Dammi La Mano Che Balliamo xs4j

Prefazione Il 34.

Dagli occhi semiaperti, lentamente, le prime sfuocate immagini ridanno forma alle forme e trasformano le ombre e le apparenze in concrete presenze. Mentre il finestrino mi sostiene il capo,e le vertebre del collo,come carta di giornale, si accartocciano, mi invento una posizione accettabile, assolutamente insoddisfatto del brusco risveglio. Guardo appena la strada stropicciandomi gli occhi e mi ricordo, o credo di farlo. In fondo non ho mai creduto, nemmeno per un secondo, d’essere salvo salendo le scale di questo coso arancione. In fondo non ci si salva mai così facilmente, normalmente ci vuole un metodo, un programma, almeno un obiettivo e, forse, un autobus non rientra tra i rifugi e nemmeno tra i progetti, forse tra i mezzi. In mancanza d’altro però, ho tentato come altri di nascondermi senza avere un rifugio, in fondo la mia storia non tralascia nulla e non lascia molto, ma si spiega come una storia che accade o non accade ma questo dipende dal giorno, forse anche dall’ora e forse anche da chi l’ascolta, certamente da chi la osserva. Oggi è così. L’autobus non tarda mai per me, perché non so mai a che ora arriva e poi difficilmente so che ora è. Non che non m’importi è che mi scordo; penso sempre di dover cambiare la pila all’orologio e quando lo guardo è fermo, con le braccia in strane posizioni, come se dirigesse il traffico delle ore e dei minuti in un gigantesco caos di tempo. Forse non ci vorrebbe una pila per l’orologio ma per il cervello, una batteria al litio, ricaricabile e certamente di lunga durata, per non rischiare uno spegnimento improvviso come quelli che ogni tanto mi capitano. A dir la verità succede spesso che il mio cervello decida di immergersi nel non luogo della pace dei sensi, tutto si spegne e dentro si accade qualcosa di strano e tutto si mischia e tutto vortica come un mulinello nel fiume, una centrifuga di sentimenti che proietta ricordi, colori e sensazioni contro i finestrini chiusi e se i finestrini sono aperti si spiaccicano contro i lampioni, i muri, le macchine, contro i cani che pisciano sulle panchine e contro le signore con la borsa biodegradabile, irrimediabilmente fragile come i sentimenti delle massaie. Le luci diventano linee dritte verdi bianche rosse arancioni con i colori che ingrandiscono le forme e le persone che sbiadiscono e si sfilacciano nell’acqua che cola dai miei finestrini e si assottiglia, sotto la mia suola che cela ogni dissapore tra me e il suolo.

Lo sguardo, stordito, vaga dentro l’autobus arancione che recita la sua parte fino in fondo, percorre le righe del pavimento con cautela, senza troppi complimenti e spavaldo come il più veterano degli sguardi accarezza un seno e sente cadere un’inibizione dentro una borsa per la piscina. È decisamente uno sguardo impreciso che colpisce tutto, comprese le pareti di lamiera e i sedili di finto tessuto blu da poltrona d’autobus municipale, fino ad insediarsi pruriginoso, scontroso e accattivante tra i sedili più lontani e le donne più in disuso e scostanti che poi sono le più facili da guardare. Negli angoli grigiastri si accumulano le gomme da masticare, gli sputi e gli insulti all’autista per le frenate davvero troppo brusche, come il carattere dell’autista e di sua moglie. Lo sguardo incorreggibile e malandrino a dietro gli schienali e scivola sopra le borse prive di personalità, false, con le marche brutte e finte e i materiali che puzzano di benzina addizionata a merda. Eccolo che a dai finestrini e si ferma dietro un paio di scarpe troppo leggere con tacchi troppo alti e troppo storti per reggere due gambe troppo sottili, ingannate da una donna troppo ingenua che le ha confinate in torri di legno troppo alte, e gomma dura, troppo dura per garantire che non scivolerà e che, loro, le gambe, resteranno gambe e non rami rotti. Ma si sa che sono le gambe stesse, a volte, per propria narcisa voluttà, a volersi ergere ad alti aggraziati e squisiti pilastri della femminea figura. Lo sguardo poi, un po’ stanco per le lunghe scorribande, ritorna negli occhi che lo accolgono tra sottili porzioni di pelle che si chiudono in tenere pieghe e intrecci di ciglia color nero pece. L’autobus sobbalza nella sera provocata dalla morte del giorno, sobbalza con regolarità quasi che i tombini fossero stati messi lì apposta per farlo sobbalzare e non per drenare i liquami cittadini e forse non solo quelli. Il rumore del motore, le vibrazioni dei vetri e dei bulloni, le maniglie appese che si muovono come disgustose grucce per piccolissime camicie, i i di chi sale, i i di chi scende, le porte che si aprono, lo spurgo dei freni, le frenate brusche, la gente alla fermata, i martelletti d’emergenza che non ci sono mai, le luci della fermata prenotata, le luci e basta, la gente. LA GENTE. A dire il vero la gente mi piace. Dal giorno dell’incidente, mi capita spesso di sentirmi come dentro una bolla, a cavallo tra la realtà e una sinfonia distratta

fatta di altro. Un Grande miscuglio di incomprensibili personaggi, distorsioni. A volte mi addormento e arrivo dove non devo arrivare, a volte mi sveglio all’improvviso con un forte mal di testa e sento il bisogno di caffè, di sigaretta e spesso di una grande birra doppio malto. A volte resto minuti interi a fissare i vetri e a guardare come le cose, fuori, sfumino con la velocità di un istante fino a rimanere colore dilatato. A volte non esisto. A volte non esiste nessun’altro. Da capolinea a capolinea, mi sono perso tante di quelle volte che un giorno ho dovuto cercarmi per ore. A volte, come spesso capita, scendo dall’autobus e sento qualcosa di strano, poi mi guardo e addosso ho un bel maglione; un morbido maglione caldo e colorato. Poi vedi che è fatto di storie. Dentro le maglie spesse, di lana spessa, sono rimaste intrappolate le storie, gli odori, le direzioni e l’aria spostata dalle anime mentre cercavano di sedersi. E te ne torni a casa con un intreccio di storie inventate che oltre a non costare niente, ti tiene caldo e te lo immagini come vuoi, non scuce, non infeltrisce e nessuno te lo può rubare. A volte forse il confine tra la fantasia e la realtà dovrebbe essere più netto, più marcato, evidente; o forse ci vorrebbe talmente tanta fantasia da sostituire completamente la realtà. In ogni caso confondermi è il rischio che corro tutti i giorni qui sopra dove fantastico sulla vita della gente e m’immagino cosa fanno, come vivono, come si chiamano e poi quando esco dall’autobus, mi porto tutte queste persone a casa e di solito facciamo una bella pasta aglio, olio e peperoncino, anche se a volte alcune persone immaginarie, stranamente non amano molto il peperoncino. Spesso fisso un uomo e tutto diventa un magma di ricordi finti o veri. In un secondo l’uomo calvo che hai vicino non è più quello che hai immaginato, oggi sembra diverso e forse fa un’altra vita o forse No. Bisogna capire, e capire, e capire. Chi è quel eggero? È così come sembra? È più cattivo? Ha figli? Vive in quella piccola casa con il termosifone che perde, la tapparella che cigola, ma solo d’inverno, perché d’inverno piove spesso di tramontana e bagna il muro facendo comparire quelle fastidiose macchie d’umidità, ha una cucina dove la moglie non siede più perché non c’è più ma, forse tornerà se tutto le andrà male ma, forse andrà meglio. Ha la pipa che gli ha regalato lo zio Andrea nel natale del 1982 quando ancora non gli fumava

nemmeno il cervello, la ruota di scorta bucata nell’auto, l’auto dal meccanico, che è un suo amico, la macchina è qui adesso nel garage perché da tempo doveva essere revisionata. Ama il mare, è sempre pronto a partire ma ha paura di non tornare, è semplicemente dolce come la glassa del panettone che adora e il panettone è tutto bucato come se fosse ato un topo. Ha le unghie così corte che si potrebbero immaginare dieci piccoli topi che ogni notte le rosicchiano avidamente dopo aver mangiato il panettone, si dice che abbia avuto un lavoro esageratamente onesto e una predisposizione esageratamente immorale alla disonestà, ha due figli e preferisce uno dei due perché pensa che gli somigli di più e che probabilmente farà quello che lui non è riuscito mai a fare nemmeno nelle sue tre vite precedenti e cioè vivere, ha una voglia irrefrenabile di andare a giocare al bingo per non tornare a casa e vedere la sedia vuota, ha un gatto che non chiama e non miagola, un litro di latte a lunga conservazione in frigo anche se potrebbe restare fuori, da giovane ha fatto il liceo scientifico, è uscito con 40 e si è iscritto ad ingegneria, ha dato quattro volte matematica 1, si è iscritto ad economia, ha dato tre volte matematica 1, si è iscritto a filosofia, non ha mai capito la critica della ragion pura e la morale rosminiana, si è tenuto il diploma, si è tenuto la vespa del 1972, ha lasciato andare a malincuore i suoi capelli e i suoi anni. Ha da poco incrociato il mio sguardo. Il gigantesco coso arancione avanza e avanza, semaforo dopo semaforo, incrocio dopo incrocio e non spegne mai i suoi cavalli se non al capolinea. Oggi mi va di stringermi dentro la giacca per combattere il freddo che entra, a momenti e a momenti perdevo il posto. Appoggiato al finestrino con la visuale strada asfaltata bagnata scura e traffico medio. Che meraviglia! Non l’asfalto; la meraviglia è tutta a sinistra in basso, vicino ai piedi sicuri sopra i pedali incerti. Il mio sguardo vola istintivo, io rimango lì, seduto, ad osservare, a cercare di capire la logica che muove il gigantesco coso arancione. Lo sguardo si delizia con i movimenti sicuri, conosciuti e riconosciuti, quasi involontari e dolci che accarezzano il freno e spingono lievi sull’acceleratore; con la coda dell’occhio sotto a sinistra si vede quasi l’elettricità che comanda, si avvertono le sinapsi che scientificamente rendono volontaria quello che, a guardare bene, appare gesto indifferente, usuale e preciso, quasi un ridicolo su e giù, destra e sinistra, movimenti da ballerino, da burattino, e a pensarci sembra davvero così. È un ballo fermo o appare fermo e risponde ai sussulti e ai comandi lievi e sobbalza negli ondeggiamenti e tu ti muovi sicuro come un marinaio, un tutt’uno con il mezzo e lì sotto, a sinistra va tutto bene, tutto ondeggia e lì si balla e si

balla un tip tap senza rumore, cigolante strofinio di gomma acciaio e cuoio. È una meraviglia, ma come fa a muoverli così? Ma c’è di più, ancora più su, sospeso sopra le ginocchia ma saldamente fermo, attinente al ruolo assegnato, che le mani srotolano, in movimenti perfetti e circolari, nel silenzio idraulico dell’olio, lo scettro del comando, il timone nero; più su lo sguardo intenso e sicuro che perlustra l’asfalto, il tre quarti che ti fa immaginare un volto appena accennato, gli sguardi sfuggenti allo specchietto e un piccolo cartello di metallo che sancisce il suo impegno e la sua importanza: “vietato parlare al conducente”. Che meraviglia. Avete mai osservato il conducente dell’autobus, quando guida? Conduce resta, guarda, apre e chiude non ha mai età precise e non ha precisamente belle divise. Questo bisogna dirlo. Il conducente si conduce al capolinea e conduce una vita regolare o irregolare ma senza troppe domande, in fondo non si può parlare al conducente, quando smette il divieto? Se scendo con lui? Dividiamo un po’ le cose, magari in quattro. D’inverno, visto che è inverno, è sera, buio, freddo e traffico e si avverte quella sensazione che si ha nelle sere fredde e buie in inverno quando c’è traffico e tu ti metti l’anima in pace perchè sai che il tragitto è lungo. Guardi un po’ te e un po’ fuori e a volte cerchi di vederti lì, alla fermata, con il cappotto e l’aria di chi ti saluta perchè deve andare, così ti saluti e cominci una nuova vita, ma non prendi più l’autobus, ora vai a piedi, poi le porte si aprono e un po’ di realtà entra dentro e un po’ di sogno esce fuori e guardi scivolare sui marciapiedi anime che sembrano fantasmi dolci, pronti a riempire le loro abitazioni di giornate di lavoro andate e d’odori acri di fatica, a prendere atto che la giornata è finita e che non c’è dubbio che Dio non esiste ma forse Gesù sì. Insieme a Gesù ti vedi andare via verso una casa qualsiasi, con una moglie qualsiasi e dei figli qualsiasi, allora ti ricordi che non hai fatto la lavatrice. Ti guardi nel finestrino e poi guardi fuori, e non ti vedi più alla fermata, perchè forse non dovevi ancora andare. Non così. È quando la gente è sola che riesci a vederla veramente, soprattutto, quando fa la lavatrice. In un attimo tutte le fantasie escono e aprono l’ombrello, hanno calde sciarpe, maglioni pesanti e l’aria di chi, soddisfatto, sta per accettare di addormentarsi abbracciato ai suoi sogni. Le fantasie hanno abiti pesanti, non vogliono prendere

freddo. Non c’è niente di più triste di una fantasia malata. E così sia. Nelle altre stagioni è diverso, credo.

DEVO SCENDERE! i rapidi. Pulsante. FERMATA PRENOTATA Rischiaccio per sicurezza. Rallenta. Si ferma piano. Inchioda! Le porte idrauliche si aprono. Vento freddo. Sguardo d’intesa. Lui finisce il turno ed io mi lascio accompagnare a casa da alcune fantasie che hanno deciso di tardare in questa sera buia fredda e trafficata. Un’ombra sfilacciata e brillante, nello scuro pavimento, s’incammina curva perchè pensa di arrivare prima, sembra voglia occupare più spazio e stare basso per sottrarsi non si sa a quale pericolo. Comincia la strada ed è solo un inizio, si potrebbero sciogliere chili e chili di zucchero dentro gigantesche tazze di cioccolata fumante ma nessuno riuscirebbe a rendere più dolce l’inizio di una storia.

Quello che tutti sognano di dire: -Scusi scende alla prossima?-Ma che cazzo te ne frega?

Un ricordo.

Ciao, mamma mia come sei bella, scusa se ti ho scontrata ma, in realtà è una scusa, ti avevo notato sai? Ti sembrerò sfacciato ma, sono giorni che ti guardo. In effetti, come si può non notare una come te. Occhi, mani, pelle, scarpe, capelli, bocca, unghie,anelli, profumo. Sei umana ma respiri piano, certo mi dirai ( ma non lo dici) - tra tanta gente, tra tutti i pensieri che ci sono qui dentro, mica detto. - Però sì, ti guardo, ora, sai mi piace il tuo mento, lo trovo un momento per pensare, è un po’ sporgente, ma da lì mi lancerei, che ne so, mi piace, anche le tue mani mi piacciono ma sono mani? Mi danno un senso di sicurezza, sono curate, sono state molto malate? Non ci sono più mani curate perchè non ci sono più mani disposte a curarle, non è buffo? Io mi chiamo Marco e tu? No non me lo dire, tu no. Temporaneamente senza nome, io spesso riesco ad abbinare il nome al volto della gente così senza saperlo tu ti chiami…Ho indovinato? Ci avrei scommesso te l’ho detto che sono bravo nell’indovinare i nomi. Io? Vuoi sapere come mi chiamo? Te l’ho già detto? Eh sì che stupido, mi chiamo così poco! Hai fretta stasera? Non sembri neanche stanca, io lo sono molto, ma lo nascondo bene, certo mi limito a pensare, ma parlami di te. Che lavoro fai? Non voglio essere invadente, ma non riesco a non fare domande, eppure non m’importa, normalmente, ma tu, tu hai quello sguardo. Bel lavoro ti piace? A me piacerebbe che tu lo fi, forse non mi piacerebbe farlo, ma addosso a te sembra un vestito perfetto. In fondo ognuno ha il suo vestito e il suo specchio. Specchio specchio ascolta il mio riflesso Calvino aveva ragione, È l’orecchio che comanda. Sei triste? Piangi se vuoi, non devi vergognarti, io non ti voglio giudicare, è che i tuoi occhi. Forse sbaglio, non voglio essere, ma sono colorati. C’è del grigio qui intorno, fanno bene occhi come i tuoi. Certo che è una sera che uno non sa neanche cosa pensare; anzi pensare è già molto stasera. Ma va, scrivi? Bello! E cosa scrivi? Bello, e per chi scrivi? Brava e quando scrivi? Beh certo, e dove? Ah ecco. Ah anche a me piacerebbe, ma non ho idee e forse neanche idee nuove. Non pensavo che avere idee fosse così importante, ma forse è solo una mia idea. Ti guardo un po’, Ti spiace? È che non mi ricordo tanto di te, anche se vorrei. È che non mi ricordo tanto di quello che dico, forse perchè è poco importante. Cosa? È importante? Quasi quasi ci credo, non che m’interessi ma spesso mi sembra che. Sto mentendo, in realtà m’interessa, è che ormai è l’abitudine, ho perso le ciglia guardando la gente e aspettando un sì. Per questo ti guardo, sento le mie ciglia leggere stasera. Perché ridi? Non mi prendere in giro; girami intorno invece, almeno guardami tutto. Almeno una volta.

Mi viene da ridere anche a me. Sei simpatica.

Le porte si aprono con il solito sbuffo, l’asfalto non è bagnato, ma la gente scivola ugualmente lungo le strade, ci salutiamo, io rimango sul 34 diretto alla solita penultima fermata. Stefano scende. Io lo guardo scendere.

13 FEBBRAIO 2009. Mattina. Ore sette. Brina, umidità e fumo dai camini. Casa di Ivan.

Che fatica, stamattina, che fatica, che fatica stamattina, che fatica, stamattina stamattina stamattina. Occhi semichiusi di tosse e torpore indecente, troppe spine pungenti dentro. Dalla luce che filtra, capisco: cielo coperto e nuvole in vena di dispetti, regali liquidi in agguato. C’è da chiedersi se riesco a vedere la finestra da dove sono. Mi trascino e la stanza silenziosa mi spia mentre prego in ginocchio i miei muscoli di generare una qualche sorta di movimento spontaneo, volontario involontario o riflesso che magari per culo mi faccia arrivare in bagno. Lì c’è tutta un’altra vita. Mi specchio nella piccola pozzetta dentro il vaso di ceramica ma vedo un naso che non è il mio, mi sposto e capisco, esce acqua prima scuretta poi più chiara i reni sono sereni e io pure. Lo specchio non ho né motivo, nè voglia di guardarlo, in fondo mi sono già specchiato, mi sposto di novanta gradi e sono davanti al lavandino. Ho un gran bagno, non grande ma gran. Lentamente i sogni, l’atmosfera, la sensazione di benessere e trapunta si fracassa contro i pensieri e scoppia la sensazione d’essere sveglio senza la necessità di esserlo. Ho la tentazione fortissima di accorciarmi la barba, di tagliarmi i capelli, di farmi un tatuaggio nuovo e di scrivere “ho sonno”. La pipì più bella della giornata, un sospiro di sollievo, acqua e sapone, un censimento tra i calzini. Metto su il caffè. La stanza da letto sembra diversa, sembra la cucina, in realtà somiglia all’interno della cucina che ho sognato poco fa dove venivano macellate decine e decine di bestie puzzolenti che lasciavano un fetore terrificante. Mi vesto. Mutande, pantaloni, camicia. Oppure camicia mutande pantaloni. Bevo un caffè senza convinzione, non io ma il caffè. Scarpe.

Mi dirigo chissà dove senza perdere di vista l’ora. Della mattina, la cosa bella è che puoi pensare alla sera, senza pensare che di sera è sera. Esco. Cazzo è freddo, non sembrava. La luce mi convince che è davvero giorno, il giorno mi convince che sarà lungo, l’autobus mi aspetta e non è carino farsi aspettare, devo andare. Mi avvio tenendomi stretto sotto gli alberi della mia campagna nell’attesa di vedere il mare in lontananza, otto o 9 chilometri almeno, da qui sembra un laghetto di montagna tra due valli e invece, si stende dietro i margini di questa regione a forma di cornetto. Ormai sono due anni che vivo qui, tanto lontano dalla città da non sentirne i rumori, tanto vicino da avvertirne l’odore e il disperato richiamo. Da due anni, da quando la fine della mia relazione con Andrea ha deciso di invitarmi alle nozze con me stesso, il problema è che sono l’unico invitato, il vantaggio è che c’è più cibo per me. Per inciso, Andrea è una donna, ha poco seno, ma è una donna. Una tragedia, sei anni di relazione e tre di convivenza, di colpo volatilizzati, anzi nebulizzati. Goccioline di sentimento e di follia miste a saliva e sangue fino a diventare nulla nel giro di due ore. Una tragedia. Un giorno la relazione è finita, il giorno dopo il divano letto dei miei genitori aveva la forma di un uomo con una relazione di sei anni finita da un momento all’altro e i miei genitori avevano la faccia di genitori di un uomo con una relazione di sei anni finita da una momento all’altro. Un mese dopo, l’incidente che ha determinato la mia incondizionata, stoica, romantica e patetica fedeltà al sistema di trasporto municipale della mia città. Così l’autobus è diventato il mio unico mezzo di trasporto. È qui sull’autobus 34 che lo incontro da più di un anno, non ho mai la certezza di incontrarlo e mai l’avrò, un giorno è lì, il giorno dopo no, un giorno lo vedo alle sette di mattina e il giorno dopo alle sette di sera, a volte facciamo tutta la strada assieme e a volte

scende prima o dopo di me. Con il pensiero molto basso che ha la forma di un nano inizio a camminare lungo al vicoletto contornato da muretti a secco con le rocce che spuntano e i rigonfiamenti che dicono tutto sull’età e sulla pioggia che li ha bagnati. Il vicoletto si allarga ed ecco il mare, che mi guarda con il suo unico occhio celeste e sfocato da un cielo grigio che sembra ombretto. Comincio ad incontrare i bambini che si dirigono a scuola, i genitori e i padroni dei cani assonnati più dei padroni che si sforzano di fare le loro cosine in fretta e furia per lasciare che i loro padroni vadano a lavorare. La brina ha creato un sottilissimo strato di ghiaccio sulle cose, una pellicola che sembra un cellofan per imballaggi così che le macchine sembrano tutte nuove e dello stesso colore e le piante e l’erba, una distesa infinita di stelle alpine. Il cielo è grigio e gonfio come le tasche dei miei pantaloni con le mani che si rivoltano dentro e toccano tutto quello che trovano. La strada si allarga ancora fino a diventare piazza e non solo, ma una piazza con la chiesa, da lì s’inizia a scendere e la ripida discesa si trasforma dopo pochi metri in gradoni grossi e rossi di mattoni scivolosi e sbeccati, ai lati siepi mal curate, case nascoste da alberi asfissianti ed un vago presentimento di non essere più a letto. Mi sto svegliando e nemmeno me n’accorgo fino a quando l’occhio mi cade sull’orologio che segna inevitabilmente che la mia andatura è lenta. Di controvoglia mi convinco ad accelerare. I pensieri iniziano a farsi spazio a sancire definitivamente che un giorno è cominciato, ma è la fine che desta il mio interesse, o meglio il resoconto del giorno: - questa sera come sarà andata la giornata?Sto per raggiungere il pezzo di pianura a curve che mi collega alla “civiltà”. La strada continua ad essere fastidiosamente ripida ma fortunatamente asfaltata. La stretta mattonata rossa contornata da siepi incolte ha fatto spazio ad una ben più ampia via grigia con ai lati boschi cintati da reti e, in alcuni punti, da paratie di metallo piene di scritte, la più grande dice “tre metri sopra il cielo” ma l’ultima parola è cancellata e sostituita con la parola cimitero. Qualche spiritoso ha voluto semplicemente puntualizzare che Sant’Antonino, il paesino in cui

vivo, è costruito sul versante nord della collina sovrastante il cimitero monumentale di Staglieno. La strada grigia d’asfalto, curve e d’elevata pendenza termina bruscamente in una biforcazione netta e pianeggiante, la mia strada va a sinistra, da lì comincia il gigantesco, fatiscente, tetro e irriguardoso muro di cinta dell’immenso e lussuosissimo ricovero per anime. Costeggio il muro scrostato e logoro con aperture che somigliano vagamente al ricordo di una finestra e, dai vetri mancanti intravedo centinaia di lumini rossi e fiori, da qualche finestra riesco anche a vedere le lapidi e l’inizio di una galleria con una gigantesca e traballante scale di metallo. A sinistra il muro del cimitero, a destra un alto muro di cinta e, se guardi verso l’alto, una striscia grigia di cielo che sembra una strada o il fumo di un camino. Io invece cammino e ancora pochi metri e la civiltà dovrebbe mostrarsi con la sua bocca sorridente che accoglie con il bar, i fiorai che contrattano con i grossisti, l’edicola, i furgoni, i vigili, gli operai con le tute blu, i marmisti, gente, tanta gente che fa tante cose e si dirige in tanti luoghi quasi tutti diversi dal mio o da quello degli altri. Mi fermo al bar controvoglia, ma ho voglia di un caffè che non arriva e allora me ne vado, lo prenderò più tardi. Alla fermata dell’autobus ci sono pressapoco le stesse persone di ieri e dell’altro ieri, facce tipo la mia, facce da mattina fredda, cielo nuvoloso e minaccia di pioggia. I cartelloni dell’autostrada avvertono che non si possono portare in moto bambini d’età inferiore ai cinque anni. Alla fermata le mani di chi aspetta tengono giornali aperti, chi non li ha cerca di leggere quelli degli alti o rilegge cinque volte la locandina dell’edicola accanto alla fermata, gli sguardi scrutano un po’ il display con le previsioni dei transiti, un po’ il cielo plumbeo e un po’ l’orizzonte in cerca della targhetta luminosa con il numero del proprio autobus. Io guardo l’asfalto. Una mamma con il bambino e il suo enorme e irriguardoso zaino arrivano in tutta fretta come se dovessero salire di corsa sull’autobus che non c’è, poi si bloccano improvvisamente come davanti ad un burrone, il bambino in avanti, per inerzia, verso la strada, la mamma si arrabbia e il bambino viene sgridato.

Il messaggio sul cartellone luminoso avverte che sono previsti forti temporali e invita tutti a stare molto attenti. Arriva un mastodontico autobus doppio, numero 14, che porta nel Centro città, si aprono le porte e un’orda di vite entra disperata e spietata dentro la carcassa arancione fino a saturare ogni angolo e anfratto. L’aria s’ispessisce all’improvviso, quando l’autobus riparte sembra un bignè rigurgitante crema di eggero. Un uomo compra un biglietto dell’autobus, io no. Guardo in alto e, come se aspettasse questo momento, una goccia mi colpisce direttamente dentro l’occhio e quasi fosse una lente a contatto sbagliata, per un secondo mi dona una vista sbiadita e colante del cielo. Il cartellone luminoso adesso avverte: ALLERTA METEO 2. Come se il via libera fosse stato dato dal cartellone luminoso inizio a sentire qualche goccia, diverse, tante. Il cartellone luminoso dice un minuto, l’autobus sta per arrivare, ovviamente ne ano due, inizio a sentirmi nervoso, la pioggia comincia a bagnare la strada formando un meraviglioso disegno a pois, poi comincia a tingere tutto di scuro, l’asfalto, il marciapiede, le macchine, le nuvole sembrano più grigie adesso, è chiaro che stanno per esplodere. Arriva il 34, si ferma con un rumore di freni e cigolii neanche fosse suo cugino treno, le porte si aprono con uno sbuffo da vecchio compressore e l’interno è celato da corpi vestiti a caso e sistemati anche peggio. Dentro, non vedo nulla. C’è troppa gente, tutta ammassata con i loro ombrelli bagnati e i loro impegni ingombranti. Non riesco a vedere. Salgo i tre scalini. Le porte pneumatiche si chiudono e lasciano fuori la pioggia, l’asfalto e la mamma che ha sgridato il bambino. Il cartellone dice sempre: ALLERTA METEO due. L’autobus è incredibilmente vuoto di spazio, il che significa che è colmo di gente. Tra una persona e l’altra c’è una persona, in mezzo fiato, sguardi, sfioramenti, calore, freddo, spinte, indifferenza, sofferenza, senso di pienezza, odori da intestino che bruciano la gola, pensieri, dimenticanze, starnuti, alito

cattivo dopobarba, doposci, dopo esco. Scruto i pochi spazi, allungo il collo, piego la testa, la ruoto, mi volto, mi abbasso cercando di essere il più indifferente possibile, sposto una borsa, mi metto sulle punte. Niente. Avanzo verso il centro con fatica, non avanzo quasi, ma mi sporgo mi assottiglio mi disincastro, infilo la mano, poi il braccio, mi guardano con lo sguardo di chi pensa che voglia rubargli il portafogli, mi avvito tra una studentessa con l’enorme zaino dell’Invicta e un probabile rappresentante scientifico con un gran borsone di pelle che sembra un armadillo, svuoto i polmoni e come un topo che a sotto la porta finalmente festeggio per i cinquanta centimetri guadagnati, allora ricomincio chiedendo permesso e dando leggere spintarelle di cortesia, scosto bambini, zaini borse, infilo una gamba tra un tubo e la porta centrale e lì mi fermo. La coda dell’occhio scodinzola furiosamente e poi si raddrizza per indicare il punto, lo sguardo la segue e cade dove deve cadere e se potesse abbaierebbe ma, non può. Il mio sguardo non sbaglia e neanche il mio naso, finalmente tra una ragazza di chiare origini sudamericane e un uomo di mezza età con delle orribili mani da volpino riconosco la sagoma. È lì, davanti a me, riesco ad intravederlo dietro un bambino che si scaccola e una signora di mezz’età, faccio un o, il bambino attacca la sua caccola sullo schienale della sedia di fronte e si sposta per scendere, eccolo! Madre di Dio, non mi ricordavo che fosse così piccolo. Zitrrunas è davanti a me. Finalmente.

Due anni prima. 10 SETTEMBRE 2007. Notte. L’ospedale.

Non mi lasciare, resta qui. Ho paura! Sento dentro dei brividi, sono così forti, sembrano spilli, mi sembra di sentir dentro tutta la vita, che male! Sento male, mi sembra un dolore simile a quello della gravidanza ma che ne so io del dolore delle donne, tu sei di là e io non riesco a muovere gli occhi. Cosa SUCCEDE, non capisco, non riesco a muovermi, non riesco a muovermi e ci sei tu che mi guardi. Che cosa fai adesso? Mi fai il solletico, ma chi sei ?Non importa sei così dolce con quelle mani così umane. Le pareti si stringono senza motivo e le sfumature diventano colori diversi, cambiano e si muovono; laggiù c’è una piscina vuota ma io non posso entrarci, è vietato. Sono spaventato, non capisco. Non riesco a parlare forse non ne avrei neanche voglia, cos’ho in bocca? Sento un gusto di plastica, sembra un palloncino. Perchè mi schiacci così forte? Che cosa ho fatto? Cosa ti ho fatto? Che cosa dici? Perchè ho bevuto così? Perchè ero disperato, perchè sennò? Mi fai così male però! Che voglia di dormire, finalmente, ora sento che posso, basta pensare, basta guardare, basta. Chiudo gli occhi. Ora posso chiuderli gli occhi. Hanno visto troppo, hanno troppi anni, sono pochi, ma li sento vecchi e stanchi e c’è di tutto dentro. Ma tu cosa vuoi? Perchè mi tieni? LASCIAMI, smettila, non ho bisogno di te, chi sei? Che fatica, sento un peso, aiutami, non riesco più, non riesco più, non riesco Battito......... niente niente niente niente battito niente niente niente battito niente Battito battito battito battito battito battito battito battito.

Ci siamo, ci sono, perché ridi? perché mi accarezzi? No, non sento freddo, in realtà non sento molto, veramente non ho mai sentito molto. Spiritosa, non hai mai visto degli addominali fatti così bene eh? Ti strizzerei l’occhiolino se potessi. Ho occhi belli? Grazie cara, anche i tuoi non sono male. Senti, ma perchè non riesco a muovermi? - Non ti muovi perchè hai avuto un incidente – Ma allora mi senti! - No – Ok, è tutto regolare. Che cosa fai nella vita? Non lo so, forse niente, vedremo. Luci bellissime fuori dalla mia stanza di lamiera riflettono ogni cosa e nulla, forse perchè il nulla è evidente quando le luci girano riflesse negli occhi. Vi farei un monumento piccoli angeli arancioni. L’odore di disinfettante arriva dritto al cervello e consacra l’ambulanza come uno dei posti più brutti e scomodi dove sdraiarsi. Colori mai visti e rumori mai sentiti. Una gracchiante radio parla a scatti e programma le prossime mosse: - Ok dal Galliera, vi aspettano – Mi guardo intorno. Angelo dove sei? Ma hai il pizzo! Ah non sei tu, che paura. Eccoti. Come sei dolce.

