movente del gesto, ma sopratutto il mandante dell’omicidio. Nessuno crede che Muñoz abbia potuto agire per vendetta personale, mentre la pista che appare più probabile porta a una rete di scommettitori locali, i quali avevano scommesso grosse cifre sul aggio del turno della propria nazionale, poi agito per vendetta. Facile pensare a un inquinamento delle indagini, che non fa altro che gettare nuovo fango sul Paese. A distanza di anni la Colombia è uno stato al collasso economico, dilaniato dai massacri dei gruppi paramilitari, lacerato dalle lotte intestine tra i cartelli dei narcos e sempre servile nei confronti degli Stati Uniti. Anche un’autorete, siglata su un campo di calcio, può mostrare il lato più crudele di un Paese.
E’ il 30 maggio 1994 e la frazione di San Marco di Castellabate, nel Cilento, si risveglia come ogni mattina. Agostino Di Bartolomei, alzatosi un po’ prima dei familiari, scende le scale e da un cassetto estrae un oggetto lì riposto. Ago, come viene soprannominato dagli amici, si dirige verso la veranda di questa splendida villa a pochi i dal mare, ancora in pigiama. Si ferma, inizia a pensare, a ripercorrere le fasi salienti alla propria vita.
La vita di Di Bartolomei ha come epicentro la città di Roma, non potrebbe essere altrimenti. Lì è nato, lì è cresciuto prima come uomo e poi come calciatore, segnando la storia della gloriosa squadra giallorossa. Un ragazzo con tanta voglia di leggere, apprendere ma anche giocare, cresce nella Capitale, anche se appare un po’ troppo introverso per potersi imporre. Ma le sue indubbie qualità sono presto riconosciute, nelle giovanili della Magica prima, con la Prima Squadra poi, con cui esordisce appena diciassettenne. Potrebbe essere l’inizio di una stella, ma il giovane ha i piedi ben saldi al terreno, giocando una manciata di partite e realizzando la prima rete da professionista. Nel frattempo Agostino si diploma e accetta il trasferimento in prestito al Vicenza, per completare la propria maturazione; al suo ritorno, si rivelerà un elemento imprescindibile per la squadra della capitale.
Nella casa di San Marco, ad Agostino brillano gli occhi quando ripensa a Nils Liedholm, l’allenatore svedese che per lui è stato più di un mentore. Il tecnico che più di ogni altro gli ha dato fiducia è ormai invecchiato e ora si gode la meritata pensione, ma Diba lo ricorda sempre con molto affetto e stima. Quella stima che il Barone ha sempre riposto nel giocatore romano, riconoscendone prima il valore umano, apprezzando quella sua capacità di non uscire mai dalle righe, quel suo fare signorile in ogni ambito della vita, l’essere leader senza dover necessariamente agitare la folla, l’impegno e lo spirito di abnegazione senza mancare di sportività. Liedholm lo elegge presto capitano, perché il suo ruolo è centrale, specialmente nello spogliatoio.
L’ex campione e allenatore rossonero è da sempre legato a un’idea di gioco che fa dell’abilità tecnica il punto focale. In questo senso, Agostino Di Bartolomei è
un perfetto interprete della zona di Liedholm, così abile nel servire i compagni con lunghi lanci millimetrici, ma anche di distruggere le certezze dei migliori portieri con tiri improvvisi e imparabili dalla distanza. Ago è l’intelligenza fatta persona, con il suo incedere apparentemente lento ma sempre con un’idea in testa, che spesso si rivela vincente. Per lui, Nils progetta un ruolo da mediano incontrista, ma poi lo arretra a battitore libero. I campioni stanno sempre al centro, sostiene il monumentale Bill Shankly.
Agostino si commuove quando ripensa al 1983, anno di uno scudetto conquistato dopo un cammino regolare, terminato il giorno 8 maggio. Il volto dell’ex bandiera della Lupa cambia diametralmente umore quando gli si presenta, come un flash fotografico impossibile da cancellare, la foto di Bruce Grobbelaar, il portiere venuto dallo Zimbabwe per parare i rigori di una Roma a 11 metri dalla massima vittoria continentale. La notte capitolina che regala la quarta Coppa dei Campioni al Liverpool di Souness, esattamente 10 anni fa, è un concentrato di emozioni, illusioni, rabbia e polemiche che un romanista vero non potrà mai dimenticare.
Le lacrime scendono fitte sul volto del Capitano. Quando a ventinove anni si sente nel pieno della carriera, il nuovo staff tecnico giallorosso prova a fargli cambiare idea. Diba è costretto a lasciare la Capitale per approdare nuovamente tra le braccia del Barone, questa volta a Milano, sponda rossonera. Il solito contributo alla causa, con classe e serietà, prima di tirare gli ultimi calci a Cesena e infine a Salerno, con la promessa mantenuta di riportare i campani nella cadetteria.
Si è ritirato dal calcio giocato ormai da quattro anni, Ago, e ora vive in questo splendido comune che diede i natali alla moglie. Col cuore però è ancora a Roma, lì vorrebbe tornare per riassaporare l’entusiasmo dei tifosi, come dirigente o magari allenatore, anche se purtroppo non vi sono opportunità concrete all’orizzonte. Gli affari con l’agenzia assicurativa non sono buoni; potrebbe andare meglio con la scuola calcio che ha da poco fondato, ma le banche si rifiutano di concedere il finanziamento del progetto di ampliamento
cui lavora da qualche tempo. I familiari, invece, non lo hanno mai tradito. A loro lascia uno scarno messaggio, pieno di rabbia verso il mondo del calcio cui ha dato tanto, senza ricevere altrettanto. Poi afferra la pistola prelevata dal cassetto e spara una rasoiata al petto, secca e precisa come uno dei suoi calci di rigore, quelli che non aveva paura di tirare. Dieci anni dopo il dischetto dell’Olimpico, muore suicida Agostino Di Bartolomei.
In Italia, la morte ha il potere di riabilitare personaggi dalla dubbia statura morale, o almeno succede così per alcuni protagonisti della scena politica nella Prima Repubblica. In ogni angolo del mondo, quando un artista, un volontario o un campione giunge all’ultimo respiro della propria vita, il sincero apprezzamento popolare rende il defunto un esempio da seguire. Se a scomparire è un’intera squadra di calcio, forse la più forte mai costruita nel Belpaese, entriamo nella sfera dei miti e delle leggende. La leggenda del Grande Torino, appunto. La favola degli Invincibili nasce per iniziativa di Ferruccio Novo, un industriale torinese che nel 1939 assume la presidenza del club granata. Si rivelerà presto, per le proprie abilità gestionali, come uno dei pochi presidenti competenti della storia del calcio italiano. La costruzione del mito a per le sapienti mani di un ungherese, Ernest Erbstein, che con i torinesi collabora a fasi alterne e con diverse qualifiche. Prima allenatore, poi collaboratore sottotraccia al rientro a Budapest, a seguito dell’emanazione delle leggi razziali, infine il ritorno nell’organigramma societario al termine della guerra, come consulente prima e direttore tecnico poi. Egri è uno specialista della preparazione atletica e delle tattiche di gioco, ma soprattutto crede nella formazione finalizzata alla valorizzazione del calciatore e, di riflesso, della squadra; il tecnico di origini ebraiche costruisce un settore giovanile che, per l’epoca, è di assoluto valore.
Nell’Italia distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, la gente prova a ricostruire la propria esistenza. A offrire possibilità di svago è la domenica allo stadio: al Filadelfia, terreno di gioco del Grande Torino, gioiscono solo ed esclusivamente i sostenitori granata. Quando Oreste Bolmida, ferroviere di professione, suona tre squilli di tromba dalla tribuna, la compagine torinese onora il famoso quarto d’ora granata: i giocatori cambiano marcia e per gli avversari sono solo dolori.
Il Torino che si appresta a vincere il campionato 1948-49, il quinto in otto anni, è una macchina perfetta che concede alla nazionale la quasi totalità dei titolari. La formazione titolare, che ogni tifoso granata che si rispetti conosce a memoria, è la seguente: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Il capitano è Valentino Mazzola, un giocatore completo giunto dal Venezia per consacrarsi come migliore in Italia, forse di tutti i tempi. Lo schieramento tattico è il sistema inglese di Herbert Chapman, che l’undici di Erbstein consacra a suon di goleade; la disposizione dei calciatori in campo esalta le caratteristiche di Guglielmo Gabetto, un finalizzatore implacabile proveniente dai rivali cittadini della Juventus.
L’Unione Europea è lontana dal nascere, così come i trofei continentali per club; un vero peccato, perché avrebbero potuto elevare la squadra di Novo a una dimensione internazionale. Per confrontarsi con le migliori compagini mondiali ci si affida alle amichevoli: il 3 maggio 1949 Mazzola e compagni sfidano a Lisbona il Benfica, per celebrare il ritiro dal calcio del capitano portoghese Ferreira. L’incontro termina 4-3 per i lusitani e il Torino, dopo una prestazione comunque dignitosa, prende il volo il giorno successivo per sbrigare la praticascudetto. Le trentuno persone a bordo del trimotore non torneranno a casa: le attenderà la fitta nebbia di Superga e uno schianto mortale contro il retro della Basilica. Muore una squadra di calcio, lo staff tecnico, i giornalisti al seguito, l’equipaggio dell’aereo. Nascono gli eroi del Grande Torino, un esempio per tutti quelli che tifano granata o semplicemente apprezzano il buon calcio, quello sano, autentico che si giocava un tempo, dove il contatto con i propri idoli era diretto, senza l’intermediazione di qualche magnate della televisione.
A distanza di nove anni, un’altra grande squadra paga dazio in un disastro aereo, questa volta a Monaco di Baviera. Sono i Busby Babes del Manchester United, i ragazzini terribili che Matt Busby ha da poco promosso in prima squadra per costruire la storia del club. Ne moriranno otto, tra cui il migliore: Duncan Edwards, un centrocampista destinato a una carriera imponente. Dalle ceneri dei Red Devils che potevano essere, il geniale tecnico scozzese e il talentuoso Bobby Charlton edificano lo United che salirà sul tetto d’Europa, nel 1968. Gli eroi sacrificano sempre se stessi per una buona causa.
