N.d.P.
COBALTO
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Indice dei contenuti
COBALTO
CHAPITRE I
CHAPITRE II
CHAPITRE III
ÉPILOGUE
COBALTO
...dal greco "kobolos", traducibile con "folletto", "kobolt" in tedesco, nome dato dai minatori che incolpavano i folletti di far loro trovare un metallo inutile anziché l'argento .
CHAPITRE I
Monsieur Meinl rimase silenzioso per quasi tutta la durata della vacanza. La cosa non avrebbe certo sconcertato i pochi conoscitori della sua indole solitaria; ma esclusivamente chi poté godere del privilegio di scrutare oltre l’aria burbera e austera dell’uomo avrebbe giurato di intravedere un misto d’ansia e di trepidazione celarsi al di là del suo sguardo ingiallito. Quel pomeriggio di maggio il cielo d’Africa pareva non voler dar tregua alle povere pupille del se, ricolmando l’intera vallata del Draa di raggi argentei e decretando la supremazia celeste sulle aride terre del sud, pigramente increspate in sabbiosi declivi dai bordi molli e smussati. La città di Tazenakht distava circa 60 minuti dalla miniera di Bou Azzer: vi si giungeva da Marrakech costeggiando una regione famosa per i geodi di quarzo ametista, impressionante per il paesaggio che presentava. Giunto alla cava di Bleida udì un urlo levarsi da una delle esili torri di vedetta «Il geologo!» La frase sembrava pronunciata in un se rozzo e impreciso da qualche ragazzino berbero. Jules Meinl smontò dalla vettura brandendo per la visiera uno sgualcito chepì color kaki. D’istinto si assestò due colpi di cappello sulle ginocchia, come per allontanare la polvere, poi se lo schiacciò ben bene sulla testa, fin quasi sopra agli occhi, e s’incamminò a o deciso verso il maggiore degli edifici che circondavano la zona degli scavi. Un corteo di sei o sette uomini si accodò alle spalle del se e lo seguì parlottando e sputando in un crescendo di timore e concitazione; in un batter d’occhio tutti i minatori si radunarono in una folla chiassosa attorno all’uscio
della fortezza senza tetto in cui monsieur Meinl era entrato e da cui un vecchio, velato in tagelmust indaco, allontanava i presenti sventolando un rugginoso fucile a ripetizione. «Che succede là fuori?» Un giovane magrebino, poco più che trentenne, dal volto scavato ed appuntito come le vette estreme dell’Atlante si scostò da una delle finestre e lo ammonì col suo sguardo severo «Le voci corrono qui al campo, monsieur, e gli uomini hanno paura. Deve essere l’ultima volta» «Ma non ti rendi conto, Barouk? Questa è una scoperta incredibile e...» uno sparo dall’esterno fece sobbalzare Jules Meinl costringendolo ad interrompere il discorso là dove l’aveva lasciato. Il magrebino estrasse un barattolo di vetro da una bisaccia in cuoio. Lo maneggiò con cura, quasi come se l’esistenza dell’intero pianeta dipendesse dall’integrità di quell’ampolla. Un liquido terroso scintillò al suo interno, colpito dalla luce ambrata del vespro che pareva essere calato nella stanza scoperchiata ben prima che sul resto del mondo. «L’ultima volta» ripeté il giovane. Durante il ritorno a Tazenakht il se rimase a contemplare il prezioso bottino, cullato dal suono dell’esile sciabordio dell’umore che sbatteva contro alle pareti vetrose del contenitore e, strizzando gli stanchi occhietti, ne sfidava l’opacità come per scorgere qualcosa nascosto nelle profondità di un mare ignoto. *** Adéle Meinl si è sempre ritenuta una donna “anacronistica” per natura. La sua predilezione per gli spostamenti in nave o in treno, il ripudio di qualunque mezzo aereo e l’amore sionato per ciò che di pre-novecentesco fosse scampato all’avvento del nuovo millennio l’avevano resa celebre a Parigi
come una femme d’autrefois. Incredibilmente Adéle era in un qualche modo riuscita a mantenere intatta questa campana di vetro sotto cui viveva, circondandosi di persone che condividevano le sue stesse ioni e costruendosi un’esistenza che sembrava quasi interamente ricalcata sulle componenti meno disfattiste di un teutonico romanticismo letterario. Ovviamente non poteva mancare in lei quel fattore di fragilità dato da una certa predisposizione al melodramma e al masochistico piacere nel camuffare ogni sorta di sofferenza in una smaccata affabilità. Fu proprio in quel mattino di maggio che la donna si trovò ad affrontare uno di quegli sgradevoli e soverchianti avvilimenti. Completamente sola in una camera quattro per quarto; un letto a due piazze rifatto, un bagno con salviette bianche inamidate ed un armadio naftalinico: “gli alberghi sono tutti uguali, in fondo”. E pensare che per un attimo s’era illusa che le sarebbe bastata quella stanza, che il centro del mondo avrebbe potuto racchiudersi tra quelle quattro mura a chilometri e chilometri dalla loro casa in Rue des Degrès. Aprì un cassetto del comodino come per cercare qualcosa, fu un gesto automatico. Ovviamente lo trovò vuoto. Altra caratteristica comune a tutti gli alberghi: là dentro ogni cosa sembra vuota e piena nel medesimo tempo. Adéle spalancò la finestra per far entrare un poco d’aria, sperando di cogliere il profumo d’argan sospinto fin là da una qualunque benevola brezza, ma l’unico odore che le giunse fu il lezzo solforoso delle miniere di Bou Azzer. Tornò a sedersi sul giaciglio, rammentando le prime tappe del loro viaggio. Chissà per quale motivo, le riapparve davanti l’immagine dei giganteschi mausolei reali della dinastia merinide, a Fès: mariti come bambini inerpicati su arcaici ruderi che giocavano a fare gli esploratori, con la faccia affondata nelle loro Kodak antiquate, mentre le mogli si annoiavano al riparo delle sottili ombre della medina. Ora capiva perfettamente come si sentivano quelle donne.
Madame Meinl si rialzò di scatto, per scacciare quei pensieri, e andò accanto all’ingombrante baule da viaggio che emergeva semiaperto sotto alla cascata di tendaggi blu oltremare, ammassate su di un lato del baldacchino. Da lì estrasse delicatamente un lungo abito color avorio dai raffinati dettagli cremisi, lo strinse al petto facendone combaciare le spalle alle sue, poi si sporse, come per guardarsi i piedi, tentando di cogliere una visione d’insieme. Il davanti dell’indumento cadeva dritto, concentrando gran parte del volume sul retro, impreziosito da panneggi, arricciature ed un piccolo strascico; la ricchezza della gonna era enfatizzata da un tablier arricciato, tempestato di bottoni, frange, trecce, nastri e nappe. Adéle sospirò disapprovando l’ampollosità del vestito; optò per qualcosa di più sobrio da indossare per la cena di quella sera. Qualcosa che Jules potesse apprezzare. *** Monsieur Meinl arrivò verso le nove e trenta di sera, dopo un estenuante viaggio di quasi sei ore. Il viso stravolto, avvampato dal sole del deserto; i radi capelli ferrigni emettevano riflessi di ardesia una volta liberi dal giogo dell’opprimente chepì. Adéle lo attendeva già al tavolo numero otto del ristorante nell’albergo. La donna portava un abito bruno che le scivolava aderente al corpo, sulle reni, ornato da pochissimi panneggi e da arricciature relegate nella parte bassa della sottana. Nonostante l’apparente semplificarsi delle vesti, però, questa nuova linea era in realtà molto più scomoda rispetto alla prima provata quella stessa mattina, poiché la gonna stretta e fasciante le rendeva faticoso camminare. Un grande chignon raccolto in cima alla testa accentuava ulteriormente la flessuosità della sua pallida figura. Jules baciò la moglie, come di consueto sulla guancia sinistra, per poi sedersi nel posto dirimpetto.
Lei trovò singolare quella sensazione di pizzicore data della barba dell’uomo, visto che in ventiquattro anni non c’era stato giorno in cui lui non si fosse rasato. Un cameriere ò accanto a loro trascinando un carrello con un recipiente fumante, in terracotta. «Ah, tajine! Se non sbaglio quello è agnello servito con prugne e mandorle, qui lo chiamano mrouzia» Le narici di monsieur Meinl inspirarono rumorosamente, lasciandosi rapire dalle suggestioni che solo le fragranze combinate di certe spezie possono evocare. “Se la musica di Hassell potesse avere un equivalente olfattivo” pensò “lo si troverebbe di sicuro dentro ad una cucina di Marrakech”. I coniugi ordinarono: Jules si sollazzò nell’assaggio di pollo accompagnato da olive e limoni in salamoia, mentre Adéle si accontentò di una zuppa berbera affiancata da una manciata di datteri. I garçon sembravano vorticare come dervisci rotanti nei loro ampi grembiuli mentre tutt’intorno vibravano i sei quarti di un atipico basît, preludio di una nuba, forse più andalusa che marocchina, sostenuta dalle ritmiche oblique di un darabouka indiavolato. La donna si soffermò a fissare gli individui ai tavoli accanto. Curiosamente, proprio in quel caos festante, madame Meinl non poté fare a meno di classificare i silenzi che subdolamente s’insinuavano nelle vite degli altri. Ne identificò di diversi tipi - o almeno così le parve di intuire a seguito di un’arbitraria analisi che soltanto ai suoi occhi era concessa eseguire. Cominciò con quel paio di signori accanto all’ingresso: lui molto distinto, sulla sessantina, affettato persino nell’impugnare le posate. Per nessun motivo distoglieva lo sguardo dal piatto, stando bene attento a non poggiare mai i gomiti sulla tovaglia. Masticava lentamente, come se ruminasse, misurando con parsimonia la disposizione dei pezzi di carne che sminuzzava.
La donna di spalle, che gli sedeva frontalmente, doveva avere meno di trent’anni; forse egli ne era il padre. Adéle pensò che fosse straordinariamente bella mentre la sorprendeva a lanciare occhiate al cameriere più giovane: un mulatto dal fascino ramingo, con gli occhi del colore del ghiaccio d’Islanda. Il secondo tavolo che attrasse la sua attenzione ospitava due ragazzi sulla ventina, nord europei a giudicare dai lineamenti. Erano seduti uno accanto all’altra e le loro mani sembravano essere ancor più fameliche delle loro bocche. Non si scambiavano parole, ma solo sorrisi complici seguiti da sospiri. La signora Meinl intuì che quella cena doveva essere per i giovani solo un intermezzo, un modo di spezzare le ore d’amore che furono e che sarebbero succedute. Forse erano sposi novelli, oppure, perché no, amanti clandestini. Nella loro trepidazione non poté non rivedere un poco della sua antica ione. Lui mise una braccio sotto al tavolo, certamente in cerca della sua coscia; la ragazza guidò il gesto del compagno sovrapponendo la propria mano, come per meglio instradarlo; poi divaricò lievemente le gambe. Il terzo silenzio, invece, racchiudeva qualcosa di amaro ed allo stesso tempo ardimentoso. Era il mutismo di chi non ha alcun commensale con cui conversare; un ospite solo, seduto in un posto d’angolo, pareva essersi accorto dell’analisi che Adéle stava eseguendo. La fissò per qualche istante con occhi che tradivano una certa tristezza; occhi profondi e gentili, di una pudica umiltà. L’uomo accennò un sorriso che le rammentò qualcosa di famigliare. «Non vuoi sapere dove sono stato ieri?»
La penetrante voce di Jules sembrò squassarla da un torpore. Sapeva benissimo la risposta, ma finse interesse palesando uno smaccato eccesso di cortesia. L’espressione di monsieur Meinl si fece seria, quasi sospettosa; probabilmente qualcosa, in quegli ormai arcinoti abusi di carineria, aveva smorzato il suo entusiasmo. Buttò lì uno svogliato “giù, alla cava”. La moglie capì al volo di aver urtato in qualche incomprensibile maniera il permaloso animo del marito: si trattava di un copione già recitato in migliaia di altre occasioni. Per l’ennesima volta fu costretta ad adottare la tattica della curiosità; non prima, però, di aver trovato una buona ragione per motivare la sua iniziale disattenzione. «Perdonami caro se non sono molto loquace stasera. Sai, le mie emicranie…» Lo sguardo dell’uomo mutò immediatamente: la notte che regnava nel suo ciglio fu dissolta dal sorgere di quei due soli di giada che avevano ancora il potere di farla sussultare. Jules si profuse in scuse e le baciò la mano annusandone le delicate dita. La sua voce era tornata calda ed ovattata come lo fu nelle sere d’estate della loro giovinezza, quando le giungeva dalle Alpilles fin sotto al davanzale della camera, portata dal soffio del Maestrale, quasi a volersi confondere col canto dei grilli e col fruscio delle fronde, così da non svegliare i suoi genitori. Un canto d’amore che soltanto lei conosceva. «Hai trovato qualche spunto per il tuo libro laggiù?» L’esaltazione tornò via via ad illuminare il volto del marito che, con l’innocenza di un bambino, sembrava avere già dimenticato lo screzio. «Molto di più Adéle! Ho trovato una storia! I ragazzi alla miniera hanno
scoperto qualcosa di incredibile. E dovresti vedere Barouk: è terrorizzato!» L’eccitazione dell’uomo cozzava con la cupezza del racconto. Madame Meinl continuò con le domande, rendendosi conto di essere realmente interessata all’argomento. «Immagina un deserto. E’ giorno, la luce sembra quella del pomeriggio. Ti trovi in una prominenza rocciosa dai colori che ricordano la ruggine; poco lontano si stagliano le sconfinate miniere di cobalto...» Monsieur Meinl muoveva le mani nell’aria come se collocasse pannelli invisibili davanti a sé. «Odi un grido. Arrȇtez! Arrȇtez! Qualcuno dei tuoi compagni ha appena trovato una pietra scura, vagamente quadrata, che reca incisi disegni preistorici: figure umane stilizzate. Parli con il capo squadra di questa scoperta, ma non sembra dargli peso. Pare anzi che tutti guardino con diffidenza la roccia: le scene che raffigura sono infatti di una violenza agghiacciante. Nonostante ciò, decidi di appropriarti del reperto: in fondo non starebbe male come soprammobile; oppure potresti sempre ricavare qualche spicciolo vendendolo ad uno di quei collezionisti maniaci di para-archeologia. Per cominciare, capisci che dovresti dare una bella spolverata all’artefatto: prendi una spugna umida e inizi a lavare la pietra che è tutta insabbiata, dall’aspetto riarso e secco. Al primo contatto con l’acqua, però, la roccia si rivela essere composta da argilla rappresa: essa infatti si avvia ad un graduale disfacimento, liquefacendosi letteralmente tra le tue mani.
Sei delusa, quasi arrabbiata, ma a un’attenta analisi scorgi qualcosa emergere dalla melma: corpuscoli vermiformi, simili a girini, che si rianimano non appena vengono bagnati. Sono neri, almeno sette o otto. Improvvisamente la testa si affolla di domande: ti chiedi se siano sempre stati li dentro, imprigionati nella pietra; quanti secoli possano avere; che civiltà hanno veduto fiorire. Ma soprattutto ti domandi: che diavolo sono? Rosa dal dubbio, decidi di raccoglierli in barattoli di vetro ricolmi d’acqua…» Il marito si fermò, restando per un poco immobile ad osservare la consorte. Sembrava essere in attesa di un giudizio. «Oh caro ma è…è...» Adéle cercò la parola giusta per definire l’idea. Sapeva che se avesse usato un aggettivo oltremodo altisonante sarebbe stata scambiata per un’adulatrice, rischiando di far ricadere Jules nella solita amarezza; ma anche ad un responso troppo tiepido avrebbe seguito una reazione dell’uomo alquanto ostile. «…è accaduto realmente?» La tattica di cambiare argomento si dimostrò vincente: lui annuì con un sorriso spocchioso. «Monsieur Verney e gli altri moriranno d’invidia quando gli mostrerò una di quelle creature» «E sono sicura che questa volta la tua storia verrà pubblicata! Ma ci pensi, Jules? Un libro tutto tuo! Un romanzo intero nato dalla tua bellissima fantasia!» Stavolta Madame Meinl era realmente felice, perché vedeva finalmente i primi veri segni di distensione sul volto dell’uomo, come se una catastrofe fosse stata
nuovamente scongiurata. In fondo è sempre stata così la vita al fianco di suo marito: una lotta continua tra lei e le ombre che dimoravano nel tormentato animo del compagno. L’indole romantica l’aveva spinta proprio fra le sue braccia, meste e volubili, impegnandola in una battaglia quotidiana in cui la pace del coniuge s’era rivelata essere la sua principale ragione di vita. «Chissà come sarà contento Emile quando gli parlerai del libro...» Jules Meinl smise di sorridere, pur mantenendo una parvenza di serenità; ma il tono tradì nuove inquietudini «A mio fratello non è mai interessata la letteratura» Dopo queste parole la cena proseguì nel consueto mutismo. Adéle, ormai vinta, non provò più a riprendere la conversazione. Tornò invece a cercare con lo sguardo il tizio solitario dagli occhi gentili, ma notò con rammarico che il tavolino nell’angolo era vuoto.
