Giancarlo Ibba
C’era una volta in Sardegna
EEE-book
Giancarlo Ibba, C’era una volta in Sardegna ©Edizioni Esordienti E-book
Prima edizione e-book: febbraio 2015
ISBN: 9788866902362
Questa è un’opera di fantasia; ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti o esistite è da considerarsi puramente casuale. Copertina di Stefano Puddu.
Dedico questo libro a Gianni e Carla, dai quali il mio nome e tutto il resto
“È un buon lettore che fa un buon libro” Ralph Waldo Emerson
ENTRATA
0 – BENVENUTI
Non ho mai amato il mio paese natale e non avevo nessun motivo valido per ritornarci. A parte quell’assurda, maledetta nostalgia, caratteristica dell’emigrato sardo. Dopo vent’anni di lontananza, stuzzicato da una misteriosa lettera, ho mollato tutto quanto e sono rientrato in quello che, fino alla tarda adolescenza, è stato il mio piccolissimo mondo.
Solus non è un bel posto dove nascere, vivere e morire. La Storia Ufficiale ricorda che è sorto nel 1936, piena Era Fascista, sulle fondamenta di un piccolo raggruppamento di casupole e baracche abitate da pescatori, pastori e contadini. Nel Sulcis li chiamiamo “meraus”. A quei tempi le miniere di carbone attiravano e garantivano un lavoro a migliaia di minatori, impiegati e operai. Così questo sperduto e anonimo villaggio rurale crebbe e diventò un paese. Furono costruite abitazioni degne di tal nome, villette a schiera, case popolari, strade secondarie, scuole, negozi, il mercato, uffici pubblici e una chiesa enorme, degna di una piccola cittadina. Per chissà quale ragione, venne consacrata a San Giorgio, l’uccisore del drago. Quell’imponente edificio di trachite, granito e marmo, affiancato da una torre campanaria a pianta quadra, diventò ben presto l’orgoglio e il vanto dei bacchettoni compaesani. In pochi anni, il numero degli abitanti superò le tre cifre, che per un paese sardo, in quel periodo, non era cosa da poco. Fin dal principio sorse un problema: che nome dargli? La risposta era a portata di mano. A poche decine di metri dalla Piazza, in un campo incolto dietro la chiesa (non distante dal circolo megalitico di Perdas Fittas), da tempi remoti esisteva un antico pozzo a tunnel di ruvida pietra muschiosa. Un’antica leggenda locale la faceva addirittura risalire all’oscuro periodo prenuragico. Sul suo fondo
ombroso, anche in piena siccità, gorgogliava una polla d’acqua salmastra e torbida. In tempi recenti, gli archeologi dell’Università di Cagliari l’avevano classificato come “sito religioso”, presso il quale venivano compiute innominabili cerimonie in memoria di una non meglio identificata divinità pagana. Da sempre, in ogni caso, era nota come “Sa funtana de is Solus”. Dopo un breve ma dibattito, le autorità civili e le persone più ricche della zona, tra i quali spiccava l’architetto Massidda (il proprietario della villa omonima e responsabile del progetto urbanistico), decisero di abbreviare quell’antico toponimo. Così, con la sollecita benedizione del vescovo di Iglesias, il nuovo centro abitato venne battezzato. Per qualche anno andò tutto bene. I bambini nascevano con regolarità, i ragazzi studiavano, gli adulti lavoravano, si sposavano e mettevano su famiglia. I vecchi morivano in pace. Il paese sembrava operoso, sano, forte e stabile. Il futuro appariva felice e ricco di opportunità. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale (che da queste parti, come prevedibile, non apportò significativi mutamenti politici, storici o sociali) Solus iniziò a spegnersi. Le miniere di Carbonia e Iglesias, obsolete e antieconomiche, chio i loro pozzi uno dopo l’altro. Le fabbriche collegate all’attività estrattiva, e le relative aziende dell’indotto, licenziarono gran parte degli operai. Siccità e malattie flagellarono campagne e allevamenti, portando alla disgrazia braccianti e mezzadri. A quel punto, la popolazione locale, indigente, affamata e scoraggiata, cominciò a emigrare “in Continente” (da queste parti la Penisola Italiana è sempre definita così) o addirittura in “America” (del Nord o del Sud, stessa cosa). Alla fine di questa diaspora, gli abitanti di Solus si stabilizzarono intorno alle novecentomille unità. Una buona parte di questi erano: vedove, malati, invalidi civili, di guerra, disoccupati cronici. Il tasso di natalità cominciò a scendere, quello di mortalità a salire. L’unico fattore in costante aumento, oltre alla povertà, era la religiosità della cittadinanza. I ricchi avevano di meglio da fare che pregare. Per fortuna, la chiesa era molto grande. Le cose non cambiarono molto nei decenni seguenti. Il cosiddetto “Polo Industriale”, dopo il consueto iniziale entusiasmo elettorale,
anziché una “boccata d’ossigeno” per l’economia della zona, rappresentò soprattutto inquinamento, Cassa Integrazione Straordinaria e carcinomi di vario genere. Insomma, come è facile intuire, Solus non mi è mancato per nulla, in questi due decenni di assenza: è un luogo che mi sta stretto come la camicia di forza di un manicomio. Infatti, adesso che sono a pochi chilometri dal bivio che separa il paese dal resto del Sulcis, dopo un’odissea di venti ore (tra macchina e traghetto), ho già voglia di andarmene… È come un brutto presentimento. Lo sento dentro le ossa. C’è qualcosa che non va, qui.
“Mai visto un paese più cadavere di questo.” Joe, “Per un pugno di dollari”
1 – RITORNO AL ATO
Le fronde incolte degli eucalipti, sferzate dalle raffiche del maestrale, si inarcano sopra la vecchia strada formando quasi un’ombrosa galleria. Le pallide foglie sembrano accarezzare il cartello sbilenco, lucido d’umidità, che oscilla sul margine dissestato della banchina fangosa. Un gruppo di cacciatori di frodo, tanti anni fa, ci ha scaricato sopra le doppiette. Ancora oggi, dalle innumerevoli cavità lasciate dal piombo, stillano linee di ruggine marrone simile a sangue secco. Mitragliare i cartelli è un atempo mai fuori moda da queste parti. Un silenzioso monito per gli sporadici visitatori e globe-trotter. L’asfalto impregnato di pioggia della Statale 126 ter, che transita accanto al cartello bucherellato, assomiglia alla pece liquida. Una volta asciutto riprenderà il solito aspetto grigio e decrepito. Il manto stradale non viene riparato dagli Anni Cinquanta. Prima di allora c’era soltanto uno stretto sentiero, pieno di buche e sassi e fango. È trascorso mezzo secolo, ma nessuno si è più interessato ai chilometri che collegano Solus al resto del pianeta. Del resto, questa “strada” non è segnata neanche sulle mappe dell’ACI e, strano ma vero, i navigatori satellitari perdono spesso il segnale GPS prima di localizzarla. Cose che succedono, nel Profondo Sulcis.
La mia scassata FIAT Uno, tenuta insieme da un miracolo, frena accanto al cartello con un grande stridore di pneumatici lisci. Slitta sulla fanghiglia sabbiosa intrisa di foglie secche e spruzza un largo ventaglio d’acqua torbida nella cunetta. La sua corsa finisce a pochi millimetri da quella fossa ricolma di spazzatura d’ogni genere. Tra i fusti degli alberi si scorgono scheletri di lavatrici, cerchioni rugginosi, cumuli di lattine e cartacce ammollate dalla pioggia battente. Un immondezzaio abusivo a cielo aperto, come ce ne sono tanti da queste parti. Due cornacchie grigie, appollaiate sopra una trave di ferro piegata a L, le piume umide, osservano la scena interessate.