Per il calciatore professionista, quando la carriera sportiva si interrompe, la vita difficilmente trova un senso lontano dal mondo che lo ha reso celebre e ricco. La permanenza nel calcio, sotto vesti differenti, restituisce nuova linfa all’ex atleta, che si catapulta con entusiasmo quasi infantile nella nuova esperienza. A volte, però, il rinnovamento è sinonimo di tragedia. I primi giorni di settembre, annus horribilis 1989, due campioni che hanno calcato per altrettanti decenni la scena calcistica mondiale abbandonano, uniti dall’identico beffardo destino, la vita terrena. Migliaia di chilometri e sei anni di differenza, racchiusi in soli due, drammatici giorni. Kazimierz e Gaetano, ex calciatori, ora nel mito dello sport.
Il primo giorno del mese, mentre attraversa le vie di San Diego, in California, un uomo di 42 anni muore a seguito di un incidente. Di cognome fa Deyna e, nonostante oggi siano in pochi a ricordare la sua grandezza, si tratta del più forte giocatore polacco di ogni tempo. Giunto negli Stati Uniti per spendere le ultime risorse di una carriera ricca di soddisfazioni, egli cercherà di dare lustro alla deprimente scena calcistica statunitense, assolutamente inadeguata allo stile di gioco del numero 10 europeo. Già, perché di classe Kazimierz ne ha parecchia, così tanta da essere paragonabile, per classe e raffinatezza, almeno a Gianni Rivera.
La parabola di Deyna inizia nel Legia Varsavia, una delle squadre più titolate della Polonia, ed è una costante ascesa che lo porta ad affermarsi con la maglia della nazionale. Sono i mondiali tedeschi del 1974 a rivelare il trequartista, capitano e trascinatore di una compagine entusiasmante, come uno dei più forti atleti del pianeta. La prestazione che Deyna sciorina contro la malcapitata Italia di Valcareggi, condita da una magistrale realizzazione con un preciso tiro in corsa dal limite dell’area, è la perfetta sintesi delle qualità dell’individuo: sempre nel vivo del gioco, raffinato ed elegante, realizzatore e suggeritore.
Sebbene Kazimierz non abbia certo un volto da copertina, nel 1981 si avvicina al mondo del cinema. E’ per questo che molti, osservando una foto dell’epoca, lo riconoscono come il Paul Wolcheck di Fuga per la vittoria, la sfilata di celebrità
calcistiche diretta da John Huston. Deyna ha già iniziato la fase calante della sua carriera, che purtroppo coinciderà con quella della propria vita.
Il 3 settembre 1989, il celebre giornalista Sandro Ciotti, famoso per la voce roca prodotta dalle tante, troppe sigarette fumate nella propria vita, interrompe la selezione delle reti alla Domenica Sportiva per comunicare una notizia che nessuno si sarebbe aspettato. Gaetano Scirea è morto, bruciato tra le lamiere di un’utilitaria a circa 70 chilometri da Varsavia, la città che ha dato lustro e visibilità a Kazimierz Deyna. Con l’incarico di assistente dell’allenatore juventino Dino Zoff, aveva appena visionato il Gornik Zabrze, futuro avversario di Coppa dei bianconeri, e si apprestava a rincasare. Un tamponamento si rivela fatale: le taniche di benzina nel bagagliaio producono un incendio dal quale Scirea non può evadere, intrappolato nell’abitacolo insieme con altre tre vittime.
Con la morte dell’ex capitano juventino se ne va anche un esempio di signorilità. Non tanto in termini calcistici, seppur sia possibile considerare Gaetano Scirea un libero alla pari di Franz Beckenbauer, Franco Baresi e Daniel arella, ma quanto per il suo comportamento integerrimo dentro e fuori dal campo. Sono le umili origini che lo rendono, anche dopo aver raggiunto la consacrazione internazionale, lo stesso ragazzo di sempre: corretto, sportivo, discreto, altruista. Cresciuto nell’Atalanta, consacratosi poi con le maglie della Juventus e della nazionale, Scirea è il prototipo del difensore moderno prima ancora che il libero uscisse dalle caverne. Tempista nelle chiusure difensive, abile nella prima impostazione, il suo ato da mediano lo facilita nella ricerca della rete avversaria. Vincerà tutto quello che c’era da vincere, prima di ritirarsi a 35 anni.
Dopo di lui, tanti bravi calciatori hanno calcato i terreni di gioco italiani. Nessuno però ha saputo emulare le sue gesta da campione della strada, onesto sincero, trasparente davanti alle telecamere come nella vita di tutti i giorni, sempre disposto a dare la mano all’avversario. Curve e stadi sono stati intitolati, nel corso degli anni, a Gaetano Scirea. Dovremmo continuare a farlo, ricordando alle giovani leve calcistiche chi era questo ragazzo di Cernusco sul Naviglio: forse qualcuno riuscirà a raccoglierne il testimone.
Una partita di pallone, se particolarmente avvertita dalle compagini che stanno per sfidarsi, nel gergo comune può diventare una battaglia in cui i colpi più duri e i mezzi meno leciti vengono sfoderati, al fine di conquistare la vittoria. Nel 1969, nell’inquietante scenario centroamericano del latifondismo, lo scontro esce dal terreno di gioco per trasferirsi nei cieli e nei territori dell’Honduras. E’ la Guerra del Fútbol, un termine forse semplicistico per definire un drammatico evento che affonda le proprie radici nelle reciproche rivendicazioni degli stati coinvolti, nelle loro difficoltà socio-economiche e nelle mire egemoniche dell’imperialismo sul territorio. E’ innegabile però che a determinare lo scoppio del conflitto, tanto breve quanto doloroso, sia una sfida di calcio: El SalvadorHonduras, valida per le qualificazioni ai mondiali messicani 1970.
Le relazioni tra i due stati, nel corso degli anni Sessanta, sono tese quanto una corda di violino. Governati da regimi a dir poco autoritari, i quali giurano a Zio Sam una fedeltà incondizionata, le due nazioni litigano per spartirsi i “caschi di banane” calati dall’America settentrionale in cambio di terre e sfruttamento. A ciò si aggiungono le velleità salvadoregne di uno sbocco sull’Atlantico, oltre alle richieste di controllo del Golfo di Fonseca; il paese più densamente popolato dell’America centrale, la cui agricoltura è dominata dalle multinazionali straniere e dalla ristretta classe latifondista, chiede nuovi spazi ai paesi confinanti. Nel 1967, con la firma della Convenzione bilaterale sull’immigrazione, 300mila contadini salvadoregni disoccupati emigrano sul suolo honduregno per coltivare vaste aree non utilizzate. Dopo le proteste interne per i provvedimenti governativi, il tiranno Lopez Arellano, che mai lederebbe gli interessi dei proprietari terrieri e delle multinazionali a stelle e strisce, rescinde unilateralmente l’accordo ed espelle dal Paese i 300mila, permettendo ai coltivatori locali di beneficiare delle terre precedentemente coltivate dai colleghi.
In questo clima, le rispettive nazionali si sfidano per le qualificazioni ai Mondiali 1970. La partita è ancor più sentita perché le due compagini, giacché il forte Messico è ammesso di diritto alla massima competizione, intravedono la possibilità di accedere per la prima volta alla Coppa del Mondo. L’andata di Tegucigalpa, terminata 1-0 per i locali, mostra una serie di intimidazioni dei
tifosi locali verso i giocatori rivali. Il ritorno disputato a San Salvador, oltre al “canonico” assedio dell’hotel dove alloggia la nazionale honduregna, registra una serie di scontri tra la tifoseria ospite e la polizia locale, la quale non esita a utilizzare le maniere forti. Vincono per 3-0 i salvadoregni e, dato che la differenza reti non è rilevante ai termini di regolamento, per decretare la futura sfidante di Haiti, è necessario un terzo e drammatico episodio, questa volta in campo neutro.
Il 27 giugno, allo Stadio Azteca di Città del Messico, il clima è tipico della guerriglia, alimentato dai richiami nazionalisti dei rispettivi organi di stampa. Sul terreno di gioco la partita è molto equilibrata e combattuta, a tal punto da concludersi in pareggio dopo i tempi regolamentari. Quando il giocatore salvadoregno Mauricio Rodriguez segna il 3-2 che porta i connazionali alla finalissima per l’accesso ai Mondiali, le tifoserie avversarie vengono a contatto all’interno dell’impianto sportivo, per trasferire poi la lotta nelle vie circostanti. L’Honduras rompe le relazioni diplomatiche con El Salvador, il secondo mobilita l’esercito.
Il 14 luglio, senza alcuna dichiarazione di guerra, l’esercito salvadoregno avvia le ostilità per “tutelare i propri cittadini e la sicurezza dei confini nazionali”. Le forze militari di entrambi i paesi sono ridotte e utilizzano mezzi antiquati, per lo più residuati della Seconda Guerra Mondiale, ma il numero di soldati e mezzi consente a El Salvador di penetrare agevolmente nel territorio confinante. La difesa honduregna punta alla distruzione dei rifornimenti avversari, bloccandone in questo modo l’offensiva; nel frattempo l’Organizzazione degli Stati Americani impone il cessate il fuoco, che nei fatti avviene il 20 luglio. Sei devastanti giorni, 5700 morti, il ritorno dei contadini salvadoregni in Honduras che, nella pratica, avverrà solo per poche unità: sono questi gli effetti di un contenzioso che terminerà con la sottoscrizione dei trattati di pace del 1980 e 1992.