Mi sento debole e ammaccato. Rumori, suoni, luci. Freni; il sarcofago si apre, sono legato come una mummia, non riesco a muovermi e nessuna faccia mi è familiare, cerco qualcuno ma vedo solo bianco. Rumori e voci, ordini e ordini. Dove sono? Intuisco. Nessun posto è più buio di quello dove non incontri nessuno, la vita ti scorre accanto in quei momenti e vorresti che tua madre fosse li, non la tua di madre ma quella madre che tutti vorrebbero, quella che arriva, ti guarda, dentro muore ma sa che non può e allora vive, per te. Ti guarda e ti accarezza con i suoi occhi di madre, ti accarezza e ti guarda, ancora, dice il tuo nome e tu capisci quanto ti vuole bene e quanto sta male, ma questo ti addolora e allora si fa forza e con un unico, solo, limpido e meraviglioso sussurro ti dice che andrà tutto bene e allora tu capisci che mente e le guardi dentro, mentre ti guarda dentro e ti cura. Allora capisci che tutto è al posto giusto solo perché l’ha detto lei, solo perchè dentro alle sue lacrime mai cadute c’è tutto il bene della vita e, mentre tu piangi, lei ti tiene sveglio. “Madre di mille deliri, di mille favole e segreti. Eccoti qui, anche se non sei tu, in te devo vedere qualcosa. Madre e padre insieme, a qualcuno devi dirlo che sei figlio, senza paura e senza orgoglio. In pochi potranno dirlo e in molti potranno capirlo che non ne hai la forza, il problema è: chi l’avrà?” Sono i momenti più strani quelli in cui ricordo pezzi di poesie, canzoni e racconti, sembrano rimasti lì ad aspettare di venire fuori all’improvviso, per aiutarmi e accarezzarmi.

Sento l’aria del movimento sulla faccia. I neon scorrono uno dietro l’altro come un lunghissimo treno luminoso. I i sono velocissimi. Le ruote della lettiga girano e la lettiga sobbalza leggermente e curva. Le pareti cambiano di continuo e in fondo al corridoio c’è sempre la fine, io lo so, possiamo anche non crederci ma è così. Un corridoio conduce alle stanze, ma le stanze dove finiscono? In loro stesse, come me adesso steso qui sopra. Sto delirando. Mi addormento. Quando mi risveglio sono con me stesso, sotto la macchina che legge i pensieri e le ossa. Mi adagiano con molta cura su superfici fredde come il ghiaccio dimostrando tenerezze strane per persone sconosciute, faccio il mio dovere e loro il loro, ma c’è di più, sembra che siano complici della serata, sembrano compagni e amici; una sensazione strana, piacevole ma strana. Svengo nella notte priva di dimora, mi assottiglio nel buio della notte sotto gli occhi vigili dei monitor; i bip tengono il tempo, ma il mio tempo è lungo come un gigantesco e nero serpente tra le bianche pareti e le infinite domande. Che strane le figure che girano, si confondono con le pareti e confondono la mia anima distante che cerca aria fuori da quest’ospedale. La mia stanza sembra quella di chiunque e forse lo sarà, nel frattempo stringo forte la mia paura fin quasi a stritolarla, poi mi dirigo all’angolo come un pugile suonato. Sono le sei di mattina e portano il tè. Io non lo posso bere,

E poi non mi piace.. Il mio trauma cranico mi da la buonanotte. Tra una visita degli infermieri e una dei medici mi laureo in pazienza a pieni voti resistendo alla forte tentazione di trattare loro come loro trattano me. “Allora come andiamo”? “Mah dottore guardi”…. “Su su vedrà”. “Mah”. Rumore di scarpe in fondo al corridoio, anche se in realtà nessuno corre e più che un corridoio potrebbe essere un camminatoio. Qualche infermiere si scioglie in effusioni amorose arrivando persino a dire “Tenga, la medicina”. Mi sciolgo. Cerco di cambiare di tre centimetri la mia posizione procurando al mio cervello una serie illimitata di dolori su cui riflettere e concentrarsi. ano e non ano camici, scarpe marroni e scarpe bianche, poche scarpe nere e nessun sandalo. Gli sguardi ano dritti dritti, quasi pungenti come i nasi di certi rapaci, non mi guardano, non gli interesso, non m’interessano, tutto quello che conta è già scritto sulla cartella clinica che è il mio l’atto di nascita, la carta d’identità, la patente e il diario segreto. Pochi distolgono lo sguardo dalla loro meta che pare sempre essere il nulla, a circa un metro e sessanta di media d’altezza, laggiù, alla fine di quel maledetto camminatoio che sembra inghiottire gente come il più terribile dei predatori. La stanza, anzi la Camerata, è divisa in otto micro stanzette che devono il loro nome a paratie di plastica opaca bianca e blu chiuse. Considerando che in ogni pseudo stanza ci sono quattro posti letto il conto è presto fatto; la camerata può ospitare trentadue uomini ed io sono il letto numero quattro. Quindi per chiunque sono il numero quattro ed essendo il quattro sono anche molto lontano dall’entrata. Comunque, raccogliendo un po’ di forze, mi sporgo

dalla paratia per spiare le scarpe che, tacco punta tacco punta si dirigono lungo il corridoio. -Buongiorno come andiamo?- Furtivamente compare al mio capezzale cogliendomi di sorpresa una grande infermiera, non grossa ma grande davvero grande, una mole imponente che contrariamente a quanto si pensi, non mi rassicurava affatto. In mano ha lo strumento per la pressione e altre diavolerie simili, accanto a lei un carrellino con un apparecchio per il cuore, nel secondo ripiano alcool rasoi cotone garze. Svolge tutte le sue azioni con maniacale precisione, lasciando intendere una confidenza formidabile con quelle procedure. Tutta indaffarata si china su di me e inizia a trafficare lanciandomi ogni tanto uno sguardo compreso tra il rimprovero e il disgusto. Mentre scarta un rasoio bilama per rasarmi i tre peli superstiti dalla notte brava, noto un piccolo tatuaggio dietro l’orecchio destro, una elle in scrittura gotica, subito i capelli ricoprono tutto e il suo tatuaggio torna segreto, come segreto è il nome e il ruolo del padrone del nome di cui è iniziale. Avrà cinquantacinque anni, capelli neri più lunghi da una parte che dall’altra. Un taglio giovane. La testa è enorme e altrettanto grandi sono le orecchie piene di fori ormai chiusi da anni. Improvvisamente, come se avesse covato tutto questo risentimento per anni, come se avesse trattenuto il fiato per non esplodere, con una faccia indignata e spregiudicata si rivolge a me. -L’ha fatta la sua eh?“Scusi?- Non ci sarà rimasto più vino nella sua cantina dopo ieri sera eh? Ma si rende conto? Non solo ha rischiato di lasciarci la pelle, ma poteva anche fare del male a

qualcuno, incredibile, non crede? Non capivo che disgraziato ruolo avesse questa bisontica infermiera nella mia esistenza, ora e in questo momento ma le forze non mi consentivano di ribattere. Inaspettatamente il suo tono stava assumendo un’inflessione più materna. - Ma cosa avete nella testa voi giovani, poi insomma lei, lei ha, mi faccia vedere, insomma, lei ha trentatré anni, certe cose alla sua età non si dovrebbero più fare, ci sono momenti in cui uno deve dirsi: è ora di mettere la testa a posto! Così bisognerebbe fare ad un certo punto, non è che si possa andare avanti così per sempre. Non fate più figli, rimanete con la mamma fino a trent’anni e più, a volte fino a quaranta, ma cosa andate cercando?- L’amazzone bianca iniziava ad auto irritarsi senza che io fi il minimo movimento o emettessi alcun fiato. Instancabilmente, continuava a martellare. -Ma voi pensate che potremo mantenervi fino alla pensione? Sa le do una notizia alla quale non crederà mai: noi genitori non siamo immortali! lo so che è sconvolgente ma è esattamente la verità.Si ferma un momento come se cercasse qualcosa nella memoria. -Pensi che il figlio della mia vicina di casa ha trentotto anni ed è disoccupato e lei pensa che stia cercando lavoro? Eh?Non dico nulla e nemmeno la guardo. - No per niente, e dico, per niente. Vive alle spalle dei suoi genitori che ovviamente non sono certo più tanto giovani, dato che lui ha trentotto, s’immagini un po’ è ovvio che poi i genitori desiderino vedere il loro figlio realizzato, sposato, con dei figli e soprattutto fuori dai ciglioni.L’infermiera sembra fuori controllo e il grafico dell’elettrocardiogramma segnala che mi sto agitando, ma lei imperversa senza ritegno. -Così magari possiamo comprarci quel cazzo di camper e andare a fare il giro della Sardegna come abbiamo detto che avremmo fatto, ma voi no, no voi continuate ad ubriacarvi e noi?

Noi dovremmo continuare a farvi la camomilla per le vostre sbronze da adolescenti? È finita l’adolescenza lo sa? Lo sa? Lo sa o no? Mentre il suo viso gigante si avvicina fino a venti centimetri dal mio e sento le goccioline della sua saliva che si spiaccicano sul mio viso mentre urla, la sensazione che, l’infermiera più grande del mondo, stia per uccidermi prende campo dentro di me. Attendo stoicamente con gli occhi chiusi questo triste momento considerando che minimamente potrei sottrarmi alla presa di questa pazzoide. Quando nella mia mente compaiono immagini terribili di mutilazioni e sofferenze, con un rumorio di roba lanciata e messa a posto a caso sento una meravigliosa sinfonia: il carrellino con l’elettrocardiogramma che si allontana spinta dalla più disturbata e improbabile infermiera che un paziente possa incontrare.

Ospedale. Pomeriggio.

Tempo tempo delle mie brame chi è il più mal ridotto del reame? Tu mio caro Ivan, sei tu il più mal ridotto ma non temere, il tempo aggiusta tutto, tranne i rapporti finiti, le parti meccaniche delle moto, le pagine dei libri e le ferite troppo profonde, i bicchieri di vino e le tazze, i coglioni o le palle, la stoffa, l’autostima e i computer, i collari dei cani, i cani; più altre centinaia di migliaia di cose che non ho voglia di elencare. A volte il dolore mi assale così improvvisamente che mi sembra di avere la testa troppo piccola per pensare e mi sento lo stomaco schiacciato dal male, stretto da una mano invisibile che non mi lascia più. Mi giro e mi accorgo che niente è più come prima, che tutto quello che mi dava sollievo non esiste più, che io non esisto più, che dentro di me un vortice di dolore sta manomettendo il mio sistema, mi sta cambiando perché il mondo non sarà più lo stesso, perché quella persona non ci sarà più, non potrò più sprofondare la faccia nel collo di mia nonna o di mia madre, non ci sarà più il mio cane a leccarmi, tutto sarà diverso e lo sarà per sempre. Nulla guarisce o si aggiusta, piuttosto si sopporta, ce ne facciamo una ragione perché non c’è nient’altro da fare. Questo è il tipo di dolore che mi sento dentro gli occhi, sotto il colore di serenità che lo tiene soffocato, silente, lì buono in attesa di ritornare sotto altre mentite spoglie. Perché tornerà, ritmicamente, costantemente, come un’ossessione, un pendolo che suona a caso. Non tutti i dolori sono così laceranti, per me, semplicemente ho constatato che la mia soglia di sopportazione ha, col tempo, raggiunto livelli bassissimi. Per questo motivo, alcuni anni, fa ho determinato, dopo varie sperimentazioni, che la fuga, inequivocabilmente pareva essere il modo migliore per ripopolare di serenità il mio l’habitat cerebrale. Diciamo che molto spesso vedo, come si dice, il fondo della bottiglia, e nel mio caso il fondo di svariati bicchieri di forte e pastosa birra bionda doppio malto. Comunque non sono certo un alcolizzato, diciamo che ho deciso di attenuare e, se possibile, scordare i miei problemi per una quantità di ore congrua al mio benessere mentale. È un po’ come un farmaco di automedicazione con tutti i suoi effetti collaterali, la sua posologia e modalità di somministrazioni e gli effetti indesiderati come questo maledetto incidente. Io bevo solo birra doppio malto,

non birra da 4,5 , 4,8 gradi o peggio birra sgasata, birra mischiata con gassosa o altro, solo doppio malto chiara o rossa, non importa e mai prima di una certa ora, mai prima delle sette. Comunque se la mia doppio malto avesse un bugiardino sarebbe così. Nome: Tennent’s super 9° Categoria farmaceutica: antipensiero generale Indicazioni terapeutiche: trattamento di tutti i dolori sensibili alla birra doppio malto, inadeguatezza, scarsa capacità di socializzazione, problematiche relazionali localizzate o diffuse. Controindicazioni: La doppio malto è controindicata in pazienti con ipersensibilità al principio attivo, a uno qualsiasi degli eccipienti o verso altre sostanze correlate da un punto di vista chimico, in gravidanza, durante l’allattamento e in presenza di grave insufficienza epatica. Precauzioni per l’uso: la doppio malto è metabolizzata principalmente a livello epatico, particolare dovrà essere posta nella somministrazione della birra a pazienti con ridotta funzionalità epatica. La doppio malto stessa può portare a ridotta funzionalità epatica e a danni epatici. Dose, modo e tempo di somministrazione: nei casi gravi da una a due medie doppio malto all’ora prima del pasto serale, la somministrazione deve essere proseguita fino alla scomparsa del sintomo. Si consiglia di somministrare la doppio malto fuori dall’orario di lavoro. Avvertenze speciali: è stata dimostrata una forte incapacità di guidare veicoli si sconsiglia pertanto di utilizzare veicoli o attrezzature pericolose. Consigliamo ai pazienti in trattamento con doppio malto di munirsi di abbonamento almeno mensile ai trasporti pubblici della vostra città. Attenzione la birra doppio malto può creare fenomeni di dipendenza è sconsigliabile interrompere bruscamente il trattamento, si consiglia di diminuire le dosi fino a sentire il bisogno della sola birra Moretti, segno della fine della dipendenza da birra.

Se comparissero ulteriori effetti indesiderati non contemplati nel presente bugiardino vi invitiamo a comunicarli tempestivamente al vostro barista.

Ospedale. Sera e senso di notte.

A volte il buio è così fitto che mi sembra di farne parte e non riesco più a capire dove finisca lui e inizi io, è quello che capita nelle case di montagna che hanno le imposte di legno a pannelli spessi, completamente serrate, senza spiragli o feritoie. Ti svegli la mattina, apri gli occhi e niente, il buio si sdraia lì, nella mezza luna tra la palpebra e l’occhio e inizia a entrare e entrare fino a invaderti, fino a farti nero, non ti senti buio solo perché senti che dietro di te c’è un lenzuolo bianco che ti strappa alla notte. Qui il buio non è mai buio, non è reale, ogni quattro o cinque metri una fioca lampada bluastra tinge i muri di ombre turchesi che non fanno altro che ricordarmi dove sono. Qui la notte fa finta di essere notte. L’aria è irrespirabile. In fondo alla camerata un crocifisso scruta nelle nostre stanze. In fondo alla stanza le voci degli infermieri che si salutano per il cambio turno mi commuovono perché sanno di vita. Mi annoio. Questa mattina per caso ho tirato su col naso, così, un po’ di polvere, non è successo nulla non ho sentito niente. L’ho rifatto e niente, mi sono tirato su e ho cominciato ad annusare l’aria, come un cane, annusavo e non sentivo niente, anzi sentivo tutto ma non sapeva di niente, tutto aveva lo stesso odore, lo stesso torbido aroma di ospedale e malattia. All’inizio percepivo l’odore del disinfettante. Sentivo il detersivo per pavimenti, odore di feci e urina, soluzione fisiologica, uniformi lavate e stirate, piedi, scarpe, sbarre, lenzuola federe, poi improvvisamente e misteriosamente si miscelano insieme come una pozione creando un aroma fastidioso e drammatico di malattia che riesco per ora ancora a distinguere dal mio. Tutti fanno caso ai colori, ai rumori, ai muri, ma mai agli odori. Non si può pensare che un ospedale possa rassicurare se sa di malattia, dovrebbe odorare di benessere, di speranza, di possibilità. Da bambino amavo l’odore del limone, mi rassicurava e mi faceva stare bene, non so perché, forse perché sono ligure e perché pregavo ogni giorno il mio

albero senza limoni di farne crescere uno, almeno. Non ricordo se poi è cresciuto, se non me lo ricordo probabilmente no. Se un occhio esterno e indiscreto, magari, perché no, di donna, mi vedesse adesso, in questa circostanza vedrebbe un ragazzo con la barba terribilmente incolta, una gamba nuda a penzoloni fuori dal letto, la mano destra piegata sotto la testa e lo sguardo perso nella bianca parete davanti a sé nel vago tentativo di vederci qualcosa o di trovare uno spunto per un quadro o una poesia, un po’ come il pittore davanti alla sua tela bianca, vedrebbe anche quello che io non vedo e cioè le stanzette con i malati dentro e i dottori che guardano le radiografie, forse si annoierebbe, se non fosse per la persona che, tolto il paravento che insistentemente finora aveva celato, si svelava accanto al mio letto. La testa rotonda faceva capolino dalle lenzuola che gli ricoprivano anche il naso, solo le due grandi narici pelose restavano fuori a reperire aria utile a non morire. Il lenzuolo e le coperte si gonfiavano aritmicamente facendo immaginare una sagoma spessa e corpulenta. L’uomo russava e le coperte si gonfiavano, l’uomo russava ed io guardavo quelle coperte che mi cullavano. Improvvisamente l’uomo scatta come punto da una vespa e sobbalza sul materasso come una molla e ricade come una cotoletta sul lato sinistro. Io e l’uomo siamo a faccia a faccia. Lui respira. Piano. Io lo osservo. In silenzio. Ogni tanto sembra che stia per svegliarsi, apre gli occhi; occhi rossi come il fuoco, sembra un demonio che ha deciso di usare il corpo di quel malcapitato per rivelare la sua natura terrena e demoniaca, ma poi richiude di scatto le palpebre ingoiando quelle stupide sensazioni e risprofonda in quelli che spero siano sogni. Io mi volto a pancia in su e fantastico, ogni tanto mi rigiro verso di lui e guardo

cosa fa come se potesse fare qualcosa. La notte mi mette il pigiama mentre la accarezzo come una gatta e lentamente mi separo dalla sera.

Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Mattina.

Sei di mattina. LUCI. Sveglia. Proiettato nella dimensione meno affascinante e voluta: la malattia Frastuono e voglia di urlare. BASTA. Termometro. In piedi. Bagno. Pipì. Sigaretta. Letto. Gente di fretta. Colazioni. Carrelli. Bagni. Denti. Ascelle. Faccia. Asciugamano.

- Dove va lei? - Eh? Occhi pesanti. Caldo soffocante. Letti, in quattro e quattro otto. - metta a posto il comodino! Letto. Rivista. Altra rivista. Primi medici. - Buongiorno. Sguardo. Scarpe. Tic tac. i. Sigaretta. Rimbombi Carrelli. Scopa. - Tiri su i piedi. Mocio.

- Tiri su i piedi. Pavimenti puliti. Medicine. Scherzi tra infermieri. Pacche. Letto. Soffitto.

Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Pomeriggio. Zio Pesce.

Eccomi sdraiato a naso all’aria dopo un risveglio indisponente. Mi giro verso il mio compagno di stanza ed eccomi ancora a fissare lo strano uomo vicino a me. Il mio sfortunato compagno di viaggio, vicino di letto, stimolatore di pensiero, possibile conoscente e ipotetico amico ha un braccio a ciondoloni fuori dal letto che non può che destare la mia curiosità per le piccole dimensioni. Non può essere altro che un nano. Penso. Non sarebbe possibile spiegare altrimenti le dimensioni di quell’arto salvo che non fosse il moncone di un braccio più grande. Il corpo, come avvolto in un sudario, era visibile, come visibili erano le sue piccole ma proporzionate dimensioni che ne facevano un uomo molto basso e non un nano. Ciò che mi riusciva di vedere mi dava la sensazione di un buffo ometto e immediatamente, come sempre mi capita, ho immaginato una vita per lui. Un lavoro da impiegato, una mogliettina bassa bassa ma sempre sorridente e una famiglia molto numerosa. Il mio sguardo, libero e felice di scorazzare su di lui, si sofferma improvviso e immediato sul viso. Una faccia strana. La forma forse, tutta tonda come un’anguria con ciocche di barba incolta bianca e grigia e qualche mazzetto di peli ancora neri un po’ qua e un po’ là. Sulla testa quasi calva una coda di capelli grigi chiusa da un elastico qualunque e in qualunque modo. Le palpebre sembrano delle tendine di soffice pasta sfoglia rosa grinzosa chiuse delicatamente su due occhi enormi e un naso a forma di panettone con due enormi buchi profondi e neri.Tutto sommato l’aspetto sembra sereno, forse perché ha gli occhi chiusi. Lo sguardo vaga e si ferma, stavolta sella bocca cinta e delimitata da enormi labbra rosse e carnose come disegnate su di una tela bianca con un grosso pastello rosso o un rossetto. A guardarlo bene sembra un grande pesce rosso senza età e adesso sembra dentro la sua boccia di vetro. Non so come ci si senta dentro una palla di vetro, ma forse posso immaginarlo.

Ecco, sono dentro la palla e ho chiaramente la possibilità di sentire tutto quello che viene detto e i rumori, anche quelli meno forti, l’acqua mi trasmette tutto, sensazioni attutite ma comprensibili. Ogni tanto provo a parlare ma nulla, non esce nulla, non posso neanche dire che sono qui dentro perché nessuno mi può sentire. Ogni tanto si avvicina qualcuno con la faccia che si allarga come se fosse di gomma, guarda e sorride, dice qualcosa di incomprensibile, ma quello è un problema suo, poi se ne va e quello è il momento più brutto. Il mio vicino credo sia in coma e credo sia nella sua bolla. In ogni caso la vita di quel poveretto vicino a me somiglia molto alla vita di un pesce rosso, anche se spero che la sua sia più lunga e soprattutto spero che non finisca dove la maggior parte dei pesci rossi finisce quando muore. È per questo che, nonostante si chiami Carlo io l’ho soprannominato “zio pesce”, mi sembrava un nome affettuoso, poi ho ripensato alla triste sorte che subiscono numerosissimi esserini pinnati e non mi è più sembrata una buona idea ma ormai era fatta. Zio pesce riposa.

Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Sera. Il nano.

Durante l’orario di visita viene spesso un omino piccolo piccolo a trovare zio pesce. Arriva e mi saluta con un gran sorriso ed un leggero cenno del capo, prende una sedia dal tavolo, la porta vicino al letto di zio pesce e ci si arrampica sopra rimanendo con le gambette a penzoloni. Resta seduto a guardare zio pesce in silenzio per circa mezzoretta, non gli parla, non gli sussurra niente, non cam¬bia espressione, rimane li e contempla non so cosa, a volte gli tiene la mano, a volte no, poi gli sor¬ride ogni volta per una manciata di secondi, scende dalla sedia. La prende come se prendesse un vaso cinese e delicatamente la rimette a posto con lentezza, poi si gira verso di me e mi sorride, fa un cenno di saluto col capo e a piccoli etti da piccola persona esce dalla porta che sembra l’antro di un’enorme caverna quando lui la attraversa. L’altro giorno l’amico di zio pesce è arrivato fuori orario di visita, tanto è difficile vederlo are se non si fa molta attenzione, ha salutato come al solito con un sorriso, ha chinato il capo ma questa volta non ha preso la sedia dal tavolo ma si è diretto subito verso il letto di zio pesce che respirava delicatamente, supino, con il lenzuolo che lieve si sollevava e si abbassava. Ha infilato una mano in tasca e ha tirato fuori una collana con lacci di cuoio nero che intrappolavano un medaglione che nelle mani del nano sembrava ancora più grande. Da quello che riuscivo a vedere sembrava tutta intarsiata e lavorata con grande pazienza, al centro s’intravvedeva una croce di legno scuro con al centro una specie di zappa di metallo, forse d’argento Un ciondolo strano. Ha allargato le estremità della collana con una cura commovente e l’ha delicatamente messa al collo di zio pesce, poi per la prima volta ha sussurrato qualche parola che non ho capito, ha fatto il segno della croce, gli ha baciato la mano che giaceva sul copriletto che sapeva di malattia ed è uscito senza sorridermi. Lo guardavo mentre sgambettava lungo il corridoio, incomprensibilmente non si è mai girato ed io aspettavo un saluto che non arrivava, poi con voce forte per essere sicuro di essere sentito: - ci ve¬diamo sull’autobus Ivan.-Ci vediamo sull’autobus-? Ho ripetuto tra me. Io tento di guardarmi stupito, ma sono da solo

-Ma che diavolo vuol dire?- Penso. Continuavo a scrutare il punto nel quale era sparito cercando di dare un significato a quella frase anche se di senso sembrava averne poco. Mi sono girato su un fianco, turbato da una sensazione che non riesco a capire ancora adesso. Avvertivo un impellente desiderio di piangere e di ridere ma non sapevo perché, mi sentivo sulla cima di qualcosa di precario, qualcosa di poco solido, in pericolo ma con un’occasione tra le mani, una possibilità, una scoperta. Avevo la sensazione che stesse iniziando qualcosa che avrebbe cam¬biato la mia vita per sempre, mi sembrava di essere un pittore davanti alla sua tela nel momento della prima pennellata, avrei voluto gridare eureka ma non c’era nessuna scoperta all’orizzonte. Mi sentivo un bambino con la sua cassetta dei segreti, nascosto sotto il letto a tirare fuori cose che per lui cambieranno il mondo e le persone, cose segrete delle quali solo lui ne conosce l’esistenza e forse è davvero così. Metà della mia bocca rideva, l’altra metà ghignava tristemente, cosa sarebbe successo adesso? Fui preso improvvisamente dallo sconforto. Ora tutto era da ricostruire, un’altra volta. Avevo perso la casa, la compagna, alcuni amici, la patente e la fiducia nella possibilità di cambiamento. Con questi pensieri, in un silenzio tutto mio ho chiuso i sensi. La notte è stata un tempo indefinito di pensieri sospesi e sogni tagliuzzati e ricomposti, tra un rita¬glio e l’altro continuava a comparire un’immagine strana: una croce di legno tutta intarsiata, pian¬tata davanti ad una fermata dell’autobus, una fermata di qualche posto in qualche momento, una strada con i margini polverosi, senza case, con l’asfalto ribollente di caldo con quell’alone sfuocato di quando l’asfalto ribolle di caldo nelle lunghe strade polverose, ai lati e senza case. Da lontano, sfuocato e rumoroso arriva un autobus, l’autista apre le porte e così posso vedere la sua faccia e con stupore noto che è la faccia del mio cane meggy e il corpo del Brucaliffo che con quel suo muso appuntito e la voce di Amanda Lear mi dice:“ti sei dimenticato questa coglione”e così dicendo mi porge una zappa, poi prosegue dicendo: “cerca di usarla bene questa volta, ciao pirla”. Meggy chiude le porte e si allontanava con il suo autobus ma mentre si allontana, si porta via tutta la pol¬vere ed il caldo, lasciando un gelo tagliente.

Ospedale, tre giorni dopo. Mattina. Il monile.

La mattina mi sono svegliato con il freddo che mi sbriciolava le ossa e Zio pesce non c’era più. Non ho chiesto niente a nessuno perché le facce di tutti parlavano molto chiaro ed io le leggevo al¬trettanto chiaramente, speriamo che non abbia sentito niente, povero zio pesce. Io ho un’idea abbastanza precisa sulla morte. Non voglio morire! Mentre mi dilettavo in allegre riflessioni di morte e negazione per incominciare la mattinata con il vento in poppa ho sentito scodinzolare pazzamente la mia coda dell’occhio, improvvisamente la testa ha seguito il mio sguardo che si è lanciato, senza farsi troppo male sul comodino del fu zio pesce strisciando fino all’oggetto che, solo e solitario, abbelliva l’improbabile comodino di radica azzurra. In bella vista il monile giaceva su quel piano orizzontale liscio e, confesso, per un momento ho pensato che portasse proprio sfortuna. La tentazione era davvero tanta. Improvvisamente nella mente si affaccia un’idea stupida e insensata che come tutte le idee stupide e insensate, ad un certo punto della vita, appaiono improvvisamente come una splendida e meravigliosa idea. In quel momento rubare la collana mi sembrava la migliore delle cose da fare, quel monile mi stava completamente strappando la sensatezza e i freni rotti mi proiettavano inevitabilmente verso un atto terribile: rubare un oggetto a un morto. Lo chiamano sciacallaggio. Ma la mia mente era sconvolta dalla brama di possedere quell’oggetto misterioso certamente fatto a mano, anche se i bordi erano intarsiati in maniera così precisa da farla sembrare una di quelle collane industriali fatte in serie, quei tagli erano così piccoli e minuziosi che veniva naturale accostarli a delle minuscole mani laboriose, poca luce una lampada accesa su di un tavolo da lavoro rustico in legnaccio resistente, durante una sera di inverno con un vento dell’accidenti che risuona nelle orecchie producendo rumori rari, da non crederci, ma solo da

sperarci che finiscano e non inizi a piovere mentre la collana prende vita sotto lo sguardo attento di un uomo attento che si incurva nella precisione di un gesto che vuol dire di più di quello che sembra. Solo un taglio ma è di più di quello che sembra, solo un attimo che è di più di quello che sembra, solo un regalo per una vita da regalare ad un amico che conta e riconta le volte che ha avuto bisogno di te senza limone perché sta nel tempo di infusione la distanza tra la bontà e la mediocrità, nonché la reale possibilità di chiamare un assurdo infuso di acqua calda té o me, ne frego se non ha cominciato a piovere e io sono rimasto da solo ad intarsiare questi lacci che saranno collana per la vita finché morte non ci separi. Amen. Senza pensare a nulla mi allungo come un serpente, mi corico quasi sopra il mio comodino e afferro la collana. Con la collana in mano il cuore mi salta in gola, mi guardo attorno per verificare di non essere stato visto da nessuno, poi di colpo infilo la collana nel cassetto del comodino, dopo un istante penso che sia un posto stupido.- Se la dimenticassi? E allora la riprendo. Vago con la collana e i lacci che colano dal mio palmo. Arrivo davanti al letto e ho un monile rubato in mano di un nano barbuto che sembrava un pesce e che è morto questa notte. Follia. - Dove lo metto? - La giacca, Nella giacca! Mi proietto verso lo stipetto. Ci sbatto contro. Lo apro. Vedo la giacca.

Apro la cerniera della tasca interna. Infilo la collana. Chiudo lo sportello. INFERMIERA - Ma cosa sta facendo-? - Io? - Sì lei, cosa fa dentro lo stipetto? - Niente. - Come niente. - Niente. - Vada a letto vada. - Sì Sì grazie vado, grazie.

SOLLIEVO.

Seduto sul letto, vestito in abiti borghesi, aspetto la lettera di dimissioni dei medici che puntualmente sembra essere una delle prassi più complicate della storia della medicina moderna, quasi un difficilissimo rito che richiede minuziose pratiche, in realtà sembra che lo facciano per dispetto.

13 FEBBRAIO 2009. Ore otto. Sull’autobus.

Lui non mi ha ancora visto, o forse sì. È seduto in uno di quei posti dove i piedi sono messi in serio pericolo dalle decine di paia di scarpe che attendono scalpitanti la propria fermata muovendosi di continuo. I sui di piedi però non rischiano di essere calpestati, infatti, le sue gambette sono comodamente adagiate sul sedile come se fosse sdraiato sul divano davanti alla televisione, a guardarlo bene sembra un piccolo e barbuto gufetto. Lo sguardo dritto e pungente punta la giacca pesante di un uomo assonnato, la attraversa e sfiora lo spazio intercostale di una donna niente male per spiaccicarsi contro la lamiera vecchia e sporca che si squarcia in un istante per liberare la vista sulla strada bagnata bagnatissima della città neanche troppo sveglia. Schiva un frastuono d’acqua e ombrelli si perde nelle strade a vagare in cerca di aiuto, la sera, stancamente, ritorna nel suo giardino, là dov’è cominciato il mondo ed è finita un’altra vita. Il nano muove le mani come se sgranasse un rosario che non c’è, non ha nessuna strana inclinazione della testa o delle spalle, non muove i piedi solo quelle mani paffute e bianche, batte lentamente le palpebre come se tenesse il tempo d’una qualche melodia in sincronia con il respiro che ti fa immaginare due piccoli polmoncini che si gonfiano e si sgonfiano, si gonfiano e si sgonfiano. La gente getta su di lui sguardi divertiti stupiti curiosi maligni teneri simpatici ironici sarcastici pubblici e privati nei commenti fatti dentro o fuori dai denti. Lui lo sa e li tiene tutti lì come piccoli gattini che fanno le fusa, li addomestica, li nutre e li restituisce ai proprietari con il pelo più lucido e più docili. Lui conosce gli sguardi. Il suo è uno - Sguardo da caccia. Dice sempre scherzando, il mio invece dice che è uno sguardo piccolo ma non mi ha mai detto perché. Dice: - Saprai perché è piccolo quando non lo sarà più.Zitrrunas, così ha detto di chiamarsi, m’ignorava. Continuava a rimanere immobile con lo sguardo fisso sulla città che da lì non si vedeva, ero quasi sicuro che mi avesse visto già da molto ma che fe finta di nulla, l’aveva già fatto

altre volte, lui aveva sempre una qualche sua particolare ragione per fare le cose, quasi sempre diversa dalla mia. Ricordo che all’inizio, nei nostri primi incontri, non mi era parso molto intelligente, forse anche per via di quel suo modo terribile di scherzare e di ridere fino a diventare viola. Un giorno ci siamo incontrati verso sera, era molto freddo e l’autobus era quasi vuoto, io sono entrato dalla porta posteriore e subito me lo sono trovato davanti, era sdraiato sui sedili con gli occhi sgranati, sembrava che non respirasse, osservavo il petto ma non vedevo movimenti, allora mi sono avvicinato allarmato, ho provato a scuoterlo ma niente, ho pensato che fosse morto allora l’ho preso per le spalle e ho cominciato a chiamarlo: Zitrrunas Zitrrunas, dimmi qualcosa, ti prego; ho visto che il suo corpicino faceva dei piccoli movimenti, ho creduto fossero gli ultimi sussulti di un corpo che veniva abbandonato dalla vita, invece stava ridendo il piccolo bastardo, stava ridendo come è difficile immaginare che un uomo possa fare. Teneva la pancia con quelle sue piccole e bitorzolute manine e piangeva dal ridere, ogni tanto si fermava, mi guardava con gli occhi sgranati e faceva: “Buu” e si rimetteva a ridere. In quel momento ho pensato davvero che fosse completamente pazzo. Però quando non scherzava era di una serietà disarmante, ti sembrava di sprofondare dentro un morbido materasso in lattice, di immergerti nel fresco del tuo inconscio dove, solitamente, non c’è molto da ridere. La sequenza delle sue parole spesso snocciolava concetti che avrebbero fatto rabbrividire chiunque, erano quasi prive di censura, pungenti, cattive a volte, ma comprensive, reali, sentite, esistevano davvero non si disgregavano a contatto con l’aria, rimanevano solide e sempre avevano il senso della dignità di esserci anche solo per il fatto di averle pensate. Lui diceva che sfuggiva alla logica della razionalità perché era molto più vecchio della razionalità, in effetti, era la persona più vicino ai sentimenti di qualsiasi altra persona avessi incontrato prima d’ora e si sa che le persone anziane amano di più. Certe volte lo guardavo con quella barba lunga e grigia mentre rideva come un bambino e immediatamente la sua immagine mi appariva davvero come un bambino, come se fosse possibile ritornare ad esserlo ogni volta che si vuole.