ⱷ La villa dei Laurent distava solo pochi metri da Rue des Degrès. Adéle camminava spedita, seppur a piccoli i; la testa china e lo sguardo basso, ignorando il profilo geometrico che le lattiginose abitazioni dalle mille finestre conferivano all’Ile Saint-Louis. Vista dall’alto l’isola sembrava un’immensa nave ormeggiata al centro della Senna tramite i cinque ponti che, come cime in tensione, parevano condannarla al suo immobile torpore. Il clima di giugno concedeva ancora di godere delle ultime frescure, prima che la canicola estiva si abbattesse impietosa sulla Ville lumière. Enormi nubi cineree si davano battaglia nei cieli, mulinando come impetuosi cavalloni marini, schiumando e mescendosi fino a comporre fluttuanti promontori capovolti dalle ripide sponde di bambagia. La signora Meinl non sembrava rimpiangere per nulla gli spogli paesaggi nordafricani. Era ato quasi un mese dal loro rientro a Parigi, e Adèle aveva ripreso la solita routine, destreggiandosi tra i vari impegni che andavano dalla cura della casa, al lavoro alla Mazarine, per concludere con le lezioni private impartite ai capricciosi figli della “nobiltà decaduta”, relegata in quel cantuccio del lungosenna. Madame Laurent aveva sempre manifestato un certo orgoglio per quella condizione di “esilio” a cui si era volontariamente asservita. Esattamente come Adéle, infatti, ella sentiva di appartenere ad un tempo mitico, ormai cessato, in cui il ricordo dei giorni spenti coincideva, in un certo qual modo, con una sprezzante intolleranza verso tutto ciò che rappresentava la modernità. La prima e più evidente forma di ripudio della donna si manifestò proprio con il disconoscimento delle istituzioni pubbliche, come ad esempio la scuola,
preferendo che la figlia Renée non si mischiasse ad un cumulo caotico di mocciosi dalla dubbia provenienza. La sua condizione di “borghese dalle origini nobiliari” le donava altresì un’arroganza ed un eclettismo tali da risultare seccanti all’animo umile della signora Meinl, nonostante la grandissima stima che la nobile nutriva nei suoi confronti. Forse fu proprio per questo motivo che Marie Laurent volle a tutti i costi affidarle l’arduo compito di istruire la figlia di sette anni in ciascun ambito delle scienze umane. *** «Adéééééle! Ma chère! Com’è andato il viaggio in Africa?» Più che una voce sembrava uno squittio. Madame Laurent abbracciò la signora Meinl fingendo di baciarla su entrambe le guance. La donna aveva qualche anno in più di Adéle, ma la trattava come se fosse ancora una ventenne, quasi percepisse una differenza culturale più che anagrafica; erano infatti due distinte epoche ad incontrarsi in quello sfarzoso salone di una villa nel cuore di Parigi: l’età Borbonica salutava quella Napoleonica. In compagnia di Marie vi era una signora molto anziana, assisa su di una bergère dalle imbottiture color verde acqua e le opulente finiture floreali in oro bianco; stava immobile, come impagliata, quasi nel tentativo di mantenere una postura eretta con la sola forza dei gomiti, ben aderenti ai due braccioli di faggio scolpito. «Madame Voisin, vi presento la signora Meinl; ricordate? Vi ho parlato tanto di lei» La donna abbozzò un sorriso senza scomporsi. Sembrava non aver ben inteso le parole della padrona di casa.
Adéle accennò comunque un debole inchino, sollevando dolcemente i lembi della lunga veste. La Laurent non riuscì a trattenere un risolino, intenerita dalla ridicolezza di quel gesto smodatamente aggraziato. «Mia cara, la tua raffinatezza non smetterà mai di sorprendermi, non ho ragione madame?» L’anziana assentì, dondolando il capo con eccessivo vigore. «D’altra parte la nostra Adèle è ormai di casa qui; e non l’avrei certamente scelta per la mia Renée se non fossi stata certa di avere a che fare con la donna più retta e colta di Parigi!» La Meinl abbassò lo sguardo e sorrise, manifestando un certo imbarazzo a quelle lusinghe. «Figuratevi che conosce a memoria l’intero elenco dei libri conservati alla Mazarine! Ho addirittura il dubbio che ne abbia letti tutti i volumi...» «Andate spesso in quella biblioteca?» Finalmente la Voisin fece udire la sua voce, aggiustandosi sul dorso un minuscolo scialle nero in macramè. La serie di nodi e pizzi componeva uno spettacolare intrigo di geometrie e figure dagli esotici richiami moreschi. Marie non lasciò il tempo alla donna di rispondere, irrompendo in una fragorosa risata «Oh mon Dieu! Che domande: è la Direttrice!» «…vice…» la corresse Adéle con un filo di voce, ma la prolissità della donna era incontenibile. «E suo marito è professore di paleontologia alla Sorbona...» «…geologia...» «I Meinl rappresentano un’autentica rarità nel panorama coniugale moderno:
sono infatti l’unica coppia ancora solida, dopo oltre vent’anni di matrimonio, di cui io abbia notizia. Pensate che si conoscono fin da bambini. E pare si siano sempre bastati l’uno all’altra» Ora l’ospite avvertiva un crescente disagio, forse causato dall’indiscrezione della Laurent, che non pareva tenere in conto il suo riserbo, rivolgendosi alla Voisin come se lei non fosse presente nella stanza. «Dammi retta Adéle: in te c’è qualcosa di bellissimo e speciale che molte donne, me compresa, t’invidiano.» Marie s’appressò ad un commode con specchiera in stile impero, fissandosi il viso esangue; massaggiava le tempie con i soli indici, in un movimento lento e simmetrico che attraversava diagonalmente gli zigomi, lungo due profonde rughe oblique, fino a terminare ai lati della bocca. La sua voce divenne triste. «Poter dare all’amore un solo volto, un unico corpo immutabile, senza trovarsi costrette a doverne mascherare i connotati per alleviare il dolore della perdita; senza dover sovrapporre le fattezze di altri due, dieci, mille amanti, scacciando amarezza con amarezza. E alla fine ti rendi conto che l’amore non è altro che un mostro con centinaia di occhio; un’idra dalle infinite teste, nata per succhiarti la giovinezza e i sogni...» Uno scalpitio proveniente dalle scale costrinse la donna ad interrompersi. i leggeri, ma veloci. «Renéeeeee! Luce dei miei occhi!» Al comparire della bambina, la Laurent riacquisì la frivolezza iniziale. La piccola corse immediatamente ad abbracciare la madre, facendo bella mostra del suo nuovo fermacapelli rosso fiammante; poi si voltò e salutò le ospiti simulando un goffo inchino settecentesco. «Buongiorno maestra Adéle, buongiorno madame Voisin» sorrise esibendo gli spazi vuoti lasciati dalla permuta dei primi denti decidui.
Marie la baciò nuovamente, poi prese a parlare della figlia nello stesso modo in cui, poco prima, aveva parlato della Meinl: ossia come se la bambina non fosse presente. «Renée è fantastica, non ho ragione maestra? Impara tutto alla velocità della luce. A sette anni conosce già perfettamente il se, la matematica e l’intera geografia europea! Dimmi bambina mia: dove sta ora il tuo papà?» «Stoccolma» rispose la ragazzina. I suoi occhi color miele risplendevano nel riflesso della specchiera. «E sai dove si trova Stoccolma?» domandò la Voisin con inaspettata brillantezza. «In Svezia» replicò seccamente la bambina che ora sembrava attratta da qualcosa nell’abito dell’insegnante. Anche la madre parve accorgersene, e le chiese cosa avesse veduto di tanto interessante. Lei continuò a fissare all’altezza del ventre della donna, come se assistesse ammaliata al più incantevole spettacolo che i suoi giovani occhi avessero mai ammirato. Nel silenzio di quel pomeriggio di giugno la voce innocente di Renée vibrò solitaria nella villa «Quand’è che il bambino esce dalla tua pancia?» *** Jules Meinl aspirò adagio, con boccate corte e ritmate, spandendo nell’aria dense volute opaline che persistevano lungamente nella loro indecifrabile danza, confondendosi tra i suoi capelli e sconvolgendone i contorni. Pur considerandosi un neofita dello strumento, l’uomo aveva già acquisito una certa dimestichezza, palesando una notevole disinvoltura nel comprimere la brace col curapipe. Tra gli apionati c’era chi toglieva via la cenere; lui
preferiva lasciarla, affinché il fumo giungesse meno caldo alla bocca. «Amici miei: il profumo del Saint Claude ricorda incredibilmente quello di una Gauloises» Esordì rivolgendosi ai due ospiti. «Già: una Gauloises annegata in un bicchiere di Cointreau in una viziosa stanza d’albergo di Pigalle» lo corresse l’uomo seduto sul sofà. «Verney, vecchio mio, non ti smentisci mai: sempre a pensare alle donne» l’apostrofò l’altro individuo, in piedi accanto ad un encoignure a doppio sportello in stile shabby chic, con legno ridipinto in giallo “guscio d’uovo” e le due corte gambe dai dettagli grigio chiaro; tra il medio e l’anulare stringeva lo stelo di un massiccio calice di cognac, che reggeva con tale voluttà da farlo apparire, nel suo palmo, come una polposa mammella brunita. I tre uomini erano usi riunirsi una volta al mese in casa Meinl per inscenare l’ennesimo teatrino anacronistico che tanto garbava ai coniugi parigini: un salottino fine ottocentesco in cui disquisire di arte, religione e filosofia, rispolverando desuete regole del bon ton, dilettandosi nell’ostentazione di un futile savoir-faire e praticando la totale astinenza da tutto ciò che poteva dirsi “attuale”. Jules era solito definire quella specie di giuoco col nome di “Boudoir Anacronistico”. I frequentatori di tale esclusivo circolo erano solitamente due, massimo tre individui che si trovavano a condividere col professore uno stile di vita particolarmente “ naif”; ciascuno di loro, però, appariva incapace di affrancarsi realmente dai classici canoni che la storia ciclicamente ripropone, incarnando paradossalmente una versione amplificata di ognuno dei consueti cliché sistici. Ecco allora fare la sua comparsa Thomas Charbonnier, il bohémien. Professore di estetica alle Belle Arti, oltre che cofondatore del Boudoir, Charbonnier non mancava mai di ricordare ai suoi studenti che il loro impegno doveva focalizzarsi sempre e solo sull’arte come “mezzo di sovversione dei principi che governano la società”.
Egli infatti riteneva lacerante l’incomprensione che nasce tra la libertà d’espressione del singolo artista e la lettura che ne esegue la massa, pigra e corrotta, infarcita di “buon senso comune” e di valori precostituiti. Andava quindi a spiegarsi il motivo per cui quell’ometto, estremamente magro e dalla barba caprina, si affannava a combattere una disperata e fallimentare guerra “totale”, tentando persino di demolire gli ideali dei suoi celeberrimi precettori, in nome di una esclusiva ed inimitabile “autenticità”. Per Thomas, di fatto, ogni prodotto di questo tempo si rivelava essere unicamente il frutto della reiterazione di qualcosa concepito da qualcun altro in epoche ate; solo ciò ch’era filtrato dal suo infallibile senso estetico, in uno smodato eccesso di presunzione, gli risultava degno di venire tramandato ai posteri. Tutto questo lo portava a ideare concetti estremamente confusi, spesso contraddittori, basati più sul timore di replicare un’idea non sua, piuttosto che sull’esigenza di esternare le spontanee (e ben più comuni) riflessioni che covava in un angolo oscuro del suo animo. «Amo il tabagismo: sembra essere rimasto il solo modo per coltivare l’antica arte dell’appartarsi.» Disse Charbonnier dopo aver soppesato attentamente ogni minima parola. L’altro ospite simulò un ironico applauso, come a sottolineare la futilità dell’ennesimo aforisma. Costui, infatti, era l’esatto opposto di Thomas. Attempato psicologo di ottima fama, noto circuitore di giovani pazienti e bevitore indefesso, Jean Luc Verney poteva definirsi lo stereotipo del libertino settecentesco. L’indole oziosa e gaudente dell’uomo lo aveva portato, negli anni, ad accumulare peso, manifestando una ragguardevole pinguedine, croce e delizia della sua spiccata arte amatoria. Per lui le fanciulle erano freschi fiori su cui posarsi, giusto il tempo di assaporarne il primissimo nettare, per poi librarsi nuovamente in volo,
trasportando le sue pesanti spoglie verso un nuovo, incontaminato orizzonte. Il suo linguaggio era notevolmente meno raffinato rispetto a quello dei due amici, seppur maggiormente colorito e coinvolgente; forse fu per questo motivo che Verney riuscì a pubblicare, in gioventù, un’irriverente commedia che per qualche anno sembrò spopolare tra i cultori parigini delle “depravazioni letterarie”, facendo accostare il suo stile a quello del Diderot più frivolo. Ciò aveva sempre cagionato una certa invidia da parte di Jules che da anni tentava, invano, di farsi pubblicare una raccolta di versi composti in tarda adolescenza. Inoltre Jean-Luc, tormentato dalla sua caratteristica inclinazione alla noia e all’insofferenza, tendeva spesso a saltare da un discorso all’altro, prediligendo le tematiche più mondane e divenendo quasi sempre l’introduttore di nuovi argomenti. Proprio due minuti prima, infatti, l’uomo aveva avviato un dibattito sull’arcano e sui fatti oscuri che s’insinuano nella quotidianità, ando la parola a Thomas e fissandolo con i suoi occhi sporgenti che, se chiusi, parevano contorcersi sotto alle palpebre come piccoli pesci agonizzanti. «Mettiamo che una persona dica “mi vogliono uccidere” e indichi anche chi e perché. L’idea di per sé è verosimile, cioè teoricamente “può essere”. Ciò che importa è “come” la persona esprime questa convinzione; cioè come ha iniziato a concepirla, cosa l’ha indotta a convincersi di tale pensiero. Un ragionamento normale, non importa se inizia per intuizione o per osservazione, procede in ogni caso con una verifica per arrivare ad un giudizio finale provvisorio. Ecco: dall’altro giorno è nata in me un’ossessione totalmente priva di ragione. Mi trovavo in una piccola brasserie di Montmartre, un posto molto affollato; talmente gremito da farmi decidere di spostarmi in quella accanto, che appunto era stranamente vuota. Appena entrato domando subito una birra, una belga; il ragazzo al bancone, un
bretone, mi chiede 6 euro; io infilo automaticamente una mano in tasca, cercando qualche spicciolo: sono sicuro di avere quei soldi con me. Inizio a frugare ovunque, persino nelle scarpe, nulla: solo monete sparse; ma nonostante tutto non arrivo a quei 6 euro. Non ricordo esattamente come accadde, infatti fu tutto molto strano: accanto a me fa capolino un altro cliente, una persona che sicuramente non conosco e peraltro non ne ricorderei nemmeno le fattezze. Questo tizio paga la mia belga senza nemmeno attendere che lo ringrazi. Prima di andarsene biascica parole oscure: dice che fra 6 giorni qualcuno morirà. Ho subito pensato che fosse un pazzo, o un ubriacone, ed ho tentato di non dare peso a quelle frasi bislacche, ma ormai nella mia testa è scattato un implacabile conto alla rovescia. E, quel che è peggio, è che non riesco a non credere che si riferisse a me. Appena uscito dalla brasserie ho gettato un occhiata al quadrante del mio orologio: segnava le 6 e 06.» Gli uomini rimasero in silenzio, attendendo che svanissero le ultime suggestioni del racconto. Jules si alzò lentamente dall’ottomana in legno e cotone capitonnè, lasciando l’impronta del suo fondoschiena sulle grandi losanghe purpuree, poi s’appressò ad un ottocentesco meuble d’appui dall’aspetto polveroso, certamente trattato con grassello di calce a giudicare dall’effetto opaco e materico, replica inesatta di un Dasson, semplificata nel decoro ma con la stessa placca raffigurante Cerere su piedistallo. Meinl estrasse dallo scomparto di sinistra un barattolo di vetro, uno di quelli in cui si conservano i sottaceti, circondato da una guarnizione in gomma elastica e sigillato da una chiusura metallica. «Ora, amici miei, voglio mostrarvi la stranezza in cui io stesso mi imbattei un mese orsono, durante il mio viaggio in Marocco»
La voce dell’uomo tradiva una grande emozione mentre raccontava per filo e per segno i dettagli di quell’enigmatica vicenda. Charbonnier gli si avvicinò senza fretta, trangugiando l’ultimo sorso di cognac. Stavolta il contenitore lasciava intravedere qualcosa al suo interno: un essere filiforme di colore indefinito, una tonalità che andava dal marrone chiaro, come quello ingrigito della corteccia di quercia, al giallo senape della solidago virgaurea, screziato qua e la da fulgide striature turchine, che rilucevano come fiammelle di metano nell’oscurità di quel brodo di sostanze predigerite. «A quale specie appartiene?» Thomas studiava la creatura con estrema attenzione, tentando di identificarne la testa, che però sembrava confondersi tra le prime due spire concentrate sul fondo del contenitore. «Ma non hai capito? Jules ha appena detto che quell’essere era imprigionato in una roccia risalente ad almeno duemila anni fa…» lo redarguì Verney dal sofà, poco prima di addentare una grossa fetta di tarte tatin appena sfornata dalla signora Meinl. Il piccolo cranio glabro riluceva oleoso come una tiara papale sopra allo sguardo estatico dello psicologo. «Cos’hai intenzione di farne del lombricone?» continuò l’uomo masticando senza eleganza «vuoi mostrarlo agli zoologi della Sorbona?» Jules scostò la pipa dalla bocca, tastando la temperatura del fornello. La sufficienza con cui l’amico commentava la sua scoperta gli procurava repentine vampate di calore che sembravano ustionargli il volto ed il collo. L’ardore improvviso non era dovuto al bollore del legno, ma al ridestarsi dell’antica invidia verso quel vecchio maiale cui ogni cosa riusciva con straordinaria semplicità. Jean Luc Verney possedeva, infatti, tutte le doti comuni agli uomini di successo, tra cui un’innata sfacciataggine, un’assoluta mancanza di empatia e di tatto nei confronti di coloro ai quali la natura non aveva concesso la sua stessa abilità
nello scodellare perle di letteratura. Egli era il classico misto di genio e sregolatezza, troppo indaffarato a sollazzarsi nei piaceri mondani per comporre qualcosa di rilevante, pur sapendo che al primo tentativo si sarebbe certamente aggiudicato il plauso delle masse. E proprio questa specie di “umiltà”, questa apparente trascuratezza verso il proprio “talento”, faceva maggiormente infuriare individui come Meinl, che da più di quindici anni dedicava ore ed ore della giornata nel vano tentativo di attingere alla divina fonte da cui tutti i più grandi narratori s’erano abbeverati. Quell’uomo grasso ed untuoso sapeva benissimo che qualunque altro romanzo avesse buttato giù, così, senza nemmeno una seconda lettura, sarebbe divenuto immediatamente un caso editoriale; e invece se ne stava là, accucciato sul sofà di Jules, ad ingurgitare tarte tatin immaginando ragazzine nude e ponendo domande di disarmante ingenuità. «Voglio scriverci un romanzo» tagliò corto l’uomo. Charbonnier si voltò di scatto, facendo dondolare sopra le piccole orecchie i lunghi riccioli color ruggine. «Mais c’est fantastique, mon ami!» esclamò. Poi tornò ad osservare il barattolo «di cosa si nutre?» Meinl strinse le spalle «ecco un altro mistero: in questo tempo non ho fatto altro che cambiare l’acqua al contenitore, come si farebbe ad una pianta. Tutto qui. Sembra che questa creatura assorba qualcosa dal liquido, non so, forse i sali minerali.» «Assolutamente incredibile!» Lo stupore di Thomas parve quietare gli ardori dell’uomo, che ora era tornato a sedere sull’ottomana, assestando colpetti sul retro della pipa affinché rotolasse fuori il tabacco inumidito. «E per quale motivo l’acqua ha quello sgradevole colore?» chiese lo psicologo. «Forse è un qualche materiale di scarto espulso dalla creatura, non saprei...tu che ne pensi Jules?»