El Salvador accederà al Mondiale, mentre la Bicolor dovrà attendere dodici anni prima di potervi partecipare. A dividere i due paesi, per lunghi anni, una cortina
di odio che pone in contrasto i dominati, gli oppressi, gli sfruttati, in una guerra tra poveri da cui traggono vantaggio solamente le élite capitaliste sempre con la pancia piena. Sembrerà assurdo, ma lo sport che più dovrebbe unire, nel corso della storia ha saputo dividere tanto da produrre una guerra sanguinaria. La Guerra del pallone dimostra quanto è pericolosa la strumentalizzazione del calcio in ottica nazionalista; sarà per quello che vado fiero della mia visione internazionalista, del calcio e della vita.
Nella combattutissima serie cadetta italiana degli anni Ottanta, emerge un centrocampista tanto bravo quanto fotogenico. Donato Bergamini nasce calcisticamente nel dilettantismo emiliano-romagnolo e ha tanta voglia di emergere; con la maglia dell’Imola prima e dell’Unione Sportiva Russi poi, mostra le sue caratteristiche di grande combattente strappando il biglietto per il professionismo. A ingaggiarlo è il Cosenza, che milita in serie C1 con ambizioni di promozione. Il giocatore ferrarese impiega un anno per adattarsi al clima del Sud, poi esplode affermandosi come perno del centrocampo rossoblù. La stagione 1987-88, la terza con i Lupi della Sila, è quella della tanto sospirata promozione in serie B: decisivo è l’apporto dell’allenatore Gianni Di Marzio, personaggio pittoresco e al contempo un grandissimo intenditore di football.
Bergamini si dimostra un giocatore completo, un atleta inesauribile e uno stoccatore infallibile nei momenti che contano. L’annata 1988-89 è un’altalena di emozioni che porterà il Cosenza a un o dalla storica promozione nella massima serie, sfuggita solo per la classifica avulsa. Nello scacchiere tattico rossoblù, Donato è una pedina fondamentale che non può essere surrogata, date le ambizioni di vertice della società calabrese. Sono pertanto rifiutate le insistenti offerte del Parma di Tanzi, pronto a riportare il calciatore nella propria regione, per coronare il sogno della serie A con l’arrivo del nuovo mister Gigi Simoni.
Il suo campionato dura poco. Il 18 novembre 1989 Bergamini telefona alla (ex) fidanzata Isabella, pregandola di accompagnarlo a Taranto per prendere un traghetto che lo portasse in Grecia, volendosi allontanare dalla città dei Bruzi per motivi imprecisati. La ragazza acconsente alla richiesta e, a bordo di una
fuoriserie bianca, discute animatamente con il calciatore una volta fermatisi in una piazzola di sosta, lungo la Statale 106 Jonica. E’ sera, fuori il tempo è buio e piove, Donato vorrebbe proseguire il tragitto a piedi e chiede alla ragazza di riportare a casa l’automobile. Nonostante Isabella cerchi di convincerlo a desistere, il giocatore esce dall’auto senza indossare il giubbotto e accenna l’autostop. La giovane lo richiama insistentemente e Donato, in preda a indecifrabili pensieri, si getta sotto un autocarro condotto da Raffaele, autotrasportatore di Rosarno che trascina il corpo per quasi 60 metri, senza poter evitare la manovra mortale. Il calciatore Donato Bergamini muore suicida a soli 27 anni, o almeno questa è la versione di Isabella, ritenuta chiara e completamente affidabile dalla magistratura.
A distanza di oltre due decenni dall’accaduto, sotto le pressioni della famiglia e dell’intera Curva Sud dello Stadio San Vito, la procura di Castrovillari riapre le indagini in virtù di nuove prove. A riportare la luce su questo episodio di cronaca nera-sportiva contribuisce, con un libro-inchiesta del 2001, il compianto Carlo Petrini. In effetti, la versione di Isabella non convince nessuno sin dall’inizio; appare evidente, altresì, la volontà di archiviare frettolosamente il caso.
Le ferite sul corpo di Bergamini non sono compatibili con la dinamica del trascinamento, il che escluderebbe l’urto violento con il camion. A confermare la tesi arriva una perizia dei RIS di Messina, che accerta come alcuni oggetti personali di Donato, quali scarpe e orologio, sono intatti nonostante la presunta collisione. Ulteriori inquietanti scenari sono aperti dalla possibilità che il corpo abbia subito feroci mutilazioni, per poi essere riposto sull’asfalto simulando l’incidente, ipotesi che al momento non viene confermata. In ogni caso, sembra improbabile che il cardine del centrocampo cosentino abbia voluto porre fine, volontariamente, alla propria vita, specialmente nel punto più alto della carriera sportiva.
La vicenda presenta molte zone d’ombra, specialmente per quanto concerne il ruolo di Isabella. Il 18 novembre 1989, innanzitutto, da Taranto non partiva alcun traghetto destinazione Grecia. La ragazza, ormai donna, non chiarisce
perché dopo l’accaduto abbia telefonato a Gigi Simoni e non ai carabinieri, ma soprattutto come si sia recata in un bar per chiamare. Destano interrogativi i rapporti della ragazza con un pregiudicato locale, il quale vende per un prezzo stracciato la propria fuoriserie al calciatore.
Pare che alcuni tizi poco raccomandabili abbiano avvicinato Bergamini pochi giorni prima della morte, sono state avanzate questioni di droga e partite truccate. Donato è probabilmente finito in un giro più grande di lui, ingenuo ragazzo di provincia, ed è stato ucciso da chi lo considerava un intralcio per i propri interessi. Egli però continua a vivere nel cuore dei familiari e della tifoseria calabrese, i quali chiedono alle nuove investigazioni di chiarire finalmente i fatti, di onorare la memoria di un ragazzo pieno di vita. A Roseto Capo Spulico muore Donato Bergamini, un ragazzo che voleva solo giocare a calcio.
Non è mia intenzione trasformare questo manoscritto in un prontuario medico, non possiedo le dovute competenze e, in un baleno, uscirei dagli obiettivi preposti nell’introduzione. E’ però doveroso ricordare agli apionati di sport, che spero numerosi proveranno ad approcciare alla lettura del libro, che una malattia rara sta pian piano radicandosi nel mondo del pallone. Parlo della Sclerosi Laterale Amiotrofica, malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso che colpisce i neuroni di moto, con conseguenze differenti a seconda del paziente, ma con esiti funesti per la qualità della vita in generale.
La prima vittima accertata della SLA, acronimo con il quale è comunemente identificata la malattia, è il campione statunitense di baseball Lou Gehrigh. Da quel momento, si registrerà una serie di casi che coinvolgerà gli ambiti lavorativi più disparati, dallo sport alla politica, ando per la musica e lo spettacolo, sino alla gente comune. Attualmente, le cause della malattia sono ancora ignote, anche se gli esperti formulano ipotesi come la trasmissione ereditaria, i traumi derivanti da attività fisica e l’esposizione ad agenti tossici, quali pesticidi e fertilizzanti. Il gioco del calcio, però, pare registrare un’incidenza maggiore rispetto al resto della popolazione, con quasi 50 casi appurati. Ad aprire
l’inchiesta tesa alla ricerca di eventuali connessioni tra football e SLA è, ancora una volta, il procuratore torinese Raffaele Guariniello. L’indagine del magistrato analizza numerosi casi di morti sospette, non necessariamente dovute alla Sclerosi Laterale Amiotrofica, concentrandosi sulle potenziali cause scatenanti comuni; pur non giungendo a conclusioni rilevanti, Guariniello apre un filone di ricerca sulla possibile relazione tra il morbo e l’abuso di sostanze dopanti.
La ricerca scientifica, che andrebbe maggiormente incoraggiata visto il capitale umano di alto profilo nel nostro Paese, prosegue i propri studi sulle cause e la cura definitiva della malattia. Al momento esistono solo trattamenti mirati al prolungamento della sopravvivenza, oltre a cure palliative per la riduzione della gravità dei sintomi. Questi, inizialmente trascurati per via della leggerezza dei disturbi, consistono in una certa rigidità o debolezza dei muscoli. Quando il morbo di Gehrigh progredisce, invece, le conseguenze possono essere devastanti: perdita della capacità di deglutire, disartria, paralisi, impossibilità di respirare se non tramite ventilazione assistita, infine la morte. La SLA non altera le funzioni cognitive del malato, il quale assiste impotente alla distruzione del proprio fisico. Per un individuo che ha fatto dello sport la propria professione, reduce da mille battaglie vinte grazie al proprio vigore atletico, è un’atroce beffa.
L’amore dei familiari e degli amici più cari, tanto sincero quanto autentico, da solo non può bastare per combattere la SLA. Serve l’impegno collettivo, a partire dagli organi decisionali dello Stato, per destinare fondi a una ricerca scientifica che può produrre esiti confortanti e risolutivi. Può il multimilionario calcio, dominato dalle televisioni e dalle politiche di merchandising, ergersi a guida di una lotta contro questa malattia rara? Certamente, deve diventarlo, animato com’è dalla ione dei tifosi di ogni bandiera. Questi hanno già eletto, anche per via della cassa di risonanza mediatica che i singoli casi hanno avuto, i due calciatori-simbolo della battaglia.
Il primo è Gianluca Signorini, un libero dai piedi educati che trascina il Genoa alla vittoria di Anfield Road, nella tana dei reds del Liverpool. Appena terminata una carriera calcistica ricca di soddisfazioni, Il Capitano scopre di essere affetto
dalla SLA, malattia di cui ancora si conosce poco e si parla ancora meno. Il 24 maggio 2001, lo Stadio Ferraris si appresta a osannare per l’ennesima volta Gianluca, accompagnato sul terreno di gioco con una sedia a rotelle, sofferente in volto, con una sciarpa rossoblù al collo e tanta, tanta voglia di vivere. L’occasione è offerta da una raccolta fondi per la ricerca; Signorini morirà dopo un anno di sofferenza, ma il suo ricordo continua a vivere non solo nei er genoani, ma in tutti coloro che hanno assistito, anche solo per pochi attimi, alle commoventi immagini di Genova.