Entrare in contatto con lui era come fare dei grandi e incomprensibili sogni pieni di significati, simboli, modi di dire, interpretazioni, sentimenti, era come arrivare a sfiorare altre parti di se stessi e le paure e i sentimenti, non era quasi mai un’esperienza né completamente bella né completamente brutta era semplicemente vera. Adesso si trovava lì davanti a me dopo tanto tempo e faceva finta di non vedermi, il tabellone luminoso minaccia possibili forti raffiche di vento allertando soprattutto le persone molto leggere, i telonati ed i surfisti ritardatari. Questa mattina poi è già troppo bagnata, non c’è proprio bisogno di vento che conficchi le gocce gelide nella mente. Zitrrunas è immobile ma l’autobus no. Il grande veicolo arancione si muove ondeggiando come un grasso ippopotamo mentre affronta la curva di Via Montaldo in direzione Piazza Manin e se qualcuno, mettiamo una ragazza che attraversa la strada velocemente perché sta per scattare rosso, presa dai suoi pensieri sull’amore e sullo studio ci vedesse da fuori, certamente non sarebbe dentro, anche se forse lo vorrebbe e vedrebbe un nano seduto sul sedile che guarda fuori nonostante tra lui e il fuori ci siano diverse persone, una lamiera alta un metro e venti, cioè quanto lui, e vetri appannati carichi di gocce appese, vedrebbe anche una persona di trentatré anni con un aspetto trasandato anche nell’anima ma soprattutto nella barba mai più fatta, che osserva da due metri di distanza un nano seduto sul sedile che guarda fuori nonostante tra lui e fuori ci siano persone di lamiera e vetro, fragili quanto lo stupore che esprimerebbe la ragazza guardando questa scena da fuori mentre attraversa con o svelto per via dell’imminente rosso. La ragazza descriverebbe questa scena nella sua mente giustificandolo con un improvviso potere di vedere attraverso le lamiere, pur rimanendo molto confusa per tutta la giornata e determinata a risalire all’evento che le avrebbe fornito questa possibilità quasi divina. Arriverà all’università in ritardo per l’esame metodologia della ricerca sociale e darà la colpa ad un nano che le ha attraversato troppo velocemente la mente mettendo in serio pericolo le sue certezze fasulle e mal costruite sulla conoscenza del mondo, infine si chiederà una cosa che non si era mai chiesta prima e cioè se sia possibile o no laurearsi mantenendo una mentalità priva di pregiudizi nei confronti di chi la laurea non ce l’ha. Farà questo ragionamento pensando seriamente che forse avrebbe potuto salire su quell’autobus e parlare con quel nano o forse anche con quella persona trasandata, se solo non fosse stata di fretta avrebbe potuto guardare anche lei nella direzione del nano e forse avrebbe capito chi era la persona trasandata, e come si fa ad amare l’ultimo istante di un’emozione senza

trasformarla già in qualcosa che non ci sarà più e così uccidendola prima della sua naturale morte. Mentre lo sguardo di quella ragazza andrà via di fretta per via del rosso e girerà gli angoli di palazzi arrivando all’università come sempre prima della ragazza, il nano si girerà verso di lei e lei sentirà caldo, poi si girerà verso di me e io sentirò caldo.

Le porte dell’autobus numero 34 si aprono, Zitrrunas scende, mi guarda, si stringe le spalle dentro il cappotto, sospira e mi dice: - Ora ho da fare la lavatrice ometto, ci vediamo domani e non tardare. -Ciao strano uomo. - Poi sorridendo: Fatti la barba, fai schifo-. Riesco a sentirlo ridere ancora adesso.

La ragazza, dal canto suo, avvertirà una voglia fortissima di chiedersi cosa vuole davvero ma poi deciderà che se lo farà chiedere da un uomo o più facilmente e semplicemente da un negoziante che per sua natura, spesso, dice frasi del genere senza rendersi conto, come spesso accade, della profondità e della difficoltà di quella domanda se fatta a una ragazza universitaria che se lo domanda dall’età di dodici anni. In maniera del tutto indiscreta i pensieri della ragazza cercheranno insistentemente il ragazzo trasandato nell’anima per capire dove diavolo ha preso quella sciarpa di tanti colori messi a caso dentro la lana e per sapere se un buon caffè caldo, a volte può risolvere un problema appena nato. Le mani della ragazza cercheranno affannosamente dentro la borsa un fazzoletto nuovo e troveranno anche la foto di “buia” la sua cagnetta con la coda mozzata e dalla forma leggermente squadrata che ormai il tempo le aveva strappato da una manciata di giorni. La ragazza ripenserà a quando guardando Buia aveva visto la morte che le velava gli occhi mentre il veleno faceva effetto, osservando impotente il suo amato animale che la abbandonava. La ragazza pensa che la morte di Buia sia una delle cose più dolorose che le siano mai successe e forse è così, poi à il fazzoletto per arginare due lacrime che stanno scendendo contemporaneamente e silenziosamente dai due occhi semichiusi, tirerà su con il

naso e penserà al pomeriggio. Alle quattro e trenta entrerà nello studio del Dott. Prigionieri per la sua ultima seduta di analisi per uscirne cinquanta minuti dopo con un altro vento tra le ciglia. Adesso non piove, ma non si può mai dire.

Io invece rimango così, avvertendo una vaga sensazione di essere stato lasciato sull’autobus numero 34 da un nano che doveva correre a casa per fare una lavatrice, ma forse è solo una sensazione. Intanto ricordo distrattamente ma non troppo una ragazza che stava per essere investita proprio da quest’autobus e che insistentemente continuava a trafiggere le lamiere con uno sguardo indagatore, come se avesse visto davvero qualcosa che meritava di essere guardato. Il ricordo mi porta oltre, e sento di avere già visto quello sguardo e la donna che lo coccola tra le palpebre nelle notti lunghe, e nelle frazioni di secondo tra una sbirciata e l’altra. Quasi sicuro di averla già vista, mi arrovello per determinare se quella sensazione sia un dejavue oppure un ricordo privo di etichetta nell’immenso archivio della mia mente. Il ricordo della ragazza poco a poco sbiadisce lasciando una flebile sensazione di arrivederci. La pioggia intanto bussa ai finestrini e nessuno apre, altrimenti la pioggia entra e spesso non è ospite gradito. L’autobus oltrea un altro incrocio come tanti per arrivare alla sua destinazione, riposarsi un momento e controvoglia ripartire. Vado in stazione con l’autobus 34 questa mattina, come tante altre mattine, per prendere un treno, certamente non uno qualsiasi ma uno che mi porterà dove devo andare e cioè a Recco. Il paesino ligure famoso per la focaccia al formaggio. A Recco e in tanti altri luoghi lavoro con i bambini disabili nelle scuole come educatore. La bambina di Recco si chiama Giada e probabilmente mi odia. Giada non parla, non indica gli oggetti e non so quanto capisca. Ha sette anni, gli apparecchi acustici, una bellissima madre inglese che insegna se e che mi mette tremendamente in imbarazzo e un padre anestesista. I due amano profondamente la bambina.

Forse. La bambina è viziatissima e manesca. Io devo cercare di farla comunicare con dei simboli. Lei non ne vuole sapere. Per ora i risultati sono stati davvero scarsi. A volte la guardo e vedo un’ossessione. Magari lei vive perfettamente in sintonia con se stessa ed io sono solo un disturbo. Sono scoraggiato. STAZIONE SCUOLA CALCI, PIANTI, GRAFFI. Riprendo il treno, sono le due di pomeriggio e la pioggia non cessa, non diminuisce e non aumenta. Alle quattro e trenta entrerò nello studio della Dottoressa Acerbi per la mia ultima seduta di analisi per uscirne cinquanta minuti dopo con un altro vento tra le ciglia.

Tu tun tu tun, tu tun tu tun, tu tun tu tun. Il rumore del treno culla i pensieri e le gocce compongono il viso di giada. penso che ancora qualche ora e sarò da megghy, Tu tun tu tun tu tun tu tun tu tun tu tun tu tun Aspetto che il torpore mi scongeli e riprendo a pensare al nano, chissà se sta facendo la lavatrice. Con un nano nel cuore mi addormento con la sensazione che domani mi parlerà di lei, o forse già oggi. Sono le due e ho tutto il tempo per sognare.

14 SETTEMBRE 2007. Ore undici. Dimesso dall’ospedale. Basta camici.

Aria. Fresca. Odori parzialmente nuovi, altri dimenticati, alcuni mai più sentiti, certi sconosciuti. Un timido e sincopato raggio di sole m’illumina una porzione di faccia rendendomi cieco da un occhio. Respiro a pieni polmoni come se fossi alla finestra davanti al monte Rosa, scordandomi di essere in Corso Europa nel bel mezzo della parte di città più caotica e inquinata di Genova, nonostante tutto sono così felice che anche vedere le macchine, gli scooter, gli autobus e i grossi camion diesel mi da un certo sollievo. Sarà, ma ogni sgasata mi ricorda che finalmente non sono più dentro ad una camera di ospedale, anche se potrei tornarci per questioni legate al monossido di carbonio ¬+ condensato di sigaretta + polvere sottili + sostanze x che nessuno conosce ma che forse respiriamo. Per non pensare ulteriormente a questioni di salute mi accendo una sigaretta guastandomi definitivamente l’alito. Fumo dall’età di quindici anni senza avere mai smesso una volta e avere mai tentato di farlo e fumo tanto da poter dire di essere un fumatore accanito. Purtroppo convivo con la presuntuosa certezza che sarei perfettamente in grado di riuscire a smettere. Le prime due tirate mi fanno sussultare i polmoni e mi salgono in testa come una martellata per ricordarmi che non ho ancora mangiato nulla e che molto probabilmente, finita la sigaretta, avvertirò quella sensazione fastidiosissima allo stomaco, una specie di languore, un movimento di succhi gastrici vorticosi e rumorosi. Una volta mangiato e consumato un’altra sigaretta invece, avvertirò un altro disturbo, più basso, più come dire di esigenza evacuativa, di svuotamento immediato: succo di frutta + caffè + sigaretta = effetto dieci erbe. Vado a mangiare, entro nel bar Europa. In ogni città ci sono sempre un bar Europa, un hotel Europa, una farmacia Europa, un tabacchino Europa. Questo Bar Europa è un grosso locale con un bancone di legno massiccio infinito e rifinito in ottone, tavolini di vetro con rifiniture in marmo nero, vetrinette per le brioches anch’esse rifinite in ottone come il bancone, vetrinette per la pasticceria, vetrinette per tramezzini e panini, vetrinette per torte salate,

pizzette, salatini e infine vetrinette per la focaccia normale, con la cipolla, con la salvia e con le olive. Insomma vetrinette ovunque e tre tavolini. I baristi sembrano tutti stanchi, sono pallidi pettinatissimi e con un grande papillon al collo di una bianchissima camicia con sopra un gilet nero. Non amo questi posti, mi mettono in soggezione, non so mai se devo fare lo scontrino alla cassa prima di consumare o se posso iniziare a mangiare un pezzo di focaccia e ordinare un cappuccio bollente con tanto cacao e pagare dopo, sembra sempre di scocciare e l’eccessiva gentilezza odora da lontano di costrizione. Comunque prendo proprio un cappuccino molto caldo con tanta schiuma, una striscia di focaccia ben cotta lato bordo e un bicchiere d’acqua minerale gasata, tutto senza andare alla cassa e nessuno mi rimprovera. Evito il succo di frutta, per scongiurare l’effetto deflagrante dell’addizione letale di latte caffè e succo. Il cappuccino si lascia bere mentre la focaccia fa resistenza. È dura. Mentre cerco di avere la meglio su di lei la mia coda dell’occhio, ormai esperta, punta un particolare curioso, giro leggermente la testa e vedo una manina con l’indice teso nel tentativo di attirare l’attenzione del barista, penso che si tratti di un bambino ma la manina è paffuta e callosa e un bambino con delle mani paffute e callose come quelle farebbe proprio schifo. La curiosità mi assale, una sensazione strana mi stringe le palle ma piano, dando solamente una sensazione di pericolo e no di dolore, giro ancora la testa di qualche grado e vedo spuntare tra una persona e l’altra una folta barba bianca. Un dubbio terribile mi attanaglia mentre nella mente mi si stampa improvvisamente un’immagine che ormai avevo rimosso: La collana del nano! Porca puttana è tornato per la collana! Avevo dimenticato. Non mi ricordavo. Merda! Ho quasi finito il cappuccino, posso andarmene velocemente senza che mi veda forse ma per andare alla cassa dovrei are davanti a lui ma sarà poi proprio lui? Io mi faccio prendere dal panico ma ho notato solo un po’ di barba e una schifosissima mano paffuta e callosa, ma chi mi dice che sia lui, ci saranno dei

nani in questa città, non molti a dire il vero ma qualcuno sì. Comunque prima devo assolutamente accertarmi che sia lui e poi magari non è qui semplicemente per un caffè, magari semplicemente lavora qui vicino oppure deve soltanto fare degli esami del sangue, anche i nani fanno esami del sangue. Poi come avrebbe fatto a sapere che mi sarei trovato qui, quando nemmeno io lo sospettavo fino a pochi minuti fa. Patrizia l’infermiera? Se fosse un alieno che ha preso il controllo della mia mente? Stupido che sono, certamente se è lui sarà venuto per fare qualche commissione, ma di sicuro non per la collana, o magari è appena stato in ospedale dove ha portato la copia della denuncia per furto contro ignoti depositata in procura dove per una conoscenza con il magistrato, una cugina del nano che lavora in cancelleria, ha avviato, con una rapidità sorprendente difficilmente ravvisabile in questi casi, la macchina della giustizia, che, con i da gigante, ha già valutato diverse ipotesi arrivando a considerare tre possibilità ancora da accertare: 1 il ladro è l’infermiera Patrizia 2 il ladro è l’omino che taglia i capelli ai morti. 3 il ladro è il paziente del letto quattro, quello vicino al nano morto. Tutti gli indizi portano inequivocabilmente a lui e una volta interrogati i testimoni non ci saranno dubbi, il ladro di collane di nani morti è lui, il paziente del letto quattro. Due poliziotti in alta uniforme andranno a casa sua con una stregua di paparazzi pronti a immortalare il mostro, il senza cuore, colui che ha rubato ad un nano morto, conosciuto nella comunità sacra della “cintura divina” come il discendente diretto dell’ultimo apostolo, una importantissima collana risalente al primo secolo prima di Cristo, dentro la quale si trova nascosto dal tempo dei tempi, il segreto del santo Graal. Vista l’efferatezza del crimine e i suoi risvolti religiosi, nonché la pericolosità dell’autore del reato, verrà deciso di rinchiudere l’uomo senza cuore, la bestia, nelle prigioni vaticane dove nessuno negli ultimi quattrocento anni era mai stato rinchiuso. Non sarà nutrito se non con cibi impuri e sarà abbeverato con l’acqua del

maledetto pozzo del “traditore”. La chiave delle sicure sarà spaccata in due con l’antica spada dell’ultimo cavaliere templare come vuole la tradizione per i ladri di informazioni vitali per la comunità religiosa mondiale, così da sancire il perenne isolamento dall’umanità del paziente del letto numero quattro. La fantasiosa teoria suonava bizzarra ma il panico scava buche profonde e l’idea che il nano sia qui per la collana mi spezza il fiato. Il pensiero della fuga sembra la migliore delle soluzioni, non la più eroica ma certamente neanche la più stupida. Ecco è il momento, la confusione nel bar è all’apice, scatto verso la cassa come un gatto inseguito da una muta di cani da caccia, scarto un vecchietto con bastone, un medico con il camice che dovrebbe lasciare in ospedale quando NON è in ospedale e un bambino che sembra senza fissa dimora. Dribblo un cucciolo di labrador e mi spingo sulla fascia saltando con facilità il cameriere che porta sul vassoio tre brioches, due cappucci, un succo all’albicocca e un bicchiere d’acqua gasata con una fetta di limone, scatto in profondità verso l’area, la cassa è ad un o, sento il profumo dolciastro della baffuta cassiera e - Ciao Ivan. – Guardo in basso, lentamente, sperando di sentire le voci in preda ad un attacco psicotico acuto ma, lui è lì e guarda in alto, rimango qualche istante a fissarlo incredulo, sembra un grande nano da giardino, di quelli che metti nei prati, vicino alle piante, che poi non ho mai capito se sono gli stessi di Biancaneve o no, comunque lui è vestito proprio in quel modo e porta anche un grande cappello rosso che penzola di lato. È ridicolo, mi verrebbe voglia di ridere e forse un risolino mi scappa. Improvvisamente mi sembra di essere stato catapultato dentro una favola. Lui mi guarda fisso, molto serio, aspettando evidentemente una risposta al mio saluto che, timidamente, dopo un poco finalmente arriva: - Oh Buon giorno, signor? - Zitrrunas, Preglovic Zitrrunas, ma puoi chiamarmi solo Zitrrunas e senza ”signore” per favore, mi fa sembrare più vecchio di quello che sono. - Come stai Ivan? Sei uscito finalmente eh? Senti avrei bisogno di un favore, ho appena fatto colazione ma mi sono accorto di non avere soldi con me, potresti provvedere tu? Ovviamente sarai risarcito. Avremo diverse occasioni per incontrarci sai? In

fondo c’è qualcosa che ci lega, non trovi?- mi fa l’occhiolino e sgambetta verso l’uscita senza che io possa dire nulla. Io rimango così, come se il personaggio di un sogno si fosse materializzato davanti ame e nello stesso tempo fosse scomparso. Vado alla cassa. Guardo la cassiera, sospiro e dico - Cappuccio focaccia acqua e quello che ha preso il nano. La cassiera ripete: - Allora, ok, cappuccio focaccia acqua e sette caffè sono nove euro e venti. Esco finalmente dal pessimo bar Europa, il pubblico è in piedi e applaude per la discesa sulla fascia che, anche se non ha prodotto il risultato previsto, ha certamente dato segno di una forma fisica in netto miglioramento, facendo ben sperare per il campionato che è alle porte. Esco e annuso ancora l’aria e ancora mi accendo una sigaretta e mi rendo conto di essere turbato per: i nove euro e venti centesimi di colazione ma, ancora di più, per i sette caffè del nano, le parole del nano, il nano, ma soprattutto per la sensazione di fiume in piena che mi sta assalendo da dentro come una mano che mi strizza l’intestino. Spezzo la sigaretta a metà per riaccenderla più tardi e rientro rapidamente nel bar Europa per lasciare un segno nella storia a giudicare dalle fitte lancinanti. Porta a vetri, i svelti, porta, toilette, il paradiso terrestre. Sciacquone, acqua e sapone, porta, bar, i distesi, porta a vetri, strada. Esco nuovamente e che questa sia la volta buona, mi accendo la mezza sigaretta rimasta e mi dirigo verso il mio personale mezzo di trasporto, cioè diciamo una multiproprietà con il Comune di Genova e con tutta l’utenza che lo utilizza, ma pur sempre anche mio. Il sole tiepido di nostalgia mi ricorda che è appena iniziato l’autunno e l’aria è già cambiata, mi sorge il dubbio sulla data di oggi ma poi mi convinco che non importa, in realtà mentre rifletto sul giorno, il pensiero del nano mi invade improvvisamente, mi fermo e immediatamente mi rendo conto di avere ancora in tasca la collana, vorrei per guardarla tirarla fuori ma ho paura che quel nano possa spuntare fuori da qualsiasi buco, è così piccolo. Mi sento un po’ perseguitato e guardo in ogni direzione, è che il mio sguardo è troppo alto, poi mi viene in mente il mio giardino, dove due nani di ceramica dimorano tranquillamente vicino ad un profumato biancospino, mi assale un dubbio stupido.

Mentre m dirigo verso la fermata dell’autobus, il pensiero del giardino continua ad assillarmi la mente. Poi mi torna in mente la frase pronunciata dal nano in ospedale. - Ciao Ivan, ci vediamo sul trentaquattro.- Dev’essere pazzo, sentenziai. Un po’ confuso ripenso a quelle sere, quando ritorno da dove sono andato, penso che il trentaquattro è l’ultimo mezzo che prendo per tornare a casa, la sera, dopo il bar, dopo le mie birre medie e la compagnia, dopo le mie sigarette e lo stordimento della fine della giornata, penso: è l’autobus che mi fa pensare, con quella poca gente che ha quegli sguardi di persona che pensa alla stanchezza, ai propri guai, che riflette abbandonata sul sedile considerandoti un compagno di viaggio. Immagino che forse mi avrà visto pensare, lì sull’autobus numero trentaquattro e avrà visto che ero triste e che tentavo di immaginarmi in un altro posto, avrà sentito che avevo il fiato di chi ha bevuto e fumato troppo e, forse, avrà parlato con la moglie la sera, raccontando di quella persona triste che tutte le sere incontra sull’autobus; ma io quel nano non l’ho mai visto. Come può essermi sfuggito un nano da giardino alto un metro e dieci con la barba bianca e uno zaino da campo due sul monte bianco, no non era possibile. L’unica possibilità è che fossi sempre troppo ubriaco, ma forse al limite ne avrei visti due invece che uno solo. Mentre mi arrovellavo, a il numero diciotto, a nel senso che non si ferma. Fanculo. M’incammino contando i i e, rimanendo aderente ai miei pensieri, mi interrogo ma non rispondo, mi do quattro e mi mando a posto pensando che non è possibile che ogni volta cerchi una giustificazione per non rispondermi. Dopo essermi rimproverato, mi rifaccio alcune domande e sento farsi vicina una sensazione strana, mi rispondo che forse quel nano non è un nano e forse lo conosco;, non saprei dire perché questo pensiero mi ricopre la mente ma sicuramente me la fascia bene perché non vada a male, così la metto in frigo per poterla ripensare domani. Una volta sistemata l’idea in frigo, posso permettermi di non pensare a nulla o perlomeno di pensare che posso permettermi di non pensare a nulla

Il diciotto non a, nel senso che questa volta si ferma e io salgo, non ho il biglietto e prendo la multa, perché quando non compro il biglietto io, i controllori salgono a sciami. Ringrazio, scendo, salgo sul dodici, riscendo, salgo al capolinea di quello che viene chiamato trasporto alternativo che consiste in un furgone con dei sedili e un autista con la voglia di lavorare di una persona che ha appena finito il suo turno di quarantotto ore al martello pneumatico schiaccia pietre nelle miniere di Carbonia, neanche avesse per le mani un volante sporco di merda. Io e il mio incazzato autista iniziamo a inerpicarci su per la sinuosa salita di Sant’Antonino. Il Pulmino arriva direttamente sulla piazza, da lì non è più possibile continuare con un mezzo che sia anche di poco più grande di un’ape. Un grande cancello permette l’accesso ad un cortile comune ai quattro appartamenti indipendenti della palazzina, io e Mauro abitiamo nei due appartamenti al piano di sotto, Glauco e la Monica nei due al piano di sopra; ognuno ha la propria entrata ed io anche la fortuna di avere un orto, e un piccolo cortile recintato in comune con Mauro, un uomo con l’ansia della pulizia e dell’ordine, la fobia dei cani e svariate manie di persecuzione, una pacchia. che Per scrupolo vado subito a vedere i miei due nani da giardino, che stupido. Continuando a spiare i miei nani tiro fuori le chiavi e mi avvicino alla porta di casa dov’è attaccata un’immagine di border collie con scritto “io sono di guardia qui”. Infilo la chiave, due giri di chiave e il rumore della serratura desta immediatamente i rapidissimi collegamenti neuronali di Meggie che immagino si stia preparando all’assalto. Apro la porta. Un fulmine bianco e nero mi a vicino producendo vorticosi mulinelli nell’aria, arriva in fondo al cortile con l’accelerazione di un mig, dirigendosi pericolosamente verso il cancello dell’orto, io non guardo. Con una sterzata repentina contrasta l’accelerazione e piantando le unghie nel terreno produce un effetto sgommata che la indirizza verso di me con la velocità di un proiettile, io mi riparo come posso, mi giro dandole le spalle come dice la sua educatrice Carlotta e prego che si fermi.

Non si ferma. Da due metri di distanza carica sulle potenti zampe e balza nella mia direzione, il salto è corto, le zampe sono tese verso di me nel tentativo di festeggiare il mio ritorno e quello che sento è doloroso, otto affilatissime unghie mi si piantano silenziose nella schiena producendo, fisicamente un dolore acuto e devastante e, esteticamente, un effetto zebra rossa e bianca. Amo il mio cane ma in questo momento lo ucciderei. Cerco di accarezzarla ma sembra invasa dalla peggiore tribù di demoni mai vista, salta come un grillo, corre, piange, abbaia, si abbassa, rotola, sembra che voglia fare vedere tutto il repertorio che conosce, come se fosse un esame di educazione fisica, alla fine dopo cinque minuti di fiammate si allontana e si mette a rosicchiare un bastoncino. Entro in casa ed è tutto come prima che andassi via, ovviamente. Qui dentro ci entro solo io, mio padre e raramente qualche amico ma tendenzialmente la mia vita è un po’ schiva e ritirata. È una fase della mia vita, sta bene così. Comunque, non si può certo dire che non stia facendo un grande lavoro per rimettere a posto il mio discreto caos mentale, ma quello è cosa vecchia. Accidenti è tardi, devo scappare. Si fa per dire.

13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici e venti. La ragazza universitaria in Via Cambiaso 5 scala A. Il distacco.

La ragazza universitaria non sapeva quello che sarebbe successo e comunque non aveva la minima intenzione di scoprirlo, anche se presto sarebbe stato così. In questo momento si trovava certamente in una situazione difficile da capire per chi non ha intenzione di capire o per chi certe esperienze non le ha mai vissute. Nel suo cuore si agitavano tante di quelle possibilità che nella sua mente si prospettavano scenari e scene che sarebbero difficilmente descrivibili pur avendo a disposizione molto tempo, tanta voglia, e diverse pagine bianche. Adesso il libro che si stava scrivendo quasi autonomamente, anche se prima d’ora, tutto era stato programmato con grande precisione, professionalità e con accurati accorgimenti. Nulla al caso perché la posta in gioco, se di gioco si può parlare, e certamente non si può, era alta come alta era la precisione con la quale la ragazza ricostruiva i momenti ati insieme, l’incontro, le vicende, i pianti, i sacrifici. Ora, la tensione si definiva più come paura che come ansia, ma ne avevano parlato tanto, ma tanto la paura rimane. I movimenti che precedevano l’incontro erano sempre gli stessi e ostinatamente in orario se non in ritardo e qualche volta in anticipo anche rispetto alla volontà che spesso soggiace ai voleri di parti abbastanza nascoste, a volte scomode, spesso incomprensibili, raramente accettabili, quotidianamente presenti. Ogni volta, si avvicinavano alcune delle sensazioni inavvicinabili o non avvicinate, ogni volta veramente no, ma a volte certamente sì. Spesso accadeva che la ragazza non lo vedesse per giorni e a volte per settimane. Tutto era sempre accuratamente programmato, discusso, valutato ma anche sentito, vissuto. I sentimenti d’impotenza, rabbia, amore, gelosia, tristezza, solitudine, cattiveria, paura, dolore circolavano non troppo liberamente tra loro e dentro di loro oltre che fuori e molto spesso nei sogni. La ragazza da poco si era resa conto che chi aveva davanti aveva dei sentimenti e che ci metteva se stesso nel rapporto, come un uomo, come un essere umano, come una persona; caratteristiche peraltro che gli appartenevano di diritto, anche se la ragazza aveva tentato, in ato, di considerarlo diversamente, più come un semplice aiuto che come parte vera e propria di un rapporto. Questa volta era diverso, questa era l’ultima. La ragazza universitaria non sapeva

cosa avrebbe detto e cosa avrebbe detto lui, non sapeva cosa avrebbe fatto e cosa avrebbe fatto lui. A farci bene caso è difficile prevedere le parole di qualcuno ma, lui non era qualcuno ma questo non cambiava l’imprevedibilità dell’incontro che poi in realtà si tratta di uno degli ingredienti principali dei rapporti umani. Certo è che se noi potessimo prevedere le azioni o le parole di una persona, non vivremmo la spontaneità e neppure la bellezza dell’interazione ma semplicemente un dialogo narcisistico con noi stessi. Per non addentrarci, restiamo a galla tra l’ora esatta e il momento preciso in cui la ragazza universitaria suonerà al camlo, nutrendo il forte dubbio di avere sbagliato ora o giorno o tutti e due. Capita anche troppo ma esistono orologi e calendari che ci riportano nel momento giusto. La ragazza è sempre stata convinta che non sarebbe mai finita perché non si sentiva assolutamente in grado di risolvere i suoi rebus da sola, la sua pagina della sfinge era troppo difficile per lei e tutto le appariva con cornici concentriche e soluzioni in greco antico. Se avesse padroneggiato la lingua, sarebbe stato molto più semplice ma spesso non è così, soprattutto per il greco antico, nel suo caso, comunque, non è così. Ora credeva di potercela fare, aveva sperimentato la capacità di sopportare il peso della vita e di sprofondare in sogni morbidi morbidi, credeva di essere capace di essere creativa e di costruirsi una vita facendo crescere dentro di lei pensieri nuovi e vitali, pronti per guardarsi con i pensieri di altri. Credeva di avere gli strumenti per sopportare il peso delle giornate difficili, dei momenti dolorosi, delle strade in salita, magari polverose. Credeva che la nebbia sarebbe andata via, diradandosi, lasciando vedere anche quello che c’è di bello e non soltanto ciò che è nero e fa male e non ti piace, anche se quello che fa male ed è nero e non ti piace c’è e rimane. La ragazza universitaria, lo sapeva adesso e pensava di poterlo sopportare, pensava di potere sopportare parti di lei antipatiche, brutte, scorbutiche, gelose, intolleranti, dure, intransigenti. Pensava tutto questo. Anche quando gli aveva detto della nana, tutto aveva preso un’angolatura di possibilità e non di difficoltà, anche perché era stato difficile anche per lei pensarlo ed era stato difficile parlare per lei di quell’incontro: ”cosa potrebbe pensare se gli raccontassi che spesso incontro un nano da giardino con la gonna che si chiama Atolla sull’autobus? -Certamente che sono pazza, ecco cosa penserebbe. - Questo pensava la ragazza universitaria. L’ora non ti lascia scampo e se arriva arriva. Era il momento di salire in Via Cambiaso 5 scala A, la ragazza suona al numero sei.

Senza che nessuno risponda il portone ronza, la ragazza universitaria spinge il portone ed entra, svolta a sinistra, chiama l’ascensore, arriva, apre le porte, entra, chiude le porte, si gira verso i tasti dell’ascensore, schiaccia il due, l’ascensore parte, pochi secondi e si ferma, la ragazza apre le porte, esce, le richiude, fa due i a destra, si ferma davanti ad una porta, suona il camlo. Dott. Enrico Prigionieri Psicoanalista. Tra cinquanta minuti la porta si riaprirà, per l’ultima volta, la ragazza universitaria saluterà, sorriderà e scenderà quelle scale, quelle a sinistra, senza prendere l’ascensore, come faceva sempre, dopo una seduta, questa volta nella sua mente ci sarà chissà quale pensiero, questa volta ci sarà molto di più o molto di meno ma certamente nulla di uguale a prima e, dopo sarà cambiata come cambia ogni cosa che ti cambia e come cambiano i motivi che ti cambiano, i rapporti e le persone che ti cambiano e che cambiano. Il rapporto speciale che sta per terminare, formalmente ma non nelle loro menti e nel loro cuore, è certamente irriproducibile in natura, dissimile da ogni altra relazione con un essere umano. Difficile finire, forse almeno quanto iniziare. È un rapporto pieno di onde, di vento, di schiaffi, vittorie, sconfitte, lacrime e sorrisi che ora finiva, oltre quella porta che si apriva per richiudersi, la porta nella mente del Dott. Prigionieri rimaneva aperta, quella nella ragazza universitaria anche.