Meinl posò lo strumento che stava ripulendo con tanta cura, levò gli occhi sui suoi ospiti ed assunse un’espressione lugubre «Non ho risposte nemmeno a questa domanda; l’unica cosa che so è che, qualunque sia il suo nutrimento, questo essere sta subendo una mutazione straordinariamente veloce ed imprevedibile.» *** La cucina sembrava acquisire un’aria differente a seconda dell’ora del giorno. Placida e discosta come un gatto avviluppato, la stanza pareva accogliere il mattino con un occhio semichiuso, in attesa che arrivassero i primi raggi del meriggio ad espanderla e indorarla tramite la grande finestra di ponente. Spesso Adéle si divertiva ad osservare quelle traiettorie eteree infrangersi contro ai tondi appesi, uno per ogni città che avevano visitato, seduta sulla massiccia scala a chiocciola che da basso conduceva alla camera da letto. Nelle ore notturne, invece, la cucina si spogliava d’ogni pudore, esprimendosi con i suoi illogici fonemi, fatti di gorgoglii e andirivieni d’invisibili risacche, infondendo alla donna l’abulica tranquillità di chi s’appresta a sopirsi su di una battigia desolata. Dal corridoio d’ingresso giungevano le voci dei tre uomini: un’esclamazione di stupore di Charbonnier seguita dalla risata sguaiata di monsieur Verney. Adéle provò un moto di repulsione all’udire il ghigno dell’uomo. Jean Luc, infatti, non le era mai piaciuto. Odiava soprattutto il modo in cui lui la guardava, come se la spogliasse con quegli occhietti protesi; senza dimostrare il minimo rispetto verso Jules. Madame Meinl richiuse il forno avvertendo ancora il profumo dalla pasta brisè e delle mele cotte; si lavò le mani, asciugandole nel grembiule a quadri che indossava ogni volta che si metteva ai fornelli; infine sciolse il grande chignon sulla sua testa, facendo ricadere i lunghi capelli dietro alle spalle. Incredibilmente essi avevano mantenuto quasi intatto il colore di un tempo: la
vividezza del biondo s’era soltanto in parte dispersa, lasciando spazio ad un lieve grigiore tendente al paglierino. Adéle tornò di fronte al forno, lo riaprì, v’infilò una mano come per cercare qualcosa; poi si riaccostò al lavabo, scrutò per terra, appoggiandovi entrambi i palmi. Frugò nelle tasche della sopravveste, manifestando stavolta una sincera agitazione «...dove si sarà cacciata?» ripeteva con sempre maggior foga. Analizzò attentamente lo strofinaccio in cui s’era asciugata, controllò nel cassetto col libro delle ricette, scrutò persino tra gli ingredienti, aprendo il barattolo della farina e setacciandola: niente. Si portò una mano alla bocca, improvvisamente terrorizzata da un immagine spaventosa «Che sia finita nell’impasto della torta?» «Non starai per caso cercando questa, Adéle?» Un uomo dalla chioma corvina ed arruffata fece la sua comparve sulla soglia d’ingresso alla cucina. L’individuo le sorrideva mentre stringeva tra l’indice ed il pollice una minuscola vera. «Emile!! Quando sei tornato?» Lui si avvicinò con aria solenne, prendendole dolcemente la mano sinistra ed infilandole l’anello ritrovato. « Sì, lo voglio…» le sussurrò, accennando un sorriso delicato quanto una carezza. Qualcosa nella risata di Emile riportò la donna all’ultima sera in quel ristorante a Tazenakht, quando incrociò lo sguardo del viaggiatore solitario; saranno stati i suoi occhi gentili e tristi, oppure quella particolare solitudine in cui soleva
rinchiudersi l’uomo: un quieto, poetico isolamento, rassicurante e foriero di una saggezza mistica. «“Dovresti stare più attenta a dove lasci la fede, mia cara!”…sai com’è fatto mio fratello: non ti avrebbe più parlato per un intero anno. Anche se dubito che se ne sarebbe accorto…» «Non essere troppo severo con Jules. In questi giorni è molto impegnato con il suo “romanzo”. Tutto qui. Lo conosci meglio di me: per lui riuscire a pubblicare un libro sarebbe come ricevere un “riconoscimento” da parte del mondo; la prova tangibile del suo talento e della sua sterminata cultura» «Già, difendilo pure. E intanto scommetto che non s’è nemmeno accorto che hai cambiato profumo; dopo ben quindici anni. E’ buonissimo.» Emile le annusò il polso, tentando invano di riconoscere le note calde e avvolgenti di argan. Non seppe definirlo se non con l’immagine, al contempo sacra e carnale, di un’odalisca dalla pelle di nocciola, seminuda, impegnata in una danza moresca; uno di quei balli capaci di ammutolire qualunque uomo; lasciarlo li, inerme, ad assistere all’immane mistero che è la donna, smarrito come un bambino di fronte a cotanta preziosa bellezza e voluttà. Egli pensò subito che quella fragranza non si addiceva al tipo di bellezza rappresentato da Adéle: la figura selvaggia, dominante e ionale evocata dal profumo cozzava notevolmente con l’indole riflessiva e pudica della signora Meinl. La temperanza, la sfuggevolezza e la sua carnagione pallida la rendevano più facilmente accostabile a quelle mitiche creature conosciute col nome di driadi. Tutto il fascino della donna infatti era custodito nei suoi grandi occhi fugaci, nella sensualità celata sotto alla ritrosia, in ciò che le consuete trecce olandesi, il naso sottile, scavato sul dorso e dalla punta all’insù, richiamavano alla mente di ogni maschio: l’avvenenza di chi racchiude in se lo spirito dei boschi e della terra.
*** Thomas fu il primo ad accorgersi del loro ingresso nel salone, nonché l’unico a dare il benvenuto ad Emile. Gli altri due si limitarono ad esibire un sorriso di circostanza. «Quando sei tornato?» domandò Jules porgendogli un bicchiere di cognac. Tra i due fratelli v’era una considerevole differenza d’età, maggiormente accentuata dai diversi stili di vita. Emile, infatti, pur manifestando i caratteri di un’esistenza dedita al nomadismo e alla ricerca intesa come “sperimentazione”, esibiva un corpo ancora atletico, solcato dai segni di quella trascuratezza che spesso scolpisce le membra degli individui più impavidi: barba folta ed arruffata, guance scavate, mani gonfie e lacerate, dalle unghie spigolose e smangiate. La sua abilità nei mestieri lo aveva spinto ad esercitare qualsiasi genere di lavoro, dal guidare le transumanze attraverso i verdi pascoli del Wyoming fino al conciare pelli di cammello nelle remote ed affascinanti città del Rajasthan; dal fabbricare abiti in lana di lama a Santiago del Cile, fino ad apprendere l’arte astratta degli scultori kavangos namibiani, presso la città di Okahandja. Il signor Verney decise finalmente di sgranchirsi le gambe, liberando il sofà dal peso della sua grande mole. «Carissimi! Siete giunti appena in tempo: il buon Thomas ci stava esponendo la sua idea di “amore”» li aggiornò Jean Luc, non senza evidenziare una punta di sarcasmo. «Non esattamente. In realtà stavo parlando della sola cosa che conosco: la solitudine.» lo corresse Charbonnier. «La vera solitudine è come quelle malattie rare che affliggono un individuo su un milione. Destinato ad averla come compagna per l’intera vita, sino alla tomba: egli solo paga il pegno di un‘intera umanità sana che finge acciacchi e corre dal medico al primo malanno. E’ un supplizio, un anatema in cui tutto concorre ad amplificare il vuoto.
E’ camminare muti lungo una strada di sospiri. E’ morire di sete in un fiume, di freddo ai tropici, di vecchiaia nella culla; fino a giungere al punto in cui ci si accorge che bastava poco, molto poco, per spazzarla via. E sapete qual è la beffa? Che quel poco, per te, soltanto per te, era insormontabile.» Lo psicologo proruppe in un sonoro scoppio di acclamazioni e di applausi, tanto da risultare quasi puerile agli occhi dei padroni di casa. L’amico non sembrò offendersi, gli chiese anzi quale fosse la sua concezione dell’amore. Verney divenne improvvisamente scuro in volto, il tono cupo «Un rutto si leva dalla Métro. Guardo la mano sinistra della cameriera minorenne dalle grosse tette e la bocca tumida. Ha la fede. Ad un tratto mi prende l’incontrollata voglia di lavarmi. Non che mi senta sporco, anzi: tutto sommato sono un tipo pulito. Però mi faccio schifo. Questo per me è l’amore; ma forse a parlare è la parte lesa del mio cervello.» Adéle sentì gli occhi dell’uomo posarsi su di lei, tornando a spogliarla con la consueta indelicatezza, mentre il marito appariva indifferente, assorto nella contemplazione dell’essere nel barattolo. Quasi istintivamente la donna s’accostò ad Emile, sfiorandone la ruvida mano, che restava immobile come se bramasse un nuovo contatto col suo soffice palmo. Jean Luc propose di sentire il parere della signora Meinl, aumentandone così l’imbarazzo. Anche Thomas la invitò a dare una sua definizione dell’amore, o almeno ad esporre un aneddoto particolarmente significativo. «Io non saprei...non sono una persona colta e non so se direi la cosa giusta...»
sussurrò. «Le persone colte non esistono; esistono solo quelle che non condividono le nostre stesse letture» l’interruppe Jules, che ora la stava fissando con la consueta espressione austera. Adéle si trovò nuovamente in dovere di soppesare con attenzione ciò che stava per dire. Lo sguardo del marito, infatti, palesava la solita sospensione del giudizio; ella sentiva su di sé tutta la responsabilità nel non farlo sfigurare di fronte ai loro ospiti. Che dire? Nulla di troppo melenso, per non apparire come una donnicciola sospirosa, sposa inadatta di un uomo brillante come monsieur Meinl, ma nemmeno troppo sagace, altrimenti avrebbe rischiato di rubargli la scena, assottigliando lo spessore del suo carisma agli occhi dei presenti. «Ricordo spesso mia nonna nella chiesa del paese, durante la messa: camminava verso la panca in cui era seduta insieme a me e ad altri parenti. Sorrideva, era un po’ spettinata, indossava una camicia a maniche corte di colore blu con sfumature bianche e nere. Mi faceva tenerezza. Un mormorio proveniente dalle file posteriori, molto probabilmente la voce di mia cugina, disse queste parole: “Guarda la nonna, è invecchiata parecchio”» La voce della donna parve spegnersi improvvisamente, la testa bassa, quasi a volersi nascondere. I tre uomini restarono un attimo in silenzio. «Quanto è confortante il candore dell’animo femminile…» commentò lo psicologo. Jules sorrise, lanciando uno sguardo intenerito verso la moglie «Sia benedetto il cuore delle donne: talmente puro da risultare persino ingenuo agli occhi di noi uomini» Madame Meinl avvampò in volto, seguitando a fissare il pavimento.
Pensò che in fondo era meglio così: preferiva are per ingenua pur di non urtare il delicato equilibrio dell’uomo. «In realtà non mi sembra di notare alcuna differenza tra le sue parole e quelle di Thomas e di Jean Luc...» La voce di Emile proruppe dalla sua sinistra, assumendo un tono arrogante, quasi di sfida nei confronti del fratello. «…ciascuno di voi ha parlato dell’amore per difetto, enfatizzando l’indissolubilità del legame che lo unisce a quell’altro grande sentimento che è la solitudine. Quindi credo che Adéle abbia colto perfettamente la “maturità” del discorso di “lorsignori”» «Io penso che l’amore venga un po’ troppo sopravvalutato. Amore di qua, amore di là: siamo diventati dei bigotti anche in questo...» tagliò corto Jules, fingendo di non aver fatto caso al sarcasmo dell’uomo. La moglie tornò a guardare i presenti, ammirando il contegno con cui Meinl celava l’insofferenza verso il famigliare. Si domandò se quella stizza provenisse semplicemente dalla presunzione manifesta di Emile oppure se si originasse da altro, da una specie di gelosia, un’avversione verso quel tentativo del fratello di difendere la donna davanti agli invitati. «Dici che l’amore è sopravvalutato. Allora cosa rappresenta per te?» continuò il cognato. «E’ il risveglio da un sogno. E’ il torpore della vecchiaia dopo una vita in letargo; è il frontespizio in un libro letto al contrario, la perdita di un arto che non si ha mai posseduto. E’ la prigione che ognuno s’affanna a costruirsi, pezzo per pezzo, racimolando frammenti di mondo e circondandosi di immagini e souvenirs per poter finalmente vantare un ato, una storia, in cui il protagonista possa finalmente evolversi da un misero “io” ad uno squallido “noi”.»
CHAPITRE II
⨙ “Rammenti quell’estate ad Aureille? Il grande cerchio di persone, all’aperto. Una specie di maestro sta parlando. Accanto a lui il fuoco divampa, contorcendosi attorno ad un ceppo scoppiettante. L’odore del bosco di notte è qualcosa d’incantevole: l’erba, il legno e la terra impregnano i monti con essenze di resina e di rugiada. Hai dodici anni e indossi un lungo abito bianco. Ad un tratto attraversi il circolo, da sinistra verso destra, come per andare in qualche luogo; non ricordi dove. Al tuo ritorno qualcuno ti fa notare una grossa macchia di sangue sul vestito: un alone rosato che scende giù, lungo le cosce, diramandosi in rigagnoli di un più vivace carminio. Capisci che non puoi stare nel cerchio; che è una vergogna esporre così quella chiazza. Sorpresa guardi di nuovo l’abito e la macchia di cui non ti eri nemmeno accorta; poi, ancor più perplessa, volgi gli occhi al maestro al centro del circolo. Lui ti sorride, con quegli occhi umidi e antichi, dicendo che non vede alcun motivo d’imbarazzo nella naturalezza del primo sangue, e che là, nel tuo grembo, vi è racchiusa tutta la ricchezza dell’uomo.
Quella fu la prima volta che il ragazzino solitario delle Alpilles ti vide.”
Adéle si destò nel cuore della notte, svegliata da un dolore lancinante al ventre. Nella sua gola era come se stesse crescendo una massa indefinita, una specie di poltiglia dolciastra che continuava a lievitare su per l’esofago. La donna immaginava di toglierne dei pezzi, staccarli dai denti, dalle gengive, ma dopo un po' sentì la bocca cementificata. Poggiò istintivamente una mano accanto a sé, per aggrapparsi al corpo del marito, ma ad attenderla trovò soltanto il tiepido lenzuolo; allora abbracciò il cuscino, cercando disperatamente di percepirne l’odore, sicura che quel profumo l’avrebbe almeno tranquillizzata. L’orologio sul grande comò in fondo al letto segnava le quattro del mattino. Finalmente madame Meinl riuscì a deglutire, constatando con stupore l’inesistenza di quella massa gelatinosa. Tuttavia l’addome seguitava a bruciarle, piagato da continue vampe incandescenti. Adéle scostò le coperte, fradice di sudore, e si alzò a fatica, barcollando lungo le scale a chiocciola, fino alla cucina e allo stretto corridoio che collegava l’ingresso al salone. Dalla porta socchiusa giungeva l’estenuante ticchettio della macchina da scrivere di Jules, che da ormai più di un mese si rinchiudeva nottetempo in quella stanza, accompagnato solo dalla sua inseparabile pipa. La donna posò una mano sull’uscio, quasi per bussare, infine esitò, chiedendosi se quel gesto non potesse essere interpretato dall’uomo come un disturbo, un intralcio al suo evidente furore creativo. Riallontanò il palmo, stringendolo a pugno per sostenere l’ennesima scossa di dolore che le attraversò il grembo. Entrò nel bagno in punta di piedi senza nemmeno accendere la luce, guidata solo dal chiarore dei lampioni che illuminavano la strada sottostante.
Madame Meinl sfilò la camicia da notte e ammirò il suo pallido corpo riflesso nello specchio: la silhouette sottile, i seni ancora sodi spuntavano imperlati e lucenti come occhi al di sotto delle due bionde chiome che le scivolavano morbide giù per le spalle ossute. La sua mano scivolò lenta lungo un fianco, facendola vibrare di un lieve piacere. Immaginò per un attimo che ad accarezzarla fosse stato qualcun altro; qualcuno diverso da lei. Fu quasi come se per la prima volta, dopo tanti anni, Adéle rammentasse di essere donna. Dio, da quanto tempo non riceveva quel genere di attenzioni. Una nuova fitta, stavolta più lieve, la distrasse dai suoi pensieri. Fece due i indietro, di modo che la luce esterna, diffusa dalla finestrella del bagno, la illuminasse al di sotto del torace. Ciò che vide la lasciò impietrita: due bruciature viola, piccole e deformi, simili in tutto e per tutto ad impronte di mani rivolte dall'interno all'esterno, apparivano come impresse a fuoco sulla pelle del suo addome. *** Il florido e selvaggio terreno antistante alla porta di villa Laurent era divenuto, col tempo, l'orgoglio e la delizia di madame Marie. Era lì, infatti, che la signora s’intratteneva, riparata all’ombra di scarmigliati sempreverdi, impegnata a spettegolare con parenti ed amiche appartenenti anch’esse alla “nobiltà decaduta” di Parigi. Più raramente invece (ma non poi così di rado) Adéle aveva notato altre “presenze” indaffarate a “tener compagnia” alla donna in quegli assolati e solitari pomeriggi di luglio. In parecchie occasioni, infatti, non le fu difficile scorgere individui diversi, sempre uomini distinti, prodigarsi in moine ed atteggiamenti ambigui; occhi languidi e mani nelle mani, mentre i loro corpi rimanevano muti, assisi su
panchine naturali dalle serpeggianti geometrie che solo i tronchi e le radici estroflesse possono generare. Tale combinazione di sinuosità lignee ed effusioni clandestine creava un’atmosfera a dir poco bucolica, accentuata dai ruderi di antiche vasche e fontane romaniche, le quali tramutavano quel fazzoletto di terra in un vero e proprio giardino segreto. Madame Meinl si scostò dal grande rosone del soggiorno, dirigendosi a piccoli i su per la maestosa scalinata in marmo che, come una bianca colata lavica, divideva il salone in due parti eguali. La piccola Renée sembrava attenderla al piano di sopra, nella sua camera, avvolta da una coperta di lino ricamata a mano. La bambina impugnava una spazzola per capelli che maneggiava goffamente, pettinando a più riprese le stesse due ciocche. «Maestra, mi insegni a fare le trecce come le tue?» Adéle le carezzò il capo, respirandone il profumo di shampoo alla fragola; poi le sedette accanto. «Quando torna la mamma?» «Presto tesoro. Ma adesso è ora che tu dorma» mentì. La donna, infatti, aveva visto poc’anzi, attraverso la finestra circolare del soggiorno, madame Laurent farsi largo nell’oscurità del parco in compagnia di un uomo sconosciuto. Capitava sovente che la signora Meinl fosse costretta a trasformarsi da insegnante a tata, dovendo badare alla figlia di Marie nelle occasioni in cui la madre si concedeva una serata mondana a l’ Opéra, o a so per Avenue Montaigne assieme a qualche amante. Ciò che più sorprendeva Adéle, però, era questa spudoratezza da parte dell’amica. La noncuranza con cui la nobile se ne andava in giro per Parigi, portandosi poi a casa qualunque individuo le andasse a genio.