All’uscita dal Lingotto la Uno doveva essere bianca, al momento dà più sul carta da zucchero. La vernice, fessurata come la superficie di un lago inaridito, si stacca a croste e cade sull’asfalto, mentre l’auto si stabilizza cigolando sugli ammortizzatori. I tergicristalli raschiano il parabrezza con uno sciacquio flaccido. Il motore tossisce come un malato di tubercolosi. Pennacchi di fumo oleoso vengono vomitati a intermittenza dal tubo di scappamento. Il maestrale disperde i gas nell’aria di questo piovigginoso mattino di novembre. Con uno strappo innesto il freno a mano. Giro la chiave e, dopo una specie di singhiozzo, lo scoppiettio del motore cessa. La marmitta esala l’ultimo sospiro. Cade il silenzio. Rotto soltanto dal ticchettio del radiatore che si raffredda e il tip-tap delle gocce sulla carrozzeria. Il vento è aumentato. Il fruscio degli eucalipti diventa fastidioso. Sbuffando, apro lo sportello che scricchiola per protesta. Subito dopo appoggio sull’asfalto un piede fasciato da uno stivale di cuoio. Lancio un mozzicone di sigaretta accanto al tacco, dove sfrigola in una pozzanghera iridescente d’olio. Muovo appena il tacco e lo sminuzzo con cinica lentezza. Un istante più tardi sbadiglio ed esco dalla mia utilitaria. Ho l’aspetto di un tizio come tanti. Una faccia qualunque, pochi soldi in tasca e un cervello pieno di nozioni inutili. Mi guardo attorno, con l’aria perplessa di uno che ha già familiarità con il posto. Faccio una smorfia quando poso gli occhi sui rifiuti in mezzo agli alberi. Non è una sorpresa. C’erano anche prima che partissi. Né più né meno. Una delle cornacchie si scrolla l’umidità di dosso, allunga il collo verso il cielo basso ed emette un verso sgradevole. Scuoto la testa come per scacciare un brutto sogno. Cosa ti aspettavi? Penso. Qui le cose non cambiano mai. Giro intorno al paraurti, incurante della pioggia, e mi piazzo a gambe divaricate, come un cowboy, davanti al cartello sgocciolante. Mani sui fianchi. Indosso
jeans stinti, camicia bianca di cotone, giubbetto di pelle marrone. Ho i capelli sporchi, lunghi e spettinati. Il viaggio è stato difficile. Lettere cubitali, sbiadite dal sole, gridano: SOLUS. Oltre ai buchi dei proiettili, il metallo è coperto di graffi. Sotto il nome del paese c’è una macchia confusa, forse una scritta a pennarello, cancellata dal tempo o dalle intemperie. Attaccati ai sostegni verticali, quasi privi di zincatura, ci sono i soliti avvisi circolari barrati di rosso: limite di velocità 30 km l’ora e il divieto di emissioni acustiche. Infastidito, sposto lo sguardo sull’eucalipto più vicino. Sul fusto umido, scolpita nella corteccia con un coltello, c’è un’incisione. Un simbolo che ho cercato di dimenticare. Quei primitivi tagli ossidati emanano un’aura ancestrale, tenebrosa e minacciosa. La sensazione, che quel disegno arcano suscita, è simile a quella che provoca la svastica a un ex deportato. Quando ero ragazzino, sui tronchi degli eucalipti incidevo cuori trafitti dalle frecce di Cupido, ma, già allora, qualcuno (nessuno sapeva chi) tracciava quell’enigmatico simbolo sui muri diroccati delle costruzioni abbandonate, sotto le panchine più appartate della piazza, sul retro della lavagna a scuola, sulle traversine del binario morto della Stazione. Rammento che le vecchiette, infagottate nei loro scialli neri, si facevano il segno della croce e bisbigliavano una preghiera quando lo vedevano. Nessuno ne parlava. Era tabù. Solus sa mantenere nascosti i suoi segreti. I capelli, fradici e unti, mi finiscono sugli occhi affaticati. Li rimuovo con un gesto nervoso della mano. Poi ruoto sui tacchi, consunti dalle troppe scarpinate. Rientro in macchina. Chiudo piano lo sportello. Apro con cautela il finestrino. La manovella è guasta e non voglio distruggere il meccanismo. Estraggo una sigaretta dal pacchetto morbido di Nazionali che ho lasciato sul cruscotto. È l’ultima. Meglio così. Devo decidermi a smettere. Il fumo nuoce gravemente alla salute e provoca il cancro. Così c’è stampato dappertutto, ormai. Tranne che sui fumaioli delle fabbriche…