13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici. Ivan ritorna da Recco.

Il freddo questo pomeriggio si è presentato assolutamente senza precisione, non sapendo con certezza il proprio nome né chiedendo cortesemente il mio. È arrivato dalle direzioni più disparate, sotto forma di vento, pioggia, spiffero e maledizione. Sembra non avere limiti e ghiaccia senza ritegno le parti del corpo, soprattutto le estremità e particolarmente il naso che nel mio caso è discretamente esposto alle intemperie e in particolar modo al gelo, è difficile in effetti anche scaldarlo dietro la sciarpa da cui si divincola per respirare un po’. Giada mi ha ricordato con le sue innumerevoli sberle , pacche e i suoi gridolini che dovrei cambiare lavoro e are più tempo in analisi. Intanto mi ricordo dove sto andando e questo pensiero non mi scalda, sembrerebbe anzi, che i pensieri siano diventati solo più densi, cremosi e insistenti, difficili da lavare via anche con l’abbondante acqua che il cielo manda generosamente e copiosamente sulle strade di tutti quelli che sono sulla strada di qualcuno, adesso e qui. Non è buffo? A volte sembra che la gente esista solo quando la pensi, che strano. Io stasera penso, mi ero ripromesso di farlo poco, almeno meno ma penso tanto e aspetto molto, l’autobus, come sempre. Mi metto le cuffiette: Meg dei 99 Posse poi non so. Voce meravigliosa. Accendo una sigaretta esponendo al freddo un quarto di faccia e tutte e due le mani che dentro le tasche e fumo usando solo la bocca che poi è la parte più utile per fumare. Con questo stupido pensiero do il LA a una serie di pensieri sulle difficoltà che una persona senza mani potrebbe incontrare nella vita e mi ricordo di una ragazza conosciuta anni fa, amputata di tutte e due le braccia che, con i due moncherini, diciamo di quindici centimetri, riusciva a tenere un cono gelato, lo scartava e lo mangiava. Subito il pensiero delle infinite risorse che il corpo e la mente mettono in campo per vincere contro i problemi e le menomazioni mi commuove quasi. Arriva l’autobus e il flusso si attenua ma non si spegne, il mio immenso taxi arancione si ferma con un fischio di freni da intercity e le porte aprendosi liberano una mandria di piccoli montoni d’allevamento, così mi appaiono adesso

le persone imbacuccate con pellicce e altri pesantissimi vestiti prevalentemente con appendici pelose. Io salgo e respiro il mio mondo viaggiante di pendolari che ritornano alle loro case, senza sosta, ogni giorno, così, semplicemente come pendolari che tornano. Mi siedo nel primo posto che incontro, non ho tanta voglia di camminare, di cercare posto, di cercare scuse e neanche di visitare una città. Guardo l’autista che controlla se i montoni sono risaliti con il dito sul bottone dell’ultima porta, scaltro e velocissimo a tentare di chiudere qualche incauto ritardatario che si avventurasse nell’insano tentativo di prendere l’autobus al volo. Le porte si chiudono e sembra già che faccia meno freddo e mi sento un po’ un animaletto, tutto chiuso e appallottolato per cercare un calore rasserenante e rassicurante. Spuntano dai sedili davanti al mio le teste dei miei compagni di viaggio, vedo qua e là un po’ di capelli e qua e là un po’ di cappelli con dentro capelli. In una strana atmosfera tipo “siamo tutti nella stessa barca” ci incamminiamo verso le nostre case che nessuno sa dove si trovino. È un meraviglioso esercizio di fantasia, immaginare gli altri e i loro percorsi intendo, le loro case, le loro vite, e tutto partendo dalle loro facce. Alla prima fermata entra lei, Rosa, una ragazza down che attenta la mia e altrui salute con i suoi insani stereotipi e rituali che la costringono ad aprire o chiudere tutti i finestrini dell’autobus nei momenti meno indicati. Un pensiero fuggiasco prende le sembianze dei miei problemi di lavoro, infastidito cerco di spaventarli per fare finta di voler stare da solo. Intanto l’autobus trotterella instabile cigolando per la vecchiaia , mentre sprofondo dentro il colletto della giacca come un piccione sotto la grondaia. Improvvisamente mi ridesto scosso dallo strano rumore alle mie spalle, un russare grasso e smodato che sa di infanzia e, precisamente sa di padre. Addormentato in preda ai suoi rantoli convulsi che ne facevano, a quei tempi il mio incubo notturno. La mia più grande sfortuna era di avere la camera da letto comunicante con quella dei miei genitori, così era come se io fossi là e loro qui. Seduto al mio posto, cerco di scrollarmi i ricordi dalla mente ma per sicurezza mi volto col dubbio di trovare mio padre ma vedo solo spuntare una punta rossa, di un cappello rosso, con la punta rossa. Associo il rumore alla figura mentale

che si va formando dentro di me e che lentamente prende le sembianze di un nano di nome Zitrrunas. Mi sento stanco e non avrei voglia di alzarmi ma devo appurare se l’immagine mentale che ho, corrisponde al nano in carne e ossa ma, soprattutto carne. Mi alzo, mi avvicino e scorgo la sua terribile manina paffuta e callosa che penzola liberamente dalla sedia e penso che sia veramente una brutta mano. - Certo che i particolari contano!- Chi dice il contrario?- Ancora con questa storia?- Lo credo che nessuno pensa che tu sia una persona se fai di tutto per non sembrarla.- Io non ho mai fatto nulla per sembrarlo perché lo sono – - È qui che sbagli! - Credi?- Certamente.- Il motivo?- Sei solo.- Ma smettila.- Non t’interessa fare il meglio?- Non sai cosa dici!- E tu credi di saperlo? Presuntuoso e narcisista!- Parli senza ragione, usi termini a caso.- A caso no, perché non ammetti che non contano niente gli altri?-

- Perché non è così.- Perché non dici che sei disperato?- Sei pazzo.- Lo vedi?- Lo vedi cosa.- Spari sentenze, sei un perbenista.- Io perbenista? Veramente ti sto dicendo le cose come stanno e come le vedo.- Beh le vedi male.- Non credo.- Credo di sì.- Quand’è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa senza pensare a te stesso?- Cerchi di ferirmi?- Se parli così, non mi conosci.- Sto imparando.- Fallo in fretta.- È pericoloso!- Di cosa stai parlando?- Della fretta!- Allora pericolosa, non pericoloso, è femminile.- Scusa maestro?- Ognuno deve fare quello per cui è nato, caro Ivan.-

- Sì, e tu sei nato per perseguitarmi. - Sei spiritoso, peccato che debba fare i conti con te stesso non hai tanto tempo lo sai?- Sono giovane caro. - Il tempo a. - E allora? - Solo questo, il tempo a. - Non ti riesco più a capire. - Non ti sforzi. - Sei complicato, non te l’ha mai detto nessuno? - Tu. - Io? E quando? - Non ci siamo, ci stiamo allontanando di nuovo. - Sì, questo l’avevo intuito. - Devi pensare, non intuire. - L’intuito è una gran cosa. - Quando non utilizzi solo quello per capire il mondo. - Il mondo, cosa può interessarmi del mondo se sto male io? - Lo vedi? - Ma cosa?! - Non ce la fai.

- Certo che ce la faccio. - Non ce la fai, ormai sei ridotto così, sei marcio. - Vattene. - Credi di potermi mandare via così? Allora non hai capito! - Cosa? - Sei delirante! - Pure. - Non credi? - Ma piantala, ora voglio solo andare a casa. Non aspettarmi. - Lo so. Lo immaginavo. - È bello immaginare. - Già, quando non è l’unico modo per vivere.

Dorme così bene che non lo sveglierò. Devo scendere. Prenoto la fermata. Luce fermata prenotata. Due i. Davanti alla porta centrale. Sguardo fermo sui vetri. Riflesso del volto. Freni. Fermo. Porta aperta. Scendo e me ne vado lasciando il mio riflesso sull’autobus.

Di spalle ho la sensazione di essere spiato ma è dentro che sento di essere visto. Muovo i stanchi e scoordinati e attraverso, non so cosa.

Due occhi fissano le spalle di Ivan che muove i attraversando chi sa cosa. L’autobus arriva al capolinea, apre le porte, l’autista non vede scendere nessuno ma forse sta guardando ad altezza uomo. Sono le sedici e venticinque e tra cinque minuti sarà da lei per uscire tra cinquanta minuti con un vento diverso tra le ciglia.

13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici e venti. Ivan in Via Cambiaso 5 scala B. L’incontro.

La porta si chiude troppo poco lentamente per pensare che resterà aperta ancora un po’ e poco lentamente per non sperarlo. Nel dubbio non mi volto fino a quando non avverto il clic della serratura che definisce definitivamente il dentro e il fuori, così mi sembra e quindi così è per me. Volto le spalle alla porta ormai serrata e resto a guardare gli scalini che mi condurranno al portone e da lì alla strada. È finita ed io lo sapevo prima di entrare ma quando esci è tutto diverso. E così bisogna andare. Non riesco a capire bene cosa stia provando adesso quindi forse non è il momento per pensarci. Tutto quello che mi viene in mente, è che questa è l’ultima volta che la vedo e dentro sento un corpo estraneo che probabilmente è la stanchezza per tutto quello che sta accadendo e che in realtà è tutto tranne estraneo. Non c’è nulla di assurdo nel finire dopo quattro anni un’analisi il cui compimento è che lasciare che il paziente possa camminare da solo ma proprio questo mi spaventava a morte: camminare da solo. Forse Zitrruns aveva ragione, forse non ce l’avrei fatta. I gradini sembrano in salita e le gambe pesanti sembrano non accettare l’ ultima distanza che mi separa dal portone e dalla vita. È strano questo momento. Comunque, eccomi. Scendo l’ultima rampa di Via Cambiaso 5 scala B e svolto a destra con un’espressione da sinistra e un o lento che sembra rallentato perché lo è. Con una perfetta simmetria, grazie alla mia solita coda dell’occhio, vedo svoltare dalla scala A una ragazza con una faccia tipo “sono una ragazza universitaria che scende le scale” e con un’espressione che somiglia molto a: ”È finito qualcosa d’importante ma non riesco ancora bene a capire”. La ragazza che ha certamente anche un altro nome che adesso sta giocando a scivolare sul corrimano. Il nome purtroppo cade e si spezza così resta solo

“ragazza” o “ragazza universitaria”. I miei piedi si fermano come radiocomandati, e si schierano paralleli, fermi e attenti ad osservare la chioma liscia che, prima avanza come per un tamponamento e poi indietreggia timida per assestarsi in ciocche prive di forma o con troppa energia. Le ciglia serrano compatte lo sguardo per proteggere i sentimenti e si riaprono poco dopo nello stupore. Nel momento in cui sembra che ci sia un sogno, arriva la realtà, spesso capita e allora è stupore. Perfettamente inconsapevole di ciò che sta accadendo, mi guarda un momento come se avesse visto un istante ato e, con uno sguardo ora consapevole, ora no, rumoreggia stupore e incredulità. Pare quantomeno allibita, ma il suo sbalordimento mi crea solo un problema: io non ho né la voglia né la capacità di sostenere sguardi di questo tipo, in questo momento, con questo peso, di questa intensità, con questi colori, ornamenti, dimensioni, indecisioni e, soprattutto, con questa precarietà che ritrovo spalmata su questi gradini d’inutile e inutilizzato marmo bianco. Ho un pensiero che purtroppo non andrà via neanche con la birra e già mi basta. Quel che è vero è che siamo uno di fronte all’altro e nessuno potrebbe ragionevolmente dire il contrario. Qualcosa solitamente in questi casi deve succedere, altrimenti potrebbe esserci un imbarazzo ancora peggiore e addirittura una parola detta o sussurrata, magari pensata con l’intento di essere detta o sussurrata ma, al momento non abilito nessuna mia capacità e resto in attesa di qualche segnale. La ragazza resta immobile ma forse sono io che la vedo così, forse mi sta girando intorno per vedermi davvero come faceva lei, ma abbandono questo pensiero per non diventare triste. Le sue mani sono debolmente mani, con quella sensazione di precarietà che solo mani piccole, bianche e con le unghie rosicchiate sanno trasmettere, in più tremano leggermente come se avessero sopportato una tensione troppo grande o troppo forte. Non riesco a vederle i denti perché ha troppe labbra, poi li vedo perché ha deciso di morderne uno, quello inferiore, per procurarsi quel leggero fastidio che, forse riuscirà a distrarla dal pensiero di avere davanti quel ragazzo trasandato. Nel frattempo però mi accorgo che se ho visto le sue mani le ho certamente guardate e forse i miei occhi hanno tradito dei pensieri o una voce debole, un

sussurro, o qualche movimento di approvazione o disapprovazione, delle ciglia che a volte sanno essere giudici spietati o amanti impagabili. Sento che forse dovrei oltreare il suo sguardo ritenendolo un increscioso equivoco, salutando educatamente e allontanandomi frettolosamente verso una strada qualsiasi. In circostanze simili avrei già tentato una fuga leggendaria ma una sensazione dolorosa e piacevole m’invita a rimanere aderente alla mia condizione di persona indecisa davanti ad una ragazza stupita dentro lo stesso portone, scala A e B nello stesso giorno, alla stessa ora e subito dopo l’addio, si fa per dire, ad una delle persone più importanti della propria vita. Immagino che queste importantissime informazioni avrebbero potuto essere un fattore decisivo che, in un modo o nell’altro avrebbero potuto in qualche modo e in qualche tempo unirci, ovviamente, probabilmente, in un modo forse nevrotico, alla ricerca l’uno nell’altro di qualcosa di perso, o mai trovato o irraggiungibile, per ora, ma non è sempre così? In fondo la ricerca è forse già scoperta ed è così in partenza. La ragazza adesso ha la bocca aperta e un bel po’ di denti dentro a destra e a sinistra, in bella mostra a proteggere una lingua da beffe e baci indisponenti. Ora la bocca è di nuovo chiusa, la saliva scende, fino al lasciare tutto asciutto e secco. Adesso si apre a cercar aria per poi chiudersi nel deglutire. Ma che succede? Ammettiamo che improvvisamente voi, dopo la fine di un’analisi, scendendo le scale del palazzo nel quale la vostra psicoanalista ha lo studio, incontraste per caso il ragazzo che credete di aver visto o che avete visto su di un autobus colmo di gente che fissava un nano mentre fissava la parete dell’autobus in questione. Ammettiamo che, facendo un rapido due più due, quel giorno abbiate riconosciuto in quel ragazzo che spesso avete incontrato proprio in quello stesso palazzo ma che mai avete notato, pensato, intuito, aspettato, cercato perché presa dalle proprie pensose e nebulose problematiche , probabilmente avreste quell’espressione lì che adesso si chiude in quella forma lì. Quella forma che le labbra stanno creando lentamente, per scivolare tra il sussurro lieve e la cantilena insicura e fastidiosa di un troppo ripetuto, ma pur sempre cordiale, suono circondato da mille e uno contesti, storie e addii. In un attimo, un silenzio privo di noia si crepa come il muro di un palazzo nel centro storico della mente, e si sa che le crepe creano crepe e che da una fessura può nascere una spaccatura ma non viceversa. In questo modo e non in altro si

snocciola lettera dopo lettera come un trattino che lega due parole e, a volte, due persone per un secondo. Lei: - Ciao. Io: - Ciao - ed esco dal portone.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e dieci. Ivan e la ragazza universitaria uno davanti all’altro. La fuga in cento i.

Le spalle imbarazzate e storte si scrollano di dosso il tentativo di un abbraccio solo in parte fugacemente voluto, traballando sotto il peso di una immensa testa di cazzo che ha avuto la sola forza di girare i tacchi, pur essendone privo, voltarsi, e incamminarsi nella direzione opposta rispetto al luogo dove, adesso, sta morendo la ragazza universitaria che resta in piedi come a volte resta in piedi, per un po’, la pelle del serpente dopo la muta, svuotata dal corpo che le dava senso e trasporto. La direzione opposta continua ad allontanare i due corpi, le anime, le menti, le insistenti voglie, i sensi, i sentimenti, le viscere, le loro grandi bocche concepite per accogliere le altrui lingue in disperati abbracci e schiaffeggiamenti. Sempre più distanti si affievolivano le possibilità, i piedi che si sfiorano di notte, le mani senza dita perché le dita sono aggrappate ai capelli in un disperato tentativo di entrare dentro la testa, gli sguardi sfuggenti, sfumano i tentativi, le ricerche, i sogni, i progetti, le risate di sera, le risate immersi nell’acqua perché si sa che l’acqua fa ridere, le forme delle nuvole, i ti odio, i ti amo, i tradimenti, il giorno dimenticato, il teatro, il panino in Alexander platz, il tentativo di vincere una paura, la paura di vivere il destino. Cento i e forse tutto sarebbe stato un ricordo e nei suoi occhi si sarebbe tradotto in ferite che normalmente rimangono dentro un occhio che perde un amore mai avuto, conosciuto, sentito, comprato, goduto, posseduto ma soltanto intuito con quella sensazione che non sbaglia perché non è nata certo per questo. Cento i e forse il pensiero avrebbe già cambiato forma, intenzione e credibilità concedendo solo una falsificazione del precedente tentennamento, facendo credere che forse è meglio così ma invece non era certo meglio così. Chi aveva questa certezza era la ragazza universitaria che adesso si stava accanendo morsicando un pezzo di labbro. Forse troppo forte a quanto pare. In qualche modo le labbra sembrano comandare l’irrigazione e la lubrificazione degli occhi, forse è per questo motivo che sono bagnati e addirittura un nastrino luminoso scende rapido giù per le guance che un po’ tremano. Forse per il freddo ma non credo. Penso piuttosto che sia il tentativo di controllare quel sentimento potente sviluppando una tensione fisica e mentale per il contrasto di una forza troppo grande con una volontà troppo fragile. Capito questo concetto non si può fare altro che piangere liberamente sentendo il salato delle lacrime che giungono

sulle labbra e pensando che per ristabilire la perdita di sali minerali ci vorrebbe un integratore. Forse questo pensiero potrebbe almeno lenire per un secondo la sofferenza facendo sorridere la ragazza universitaria che continua comunque a fissare le spalle del ragazzo mentre si allontana. Avrà fatto circa quindici venti i in direzione di qualcos’altro senza sentire che lo avrebbe fatto e senza avvertire la tragicità di quello che faceva. È verosimile che questi ragazzi si siano già amati. Mille volte almeno sono entrati nei loro caldi letti in mille notti diverse sussurrandosi parole tiepide e guardando assieme le pieghe delle loro mani fatte di storie e sogni. Hanno tentato di nascondere i loro regali, hanno frugato nelle tasche cercando segreti, hanno fatto vedere foto che li ritraevano in aeroporto, hanno sperato insieme, si sono voluti forte, si sono amati come si ama la vita quando ti viene voglia di amarla, come in quelle mattine quando stai seduto sulla sabbia e il sole ti cerca. Hanno ascoltato la voce confusa del loro amore che sognava e poi sono entrati nel sogno per assicurarsi che il loro amore fosse al sicuro. Hanno mandato via i pensieri lacerati che la gente cattiva butta addosso come spazzatura della mente, hanno camminato senza parlare e hanno parlato sotto le coperte, come si faceva da bambini. Hanno riso fino al pianto e hanno pianto tanto, ma finalmente è ata. Si sono già amati e non può certo essere un ostacolo, ma mai hanno confidato il loro amore l’uno all’altro il causa di un dettaglio insignificante: non conoscersi affatto. Zitrrunas e Atolla, la sua fidanzata, credo, adesso stavano piangendo, ognuno nella propria casetta. La ragazza universitaria sembrava una canna al vento e oscillava senza potersi girare o staccare da terra. Il ragazzo stava considerando la propria vita cercando di ingannarsi fino all’ultimo e cercando di corrompersi. Fu per quella ragione che arrivato a quarantadue i si fermò. In un istante fu inverno e primavera, estate e autunno, insieme, ogni stagione prese il senso che segretamente conserva per svelarlo a chi le ama quando è il momento. La brezza, in direzioni senza spazio, iniziò ad agitare la gonna di una signora che per svista aveva mal abbinato la giacca alle scarpe. Una pagina di quotidiano si spiaccica contro un cerchione rivelando il nome poco credibile di una testata poco credibile. Un turbine di pensieri, foglie e dubbi si alzano dal

ragazzo che s’impadronisce a poco a poco dell’inverno senza capire il perché. Il cielo non avrebbe mai pensato di diventare così, eppure il cielo ne sa di cose. Oltre alla sensazione d’improvvisa necessità di correre si fece strada la possibilità di scegliere, così fece, così è stato. Il ragazzo come appeso a fili invisibili si improvvisa burattino e danzatore e con la cospirazione del vento e la voglia di vita si volta all’altra parte della strada mostrando la faccia alla ragazza universitaria che si sente come spinta dalla tentazione di indietreggiare per quella inaspettata novità. Uno davanti all’altra a quarantacinque i di distanza.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e dodici.

Quarantacinque i possono sembrare un’inezia rispetto a quattrocentoquarantacinque ma molti rispetto a quattro o cinque, se poi pensiamo che dentro quei i quarantacinque i ci sono due bambini con un triciclo e un paio di pattini in linea di colore rosa, una mamma con l’affanno dovuto non all’età ma semplicemente al fatto che sta per tornare a casa da un marito che ormai non ama più, un marciapiede grigio, una lingua di asfalto strappato ad un’aiuola curata molto male anche se non era particolarmente grave, un orizzonte che non si vede molto bene a causa di un condominio che compare improvvisamente con le sue speranze di essere riconosciuto “palazzo storico” ma con poche probabilità di riuscirci, una discreta quantità di aria che si rinnova di secondo in secondo, una porzione di cielo che seppur in alto fa decisamente parte di questo imprevedibile quadro d’amore, un muretto con scritte prive di grammatica, un angolo tra la marmitta di una macchina e un muro in cemento, quattro macchine del duemila tre, una del duemila sette, sei del duemila dieci, due scooter da rottamare, un gommista con un’insegna che promette 40% di sconto su quattro gomme da neve, fiato caldo in grandi quantità e nuvole di condensa, kilogrammi di speranza, litri e litri di possibilità, metri di voglia. E se in quarantacinque i ci sta tutto questo, più due vite, possiamo sperare che in centosettantacinque centimetri ci stia un po’ di cervello. Il ragazzo, che forse più ragazzo non è, non immagina minimamente perché il suo corpo stia roteando in senso antiorario e parchè l’azione centrifuga, seppur blanda, spinga una certa quantità di sangue gruppo AB negativo verso la periferia del suo corpo, che, si sa, è sempre una delle parti più degradate, con le unghie, i capelli e la pelle che sempre sono messe peggio del cuore ma a volte non del fegato. Riflettendo sulle possibili azioni per riqualificare se stesso, il ragazzo si spinge avanti nel tentativo di arrivare a meno un-o. Il motivo nemmeno lo conosce ed è forse questo che lo invita alla rotazione. Un’ulteriore vibrazione nell’aria lo spinge a riconsiderare che forse è l’istinto a stupirlo e impressionarlo, una volta impressionato si può stampare e rimarrà per sempre. Ogni tre secondi respira, ogni secondo un battito di cuore, ogni secondo e mezzo un battito di ciglia. Muove nervosamente un dito, diciamo un movimento ogni mezzo secondo. Sì, è nervoso, i suoi succhi gastrici hanno avuto un incremento del 20% e ciò capita sempre nei momenti di tensione. Eppure era pronto per

andare via, tornava alla sua vita, alla sua piccola, misera, rassicurante vita di tutti i giorni. Certo non dobbiamo sottovalutare la parola “rassicurante” che, in effetti, equivale a un sospiro di sollievo fatto alla faccia di tutte le perplessità, paure, ansie che ogni giorno si sviscerano nell’anima che, stanca, ogni tanto si scrolla di dosso il suo lavoro e minaccia di non voler più essere anima. L’anima ha dei diritti? Ma cosa sta succedendo? Il ragazzo, chiamiamolo così, non pensa minimamente di avere smosso dentro la ragazza universitaria, una diga di sentimenti paragonabile a miliardi di litri di acqua furibonda e pronti ad esplodere ma si preoccupa dei sentimenti che non vuole provare. Ha paura. Sarà per questo che si è voltato? Oppure il vento ha deciso di spiegare con le proprie capacità che il profumo che sta trasportando è quello di un amore autentico, dolce e accogliente come le morbide forme del letto dei genitori e molto più caldo soffice e strano di quanto avesse mai pensato anche nel sonno. La diga come ogni altro manufatto umano prevede, nella sua storia e nel suo destino che ceda, alla fine, inevitabilmente al tempo, all’usura, o all’incuria, se poi la diga contiene dei sentimenti è prevedibile che il danno sia ancora maggiore perché sono i sentimenti che nel mondo danno maggiore instabilità, peggio anche dei terremoti.

Facile giudicare dall’esterno ma sentiamo cosa pensa lui:

Rimanevo fermo come un fesso fatto di ossa, carne e tutto quello che compone un umano essere ma privo della capacità di deglutire sputare lubrificare i miei occhi e ottemperare al mio dovere di essere umano, dotato, in quanto tale, di battito cardiaco e respirazione. A quasi cinquanta metri dalla mia faccia e a diversi centimetri in meno dal mio naso, quella ragazza si fondeva con il colore distante del palazzo dal quale eravamo scesi tutti e due, come in un gran galà della televisione quando al centro del palcoscenico si riuniscono il presentatore e l’ospite che arrivano dalle due grandi e sontuose scale bianche in fondo alla

scenografia e, con grandi sorrisi a destra e a sinistra, cenni della mano e o trionfale, si uniscono davanti al pubblico a godersi il meritato applauso. È poco importante che dietro a quelle scale ci sia una squallida impalcatura di acciaio e non stanze imbiancate e arredi rassicuranti e che a nessuno interessi sapere come andrà a finire tranne forse a chi se lo domanderà. La ragazza mi guardava come si guarda chi si è appena ritrovato o appena conosciuto, con quell’aspirazione a diventare qualcosa di più di una ragazza che guarda. Questa prospettiva rendeva impegnativo avvicinarsi per capire da dove arrivassero quei capelli portati su quella testa attaccata a quel collo con sotto quelle spalle, più larghe di quel petto che si sporgeva in avanti, affacciato ad un ventre che si incavava leggermente, per diventare una vagina in mezzo a due cosce rette da due ginocchia e da due gambe, che finivano con due piedi per diventare asfalto sopra una terra che ci stava inghiottendo tutti e due, dentro una fucina di inconsapevolezze, dubbi, speranze ma, principalmente, di alito sprecato più di quanto avessimo mai fatto prima, neanche quando da bambino appannavo il vetro per disegnare. Questa è la realtà. Più la respirazione aumenta più si bruciano calorie e se non mangi, muori. Tentavo di ricostruire tutta la strada che mi stava facendo morire di freddo davanti al palazzo nel quale per quattro anni avevo trovato calore, ma vedevo solo due strade nuove che da li partivano e si allontanavano, una in leggera salita e l’altra in leggero falso piano, ovviamente , nessuna in discesa. Le strade senza nome, tra l’altro, hanno da sempre un sapore inquietante perché continuano a ricordarti che non sai precisamente dove stai andando. Piano piano cominciavo a ricordarmi di lei. Mentre i ricordi iniziavano a tinteggiarmi le pareti della mente, in lontananza scorgo la sagoma dell’autobus avvicinarsi, si ferma alla fermata, aspetta un momento e poi riparte. Forse dovrei salire su quell’autobus ma questa volta non riesco a dare alla fuga la forma rassicurante che ha sempre avuto. In questo momento anche l’insicurezza e la precarietà sembrano accettabili rispetto al dubbio e all’amnesia dei miei sensi, che seppur sconvolti, sono dei cari amici. Guardo le due strade senza nome, la ragazza e l’autobus che avanza, per fermarsi

davanti a me, tra lei e me. Osservo le scale e le porte pneumatiche che le svelano lentamente e che forse stanno aperte più tempo del dovuto. Scorgo l’interno, i sedili, la macchina obliteratrice, i finestrini appannati come la mia mente e sento di voler salire ma ho la sensazione di essere un tondino di ferro ancorato all’asfalto. Questa volta non salgo e aspetto che l’autobus, allontanandosi, sveli ancora la ragazza universitaria. Sento che è lì ma non la vedo. L’autobus chiude le porte e come sempre un mondo resta al caldo e l’altro no, i freni sbuffano con quel rumore ossessivo che sembra un urlo di sfogo e con un leggero sobbalzo riparte lasciando il paesaggio di cui faccio parte da cinque minuti al suo posto. Istintivamente volto la testa, o forse si gira da sola, verso l’autobus che si allontana e scorgo ciò che ancora, sempre e comunque, mi stupisce ogni volta e forse ogni volta di più, vedo Zitrrunas che, in piedi sui sedili posteriori, mi saluta. Lo guardo incredulo ma quasi divertito, poi sparisce un momento e riemerge subito dopo con un grosso foglio bianco con scritto: -sei sicuro di non conoscerla?- Io rimango a bocca chiusa ma con gli occhi sgranati. Zitrrunas si abbassa nuovamente e poi nuovamente torna su con un altro cartello “scala a e scala b”. Non ho tempo di fare pensieri e di stupirmi sul modo a dir poco eccentrico del nano di mandarmi sms perché, nella mente, come un fulmine, un arcobaleno, un baleno, mi si stampa l’immagine di pochi minuti fa: la ragazza che scende le scale. La ragazza che scende le scale. La ragazza che scende le scale La ragazza che scende le scale. La ragazza che scende le scale. Ora mi sembra di vederla voltare l’angolo con le mani infilate nelle tasche della giacca. Scale. Scala A scala B.

Nel silenzio del palazzo il rimbombo dei miei i e poi dei suoi e poi assieme, sembra di sentirli in quel giorno, in quei giorni.

PALAZZO Scala A scala B. Io che le tengo il portone, una dozzina di volte almeno. I suoi grazie timidi, una dozzina di volte almeno.

IO E LEI. INVERNO. Scala A scala B. Il freddo senza giacca dei sentimenti, il vapore acqueo delle incertezze che galleggia.

ESTATE. Scala A scala B. Il distacco la paura la voglia i tentativi. Scala A scala B.

PRIMAVERA. Una stagione. Giardinetti. Attesa attesa attesa attesa attesa attesa attesa.

AUTUNNO Scala A scala B. Il cielo cambia e spesso. Sparisce la maglietta, la pelle imbianca. i. Rimbombo. i. Sussurri. Vergogna. Scala A scala B.

A e B A e B.

Io scendo i gradini della scala B, lei scende i gradini della scala A. Dio quante volte fuori e dentro quel portone con facce e facce, pensieri e pensieri guardandoci di sfuggita senza vederci mai. Scala A e scala B. Eccola. “La vedo”.

Certamente, si è vero, la ragazza universitaria non ha mai direttamente espresso un pensiero, un’idea, un dubbio e non ha certamente mai raccontato in prima persona alcun accadimento, momento, attimo o altro. Non abbiamo mai sentito l’espressione delle sue mani che gesticolano o farneticano su questa storia che assume tinte davvero starne e stravaganti ma solo percepito la sua insistente voglia di esserci. Ci chiediamo se realmente esista un modo per non sapere da altri ciò che vuole, come parla, se parla, quanti anni ha, se ha i capelli neri, lunghi, senza, se ha

davvero desiderato quello che pensiamo o è solamente un pensiero nostro nascosto disposto e indisponente e forse indispettito. Esiste o no? E se esiste, pensa?

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quattordici. Il pensiero della ragazza universitaria.