Il secondo è Stefano Borgonovo, un attaccante che contribuisce alle fortune europee del Milan di Arrigo Sacchi. A distanza di qualche anno, ora lotta contro la Stronza, come egli definisce la malattia, con la speranza di poterla sconfiggere. Insieme alla moglie crea una Onlus, per sostenere l’assistenza domiciliare e ospedaliera a favore dei malati, cercare le cause della malattia, finanziare una cura risolutiva.
Accanto a Signorini e Borgonovo, in questa lotta contro la SLA, ci sono tutti gli altri casi accertati, oltre a quelli che lo diverranno. Persone che vorrebbero far luce, spesso per voce altrui, su una malattia che potrebbe essere riconosciuta come professionale. Ammalarsi nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative è ingiusto, in fabbrica come sopra un rettangolo verde, perché il lavoro è per vivere, non per morire. Al nostro dovere di cittadini è demandato il compito di elevarci in tal senso.
Il 14 aprile 2012, allo Stadio Adriatico di Pescara, il centrocampista del Livorno Piermario Morosini si accascia improvvisamente al suolo. In preda a una crisi cardiaca, il giocatore viene trasportato d’urgenza in ospedale: lì vi morirà poco dopo. La tragica fine del giocatore bergamasco fa il giro del mondo e commuove tutti; sarà per le riconosciute qualità umane di Morosini, o per quel viso d’angelo che nasconde un velo di tristezza. Lui, rimasto orfano in giovane età, aveva saputo conquistare la stima degli addetti ai lavori arrivando alla Nazionale Under 21, girando in lungo e in largo lo Stivale alla ricerca di un’occasione per compiere il definitivo salto di qualità. Un metronomo dalle abili geometrie, si
dice del ragazzo, ma gli manca un po’ di cattiveria e cinismo. Con la squadra amaranto pensava di aver trovato la giusta dimensione, si è invece disteso a terra in un sabato pomeriggio di primavera, cercando come sempre di rialzarsi, per l’ultima volta.
Quella di Piermario Morosini è l’ultima di una serie di tragedie che avrebbe tutti i requisiti per comporre un elenco telefonico. Il primo caso di morte improvvisa di un calciatore risale al 1969, in un pomeriggio cagliaritano che emette una sentenza crudele: si può morire di calcio. A farne le spese è un centravanti toscano che milita nella Roma, Giuliano Taccola, che quel giorno non scende neppure in campo. Da qualche tempo non si sente bene, accusa influenze improvvise e un problema cardiaco, ma l’allenatore Helenio Herrera spinge ogni volta per averlo in campo. La notte prima della fatale sfida in terra sarda, il giocatore giallorosso avverte una febbre alta e lo staff medico lo conduce dritto in tribuna. Sceso negli spogliatoi per complimentarsi con i compagni, al termine dell’incontro, stramazzerà al suolo per poi morire durante il tragitto in ambulanza.
Se la morte di Taccola è una storia dai mille lati oscuri, su cui pesano come un macigno le accuse di doping da parte dei familiari, la scomparsa di Renato Curi nel 1977 è dovuta a una malattia cronica del cuore. Il motorino del centrocampo perugino, fulcro di una squadra che assapora la vetta della classifica grazie alla sapiente guida di Ilario Castagner, si getta di colpo al suolo, in un freddo e piovoso pomeriggio umbro di ottobre. Inutili sono i soccorsi dei medici, che dichiarano ufficialmente morto il baffuto ventiquattrenne in perfetta contemporaneità con la fine dell’incontro Perugia-Juventus, partita di cartello della quinta giornata di Serie A. Al termine dell’incontro divampano le polemiche sui controlli medici cui è stato sottoposto il giocatore, il quale risulta clinicamente sano: sarà l’autopsia a rivelare la gravità del disturbo di Renato, fino a quel momento sottovalutato dai più.
All’estero, sono innumerevoli i casi di decesso in campo, molti dei quali in terra anglosassone. A suscitare la preoccupazione generale sui rischi del mestiere è,
per la risonanza mediatica dell’evento, la Confederations Cup del 2003. A Lione si disputa il secondo tempo di Camerun-Colombia quando, di colpo, il centrocampista dei Leoni d’Africa Marc-Vivien Foé sviene e abbandona il mondo dopo un’ora di inutili tentativi di rianimazione. Il forte mediano africano ha girato le squadre più attraenti d’Europa, appare impossibile che nessun controllo medico lo abbia fermato in tempo. L’attacco cardiaco è infatti causato dal ventricolo sinistro di dimensioni astronomiche, condizione congenita di Foé.
Il 2004 è invece un anno orribile per il sollecitatissimo cuore dei calciatori professionisti. A gennaio, in Portogallo, muore il nazionale ungherese Miklós Fehér poco dopo aver ricevuto un cartellino giallo, nella sfida che porta il suo Benfica a espugnare Guimãraes. Le immagini faranno il giro del mondo, cosa che non accadrà invece per il difensore del São Caetano Paulo Sérgio Oliveira da Silva Serginho, cui è fatale la sfida del Morumbì contro il San Paolo.
Tre anni dopo, la Spagna è colpita dal dramma di Antonio Puerta, giovane e promettentissimo difensore del Siviglia fresco vincitore della Coppa Uefa. Il giocatore perde conoscenza nella sfida casalinga contro il Getafe, viene rianimato e riesce a dirigersi verso gli spogliatoi; successivamente arrivano altri arresti cardiaci che ne provocano un repentino peggioramento, sino alla morte del 28 agosto. Sarebbero bastati esami più approfonditi per preservare la vita dell’uomo. Qualche mese dopo sarà la volta di Phil O’Donnell, leggendario centrocampista del Motherwell con un ato nel Celtic Glasgow.
Non vado oltre, la lista è chilometrica e bastano questi pochi esempi per mostrare come sia assurdo morire lavorando, su un campo di calcio come su un ponteggio per cinque euro l’ora. Necessaria è la messa in sicurezza dei subordinati, che nel calcio è rappresentata da controlli più stringenti ma anche da una rigida selezione dai medicinali di o. Gli interessi economici sono notevoli e, con questi, sono aumentati in maniera esponenziale gli impegni e la velocità di gioco. In questo senso nel calcio, come nella vita, sarebbe salutare un ridimensionamento dei ritmiy.
La primavera è la stagione simbolo del rinnovamento, in cui l’animo e il corpo si risvegliano dal torpore invernale, quasi a simboleggiare la resurrezione dopo la morte. A volte, primavera può significare ribellione contro le ingiustizie e le dittature: è il caso delle rivoluzioni arabe in corso, che stravolgono lo scacchiere politico della mezzaluna. Le proteste, che si esprimono mediante manifestazioni di grande impatto mediatico, sono il frutto della diffusione su larga scala dei social network, i quali esercitano nello specifico una mirata funzione aggregante.
Le agitazioni che portano al crollo dei regimi autoritari di Tunisia e Libia, mascherati da un consenso popolare costruito con la forza, colpiscono anche l’Egitto che fu di Nasser. Da tanto, troppo tempo, il paese dei Faraoni è governato da Hosni Mubarak, un dittatore che per giustificare la propria permanenza al trono non esita a eseguire opportune modifiche della Costituzione. Sono diciotto i giorni in cui i cittadini egiziani, spinti da un forte desiderio di svolta, si riversano a flotte nelle piazze egiziane per chiedere le dimissioni dell’esecutivo, cui le forze dell’ordine rispondono con la repressione. Quando il focolaio della rivolta divampa in ogni angolo del paese, a Mubarak non resta altro che dimettersi, per tornare alla residenza di Sharm el-Sheikh, difendersi dalle accuse di corruzione e guarire dai malanni di trent’anni di dittatura.
Le forze di sicurezza, da queste parti, non sono molto amate. Nella fase di transizione dall’autoritarismo alla democrazia, la popolazione non dimentica la brutalità mostrata dai militari negli scontri con i manifestanti, motivo per cui ultimamente la polizia appare tenere un profilo distaccato e ivo. Ci si accorge di ciò l’1 febbraio 2012, in occasione della sfida tra Al-Masry e AlAhly, disputata a Port Said e valida per la massima serie del campionato calcistico nazionale. Tra le due compagini non scorre buon sangue; in ato si sono già verificati violenti scontri tra le opposte tifoserie, eppure si gioca comunque, con esigue misure precauzionali. Dopo una partita perfetta, i casalinghi riescono nell’impresa di sconfiggere i plurititolati avversari, che negli almanacchi di storia del calcio risultano come uno dei club più vincenti al mondo. Dopo un successo del genere sarebbe logico riversarsi nelle piazze per festeggiare, ma non sarà così.
Al termine dell’incontro, invece, una parte della tifoseria casalinga invade il campo, al fine di cercare lo scontro con i giocatori e i tifosi provenienti dal Cairo. Parte una caccia all’uomo da cui scaturisce un autentico bollettino di guerra: 73 morti, centinaia di feriti, addetti ai lavori asserragliati negli spogliatoi e due elicotteri per evacuare giocatori e tifosi ospiti. L’intervento delle forze dell’ordine è nullo, quello degli operatori sanitari ancora meno: molte delle vittime decedono per soffocamento o ferite alla testa.
Il campionato è sospeso e ci si chiede se possa avere un senso la ripartenza. Forse sarebbe opportuno riflettere sul perché, dopo i movimenti che hanno portato l’Egitto a libere elezioni, offrendo al paese la possibilità di uscire da un’ime di stampo autoritario, si sia sprofondati così in basso. Gli scontri tra le opposte fazioni potrebbero aver riportato alla luce le distanze tra sostenitori e oppositori dell’ex premier, anche se ai più, il movente di tale violenza inaudita è puramente sportivo. Agli occhi del mondo rimane però l’immagine di un paese che ripiomba nella violenza, questa volta per una partita di pallone, in altre parole lo sport che dovrebbe pacificare le masse.