E non poteva trattarsi che di questo: noncuranza. Sì, perché Marie era troppo intelligente per pensare anche solo lontanamente che lei non si fosse accorta di nulla: di quei gemiti soffocati al piano di sotto, nella camera degli ospiti, o dei colpi tremendi che squassavano le pareti, oggetti che cadevano nella foga della ione, vasi frantumati e divani spostati brutalmente tra grida voluttuose. E la povera signora Meinl era costretta a raccontare fiabe a Renée, aumentando il tono della voce tanto da coprire quei suoni, trovando spiegazioni razionali a tutte le domande poste dalla bambina riguardo ai mugolii sottostanti. Ma anche Renée non era stupida, e chiedeva, chiedeva con sempre maggior frequenza a proposito di questa febbre di vita che sembrava divorare la madre. «Mi manca il papà. Tu sai quando torna?» La donna rimase zitta, posando il capo della bambina sul suo seno e tornando a lisciarle i capelli con le dita. «Dormi, piccola mia» la esortò di nuovo Adéle. Lentamente percepì le membra della ragazzina rilassarsi fin quasi ad abbandonarsi tra le sue braccia, ma gli ultimi barlumi di volontà la portavano ancora una volta a formulare domande dal tono fiacco e svigorito. «Perché devo dormire, maestra?» «Perché è tardi ed è ora che le bambine riposino…» rispose la signora con un filo di voce. Renée puntò il dito verso un angolo vuoto della stanza «Anche quella bambina lì?» *** I corridoi di villa Laurent parevano racchiudere tutta la notte di Parigi. La loro vastità evocava, ad un qualunque osservatore, una districata selva di
stanze ed intercapedini, tale da intimidire e scoraggiare anche le menti mano fervide. Esattamente come le architetture liquide ed evanescenti che gradualmente prendono forma nei sogni, ogni andito pareva condurre a locali che sembravano sul punto di eclissarsi, inghiottiti da chissà quale capricciosa realtà. Adéle socchiuse con delicatezza la porta della camera di Renée, avviandosi in punta di piedi fino all’orlo dello scalone. Scendendo rimase come in contemplazione del silenzio, tentando di riconoscere qualche suono o rantolo che provenisse dalla stanza di Marie. Si accorse con disgusto che c’era qualcosa di perverso nella sua curiosità, quasi un malsano piacere nell’attendere gli spasimi della donna durante l’amplesso. Nuovamente le tornò in gola quel sapore dolciastro, seguito dalla sensazione soffocante di qualcosa che le strisciava su per l’esofago. Più che uno strisciare era un annaspare, come tante zampe di tarantola che si facevano largo tra le sue viscere, fino a riversarsi in bocca; tremanti, distrutte e smarrite. La donna si arrestò di fronte al tavolino d’ingresso del salone principale, proprio al di sotto della scalinata in marmo; da li si diramava un intero nuovo corridoio che andava a scomparire nei meandri del pianterreno. Madame Meinl si fissò nella specchiera barocca dalla monumentale cornice aurea. “Povera Renée” pensò “tutto questo non è normale, non per una bambina. Devo parlare alla madre, devo dirle che la sta distruggendo, poco alla volta...” Uno scricchiolio la interruppe, facendola voltare di scatto verso il budello oscuro e desolato. Stavolta il suo pensiero si fece sussurro, mentre l’immagine riflessa divenne fida confidente «...Adéle, Adéle, si può sapere che ti prende? Non crederai certo ai... »
Ora lo scricchiolio era mutato in un tonfo attutito; un suono sordo e ravvicinato, come quello di una corsa a piedi scalzi che si arresta di colpo. La donna si voltò per la seconda volta, ma in quel caso dovette portare le mani alla bocca per soffocare l’urlo. Una sagoma nera restava immobile di fronte a lei, avvolta dall’ombra. Madame Meinl si morse le nocche ed indietreggiò, gli occhi sbarrati parevano usci divelti e le palpebre, paralizzate dallo spavento, sembravano esserle sgusciate giù per le orbite. L’ombra avanzò, portando alla luce una porzione tale di attributi da palesarne i connotati. Adéle riconobbe la fisionomia di un uomo arcigno, poco più vecchio di lei; il cranio rasato circondava un viso bruno, dai tratti certamente ispanici, forse sud americano. Lo sguardo dell’individuo appariva fermo; serio ma non minaccioso, quasi compiaciuto nel fissare la reazione della donna. Dopo un secondo o, però, ella provò un più forte disagio. La luce esterna, infatti, giunse ad investire quelle parti di corpo che intercorrono tra il collo e l’addome, palesando in tutta la sua nudità un petto molle e cadente, quasi un seno prosciugato della polpa, scendendo ancor più giù con l’arrancare dell’individuo, in un disvelamento progressivo che adesso interessava il ventre e parte dell’inguine. Fu in quell’istante che madame Meinl notò balenare nell’ombra il poderoso sesso dell’uomo, mentre dondolava turgido davanti a lui. Ora l’espressione del visitatore notturno si faceva ancor più spavalda, certamente divertito nell’esibire alla donna il frutto di tutta la sua eccitazione; frutto che pareva additarla con arroganza, attraverso la sua grande testa lucida e pulsante, sovrastata dal nero occhiello che si apriva e chiudeva come ad invocarla, attraverso il muto linguaggio del desiderio. «Olivier!»
Un sussurro, proveniente da una delle camere attigue, richiamò la sua l’attenzione. Adéle riconobbe la voce rotta della Laurent «Oh mon chéri quanto dovrò aspettarti ancora? Sbrigati!» quell'intonazione le fece pensare di non aver mai udito Marie parlare in tale modo: una via di mezzo tra il languore di un corpo coricato e l’ardore del morente al cospetto della cura. Madame Meinl si ritrovò nuovamente sola nella stanza, di fronte alla specchiera barocca. Lo sguardo perso nei propri occhi riflessi, come a volersi scrutare dentro, mentre una piccola lacrima le attraversò timidamente il volto. Fu quasi sorpresa di quel lieve zampillo, soprattutto per il fatto di non saperne spiegare l’origine. Forse lo spavento, forse l’imbarazzo. Ma più ci pensava e più gocce le si raccoglievano sotto al mento, per poi precipitare ed infrangersi tra i nudi seni che ora strizzava con forza, esibendoli rabbiosa allo specchio come frutti incolti di una stagione ormai conclusa, accompagnata dagli schiocchi ritmici e lontani prodotti dalle carni dei due amanti. Il sesso, in fondo (avrebbe detto Charbonnier), è solo un lungo applauso senza mani. *** C’è un momento della giornata in cui l’alba e il tramonto sembrano divenire indistinguibili l’una dall’altro; è l’istante in cui il rossore del crepuscolo sfuma all’orizzonte in un rosa violaceo, mentre nel cielo resta solo un’argentea falce di luna a risaltare come lo squarcio nella campitura di uno splendido blu cobalto. In questo momento ciascuno ha la possibilità di scegliere in quale parte del giorno collocare la propria esistenza: se al principio o alla fine.
Il professor Meinl immaginava sempre di assistere ad un’eterna alba. Persino ora, sul finire del giorno, gli pareva di respirare una debole brezza mattutina, mentre osservava sfrecciargli dinnanzi gli anonimi viali alberati di Parigi. L’autobus accostò per l’ennesima volta, caricando due ragazzini che imbracciavano un paio di custodie per violino. Mancavano ancora tre fermate a Rue des Degrès e Jules pensò che sarebbe stato meraviglioso poter scrivere un libro che parlasse solo ed esclusivamente del cielo; un romanzo che cristallizzasse le delicate astrazioni nebulari, ignorando completamente la città sottostante o limitandosi a tracciarla con lo sguardo vago e lontano che solitamente si utilizza per fissare l’impenetrabile volta celeste. Sul sedile di fronte sedeva un donna bruna: il viso tondo e regolare, un piccolo neo accanto all’occhio sinistro. Indossava uno sciatto abito a fiori, più simile ad una vestaglia, e se ne stava scomposta, a gambe divaricate, sventolando senza eleganza un volantino sgualcito. Meinl non seppe spiegarsi se a stimolare le sue fantasie fosse stata la sfrontatezza della postura assunta dalla sconosciuta, oppure quella sensuale rientranza imperlata di sudore che le si era formata alla base della gola, proprio nella convergenza delle clavicole. Lì la pelle, particolarmente levigata ed elastica, lasciava intravedere i segni delle due grandi fasce muscolari, impegnate in una costante tensione, mentre il torace sporgeva in avanti, proteso diagonalmente, abbandonando i seni al violento dondolio del mezzo. L’uomo si trovò in un istante a chiedersi quale imperscrutabile meccanismo spinga la nostra immaginazione ad imboccare rotte preterintenzionali, facendola procedere quasi a nostra insaputa verso un epilogo spesso ferino e scabroso. Già, perché - proprio come se la sua mente fosse scissa in due - Jules riusciva perfettamente a commentare l’immoralità dei propri pensieri e, nello stesso tempo, a contemplare l’immagine della sconosciuta totalmente nuda, riversa su di lui nell’istante che precede l’amplesso.
Ne vedeva il volto dal basso; il suo corpo nudo e sudato lo sopraffaceva mostrandogli solo una porzione di faccia, ormai tesa verso l’alto, sospesa come nell’indugio dello sternuto, ma in verità concentratissima sul proprio bacino che ora roteava meccanicamente con sempre maggior foga, contorcendosi per gli spasmi ogniqualvolta qualcosa nelle sue profondità veniva sfiorato. Poi il ritmo cambiava: il movimento pelvico diveniva claudicante, concludendo ogni ciclo con un affondo più deciso e prolungato, il respiro si faceva affannoso e crescente, il busto s’irrigidiva, quasi in preparazione di uno sforzo abnorme. Meinl immaginava di sentire i caldi umori della donna gocciolargli lungo i testicoli; di afferrarle i fianchi per spingersi ancora più dentro di lei; ma la sconosciuta gli scacciava brutalmente le mani, togliendosi una ciocca di capelli dal viso e tornando a conficcare le unghie nel petto del professore. Il gesto riprendeva regolarità, ma stavolta era incredibilmente più veloce e potente; persino doloroso. Nella sua gola, assieme al respiro fortissimo, si generava un secondo suono, un rantolo di una cagna, che andava via via prendendo volume mentre la bocca, spalancata e bollente, accompagnava una smorfia a metà tra lo strazio e l’estasi, succhiando avidamente qualunque cosa le capitasse a tiro. L’aria era pregna dell’odore rancido della sua vagina, un misto di sapone ed urina per il quale qualunque uomo avrebbe ucciso pur di fissarne eternamente il profumo sul fondo delle narici. Un ultimo scatto, talmente violento da lasciar udire lo spruzzare dei liquidi interni, sballottati dentro al ventre tumido e pulsante della donna, seguito dal crepitio del bacino. Poi la voluttà raggiunse il culmine; i capelli erano tornati a coprirle la faccia, ma niente pareva più importare: sotto di lei avrebbe potuto esservi chiunque: un prete, suo padre, un cadavere; nulla poteva arrestare la scarica di piacere che ormai ne squassava le membra trasfigurandola in una massa di carne e nervi, avvinta dall’irrazionalità dell’istinto. Seguì un urlo lacerante. Per un breve attimo tutto il suo corpo assunse movenze tentacolari: le dita dei piedi s’accavallavano l’una sull’altra e le sue cosce vischiose s’arrotolavano scomposte e tremanti attorno a quelle di Jules, unico appiglio al baratro di piacere che pareva essersi schiuso sotto di loro, poco prima di crollare sazia e sfinita sul suo torace; rammollita come un guanto di seta.
Il bus s’arrestò nuovamente, risvegliando il professore dalle proprie fantasie. Quella era la sua fermata. Tuttavia l’uomo decise di proseguire e scendere alla successiva, poiché trovava alquanto imbarazzante dover esibire ai eggeri l’erezione che si palesava sotto ai suoi bianchi calzoni di lino. *** L’appartamento odorava di chiuso. Persino la cucina aveva perso il consueto aroma di tarte tatin. Da quanto tempo Adéle non ne preparava una? Monsieur Meinl attraversò il corridoio d’ingresso, posò il panama sull’appendiabiti in legno con schienale in paglia di Vienna (ricordo di un viaggio in centro Europa), dette una veloce occhiata alla grande libreria del soggiorno - ando con delicatezza l’indice sui tomi che più amava - infine si diresse verso lo scrittoio dove ad attenderlo v’era un nuovo contenitore di vetro, stavolta più grande, ricoperto da un pesante drappo rosso, atto a celarne il contenuto. Accanto al vaso giaceva un libercolo chiuso, dalla copertina oscura, assemblata alle pagine restanti con spago e colla vinilica. A completare questa rilegatura casereccia figuravano innumerevoli strisce di nastro isolante nero, disposte in bande verticali lungo tutta la facciata esterna, come a simulare un rivestimento in cuoio e latex. Sopra al volume, infine, stava riversa l’inseparabile pipa. Jules sentì per un attimo la mancanza dell’inverno; pensò che non vedeva l’ora di tornare a respirare l’odore emanato dai termosifoni accesi: un profumo indistinto, che non era in grado di catalogare, ma che gli sapeva di caldo e di morbido. L’uomo portò una mano alla finestra per spalancarla, ma venne interrotto dal suono del camlo.
Era Emile. I due fratelli si salutarono freddamente, trattenendosi per un attimo sull’uscio di casa. In seguito si spostarono in soggiorno, mantenendo un imbarazzato silenzio. Pareva che entrambi si fossero accorti soltanto ora di ritrovarsi per la prima volta soli, faccia a faccia, dopo più di venticinque anni. «Come sta Adéle?» «Bene» Silenzio. Odore di fumo. Un filo d’aria filtra dalla finestra spalancata. «Non è in casa?» «No, è dalla Laurent» Ancora silenzio. Odore di libri antichi e polvere. Una campana rintocca in lontananza. «E tu?» «Io che?» «Il tuo romanzo prosegue?» «L’ho finito» «E’ magnifico! E lo pubblicherai?» «Certo. Quando qualche editore si degnerà di rispondermi» Nuovamente silenzio. Rumore di Cognac versato, tintinnio di bicchieri. I primi lampioni iniziano ad accendersi lungo le strade di Parigi. Suono di deglutizione. Un libro viene sfogliato, ma le pagine scorrono malamente. Il fornello della pipa tira male.
«Senti Jules, smettiamola con questa commedia.» Il tono di Emile rimase morbido, quasi supplichevole, ma le parole rivelarono un’agitazione profonda. «La mamma sta morendo, lo sai, ed è da più di un mese che nessuno ha tue notizie; persino Thomas e Jean Luc sono preoccupati per te. Perché non rispondi più al telefono? E cos’è questa storia che vuoi abbandonare l’università?» «Oh mon Dieu! C’est incroyable! Chi l’avrebbe mai detto: il fratello scapestrato che viene a fare la paternale a quello irreprensibile. Sono quindici anni che nostra madre sta per morire! Tu dove sei stato fin’ora?» Meinl si versò un altro goccio e sedette sull’ottomana in legno e cotone capitonnè. Il suo sguardo sembrava tradire una risata malefica, quasi folle. «Che ti prende? Hai paura di non poter più fare i tuoi viaggetti per il mondo adesso che hai realizzato di avere una madre?» «Che mi prende? Sono io che dovrei farti questa domanda!» ora la voce di Emile era divenuta più rabbiosa «Te ne stai li a scrivere e a contemplare lombrichi come se fossi un ragazzino di nove anni, ignorando di avere delle responsabilità...» «Oh! Da che pulpito!» «Jules: io non ho una cattedra! E soprattutto non ho una moglie! Hai visto come stai riducendo quella povera donna? N…» Il fratello scoppiò in una fragorosa risata, interrompendo l’altro e lasciandolo basito dinnanzi a quel comportamento assurdo; persino nevrotico nella sua puerilità «Ahaaaaa! E qui ti volevo! Sapevo che saresti andato a parare proprio lì...» L’altro scosse il capo, manifestando tutta la sua perplessità «Pensi che non me ne sia accorto caro il mio Emile?