Accanto a me non ho mai visto che ombre raggiungermi e sfregiarmi e in disappunto cercare di violentare la mia anima grata e ingrata amena e menagrama. Lottando con i dubbi delle altre donne ho raggiunto scogli privi di bianca spuma per seppellire lì, dove ho lasciato l’amore, un altro litro di lacrime e prigionieri e pensieri erranti, falsi, gialli, e stravaganti intermezzi di danza, operetta da quattro soldi e malvage elucubrazioni. Niente di questo mi serve o mi è servito per distrarre la rivolta dei sensi che mi sparge di sale la schiena per allontanare la sfortuna che non esiste, perché esiste solo la fortuna mancata da un cacciatore, con un cane stanco che di fiuto ne ha avuto, ne ha ma non ne avrà. Forse rifiuterò il prosieguo della mia vita se la faccenda sta così. Mi chiedo perché nessun altro lo fa. Cosa mi spezza la mente in due, il cuore in tre, il fegato in quattro la storia in 342 pagine? Quella della mia vita così come quella della prima guerra mondiale mi rattrista senza limiti e si differenziano per tragedia ma non per lacrime. Senza il ricordo che si staglia, si strappa e si lacera ogni volta che un volto si avvicina al mio, non posso nemmeno ricordare di avere paura dell’amore perchè è l’amore che si erge a pianta rampicante soffocando tutto quello che il mio tronco cerca di dare e di prendere. Non posso ricordare all’amore che se soffocasse meno vivrebbe di più, d’altronde non puoi dire al mare di non fare onde, di non fare schiuma, di non essere corrente. Non può certo bastare chiudere la porta, la finestra o tappare uno spiffero con un serpente di pezza per fermare il vento. Vedermi sconsolata in piedi davanti al mio cadavere con le mie viscere in mano mi fa soltanto una pena smisurata e attendo paziente sulla panca di legno, vicino all’altare, che i il trofeo che più di tutti ho meritato in vita. Prima ancora di chiamarmi nullità ho assaporato per pochi attimi un’identità di bambina che è sconosciuta persino a chi adesso la custodisce perché l’ha rapita, rubata da dentro facendone una schiava rigata dal pianto e dalla chiave che non ha toppa. Chi ha strappato la mia anima ha strappato anche lembi di pelle e carne rendendo

grotteschi i gesti femminili d’un corpo che si è ribellato con tutte le sue forze per soccombere sconfitto, sporco della bava lussuriosa e indegna del carnefice. Poi, in fondo, ho desiderato che il mio carceriere tornasse e riprendesse a guardarmi e accarezzarmi, come se Stoccolma fosse la mia città natale ma senza averla mai vista ne sentita nominare perché è forse innominabile. In un secondo, ed è sufficiente, mi spoglio e nuda vago e svengo nei i e spesso mi distraggo e mi ritrovo a ricamare fiori di cui non conosco nome e specie ma il profumo sì, quello lo riconosco. Poi mi sposto, insieme ai movimenti e scopro che sono lenti, fiacchi, privi di voglia, li guardo da casa, la casa dove sono chiusa, quella rigida, di vetro e piastrelle decorate col sangue delle mie mestruazioni, immondo ricordo del possesso di un organo che riproduce o dovrebbe. In due secondi, e sono sufficienti, mi rivolto, lotto scappo, scoppio e mi spezzo, lacero e rigetto, muoio, grondo, affondo e cedo. Un secondo dopo la ragione mi bacia in bocca e mi fa un male del diavolo, mi avvolge come un mantello invisibile, mi tiene ferma, m’imbavaglia, mi lega i pensieri, sbatte la porta e chiude fuori tutti i sentimenti e dico tutti. Schiaffeggia le sensazioni e prende a calci nel culo la mia serenità. Mi sembra di impazzire. Persa per sempre e sempre persa mi pare che camminare sia invitante per guardare i miei piedi muoversi nudi sopra la ghiaia tondeggiante del mio giardino. Girando su me stessa solco il terreno e creo trincee che si prefiggono di fare quello per cui sono nate: difendere o attaccare, o forse le trincee servono per morirci dentro aspettando che qualcosa o qualcuno ci attacchi, tanto sappiamo che sono inutili. Impavide le mie mani e le mie gambe si muovono smisuratamente producendo vortici dentro l’acqua dove sto affogando, spinta nel pozzo scuro del liquido stagnante che ripugna ogni minuto la mia mente e i miei ricordi, che nulla hanno a che vedere con la mia vita. Cento paia di mani mi hanno schiacciato a terra e spinto giù la faccia nella merda, cento piedi hanno calpestato la mia storia, il mio orgoglio, le mie medicine e quelle di mia madre, riprendendo a marciare verso la carcassa ancora umida di altri poveri corpi con l’anima rovinata dall’alcol. In tutto questo ci sono

state strade, svolte e speranze, ho avuto anche una vittoria quando ho deciso che avrei vissuto, almeno per un po’ ma poi ho deciso che lo avrei fatto per molto e poi finché ci riesco. Questo c’è chi lo chiama sopravvivere ma io, chi dice così lo chiamo cretino. La vita mia, se la leggo, non la ricordo perché io vivo d’immagini e se mi chiedete se sento il vento io, vi rispondo che lo vedo. Da quando ho deciso che avrei tenuto per me stessa ho ricevuto sangue di tutti i gruppi ma quello che le parole mi hanno dato lo sa solo chi le ha pronunciate e chi ha visto crescere quella pianta di limone, anche dopo il gelo e la siccità. I volti lontani sono scivolati piano a valle andomi davanti fragili e soffici, senza rischi. Infiniti spazi innevati e sotto, tutto il mondo intatto, come prima, come prima della nevicata che tutto cela ma nulla distrugge. Volti miti, stanchi, imprecisi, irregolari mi osservano spesso e ormai non ho quasi più paura che mi somiglino, mi giro a volte nelle strade per cercarne uno e studiarne le fattezze, le capacità, l’espressione le possibilità, spero che sia un viso per me e non per altri oppure per tutti e due ma senza troppo dolore. Qualche giorno adesso rido oppure piango, ma almeno sento che c’è, che ci sono, che ci siamo e siamo al mondo e che se ne dica è un mondo terribile ed è difficile trovare la bellezza dove sembra di vedere sempre fango, cacca, e rovine rovinose e disastrose. Quel volto che adesso sta finendo di roteare tra le mie idee e le sue si chiama possibilità e adesso sono anche stanca del mio nome che non è un nome ma un esempio di come si possa are tra la bocca di uno o dell’altro senza lasciare saliva ma solo strappando via una pellicina, come una fastidiosa arsura che cerchi di mandare via addolcendola e ammorbidendola con il burro di cacao. Quel volto, adesso, è tutto quello che ho. Mi ci attacco come una cozza, come una certezza, come un’adolescenza, come un’infedele, come un cane e dentro sento arrampicarsi un’inspiegabile sensazione di nausea che m’invita a vomitare le mie paure, ma i sentimenti si raggruppano in fondo e non si fanno per nulla trovare, io tanto lo so, dove sono, sono in fondo.

Lì dove li avevo lasciati.

Un ricordo, una storia. Il tornitore di Grenoble.

Sera e sera, tanta sera che scorre come una rotaia, tutte le pieghe del viso raccolte in stravaganti espressioni e un freddo cane dentro, fuori e tra i denti, soprattutto quelli non devitalizzati. Un autobus rumoroso in salita guidato da un autista frettoloso, senza sentimento. Una decina di persone, un paio di personaggi, un’ossessione e un nano. Un quadro scarno, con pochi colori, quasi incivile nelle sue bestemmie, forse per il freddo o la stanchezza, ma abbastanza privo di luce da voler scoprire chi è l’ombra in fondo al fiume. L’autobus frena rumorosamente la sua corsa, guardo fuori e poi dritto davanti a me, lì è seduto il nano ed io osservo il suo orrendo cappellino ondeggiare in ogni direzione immaginando anche la sua barba e le sue orecchie smisuratamente grandi muoversi e vibrare. Ormai da mezz’ora Zitrrunas ondeggia come un pioppo. Io aspetto. Lui ondeggia. Io aspetto. Lui ondeggia. Io ondeggio. Lui ondeggia. Lo vedo e non lo vedo a causa dell’altezza, si stiracchia come un gatto, stende le braccia e scrocchia il collo poi si gira con le gambette a penzoloni verso il corridoio dell’autobus come se fosse seduto sopra un letto a castello o uno sgabello, si guarda un po’ in torno con quegli occhietti suini, si gira verso di me e come se fosse la prima volta che mi vede mi saluta con un cenno della manina callosa e sproporzionata. In quel momento penso che le sue manine facciano proprio schifo.

Si lancia nel vuoto che separa il sedile dal pavimento dell’autobus e con fare pensieroso ma deciso si avvicina a me. Mi guarda in silenzio con l’indice alzato come se volesse dirmi qualcosa, poi ci ripensa, mette le sue schifose manine tumefatte dietro la schiena e attacca: “Immagina Ivan! Immagina un uomo, piccolo ma non troppo, scuro di pelle ma non troppo, magro, con le costole che sembrano uscire dalla pelle e le gambe piccole come le braccia di un uomo magro ma non troppo. Immagina che sia nato in Portogallo, che parli portoghese se, italiano, spagnolo. Immagina che si chiami Luis e che si sia trasferito in Francia all’età di cinque anni perché il padre doveva lavorare per mantenere lui, suo fratello e la sua sorellina. Immagina che sia stato un bambino incredibilmente intelligente e amato ma questo non sia bastato a tenerlo fuori dai guai e immagina i suoi genitori che gli dicono che dovranno trasferirsi in un altro stato dove tutti parlano un’altra lingua. Immagina la sua reazione, più modesta di quanto sarebbe stata se non si fosse sentito il fratello maggiore, quello che doveva dare l’esempio. Immagina le lacrime per il pensiero di lasciare Giulio, Paolo, Cristina e la terra, la polvere che gli aveva sporcato le ferite sulle ginocchia, su quel campo di merda, fuori città. Immagina gli arcobaleni che si spegnevano dentro di lui immaginando la partenza e quelli che si accendevano dentro guardando l’amore che straripava dagli occhi della madre mentre gli diceva andrà tutto bene. Immagina sotto le coperte, con i suoi fratelli, la gara a chi le faceva più puzzolenti e poi le risate fino a sfinire i sensi e la zanzariera bucata che lasciava una speranza alle zanzare e ad un raggio di luce del neon attaccato con lo sputo fuori dalla porta di casa per spaventare i fantasmi, i lupi e lo zio Pedro che gli faceva così paura a causa dell’alito cattivo. Immagina il viaggio, con quella macchina piccina, piegata sotto il peso di cinque persone, seppur tre piccoline e una specie di enorme fagotto sopra il portapacchi e poi i mobili arriveranno.

Immagina la testolina di Luis che da una parte all’altra riempie i suoi occhi di novità immagini informazioni luoghi posti strade. Immagina l’arrivo. Gli occhi della gente. I commenti: “Sono stranieri”. “Si portoghesi mi pare”. I commenti di Luis: “Sono più chiari, stanno bene?” I commenti dei genitori: “Fanculo a questo posto”. I fratelli ridono e non commentano nulla. Immagina il Trasloco, la soglia dell’appartamento, i muri, gli alberi. Immagina Grenoble. IMMAGINA il coro di paure che si agita dentro a chi si spinge oltre i suoi desideri per inventarsi una vita e inventarla ai suoi bambini che dentro lo odieranno e lo ameranno. Immagina che Luis non abbia avuto tante difficoltà con la lingua ma molte di più con le ragazze, perché lui amava alla portoghese, non alla se, perché non c’è un solo modo per amare. Immagina che per le ragazze non faccia differenza amare in un modo o nell’altro e che abbiano imparato in fretta ad amare alla portoghese, proprio quando lui aveva iniziato ad amare alla se, come spesso accade nella vita. Immagina che un giorno Luis perda un occhio, non si sa come perché lui non lo dice, non lo vuole dire, non se lo ricorda o è troppo doloroso forse, fatto sta che lo perde e perde mezza vista, una parte del mondo, quella che sta a destra, la può guardare soltanto girando la testa. Al posto dell’occhio immagina un occhio di vetro da togliere, pulire, disinfettare e rimettere dentro un’oscura cavità priva di senso se non quello di essere la sede di una palla di vetro, ma non come quelle con la neve, ma con una scura nocciola fissa che simula uno sguardo a metà.

Immagina che lo sguardo non sia dato dall’occhio, o dagli occhi ma da quello che sta dietro, dai sentimenti che lo vorrebbero guidare verso la bellezza che non può più vedere. Immagina che lo sguardo stia fermo lì, nel nervo ottico che termina perché non c’è più finestra sul mondo, non c’è oblò. Immagina che il nervo ottico, trovata la strada sbarrata, pulsante, agitato e impaurito si dirami come un torrente di voglia per altre vie, in tutto il corpo creando connessioni con organi che non dovrebbero vedere né sentire, privi di accesso al mondo. Immagina che scendendo dentro le arterie raggiunga il fegato, i reni, il pancreas, il cuore. Immagina un nervo ottico che arrivi al cuore. Che meraviglioso binomio: un cuore che vede. Immagina che Luis sia cresciuto e faccia il tornitore, come in realtà fa, immagina che tra le sue mani ino centinaia di pezzi di metallo che lui guarda con un occhio solo ma che sente con un cuore che vede. Immagina che sotto le sue mani quei pezzi di metallo si trasformino in centinaia di pezzi diversi da prima e che il suo occhio se ne accorga magistralmente arrivando a luccicare per il piacere. Immagina una sera, una donna dentro casa, Luis che prepara la sua vita, mentre i suoi due cani aspettano che invece della vita, Luis prepari da mangiare. Immaginate una collana con una croce e al centro una specie di zappa di metallo fatta per chissà quale ragione. -Ti immagini che storia Ivan? Io lo guardavo sbigottito e lui semplicemente mi guardava . La bocca non produceva movimenti né tantomeno suoni e il mio cervello non avevano nessuna voglia di trovare scuse, ragioni o altro. Chissà perché ma quella storia mi teneva caldo. Che potesse essere la storia di tutti non lo so, ma forse rientrava nelle mie possibilità, dento di me forse c’era un nervo ottico che poteva collegarsi al cuore? La collana con la croce e la zappa? Quella era nella mia

tasca. Era quella? Era la stessa? Chi era Luis? Tutto inventato, ci scommetto. Zitrrunas non smetteva di guardarmi negli occhi al punto che educatamente gli dissi: “Ma che cazzo hai da guardarmi così?” Zitrrunas, mi fece un brutto gesto e si avvicinò alle porte centrali. Con un saltello riuscì a schiacciare il pulsante e a prenotare la fermata. Con un altro saltello scomparì sotto i due scalini dell’autobus ma non prima di guardarmi col cuore e dirmi che mi voleva bene con gli occhi

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e sedici. Ivan e la ragazza. I viaggi della mente.

Un o in meno. Seguendo le linee delle sue mani ho decifrato anche quelle della sua bocca e quelle dei piedi, sempre simili e concreti, più instancabili delle gambe ma meno della mia mente che al momento sta cercando un’ottima scusa per comunicare ai miei di piedi di mulinare velocemente per allontanarmi da qui. Le scuse sono finite e non le ho più ricomprate. La guardo. Sembra un mese, e forse lo è. La guardo. Il vento entra da qualche pertugio impossibile da coprire. Sento freddo. Sembra che la sera stia tingendo gli alberi di scuro. Strofino le mie mani come una mosca ma per fortuna non sono nella merda, forse. Mi accorgo che lei si sta chiedendo cosa succederà. Sente freddo e cerca. Il dubbio, a piene mani solleva il suo sopracciglio fino a creare un arco. È stanca. Io non riesco. Ascolta, ora ci prendiamo le mani e stiamo zitti per una stagione intera, solleviamo il tappeto di foglie che hai lasciato nel salotto ed entriamo nella botola, lì c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, compreso le nostre storie. Le meraviglie le lasciamo a chi si meraviglia e noi prendiamo il vino e i racconti di topolino, con la nostra infanzia, il salame dolce della nonna e le lucciole che inseguivamo in quell’estate, quando non ci siamo mai conosciuti, anche se è

stata l’estate più bella che mi ricordi, quella dei mondiali dell’ottantadue quando io segnai un goal e ti regalai la mia maglietta col numero 3. Quell’estate eri disarmante, con quegli anni sembravi umana e senza, saresti più piccola ma non più giovane. Ti ricordi? Io ti seguivo e tu non esistevi, ti baciavo, non sapevo che bisognasse usare la lingua e allora usavo l’immaginazione ma non ti bastava e allora non mi hai preso in giro perché non c’ero. In fondo è come averti amato anche se forse ho certamente odiato il giorno in cui non ti ho conosciuto perché avrei voluto sapere chi sei adesso e invece non so nemmeno chi sono e a malapena chi sono stato. Quell’estate non avevo capito quanto non fossi presente dentro di me, ma quanto ti voglio ora lo sa solo il vento dell’ottantadue che mi ha portato la vittoria, il caldo e il desiderio di vederti, perché di rivederti, non se ne parlava neanche. Ho avuto sempre il vizio di riposarmi prima di partire o di restare ma quell’estate non ho riposato, avevo te che non mi parlavi continuamente e non mi tenevi sveglio mentre io non volevo dormire dietro di te che non respiravi in quella calda giornata in cui siamo rimasti a casa a vedere i mondiali dell’ottantadue con le lucciole che giravano e che ogni tanto non ti illuminavano il viso che non risplendeva quando mi dimenticavo di farti sorridere. Fino ad ora non mi ero nemmeno reso conto quanto fossi bella e quanto io non riuscissi ad amare la tua ombra che si allungava sopra la mia fatica, mentre ti costruivo dentro di me e ti facevo vivere nella mia mente di bambino scalzo nell’estate dell’ottantadue. Il ricordo di quell’estate resta una goccia di sudore illuminato da una di quelle lucciole che ho immaginato avessero dei grandi occhi dolci e luminosi al sapor di Fragola e ciliegia mischiate insieme. Quel caldo mi appartiene così come mi appartieni tu che sei l’immenso desiderio di quegli anni che prende vita e si erge spavaldo a ricordarmi che avevo dei sogni. Questo rappresenti? Un desiderio, un sogno, quello che l’estate dell’ottantadue mi ha scavato dentro quando guardavo avvicinarsi la possibilità di crescere e di amare. Dentro la carne, porto una ciocca di capelli mai strappati alla donna che mi impietrisce con il suo ricordo mai svanito e mai nato.

Amo la tua pelle che si tende come un tamburo quando ti tengo stretta e t’imprigiono nelle mie infinite stanze. In un istante mi accorgo che la mia bocca si muove. La sua bocca si muove. Le estati differenti ma le parole sono le stesse.

Mentre mi pensi, ti penso e siamo solo a trentotto i di distanza da una distanza di trenta centimetri che potrebbe essere intesa come uno sconfinamento bello e buono degli altrui spazi vitali. Trentotto i che stanno per diventare trentasette e che sono stati trentanove e quaranta e quarantuno. Una panchina di legno verde spaccata m’invita a sedermi scomodamente. Le gambe, non più querce, mi sostengono per pratica e una stanchezza post esame s’impadronisce di me, tra le vene e le arterie, un patto mai scritto dice di rallentare l’afflusso di sangue alle estremità per preservare il cuore. Fa freddo adesso e le mani sono meno importanti, ma non l’abbiamo mai detto alle mani perché sanno essere manesche. Mi siedo e sembra di essere al cinema all’aperto, d’inverno, in un posto troppo sbagliato per non poter essere vero e mi guardo fare la regia e l’attore di un film muto e in bianco e nero, mi vedo applaudire alle battute, ridere di gusto e spaventarmi, piangere e sperare. Mi vedo attendere. Mi stropiccio gli occhi perché ho creduto di vedere Zitrunas in scooter ma non credo neanche abbia la patente e poi, certamente non arriverebbe a toccare terra con quei suoi piedini e quelle gambette da nano. Comunque accavallo le gambe come per volermi trasformare in vite o in rampicante e galoppo con la fantasia fino a vedere la scritta finale del lungometraggio. Non è un film straniero perché vedo scritto fine, poi mi rio la parte ma non ho per nulla voglia di recitarla, poi penso che sono anni che la recito. Mi giro di scatto per il frastuono di una moto da cross.

Ancora una volta mi sembra di vedere il nano, questa volta con un eggiero, una persona piccola, con un casco rosso, penso alla sua fidanzata poi scaccio via il pensiero che se ne va a malincuore e un po’ infastidito. Mi chiedo perché finora non mi sia mai chiesto niente sul nano, più di quanto lui abbia voluto dirmi, in fondo ad un occhio esterno ma soprattutto a una bocca esterna verrebbe da chiedersi: ”ma chi è Zitrunas”. Guardo il mio copione, guardo la ragazza, guardo il copione, guardo la ragazza, guardo il copione e guardo Zitrunas. -Zitrunas? Che ci fai qui? Non siamo sull’autobus! E il copione? Non puoi fare di testa tua! -Basta copione, buttalo Ivan. -Come buttalo.-Buttalo, fidati, poi puoi raccoglierlo, più tardi, domani magari.-E adesso come dovrei fare?-Questo lo devi sapere tu.-Come faccio? Non capisci? Senza copione è tutto imprevedibile, fuori controllo. Probabilmente sbaglierei tutto. È probabile.-Buttalo Ivan! Non sei libero così buttalo.-Tu sei pazzo, tu vuoi che io sbagli, ecco cosa vuoi! Vuoi che esca tutto liberamente senza sapere cosa accadrà.- Non puoi controllare i sentimenti Ivan, è solo un’illusione. -Tu vuoi che vada avanti allo sbando, che entri nei negozi senza copione senza sapere cosa chie¬dere, quando dirlo, come dirlo, in che modo. Cosa Chiederei? Che cosa potrei chiedere? Che cosa potrebbero rispondermi? Nessuno capirebbe, non capirebbero, non capirebbero. Non mi vorrebbero, non vorrebbero più sapere niente. Anche se è falso, c’è qualcosa da dire, non posso muovermi, è re¬spiro. Come faccio senza copione, dove vado? Dove vado, non puoi dirmi di buttarlo, dopo tutto sei qui per aiutarmi vero? Non sei qui per quello? Sei qui per

quello o no? Ma chi sei?, che diavolo vuoi? Due anni sugli autobus, due anni di incontri freddo neve pioggia maglioni gocce freddo asfalto macchine pensieri parole gente sudore vapore puzza sorrisi parole gente parole parole parole.- Io non voglio nulla. Non ti ho mai chiesto nulla e non ti chiederei mai nulla; solo questo: Butta il copione.-Tu mi chiedi troppo.-No!- Certo che è così.-Butta il Copione.-No, non mi puoi chiedere di buttarlo.-Buttalo.-Cosa le dico?-Buttalo lei lo sa che lo devi buttare.-Ma che cazzo ne sai? Cosa ne vuoi sapere di quello che sa o che non sa lei.-Lo so butta il Copione. Buttalo!Come un’onda in piena, una rabbia devastante mi prende improvvisamente il braccio che compie una roteazione a una velocissima e con un urlo misto a un ringhio, come brandendo una clava, sbatto il copione sulla panchina producendo uno schiocco simile a una tibia che si spacca, poi con l’altra mano afferro l’altra estremità del copione e tirando in due direzioni diverse provoco una lace¬razione dentro la mente. Strappo il copione e lo butto a terra. Guardo ansimante la tappezzeria della mia prigione sfogliarsi e cadere a terra volteggiante come fo¬glie e ramoscelli in un cinque ottobre di trentotto anni fa. Il sole rende ancora più caldo quel bosco adesso meno fitto dove ho perso il

momento giusto. Zitrrunas imibile, con il volto soddisfatto, mi guarda con occhi dolci e molto lentamente dice: -Non si raccoglie?-Cosa?Il copione! -Cosa? Il Copione, sei sordo? -Ma se…-Raccoglilo!Con una sensazione di stanchezza e incredulità mi scopro rassegnato e privo di ogni capacità di ri¬battere. Mi resta soltanto da prendere atto di una verità, e così informo Zitrrunas: -Tu sei pazzo ed io lo sto diventando. Stancamente mi chino allungando il braccio verso i due pezzi di copione poi, non convinto lo rac¬colgo e ancora meno convinto lo apro. Nella pupilla si stampa l’immagine che non pensi di vedere ma che ti aspetti, a volte, quando pensi che qualcosa di strano stia per accadere: lettere, parole, versi, frasi, punti, virgole, punti esclamativi, accenti, apostrofi, sottolineature, miliardi di segni neri, di pensieri chiusi, di punto e a capo. Centi¬naia di pensieri accantonati, di idee perverse, di parentesi. Pause, interlinea, frasi interrogative, con¬giunzioni, preposizioni semplici, articolate, come la mente e la mano che riempie di inchiostro il dito indice per lasciare l’impronta unica. Errori, ripensamenti, cancellatore, sbianchettamenti, segni rossi, verbi e aggettivi. TUTTO! TUTTODOLCEMENTE, come una fonduta di cioccolato, piano piano si scioglie e CON OSTINATA ABNEGAZIONE comincia a colare denso. Lento.

Docile. Determinato. Cola giù dal copione, tra le sue mani nere, incredule, tremanti. Cola sulla panchine, sui pantaloni, giù fino sopra alle scarpe, ricoprendole di liquida notte. COLA a terra in gocce grandi, piccole e medie. Scende in rigagnoli simili a lacrime sporche di fanghiglia e di battaglia. Ricopre completamente scarpe e pan¬taloni fino a fare somigliare le gambe a tronchi bruciati. Cola a terra. Sempre di più. Lentamente. Senza fretta cola a terra e si espande, si allarga, prende spazio, invade, violenta, scorre, sfiora. SI AGGRAPPA al marciapiede e si riversa lunga la strada e la riasfalta. Instancabile prosegue il suo cammino. Attraversa. La ragazza universitaria aspetta. L’inchiostro non si ferma e pare crescere e incresparsi. Lentamente. È meno denso. È sempre scuro. Avanza verso tutte le direzioni. Avanza verso la ragazza universitaria che attende. Le piccole onde d’inchiostro creano una timida schiuma bluastra che lambisce il marciapiede a venti centimetri dalla ragazza. La ragazza guarda un momento il ragazzo ed è proprio il caso di dirlo: questa volta si vedono dav¬vero. Infila la mano destra dentro lo zaino, ne tira fuori un quaderno a quadretti. Strappa un foglio. At¬tentamente. Precisamente. Poi si accovaccia, stende il quaderno sulle gambe e adagia il foglio sopra, poi, lentamente, comincia a piegarlo di qua e di là, più e più volte. La ragazza prende il foglio che ormai non è più un foglio e lo adagia delicatamente sopra l’inchiostro. Stranamente, come strane sono le cose che accadono raramente, il vento decide dove soffiare e l’onda di cambiare, così quel foglio che non è più un foglio, lentamente, arriva dal ragazzo che non è più un ragazzo. Lui Si china e sorride, poi immerge una mano nell’inchiostro e con il palmo aperto solleva la barchetta di carta, dopo guarda la ragazza. Così si china nuovamente e con dol¬cezza posa la barchetta sopra il lago nero. Il mare d’inchiostro comincia a ritirarsi e come spesso accade alle cose ferme, lievemente diventa movimento e soprattutto forza. Il lago continua a indie¬treggiare fino formare una pozza indecifrabile di ato che si muove a mulinello, sempre più forte. La barchetta come un docile ato ne è attratta. Il gorgo la attende paziente e lei mansueta si avvicina per essere presa e restituita ai ricordi di qualche bambino, forse di quell’uomo che non è più un ragazzo ma nemmeno un bimbo. Adesso le pagine bianche aspettano una matita, MORBIDA che riscriva ogni tanto una pagina, o mezza, una riga o meno, una virgola o un accento. Un punto forse può anche bastare.

Vedo la pozza nera diventare più chiara, mischiata a qualcosa di trasparente e salato, cose liquide che solo gli occhi sanno fare e sanno lasciare cadere con maestria dopo lunghe corse sulla pelle e tra le pieghe del viso. Piango e non resisto, quindi piango ancora. La ragazza Dall’altra parte della strada mi sta abbracciando e piange. Zitrunas mi guarda. Però dimmi una cosa: Quello con la moto da cross eri Tu? Il nano ride, io mi giro ma lui non c’è più. Mi stringo le spalle, sorrido, mi alzo in piedi e comincio a camminare. Lei mi aspetta di là. La guardo ma non posso fare a meno di ricordarmi, ancora dei miei ricordi.

Un ricordo.

In una mattina, specialmente adesso, è sempre possibile riconoscere altre mille mattine ate, nell’infanzia o giù di lì, nel fresco e pungente risveglio che il portone di casa, mezzo aperto, regalava ogni mattina lasciando intravvedere il buio che si tingeva di chiaro e quelle nuvole che parevano ancorate a chissà quale colore. Tutto tappato, abbottonato, fasciato, incastrato, con la canottiera dentro le mutande e calzettoni pesanti quanto il freddo, muovevo i incertissimi, diretto verso la scuola che mi attendeva prima ancora delle insegnanti e dei bambini. Una scuola vuota è solo un edificio ma io non lo sapevo ancora. Oggi di tanti anni fa, il bambino stava per affrontare un momento che l’avrebbe segnato per sempre perché per segnare un bambino basta poco ma ci vuole forza. L’adulto di adesso ne porta i segni sconsiderati oppure i vantaggi limitati. Il bambino e l’uomo convivono, ciò non toglie che, nel momento in cui un uomo compie un’azione, proprio nello stesso istante, venti o trent’anni fa, un bambino ne faceva un’altra. Io adulto esco all’aria aperta ancora in ciabatte con tutte queste sensazioni d’infanzia che probabilmente sono strascichi di quello che ho sognato stanotte o perché no, semplici ricordi. Il freddo è detestabile se non sei vestito bene ed io ora lo detesto. Io bambino faccio dei i rapidi verso il cancello con attaccato alle spalle uno zaino di circa dieci chili. Saluto la mia mamma con la mano e mi avvio per la prima volta, con immenso orgoglio da solo, verso la mia scuola media statale Ruffini. Io adulto mi avvicino al pacchetto di sigarette con una mano intorpidita e impreco per aver lasciato l’accendino sopra la scrivania vicino al posacenere d’ardesia che mi ha regalato mio papà quando lavorava nelle costruzioni, non nei lego, ma nelle costruzioni. Io bambino penso che la scuola media sarà una gran cosa, anche se mi è dispiaciuto terribilmente lasciare andare tutti i miei compagni di classe,

soprattutto la mia fidanzata Simona perché mi scriveva delle lettere d’amore e perché alle feste, anche se io ero sempre vestito da Dracula, giocava al gioco della bottiglietta con me. Io adulto leggo il giornale, la prima pagina è di politica e penso che siamo veramente in una situazione disperata, poi leggo qualche affermazione di un ministro alto come Zitrrunas e mi infiammo pensando che esistano persone che pubblicamente possono fare certe affermazioni, poi penso che ormai è finita e che andrà sempre peggio. Io bambino mi fermo a prendere un etto di focaccia e mi ungo le mani, lo zaino, il quaderno, un libro e il cuore che deve sempre essere ben lubrificato. È un ingranaggio importante. Io adulto leggo di morti, feriti, accadimenti terribili ma non mi scongelo, ormai la parte importante del mondo risiede dentro il mio corpo e tutto il resto conta meno, molto meno. Io bambino arrivo a scuola e fuori ci sono tanti altri bambini, alcuni sono molto grandi, avranno tredici anni e ho sentito che c’è qualcuno anche più grande che è stato bocciato. Mi ha sempre fatto pensare alla bocciofila che c’è in piazza dello zerbino dove vado a comprare il gelato questa parola. È bello, guardo tutti, ci sono tante bambine, alcune brutte da fare schifo, altre carine, a me piacciono un po’ tutte. Alle elementari ero io a piacere a tutte ma adesso sono un po’ ingrassato ma il mio amico Ludovico mi ha detto che è un momento dello sviluppo e che poi inizierò a crescere in altezza. Un po’ questo mi preoccupa perché ho paura di svegliarmi una mattina lungo come la pantera rosa ma più scuro. Guarda quello, ha già i baffi! Io non ho neanche un pelo sotto l’ascella. Io adulto mi preparo il caffè. Io bambino entro a scuola. Io adulto m’incazzo pensando a Daniela e a quanta ignoranza può albergare dentro un essere umano seppur di modeste dimensioni se non ridotte. Io bambino rumoreggio insieme con gli altri, riconosco già alcuni, li saluto come i bambini salutano i bambini, con timidezza.