In Egitto, dopo il crollo del regime, ci si ammazza per il pallone. Gli effetti sono più devastanti dell’Heysel.
Il capitalismo, con la caduta dei regimi a socialismo reale al termine della Guerra Fredda, viene assunto dalla comunità internazionale quale unico modello economico perseguibile. Il sistema produttivo che doveva portare, a detta dei più, pace e prosperità in ogni angolo del mondo, ora giunge al collasso con tutte le sue contraddizioni. La mano invisibile della Provvidenza, che nel libero mercato trasforma la ricerca egoistica del proprio interesse in benessere dell’intera società, rimane solamente un lascito di Adam Smith ai testi di economia. La realtà è quella che tutti possono percepire anche a non volerlo, confermata da fredde statistiche che potrebbero far rabbrividire l’ipotetico marziano sceso sulla Terra per la canonica visita d’ispezione. Secondo un rapporto di Credit Suisse del 2011, meno dell’1% della popolazione mondiale
detiene circa il 38,5% di tutta la ricchezza, mentre due persone su tre devono spartirsi poco più del 3%. Se fino a poco tempo fa, a fallire erano le aziende mal gestite, ora sono gli stati a dichiarare default, stretti in una morsa finanziaria capace di decretare il destino di miliardi di persone.
In questo contesto, le società calcistiche non sono esenti da una crisi che in Italia pare aver messo le radici, ormai da un decennio. Desta scalpore infatti, nel 2002, il fallimento di una Fiorentina in profonda crisi economica sì, ma che con maggiore impegno poteva essere salvata. La neonata compagine Florentia Viola della famiglia Della Valle ripartirà dalla serie C, acquisendo nel 2003 i colori e il marchio dei Gigliati e percorrendo la scalata fino alla massima divisione.
Nel 2004 termina invece la lunga e dolorosa agonia del Napoli, che dura ormai dall’addio di Maradona. La squadra che ha sempre rappresentato l’orgoglio del Sud contro le superpotenze del Nord, scivola nella terza serie rilevato da un imprenditore cinematografico, Aurelio De Laurentiis, che vuole rendere la risalita ai vertici del calcio una commedia dalla conclusione felice. Rilevando il titolo sportivo dalla curatela fallimentare del Tribunale di Napoli e acquisendo poi la denominazione originaria, la nuova proprietà prova a restituire gioia a una città caduta nel dramma sportivo.
Entra successivamente in vigore il Lodo Petrucci, particolare procedura amministrativa che, nel caso di esclusione dai campionati professionistici di una società per motivi finanziari, consente di assegnare alla compagine subentrante un titolo sportivo inferiore di una categoria rispetto a quello in possesso della società esclusa. Il Lodo, ideato per non disperdere il patrimonio sportivo di un’intera città, è riconosciuto solamente in caso di effettiva detenzione di meriti sportivi pregressi. Per questo motivo il glorioso Torino, promosso nella massima serie ma in preda a un dissesto economico che non ne consente l’iscrizione, riparte dalla Serie B con un nuovo assetto proprietario, ambizioso e munifico. Purtroppo, per i tifosi granata, ciò non si concretizzerà in una scalata verso i successi che hanno contraddistinto la storia del club, ma in un’altalena continua tra la A e i cadetti.
Incredibile è invece la storia del Perugia, che nell’anno del Centenario fallisce la promozione nella massima serie e assiste alla fuga del Presidente Gaucci, nella Repubblica Dominicana. La squadra che fu di Paolo Rossi riparte dalla serie C1, senza squilli di tromba sino al 2010, anno in cui il Tribunale competente accoglie l’istanza di fallimento presentata da alcuni creditori. Gli umbri ripartono così dalla Serie D, rendendosi protagonisti di un doppio salto di categoria che torna a far sognare l’apionata tifoseria dei Grifoni.
Sempre più società tendono a fallire negli ultimi anni, complice una crisi economica che non può esentare i tanti faccendieri che continuano ad affacciarsi al mondo del pallone. Molti giocatori che militano nelle categorie inferiori, specialmente poco più che ventenni, si ritrovano così senza stipendio per mesi. Ma il dramma nel calcio è anche la delusione di tanti tifosi, per la scomparsa della propria squadra del cuore che, nei casi estremi, rappresenta l’unica ragione di vita. Talvolta la resurrezione della propria compagine significa rinnovamento delle ambizioni, con conseguente coinvolgimento di un’intera città. Si avvicendano gli uomini, gli affaristi e i malfattori, ma non può morire la ione per la propria squadra, per il calcio, per lo sport in generale.
Disposizioni transitorie e finali
Il calcio del 2050 vedrà scendere in campo giocatori robotici, che non subiranno il peso della fatica atletica a costo di sbagliare il più semplice degli agganci. Il loro destino, nell’arco dell’incontro, sarà decretato da un televoto riservato agli apionati da casa, i quali potranno decidere le sostituzioni da effettuare con un semplice sms al costo di 2 euro. L’allenatore verrà pertanto sostituito da una massa di pseudo-apionati votati alla telefonia, in grado di stabilire le sorti di un giocatore, di una compagine, di una stagione. Così richiede il mercato.
Centrale sarà il ruolo del preparatore atletico, che dovrà portare la squadra a sostenere oltre 100 partite stagionali. Dove non arriverà lui, ci penserà un rinomato staff farmaceutico in grado di soddisfare ogni esigenza, dal semplice malanno di stagione sino alla più problematica delle lesioni muscolari. Dopotutto le nuove modifiche regolamentari porteranno le partite a durare 180 minuti l’una, intervallate ogni 15 da spot pubblicitari di dubbio gusto; essenziale pertanto che le unità che comporranno ogni rosa siano, pur alternandosi, al top della condizione.
I tifosi non popoleranno più gli stadi, o meglio, occuperanno i centri commerciali circostanti, sostenendo la propria squadra del cuore con una bibita in mano. A seguire la partita sulle tribune numerate di ogni impianto, ci saranno poche centinaia di abbonati, che per sottoscrivere una tessera dovranno dimostrare un reddito annuo di almeno 500.000 euro. Da casa, sarà possibile assistere agli incontri comodamente seduti in poltrona, tramite la pay-tv che porterà gli utenti a conoscenza dei segreti dello spogliatoio. Pagando una piccola maggiorazione, si potrà assistere allo strip-tease integrale del capitano della nazionale azzurra, mentre per godere di una scena di sesso tra lo stesso e la sua fidanzata sarà necessario allargare i cordoni della borsa. Ogni forma di streaming gratuito sarà repressa, come del resto ogni forma di dissenso.
Le squadre del futuro non si chiameranno più Milan o Paris Saint Germain, ma assumeranno il nome del proprio main sponsor. Le maglie e il logo cambieranno con cadenza semestrale, per indurre il sostenitore (economicamente predisposto) all’acquisto perpetuo. I presidenti delle società professionistiche arriveranno da paesi arabi e asiatici, quali Emirati Arabi o Cina, e si renderanno protagonisti di feroci sessioni di calcio mercato all’insegna del rilancio. I calciatori più rinomati cambieranno squadra ogni due mesi, vedendo così aumentare il proprio ingaggio nel corso della stagione. Poco importa se ne evade la regolarità del torneo, il mercato vuole questo. Si assisterà nel frattempo all’epocale riforma di tutti i campionati, che porterà alla disputa di tornei a livello continentale. Sugli eventi calcistici sarà possibile scommettere con modalità differenti, dal numero di reti siglate nell’ultimo quarto d’ora sino al minuto esatto in cui il centravanti del Manchester City uscirà dal terreno di gioco, per un bisogno fisiologico.
La visione potrebbe sembrare catastrofista, eppure è in questa direzione che si sta muovendo il calcio europeo del futuro. O meglio, questo è ciò che vogliono sponsor e televisioni, affascinati dall’idea di speculare nello sport più seguito sulla faccia della Terra, specialmente in un periodo di grave congiuntura economica come questo. Penso che ben pochi apionati accetterebbero una simile deriva, perché il calcio rimane lo sport che si pratica sin da bambini, accompagnando la sfera con i piedi o calciandola, con tutta la forza in corpo, contro il muro dei vicini di casa. Il gioco che necessita solo di un pallone e quattro pali, talvolta fittizi, non può tollerare divisioni di censo, né creare barriere all’ingresso per questioni religiose, razziali o culturali. Lo sport, che si tratti di disciplina olimpica o meno, deve unire il mondo e non può costituire ulteriore elemento di divisione, anche se gli interessi capitalistici sembrerebbero spingere in direzione opposta.
Come apionati del gioco più democratico del mondo, prima ancora che tifosi, abbiamo però il coltello dalla parte del manico. Prendiamo coscienza del nostro status di sfruttati del calcio e proviamo a evaderne, ribellandoci alla società dei consumi che ci appioppa partite insignificanti e, talvolta, dall’esito decretato a tavolino. Svuotiamo gli stadi e non rinnoviamo gli abbonamenti alla pay-tv, concentrando le nostre voglie di calcio sulla rete. Ma soprattutto, cerchiamo di uscire dalla ristrettezza del nostro vestito di tifosi, percorrendo
orizzonti calcistici che meglio conciliano con la vera essenza dello sport: il piacere nel praticarlo, attraverso la ricerca del gesto tecnico. Scendiamo in strada, oppure al parco, ci basta una sfera e qualche maglietta per costituire l’impianto di una porta, potremmo utilizzare quei due alberi ravvicinati. Improvvisiamo partite, divertiamoci alla faccia di chi vuole rovinare il fútbol. Eccesso di utopismo? Nonostante l’età non più adolescenziale, ho ancora voglia di sognare, senza alcuna intenzione di smettere.