Pensi che non abbia visto come guardi Adéle? O come lei guarda te?» «Sei ubriaco!» Meinl rise nuovamente, poi scosse il capo «Oh, no di certo: ho semplicemente iniziato a vedere il mondo così com’è. E ti assicuro che è un luogo infernale. Persino i nostri bei mobili shabby chic...» si guardò attorno con aria spaesata, brandendo una piccola riproduzione di una maschera veneziana «...e tutti questi souvenirs, portati da chissà dove, sembrano fissarmi con il loro ghigno malefico.» «Tu hai bisogno di aiuto Jules» «Vuoi Adéle? Bé sappi che lei ti vuole. Puoi prenderla quando ti pare…» In quel preciso momento entrambi udirono lo scatto proveniente dalla serratura della porta d’ingresso. Fu come un tuono, un richiamo severo in grado di ammutolirli, forse perché foriero del ritorno dell’oggetto di quella disputa. Adéle apparve oltre il buio del corridoio, avanzando lentamente, a capo chino, con la levità di uno spettro. Impiegò qualche secondo ad accorgersi dei due uomini, e certamente fu per questo motivo che sul suo viso si materializzò una specie di corto circuito espressivo: la bocca assunse la consueta postura, flettendosi in un sorriso talmente contratto da farle scomparire le labbra, mentre negli occhi arrossati rimaneva impressa, scolpita, una vacuità tale da sfiorare la catatonia; l’unione di questi due fattori conferiva alla donna un aspetto particolarmente inquietante, un ghigno al limite del parossismo isterico. Entrambi i fratelli parvero accorgersi di quello strano comportamento, ma nessuno osò aprire bocca. «Buonasera Jules...buonasera Emile…» si portò una mano al petto, asciugando
le ultime lacrime che vi si erano posate. L’ospite notò altre gocce che nella foga del pianto dovevano essere scivolate accanto agli zigomi, rimanendo poi imbrigliate là, come ruscelli storici, a scorrere nei letti di due timide rughe. «Ti senti bene Adéle?» le domandò l’uomo, tentando di ovviare alla totale indifferenza del marito. «Certo. Solo un po' di…» «...emicrania.» l’interruppe il professor Meinl levandosi dall’ottomana. Adesso la sua arroganza era sparita lasciando spazio ad un tono amareggiato e stanco. «Penso che andrò a eggiare per Montmartre: qui c’è aria viziata» «A quest’ora?!» «Mais oui ma chérie! Tutte quelle splendide coppiette mano nella mano , e poi le luci, i musicisti, i pittori e i saltimbanchi...» mentre elencava, Jules sembrava danzare verso l’uscita, brandendo nuovamente il suo panama e manifestando un'inquietante euforia. «Sapete: è là fuori che l’essere umano ostenta tutta la sua infinita bellezza» E cominciò a canticchiare un motivetto agitando il braccio accanto all’orecchio, simulando lo strofinio di un arco sopra ad un violino immaginario. Emile e Adéle si lanciarono un’occhiata interrogativa, immobili uno accanto all’altra. La loro espressione allibita e impotente li faceva apparire ancora più ridicoli al professore. «Ma questa magnifica bellezza non gliela si può richiedere. Giammai! Perché, al contrario, la celerebbe ancor più nel profondo, camuffandola, come fanno i bimbi dispettosi, dietro a gesti infimi e puerili. Non la si può nemmeno prevedere, perché neppure lui conosce il momento esatto in cui questa si renderà manifesta, dato che, sorniona come un felino, si
farà viva nel momento a lei più propizio...» Meinl aprì la porta d’ingresso guardando per l’ultima volta la moglie e il fratello «...insomma: questa fottuta bellezza non la si può cogliere, ma solo rubare.» e scomparve in fondo alle scale seguito dal ticchettio dei suoi i. «Avresti la cortesia di spiegarmi che diavolo sta succedendo qui?» Emile sbottò, dopo un attimo di silenzio che ad entrambi parve l’eternità. Adesso il volto di Adéle aveva ripreso colore e i suoi occhi erano nuovamente ricolmi dell’antica lucentezza. Perfino il sorriso s’era disteso, tornando ad arrossare e inturgidire le duttili labbra. Dal canto suo, la donna, provava una serie di emozioni contrastanti: da una parte si sentiva in colpa per aver lasciato andar via il marito in quelle condizioni, senza nemmeno tentare di seguirlo, sebbene conoscesse l’estrema fragilità dell’uomo; dall’altra, però, era talmente scossa da covare una recondita speranza di trovarsi sola con una voce amica, complice lo sconcertante episodio cui aveva assistito poco prima, in casa Laurent. «Non fargli caso: in questo periodo Jules è molto stanco...» tentò di addurre le ennesime, timide giustificazioni. «…sono mesi ormai che resta alzato tutta la notte per lavorare al suo romanzo.» «Per l’amor di Dio, Adéle: per quale motivo continui a difenderlo? Non vedi come si comporta?» «Te l’ho già detto, Emile: tuo fratello è stanco e frustrato perché non riesce a pubblicare il suo libro. Tutto qui.» Stavolta la donna si voltò verso il corridoio, fuggendo lo sguardo dell’uomo. Lui ne contemplò la nuca, scendendo lungo il tragitto segnato dalle vertebre, giù, tra le esili scapole tracciate nell’aderenza dell’abito, arrestando la discesa esattamente all’altezza dei fianchi, così meravigliosamente stretti e asciutti, imponendo agli occhi un subitaneo arresto, forse più per rispetto a lei che al fratello.
«E tu come stai?» l’uomo fece per allungare una mano, ma subito la ritrasse, rendendosi conto che avrebbe voluto stringere forte la vita di Adéle, attratto dall’impulso di tastarne ogni rientranza, ogni nervatura, o anche solo la voluttuosa struttura del suo gracile bacino. «Io?» la donna si girò di scatto. Emile s’accorse che la sua eccessiva vicinanza le suscitava un vivido imbarazzo, causandole un’innaturale velocizzazione dei movimenti; quasi fosse un animale in trappola che tentava forsennatamente di riacquisire i propri spazi. «Solo un po’ stanca: è stata una lunga giornata» Egli si allontanò, spiccando un goffo balzo all’indietro. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di non metterla a disagio; eppure non poteva negare di provare un certo diletto nel generare impaccio in quell’animo tanto solido e morigerato. Era esattamente come indossare i panni di un diabolico tentatore, assaporando un sottile piacere nell’istillare insicurezza in una creatura notevolmente indebolita, al fine di testarne i limiti della rettitudine. Sì, perché era questo il fattore più intrigante della bellezza di Adéle, ciò che risvegliava l’ardore nella parte più perversa dell’animo umano: la speranza di vederla rinnegare tutta la sua integrità, fino a lasciarsi inghiottire da un vortice di smodata e totale immoralità. «Sei sicura che sia solo per questo?» Emile le posò una mano sulla vita, sentendo l’intero suo corpo irrigidirsi per poi produrre un impercettibile fremito. Fu come se le membra nude di lei fossero distese su quelle dell’uomo, tale era l’intensità con cui egli intese quella scossa. La signora Meinl non rispose. Non si ritirò nemmeno mostrando un disarmante abbandono, una mollezza. Il silenzio della casa era divenuto improvvisamente udibile, esaltato dal rumore dei loro respiri e, forse, da quello dei loro cuori.
Solo il leggero sciabordio proveniente dal contenitore di vetro sembrava turbare l’atmosfera; un gorgoglio incostante, simile ai sussulti gastrici di un gigantesco organo estrinseco. «Durante i miei viaggi» disse l’uomo «mi sono ritrovato molte volte a contemplare quello che di più profondo sta nascosto dentro di me...» Lei lo fissava con i suoi occhi tristi, rapita dalle parole udite. «…e ho scoperto che tutto ciò che di più sorprendente ha avuto da offrirmi la vita proveniva propria da laggiù.» Nuovi suoni si levarono dal barattolo: ora la creatura al suo interno pareva contorcersi con maggior vigore. «Ma credimi, Adéle: vorrei tanto che non fosse tutto qua» e si toccò al centro del petto «soltanto qui dentro.» «Emile...» sussurrò lei. «Credo che se avessi accanto la persona giusta...da amare, da accudire...» Il recipiente cominciò a vibrare, componendo movimenti circolari, come se il verme al suo interno seguitasse ad avvolgersi in spire infinite, imprimendo alla propria prigione lo stesso moto rotatorio. «…da far sentire donna in qualunque momento della sua vita...» La signora Meinl rimaneva sospesa tra l’incanto ed il riserbo, lanciando veloci occhiate alla bocca di Emile; sul suo volto era dipinta una distensione che nessuno vedeva da anni, una pacata rilassatezza, lungi dall’essere scambiata per lascivia o depravazione, quasi un ipnotico abbandono. Solo in seguito l’uomo si accorse che quello sguardo era diretto a qualcosa oltre le sue spalle, e che quella calma non era dovuta ad un particolare piacere, bensì all’apatia che creano certe visioni di sublime terrore. In fondo alla stanza, accanto al libro rilegato col nastro isolante, il contenitore era tornato nuovamente immobile, ma stavolta il pesante drappo rosso era caduto, rivelando una nuova, sconcertante mutazione dell’essere al suo interno:
statico, come a fissarli minaccioso, ecco un cranio semiumano grosso quanto una mela, simile alla testa incompleta di un feto, ben collegato al suo corpo coriaceo e tentacolare, accostabile alla radice di mandragola per rugosità e colore.
“Ti perdevi spesso tra i campi di fiori: gelsomini, rose, mughetti; e gli alberi, i 140 mandorli, gli ulivi, le viti. Amavi molto spendere il tuo tempo con i giardinieri, le cueilleuses, i contadini. Sovente scorgevi il ragazzino solitario delle Alpilles aggirarsi per i boschi circostanti, nelle ore calde del pomeriggio, tra i silenzi interrotti dal canto delle cicale, mentre sfruttavi l’ombra del pergolato per pensare. Poche cose vi davano soddisfazione come l’avventurarvi tra le valli e le campagne dei dintorni: andare a trovare madame Arvier a Belvédère o, meglio ancora, salire al mercato dei tartufi freschi di La Clape, prima di tuffarvi clandestinamente nelle gole del Verdon. Quella sera calò un buio che parve spegnere le montagne; le prime stelle presero fuoco pigramente, come ogni notte, per poi immergersi nel bacino d’acqua viva che dominava il prospetto dinnanzi alla casa, davanti al poggio. Fu lì che vi baciaste per la prima volta” *** «Papà ha detto che mi porterà un bellissimo regalo dalla Svezia» gli occhi di Renée rimanevano fissi sul foglio davanti a lei. Muoveva velocemente la manina, sfregando la punta del pastello contro alla carta. Adéle le spostò una ciocca di capelli dietro all’orecchio, fissandoli con la spilla color rosso fuoco. «Sarà contentissimo di riabbracciarti» le disse. La signora Meinl lanciò uno sguardo alla finestra del salone, ammirando la vegetazione del giardino antistante a casa Laurent. Marie era là, seduta sulla solita panchina, in compagnia di un ragazzo molto giovane; doveva essere un giardiniere, o qualcosa del genere.
Magro, capelli corti, una maglietta bianca dalle maniche tagliate all’altezza delle spalle, eccessivamente larghe rispetto alle braccia secche e ossute. Indossava pantaloni molto attillati, che lasciavano intravedere il contenuto delle tasche posteriori, mentre ai piedi calzava stivali in similpelle di pitone. Doveva chiamarsi Etienne, o qualcosa del genere. Le si era presentato poco prima, masticando sgarbatamente un chewing gum: apriva con arroganza la bocca e lo faceva scoppiettare ad ogni morso. Le aveva stretto la mano carezzandole il polso, poi le aveva chiesto se ne volesse una: gomme da masticare al gusto di frutta, ognuna racchiusa in una piccola confezione di carta-plastica. «Stanotte la mamma è stata ancora male…» disse Renée gettandole uno sguardo indagatore. La donna rimase in silenzio. Qualcosa negli occhi della bambina sembrava accusarla. Per un secondo ella temette che la piccola dubitasse di lei; delle sue rassicurazioni. Oppure era solo il senso di colpa? La certezza che, in qualche modo, Adéle s’era resa complice delle infedeltà di sua madre. «...lui le fa del male...» sussurrò nuovamente, tornando a colorare il suo disegno. «Lui? Chi è lui?» «Il bambino che vive in questa casa...quello che dorme nella tua pancia» La Meinl sentì un brivido correrle giù per la schiena: com’era possibile che una ragazzina parlasse in quel modo? Le portò una mano sotto al mento alzandole delicatamente il capo, di modo da poterle guardare il viso. «Renée, tesoro: non c’è nessun bambino dentro alla mia pancia. E nemmeno in
questa casa.» «No maestra: io l’ho visto. Lui e quella signora che mi fa tanta paura. La donna con la treccia.» «Chi è la donna con la treccia?» «Non lo so, ma se ne resta spesso là, sulle scale, a fare le smorfie» Adéle sorrise e si levò in piedi, togliendo dallo scrittoio una tazza di tè semivuota. Si stava dirigendo in cucina quando la bambina disse una frase che la bloccò. «Ha la treccia avvolta attorno al collo» Lei si voltò e le chiese di ripetere. La piccola indicò il soffitto «La signora è appesa per la treccia…e fa le smorfie» poi Renée iniziò a imitare quelle smorfie. Erano le espressioni di qualcuno che stava soffocando. *** Quel pomeriggio la signora Meinl non rincasò subito. Rimase là, sul lungosenna, ad attendere che il ragazzo delle chewing gum se ne andasse. Erano ate due ore da quando Renée aveva lasciato la dimora per recarsi al consueto corso di equitazione, e Adéle immaginava che la signora Laurent ne avrebbe approfittato per “intrattenersi” con il suo nuovo amichetto. Aspettò a lungo: il tempo necessario che Marie congedasse l’uomo, si rivestisse e tornasse ad essere presentabile. Quando lo vide uscire dall’abitazione ella si girò verso il fiume, fingendo di scrutare il pelo dell’acqua; attese ancora un quarto d’ora, poi decise d’incamminarsi in direzione della casa.
Non suonò, forse per il sadico desiderio di cogliere in qualche modo le tracce della malefatta e poter così dare il via al suo discorso. S’inoltrò di soppiatto nel soggiorno, prestando attenzione ai suoni segreti della dimora. Rumori di cassettoni, ante e coperte provenivano dalla camera da letto della donna, segno che doveva trovarsi ancora là, nel suo boudoir. Adéle bussò delicatamente, tirando un profondo sospiro. «Etienne?» chiese la voce dall’altra stanza. «No signora, sono io: Adéle» Inaspettatamente l’invitò ad entrare. Marie era distesa sul letto, semivestita e spettinata; nell’aria c’era un forte odore di bruciato, qualcosa che per un attimo le procurò un capogiro. «Ma chère...ma chère...a cosa devo l’onore di questa visita?» la donna appariva serena, quasi assente, svuotata nel suo fissare il fondo del giaciglio, mentre con l’indice si sfiorava il petto disegnando figure indecifrabili. D’un tratto s’incupì, come se un pensiero terrificante l’avesse assalita, e i suoi grandi occhi liquidi puntarono quelli della Meinl, riprendendo una lucidità quasi inquietante «Non sarà per caso accaduto qualcosa a Renée?» «No, non temete. Sono qui solo per parlarvi di lei...» La Laurent tornò a fissare il vuoto esibendo un sorriso d’orgoglio «La mia piccola principessa…» «Si, è una bambina meravigliosa e nessun’altro meglio di voi è a conoscenza del mio affetto per quella creatura. E’ per questo che mi trovo costretta a…» «Costretta? Mia cara qui siamo tra amiche, parla pure...» la donna biascicò queste parole con poca convinzione, come se la sua mente fosse altrove; in un
mondo di ricordi voluttuosi, a giudicare dalla ione con cui ora si mordicchiava le labbra, leccando la punta del dito che poco prima le tracciava forme sul petto. Nei suoi occhi eccitati e stanchi Adéle colse l’effimera sazietà che segue l’orgasmo, e temeva la lussuria di quello sguardo, simile ad una frusta infuocata, che sembrava mirare ancora lo spettro dell’amante appena andato, quasi bucandole le vesti fin ad intaccarne le carni, lasciandole l’immagine di flessuose strisce vermiglie. La Meinl tirò nuovamente un sospiro poi espose d’un fiato le sue ragioni, accompagnando il discorso con un’espressione accigliata, in modo da sottolinearne la gravità. Marie scoppiò a ridere «“ Perdonate la mia indiscrezione, madame, ma credo che il vostro stile di vita possa essere nocivo alla psiche di vostra figlia...” ahahah ...» le fece il verso la donna, tentando invano di imitarne la solennità. «Mon Dieu mia cara…sei incredibile...» continuò la Laurent levandosi in piedi con impensata agilità. L’altra rimase attonita. «Suvvia Adéle! Mia piccola, fragile Adéle…non dirmi che in tutti questi anni non hai mai desiderato qualcun altro che non fosse tuo marito...» La donna le si avvicinò lentamente. Il suo tono ora giungeva basso e sensuale, ma non come quello di una confidente, bensì come quello di un’amante. «...nemmeno una volta...l’odore di uno sconosciuto sulla tua pelle nuda…» Marie si accostò alle sue spalle, in modo da poterle sussurrare le proprie fantasie. «...il gusto della sua saliva, del suo sudore…il suo ventre teso su di te, dietro di te!» la signora Meinl rabbrividì nel percepire sul collo il soffio gelido di Marie. Rabbrividì ma restò immobile, tentando di mantenere un contegno dinnanzi alla sconcezza di quelle parole. «Sentire il tuo seno, il tuo seno!» e le afferrò con forza un capezzolo, strizzandolo fino a farle male.
«Sentirlo gonfio e duro in fondo alla gola di quello sconosciuto: tu dentro di lui e lui dentro di te, mentre pensi a quanto sarebbe eccitante se Lui potesse vedervi; se potesse vedere quanto sei puttana, quanto godi ad esserlo. Lui: il povero Jules...» «Basta!» urlò Adéle divincolandosi dalla morsa della donna che era tornata a ridere sguaiatamente. «Credi che lui non abbia di queste fantasie!? Poverina! Ti compatisco!» urlò la signora Laurent, ma ormai l’altra stava già correndo via, fuori dalla dimora, decisa a non farvi più ritorno.
CHAPITRE III
Monsieur Meinl assisteva silenzioso al moltiplicarsi del proprio corpo lungo le spire gommate, color oro antico, del tubo sospeso al soffione della doccia. Una successione discendente di fotogrammi dallo scarto millimetrico; la deformazione inesorabile di infinite teste rotanti verso il basso, sino a giungere ad una manciata di membri flosci e vinti. Quella visione fu più eloquente di mille parole. L’uomo tentò di scacciare l’immagine intensificando il getto d’acqua che ora gli martellava il capo, colmandone gli occhi e mozzandogli quasi il respiro. Spalancò la bocca. Sputò. “Un vecchio” pensò, “soltanto un vecchio”. Immaginò quanto fosse ridicolo: lui, seduto ogni notte nel salone, a scrivere d’amore quando nemmeno più ne ricordava le fattezze, il suono, l’odore. Provò ad annusarsi l’alito, per sentire i miasmi della morte, ma il vapore non gli permetteva di intendere alcunché. Terminato il bagno s’asciugò lentamente, strofinando ben bene ogni superficie della sua pelle avvizzita, estenuando ciascun movimento col piglio di chi, arreso a un’idea, procede annientato nell’apatia che spesso accompagna la rassegnazione. Si rivestì svogliatamente, ò una mano tra i lunghi capelli eseguendo un gesto tanto indolente quanto inefficace. Non si curò nemmeno di sgombrare lo specchio dai vapori residui, né di ripiegare il grande asciugamano in pregiato cotone egiziano, e neppure di raccogliere i vecchi indumenti sparsi qua e là, sulle brillanti piastrelle blu cobalto.