Io adulto esco da casa, incontro gente, ringhio. Io bambino mi siedo, entra uno nuovo mai visto, la maestra lo fa sedere dietro di me, dice come si chiama, mi giro e lo guardo, è più grande, è arrabbiato, ha le unghie cortissime, i denti gialli, è pieno di lentiggini. Lo saluto e lui mi manda a fanculo, capisco che devo iniziare ad avere paura di lui e immagino che qualche merenda finirà nella sua pancia, ormai ho quasi undici anni e queste cose le so. Io adulto prendo lo scooter, più che altro ci salgo sopra e lo accendo, lo spingo accelerando giù per discesa, disegno traiettorie da ubriaco e arrivo al lavoro. Io bambino ho finalmente davanti a me quello che avevo sempre visto fare dalle mie sorelle, ho un protocollo con le righe da adulto, dove sopra devo scrivere “tema” e poi “svolgimento” e poi tutto quello che penso. Modestamente quando facevo le scuole elementari ero proprio un asso dei dettati e dei pensieri, non credo che avrò difficoltà. Daniele, il bambino che mi ha mandato a fanculo, mi da un pizzicotto nell’orecchio, per il gesto improvviso e il dolore mi parte un urlo. La professoressa si arrabbia, io protesto perché ho il senso della giustizia, lei si arrabbia ancora di più e si alza, per modo di dire, sarebbe meglio affermare che scende dalla sedia. Si avvicina al banco, mi guarda negli occhi perché è alta come me e mi chiede il diario. NO, il diario no, dopo una settimana appena. Diario. Nota. Quel che è peggio è che adesso io sono il bambino pestifero, irrequieto, disattento che lei voleva o credeva che fossi. Io adulto non sopporto, chi guida male, guida piano, va veloce, chi posteggia, bene o male. Non sopporto le donne indecise, il jazz, i bambini rumorosi, quelli che fanno domande, quelli che non capiscono che non hai voglia di parlare, di stare li, di vederli. Non sopporto i provinciali, quelli che usano i proverbi per esprimere concetti, quelli che usano i proverbi per farti credere di essere saggi, i vecchietti che guardano gli scavi dei lavori, quelli che non ti fanno parlare, quelli che qualsiasi cosa tu dica non gliene frega niente, quelli che si fingono interessati a te. Non sopporto gli alternativi, quelli che comprano l’unità e vanno

nei centri sociali ma poi affittano la loro casa di proprietà in nero a dei poveracci. Non sopporto i posti alla moda, i posti affollati, i posti vuoti. Io bambino ho un posto vuoto davanti e la mia compagna di banco sembra una bambina uscita da un mulino olandese, è tutta rossa con miliardi di lentiggini di ogni dimensione, i suoi rossi capelli terminano in grandi trecce che le scendono fino a metà schiena, gli occhietti sono simili a quelli dei maiali che ho trovato nelle figurine della natura ma, molto più chiari. Non è antipatica, ma è vestita con giacchette verdi o rosse o scozzesi con enormi bottoni lavorati che sembrano sesterzi d’argento, ma la cosa incredibile è il suo sedere: alto e tondo, sembra il deretano delle vespe ma senza pungiglione. Glielo guardo sempre. Io adulto odio i difetti di tutti, i miei compresi, forse i miei più degli altri. Io bambino comincio a scrivere il mio tema che, ne sono sicuro, sarà un successo. Io adulto continuo a scrivere la mia vita, stancamente, come se ne valesse la pena, come se interessasse a qualcuno. Io bambino leggo il titolo del tema, è un titolo così e così, anzi fa un po’ schifo: descrivi la tua famiglia, pregi e difetti. Va beh, non sarà bello ma nemmeno tanto difficile. Io adulto leggo il titolo della mia vita, tutti i giorni e non mi piace. Io bambino attingo dalla memoria. Guardo le immagini che ho della mia famiglia nella mente, quello che fanno, come vivono, mi accorgo che non è semplice descrivere la mamma, il papà e le sorelle senza essere noioso. Decido di fare a modo mio e ci metto la fantasia per non fare una cosa da buttarsi sotto un camion. M’invento i mestieri, il numero delle sorelle, ci metto due fratelli gemelli morti prima di nascere, un padre dentista che è diventato pompiere e fa salvataggi estremi in alta quota, una mamma in carriera ma sempre pronta a prendere in braccio i bambini. Cani gatti serpenti, una casa con l’ascensore interno e venti stanze, tre bagni, un parco giochi, una pista per go Cart e macchine di ogni tipo. Descrivo la mia piscina. Parlo di viaggi. Disegno a parole la mia moto facendo finta di aspettare solo la patente. Devo dire la verità: ci ho messo anche il super potere di leggere la mente degli altri e quello dei raggi x che ho visto dietro un giornalino dove le donne stanno con le tette di fuori.

Un capolavoro d’ingegneria letteraria. Aspettavo solo che quel ghigno nella bocca della professoressa diventasse un sorriso benevolo mentre mi riconsegnava il tema con un ottimo in rosso. Io adulto credo che certe persone non aspettino altro che rovinare nel modo che credono più consono, gli altri e a volte loro stessi. Io bambino impregno d’idee, fantasia e cuore i protocolli. Parola dopo parola, parola. Dopo. Parola. Con la mia penna con tutti quei colori non perdo neanche tempo a togliere il tappo. È una penna bellissima e l’ho usata per il primo tema delle medie, in effetti, questo doveva essere il titolo secondo me: il mio primo tema delle medie. Oppure: il sedere della mia compagna davanti. Ecco due titoli belli. Io adulto parcheggio lo scooter, e m’infilo dentro un bar, lo specchio enorme dietro il bancone mi fa credere di essere dentro un luogo molto più grande. Prendo un caffè e un pezzo di focaccia non in quest’ordine. Alzo gli occhi. Che schifo. Io bambino consegno DUE protocolli con otto facciate a righe tutte piene di inchiostro nero, nessun errore di ortografia e una famiglia che nemmeno il mulino bianco poteva sperare di avere a fare colazione. Sono lucente da quanto sono felice. Vado alla cattedra prima dei miei compagni e sono talmente felice che quella piccola professoressa mi sembra più simpatica e anche un po’ più alta. Io adulto esco e m’incammino. Io bambino aspetto un cenno. Il cenno non arriva ma arriva la voce: - consegni già? Dico di si: - Sì.Io adulto metto le mani in tasca Io bambino non capisco cosa succede.

Io adulto penso che forse avrei dovuto restare a letto. Io bambino aspetto perché ha iniziato a correggerlo all’istante, lì davanti a me. Sono emozionato, non sta segnando nulla, niente di niente, nessun errore, nemmeno un segno, ne con la penna rossa ne con la penna nera. Legge e non scrive. Ogni tanto tira su gli occhi e mi guarda. Starà pensando: - caspita! Accidenti che tema ragazzi. Una fantasia così non l’avevo mai vista in trent’anni di carriera. Sono commossa. E che stile! Io adulto mi accendo una sigaretta e aspetto che scenda. Io bambino aspetto Io adulto sono davanti alla scuola. Io bambino guardo finalmente mettere il voto alla fine del tema preceduto da una breve frase. Accetto il foglio con orgoglio. Lei mi guarda in faccia e scuote la testa con l’aria di chi è rimasta delusa. Io guardo il foglio. Lei mi guarda con la testa un po’ inclinata e gli occhialetti sulla punta del naso. La guardo. Guardo il foglio. La riguardo. Guardo ancora il foglio e leggo: completamente fuori tema. ESTREMAMENTE INSUFFICIENTE. Non riesco a dire nulla, rimango con il foglio tremante tra le mani tremanti, guardando con gli occhi instabili il giudizio fermo come una cicatrice impresso su un bel viso. Mi viene da piangere e scappare via. Io adulto aspetto.

Io bambino attendo che suoni la campana seduto con le mani sulle gambe e le lacrime appese agli occhi. DRIIIIINNNN. Campana. Mi alzo. Mi giro verso la professoressa. La guardo. Mi guarda mentre le o davanti. SGUARDO ARROGANTE. Mi dice: prendi esempio dai tuoi compagni. Io la guardo. Ci penso. Guardo a terra. La guardo di nuovo. -No. Mi dispiace.Mi giro. Le gambe non sono morbide, la tensione le ha inspessite. Faccio il corridoio. Destra. Sinistra. Scendo le scale. Io adulto vedo i bambini che iniziano a uscire. Io bambino esco dalla scuola.

Io adulto vedo io bambino uscire da scuola e capisco che qualcosa è andato storto. -Com’è andata?-ho preso insufficiente.SILENZIO -Perché?PAUSA -perché ho usato la fantasia.SORRISO -Allora è andata bene.SILENZIO -Davvero? Perchè?SORRISO -La fantasia.SGUARDO INDAGATORE -La fantasia cosa?SOPRACCIGLIO ALZATO -Hai usato la fantasia NO?PAUSA -Si! E va bene?CENNO CON LA TESTA

-Si, va bene.SGUARDO DRITTO E ORGOGLIOSO -Ok.MANO SULLE SPALLE -Tra due anni incontrerai una donna, una professoressa diversa da questa, una persona che vedrà di più.. Ti dirà che dovresti scrivere romanzi. DUE BATTITI DI CUORE AL POSTO DI UNO Davvero?CENNO CON LA TESTA -Sì!SGUARDO DRITTO E ORGOGLIOSO -Ok.SGUARDO INDAGATORE -come fai a saperlo?SORRISO PAUSA SIGARETTA FUMO BOCCATA NUVOLA DI FUMO SORRISO

-Fidati, io sono adulto.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e diciotto. Ivan e la ragazza universitaria. Inconscio, la mente nel cassetto.

Il vento inizia a farsi fastidioso, quasi oltraggioso mi spinge e mi schiaffeggia, forse vuole svegliarmi o forse vuole solo are attraverso i miei pensieri. Sono molto più vicino del previsto a vestire i panni della persona che si lascia attraversare dal vento e dai sentimenti più di quanto abbia mai pensato o fatto nella mia vita mortale. In mezzo a me e tra me e lei iniziano a diventare visibili le pecche di questa storia che non si scongela e non si scioglie neanche con il fiato caldo della mia paura o la sciarpa della madre con tutti i colori del mondo. Il nano è ato poco fa bofonchiando qualcosa sul fronte nazionale di liberazione nani da giardino insinuando dentro di me il forte dubbio che davvero Zitrrunas possa essere il mio nano da giardino che prende vita quando sono assente. Comunque sono davanti alla persona che scende con me le scale dello stesso palazzo da anni e che, da anni mi sfiora la mente ma mai mi ha toccato una mano. La situazione si complica e si risolve ogni minuto e tutto potrebbe accadere, tutto potrebbe essere vicino o lontano, solo il tempo continua invariabile e, invariabilmente cammina su e giù per il viale, come un nevrotico uomo in attesa del parto della moglie.

La ragazza si siede. È possibile? Perché lo fa? Si siede perché è stanca, l’attesa è lunga, il cuore ha già dato tanto oggi, stasera, la settimana scorsa, i mesi ati. Negli anni, nei molto pochi anni, nei molti numerosi dispersi attimi, ha dato tanto che a volte ci sarebbe voluto un cuore in più a battere insieme.

Ma dove si siede? Lì, dove non c’è più spazio.

Io resto in piedi.

Dietro di me Zitrrunas mi guarda In lontananza un brusio di voci si avvicina, sempre più forte, sempre più bello e brutto, familiare. Un’accozzaglia di affetti, di odori, colori e potenti vibrazioni, ombre e scheletri che s’incamminano verso la destinazione di sempre, dentro la mia mente che spesso non ce la fa a tenerseli dentro tutto. Arrivano parlando del più e del meno, facendo finta di niente, come amici che se ne vanno al rinfresco dopo il battesimo, con la voglia di bere e mangiare e di scrollarsi da dosso un’ora di rompimento di palle. Arrivano tutti, arriva mia madre con un enorme strascico di insicurezza, mio padre con un sacco pieno di modi bruschi, ruvidi. Arrivano gli amici di sempre. Arriva Daria la ragazzina che da piccolo chiamavamo latteria per via delle sue enormi tette. Arriva mio nonno tremante e con la sigaretta in mano, un morbo di morte e la barba incolta. Arrivano le mie sorelle con le loro distanze e i loro grandi cedimenti. Arriva mio cognato, mio nipote con i suoi grandi occhi, i miei compagni di scuola , tutti tranne Massimiliano assente giustificato causa morte. Arriva Simona, la mia prima fidanzatina delle elementari con la lettera d’amore che mi aveva scritto a San Geminiano in gita. Arriva Alessandro in bicicletta, arriva Ludovico con il suo borsello con scritto “borsello di Ludovico Dante”, arriva Antonio il socio di mio papà che è uomo straordinario perché io l’ho fatto diventare così. Arrivano le mie ex fidanzate, arriva Mauro in moto, Maddalena, Claudio, arrivano i bambini del campetto, la padrona della Latteria, arriva quella dell’edicola, la signora dell’erboristeria che mi regalava le zollette di zucchero e il suo Collie che mi regalava non meno dolci leccate. Arrivano i treni con la pioggia e le nuvole con il vapore di paura. Arriva Giovanni con l’amico, arriva Mariangela, la mia seconda mamma e arriva, purtroppo, il ragazzo delle

ripetizioni di se. Arriva Carmelo con l’avvelenata di Guccini dentro la chitarra e chissà se è diventato medico. Arriva Marcovaldo con le sue stagioni e il ricordo di Calvino, arriva la neve che tutto nasconde.. Arrivano il tempo della vita, la sofferenza, la consapevolezza, la gioia. Arriva l’ex marito di mia sorella con il cane e arriva il cane da solo. Arrivano le castagne, l’autunno e le sconfitte e il mio professore di italiano, la mia professoressa di geografia e suo figlio. Arrivano quelli del bar, gli amici della piazza, arrivano i dirigenti scolastici, i fogli e la burocrazia, arriva la fantasia seguita dalla pazzia, arriva il tatuatore di vico del fieno, il fiume di inchiostro, le poesie, il pecorino fresco. Arriva Andrea e suo figlio che hanno quasi la stessa età. Arriva sca con il veleno nel corpo e finalmente arriva la birra a fiumi e buona. Arrivano pullman interi pieni di considerazioni da fare e macchinate di considerazioni già fatte. Arrivano il mago Nik lik, la sua puglia e i suoi grembiuli bianchi. Ecco la Spagna, la Francia, la fidanzata di Gianni, il ricordo. Arriva un filo d’erba che lega un filo di lana che lega un filo di seta che lega un filo di cielo che lega una notte che sta arrivando ma, non è la notte di adesso, è la notte di quella notte sotto i pioppi quando dormivamo tutti e poi, tutti abbiamo aspettato che fosse il momento. Nessuno ha mai capito per cosa ma. Saluto tutti con un inchino e mi giro, rispettoso del ato quanto stufo. Lei si alza Io mi siedo

A volte è un ricordo, anche di pochi secondi, apparentemente poco importante a rimanerci nelle vene, in circolo, per tutta la vita; non sai cosa ci sia di importante, non capisci che cosa sia e non sai cosa voglia dire e nemmeno sai perché torni alla mente adesso mentre lei si alza e io mi siedo; sai solo che è così, fa parte di te ed è importante, sai solo che ti servirà, più avanti c’è un’illusione che aspetta.

Un altro ricordo. Ti ricordi Daniele?

Macchine che scorrono più veloci dei i lenti della gente. Io la gente la supero sempre, al volo, scarto di lato e, come se niente fosse me la lascio dietro e dietro resta finché non incontro qualcuno che mi precede. Testa bassa, tengo la testa bassa perché guardo solo i piedi, solo loro sanno dove sto andando e io mi fido dei miei piedi perché non mi hanno mai tradito. Le mie scarpe mi piacciono e vestono perfettamente le mie care estremità inferiori, quando corro le guardo andare su e giù davanti al mio corpo e cerco di vedere i particolari, le cuciture, il colore, poi guardo un po’ più in su e vedo l’asfalto che scorre e se lo fisso mi sembra di andare davvero veloce. Con la coda dell’occhio guardo anche un po’ più in alto altrimenti rischio di schiantarmi contro qualcuno o qualcosa. Le mie scarpe mi piacciono perché le sento morbide, sono soffici e ammortizzano la mia falcata, non che sia una grande falcata, c’è di meglio, ma tanto basta per correre ad una velocità ragionevole che è quella che fa per me. Sì, non ho una gran falcata ma il mio forte è la distanza, la costanza, il o, il fondo, non il mezzofondo ma proprio il fondo. Io arrivo sempre in fondo, qualsiasi sia. I miei piedi non hanno mai abbandonato una corsa e non hanno mai ceduto. Io nemmeno. Io arrivo sempre in fondo. Macchine, alberi, ringhiere, persone, gatti, cani, eggini, buchi marciapiedi, discese, salite, scale, scalini, dislivelli, angoli, palazzi, semafori, svolte e nessuno stop. Io non mi fermo. Zaino in spalla e non mi fermo se non quando arrivo dove devo arrivare, e anche quando mi fermo mi muovo, non si può stare fermi, è certamente pericoloso. Zaino in spalla, pioggia o sole arrivo dove devo arrivare e corro senza pensare, tanto lo so già dove vado e quando memorizzo la meta io ci arrivo. I miei piedi, un o dopo l’altro macinano metri e chilometri, migliaia di pietroline d’asfalto sotto le mie suole e la mia suola che si assottiglia sopra l’asfalto. Tanto ho venticinque paia di scarpe e le metto tutte, cioè non tutte assieme, non sono un polpo, ma in base al percorso scelgo le scarpe e considero torsione, rigidità, robustezza, altezza della suola, altezza della tomaia, comodità, leggerezza, impermeabilità, lacci o stringhe, contenimento del collo, grip, suola da asfalto,

sterrato fine, sterrato grosso, pietre, sampietrini, lastricato, pendenza della strada, del colore non me ne frega niente, lo zaino è sempre quello grosso. Parto presto perché non dormo molto, non riesco, mi muovo nel sonno, mi muovo tanto che mi sveglio, faccio fatica ad addormentarmi. Mi ricarico subito, poche ore e le gambe sono pronte, i piedi non tanto, a volte mi è capitato di perdere le unghie o di avere infezioni per le vesciche ma tutto si cura basta non fermarsi, fermarsi è pericolosissimo, può accadere ogni cosa, e non basta camminare, camminare non basta proprio, bisogna correre e correre sempre, costantemente, tenere il o e testa bassa, zaino in spalla scarpe adatte e correre. Mi chiamo Daniele e ho undici vite, io le chiamo così ma voi direste anni, io le chiamo vite perché ogni anno festeggio una cosa che spero che sia una nuova vita, perché a parte la corsa non è che sia tanto felice, cioè sono in salute ma non mi sento bene, se sto fermo. Penso che intendiate quello che voglio dire, comunque quando corro, sono nelle mie corde e suono la mia sinfonia e sentire quell’aria sulla faccia mi fa sentire come uno che va incontro a qualcosa di bello o comunque di eccitante perché camminare non basta proprio, mi serve aria, bisogna correre e correre, sempre, costantemente, tenere il o e testa bassa, zaino in spalla scarpe adatte e correre. Questo bisogna fare per sentire che tutto va bene. In fondo si corre sempre per raggiungere qualcosa no? Che sia paura o gioia si corre sempre verso una meta mentre quando cammini contempli, guardi, ti giri, ti fermi, ti ricordi di qualcosa, pensi, saluti o guardi una vetrina. Io spengo la mente accendo il satellitare e corro dove devo andare e sento quel vento sulla faccia che mi fa pensare che sto andando in un posto con delle cose belle dentro, poi arrivo e magari non è così, anzi non è quasi mai così, però poi posso correre ancora e riprovarci. Mi chiamo Daniele, ho undici vite ma ho già dei baffi da tricheco. Ecco se dovessi cambiare qualcosa di me, vorrei arrestare questo apparentemente incontrollabile processo di cambiamento che mi sta facendo crescere tutti questi peli che tra l’altro mi danno fastidio quando corro. Dicono che sia un problema ormonale, lo stesso che mi ha lasciato po’ più basso della media dei miei coetanei. Sapete che vi dico? Che camminare non basta proprio, bisogna correre

e, correre sempre, costantemente, tenere il o e testa bassa, zaino in spalla scarpe adatte e correre. Solo così possiamo scansare tutto e non sto parlando solo di persone, cose o animali, possiamo andarcene via lasciarci alle spalle tutto, un fiume, la pioggia, possiamo andare velocemente dove dobbiamo andare, avere più tempo, avere più posti, più posto. Credete che non le senta le risate della gente, i miei compagni, i genitori, persino il nonno vigile, quel bastardo di nonno vigile che mi prende in giro? “Pietro Mennea mi chiama”. Tutti mi prendono in giro solo perché faccio quello che loro non sono capaci di fare e, forse è così, ma corro più di chiunque altro. Nessuno può starmi dietro nel fondo, quello che uno sportivo fa cinque volte l’anno io lo faccio tutti i giorni e tutti i giorni io vinco qualcosa perché scommetto su di me e ogni giorno mi supero, tutti possono superarmi ma nessuno può starmi dietro perché io corro davvero. Daniele io l’ho visto. a tra le vie le salite, le piazze di questa città, zaino in spalla e testa inclinata sempre nello stesso modo, sempre uguale il o, lo sguardo e il movimento delle mani. Sempre diverse le scarpe. Un o deciso, medio veloce, cadenzato da esperto, in perfetto controllo delle energie, del movimento, dell’andatura che ogni giorno lo porta via dal pericolo per restituirlo a un altro pericolo da cui scappare, in perfetto equilibrio tra la paura e la salvezza. Daniele io l’ho visto, sui marciapiedi, agli incroci, nelle lunghe discese di questa città, sguardo fisso, testa ferma, occhi concentrati, mascella solida, solito o, solito grande zaino. Scarpe diverse. Io Daniele l’ho visto una volta, sull’autobus, sul trentaquattro, di sera, con l’asfalto bagnato che proiettava luci colorate di semafori e insegne. È salito di corsa con il suo zaino, i suoi baffi sottili e lunghi, da ragazzino, l’ho guardato, lui si è seduto vicino a me, tre fermate prima della mia, trecento metri prima della notte. Mi ha guardato e il suo sguardo era qualcosa d’impossibile. È proprio vero che uno sguardo che corre, quando si ferma, è stanco davvero. Mi ha guardato ancora e si è girato verso il finestrino, giusto in tempo per permettere agli occhi di piangere tutte le lacrime della giornata. Ho capito perché corri Daniele. L’ho capito.

Ancora ricordi. Natale 1983. Sera.

Senti come non si sente cadere la neve neanche ad ascoltare attentamente, se non fosse che la stiamo vedendo cadere direi che non sta nemmeno nevicando, senti come non cade? Lei non mi rispondeva perché forse non capiva molto bene quello che stavo dicendo, a causa di banali problemi di comprensione, comunque forse è ora di rimettere a posto la renna di babbo natale. La mensola la accoglie con gioia e la neve continua a restare appesa a questo cielo che ora si è fatto un po’ più scuro o un po’ più chiaro, dipende come lo guardi. La mia finestra dà sopra una piccola e decrepita legnaia di mattoni scalcinati, dove mio padre ha costruito un’enorme voliera per canarini. Belli i canarini, simpatici, tutti allegri e colorati, una gioia per la vista ma uno strazio alle prime ore del mattino, quando tutti, contemporaneamente, cominciano il loro piccolo concerto. Mi sono abituato, non credevo ma mi sono abituato. Guarda la neve si sta fermando. Si ferma perché non c’è verso che vada più giù del suolo, non c’è proprio verso, allora si ferma e cresce in motti e avvolge tutto quello che trova e lo fa sembrare tutto uguale e senza forma e se ne viene davvero tanta se le inghiotte le cose e spariscono, io lo so dove sono ma non le vedo più. Aspetto mio papà perché è l’unico che non è in casa perché è l’unico che lavora, perché non lo so. Tutti in casa pensano che io creda ancora a babbo natale ma ormai ho sette anni e non me la sento più di credere ad una persona che dovrebbe are per un comignolo grosso come un tubo dell’acqua anche se ho sette anni ho una dignità. Fuori c’è un gran silenzio e la neve continua a cadere. Nel mio giardino sta calando il buio. Io aspetto che mio padre rientri, anche se oggi sarebbe la prima volta.

L’ultima volta mi sono addormentato alla finestra e ho sognato i piccoli aiutanti di babbo natale che mi portavano a mangiare il gelato in Lapponia, è stato troppo divertente, poi da lì ho continuato a fare quei sogni tutte le notti e ho anche iniziato a ingrassare terribilmente allora la mamma ha deciso di portarmi da una dottoressa che legge il pensiero solo che nel mio evidentemente c’era scritto poco perché ha detto che non capiva. Poi dopo qualche giorno ho iniziato a vederli anche di giorno, almeno questo è quello che ho detto alla mamma perché vedevo che si preoccupava e quando si preoccupa mi sta più vicino. Papà invece in quel periodo non c’era proprio era a lavorare; queste sue assenze iniziavano a preoccuparmi ma stavo ad aspettare. Un giorno stavo alla finestra a guardare fuori, ormai la neve aveva lasciato il posto a cumuli di nero smog. Niente è più triste della neve sporca. Comunque quel giorno mi sono reso tragicamente conto che i canarini di mio papà stavano morendo per il freddo e forse perché anche a loro mancava mio papà. Mi è venuta una grande tristezza e allora sono uscito in giardino per fare qualcosa che me la fe are, mi sono diretto verso la casetta scalcinata e mi sentivo un bambino che va dentro una voliera in cerca di solidarietà anche se non so bene cosa sia, comunque sono entrato. Non era la prima volta ma lo sembrava. Il profumo di semini e pastoncino era forte e misto all’odore della cacca dei pennuti colorati che era davvero tanta. Secondo me un canarino fa più cacca di un neonato e, forse anche di un bambino più grande.. Fanno cacca continuamente, mentre mangiano, mentre dormono, mentre volano. Cagano sempre. Infilati tra la rete della voliera, c’erano le ossa di seppia che servono per mantenere sano il becco e, negli scaffali, belle in ordine, medicine, sciroppini, polveri, colle, abbeveratoi e una trappola per i topi che non facevano altro che tentare di rapinare il deposito di semini. Ogni canarino aveva alla caviglia un piccolo anellino con un numero di serie, forse erano canarini carcerati. La luce stava calando e i piccoli esserini colorati si preparavano a usare se stessi come trapunta, infilando quella piccola testolina pelosa di candide pennine gialle tra le spallucce che lasciavano soltanto intravedere un beccuccio che ti faceva capire che lì c’era la testa. Erano tanto teneri ma a me, invece che are la tristezza mi è aumentata ancora un po’, e per poco non mi metto a piangere. Mentre sto per uscire, uno dei canarini vola verso di me mentre gli altri stavano per accoccolarsi sui loro

legnetti. “Ehi, ma che fai? Non ti metterai mica a piangere” I miei occhi avrebbero potuto tranquillamente contenere quel canarino, spalancati e increduli indagavano quell’essere a dir poco irregolare che insinuava in me il dubbio di una follia sbocciata adesso. “Coraggio, vai a casa e mettiti alla finestra, qualcosa succederà”. Le mie gambe tentavano lentamente di muovere il busto nella direzione della porta mentre il pennuto parlante ritornava a mettersi al suo posto, i miei occhi non riuscivano a distogliersi dal becco di quell’uccellino che adesso appariva completamente inanimato. La mano cerca la maniglia ma gira dalla parte sbagliata, la porta lascia andare un momento allucinato per restituire un giardino normale nella periferia di un posto poco importante dove un bambino di sette anni ha appena sentito parlare un canarino che gli ha detto di non piangere e di andare alla finestra. Perché non farlo? Ivan va alla finestra e ci rimane fino a quando non sente più le dita della mano, ma poi pensa “che stupido le dita delle mani non parlano”. Aspettando alla finestra qualcosa è successo, sono ati i giorni le stagioni, gli anni e mio padre non è mai tornato. Oggi la neve è più silenziosa perché è Natale ed io la guardo dalla finestra aspettando che succeda qualcosa che ancora non è successo. Vicino a una grossa calla spuntano tre nani da giardino, uno ha gli occhiali e i capelli castani, una è una donna vestita come una mondina con la faccia che appare imbarazzata, forse per le guancette rosse. Accanto alla donna c’è un nano anziano con i capelli e la barba lunga, un buffo cappello in testa e una zappa in mano, anche se a dir la verità non ha la faccia da lavoratore. Credo che stia importunando la timida nana che ha vicino. Sono carini tutti e tre sotto quella calla, a pensarci bene non l’avevo mai notato quello barbuto, ero quasi certo che i nani fossero due e non tre. Distolgo lo sguardo e ricerco qualcosa fuori da quella maledetta finestra che mi

faccia sentire che è Natale, anche se adesso mi sembra piuttosto un folle squarcio in qualcosa che non c’è. Il cielo è veramente stellato oggi però quel terzo nano. Do ancora un’occhiata. Sparito! Lo sguardo ricerca come un segugio il nano intruso che non è più dove l’avevo visto, mentre inizio a pensare di non essere in salute, esco in giardino, accendo la luce, niente nano, niente impronta, niente di niente. Giro su me stesso e svengo. Il risveglio non è dei migliori se si pensa che la prima cosa che vedo è un nano da giardino in carne e ossa che mi tiene su le gambe, per quanto la sua modesta altezza gli consenta di alzarle molto poco. -Tutto bene? Mi farai morire temo.Mi dice con aria preoccupata. Io vorrei pronunciare delle parole dire qualcosa ma il pensiero che un nano da giardino si sia materializzato davanti e mi stia tenendo sollevate le gambe mi fa desistere dal chiedere spiegazioni, solo riesco a dire: -nano da giardino?Lui molla immediatamente le mie gambe facendomi sbattere i talloni a terra. Come ti permetti? Maleducato, io sono una persona di modeste dimensioni non un nano da giardino.-Ma tu, la calla, gli altri nani, la zappa.-Senti stai farfugliando, calmati adesso, sono venuto per dirti una cosa molto importante, è essenziale che tu stia a sentire.Io lo guardo e mi sento ammorbidire i legamenti e i muscoli, ha gli occhi così limpidi che non potrei dire di no e mi sento calmo e allora non dico di no. -Ok ti ascolto. Lui si siede a terra.

-Bambino mio ci sono cose che sono diverse da come sembrano, anche se sembrano convincenti, anche e soprattutto se fanno comodo. Subito mi scappa una domanda. -Cosa vuoi dire?-Voglio dire che non tutto quello che credi di pensare è quello che vuoi veramente, a volte pensi di avere voglia di soppressata e invece quello che vorresti è una carezza.- Soppressata?-È solo un esempio, asino! Un giorno tu ti troverai di fronte una donna e avrai paura-. E poi?-E poi nulla, ti avvertivo.-Bene devo andare Ivan, devo proprio andare e ricordati sempre la soppressata. Il Nano si allontana ridendo come un pazzo ripetendo soppressata io mi sveglio di colpo. Hanno suonato alla porta, è papà che ritorna dal lavoro. Chiudo la finestra e guardo il davanzale, leggera si posa una piuma, le stelle sono tante questa sera di questo natale mai esistito.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e venti. Ivan e la ragazza universitaria.

Mi tornano in mente l’ultima porta chiusa e l’ultima mano stretta. Non sono sicuro che la mia mente mi stia portando dove vuole lei, ma la sensazione è questa. Mi alzo Lei si siede. Guardo un istante l’ora e mi viene in mente una canzone senza note. Nei tasti neri e bianchi ci sono le melodie e tutte le note che vuoi, se le vuoi. Sono quasi stufo. Lei si alza Io mi avvicino. o dopo o mi convinco e mi accorgo che riesco a vedere i suoi colori, mi giro come aspettandomi qualcuno che mi dica di restare ma non c’è nessuno, solo Zitrrunas che è in piedi sulla panchina e fa di si con la testa, vedo anche le sue labbra che dicono: -Vai cretino.In quel momento mi ricordo di quel Natale e di quel nano da giardino, mi giro verso Zitrrunas ma lui è lì che muove la testa facendo no col capo, poi estrae un foglio e lo apre: non sono un nano da giardino! Io rinuncio a capire. Mi rigiro verso la ragazza che si apre come un bocciolo carico di petali, gocce, vento e sole. Piena di stupore piega la testa indietro come a cercare l’aria tagliente che si sta muovendo tra me e lei con gli occhi pronti ad accogliere gesti mai sperati. I cuori scandiscono, secondo dopo secondo, una remota possibilità che si sta plasmando attorno a quei piedi che diventano rami e smettono di essere radici. Le sue dita sono frasche dolci di ciliegio ed io le vedo salire verso me e fiorire davanti agli occhi increduli della mia coscienza mentre i suoi piedi fremono e vibrano come sveglie. Il respiro sale dai talloni per invadere il corpo e sollevarlo tutto sopra i sassolini di asfalto neri e opachi. Sopra il grigio.