Glossario calcistico d’appendice
A
Ammonizione: sanzione disciplinare irrogata a un calciatore responsabile di scorrettezza, come gioco falloso, comportamento antisportivo, simulazione o proteste, raffigurata con un cartellino di colore giallo. L’esasperazione del calcio moderno pare aver portato alla diffusione di tale misura sanzionatoria, che in caso di recidiva provoca ingenti danni per la compagine del giocatore ammonito.
Anastopoulos: celebre attaccante greco attivo principalmente negli anni ‘80, famoso per le proprie realizzazioni al Pireo, il baffo e le folte sopracciglia. Sceso dall’Olimpo per divinizzare il Partenio, non riuscì nell’intento nonostante gli elogi sperticati di Luís Vinicio.
Anticalcio: è il termine che identifica il gioco di una squadra, che all’atto pratico si dichiara inferiore all’avversario, proteso all’ottenimento di un risultato utile per mezzo di un gioco spiccatamente difensivo e a tratti scorretto. Spesso utilizzato come sinonimo di “catenaccio”, ultimamente riscontra molti interpreti specialmente nella penisola italica.
Apertura: è la prima delle due fasi in cui si articola la stagione calcistica di molti campionati centramericani e sudamericani.
Arbitro: ufficiale di gara che assicura il rispetto delle regole di gioco. Come ogni giudice è soggetto a tentativi di corruzione o di assoggettamento alla politica,
quest’ultima tesa a minare il principio di separazione dei poteri. Mestiere tra i più difficili da espletare, a livello professionistico (o semi) pare essere ben remunerato.
Argentina: squadra di calcio che rappresenta la nazione dell’argento, celebre per i propri successi e per i giocatori messi in mostra nel corso dei decenni, ma che ultimamente vive una fase di appannamento a causa delle difficoltà in seno alla Asociación del Fútbol Argentino.
Assist: aggio di un giocatore a un compagno, che vede in Ricardo Bochini uno dei massimi interpreti.
Attaccante: giocatore preposto allo sviluppo e alla finalizzazione della manovra offensiva di una compagine calcistica. Ultimamente, specie nell’Europa CentroOccidentale, pare assumere compiti spiccatamente difensivi per via della capillare diffusione dell’anticalcio e del catenaccio.
Autorete: goal siglato da un giocatore nella propria porta, specialità tipica dell’indimenticabile difensore Riccardo Ferri.
B
Bandiera: giocatore rappresentativo per la storia di un club, vista la lunga militanza, pertanto specie in via di estinzione.
Bandierina: oggetto atto a segnalare i quattro angoli del terreno di gioco, vittima
di maltrattamenti da parte dei tiratori di corner. Con tale termine viene anche definita la bandiera usata dai collaboratori di linea, i quali spesso resistono alla tentazione di utilizzarla come corpo contundente ai danni di giocatori e tifosi esagitati.
Barra brava: gruppo organizzato di tifosi fedeli e accesi, altrimenti definiti come ultras o torcida.
Barriera: ostacolo umano fra il punto di battuta di un calcio piazzato e la porta, allo scopo di ostacolare la conclusione. Ama essere aggirato, quindi deriso, da Juan Riquelme.
Belgrano: società calcistica argentina con sede a Córdoba, il cui nome fu scelto per rendere omaggio al celebre Generale Manuel, famosa per aver causato la retrocessione del River Plate in Primera B Nacional.
Biscotto: specialità tipica italiana, detta anche “risultato concordato”.
Boca Juniors: società sportiva argentina con sede a Buenos Aires, celebre per essere la prima al mondo per trofei internazionali vinti. Fucina di giovani talenti e campioni affermati, è facilmente identificabile per il colore azul y oro della propria maglietta.
Bolivia: Stato dell’America Meridionale, dove sta avendo luogo un interessante esperimento di redistribuzione delle risorse, che ha dato i natali a Marco Etcheverry.
Bologna: società sportiva italiana che, negli anni Venti, faceva tremare il mondo.
Bombonera: stadio di Buenos Aires, situato nel quartiere La Boca, nel quale gioca la squadra del Boca Juniors. Caratteristico per la propria somiglianza con una scatola di cioccolatini, ha ospitato alcune tra le più emozionanti partite della storia del calcio.
Brasile: Repubblica Federale dell’America Meridionale, immensa tanto quanto il talento espresso dai milioni di ragazzini che improvvisano, in ogni angolo del Paese, partite di calcio emulando le gesta dei campioni più affermati.
C
Cafeteros: calciatori della nazionale colombiana, celebri per aver offerto un gioco sublime nei primissimi anni Novanta.
Calcio di punizione: specialità tipica del calciatore colombiano Arnulfo Valentierra.
Calcio di rigore: punizione assegnata alla squadra che subisce un fallo ibile di calcio di punizione diretto, all’interno dell’area di rigore avversaria. Può essere calciato direttamente in porta posizionando il pallone sul dischetto posto a undici metri di distanza dalla porta, oppure per mezzo di aggi laterali se militi nell’Ajax.
Campione: vincitore di una competizione, anche la più insignificante, oppure
atleta in grado di offrire prestazioni sopra la media.
Capitano: rappresentante della squadra in campo, è deputato al dialogo con il direttore di gara. Identificato con una fascia apposta al braccio, è al contempo il cuore e la mente di ogni compagine che si rispetti.
Centromediano metodista: fulcro della manovra della squadra, occupa il settore centrale del centrocampo davanti alla difesa. Giocatore in grado di interpretare con eguale maestria la fase difensiva e quella offensiva, possiede cervello, piedi fini e buone abilità nel recupero palla. Ruolo identificato con il numero di maglia 5, trova in Fernando Redondo il massimo interprete di ogni epoca.
Clausura: è la seconda delle due fasi in cui si articola la stagione calcistica di molti campionati centramericani e sudamericani.
Colo Colo: frizzante squadra cilena, simboleggiata dall’omonimo grande capo Mapuche, unica compagine del proprio paese ad aver conquistato la Copa Libertadores.
Colpo di testa: gesto tecnico-atletico che prevede l’utilizzo della testa per colpire la palla. I suoi massimi interpreti sono Alberto Spencer, Hector Puricelli e Sandor Kocsis.
Contropiede: trasformazione dell’azione difensiva in offensiva, per mezzo di una veloce ripartenza, molto in voga nel calcio italiano e assai distante dalla mia idea di sport.
Coppa Campioni: massima competizione europea per club, volgarmente ribattezzata Champions League.
Coppa Intercontinentale: massima competizione mondiale per club, impropriamente ridefinita Mondiale per Club.
Copa Libertadores: massima competizione latino-americana per club, principale causa delle mie notti insonni.
Corinthian: antico club di Londra fondato nel 1882. Nonostante i successi ottenuti nei primi del Novecento, per tenere fede alla tradizione sportiva della antica Corinto non volle accedere al professionismo e cominciò a fare escursioni in tutto il mondo per sfidare i club locali. Dopo un tour nella penisola iberica, dove riscosse molto successo, alcuni spagnoli decisero di fondare una squadra usando gli stessi colori delle maglie del Corinthian: quella squadra fu chiamata Real Madrid. Cosa analoga accadde in Brasile dove alcuni emigranti fondarono un altro celebre club utilizzando sempre la maglia bianca del club inglese. In questo caso il nome dato alla nuova squadra fu Corinthians Paulista.
Craque: giovane calciatore con i crismi del fuoriclasse, tendenzialmente originario dell’America Meridionale
Cross: aggio effettuato da posizione laterale verso il centro, specialità del fuoriclasse portoghese Luis Figo.
Cubillas: Teófilo, trequartista peruviano elegante e prolifico, leggenda
dell’Alianza Lima.
D
Diagonale: movimento tipico della difesa a zona, teso al recupero del pallone quando lo stesso viene giocato sulle corsie laterali dalla squadra avversaria. Richiede concentrazione, applicazione e giuste distanze tra gli interpreti.
Difensivismo: atteggiamento ivo di una squadra, che attua una tattica basata esclusivamente sulla difesa e sulla ripartenza. La sua culla sportiva è l’Italia.
Disimpegno: aggio arretrato il cui scopo è di alleggerire la pressione portata dalla compagine avversaria, che ultimamente appare in disuso specialmente sui terreni di gioco delle squadre giovanili.
Dribbling: gesto tecnico che richiede abilità e personalità, consistente nel superamento dell’avversario con palla al piede per mezzo di una finta. Nonostante la storia del calcio sia ricca di dribblomani, ultimamente si ricercano interpellando “Chi l’ha visto?”.
Di Stefano: attaccante attivo nell’immediato dopoguerra, considerato tra i più grandi della storia, se non il più grande. Saeta Rubia che ha infiammato i campi di Argentina, Colombia e Spagna, è il Presidente onorario del Real Madrid.
E
Enganche: elemento di raccordo tra il centrocampo e l’attacco, nel canonico modulo “a rombo” argentino identificato con il numero 10, è di norma il giocatore dotato di miglior tecnica. Sinonimo di trequartista, nel corso degli anni sta venendo meno la sua ragione d’essere, a causa della capillare diffusione degli ideali del difensivismo.
Erico: Arsenio, miglior calciatore paraguaiano di tutti i tempi.
Espulsione: sanzione disciplinare applicata ai giocatori protagonisti di infrazioni particolarmente gravi o violente, oppure a seguito di doppia ammonizione. Raffigurata da un cartellino di colore rosso, comporta l’obbligo di abbandonare il campo di gioco sino a conclusione dell’incontro.
Esterno: parte del piede, costituita dalle ultime tre dita, utilizzata per calciare il pallone con un effetto sorprendente e beffardo. Spesso utilizzato dal terzino brasiliano Claudio Branco, il Tres Didos è una tecnica che raccoglie ogni anno nuovi interpreti.
Elegante: che possiede raffinatezza calcistica, armoniosità nei movimenti, spesso correndo per il campo in punta di piedi.
El Ouaer: ex portiere nordafricano, autentica leggenda dell’Esperance di Tunisi. Transitato anche in Italia, nelle file del Genoa, non ha lasciato traccia indelebile della propria presenza.