L’unico suo pensiero andò alla morte. L’oscurità di casa Meinl figurava ora come unica compagna delle sue elucubrazioni. «Eppure mi pare di sentire un odore strano» sussurrò «no. Forse è l’odore dell’assenza di qualcosa» eggiò lentamente nel salone, accarezzando ancora una volta i preziosi volumi della libreria. «Certo. Ciascun senso ha la propria zona d’ombra: buio con vista, silenzio con udito, scipitezza con gusto...forse quello che sto percependo è in realtà un nonodore» Parlava come se recitasse una preghiera, mentre si approssimava alla consueta postazione: lo scrittoio con in cima il suo racconto rilegato a mano, la pipa e il barattolo coperto dal pesante drappo rosso. Con calma si sedette, facendo scricchiolare un poco la sedia sotto al suo modesto peso; rammentò che qualcuno gli aveva parlato di Settembre, spiegandogli che fosse il mese giusto per chiunque avesse voglia di ricominciare. Certo una suggestione: qualcosa di psicologico forse, chissà, probabilmente dovuto alla sua particolare collocazione nella sequenza dei mesi. Ma Jules non aveva più voglia di ricominciare. «Oh caro...mi hai spaventata...» la voce di Adéle sembrò rischiarare la stanza «...che stai facendo laggiù al buio?» la donna avanzava nel corridoio d’ingresso, la mano sinistra reggeva un involucro cartaceo dalla cui estremità spuntavano le delicate rotondità di succulenti acini d’uva. «Adoro il profumo di quando arrivi da fuori. Sai di fresco e di vivo...» rispose lui «...vorrei averlo sempre addosso questo profumo» Madame Meinl posò la busta e fece per accendere le luci, ma venne fermata dal marito. «No! Restiamo ancora un po’ così. Ti prego.»
«Come vuoi» «La tua voce…nell’oscurità. Mi ricorda quando facevamo l’amore» c’era una leggera vibrazione nelle parole dell’uomo, come un velo di commozione. «Jules, ti senti bene?» «La morte, l’assenza, l’oblio: sono condizioni molto più affini al vivente rispetto che la vita stessa. Pensaci bene Adéle: iamo molto più tempo di là che di qua» la sagoma di Meinl appariva immobile nell’angolo più remoto del salone, fissa come quegli arredi infagottati in lugubri soggiorni di case sfitte o abbandonate. «Questo nostro affacciarci, metterci in mostra sull’effimero teatro dell’essere. E’ tutto talmente caotico, non trovi? Tutto così eccessivo ed affannoso da somigliare più a un’apnea che a un respiro.» La donna percepì nuovamente il gusto dolciastro aderirle al palato, stavolta però la sensazione non fu accompagnata da alcun dolore o capogiro. «Perché parli in questo modo? Dio santo, Jules, non capisci che mi fai paura?» «Quel nome, Adéle: non nominarlo mai più» il suo tono assunse un’aria minacciosa «Che cosa ti ha fatto di male?» «Odio la presunzione di questi cristiani, che nonostante i millenni non sono mai stati in grado di accorciare di un millimetro la distanza che separa gli uomini; impresa meno ardua per un banale discorso da bar…» «Ti rendi conto di quello che stai dicendo?» «…il vero Cristo è colui che viene privato della misericordia, destinandolo all’inferno...» Madame Meinl si avvicinò al marito facendosi un debole segno della croce, la sua voce s’addolcì, più per timore che per affabilità verso quell’animo insanabilmente ferito.
«Jules, mio caro, credo che non sia costruttivo prendersela con la religione...» «Cristo non valeva un cazzo!» L’uomo sì levò di scatto puntandole addosso i suoi occhi spalancati. Qualcosa in lui fece tremare le gracili membra di Adéle; una specie di antica follia covata da chissà quanto tempo in fondo a quello sguardo, una pazzia che ora prendeva via via forma, alimentata dalle sue stesse parole. «Chi era Cristo? Tu lo sai? Un uomo con a seguito una dozzina di persone disposte a credere a tutto quello che blaterava! Oh: complimenti vivissimi. Un vero eroe...» e simulò un applauso afono «...oppure uno che si è fatto torturare e poi inchiodare a una croce per redimere l’intera umanità…sempre più grande il nostro Cristo! E quanto tempo avrà sofferto? Uno, due giorni? Una settimana?» La donna indietreggiò, stringendosi forte i gomiti in un abbraccio che pareva incapace di scacciare quel gelo immaginario. Monsieur Meinl sembrò accorgersi di star terrorizzando la moglie, e tentò invano di addolcire i toni. «Ma quanti uomini crepano ogni giorno dopo anni di malattia? Quanti vivono un’intera esistenza da storpi? O immobilizzati per decine di anni? E quanti hanno il privilegio di potersi permettere dodici discepoli?» Il professore tornò a sedersi voltando le spalle ad Adéle e tuttavia continuando a parlare. «Quelli sono i veri Cristi: dimenticati e soli. Quell’altro è soltanto un impostore; uno che ha vissuto una vita da profeta, senza mai conoscere l’orrore che si nasconde nell’indifferenza o nel disinteresse dei suoi contemporanei. Mentre io so con esattezza come ci si sente a non essere ascoltati da nessuno; a vivere un’esistenza nel più totale anonimato, senza riuscire ad esprimere degnamente un solo, singolo frammento di quel che mi ribolle in cuore. Ormai so che rimarrò sempre un fallito…»
«Perché dici questo, Jules?» «Perché non potrei definirmi altrimenti. Fallito come uomo: per non esser stato in grado di darti un figlio. Fallito come scrittore: perché incapace di produrre un’opera che non faccia schifo. Ho mancato ciascuno degli obbiettivi che la Natura ci impone per imprimere la nostra orma nel tempo» Adéle attese il silenzio prima di tendere un o verso il marito. Ne fissava le esili spalle ricurve, i lunghi capelli grigi e diradati verso il centro del cranio, le mani raggrinzite che si rimpallavano nervosamente la pipa. All’improvviso le parve di cogliere, per la prima volta tutti assieme, i segni dell’invecchiamento di Jules. Questa visione le causò un attimo di stordimento, facendola quasi dubitare delle reali fattezze del coniuge. “E’ mai possibile” si trovò a pensare “è mai possibile che questo tizio, qui davanti a me, sia lo stesso uomo che ho sposato più di venti anni fa?” La donna faticò a capacitarsi di tutta la fragilità e l’impotenza che ora ricopriva la figura del ‘grande Meinl’. Dov’era finita la sua sicurezza? L’affettazione e l’eleganza nell’esprimere concetti alti e sfuggenti? Quello sguardo altezzoso che era uso osservare le inutili miserie del mondo pareva essere mutato adesso in un’occhiata furtiva, seguita dal debole uggiolio di un cane malato che correva ai ripari per leccarsi le ferite. «E se ti dicessi che sono incinta?» le parole le scivolarono fuori di bocca alla maniera del vento. Una folata leggera che causò una notevole ilarità nell’uomo
«Beh, mia cara, ti farei le mie più sentite congratulazioni; a te e al padre del bambino...» Jules tornò a guardarla, stavolta la sua espressione appariva compiaciuta, forse a causa del sarcasmo di quella risposta. «Povera Adéle. Come hai potuto sposare un uomo come me?» «Io ti amavo» «Tu credevi di amarmi, e alla fine ho trasformato anche la tua vita in un inferno» «Non puoi farmi questo, Jules, non ora. Te ne prego…» la voce fu rotta dal pianto «Ci siamo circondati di tutte queste cianfrusaglie per dimenticare quanto dolorosi fossero i nostri silenzi. Abbiamo fatto parlare gli altri al posto nostro, soltanto perché noi non avevamo più nulla da dire già da molto tempo» La donna si coprì le orecchie per non sentire più le parole di Meinl. «Avresti potuto essere felice! Avresti potuto dare alla luce un figlio con un uomo sano e forte, Adéle cara, ma hai preferito assecondare la follia di questo derelitto! Ed ora eccoti servita, questo è il frutto del nostro stupendo amore: il solo ed unico prodotto di un pazzo fallito!» L’uomo sollevò il drappo rosso dal grande contenitore di vetro, ascoltando con orgoglio le agghiaccianti grida di terrore della moglie. Da dentro al barattolo ecco scrutarla un viso famigliare; un cranio, più che altro: il volto del marito replicato grossolanamente dall’essere, qualcosa di molto simile alla testa di un cadavere sotto formalina. La bocca, spalancata come in una smorfia da paresi, lasciava intendere l’approssimazione di quella struttura anatomica che quasi certamente non poteva concepire l’impiego di una mascella o della complicata sinergia dei muscoli facciali. Ogni connotato, infatti, si mostrava cadente e sorretto a fatica da una sorta di stramba impalcatura cartilaginea.
Anche gli occhi non erano perfettamente allineati, conferendo al viso un’espressione ebete ed assente, quasi uno strabismo da post-lobotomia. «Allora, mia cara, non trovi che sia “tutto suo padre”?» La visione di quell’incomprensibile abominio e, ancor più, della follia di Meinl, procurarono ad Adéle un improvviso capogiro, tale da costringerla a trovare appiglio tra le robuste mensole della libreria. Ella abbassò gli occhi, chiedendosi più e più volte se stesse sognando, ma il volto continuava ad essere là, proprio davanti al marito, speculare come un riflesso deforme e mortifero. «Esattamente come nel mio racconto…» continuò l’uomo «...tu non mi crederai mai. Nessuno può credermi: il mio piccolo “figlio” sembra aver anticipato ciò che volevo scrivere...» La creatura produsse un lieve movimento, arrotolando il lungo corpo in una serie di spire più compatte. «Ti prego, Jules: dimmi che cos’è quell’essere...» «Tra me e lui si è istaurato qualcosa, Adéle, come puoi non vederlo? Sta cercando di imitarmi, proprio come farebbe un bambino con il padre. Ma la sua natura non gli permette di comprendere il reale funzionamento degli organi umani: lui può solo copiare ciò che vede, o che gli sembra di vedere.» L’uomo indicò i sottilissimi fili argentati che galleggiavano al di sopra del cranio nel barattolo: essi apparivano più simili a ragnatele spezzate che a capelli. Ed anche la sua pelle, più liquida e squamosa - screziata da riflessi dorati di certi pesci d’acqua dolce - non aveva nulla a che fare con quella umana. «E’ quasi commovente la tenacia con cui tenta di replicare i miei tratti, utilizzando ogni mezzo a sua disposizione…ora capisci Adéle?» la voce di Meinl si affievolì. «Non saprò mai se a scrivere questo libro sia stato io oppure Lui! Se questa mutazione sia dovuta al mio racconto o viceversa»
La donna racimolò tutte le forze rimaste e si diresse verso l’ottomana in legno, sedendosi con una grazia inattesa. Sentiva che qualcosa, in quella scena di sogno, le stava scivolando via dal corpo, lasciandole soltanto un senso di leggerezza. Una leggerezza opprimente, però, come la debolezza che accompagna una lenta ed inesorabile emorragia. Qualcuno avrebbe potuto definirlo “vuoto”. «Faresti una cosa per me?» il marito riprese a parlare dopo aver ricoperto il contenitore con il drappo. «Che cosa devo fare, Jules?» Il professore impugnò il libro rilegato a mano e lo depose tra le mani della moglie. Il gesto fu estremamente solenne. «Vorrei che tu lo nascondessi tra i volumi della Mazarine» Una nuova espressione di stupore si dipinse sul volto di Adéle «vuoi che lo nasconda in una biblioteca? Non vuoi più pubblicarlo?» Meinl scosse il capo. «Perché in una biblioteca?» domandò lei. «Forse un giorno, in futuro – quando del mio ricordo non sarà rimasta traccia questa mia incapacità potrà essere scambiata per talento, e chissà: magari qualcuno troverà questo libro tra le migliaia di tomi custoditi nella Mazarine e...» s’interruppe per un attimo «…e rievocherà la sostanza di questi giorni lontani.» La donna non rispose. Era troppo esausta per poter proferire altre parole. Si limitò a fissare la copertina del volume, senza nemmeno più fare caso ai monologhi del marito né ai suoi sogni di immortalità.
Ѫ “Com’eri buffa quando la tua visione dell’amore si limitava a quei baci a labbra strette che spesso vedevi rappresentati nei film in bianco e nero. -Dicono che non esiste un amore felice- affermava Belmondo, sul finale di A buot de souffle: tu lo hai sempre pensato, eppure non smettevi mai di sognarlo. Poi, finalmente, lui entrò in te, e fu come se per la prima volta fosse calato il silenzio. Il vero silenzio. In fondo al frastuono dei sospiri, delle carezze e dello strofinio dei vestiti, sfilati lentamente per non svegliare tua madre e tuo padre, restava ora solo l’eco di quei suoni che apparivano lontani, sospesi nella notte, sul muto baratro del piacere.” *** Quella mattina Adéle si alzò di buon’ora. Era ancora l’alba quando uscì di casa e s’infilò di soppiatto nell’autobus numero 9: quello che da Montparnasse porta a Sain-Germain-des-Prés, attraverso tutto il sesto Arrondissement. Il cielo terso emergeva dalla notte in tutta la sua terrificante limpidezza. Madame Meinl lo osservava schiarirsi e tingersi di quel tipico, disarmante celeste, mentre si sentiva prosciugata delle ultime forze rimastegli: avrebbe preferito che fosse il tramonto. “Vuoto” pensò “nemmeno una nuvola”. «Guarda com’è vestita quella...» «Shh...parla piano: potrebbe sentirti» Due ragazzini, dietro di lei, ridacchiavano tra loro alternando bisbigli a grida. Stavano certamente parlando del suo abito.
Eppure non si rendevano conto di quanto anch’essi fossero ridicoli così imbacuccati in quei vestiti troppo eleganti, come adulti in miniatura; nani da circo abbracciati alle loro enormi custodie per violino. La eggera di fronte, invece, sembrava scrutarla con ribrezzo, quasi compiacendosi della propria posa scomposta, delle cosce adipose - divaricate sotto alla squallida gonna a fiori - del petto prominente e della malcelata puzza di sudore. “Che donna orribile” pensò nuovamente. Quai de Conti distava solo pochi i dalla prossima fermata: decise che avrebbe preso una boccata d’aria, eggiando lungo il corto vialetto che si districava alle spalle della Mazarin. Già da quella strada Adéle poteva vedere la grande cupola barocca del Collège des Quatre-Nations svettare oltre le cime degli alberi. Camminava veloce, come di consueto, stringendo sottobraccio il piccolo volume di monsieur Meinl. Una mano reggeva la pochette in camoscio, di colore beige, mentre l’altra stava appoggiata alla fronte, impegnata in una colossale opera di contenimento dei milioni di pensieri che in quell’istante si dibattevano nella sua testa. La donna scosse il capo, tentando di liberarsi da quell’opprimente angustia; realizzò quanto poco decoroso fosse mostrarsi alla gente in un simile stato: che cosa avrebbero pensato i anti vedendola aggirarsi in maniera così scomposta e inelegante per le vie di Parigi? “Suvvia Adéle!” fu il sommesso incoraggiamento ch’ella s’impose “Testa alta e sguardo fiero!”. Rivolse nuovamente i tristi occhi al cielo, provando ancora quel senso di smarrimento che solo certi navigatori, alla visione di un mare piatto e sterminato, possono sperimentare. La donna proseguì il tragitto ammirando quello scorcio di firmamento, spezzato soltanto dalla figura di un alto palazzo dalle linee sinuose, ellittiche e spiraliformi, e dalle finestre ornate di motivi intrecciati e confusi nella sfavillante
lucentezza degli stucchi che le incorniciavano. Lassù alcuni ragazzini parlavano e giocavano affacciati al balcone più alto. Madame Meinl abbassò nuovamente lo sguardo sui numerosi anti, osservandone gli atteggiamenti, cercando di riscontrare tracce di quella famigliare solitudine che spesso andava cercando per diletto tra i suoi simili. Un volto in particolare sembrava fissarla, ben mischiato tra la folla: il viso di una signora molto anziana, dai radi capelli bianchi. Impiegò qualche secondo per riconoscerla, ma subito dopo ne rammentò l’immagine: la donna accomodata sulla bergère dalle imbottiture color verde acqua, nella quiete apparente di villa Laurent, avvolta nello scialle nero, in macramè, e costretta a quella postura rigida, quasi imbalsamata, dalle artritiche membra. «Madame Voisin?» la chiamò. La vecchia le si accostò lentamente, sorretta dal robusto bastone da eggio. Adéle le porse istintivamente un braccio, imponendosi, affinché l’altra vi s’appoggiasse. Il suo esile corpo, erratico e sopraffatto dalla calca, appariva ancor più fragile e instabile. «Non vi date tanta pena per me, madame Meinl: le mie vecchie ginocchia hanno ancora forza a sufficienza per trascinarmi lungo questi meravigliosi viali» le disse dolcemente, accogliendo tuttavia il sostegno dell’altra. Avanzarono piano, tenendosi a braccetto e discorrendo di letteratura e di arte se. La Voisin sembrava conoscere tutte le vie della capitale e, con esse, ciascun fatto che fra quei vicoli si fosse consumato. La conversazione approdò inevitabilmente su madame Laurent e sulla piccola Renée.