Mi sento così piantato a terra che mi sento quercia, ma la mia mente si volatilizza per tornare in gocce di fremente eccitazione nebulizzata che invade l’aria e si appiccica e si attacca e si fa subito collante con la sua e la mia pelle ed entra nei tessuti e nelle vene e le apre per invadere tutto come una marea di sentimenti travolgenti e dirompenti al limite della morte e della vita. Un’emozione fisica e muscolare, viscerale e sfuggente che esplode nel cervello, l’attesa snerva la mente e tutto quello che pensavo dell’attesa, si rivela vero e insistente. Devo andare e senza lasciare indietro tutti i ricordi e Zitrrunas che sono dentro di me sempre. Mi avvicino, mi chiedo cosa succede. Nel Natale del 1983 Ivan sapeva già che si sarebbe trovato davanti ad una donna con una grossa indecisione nel cuore ma perché mai dovrebbe essere indeciso se quella donna non fe già parte della sua vita. Non è possibile che un uomo e una donna incrociando il loro sguardo incrocino perdutamente il loro destino come un enorme rampicante che non può essere tagliato? Forse si conoscevano? Ad ogni modo l’uomo e la donna si sentono comunque soli e soprattutto riconoscono, forse e adesso, nell’altro la persona che può comprendere quel dolore. Adesso eravamo l’uno davanti all’altro, potevo benissimo vedere il colore dei capelli e le forme degli occhi, il mento gli zigomi e le sbavature di matita verde colata dagli occhi e ormai secca. Vedevo perfettamente il neo sopra il labbro e la spalla sinistra leggermente più bassa della destra, potevo guardare il suo naso leggermente in su ma non riuscivo a vedere le orecchie che si riparavano dietro i capelli. In un secondo uno sguardo involontario e fuggiasco si posa rapido appena sotto il collo della ragazza che è contornato da un laccio di cuoio scuro che doveva avere molti anni, alle estremità dei laccetti, annodate, due piccole catenelle di metallo opaco e certamente vecchio, le due estremità delle catenelle sorreggevano un grosso pendaglio che in un attimo mi ha fatto tremare di stupore. In un momento tutto il sangue che avevo in corpo si è diretto verso il cuore per sostenere un possibile tracollo, sentivo dentro il petto come dei pugni, come se qualcuno volesse uscire mentre invece cercavano solo di entrare,

continuavo a guardare quel medaglione senza riuscire a distogliere lo sguardo neanche fosse colla per il cuoio. I ricordi ricominciavano ancora a risalire verso la fonte e sprigionarsi dentro la mia mente che faceva impossibili collegamenti. Istintivamente il mio piede destro indietreggia di mezzo o creando negli occhi della ragazza un dubbio di perdita, una possibilità di fine, una certezza di paura. I suoi occhi che non capiscono, non avrebbero accettato un altro mezzo o indietro. Senza che la sua mente sapesse quello che la mano stava facendo, la tasca dei jeans di lui si accorse che stava per essere violata dalla mano che cercava la spiegazione di tutto. La mano cercava e annaspava nella cavità di stoffa indagando tra le cose e le cuciture, la presenza di un oggetto che avrebbe risvegliato gli occhi degli amanti con una scossa di stupore. Le dita frenetiche raggiungono con non poca difficoltà l’oggetto che s’incastra tra monete chiavi e fazzoletti per poi donare al palmo l’incarico di sostenere l’oggetto, adesso le dita si chiudono delicatamente come carta da regalo attorno all’oggetto che ora può essere estratto dalla tasca e donato alla luce. La ragazza guarda incuriosita i gesti del ragazzo trasandato che si domanda come reagirà. Mentre estrae l’oggetto, tutto il corpo è percosso da brividi e forse sta capendo cosa succede. La sua mano esce lentamente dalla tasca. La mano è chiusa, tremante, gonfia di vene , robusta e contiene una cosa. Gli occhi della ragazza sono pronti sono capienti sono tremanti e contengono cose. Si guardano negli occhi. Sembrano consapevoli che una verità si sta mangiando via le pellicine della mente per ripulire i pensieri dalle acrobazie. Mentre continuano a guardarsi negli occhi, lui apre la mano che cela quello che non avrebbe mai pensato di celare. La mano si schiude come un fiore e loro sono occhi negli occhi.

La mano è aperta e loro sono occhi negli occhi. Lei ha capito cosa tiene in mano il ragazzo trasandato e sa che è lo stesso oggetto che lei ha al collo. Lei non guarda nemmeno. Lui non guarda neanche e a bassa voce dice in un sussurro che regala un soffio: “Ciao Helena.” Lei guarda i suoi occhi senza stupore e con voce fioca vorrebbe dire: “Come sai il mio nome”? Invece dice: “Ciao Ivan.”

Un anno prima. 20 SETTEMBRE 2008. Un racconto.

Il trentaquattro viaggiava dritto dritto verso la sua consueta meta, L’ora primo pomeridiana lasciava alla mia mente un po’ di pace mentre gli sciami di bambini delle scuole medie iniziavano a pranzare maledicendo i compiti che la professoressa di matematica gli aveva regalato per domani. I finestrini cominciavano ad appannarsi e anche la mia mente non reagiva bene alle nebbie naturali che parzialmente celavano il paesaggio fuori dalle porte idrauliche e dalle guarnizioni di gomma a tenuta d’acqua e freddo. Circa dieci persone sopra l’autobus impersonavano il loro ruolo di eggeri seguendo alla lettera il regolamento del eggero: stare seduto, stare in piedi, alzarsi e sedersi, guardarsi intorno, guardare il cellulare, prenotare la fermata, lamentarsi della guida dell’autista, scendere alla fermata sbagliata, scendere alla fermata giusta, rimanere impigliati nella porta, ascoltare la musica, addormentarsi e qualche volta sognare. Io mi addormento spesso sull’autobus e spesso mi sveglio, per fortuna ancora sull’autobus. Mentre cercavo di disegnare con la mente un dinosauro sopra un finestrino, l’autobus frenò rumorosamente come sempre e, come a volte accadeva, dalla porta idraulica appariva Zitrrunas con la sua faccetta rubiconda e quello zaino enorme che conteneva quella zappa che sempre aveva con se. Sembrava di buon umore mentre io non lo ero, sembrava un nano mentre io non lo sono. Si siede e mi dà una pacca sulla spalla: -Ciao- mi dice con un sorriso. Senza troppa convinzione e così per rompere il silenzio: “Ciao Zitrrunas, stai andando a casa”? -No, cercavo te.SGUARDO INTERROGATIVO

SILENZIO -Cercavi me? E perché mi cercavi? SGUARDO INTERROGATIVO SILENZIO -Così, credo che sia ora di affrontare un discorso.SILENZIO SENSAZIONE SCOMODA -Ok, va bene, quale discorso vuoi affrontare oggi?TENTATIVO DI MINIMIZZARE -Non minimizzare.-No non minimizzo è che non so di cosa vuoi parlare, è qualcosa di serio?-Beh, se non te ne fossi ancora accorto, di solito quando mi vedi, tra una cosa e l’altra, parliamo sempre di qualcosa d’importante.SILENZIO -Non mi sembrava.-Perché sei una capra! Fa lui irritato.TENTO DI RIMEDIARE -Ok, hai ragione, hai tutta la mia attenzione, ti ascolto.-Bene, allora caro Ivan, ti ricordi quando ho avuto la sciagura di incontrarti?-Beh certo che sì, eravamo all’ospedale e tu venivi a trovare quel tizio che poi è morto.ANNUISCE

-Esatto e ti ricordi di qualcosa che è successo e che hai maldestramente tentato di nascondermi?INBARAZZO SILENZIO VOLTO ROSSO MANI CHE SI STROFINANO SGUARDO BASSO ALTRO SILENZIO -Si.ANNUISCE -È qui con te? Lo hai qui?-Si.IL SUO SGUARDO PIANTATO NEI MIEI OCCHI -Mostramelo per favore.Con cautela e quasi con riverenza infilo piano la mia mano dentro la tasca e con attenzione estraggo il monile che avevo quasi istintivamente rubato a Zio Pesce in ospedale dopo la sua morte. Zidrrunas non mi guarda più e sposta i suoi occhi sul piccolo manufatto di legno e metallo che ormai avevo guardato così poco e che non avevo mai smesso di portare con me. Quasi commosso Zitrrunas si avvicina e avvicina la sua piccola e callosa mano alla collana come se volesse accarezzare la zappa di metallo al centro della croce, poi ferma la mano a qualche centimetro dall’oggetto: LA MANO TREMA

-Perché l’hai fatto?SILENZO Una domanda così diretta lascia aperte tante di quelle interpretazioni che la mia risposta non poteva essere altro che: -Non lo so Zitrrunas, non lo so.VERITA’ Certo, non sai mai perché le fai le cose vero? Tu hai sempre una piccola scusa che ti da una piccola rassicurazione vero?MA COSA DIAVOLO VAI DICENDO Sì dai, sei al di sopra di tutto tu, vero? Rubi, lasci, te ne vai, distruggi.ADESSO SMETTILA DI Dirti piccolo fallito che gira con le cose degli altri e non mi riferisco a questa collana che…E A COSA ALLORA! -A tutto quello che puoi portare via, a tutto quello che non ti appartiene, di chi sono i tuoi ricordi? di chi? Dimmi di chi sono i MIEI RICORDI SONO MIEI DI CHI DOVREBBERO ESSERE MALEDETTO IL… …Giorno che ho messo quella collana sul letto. Ivan tu non hai ricordi non lo capisci? Sono io che te li presto, te li regalo, e a volte te li faccio trovare sopra un letto dove… ZIO PESCE ERA MORTO, MALEDETTO NANO, IL MONILE ERA SUO, TU NON C’ENTRI NON SEI STATO TU A FARMI TROVARE NIENTE… …Male la tua vita senza responsabilità e con un nano che ti aiuta a non morire, che ti aiuta a non farti travolgere da quell’inutile esistenza che

COSA SARESTI TU SENZA DI ME INVECE, PERDIGIORNO EGOISTA Come lo era tuo padre? vigliacco e codardo COME QUELLA VOLTA O l’altra ti accorgerai che non hanno tutto il senso che pensi quelle oltraggiose frasi nate da quegli oltraggiosi pensieri che non riesci a mandare via perchè piangi e non sai… …QUELLO CHE DICI , IO CE LA STO METTENDO TUTTA MA HO BISOGNO DI AIUTO E TU DOVRESTI Reagire invece di credere che io solo potrò aiutarti a smettere di pensare che c’è solo infelicità dentro DI ME C’È ANCHE LA SERENITA’ A VOLTE Credo che tu sia stupido, forse è tempo perso, tu non le hai le capacità, tu non le hai le possibilità, tu sei solo È COSI’ CHE MI SENTO A VOLTE E TU DOVRESTI CAPIRLO TU SEI UN NANO E SEI SEMPRE SOLO E PARLI DI LAVATRICI E STAI SEMPRE SU QUESTO CAZZO DI AUTOBUS Dove ti parlo sempre e ti aiuto A CONFONDERMI E LASCIARMI DISTRUTTO, SONO STANCO DI PENSARE A cosa? Tu non pensi tu ci provi, io penso! A COSA? TU NON PENSI TU SEI PENSIERO, NON SEI REALE Come tutte le cose che ti sei sempre inventato per non prendere in mano la tua vita? La realtà è quella che pensi? Sei sicuro? DI COSA DOVREI ESSERE SICURO STUPIDO Come il mondo che ti porti dietro, non hai più sette anni, non c’è più quel Natale, non c’è più

MA PUO’ TORNARE Da dove? Dai ricordi? E può far male? DOVE SONO PIU’ FRAGILE NEL CUORE Che non ha quasi mai battuto e piantala mi fai vomitare PENSIERI E PAROLE INUTILI E NON SAI FARE ALTRO E QUESTO MONILE SAI COSA CI PUOI FARE? INFILATELO NEL CULO.

Così dicendo il ragazzo trasandato lanciò il monile contro Zitrrunas ma lui non era lì, solo quando lo svegliarono chiedendogli se avesse bisogno di aiuto, si rese conto. Frastornato, allontanò gentilmente la poca gente accorsa e i pochi sguardi sgomenti. Con calma e con stanchezza si alzò e andò a raccogliere la collana che giaceva a terra, la prese tra le mani e la guardò con lo sguardo umido di chi aveva creduto di aver capito, poi rimise in tasca il monile e si risistemò sul sedile, guardò fuori dal finestrino e vide Zitrrunas che si allontanava con la stessa collana che adesso stava stringendo nella mano. I suoi occhi sfuocavano l’immagine del nano mentre mettevano a fuoco una scritta fatta col dito nella condensa: La scritta recitava, così, semplicemente GRENOBLE. Si addormentò.

Un ricordo. 1986. Il tornitore di Grenoble, la sorella Helena e l’uomo.

Luis, sempre vestito di sana e insana curiosità, impicciava il tempo guardando i pensieri e assaporando, se così si può dire, una vaga possibilità di libertà. A Grenoble le cose erano andate un po’ diversamente da quando lui era partito, non era stato più possibile ricomporre e rammendare quello che era successo, il solo pensiero di quel bastardo era sufficiente a fargli perdere le staffe e rischiare di rovinare la vita alla madre e al padre e ai fratelli, alla sorella ci aveva già pensato Lui con la sua vigliacca mole e sudicia presenza. Ancora, quella notte rigirava, riviveva, ripercorreva tutte le stanze della mente e risvegliava le pulsazioni di ogni battito di ogni vena o arteria del corpo. La vena gonfia nella tempia destra ristabiliva la circolazione e suggeriva una furia cieca che aveva invaso per sempre quell’occhio e il suo nervo oculare che adesso non era più collegato al cuore ma ai tendini della mano stretta a pugno e pronta a spezzarsi piuttosto che aprirsi. La palla di vetro che avrebbe dovuto sostituire l’occhio sano, non risiedeva più in quella cavità cieca e scura che per tanto tempo l’aveva abbracciata e sostenuta, ma risiedeva dentro il cassetto del comodino, vicino al letto, tra l’armadio e il sonno. Giaceva lì da quella notte, da, quando Luis ha deciso che non voleva più che la metà della sua vista fosse offuscata dall’amore, perché quella notte aveva deciso di odiare. Luis quella notte del 1986 faceva quello che faceva tutte le notti dal 1982, creava quello che sapeva creare, pezzi di storia luccicanti, piccole opere d’arte fatte di piccole scintille di fuoco e incastonate nello spirito della natura che risiede nel legno: monili, anelli, collane, foderi per spade. Tutto quello che poteva adornare una vita e che le persone gli chiedevano di forgiare su misura, per un sentimento che lui stesso sentiva su misura. Nessuno obiettava niente e tutti accettavano l’oggetto che voleva creare. Scintille, scalpelli, lime, martelli, fatica, sudore. Candela? No. Una luce a petrolio. Già, dal 1982 ogni notte.

Quella notte Luis faceva quello che sapeva fare e quella notte entrò uomo che non sembrava nulla di più di un uomo che entra dentro la bottega di un artigiano che sa quello che fa e che ti parla per un po’ e poi decide che per te potrebbe fare solo e unicamente quell’oggetto non altro. Solo quella cosa, e tu, se fossi una persona che non ha niente di meglio da fare che considerarsi migliore di Luis potresti dire di no. Comunque normalmente nessuno diceva niente e usciva con quello che Luis aveva creato. Luis guarda l’uomo che entra con un o pesante ma incerto dell’uomo che incespica spesso nella vita. Lo guarda perché non l’ha mai visto e perché non doveva certo entrare nella sua bottega senza salutare ma poi lo fa: - buona sera.E sorride con un sorriso beffardo di uomo che lo fa perché deve. L’occhio di Luis s’incastona ancora di più nell’orbita, l’occhio vero mette a fuoco l’uomo, la mano si posa sul tavolo. - buona sera.L’uomo mantiene quel sorriso che sembra una paresi e togliendosi le orecchie di pelo dalle orecchie di pelle: -mi hanno parlato di Lei in paese, mi hanno detto che è un artigiano di classe, quello che si potrebbe dire un artista.-Faccio solo un lavoro con le mie mani.-Molto modesto signore. Mi hanno detto forgia degli oggetti formidabili in realtà.-Sono oggetti che mi piace fare.- Oh, il piacere è molto importante nella vita. E mi dica, sono pezzi unici? -Non credo che si potrebbero riprodurre.- Hanno qualcosa di chi le porta, è così?-

-Credo di sì.-Allora è vero?-Potrebbe.Pensate che tutta questa conversazione i due uomini la stanno avendo senza guardare il viso l’uno dell’altro, senza neanche un’espressione, una sola parola, nessuna emozione fuori posto, nemmeno una sbavatura di colore. Tutto è in ordine. È caldo nella bottega e fuori c’è un vento che gela l’anima. L’aria è regolare e poco mossa perché i due respirano lievemente. -lei gioca a scacchi?-A volte.-Preferisce i bianchi o i neri?-I bianchi.-Io i neri.-i neri partono in svantaggio.-Ma possono osservare l’apertura dei bianchi.-Allora?-Nulla, mi era solo parso di intravedere i movimenti di un uomo che gioca a scacchi e poi questa bottega mi da un senso di tempo, tanto tempo a disposizione, e di lentezza, di fermezza, non è così? -Quando lo voglio, è così.-

L’uomo impercettibilmente inizia a sguinzagliare lo sguardo alla ricerca di qualcosa all’interno della bottega che possa diventare preda dei suoi avidi e piccoli occhietti sovrastati da pelosi accenti circonflessi. Lentamente stacca la logora suola di cuoio della sua scarpa sinistra nera dal pavimento di legno e resina per appoggiarla subito dopo, venti o trenta centimetri più a sinistra. La

punta si posa dopo il tacco e col peso del corpo diventa il perno per un cambio di direzione, un mezzo giro su se stesso e le gambe si girano seguite a ruota dal tronco, dalle spalle e infine dalla testa. Il viso di Luis adesso guarda la nuca dell’uomo con le scarpe nere che gli dà le spalle e ha lo sguardo fisso verso la mensola di legno massiccio vicino alla porta dalla quale è entrato circa cinque minuti fa con l’ apparente motivazione di comprare un monile. Luis, sentiva che non era così. -Vorrei un monile, una collana. con un ciondolo.-Non lavoro così.-Così come?-Così.-Perché?-Non so.-Capisco.-Volete che vi racconti qualcosa di me?-No-Eppure è così che lavorate?-Non oggi.-Non oggi?-No, oggi No.-E oggi come lavorate?-Oggi ho smesso di lavorare.-Ah, ha smesso, è finito il suo orario-

-Già.-Bene ma io posso tornare domani.-Domani?-Sì.-No domani, sarò fuori città.-Ah ecco, fuori città.-Proprio così.-E quando tornerà?-Non so forse Martedì, forse dopo.-Ah Forse dopo, ma io credo di avere un po’ di tempo.-Io credo di No.-Io desidero molto un suo monile.-Lo desidera?-Certo, molto, non sarei qui, dal più bravo artigiano di Grenoble.-Non sono il più bravo.-Ma quello con meno occhi sì.-Si certo, ma non è divertente.-Mi scusi, ogni tanto esagero.-Già.-Allora, torniamo al monile.-Non c’è nessun monile.-

-Per desso No.- Non può esserci nessun monile.-E perché mai?-Perché non posso farlo?-Ah non può farlo.-No.-E perché mai non può farlo.-Perché ho visto.-Ah lei ha visto.-Si, ho visto.-E cosa ha visto?-Perché è venuto nella mia bottega?-Perché? BÈ, per il monile, per uno splendido monile col pendaglio.-No.-No?-No!-

Il silenzio cala irreparabile e incontestabile sul tetto della bottega e cola dal soffitto sopra le spalle e la testa di Luis e dell’uomo. Loro ne sono avvolti e quasi non ne sentono la pesantezza. I pensieri, questa volta, scivolano sotto la porta e stranamente preferiscono sentire freddo piuttosto che sostenere quel silenzio così spesso e stridente.

Le assi di legno scricchiolano importunate da folate di vento indiscreto e producono rumori di bottega di legno in una sera di vento. I due uomini aprono la finestra e fanno uscire il silenzio.

-Allora regalatemene uno che avete già fatto.-Non ne ho.-Ah non ne ha.-No.-E quelli?-Quali?-Quelli, su quella mensola.-Quelli sono di altre persone, hanno significati unici.-Ah, dei significati.-Si.-Che meraviglia.-Cosa?-Avere qualcosa che ha un senso.-Già.-E che senso ha tutto questo?-Non lo so.-Ah non lo sa.-

-No.-E quello là?-Quale?-Quello vicino all’incudine.-Quello è per la mia sorellina.-Ah ecco, lei ha una sorella?-Si.-E come si chiama?-Helena.-Ah è proprio un bel nome.-Si.-E lei come si chiama?-Chi?-Lei, lei!-Io Luis e Lei?-Le interessa?-No.-E cosa rappresenta quel monile?-Quale?-Quello, dell’incudine, quello di sua sorella.-È una croce di legno con una zappa di metallo.-

-Ah una croce con una zappa.-Sì.-E cosa significherebbe?-Sono cose personali.-Ah personali, già ma, si fa per parlare, lei parla poco, lo sa?-Si.-E io sono curioso. La curiosità è l’anima del mondo. Allora, cosa rappresenta la zappa sulla croce.-Perché insiste?-Curiosità, sono fatto così. Mi dica, cosa significa quel monile?-Il sudore, le lacrime, la fatica e la speranza…questo simbolo rappresenta la bellezza che a per la difficoltà. È la Vita. -Ah mi sembra romantico, complimenti, Lei Luis è un poeta dell’oggettistica in legno.-Artigiano.-Beh ok artigiano, in ogni caso è azzeccatissimo per un bimbo che si affaccia al mondo. -Lo è per tutti.-Lei trova?-Certo.-Lei gioca a scacchi?-Si me l’ha già chiesto e preferisco i bianchi.-Ah i bianchi, già ricordo, mi scusi, ma questa sera mi sento un po’ confuso.

Senta.-Mi dica.-Se così per gioco, lei dovesse farmi un monile, cosa forgerebbe con le sue mani?-Non credo che potrei fare nulla.-Ah e come mai?-Perché quello che vedo è inconsistente, viscido e senza forma.-Ah senza forma eh, ma...tutto ha forma No?-Può essere, ma io non riesco a vederla.-È un suo limite.-Mettiamola così. -Capisco.-Allora quanti anni ha la sua sorellina?-Quattro.-Ah quattro, è proprio una piccoletta allora.-Già.-Bene io allora andrei.-Bene.-Ha detto bene, allora vuole intendere che è contento che me ne vada.-Anche lei ha detto: bene io allora andrei.-Ah l’ho detto?-

-Si.-Che sbadato, a volte sono contento di cose così sciocche.-Non ci badi.-È gentile a dire così.-Solo perché sta uscendo.-È anche molto sincero.-Questo sì.-Allora io ritorno da dove sono venuto, ma senza di quello per il quale sono arrivato.-Già, mi dispiace.-Adesso non è sincero.-Ha ragione, in parte. davvero un po’ mi dispiace. -Adesso è sincero.-Sì ora sì.-Buona notte Luis.-Speriamo.-Cosa?-Che sia una buona notte.-In un modo o nell’altro lo sarà, dia un bacio alla sua sorellina.L’uomo inizia a schiodarsi dall’arredamento per diventare uno sfondo che si allontana nella notte senza nome, proprio come lui. Luis osservava con un occhio solo l’uomo col cappotto e le scarpe nere che si

allontanava dalla sua bottega senza monili, senza neanche un buon sentimento dentro, senza una partita a scacchi e senza una soddisfazione. Luis sistema le ultime cose fuori posto, la notte si fa più vicina, i sogni e gli incubi entrano e si sistemano dentro le federe dei cuscini e tra le fessure di legno della bottega, pronti a trasferirsi nelle cavità spigolose della sua mente da bottegaio di Grenoble. Luis prende la scopa per spazzare via la polvere e quella sensazione d’inquietudine che gli sta stringendo il petto da dentro e dal profondo. Il suo nervo ottico adesso è collegato ai reni e lui sente un forte sapore di urina nella bocca e una gran voglia di vomitare. Luis ria mentalmente tutte le azioni che tutte le sere fa prima di andare a letto. Ha fatto tutto. a vicino all’incudine che è aperta e pensa di chiuderla. Lo sguardo senza malizia scivola sopra il tavolo, dove poco fa, soltanto pochi minuti prima, il monile di sua sorella riposava nell’attesa di essere portato via dalla bottega ma il monile non è più lì. Al suo posto un’ombra di pulito dai contorni impolverati. Luis pensa. Vorrebbe correre fuori a cercare quell’uomo ma non lo fa. Non ha visto l’uomo prendere il monile. Non Può accusare l’uomo di averlo preso. Il monile è perso. Luis va verso la camera da letto, pensando a quella sera incredibile ed è certo che non avrebbe voluto viverla, non ha nemmeno la voglia di spogliarsi. Si posa pesante come un macigno sopra quel che pochi chiamerebbero letto e, teso come le corde dei pensieri, dà al materasso la forma di un uomo stanco. Tutta la notte le forme cambieranno alla ricerca di un posto che non c’è, neanche

nel sonno e nel sogno. Quell’uomo ha lasciato un segno, Luis lo sa. Altre sono le cose che Luis ancora non sa, ma la mattina è vicina e la luce a volte non perdona.

La mattina come ogni mattina inizia presto e svela altrettanto presto tutto quello che la notte ha celato e nascosto. Un timido raggio di sole comincia a schiodare pericolosamente le assi di legno nella piccola bottega del piccolo uomo con un grande e penetrante, nonché unico, occhio chiuso. Lentamente e delicatamente, prendendo il tempo necessario, il raggio di sole s’inclina e si espande fino a lambire la finestra. Si affaccia, sorride e a oltre. Luis geme nel sonno. La mattina lo scrolla delicatamente. Il sole fa il giro della casa in cerca d’ombra da illuminare. Le sei del mattino e poco più bastano a malapena a dare il motivo di alzarsi, senza troppa convinzione e senza fretta. L’occhio di Luis trema e la palpebra fa fatica a rimanere serrata a racchiudere ancora un momento la quiete e la pace del non senso e dell’incanto. I lenti movimenti di un corpo immobile da ore, stropicciano per la prima volta le lenzuola bianche a fiori gialli di due giorni fa o forse tre, a volte otto. I capelli arruffati, lievi movimenti del braccio, assestamenti del corpo, le gambe che si strofinano, le mani che cercano il cuscino e ci vanno sotto, la faccia che sprofonda, la pancia che sfiora il materasso, il corpo che assume la forma di una stella marina, l’improvvisa sensazione di ritornare alla vita. La palpebra, come una saracinesca inceppata, si alza un poco e poi si abbassa, si rialza e si riabbassa nuovamente, poi si alza ancora e la pupilla ruota in cerca d’immagini non pervenute in quelle sei ore di palpebra serrata.

Quasi estraneo al proprio corpo, la salma accenna un sussulto. I muscoli addominali collaborano e non collaborano, i dorsali si danno per battuti ed interviene un avambraccio che si piega e s’incunea tra il fianco e il materasso per fornire l’appoggio necessario, per issare il corpo, ancora intorpidito, in posizione perpendicolare al duro materasso di lana e chissà cosa. Il tronco si alza, un altro gomito fa perno e la testa segue il collo nella dura ricerca della verticale. Una mano scansa le poche coperte e costringe le gambe allo scoperto fino a cacciarle fuori, penzoloni, giù dal letto, con i piedi che respirano. L’aria è frizzante perché Luis non usa il riscaldamento di notte. L’aria è pesante perché Luis non scappa dalle difficoltà. L’aria è tanta e lui la respira senza ritegno e contegno. Ne prende una boccata sufficiente per tre o quattro minuti e poi rutta. Beve un sorso d’acqua dal bicchiere con sopra il fazzoletto che tutte le sere poggia sul comodino nel caso gli venisse sete di notte. Apparentemente soddisfatto per le ore di sonno e apparentemente insoddisfatto per le ore di sonno, muove la testa in direzione della finestra e capisce che c’è il sole. Prima ancora che succeda qualcosa, qualsiasi cosa, istintivamente si volta verso la porta. Improvviso un rumore che sa di apprensione e fretta. Un rumore di nocche che si frantumano contro la porta di legno e chiodi e contro la fine di una notte. Un suono secco e ripetuto che può voler dire tanto o poco. Certamente chi produce quel rumore vuole qualcosa. Sicuramente chi fa quel gesto ha un bisogno. Evidentemente quella persona, se è una persona, vuole che Luis faccia qualcosa. L’occhio di Luis si spalanca ancora prima che la porta diventi lo strumento più rudimentale di diffusione sonora. Inizialmente è solo un: TOC TOC, TOC TOC, TOC TOC, ma poi diventa un BUM BUM BUM BUM, fino a degenerare in un:

- Luis apri, sono Andrè, apri, fai presto.La voce del ragazzo che Luis conosce molto bene non stupisce l’uomo con un occhio solo che guarda la porta già da un minuto, quasi aspettasse qualcuno con la volontà di bussare a quella porta in quel momento per farsi aprire da lui che era appena tornato dal sonno. Andrè continuava a bussare e ad urlare. Luis continuava a guardare la porta. Senza convinzione ma con la coscienza di doverlo fare, Luis si alza dal letto e così com’è, vale a dire vestito come ieri, si dirige verso la porta. Il rumore dei pugni contro le assi di legno fa vibrare la vetrinetta attaccata alla parete e con lei gli oggetti che contiene. Le assi del pavimento scricchiolano sotto il peso, seppur esiguo, di Luis. Sembrano piccoli gridolini di terrore, sembrano piccole anime che piangono. Luis si guarda i piedi che si sono fermati in piena autonomia prima di scontrarsi con la porta. Sono fermi. L’aria è ferma. La sua palpebra è ferma. Il viso è a pochi centimetri dalla porta e ad ogni colpo minuscoli frammenti di legno e segatura colpiscono il suo viso; uno gli entra nell’occhio. Lui percepisce l’aria che i pugni muovono. Lui percepisce che c’è qualcosa che non va. La mano improvvisamente si posa sulla maniglia e la stringe come per spezzarla, poi allenta la presa dosando la forza, la maniglia gira. Uno spiffero di luce s’infila rapido e maleducato dentro casa. Lentamente il viso d’Andrè si affaccia sull’uscio. Ha delle lacrime appese. È sporco. Che strano, Luis non aveva sentito piangere. Si guardano un istante. L’occhio di Luis a dal destro al sinistro. Gli occhi d’Andrè guardano solo quello sinistro. Si guardano. La porta è spalancata. Andrè e Luis sono uno di fronte all’altro. Le gambe sentono tutto il peso di quella grande la sofferenza, più di quella sopportabile. Prima che Andrè parli, Luis s’inginocchia come se le gambe si fossero improvvisamente spezzate. Le mani al volto. Immobili sul volto. Le lacrime sulle mani. Immobili sulle mani. Le mani gonfie di vene. Le vene gonfie di sangue. Andrè guarda Luis. La mano d’Andrè

vorrebbe toccare la sua testa, ma sarebbe un gesto che tradirebbe una debolezza e quello che finora è stato contenuto e trattenuto potrebbe dilagare come dilaga un’alluvione nella città priva di difese. Andrè non sa cosa fare. Luis stringe i pugni e si alza. I due ancora si guardano. Andrè: - Non c’è più.SILENZIO. Luis: - Quando è successo?-Non lo so.-Stanotte?-Sì stanotte.-Avete sentito nulla?SILENZIO -No-. -Avete visto nulla?LACRIMA -No.-Quell’uomo?-Chi?-Quello che viene da fuori. -Non so.-Lei dov’era?-

-Nel suo letto.-È stato quell’uomo.-È stato lui?-Sì.-Perché?-Non so, voleva il monile di Helena e l’ha rubato.-Lo ha rubato?-Sì.SILENZIO -Perché?-Non so.-Non gli bastava il monile?-No. Ha preso anche Helena.LACRIMA -Si, l’ha presa.-Ora lasciami solo Andrè, grazie. Dì a mia madre che più tardi andrò da lei.-Sì Luis.ABBRACCIO

Luis chiude la porta immaginando di lasciare fuori dalla sua casa quell’uomo e il suo dolore.

L’immagine di Helena ridipinge di notte la casa e il laboratorio mentre Luis si siede al tavolo vicino alla finestra. Prende uno scalpello e lo posa vicino alla lima grossa. Si alza e si dirige verso lo scaffale con i ceppi di legno. Scruta alcuni di essi e poi, la mano destra, convinta si allunga ed estrae un pezzo di legno di ciliegio. Lo porta al tavolo vicino alla finestra. Si siede nello sgabello. Guarda fuori e inspiegabilmente ed implacabilmente comincia a piangere e mentre piange comincia ad accarezzare il legno con gli attrezzi. Per scavare, graffiare, togliere. Per arrivare all’anima del legno, per arrivare all’anima che sta nel sogno. Chissà dove sarà. Uno sguardo sfugge improvvisamente. Con il pensiero di avere uno strappo nel cuore e con lo scalpello che si muove dolcemente, Luis si confida con lui e con complicità: -Ne faremo un altro.

Sembra quasi naturale che la notte sia ata senza sonno e che, instancabilmente, lo scalpello dell’uomo portoghese cresciuto in Francia abbia raggiunto l’immagine che il legno diventa quando a guardarlo è un occhio come quello di Luis. Le mani venose e venate di una pelle screpolata e secca di trucioli accarezzano rare ruvidità nel corpo liscio della creatura nata nella mattina della sofferenza. Un parto lieve nel più assurdo dolore della scomparsa e della maledizione. Un parto privo di madre ma con un padre, donna nella creazione di un sentimento che sta nel ricordo di Helena e ,adesso, nel monile simile, ma non uguale, a quello presumibilmente rubato dall’uomo senza nome. A tal proposito un pensiero sfiora Luis. Com’è inutile sapere il nome di chi ti ha tolto il cuore quando morente ti accasci e vorresti solo che tornasse e tutto il resto diventa sfuocato. Luis scrolla le mani e la segatura ricade sul suo grembiule e sulle scarpe. Lui non se ne cura. Torna a stringere l’oggetto quasi pronto e soffia lievemente per pulirlo. Un piccolo frammento di legno entra nell’occhio. Luis non se ne cura. Ripone l’oggetto sul tavolo e si stira come un cane dopo la notte. Le mani sui fianchi. La faccia di chi è stato tutta la notte ad intagliare un ceppo di legno per

forgiare un monile quasi identico a quello che un uomo ha presumibilmente sottratto dalla sua bottega di Grenoble. Un bussare leggero. Luis non se ne cura. Attraversa la stanza in maniera che sembrerebbe naturale se non fosse per la mano destra che continua a rimanere poggiata al fianco destro. Entra nella stanza accanto. Prende un bicchiere. Lo riempie di latte freddo e sciroppo di menta. Continuano a bussare alla porta, quasi timidamente. Luis non se ne cura. a altre due volte davanti alla porta scossa lievemente da piccoli colpetti che sembrerebbero prodotti da due piccole mani. Forse mani di donna. Forse mani di bambino. Beve tutto il latte ma poi pensa che non ne aveva voglia. Sente la testa così piena di pensieri che vorrebbe travasarla come si travasa il vino dalla damigiana alla bottiglia. Ricorda con tenerezza quando in Portogallo i suoi genitori gli facevano pigiare l’uva nei tini. Scuote i pensieri e si strofina la nuca come se volesse strapparsi via i capelli e la pelle del collo. Torna a sedersi al tavolo e prende in mano il futuro monile. Bussano ancora. Per un attimo fissa la porta quasi scocciato. Chi bussa deve avere quantomeno la certezza che in casa ci sia qualcuno o, più probabilmente la persona che bussa ha la certezza che in casa ci sia Luis. L’artigiano non ha certamente la voglia di alzarsi e aprire laporta da cui ieri è entrata la pena e la stanchezza della notizia e delle lacrime. Vorrebbe che quella porta rimanesse chiusa per sempre e per questo motivo decide di aprire. Luis è davanti alla porta.