Eurogol: celebre trasmissione RAI, in onda negli anni ‘80, che proponeva una
rassegna delle reti segnate sui principali campi d’Europa. Il termine è comunemente utilizzato per enfatizzare una realizzazione di pregevole fattura.
F
Fair play: comportamento rispettoso nei confronti degli avversari nell’ambito delle competizioni sportive, contraddistinto da gesti quali strette di mano prima degli incontri e scambi di magliette al termine delle gare. Apprezzabile quanto manifestato in maniera del tutto volontaria, il fair play è spesso intriso di ipocrisia quando forzato dalle istituzioni calcistiche, sino a diventare grottesco quando seguito da risse post-partita e polemiche televisive.
Fascia: zona laterale del terreno di gioco prossima alla linea laterale, ultimamente poco utilizzata in fase offensiva.
Fallo tattico: infrazione ibile di calcio di punizione, commessa da un calciatore titolare contro un avversario, sul terreno, mentre il pallone è in gioco, considerata dal regolamento come condotta antisportiva e pertanto sanzionabile con il cartellino giallo. Tradotto nella pratica, il fallo tattico rappresenta l’interruzione sul nascere di un’azione offensiva che potrebbe rivelarsi molto pericolosa, pertanto costituisce gioia per gli allenatori, orgogliosi del proprio calciatore che si è sacrificato per il bene del collettivo.
Fenomeno: Diego Armando Maradona.
FIFA: acronimo di Fédération Internationale de Football Association, organizzazione di chiaro stampo affaristico che sovrintende le principali
competizioni internazionali del gioco del calcio.
Figueroa: Elias, difensore cileno tra i più forti di sempre.
Fluidificante: terzino di fascia in via di estinzione, dotato di spiccate abilità offensive. Il terzino fluidificante ama proporsi, sulla fascia di competenza, per invitare alla rete gli attaccanti con cross telecomandati. La storia del calcio annovera validi interpreti del ruolo, che vede nel brasiliano Djalma Santos il numero uno.
Foca: gesto tecnico che consiste nel portarsi il pallone sulla testa, avanzando con la sfera sospesa a mezz’aria in palleggio.
Fraseggio corto: susseguirsi di aggi a breve distanza tra compagni di squadra, per impostare l’azione offensiva oppure eludere il pressing avversario.
Fuorigioco: regola secondo la quale, su un aggio direzionato in avanti, un giocatore è in posizione irregolare se al momento dell’assist si trova nella metà campo avversaria e non vi sono almeno due giocatori avversari tra lui e la porta, punito con un calcio di punizione indiretto in favore della squadra avversaria. Il fuorigioco può essere ricercato con costanza e applicazione dalla squadra difendente, grazie a una tattica che prevede pressing e distanze corte tra i reparti.
Futebol bailado: termine che indica il gioco caratterizzato da un elevato tasso tecnico, dovuto alla qualità dei propri interpreti, ato da una mentalità votata al divertimento. E’ la vera essenza del gioco del pallone.
G
Gareca: ex calciatore argentino di ruolo attaccante, grande finalizzatore poi diventato ottimo allenatore alla guida del Vélez Sarsfield.
Germania: antico nome dell’attuale Esporte Clube Pinheiros, una polisportiva di Sao Paulo che ai giorni nostri è famosa per la sua sezione di basket. Nei primi anni del Novecento il Germania era tra i club più forti del Brasile, grazie ai gol del più grande attaccante di sempre: Arthur Friedenreich.
Godoy Cruz: club argentino di Mendoza, che da qualche stagione vive la propria età aurea culminata con la qualificazione in Copa Libertadores.
Goal (oppure gol): è l’orgasmo del calcio.
Gol della bandiera: rete ininfluente ai fini dell’esito dell’incontro, poiché siglata a risultato già definito.
Golazo: gol estremamente bello, tipico dei calciatori dell’area Sudamericana, degno di essere urlato a squarciagola.
Guardalinee (oppure collaboratore di linea): mestiere ingrato e poco remunerato, spesso oggetto di contestazioni, che consiste nell’assistere
l’arbitro nella gestione della gara. La mansione principale è la segnalazione del fuorigioco, che spesso è difficoltosa in occasione delle partite in cui gioca l’attaccante Filippo Inzaghi.
H
Haiti: squadra nazionale che partecipò a un’edizione dei Mondiali, nel 1974, prima di essere soppressa dal dittatore locale Baby Doc.
Hinchada: tifoseria di una squadra.
Huracán: società calcistica argentina con sede a Buenos Aires, nel barrio di Parque Patricios, un tempo considerata tra le più forti del paese e capace di vincere un titolo nel 1973. I tifosi Quemeros (piromani) sono animati da un’accesa rivalità con il San Lorenzo.
I
Incrocio dei pali: angolo della porta composto da palo e traversa, su cui si deposita parecchia polvere che poi deve essere ripulita con tiri a effetto.
Independiente: società calcistica con sede ad Avellaneda, una delle Cinque Grandi d’Argentina. Capace di vincere 16 trofei internazionali nella sua storia, di cui 7 Libertadores, è per questo motivo chiamata El Rey de Copas.
Inserimento: movimento in avanti di un giocatore arretrato, per smarcarsi a ricevere il pallone in zona offensiva.
Invasione di campo: evento che ultimamente si verifica con una certa frequenza nel corso delle partite, che consiste nell’ingresso di uno o più tifosi sul terreno di gioco, specialmente a match in corso.
L
Labruna: Angel, interno sinistro massimo goleador del campionato argentino, sublime finalizzatore de La Maquina millionaria.
Lanus: città natale di Diego Armando Maradona e società sportiva della Grande Buenos Aires, per il colore della maglia definita El Granate.
Legno: sinonimo di palo o traversa, dal materiale che componeva ogni porta di un campo nel calcio che fu.
Libero: difensore schierato in posizione più arretrata rispetto ai compagni, non legato a specifici compiti di marcamento ma deputato alle chiusure e ai raddoppi di marcatura. Sebbene nella storia del calcio annoveri interpreti di massimo livello, il ruolo non si coniuga con il mio credo tattico.
Linea di porta: riga che determina il rettangolo di gioco, su cui si trova la porta. Pare avere una particolare rientranza nell’area difesa dalla squadra Juventus.
M
Marcatura a uomo: principio tattico antico come il calcio, sinonimo di autoconvinzione della propria inferiorità, secondo il quale i giocatori avversari più pericolosi debbano essere inseguiti come le proprie ombre.
Martino: Gerardo, eccellente allenatore argentino.
Marinelli: Carlos, magico sinistro e promessa mancata del calcio argentino.
Melina: ragnatela di aggi fra compagni di squadra senza costruzione di gioco offensivo, attuata allo scopo di perdere tempo in situazione di vantaggio.
Mezzala: centrocampista di fascia con spiccate caratteristiche offensive.
Mezzapunta: sinonimo di trequartista, ovvero funambolo fantasioso.
Modulo: disposizione dei giocatori sul terreno, eccessivamente semplificata dall’utilizzo di numeri quali 4-4-2, 3-4-3 oppure 5-5-5.
Moviola: dispositivo utilizzato per visualizzare gli episodi salienti, specialmente
quelli inerenti dubbie decisioni arbitrali, a velocità ridotta. Se ne richiede la sua introduzione sui campi di gioco, elemento che potrebbe rendere il calcio definitivamente distante dalla sua dimensione umana.
N
Newell’s Old Boys: società calcistica argentina con sede a Rosario, di origini britanniche e spesso chiamata con il nome di leprosos, la cui storia è segnata dall’imponente figura di Marcelo El Loco Bielsa.
O
Ostruzione: fallo con il quale si impedisce a un avversario di raggiungere il pallone, opponendosi con il proprio corpo, bloccandolo o deviando la traiettoria di corsa.
P
Palermo: Martin, il più grande realizzatore della storia del Boca Juniors.
Palleggio: controllo del pallone a mezz’aria, con colpi ripetuti al fine di non farlo cadere sul terreno di gioco. E’ una prerogativa dei calciatori tecnicamente dotati.
Panchina: settore di destinazione di allenatori, dirigenti accompagnatori e
calciatori delusi per non essere scesi in campo dal primo minuto.
Pañolada: protesta pacifica effettuata dai tifosi sventolando dei fazzoletti bianchi, spesso praticata in Spagna ed esportata in tutto l’Occidente.
Paraguay: nazionale di calcio guaranì, che negli ultimi anni è cresciuta in maniera esponenziale grazie a una sapiente guida tecnica e l’abilità di alcuni interpreti.
Parastinchi: protezione obbligatoria per regolamento, al fine di ridurre i traumi agli stinchi, realizzata in materiale plastico e inserita sotto i calzettoni.
aggio: elemento imprescindibile del calcio associativo.
aggio filtrante: di norma eseguito con l’interno del piede, è il aggio che libera il compagno frontalmente alla porta, sfruttando le distanze troppo larghe della difesa avversaria.
Perù: formazione andina tecnicamente molto valida, ma che difetta un po’ in velocità. Ha vissuto la sua epoca d’oro negli anni ‘70, grazie a elementi del calibro di Chumpitaz, Cubillas e Sotil.
Piatto: parte del piede utilizzata per i aggi di precisione o i comodi appoggi in rete.
Porta: bersaglio preferito di Arthur Friedenreich, la Tigre brasiliana che segnava con la facilità di un bambino nello scartare caramelle.
Portiere: capro espiatorio di ogni goleada o artefice di ogni vittoria risicata, è il ruolo più odiato del gioco del calcio. Lev Jashin ne è stato il più grande interprete.
Pressing: recupero della sfera tramite pressione costante del portatore di palla avversario, tipico dell’approccio difensivo a zona.
Q
Quarto uomo: ufficiale deputato all’assistenza dell’arbitro, con mansioni ausiliarie alla direzione di gara equiparabili a quelle del badante.