«E’ da qualche tempo che Marie non mi parla più di voi. E’ forse accaduto qualcosa?» l’anziana donna profumava di quelle essenze antiche e delicate, mistura di rosa damascena e sandalo d’India. Una fragranza che ricordò alla donna quelle vecchie boccette di colonia dai disegni art déco, color pastello, in cui ragazze seminude ostentavano la propria femminilità, sospese in scenari floreali ed onirici. «Solo una lieve differenza di vedute fra me e la signora» rispose secca Adéle. «Vi comprendo benissimo. D’altra parte non deve essere facile dover educare i figli degli altri. Soprattutto se hanno madri così...come dire...“originali”» La donna non rispose, limitandosi a camminare e a gettare occhiate impazienti all’orologio. Fra non molto la biblioteca si sarebbe affollata, rendendo più ardua la ricerca di un luogo sicuro in cui nascondere il libro del marito. L’avrebbe infilato tra due tomi del tardo Ottocento - qualche trattato di odontologia - oppure fra le polverose copertine di enciclopedie ormai obsolete. La Voisin, intanto, seguitava a parlare: evocò i tempi della lontana amicizia tra lei e la madre di Marie, Stéphane; delle interminabili chiacchierate sul lungosenna e dell’estrema religiosità di quella donna. «Dovete sapere che madame Laurent aveva un fratello, un gemello per l’esattezza. Una povera creatura che ebbe solo il tempo di affacciarsi a questo mondo prima di venire nuovamente inghiottito dall’oscurità» La Meinl abbandonò i suoi pensieri, tornando ad ascoltare le parole della vecchia. «Stéphane ne uscì distrutta. Vi sembrerà assurdo, ma la madre di Marie non ne volle più sapere della figlia…»
«Per quale motivo?» chiese Adéle «Le dinamiche della mente umana, cara signora, sono imperscrutabili. Non saprò mai spiegarmi che cosa spinse Stéphane a provare odio per la figlia superstite; un odio pari soltanto all’amore verso il figlio morto alla nascita. Forse, in cuor suo, la madre di Marie incolpava la donna di essere sopravvissuta al posto del fratello» «E’ terribile…io, io non ne ero al corrente» «Magari ora vi sarà più facile spiegarvi questa diffidenza della Laurent nei confronti del mondo» Madame Meinl si arrestò; una tristezza ancor più profonda appariva ora disegnarsi sul suo volto. «E non è tutto. Io stessa dovetti crescere quella bambina. Finsi spesso di andare a trovare la madre, con l’unico scopo di are alcune ore in compagnia di Marie; per educarla al rispetto e alla fede, ma anche per donarle quel poco di affetto che le era negato. Come vedete io e voi non siamo molto diverse…» «Poi? Che cosa accadde?» «Il peggio, mia cara. Il peggio. Col are degli anni Stéphane perdeva sempre più il contatto con la realtà. Era impazzita. Non dava più nemmeno da mangiare alla figlia; la teneva rinchiusa in una camera del piano superiore. Il padre era morto da anni e solo la servitù, oltre a me, si preoccupava della sopravvivenza di Marie. Poi, alla fine, giunse l’ultima beffa di Stéphane nei confronti dell’odiata figlia...» Adéle tornò a scrutare il cielo, non pensando più all’orologio. «Un giorno, verso sera, la donna lasciò libera la servitù, rimanendo sola nella
villa assieme alla bambina; a quell’epoca Marie doveva avere pressappoco l’età di Renée. Rimasero sole, dicevo. Quella volta Stéphane non chiuse a chiave la camera della piccola, lasciandole così la possibilità di aggirarsi affamata per i corridoi della casa. Nessuno potrà mai dissuadermi dall’idea che ciò non fosse stato un caso. La bambina uscì, com’era prevedibile, dalla propria stanza, diretta alle scale che conducevano al piano di sotto, dov’era la cucina. Fu proprio là, davanti a lei, che Marie lo vide: il corpo sospeso della madre, nuda e ancora oscillante nel vuoto, mentre la fissava con il ghigno severo degli impiccati; come se l’attendesse, o la sfidasse, addirittura, a discendere quei gradini che proseguivano al di là delle sue cosce gelide e contratte» Un urlo squassò il viale, pietrificando la Voisin, la quale roteò gli occhi ingialliti verso la folla circostante; entrambe notarono le teste dei presenti volgersi contemporaneamente nella direzione del palazzo dagli ornamenti barocchi. Madame Meinl scrutò nuovamente il cielo, nel tentativo di cogliere quello che tutti, da laggiù, stavano ammirando: un bolide scarlatto che sfrecciava parallelo alla facciata. Era uno di loro, uno dei bambini del balcone, avvolto nella sua piccola maglietta amaranto: le braccia spalancate e le gambette un poco curve, attendeva quasi imibile l’inevitabile impatto col suolo. Un secondo strillo dei anti accompagnò una nuova caduta: quella dell’altro ragazzo che si era sporto per vedere l'amichetto precipitare. Dai balconi sottostanti si levarono le grida disperate di vicini e famigliari che assistevano impotenti al consumarsi della tragedia. Fu forse colpa dell’altezza, oppure dell’assurdità di quella scena, ma alla donna parve come se i due bambini stessero cadendo a rallentatore, e la prima sensazione che provò non fu tanto l'orrore, quanto la curiosità e forse un po' d’invidia - non perché s’accostassero alla morte - ma per il fatto che stessero sperimentando una situazione nuova, qualcosa che sembrava incuriosirla
parecchio. Ricordò di aver pensato "chissà cosa staranno provando in questo momento, sentendosi volare e sapendo che la loro vita è sul punto di finire per sempre". Adéle sapeva - sembra strano, e no: non aveva istinti suicidi - che la sua reazione era qualcosa di più simile alla fascinazione, e forse era proprio questa consapevolezza ciò che più la spaventava. Anche il corpo del secondo ragazzo piombò a terra producendo un suono molle e rotondo, simile allo schiocco di uno straccio inzuppato; ma la donna non ci fece tanto caso. Si limitò a seguire la folla, realizzando troppo tardi di avere abbandonato il braccio di madame Voisin, perdendola irrimediabilmente tra il marasma generale. Camminò a fatica, strattonata e sbattuta dalle continue spallate che riceveva. La testa le girava e sentiva le orecchie esplodere per il chiasso dei parigini accorsi «Poveri ragazzi: certe disgrazie non dovrebbero mai accadere» mormorò una voce infranta. «Purtroppo sono cose che succedono» rispose un’altra. «Correte! Questo si muove ancora!» «Dio Santo, sembra un manichino! Guardagli le gambe» «Ma non vedi? Ha il cranio sparpagliato per tutto il vialetto: non può essersela cavata...» «Come potete parlare in questo modo? Non lo avete un cuore, voi? Poveri bambini» Adéle pensò che non aveva mai veduto morire nessuno prima di allora e, in fondo, non poteva dire nemmeno in quell’occasione di aver assistito ad una vera e propria “morte”.
In effetti stava osservando più che altro un mucchio di uomini e donne radunati attorno a due corpi sfracellati. Tutto lì. Da lontano stridevano già le prime sirene d’ambulanza. «Tutto inutile» sentenziò qualcuno. Due donne piangevano e strillavano di fronte all’ingresso del palazzo, prendendo a pugni e a morsi alcuni tizi che le impedivano di constatare le reali condizioni dei bambini. Purtroppo una di loro, la più robusta ed arcigna, riuscì a farsi largo tra la folla, ma alla visione del figlio sfracellato non poté fare a meno di accasciarsi al suolo, forse in preda a un malore. Ci vollero quattro giovani uomini per rialzarla. La rimisero in piedi, schiaffeggiandola; la sua vestaglia era sporca di sangue e di vomito. Implorò i presenti che non parlassero mai, in futuro, di quell’aneddoto; che non rivangassero per nessun motivo al mondo la storia della madre che vomitò sul cadavere del proprio figlio. Madame Meinl giunse finalmente ad un remoto angolo del vialetto; la scena della tragedia era ormai lontana ma la ressa s’era spinta fin lì. Fu in quel preciso istante che la donna si accorse di non avere più sotto al braccio il piccolo volume di Jules. Da principio ella percepì nascerle dentro una lieve oppressione, un debole tuffo al cuore, poi l’agitazione crebbe, costringendola ad una spasmodica auto perquisizione. Prese a palpare con mano tremante i diversi anfratti del vestito che indossava, nell’ingenua speranza di trovare il libro impigliato tra qualche vistosa piega dell’abito.
Naturalmente la ricerca non dette frutti, e presto Adéle sentì aumentare la tensione nell’immaginare le conseguenze che questa svista avrebbe comportato. L’istinto la portò a perlustrare il suolo, tra la selva di gambe che infestavano quello spazio. Madame Meinl tornò a brancolare nella confusione, prima profondendosi in “scusate” e “permesso”, poi arrancando alla bell’e meglio assestando spallate e calci nelle caviglie a chiunque non si degnasse di lasciarle il o; gli occhi sempre bassi, a scrutare con dovizia il selciato. Si arrestò nuovamente, dopo pochi metri, aprendo la pochette di camoscio e cercando i suoi occhiali da vista. Lì accanto, intanto, la prima ambulanza ava lenta tra la folla, spostando i curiosi con bestemmie e colpi di clacson. Questo nuovo evento aveva contribuito ad alimentare nuovamente il già enorme marasma che regnava a ridosso di Quai de Conti, e tutto quel chiasso, sommato alla bolgia, investirono ancora una volta la povera Adéle, la quale non comprese, all’inizio, la reale natura della forza ch’era giunta a colpirla alla schiena, non proprio al centro, scaraventandola a terra senza fiato. La donna fece appena in tempo a riprendersi dall’urto e a rotolare su se stessa, lungo l’asfalto, per trovarsi faccia a faccia con il logoro pneumatico di un autobus in manovra, che avanzava implacabile a pochi centimetri dal suo naso. Rotolò una seconda volta, forse d’istinto, stando ben attenta a non disarticolare le breccia: sapeva benissimo che il peso del mezzo avrebbe potuto tranciargliele. Compì un ultimo, disperato movimento, constatando con orrore di trovarsi schiacciata tra un muretto e la parte posteriore del veicolo. Stavolta madame Meinl strillò con il poco fiato che le era rimasto in gola. Gridò fino a che non le parve di udire spegnersi il motore del mezzo. Qualcuno accorse in suo aiuto, traendola fuori da quello spazio angusto. Erano ragazzi e ragazze, probabilmente adolescenti o universitari – la donna non
riuscì a riconoscerli perché i fumi dello scarico le annebbiavano ancora la vista. Vide soltanto le loro sagome immobili, come se aspettassero qualcosa da lei. Adéle sentiva spifferi d’aria entrarle da tutto il vestito, immaginò che fosse stato distrutto dal rotolio: buona parte della gonna giaceva avvolta attorno ad una delle due ruote posteriori dell’autobus. «Possibile che a nessuno di voi sia venuto in mente di dire all’autista di fermarsi?» Gridò. I presenti dettero risposte vaghe: qualcuno addusse come scusante il fatto che tutti stessero assistendo al trasporto dei due bambini deceduti. Altri dissero che il conducente dell’autobus era sotto shock, dopo la visione dei due corpi, e che non fosse in sé durante la manovra. La donna pensò solo che tutti si fossero accorti dell’accaduto, ma che a nessuno importava nulla. Le loro facce sembravano maschere di ghiaccio. Un’altra voce femminile accennò qualcosa, come per giustificarsi, ma madame Meinl si stava già allontanando, dopo aver respinto con violenza due braccia che avevano tentato di sorreggerla. Camminò zoppicando lungo un vicolo poco trafficato fermandosi solo a metà, in una rientranza simile a un cortiletto invaso da erbacce e rovine. Lì prese un fazzoletto e si asciugò le lacrime. Singhiozzava e faticava ancora a respirare a causa della botta alla schiena. Riprese a camminare, incrociando il o di tre uomini con alcuni dobermann. Adéle non temeva i cani “se loro non sentono la paura non mi faranno niente” pensò. Alla fine del vicolo sboccò in Rue de Babylone, dove arrancò con noncuranza tra gli sguardi circospetti dei mille anti.
*** Dall’interno dell’ampolla il salone di casa Meinl acquisiva una totale e spietata immobilità. Qualcosa capace di travalicare l’apparente staticità siderale e la quieta monotonia degli astri. Il cosmo attorno alla boccetta di vetro sarebbe apparso, ad un ospite consenziente, come un magistrale elogio all’inerzia. La libreria, l’ottomana, il breve corridoio con cappelliera, l’encoignure a doppio sportello in stile shabby chic, perfino la fedele pipa di Jules, ingigantita da un banale scherzo della prospettiva: tutto era immerso in una caligine terrosa, distorta e imprecisa, per l’effetto deformante del vetro e delle silenziose acque morte. Solo i palpiti del corpo serpentino erano in grado di creare uno squilibrio, un minuscolo caos all’interno dell’angusto habitat subacqueo. Al di là del cristallo, proiettata nella fissità di quello spazio profondo, si consumava la più scrupolosa tra le contemplazioni: il volto di monsieur Meinl stagliato a breve distanza, ricurvo e smisurato, incombeva sull’intero orizzonte del mondo popolato dalla creatura. Il volto del Dio ammirava l’opera imperfetta, immaginando nuovamente cosa avrebbero potuto cogliere quegli occhi sghembi se solo fossero stati in grado di concepire il miracolo della visione. Jules: il padre, il Creatore, il Demiurgo, o forse semplicemente l’Arconte di uno dei sette cieli - il più basso e degradato, ciò che di più lontano possa esservi dal principio della Creazione - relegato nelle desolate lande in cui domina il Male. Ma il mistero dell’essere sembrava rimanere ben custodito in quelle fattezze molli e squamose, costrette a condividere la monotonia della casa, quasi instaurando una peculiare simbiosi con il nulla che da mesi aveva iniziato a consumare le vite dei due abitanti della dimora. La mano dell’uomo impugnava una penna e componeva piccoli segni, qualcosa che la creatura non poteva comprendere, poiché in essa non vi era alcuna idea di
“arto”, né tantomeno il concetto di “scrittura” o di “disegno”, di “penna” o di “inchiostro”. Certamente non avrebbe potuto albergare nell’essere nemmeno la concezione di “femminino” o “mascolino”, e quindi non deve stupire la sua totale indifferenza all’ingresso della moglie di Jules nella stanza. Il volto del Dio sembrò scomparire dall’orizzonte del cristallo, rimpicciolendosi velocemente, fino a raggiungere le dimensioni della sua compagna. Lei stava immobile di fronte a lui, col capo chino. Questa volta la creatura notò qualcosa di nuovo, un’azione che non aveva mai “veduto” compiere da Meinl; un’interazione con il corpo della donna, quello che comunemente gli uomini chiamano abbraccio. Seguì una serie di gesti incomprensibili: un inchino, una sequela di baci lungo tutto il dorso della mano di Adéle, poi carezze, e di nuovo baci sulla fronte, nell’arcata sopraccigliare, sul mento, mentre lei rimaneva imibile. Gesti spasmodici che si conclo con un ultimo, impulsivo slancio: l’uomo scoperchiò il barattolo, affondando una mano nel liquido ed afferrando la creatura per i setosi filamenti che ne ornavano la sommità. La estrasse dalla brodaglia, lasciandola sospesa nel vuoto: il corpo tentacolare cominciò a muoversi convulsamente sotto al cranio esanime, quasi come una molle colonna vertebrale, viva ed autonoma, impegnata in assurde circonvoluzioni, schizzando qua e là i rimasugli della sudicia melma che l’aveva ospitata. Quell’immagine ricordò vagamente alla donna certe rappresentazioni del Perseo. «E’ stata tutta colpa mia, perdonami» sussurrò il marito. E dopo queste parole egli scaraventò con tutta la sua forza l’essere contro allo spigolo della scrivania, scoperchiandone la calotta cranica. Meinl rimase inizialmente sorpreso dell’estrema morbidezza di quelle membra, realizzando solo in seguito di aver a che fare con un essere totalmente privo di ossa e di sangue.
Gettò a terra la creatura stremata, scossa da vistose vibrazioni e da spasmi. Il suo viso appariva ora scorticato e divelto, mostrando l’interno di quella che a prima vista poteva sembrare una bocca: niente lingua, né denti, né tonsille. Solo un minuscolo foro al posto della gola, dal quale si sprigionava un debole suono, quasi uno squittio. Gli occhi restavano inespressivi, capovolti e sprofondati come biglie nella sabbia. Jules notò due rigagnoli acquosi sgorgare dagli angoli di quello che pareva un naso. “Impossibile” pensò “tu non puoi piangere”. Infine posò il suo piede destro sopra a ciò che rimaneva del volto della creatura, e vi esercitò tutta la forza possibile, maciullando ed accartocciando le sue tenere carni sotto alla suola della scarpa. Nessun suono si produsse, nemmeno lo scrocchio che accompagna lo stritolio degli scarafaggi. Adéle se ne stava ferma lì, lo sguardo spento, come se nulla di ciò che vedeva accadesse realmente: l’abito lacero lasciava fuoriuscire un seno dal piccolo capezzolo all’insù, una coscia ferita sporgeva dal taglio della gonna, e la spallina sinistra giaceva adagiata all’altezza del braccio, scoperchiando metà dell’esile schiena e mettendo in evidenza graffi ed abrasioni purulente. «Come ho potuto? Come ho potuto?...» continuava a ripetere Meinl. Si inginocchiò nuovamente, premendo con forza le sue labbra sulla mano della moglie. «Ho rischiato di perderti. Tutto per colpa di uno stupido libro. Puoi perdonarmi, Adéle?» Lei non rispose, cinta com’era in un nuovo soffocante abbraccio del marito. Il viso annerito celava i tagli provocati dai rovi che infestavano la panchina sotto cui aveva trovato rifugio quella mattina.
I segni del pianto, invece, erano accentuati dalle linee più chiare che le screpolavano il volto esangue, rendendolo simile a quello di certe bambole di ceramica danneggiate. «Ricominceremo tutto daccapo, mi hai sentito Adéle? Sarò l’uomo di una volta» Nuovamente Jules le baciò i graffio sul mento, poi quello visibile nel sopracciglio, ed infine il profondo taglio nella fronte. Le sue labbra si sporcarono di sangue e fuliggine, ma continuavano a posarsi sulla sua pelle, e a pronunciare parole di miele «...sarò il marito, l’amante, il padre, l’amico. Dico addio ai libri, all’arte, a tutte queste maledette pretese! Perché ti amo!» cadde ai suoi piedi, singhiozzando. Biascicò altre scuse, schiaffeggiandosi il volto e accusandosi di essere stato un mostro. Rimproverò sé stesso per non aver mai prestato attenzione ai sogni della donna; parlò di figli, di speranze e di Dio. «Ti sei sempre prodigata per me, Adéle, per aiutarmi ad appagare la mia abbietta vanità! E pensare che oggi avresti potuto persino...oh, no! Non voglio nemmeno immaginarlo.» Meinl si allontanò, camminando per il soggiorno e scompigliandosi i capelli. «Potrai mai perdonarmi?»