Se qualcuno, diciamo un vicino di casa, rientrando dopo la notte trascorsa a sfornare pagnotte, pane al latte, pane nero, pane all’uva, pane alle cipolle, pane ai cereali, pane di segale, panini all’olio e all’acqua e brioche dolci e salate, potesse vedere la scena, magari di lato, vedrebbe due persone una di fronte all’altra con una porta in mezzo ad impedire la visione ma che, certamente, non impedisce di percepire la presenza. Guardando attentamente vedrebbe che la figura in casa è un uomo magro, non troppo alto, con la pelle scura scura e i capelli neri, grigi e bianchi. Lo sguardo perso tra le pieghe e i risvolti della porta di legno che lui stesso ha fatto per tenere fuori della bottega i pericoli. Vedrebbe un uomo senza forze e senza voglia, con un angolo di bocca sporcato da latte e menta e le mani spolverate di fine segatura e di piccoli trucioli di legno. Vedrebbe un profilo tagliente e scontroso ma solo nel corpo e vedrebbe un grande occhio morto con una gran voglia di vedere cosa fa l’altro. Se guardasse oltre potrebbe vedere che l’altra figura, quella fuori, è un uomo incredibilmente basso, con lunghi capelli bianchi ed una barba ispida a ciocche grigie. Vedrebbe una manina che instancabilmente trasmette le sue vibrazioni al legno della porta provocando un rumore ritmico che vuol dire vorrei entrare. Guardando più attentamente potrebbe osservare gli occhi risoluti, instancabili, fermi, quasi spavaldi nell’attesa. La sua è una posizione di favore, quella del fornaio. Da lì può vedere gli sguardi ad altezze diverse fermarsi nel legno e i pensieri, ad altezze diverse oltrearlo. Luis abbassa lo sguardo e l’uomo lo alza. Si cercano al di là della porta. L’uomo piccolo smette di bussare. Luis apre. L’uomo entra. -Ciao Luis. -Ciao Zitrrunas.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trenta. Ivan e la ragazza.

Una volta constata l’incredibile somiglianza dei monili e diluita la sorpresa con grosse gocce di tentazione, la mano della ragazza si va a chiudere quasi ingelosita e scontrosa su quello appeso al collo, privando il ragazzo della visione di una tenera porzione di pelle morbida con una soffice fossetta a forma di fragola in fondo alla meraviglia. La pioggia non ha ancora cominciato a scendere. Per i due ragazzi, la pioggia è un velo, è un tetto, sono pareti e fredde dita sopra la poca pelle nuda all’aria. È una sosta dentro una gabbia di fili continui e laceranti che corrono e scivolano dentro e fuori i pensieri ad allagare i ricordi e le emozioni in piccole polaroid scolorite, bagnate ma capaci di far piangere e stupire. Restano appesi i piccoli ruscelli condensati e bagnati di chissà quale nazione e mare alle inconsistenti ma esistenti nubi color petrolio e cenere. Una dopo l’altra si stringono nel nulla a migliaia di metri d’altezza a mirare e ammirare la bellezza del paesaggio confinato e sconfinato. Ivan guarda in alto. La ragazza universitaria anche. Le nuvole guardano in basso. Le gocce anche. Tra quello strato d’umida umanità e quello d’inconsapevole bellezza c’è il cuore caldo del mondo che gonfia le arterie della terra e le inonda di voglia di panico e vita. Le gocce si tengono forte alle nuvole per la paura di scivolare via e disperdersi nell’aria e diventare inutili e insignificanti esseri privi di scopo. Immaginatevi milioni di gocce di tutte le dimensioni appese a migliaia di km quadrati di nubi gravide tanto da esplodere nel cielo come bombe d’acqua. Immaginatevi due visi che scrutano il grigio che a tratti è nero e spesso azzurro. Visi che cercano un motivo laddove non esiste una ragione, ed è lontanissima dall’essere una giustificazione.

Immaginatevi un suolo arso, un suolo che aspetta la pioggia, come un bambino aspetta il natale e il natale aspetta che i bambini scartino la loro vita, con calma. Le gocce si fanno coraggio lassù. Alcune guardano in basso e cominciano a tremare. Aprono i loro grandi occhi spaventati e alcune di loro piangono. Sono le lacrime delle gocce le prime che sentiamo cadere, quando sentiamo che comincia a piovere. Sono le lacrime delle gocce più giovani e impaurite che scendono a confortare chi attende la pioggia sopra di se a coprire la quotidiana insoddisfazione di una giornata come le altre. I due visi guardano in alto come se le nuvole potessero decidere di accontentarli. Intanto le gocce si spingono, si accalcano, si appendono, si aggrappano, si scontrano, risalgono, rimontano, scivolano, si picchiano, si saltano, si sdraiano, si tengono, si guardano, si cercano, s’inseguono, si parlano, si mollano, si baciano, si lasciano, amano, guardano, s’incamminano, leggono, si staccano, si attaccano, si mormorano, si spiano, s’ingegnano e si abbracciano. Le lacrime delle gocce raggiungono gli occhi di Ivan e della ragazza universitaria che si stanno chiudendo a fessura per mettere a fuoco le nuvole per cercare di oltrearle. Tra le gocce, un gran vociare fa intendere un certo fermento e forse l’arrivo del momento più importante. Qualcuno dice che tra poco bisognerà buttarsi, ma nessuno ci crede, il momento non sembra ancora arrivato. Qualcuno cade urlando e spaventa le goccine appese e attaccate ad altre gocce attaccate ad altre gocce attaccate allo strato più basso delle nuvole gonfie e tese. I due visi aspettano. Una goccia guarda attentamente la sua destinazione. Si guarda intorno e ha l’aria di chi è lì da anni. Non sembra per nulla impaurita. Resta appesa alla nuvola con una piccola mano trasparente e, con l’altra, scrive qualcosa nel cielo, sembra non credere nella fine ma solo nell’inizio. È una goccia strana. Lo sguardo rivolto verso il basso oltrea metri e metri, metri e metri, metri e metri, fino ad arrivare là, dove c’è un viso asciutto con gli occhi pronti che aspetta una goccia che la risprofondi nella consapevolezza che è il

momento per andare. La goccia e la ragazza si fissano per un istante. Senza alcun preavviso la goccia, con determinazione, incurante del proprio piccolo grande destino, apre le piccole dita scintillanti e lentamente lascia la sua soffice nuvola sprofondando nell’atmosfera, giù verso la terra fredda e calda, giù verso l’obiettivo, giù verso la mente e l’emozione del mondo, giù nella follia e nel colore, giù nella fine e nell’inizio. Corre come un piccolissimo frammento di gioia verso la sua missione di goccia. Ogni volta che piove c’è una goccia che ha una missione. Nessuno lo sa, nessuno la vede, nessuno ci crede, ma lei, la goccia, Lei lo sa. La missione. Lei ce l’ha. La goccia scende imprecisa e sottile come una stella, veloce e testarda a compiere la missione. La ragazza guarda in alto. La goccia la vede. La ragazza sente una sensazione di nostalgia. La goccia la sente. La ragazza si sente morbida. La goccia è un proiettile. La ragazza guarda Ivan. La goccia scende vorticosa verso la meta. La ragazza sente una scintilla arrivare dentro. La goccia è pronta. Ormai la goccia sembra una scia argentata che si sfilaccia e si distanzia nella veloce discesa.

Le gocce appese guardano stupite la compagna che si è tuffata per una ragione davvero sconosciuta. Qualcuna decide di seguirla e si lascia andare. Altre, impaurite, si stringono ancora di più e si aggrappano tenacemente alla nuvola. La goccia si assottiglia ancora. Scende. La ragazza allarga inspiegabilmente le braccia, allarga inspiegabilmente le labbra, allarga inspiegabilmente il cuore, e guarda in alto. Sporge il petto. La goccia guarda il petto della ragazza. È fatta. La goccia è a poche centinaia di metri e non ha paura. Cento metri. ARIA Novanta ARIA Ottanta ARIA Settanta ARIA Sessanta ARIA Cinquanta

ARIA Quaranta ARIA La goccia sorride. ARIA La ragazza anche. ARIA Trenta ARIA Venti ARIA Dieci CUORE PAMMM!!!! La goccia si frantuma sopra il cuore della ragazza. Le gocce appese si lanciano. Tutto accade. È il momento. Le nuvole si sgonfiano, sputano via i proiettili bagnati. La ragazza sorride. Poi piange. Ivan guarda tutto e capisce la missione della goccia.

Il cielo si svuota sopra i loro visi. La vita si bagna indecentemente. ORA PIOVE!

Due anni fa. Zitrrunas e l’uomo senza nome.

- Che freddo, porco demonio. Quella sera era fredda davvero e a dir la verità era ormai notte e a dirla tutta era ormai notte da un po’. Ai margini della strada nessuno ava eggiando o camminando frettolosamente e nemmeno lentamente, a dir la verità nessuno ava e basta. C’era silenzio. C’era un silenzio che ti aspetti solo quando dici a tutti –SI-LEN-ZIO!!!E tutti si zittiscono, ma nessuno stasera, che a dire il vero era ormai notte, aveva detto silenzio. La strada luccicava invano per due soli occhi che si reggevano appena in piedi incastonati e male, nel bel mezzo della fronte diretta a nord est, ferma dietro un angolo d’ombra tra Via dei Pispini e Via Carducci, appena fuori dal rosso e profumato centro di Siena. Un uomo in bicicletta rimbalza tra le fessure dei vicoli lastricati. I due occhi lo seguono come incuriositi, come a chiedersi chi fosse, anche se con certezza non poteva essere LUI. LUI sarebbe arrivato a piedi, dopo essere sceso dalla macchine, questo era certo. LUI non aveva una bicicletta. Aveva un taxi, non suo ma dell’autista. Lui pagava e l’autista prendeva i soldi e poi lo portava dove voleva. LUI non usava taxi diversi, usava sempre lo stesso, aveva il numero del telefono cellulare. LUI chiamava e l’autista arrivava. LUI pagava bene, molto bene e all’autista stava bene, molto bene. La bicicletta a quasi silenziosa, con rumoracci di catena lasca e raggi molli, una bicicletta vecchia e sgangherata come il pavimento del vicolo e come la vita della Signora Gori che è la vicina di casa di LUI e d’altri condomini dietro l’angolo d’ombra tra via dei Pispini e Via Carducci, precisamente al numero 26. La signora Gori esce la mattina da casa.

La signora Gori entra la mattina nel bar. La signora Gori esce la sera dal bar. La signora Gori entra la sera a casa. Rovinata dalle Slott ha rovinato la vita di tutti e tutti l’hanno lasciata e hanno finito di rovinare la sua vita. Adesso non si chiede più nulla e nessuno le chiede nulla. L’uomo nell’ombra aspetta impaziente un rumore, una luce, una sagoma. Sono ormai le due di notte e ormai non dovrebbe volerci molto. Il silenzio comincia a diventare irritante e verrebbe voglia di parlarci e di farlo parlare: - Ma porca vacca ma perché stai sempre zitto? – Ma forse è inutile, quasi certamente non risponderebbe. Qualcuno direbbe che questa sera, che a dirla tutta era notte e stava diventando mattina, è un cerchio che si chiude, una storia finita male che finirà anche peggio di com’è cominciata ma che potrebbe essere un inizio. Qualcunaltro direbbe che è un a notte che sta per finire come doveva finire. Altri ancora direbbero che è una storia come tante altre. I due occhi acquattati nell’ombra respirano ancora silenzio. Se qualcuno li vedesse da fuori, vedrebbe due occhi, due grandi occhi spalancati nell’intento di ingoiare il buio per non perdersi niente, neanche una frazione di secondo, un movimento, un respiro. Vedrebbe anche l’uomo in bicicletta che si allontana zigzagando tra i lastroni di pietra e capirebbe che ha bevuto un fiasco di Chianti e vedrebbe una debole luce che si avvicina sobbalzando nella direzione degli occhi, nell’angolo d’ombra tra Via dei Pispini e Via Carducci. Vedrebbe la bicicletta schivare la luce che si sta trasformando in automobile e sentirebbe colorite e fantasiose bestemmie in toscano.

A guardare bene noterebbe che l’automobile, altro non è se non un taxi bianco con la luce accesa. Gli occhi nell’ombra si allargano ancora di più. Ingoiano la macchina. Ingoiano il buio. Ingoiano la bicicletta, la strada, i palazzi e poi sputano; sputano tutto perché è tutto amaro e fa schifo. Adesso. La luce all’interno del taxi si accende e i movimenti dentro fanno capire con certezza che l’autista non è solo e il eggero sta per scendere. La portiera si apre e una gamba accarezzata dal pantalone grigio antracite fa capolino e si appoggia con la scarpa di pelle di capretto sopra il pavimento lastricato di Siena. Il movimento è lento. Una moviola di gesti che sembrano studiati per essere sempre quelli, anche ieri e forse anche domani. Gli occhi nel buio pensano a quanto sia sfuggente la vita. L’uomo che sta scendendo dal taxi pensa a quanto sia breve la notte e soprattutto a quanto poco buio ci sia. L’uomo e l’autista si stringono la mano. L’uomo fa un cenno con la testa e poi ride. Profondamente. L’autista ride a sua volta. Da ruffiano. Gli occhi dell’uomo nell’ombra muoiono dalla curiosità e s’infilano dentro il taxi. Lo stupore si placa quando sotto i sedili scorgono cinque centesimi, un mozzicone di sigarette, uno scontrino, le pagine gialle, il giubbino fosforescente di sicurezza, un ombrello, briciole di pane, un’ulcera non curata, vent’anni di lavoro, una rivista porno, un divorzio e una bottiglia di spumante regalato per i diciotto anni e mai aperta. Gli occhi tornano mesti dall’uomo nell’ombra. L’uomo tira fuori l’altra gamba. Con una mano si appende alla maniglia, l’altra l’appoggia alla portiera e spingendo con le gambe esce dalla macchina e contemporaneamente si alza in piedi. Inarca la schiena come per scrollarsi di dosso una posizione sbagliata o una notte difficile. Si erge dritto. Lo sguardo

indaga distrattamente i dintorni e poi le sue scarpe. Sono sporche. LUI non sopporta le scarpe sporche. La lunga figura accenna un o che porta il suo viso sotto la luce di un timido e lungo lampione assonnato. I due occhi nell’ombra aspettavano questo. ÈLUI! Senza ombra di dubbio è l’uomo. LUI continua a guardare le scarpe. Non le sopporta le scarpe sporche. Gli ritorna in mente, quando uscì dalla bottega di quell’uomo a Grenoble qualche anno fa. Tutta la segatura attaccata. La segatura e fuori quel fango, il fango del giardino e chissà cos’altro. Stizzito da un calcio all’aria come se vedesse qualcosa e s’incammina verso quei vicoli che da qualche parte porteranno. L’uomo nell’ombra osserva attento ogni movimento, ogni segno, ogni vibrazione. Tutto quello che gli aveva raccontato era vero. La sensazione di freddo invase anche lui come aveva invaso Luis quella maledetta sera senza notte e senza giorno. LUI entra nel vicolo stretto. L’uomo esce dall’ombra e lo segue. LUI cammina dritto, ogni tanto si guarda le scarpe. L’uomo ha gambe corte e le mani nelle tasche. LUI si ferma. L’uomo anche. Gli occhi sono appiccicati, attaccati, adesi, incollati. L’uomo tira fuori un pacchetto di sigarette morbido. Lo scuote. È vuoto. Lo getta a terra. Si rende conto di essere arrivato davanti al numero 26. L’uomo è a dieci metri da LUI. LUI si guarda intorno sospettoso. Non ne ha motivo, ma ha paura. Sente il suo battito accelerare vorticosamente e il sangue fluire al cervello. LUI comincia a sentire caldo, ma fuori è freddo. L’uomo ha freddo e basta.

LUI cerca le chiavi per aprire il portone ed entrare nell’atrio e poi nell’appartamento per andare nella camera, spogliarsi, andare in bagno, farsi una doccia calda, andare a letto pulito almeno nella pelle. Le mani in tasca che cercano. Gli occhi in tasca che guardano. L’indice riconosce il portachiavi. Le dita si chiudono intorno e la mano estrae chiavi e portachiavi. Un bellissimo portachiavi, un monile con una croce di legno e una zappetta di metallo. L’uomo viene travolto dai brividi e dall’odio. LUI guarda orgoglioso, per un istante il portachiavi e ripensa alla bottega di Luis con nostalgia e a Helena che lo aspetta di sopra, nella sua cameretta. Pensa a Luis, a quando aveva deciso che gli avrebbe strappato la cosa più importante perché lui gli aveva letto l’anima e gli aveva detto che non valeva venti centesimi. Ed era vero. LUI prende la chiave giusta, la sceglie con cura. Con cura la inserisce nella serratura, ma la chiave non entra. La serratura non è rotta ma la chiave non entrerà ora, né entrerà dopo. La serratura non si vede, adesso, la serratura, con tutto quel sangue. L’uomo da dietro ha fracassato la testa di LUI. Senza un rumore, senza un silenzio, solo con una grossa zappa e tanto odio. Con tanta disperata forza. Èin piedi dietro l’uomo. Immobile. La zappa ancora dentro il cranio. La faccia di LUI spiaccicata contro il massiccio portone color senape, prima, adesso color sangue arterioso, rosso vivo. Zitrrunas alza la zappa e lascia che il corpo di LUI assuma una posizione innaturale per un vivo, ma naturale per un morto. Si china anche se non ne avrebbe bisogno, si accuccia e riflette qualche istante poi allunga la mano che raggiunge la mano di LUI. La mano è dura, è chiusa, è serrata sul portachiavi che è un monile che non gli appartiene ma appartiene a Helena. Zitrrunas non ha tempo e con tranquillità, come si fa una cosa che si deve fare, spacca le dita della mano di LUI. Le apre poi facilmente e prende il monile. Infila la piccola manina in tasca, deposita il monile e guarda per un’ultima volta

LUI. Lo troveranno, LUI, la mattina sul pavimento lastricato di Siena tinto di rosso. Vivo. Non lui. LUI Privo di vita e di sangue, con i suoi pantaloni color antracite e le sue scarpe di pelle di capretto, macchiate di fango e sangue. Al funerale a piangerlo: il prete e il taxista; non per LUI ma per i suoi soldi. Nemmeno Helena; la piccola Helena che suo malgrado aveva dovuto imparare a volergli bene. Nemmeno Helena che adesso è a casa con dei genitori e con delle speranze. La notte stanotte è davvero buia e Zitrrunas piange mentre torna nella sua bagnata e luminosa Genova.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentadue. Ivan e la ragazza.

Tra, in mezzo e sotto la pioggia, la ragazza universitaria si bagna e non fa nulla perché ciò non accada. Tutto scivola verso il basso come normalmente accade e stinge gli umori e i dissapori che spesso si rannicchiano nei pori della pelle, nell’attesa che un’abbondante pioggia lavi via tutto. Ivan osserva la ragazza universitaria che si bagna sotto una pioggia di luminose gocce impazzite che fanno a gara per picchiare contro il suo cuore. È come se fosse un gigantesco massaggio cardiaco fatto da minuscole e distratte dita bagnate. Zitrrunas guarda in lontananza un’impenetrabile forza impadronirsi dei due esseri umani che si fondono a poco a poco con un tutto liquido che prende la forma di una gabbia luminosa che discende direttamente da un cielo gonfio da scoppiare e sordo e cieco e quasi buio. Ormai tutti dovrebbero aver capito. Tutti tranne il ragazzo che pensa che manchi qualcosa.

Il tornitore di Grenoble e Zitrrunas dopo la morte di LUI.

- Com’è andata?- Come doveva andare.- Racconta!- C’era un freddo cane, una notte fredda davvero.- E LUI?- LUI era lì. È arrivato con il solito taxi. Con il suo completo antracite. Con le sue scarpe di pelle di capretto. Che schifo!- LUI?- No. Le scarpe- Si ricordava?- Non gli ho parlato. Non avrei potuto parlargli. Non avrei voluto.- Cosa ha fatto quando ti ha visto?- Non mi ha visto.- Capisco.- Ha sofferto?- Gli ho fracassato il cranio con la mia zappa.- Certo, capisco.- Poi?- Poi cosa?- Cosa hai fatto?-

- Gli ho preso il monile. Lo usava come porta chiavi. - E dov’è il monile adesso?- L’ho restituita a Helena.- Bene e cos’ha detto?- Grazie. - Come sta Helena?- È viva.- Dov’è adesso?- Ha una casa, una famiglia, una vita nuova. Non ricorda nulla. Non potevamo riportarla qui.- No non potevamo. Non adesso.- Luis hai portato l’altro monile?- Si. Sai già a chi darlo.- Forse.- Chi è?- Un ragazzo, anche se ormai non è più un ragazzo. Ha bisogno di credere. - Bene. Come si chiama?- Ivan.-Bene.- Cosa?- Almeno ha un nome.-

- Già.-

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentaquattro. Ivan e Helena.

Il ragazzo ormai uomo pensava che mancasse qualcosa, e non era l’unico. Mentre il quadro si componeva e si completava, il paradosso dell’incompiutezza toglieva colore al paesaggio richiedendo nuove pennellate di colore per rendere l’imprevedibile conclusione dell’incontro una meravigliosa e rassicurante fine. Il ragazzo tende una mano verso Melena. Uno spettatore esterno, magari un bambino in bicicletta con una voglia di focaccia dentro la pancia e una di cioccolato sopra la spalla destra, ando da quelle parti vedrebbe due esseri umani senza sesso e senso che si respirano ad una distanza di circa due metri. Vedrebbe una curiosa espressione di stupore partire dalla ragazza e finire nel ragazzo diventando un sorriso di comprensione. Scorgerebbe un braccio teso, ma morbido verso la ragazza che osserva la mano rassicurante del ragazzo che sorride precipitosamente, quasi aspettandosi il gesto che la ragazza si appresta a fare. Incredibilmente vedrebbe le labbra del ragazzo muoversi coordinatamente e con dolcezza per andare a formare parole che avessero il senso delle sue idee e vedrebbe i suoi occhi accompagnare il pollice e sollevare il mignolo nella tensione della mano che attende. Sapendo ciò che accadrà darebbe due vigorose pedalate per scomparire dietro la curva della loro memoria. Il ragazzo desidera pronunciare quelle parole e lo fa. - Dammi la mano che balliamo – Dice. Helena senza esitazione stende il suo braccio e Ivan afferra la sua mano, la tira a sé, la stringe al petto come si stringe qualcosa che vorresti ti entrasse dentro e insieme iniziano a muovere i pensieri insieme ai piedi, alle ciglia e alle labbra che tremano. Gli occhi non si staccano dagli occhi. Le mani non si staccano dalle mani. Il fiato non si stacca dal fiato. I piedi si staccano da terra. Si staccano e girano dolcemente sull’asfalto di marmo della loro personalissima sala da ballo.

Le gocce suonano una tiepida e stridente sinfonia senza spartito con le piccole dita che battono instancabilmente l’asfalto di pietre bianche, intanto Ivan e Helena schizzano gocce di gioia e pioggia mentre girano dentro le loro braccia e si trasportano a destra e a sinistra, senza sosta, come immensi innamorati pieni di sguardi e labbra. I piedi si sfiorano ancora e dolcemente si tirano su, sulle punte e poi giù sulla pianta per ruotare e cambiare direzione e o, ora in avanti e ora indietro tra l’avvicinarsi del ventre e l’indietreggiare del cuore. Destra sinistra e poi un cerchio, sinistra destra e poi un cerchio come un girotondo o una pista di biglie. Tutto danza e la vita guarda. Tutto danza e la vita, adesso, non può finire, perché se anche finisse, loro non smetterebbero di danzare. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentacinque. Ivan sull’autobus. L’autobus n° 34 procede con cautela e pigrizia verso Via Piacenza costeggiando il rinsecchito torrente Bisagno. A vederlo di fronte arriva. A vederlo da dietro se ne và. A vederlo di lato a. Dentro i eggeri paganti, l’autista e due malandrini senza biglietto che guardano sospettosi le fermate per scorgere i controllori e scendere di corsa. Dentro c’è Ivan. Sono le due di pomeriggio e c’è quell’aria sonnolenta del dopo pranzo che contagia come una nebbia e diventa atmosfera, una sensazione di torpore negli occhi che rende piacevole chiuderli. Un tiepido ma caldo sole entra da tutti i finestrini esposti verso il sole e il freddo non è più così freddo, in ogni caso lo è

meno. Tra i sedili s’intravedono pezzi di spalle vestite con giacche, cappotti e giubbotti. A terra qualche scarpa appoggiata male al pavimento striato o timidamente nascosta dietro i pali di metallo. Le suole traballano al traballare del pavimento. Ad ogni fermata le porte si aprono. Ad ogni fermata qualcuno si sveglia e qualcuno scende. Sono le due di pomeriggio e in pochi salgono. Sono le due e molti tornano. Ivan, come spesso accade è sull’autobus. L’autobus a. Per qualcuno l’autobus è già ato. Per altri l’autobus erà. Dentro i eggeri paganti (pochi), l’autista (per fortuna), e due malandrini senza biglietto o abbonamento e nemmeno soldi. Dentro c’è Ivan ed è lì, mentre dovrebbe essere a ballare con Helena. L’aria speciale della prima primavera inonda lo spazio vuoto tra i eggeri e veramente tutti potrebbero accorgersene, ma non è proprio così: per esempio l’autista è a fine turno, e tra poco tornerà a casa dove la moglie non lo aspetta più perché era una vita che aspettava. Lui tornava, ma lei diceva che non era mai tornato. Del resto potrebbe anche avere ragione la moglie. In ogni caso lui quell’aria lì, non la sente.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentasei. Ivan e Helena.

C’è chi dice che chi smette di danzare muore. Ci sarebbe da riflettere, perché Helena e Ivan smettono di danzare, insieme, contemporaneamente, come se il giro fosse finito, come se la corsa fosse conclusa, come se le cose belle dovessero finire improvvisamente, senza una ragione, senza preavviso, solo perché la musica finisce o solo perché è così che deve andare ad un certo punto.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentasette. Ivan sull’autobus.

Ivan sente il tiepido gironzolare dell’aria tra i capelli impermeabili da quanto folti e per un istante, improvvisamente, percepisce la presenza di Zitrrunas davanti a se. Lui ancora con gli occhi chiusi sa che quando li riaprirà troverà il nano davanti a se. Ivan ne è sicuro. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentotto. Ivan e Helena.

Il ragazzo e la ragazza sono immobili l’uno davanti all’altra e sanno perfettamente cosa sta per accadere. Non sono tristi, non sono felici e non hanno rimorsi. Forse avrebbero voluto un poco più di tempo e forse le loro labbra attaccate, o almeno vicine a sussurrarsi un dannato bacio apionato. Dopo tutto, sarebbe stato bello. Se qualcuno, diciamo un bambino di circa sei anni li vedesse adesso, ando con la mamma, vedrebbe un ragazzo e una ragazza vicini, uno di fronte all’altro e tutto attorno color pastello e tutto, anche loro, sfuocati, come se stessero per svanire.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentanove. Ivan sull’autobus.

Gli occhi di Ivan cercano la realtà, e sono curiosi di vedere il nano e sentire che storie avrà da raccontare oggi. Si aprono in un’improbabile fessura.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quaranta. Ivan.

Il ragazzo e la ragazza si sentono respirare da una realtà che li strappa al sogno e all’illusione. Il bambino di prima vede i loro corpi come immersi dentro l’acqua di un lago e vede i cerchi dell’acqua che sbiadiscono i colori.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quarantuno. Ivan sull’autobus.

Ivan apre gli occhi. Assonnati. Illusi. Stanchi e irreali. Davanti a se, tra uno sbadiglio e una lacrima lubrificante, tanti sedili vuoti e uno pieno. Davanti a sè, un uomo con una folta barba e pochi capelli, un paio di occhiali con la montatura spessa e uno zaino poggiato a terra.

L’autobus decelera. L’uomo si alza. Ivan lo segue con lo sguardo, è deluso per non avere trovato Zitrrunas, ma comincia a capire.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quarantadue.

Davanti al palazzo di Via Cambiaso 5 non c’è più nessuno, solo un dolce ricordo di tutte le vite e i pensieri che entrano ed escono dai portoni, che ano per strada, che si fermano e si appoggiano ai muri, che hanno ancora voglia di giocare e di farsi ricordare perché se ci sono è proprio per essere ricordati. Ivan e Helena sono lì, ma non si vedono.

13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quarantatre. Ivan sull’autobus.

Ivan osserva quell’uomo e tutto comincia ad assumere un senso, forse. Guarda l’uomo e pensa a Zitrrunas. Mentre la realtà inizia a fare breccia. L’uomo si alza, per modo di dire, sarà alto un metro e trenta, statura appena sufficiente per prenotare la fermata e per creare nella mente di Ivan un sogno d’amore. Il nano, Luis, la ragazza, il ballo, Grenoble, la fine dell’analisi. Un sogno, solamente un sogno. L’uomo ex Zitrrunas scende aumentando il terribile distacco con quella meravigliosa storia d’amore. Le porte pneumatiche si chiudono sbattendo fuori il sogno, Ivan si stropiccia gli occhi e inarca la schiena per rendere effettivo lo stato di veglia.

Ora l’attenzione è sulle cose reali, tra poche ore Ivan entrerà nello studio della sua psicoanalista per l’ultima volta e per l’ultima volta ne uscirà. Mentre i pensieri vorticano, l’autobus frena bruscamente interrompendo quasi la sua corsa. Ivan, quasi avesse preso uno schiaffo, si gira improvvisamente per cercare la ragazza universitaria del sogno ma la ragazza non c’è. L’autobus inizia pigro a salire Via Montaldo e il cuore di Ivan ha ripreso a battere. Mentre continua a pensare alla sua vita, in fondo alla strada, come spesso accade c’è chi ti guarda. La ragazza universitaria, con lo sguardo di chi vede are un ragazzo dall’aspetto trasandato, osserva Ivan che si allontana, la sua mano istintivamente si alza e si tende verso l’autobus che sculetta in salita, le sue labbra si schiudono e le sue parole formano un disegno di rara bellezza che sa tanto di vita. – Ivan, dammi la mano che balliamo -. Così dice. E così dicendo si allontana verso l’università.

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Titolo Autore Editore Prefazione Il 34. 1. Un ricordo. 2. 13 FEBBRAIO 2009. Mattina. Ore sette. Brina, umidità e fumo dai camini. Casa di Ivan. 3. Due anni prima. 10 SETTEMBRE 2007. Notte. L’ospedale. 4. Ospedale. Pomeriggio. 5. Ospedale. Sera e senso di notte. 6. Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Mattina. 7. Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Pomeriggio. Zio Pesce. 8. Ospedale, due giorni dopo l’incidente. Sera. Il nano. 9. Ospedale, tre giorni dopo. Mattina. Il monile. 10. 13 FEBBRAIO 2009. Ore otto. Sull’autobus. 11. 14 SETTEMBRE 2007. Ore undici. Dimesso dall’ospedale. Basta camici. 12. 13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici e venti. La ragazza universitaria in Via Cambiaso 5 scala A. Il distacco. 13. 13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici. Ivan ritorna da Recco.

14. 13 FEBBRAIO 2009. Ore sedici e venti. Ivan in Via Cambiaso 5 scala B. L’incontro. 15. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e dieci. Ivan e la ragazza universitaria uno davanti all’altro. La fuga in cento i. 16. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e dodici. 17. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e quattordici. Il pensiero della ragazza universitaria. 18. Un ricordo, una storia. Il tornitore di Grenoble. 19. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e sedici. Ivan e la ragazza. I viaggi della mente. 20. Un ricordo. 21. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e diciotto. Ivan e la ragazza universitaria. Inconscio, la mente nel cassetto. 22. Un altro ricordo. Ti ricordi Daniele 23. Ancora ricordi. Natale 1983. Sera. 24. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e venti. Ivan e la ragazza universitaria. 25. Un anno prima. 20 SETTEMBRE 2008. Un racconto 26. Un ricordo. 1986. Il tornitore di Grenoble, la sorella Helena e l’uomo. 27. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trenta. Ivan e la ragazza. 28. Due anni fa. Zitrrunas e l’uomo senza nome. 29. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentadue. Ivan e la ragazza. 30. Il tornitore di Grenoble e Zitrrunas dopo la morte di LUI. 31. 13 FEBBRAIO 2009. Ore diciassette e trentadue. Ivan e la ragazza.