R
Racing Club: squadra calcistica con sede ad Avellaneda, considerata una delle Cinque Grandi di Argentina e soprannominata La Academia.
Radiocronaca: racconto della partita per gli stoici radioascoltatori senza tempo.
Recupero: tempo extra concesso dall’arbitro al termine del regolamentare, per recuperare le interruzioni verificatesi durante una frazione di gioco. Da qualche
anno segnalato con un pannello luminoso, per la squadra in svantaggio è il segnale di lanciare il pallone in area.
Redondo: Fernando, il più forte mediano di ogni tempo, capace di coniugare un’impareggiabile sagacia tattica alla tecnica semplicemente squisita.
Regista: organizzatore del gioco di una squadra, è nella prassi il giocatore che tocca il maggior numero di palloni durante la partita.
Rimessa laterale: ripresa del gioco effettuata dietro la linea laterale, con l’utilizzo delle mani. E’ l’incubo dei novelli giocatori.
Rimpallo: rimbalzo del pallone tra più giocatori, che di norma favorisce chi mostra maggiore decisione.
Riserva: calciatore che scalpita sin dal primo secondo di gioco per scendere in campo, ma che purtroppo deve accomodarsi in panchina ad ascoltare i rimproveri del mister alla squadra titolare.
River Plate: modesta squadra argentina che ha conosciuto la delusione della retrocessione in Seconda Divisione.
Rosa: insieme di tutti i giocatori di una squadra, nell’arco di una stagione agonistica. Aumenta di numero e qualità, purtroppo, maggiore è il quantitativo di denaro in possesso del proprio presidente.
S
Schema: agire coordinato dei giocatori in campo, in una particolare situazione di gioco studiata ripetutamente in allenamento.
Scivolata: azione difensiva tesa allo scopo di togliere la palla al giocatore avversario, scivolando sul terreno.
Scudetto: distintivo a forma di scudo, che simboleggia la conquista del titolo nazionale.
Simulazione: azione protesa alla ricerca di un fallo, simulando il contatto con l’avversario. Il comportamento è sanzionabile con un’ammonizione, come nel rapporto sessuale del resto.
Smarcamento: movimento finalizzato alla ricezione del pallone, liberandosi dalla marcatura avversaria.
Sombrero: divertimento consistente nel far are la palla sopra la testa dell’avversario.
Sostituzione: variazione nella formazione di una squadra durante la partita, che nella stragrande maggioranza dei casi coinvolge i giocatori più simpatici e invisi agli allenatori.
Sovrapposizione: movimento di un calciatore che si propone al aggio, ando dietro al compagno in possesso di palla.
Sponda: aggio del centrattacco ai compagni giunti a rimorchio, tipico del gioco di rimessa.
Stop: aggancio del pallone con il piede o con qualsiasi altra parte del corpo.
Suola: pianta del piede utilizzata per la movimentazione del pallone, di cui Juan Román Riquelme è un sontuoso abusatore.
Sanfilippo: Josè, centravanti diabolico e maggior realizzatore della storia del San Lorenzo. La sua carriera con la nazionale Argentina fu breve ma comunque proficua.
San Lorenzo de Almagro: società polisportiva argentina con sede a Buenos Aires, per cui faceva il tifo lo scrittore Osvaldo Soriano.
T
Taglio: movimento offensivo in diagonale, al fine di sorprendere la linea difensiva avversaria nello smarcamento.
Telecronaca: narrazione della partita a uso dei telespettatori, che vede nel
monumentale Bruno Pizzul un’icona assoluta.
Tempi supplementari: nei tornei a eliminazione diretta, periodi di gioco decretati al termine di quelli regolamentari finiti in parità, per decretare la vincente.
Tifoso: sostenitore, a volte eccessivamente ottuso, di una squadra di calcio.
Tornante: giocatore di fascia in via di estinzione, tendenzialmente offensivo ma deputato alla collaborazione in fase difensiva.
Traversa: parte superiore della porta, sorretta dai due pali.
Triangolazione: combinazione tra due compagni di squadra, tramite aggi di prima, essenziale ma sempre proficua per sorprendere la difesa.
Tribuna: settore elitario dello stadio che ospita i tifosi più benestanti.
Tridente puro: impiego contemporaneo di tre attaccanti nello schieramento tattico, sempre meno diffuso in Italia.
Tripletta: tre reti realizzate dallo stesso calciatore durante una partita, specialità dell’ungherese Péter Palotás.
Trivela: calcio del pallone con le ultime tre dita del piede, con effetto tale da imprimere alla palla una traiettoria difficile da interpretare.
Tunnel: ridicolizzazione dell’avversario facendogli are la palla fra le gambe.
Turnover: rotazione degli elementi della squadra per affrontare al meglio i numerosi impegni, tipica delle squadre blasonate e con rose ampie.
U
Ultimo uomo: ultimo difensore che si frappone tra l’avversario e la porta. Quando commette fallo su uomo lanciato a rete, è punito col cartellino rosso, spesso mutando le sorti dell’incontro.
Unión: società polisportiva argentina, con sede a Santa Fe.
Uruguay: rappresentativa calcistica nazionale dell’America Latina, prima organizzatrice e vincitrice di un Mondiale, da sempre tra le più forti al mondo.
Uscita: movimento tipico del portiere zonista, che abbandona la caverna (la porta) per fermare l’avversario in presa alta oppure bassa.
V
Vantaggio: prosecuzione del gioco, nonostante un’azione fallosa, giacché l’evoluzione del gioco potrebbe rivelarsi, per la squadra offendente, maggiormente vantaggiosa rispetto alla punizione.
Varallo: Francisco, detto El Canoncito, eccellente cannoniere della storia del Boca Juniors.
Vasco da Gama: società polisportiva con sede a Rio de Janeiro, che dal 1898 offre ai giovani di ogni razza o ceto sociale il sogno di emergere, l’opportunità di crescere e la gioia di appartenere.
Vélez Sarsfield: società calcistica argentina, molto vincente dagli anni Novanta.
Velo: movimento che simula il contatto col pallone, facendolo scorrere verso un compagno di squadra per sorprendere la difesa avversaria.
Verticalizzazione: aggio in verticale dalle retrovie, per lanciare il giocatore più avanzato verso la rete.
Vinotinto: squadra calcistica nazionale del Venezuela, storicamente la più debole del Sudamerica, il cui nome deriva dalla particolare colorazione della maglia ufficiale.
Visione di gioco: abilità di un giocatore nell’interpretare la posizione di
compagni e avversari nel corso della partita.
Volante: centrocampista chiave della squadra, impiegato davanti alla difesa, con compiti di rottura e organizzazione del gioco.
Z
Zeman: Zdenek, maestro di calcio e uomo dai solidi principi morali.
Zona: approccio difensivo che non prevede marcature fisse sui singoli giocatori, ma il rispetto delle porzioni di campo da occupare, mantenendo le giuste distanze. Si associa, pertanto, con la voce “pressing” di questo glossario.
Zona Cesarini: rete segnata allo scadere del tempo di gioco, come spesso faceva il calciatore oriundo Renato Cesarini.
Elenco delle fonti consultate
L’origine del gesto tecnico
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Il ruolo dell’allenatore
La leggenda della Grande Ungheria, http://www.storiedicalcio.altervista.org/grande_ungheria.html MAURO BASILE, Rinus Michels, il padre del Calcio Totale, marzo/2005, http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=589 GIULIO GIUSTI, Ernst Happel, http://www.postadelgufo.it/maestri/happel.html L'uomo della pioggia, http://www.postadelgufo.it/maestri/BrianClough.html
GIORGIO PORRA’, Menotti, Maradona e l’inganno perduto, in “Il fatto quotidiano”, luglio/2011, http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/13/menottimaradona-e-linganno-perduto/144917/ GIUSEPPE OTTOMANO, Telê Santana, l’arte del futebol, giugno/2009, http://www.sportvintage.it/2009/06/19/l%E2%80%99arte-del-futebol/
L’eleganza del Numero Dieci
FABRIZIO GASCO, Carlos Valderrama, http://www.storiedicalcio.altervista.org/carlos-valderrama.html ROBERTO SAVIANO, La bellezza e l’inferno, Mondadori, 2009
La politica del goal
PIETRO CABRAS, Ecco Pak Doo Ik, l’uomo che cambiò l’Italia, in corrieredellosport.it, http://www.corrieredellosport.it//2009/03/2662903/Ecco+Pak+Doo+Ik,+l%27uomo+che+cambi%C3%B2+l%27Italia... Mondiali 1974. Cartoline da Haiti, http://www.storiedicalcio.altervista.org/haiti_mondiali_1974.html EMANUELA AUDISIO, Jürgen Sparwasser, l’operaio che umiliò l’Ovest, giugno/2006, http://www.storiedicalcio.altervista.org/sparwasser_ddr.html MARCO INNOCENTI, 12 marzo 1938: L’anschluss. L’annessione dell’Austria al Terzo Reich, marzo/2008,lanschluss-lannessione.html
LORENZO LONGHI, Saeed Al Owairan e un gol che gli aprì le porte del carcere, aprile/2010,http://sport.sky.it/sport/calcio_estero/2010/04/05/mondiali_ritratto_saeed_al_owai
La partita che non potresti mai perdere
Racing Club, sito ufficiale, http://www.racingclub.com.ar/inicio/ San Lorenzo de Almagro, sito ufficiale, http://www.sanlorenzo.com.ar/ Boca Juniors, sito ufficiale, http://www.bocajuniors.com.ar/home/sitio River Plate, sito ufficiale, http://www.cariverplate.com/ GIOIA BO’, La Bombonera: gioiello argentino!, maggio/2008, http://www.calciopro.com/curiosita/la-bombonera-gioiello-argentino/ Biografia de Hugo Gatti, http://www.labombonera.com.ar/wiki/Biografia_De_Hugo_Gatti
Il Tempio del Calcio
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Il lento declino del calcio italiano
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