Ѯ “Lui chiese quale fosse il tuo più grande desiderio. Dicesti di voler vedere la luna da vicino. Il ragazzo delle Alpilles s’alzò di scatto, allontanandosi per qualche minuto. Tornò con qualcosa tra le mani, entrambe chiuse: le dita ben serrate, come a custodire chissà quale tesoro. Lentamente creò uno spiraglio, allontanando le basi dei due mignoli, poi con cautela formò un secondo pertugio sulla sommità dei pugni, infine ti esortò a guardarvi dentro. Spiasti al di sotto delle sue piccole dita, mentre lui soffiava delicatamente all’interno dei propri palmi. In quell’oscurità ecco brillare una timida creatura il cui fulgore sembrava aumentare d’intensità ad ogni nuovo sbuffo, proprio come una vampa alimentata da un mantice, per poi tornare nuovamente al buio iniziale. Rimanesti a lungo ad osservare l’animaletto, lasciandoti accarezzare il volto dal caldo alito del ragazzo. «Eccoli qui…» disse lui «solo per te, raccolti tra le mie mani: la notte, la luna e il maestrale»” *** «Ricordi il nostro primo incontro?» Jules ruppe il silenzio, posando con eccessiva lentezza il sottile calice di champagne. Adéle annuì dopo essersi asciugata le labbra con il tovagliolo dai bordi smerlati. Il ristorante era gremito di gente e la voce del marito si udiva a malapena, coperta dal fragore di voci, posate e violini di sottofondo. L’uomo seguitò a parlare, evocando nella donna una curiosa nostalgia di quei
silenzi antichi che erano soliti accompagnare i loro pasti. Immediatamente ella s’accorse di stare pensando a tutt’altro: un tizio, accanto alle colonne del portico di un tempio sconosciuto; sulla sinistra sfilavano colline spoglie e sabbiose, il cielo azzurro; non c’era traccia di civiltà. «Rammenti quell’estate ad Aureille? Il grande cerchio di persone, all’aperto…» Meinl accostò una mano alla sua, posata mollemente sul tavolo, carezzandole la punta delle dita. La moglie sorrise, ma chissà come, non riusciva ad abbandonare i propri pensieri. “Lui è di fronte a me” si disse “sta facendo una dichiarazione d’amore e una proposta: afferma di amarmi profondamente e di voler restare al mio fianco per tutta la vita. Sembra sincero e partecipe.” «Ti senti bene, cara?» «Scusa Jules: non capisco cosa mi prende...ho un poco di nausea. Tu no?» L’uomo scosse il capo. «Mi chiedo cosa possa essere. Che non sia stata la cena?» «Credo che il cibo non c’entri…» stavolta lo sguardo del marito tradiva una certa preoccupazione. A quel punto Adéle scattò in piedi e corse verso il bagno del locale. Si fece largo carponi, piegata in due dal dolore, lungo tutta l’anticamera della toilette, fino a giungere appena in tempo di fronte alla tazza. Vomitò rumorosamente, contorcendosi tra conati e rutti raccapriccianti. Il bagno era spazioso, le pareti rosse; la donna sperò che nessuno l’avesse vista razzolare per i pavimenti dei servizi. Restò là qualche minuto, in ginocchio, a fissare il vuoto: un lucente filo di saliva le pendeva dalla bocca.
Scosse il capo, mantenendo uno sguardo perso e il respiro affannoso «No. Così non va. Povera, piccola Adéle» Si risollevò in piedi, dando una sistemata veloce al viso e all’abito da sera. Il proprio riflesso allo specchio le giungeva estraneo, perfino osceno. Ma quell’oscenità, chissà come, la eccitava, facendola sentire sporca. Nella quiete del bagno s’accorse con sorprendente ritardo che i pensieri di poco prima non avevano mai cessato di agitarsi in lei, proiettandola in scenari ormai irreversibili: Adéle era troppo esausta per esercitare la benché minima resistenza a quelle immagini; fu così che decise di lasciarle fluire, e per la prima volta dopo molti anni provò un irrefrenabile deliquio. Immaginò senza vergogna di essere schiaffeggiata e umiliata dinnanzi a tutti. Di venir legata a gattoni sul tavolo del ristorante e poi scopata da chiunque capitasse a tiro della sua fica. Volle udire quelle sette parole urlate sulla sua schiena nel momento dell’amplesso e spezzate dal piacere, quasi scandite in sillabe: put-ta-na. Fu proprio in quell’istante che realizzò di essere sempre stata una pessima attrice, incapace perfino d’interpretare se stessa. Ma da quella notte tutto sarebbe cambiato. Jules era fuori ad attenderla, poco oltre la soglia azzurra del bagno. «Voglio tornare a Parigi» «Cara: siamo già a Parigi» L’uomo la riaccompagnò goffamente al tavolo, dove tornarono ad accomodarsi, giusto il tempo di riprendere le forze. Madame Meinl si sciolse i capelli, massaggiandosi un seno; due lunghi ciuffi le incorniciavano il volto, sottili e ricurvi come parentesi tonde.
«E’ solo colpa mia…» continuava a ripetere il marito stropicciandosi la fronte. Tutte quelle improvvise premure esercitavano uno strano influsso sulla donna, suscitandole una misteriosa repulsione nei confronti del coniuge. Una nuova rabbia si sommava all’avversione e alla pena per quell’essere stravolto e scapigliato che le sedeva di fronte. «Sai una cosa, Jules?» sbottò lei con tono glaciale «Sei solo uno smidollato...e lo sei sempre stato» Il volto di Meinl sbiancò; la sua bocca rimase spalancata in un palese stupore, mentre lo sguardo parve svuotarsi di qualunque espressione, assumendo i connotati sbilenchi dell’essere che per mesi era cresciuto nel barattolo in soggiorno. Pochi istanti dopo - il tempo di un battito di ciglia - Adéle notò riaccendersi un lieve fuoco in quegli occhi annientati: uno sprazzo d’ira divampò per poi dissiparsi immediatamente. Del vecchio orgoglio di Jules non v’era più alcuna traccia. «Che ti prende? Hai perso tutta la tua autorità? Oltre che di scoparmi non hai più nemmeno il coraggio di contraddirmi?!» la donna continuò a provocarlo, assumendo un tono esageratamente squillante. I suoi seni, turgidi e aguzzi, erano sul punto d’esplodere sotto le aderenze dell’abito da sera. L’uomo non poté fare a meno di notarli. «Abbassa la voce per favore, non vedi che ci stanno guardando?» «Non me ne frega un cazzo!» rispose lei facendosi scivolare una mano tra le cosce. Vedere il marito umiliato di fronte a tutti, assistere al pubblico declino della sua virilità, la eccitava terribilmente
«Adéle, non ti permetto di parlarmi così...» «Tu non mi dirai mai più quello che devo fare! Hai capito, fottuto impotente?!» alla parola “impotente” ella emise un gemito di piacere, mentre continuava a frugarsi avida in mezzo alle gambe divaricate. Meinl si levò in piedi, rosso di vergogna, incerto se schiaffeggiarla o mettersi a piangere. «Coraggio! Colpisci Jules! Stordiscimi e prendimi qui, in mezzo a tutti, come una cagna!» Ora i violini avevano cessato di suonare, e anche il vociare dei clienti si era ridotto ad un bisbiglio imbarazzato. I suoi occhi, perfidi, lo sfidavano ad un gioco nuovo e oscuro. Un duello in cui lui soccombeva, vittima di quella bellezza anfibia, capace di muoversi o sguazzare con medesima eleganza tanto nei celestiali territori della purezza quanto nei torbidi mari dell’abiezione. Il confine di tale ambigua natura era tracciato dal lieve languore dello sguardo, dalla misurata convergenza delle cosce, dalla molle compostezza delle strette pelvi: mai come ora tutto in lei sembrava protendersi oltre il ciglio del delicato confine che separa la santa e la puttana. La moglie scoppiò a ridere. Una risata sguaiata e isterica. L'uomo fissò la direzione dei suoi occhi per comprendere il motivo di quel ghigno. Vide la patta dei suoi pantaloni. Notò la grande macchia espandersi e colare lungo la gamba destra. «Povero Jules. Povero, piccolo, Jules. Sei solo un ragazzino. Lo sei sempre stato…»
Egli tornò a sedere maledicendo la moglie. La sua voce era rotta dal pianto. «...tutti questi anni a vantarmi di essere la sposa di un grand’uomo. Dell’esimio “professore della Sorbona”. E invece mi sono messa con un vecchio bavoso...uno...» ora il tono della donna s’era fatto basso e greve. Non lo guardava nemmeno più, assorta com’era nel suo triste monologo. «…uno che schizza nei calzoni alla prima volgarità.» «Maledetta…» ripeteva lui singhiozzando e mordendosi le nocche. Ora il pianto di Meinl era inarrestabile, ma seguitava a darle ordini, o almeno tentava quando la voce non gli si smorzava in un rantolo grottesco «…stai zitta...» seguito da un «...non abbandonarmi...maledetta…». «Avevi ragione sai? Anni sprecati e sogni infranti a causa di un piccolo uomo; uno per cui da tempo, ormai, non provo più niente.» Al pronunciare queste parole Adéle sentì placarsi tutta quella ione, come se un pesante sipario fosse calato sulla sua anima. Nessuna rabbia, nessuna gloria, solo un’immensa pace. Alzò nuovamente la testa, spostando l’attenzione dal punto vuoto che per un infinito istante aveva racchiuso la sua esistenza e cercò il volto del marito, ma di fronte a lei vi era solo la sedia. Jules era riverso al suolo, spalle a terra, sudato e boccheggiante. La donna corse da lui e gli strinse la testa fra le mani, afferrò istintivamente un tovagliolo e lo inzuppò con l’acqua fuoriuscita dal bicchiere che giaceva rovesciato sul tavolo. Glielo ò delicatamente sul volto mentre qualcuno attorno urlava di chiamare un’ambulanza «un infarto! Fate spazio, lasciatelo respirare»
«no un ictus. Non muovetelo, per l’amor di Dio» Jules aveva gli occhi chiusi. Due fosse piene di acqua, come due laghi. Tentò di aprirli, lentamente. Adéle li vide ed erano molto tristi. Ecco che un po’ di acqua iniziò a scorrere dai lati, giù fin nelle orecchie. Come di consueto - in questi casi – la gente si radunò attorno alla coppia facendo domande, dispiacendosi, o tentando di dare una spiegazione a ciò che una spiegazione non ha «hai sentito come lo trattava? Sembrava pazza» bisbigliò un cameriere «poveretto, non aveva una bella cera» sentenziò un altro. L’espressione di monsieur Meinl era stranamente serena. Di riflesso, anche quella della moglie acquisì una dolcezza inaspettata. Era come se intorno a loro non vi fosse nessuno: il ristorante, Parigi, il mondo intero, tutto dissolto in una bolla di sapone. Le labbra del marito seguitavano a muoversi, sembrava recitassero qualcosa (una preghiera forse) pensò Adele Accostò l’orecchio alla sua bocca per captare quelle parole biascicate: qualcosa, nel suo tono, le ricordò il vento notturno delle Alpilles. «Signora non si preoccupi: tra poco l’ambulanza sarà qui» la voce di uno degli orchestrali non sembrò nemmeno giungerle, assorta com’era nell’ascolto di quelle deboli parole
“Rammenti quell’estate ad Aureille? Il grande cerchio di persone, all’ aperto...
ÉPILOGUE
Quando Emile arrivò al ristorante l’ambulanza era già partita. Adèle gli aveva telefonato poco prima, raccontandogli tutto con una calma innaturale. Ora se ne stava là fuori, ad attenderlo. Tra le mani stringeva ancora il tovagliolo col quale aveva asciugato la fronte di Jules. Quando l’uomo le si avvicinò ella non riuscì a pronunciare altro che un timido “guarda” indicando lo straccio fradicio. Lui le disse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene e che era bellissima. I due montarono sulla vecchia Renault dell’uomo, senza proferire altre parole. L’abitacolo odorava di fumo stantio di Gauloises riaccese e di sedili in pelle bruciati, ma il profumo del corpo della donna sembrò infondere nuova linfa a tutte le cose. Emile parve essersi accorto di questa magia, ma rimase con lo sguardo fisso sulla strada, il profilo spigoloso in perpetuo mutamento, striato com’era dalla danza delle ombre proiettate dei lampioni. «Che cosa gli hai detto?» Adéle non rispose. «...dev’essere impazzito...» continuò. «Non dire così!» sbottò lei.
L’uomo tentò di rimanere imibile. Con la coda dell’occhio vide le lunghe gambe di madame Meinl protrarsi fin sotto al cruscotto. Le domandò scusa, ma proseguì «Da un po’ di tempo non sembrava più lui. Era diventato sospettoso, taciturno. E poi quell’orribile creatura che teneva in un barattolo…» Parigi sfrecciava accanto a loro, allontanandosi sempre di più. Ormai il traffico del centro cominciavano a diradarsi cedendo il o alla prima debole oscurità di Charonne. Dai finestrini semiabbassati soffiava un vento caldo e piacevole: l’autunno non sembrava affatto alle porte. «Aveva ragione lui…» sussurrò la donna «...che cosa ci è successo?» si coprì il volto con entrambe le mani, come per nascondere un pianto disperato. Emile accostò l’auto, tentando invano di trovare parole di conforto, ma notò con sorpresa che Adéle non aveva versato nemmeno una lacrima. Il suo volto era asciutto, lo sguardo rilassato. Non c’erano più lacrime da versare. Persino lei sembrò stupita di questa aridità, e fissò l’uomo come se avesse intuito esattamente i suoi pensieri. Un’anima arida, questo vedeva ora riflesso la signora Meinl negli occhi del cognato. «Sono diventata un mostro?» gli domandò poco prima di cadere in balia di un tenero, seppur voluttuoso, abbraccio. «Voleva solo essere ricordato...» proseguì sentendo il respiro bollente di Emile carezzarle il collo e le sue grandi mani tentare goffamente di frenare il desiderio.
«Non parlare come se fosse morto» la voce dell’uomo racchiudeva un debole rimprovero ma il tono era morbido, sospeso, concentrato nell’intensità dei gesti. «Cosa rimarrà di noi se non le nostre storie?» Adéle chiuse gli occhi sfregando energicamente la guancia contro a quella di Emile. «Rimaniamo noi, Adéle. Noi siamo più importanti delle storie: chi potrà mai raccontarle se nessuno le vive?» Le due bocche furono una di fronte all’altra, i loro respiri fusi in un unico soffio, sospeso sul baratro della ione. Ma invece di toccarsi s’allontanarono. Un secondo abbraccio, più febbrile, tornò ad unire i loro corpi stremati dall’attesa. La donna sussurrò frasi terrificanti all’orecchio dell’uomo, parole rotte dal pianto. Lacrime vere stavolta, che copiose egli sentiva scorrergli fra la barba, giù fin sotto al collo. «E’ tutta colpa mia, Emile: io l’ho tradito...ho perso il libro...ho ucciso nostro figlio!» Il cognato le carezzò il capo tenendola stretta a sé; non comprese interamente il senso di quel discorso ma sapeva che avrebbe fatto meglio a non approfondire. Sibilò un lieve “sshhhh” per placare il suo fervore e poi cominciò a cullarla. La voce dell’uomo si fece dolce e triste come il preludio di una kabà albanese. «Non puoi andare all’ospedale in questo stato, Adéle. Ti riporto a casa…» «Non voglio andarci! Non me la sento di tornare là stanotte. Stai con me Emile…» le unghie di lei parevano aggrapparsi alla sua schiena, conficcandosi nel cappotto per trovare appiglio in ciascuna sporgenza della sua gagliarda
anatomia. *** Parcheggiarono poco distanti da Père-Lachaise, in Rue du Repos. Camminarono in silenzio, costeggiando le mura del cimitero e assaporando la quiete della notte. Dall’altra parte della strada vi era un piccolo hotel gestito da cinesi: una palazzina anni ’60, un paio di finestre dalle vetrate infrante e l’obliqua insegna luminosa con scritto OUVERT. Emile disse alla donna di aspettarlo lì davanti, accennò una carezza impacciata e poi si diresse verso l’ingresso. Adéle s’accorse solo allora di essere esausta. Si chiese da quanto tempo non dormiva, e subito le giunse alla mente un ricordo. L’immagine di un sogno fatto chissà quando. Fu come certi pensieri che arrivano fulminei per annidarsi nell'anima, evocati da innocue visioni e asserviti al richiamo ineludibile di arcani legami. eggiava lungo un vicolo polveroso di un villaggio di montagna. Aveva l'impressione di essere nel ato, ma non vedeva nulla che gliene desse la certezza. Tutt’intorno c'era un grande trambusto: molte donne scappavano spaventate, altre invece si dirigevano in un punto preciso, incuriosite. Dicevano che qualcuno era annegato. Le seguì anche lei, ansiosa. Là una bambina esangue, ora, vagava per la strada; anzi stava ferma, quasi più impaurita di coloro che la osservavano. Tutti i curiosi ne erano terrorizzati.
Adéle non l’aveva mai vista prima di allora, ma per qualche motivo sentiva di conoscerla. Non distante vi era un antico lavatoio in pietra: era lì che la piccola giaceva fino a poco prima, coperta da un leggerissimo sudario. Tutti volevano che il cadavere ritornasse nella vasca, là dov’era morta, ma erano troppo terrorizzati per fare qualunque cosa. Anche Adéle era spaventata, ma quella bimba le suscitava una tenerezza incredibile, e nonostante la paura le si avvicinò e la prese per mano. Percepì una scossa, una sensazione indefinibile: non era preparata al tocco di quella carne fredda. Assieme si diressero verso il lavatoio in pietra e, con voce ferma, le disse di ritornare là dentro perché lei non doveva stare tra i vivi. Le fece una carezza ed ella la guardò quasi sperduta, poi le offrì un sassolino, per ricompensarla, e si sdraiò nell’acqua. Adéle le chiuse gli occhi e la ricoprì col suo velo, dolcemente, come se le rimboccasse le coperte. Il ricordo venne interrotto bruscamente da una sensazione di formicolio alla mano sinistra. Madame Meinl si guardò il palmo e accennò un sorriso. Strinse delicatamente il pugno, lasciando un piccolo spiraglio per scrutare all’interno. La sagoma di Emile si intravvedeva oltre a una delle lunghe finestre del pianterreno: era alla reception, appoggiato al bancone, e gesticolava nel suo modo sicuro e virile. La donna fece un o indietro, nascondendosi nell’ombra. Si domandò se la bambina del sogno non fosse in qualche modo lei stessa, o almeno una parte di sé. Quanto avrebbe impiegato per arrivare alle Alpilles se
fosse partita proprio in quel momento, nel cuore della notte? “Una follia” pensò. L’uomo si affacciò alla porta dell’hotel, gridando il nome di Adéle. Lei non rispose, ben protetta nel suo angolo di tenebra. Era come se non lo sentisse più suo, quel nome; non ne riconosceva il suono, forse perché a pronunciarlo era una voce “estranea”; e se all’inizio le provocava i brividi, quell’alterità, ora l’annoiava. Lo vide uscire dal palazzo, smarrito come un bambino, mentre la chiamava più e più volte. Correva a destra e poi a sinistra del cono di luce, imitando i gesti di un attore in un teatro senza nome. Recitava la vita, Emile, incarnando l’amante ingannato. Poi lentamente la sua voce si dissipò assieme ai i, lungo le vie di Ménilmontant. Intanto la signora Meinl se ne stava là, oltre la linea d’ombra, a sbirciare nel proprio pugno. Ogni tanto avvicinava le labbra delicate e soffiava dolcemente nel palmo chiuso, tornando ad ammirarne l’interno. La luna era di nuovo lì.
FIN