Pensieroso, come tutti quelli che pubblicizzano le sigarette in televisione, stringo il filtro tra le labbra sgocciolanti di pioggia. Lo sguardo fisso sui rigagnoli rossastri che solcano il parabrezza. Tutti a Solus dicono (mentendo a se stessi) che sia la sabbia del deserto libico, trasportata fin lì dal vento, a tingere di rosso la pioggia. Anche i bambini dell’asilo sanno che, in realtà, quel colore rossiccio è dovuto alle porcherie vomitate dalle ciminiere, piccole e grandi, soprattutto nelle notti senza luna, quando si nota meno. D’altronde, le opzioni sono: lavoro e inquinamento o disoccupazione e povertà. Mi tasto le tasche alla ricerca dell’accendino perduto. Non lo trovo. Bestemmiando, piego la schiena rattrappita dall’umidità e rovisto nel portaoggetti, pieno di gettoni dell’autolavaggio, involucri di caramelle, un romanzo tascabile di Dean Koonz e una scatola di preservativi. So che c’è un altro accendino, lì dentro. È il classico BIC. L’ho acquistato nel parcheggio di un centro commerciale alla periferia di Torino, da un senegalese con l’accento bergamasco, una settimana fa… quando ancora ostentavo un lavoro di merda a tempo determinato e dividevo l’appartamento con un branco di studenti universitari. Convivenza tutt’altro che pacifica. Ma che diavolo mi è preso? Mollare tutto così e tornare al mio fottuto paesino sulcitano? È una cazzata bella e buona. Recupero l’accendino appiccicoso di caramelle e sporco di inchiostro. Qualche penna deve essere esplosa per il caldo. Con il pollice faccio scattare la scintilla e accendo. Aspiro le iniziali, soffocanti e corpose boccate quasi con apprensione, come facevo da ragazzo nella cava abbandonata dietro la chiesa. Mia nonna non voleva che, io e i miei amici, ci andassimo a giocare nei lunghissimi pomeriggi d’estate. È pericoloso, diceva, con tutta quella polvere, le zecche e… i drogati. Quella, per la verità, era la Ragione Numero Uno.
Una dozzina di eroinomani, infatti, per nulla in incognito, andavano a “bucarsi” dietro il muro di cinta dell’oratorio. Al riparo dagli occhi indiscreti dei compaesani adulti, ma non da quelli curiosi di noi bambini, che andavamo lì apposta per coglierli con l’ago già infilato nel braccio. In mezzo a quelle collinette di terra, coperte di sterpaglia, succedeva di tutto e di più. Quelli che volevano trovare Dio entravano in chiesa dalla piazza, quelli interessati al paradiso andavano sul retro. Comincio quasi a sentirmi meglio. Soffio il fumo fuori dal finestrino, nel temporale, chiedendomi per l’ennesima volta perché sono tornato a Solus. Non riesco proprio a capirlo. È successo da un giorno all’altro. Senza un motivo razionale. Sfilo dalla tasca interna la strana lettera che ho ricevuto la settimana scorsa. Quella che mi ha spinto a ritornare. Ruvida carta giallo ocra. Una raccomandata. Il timbro una macchia illeggibile. Il francobollo stinto e obsoleto. Sollevo il lembo sbrindellato della chiusura e sbircio per l’ennesima volta il foglietto che c’è all’interno. Cinque parole, scritte a mano, in uno stampatello dai caratteri un po’ inclinati verso destra. TORNA SUBITO A SOLUS. Per l’ennesima volta lo rigiro perplesso tra le dita. Non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che… Qui non c’è nessuno ad aspettarmi. Ma è davvero così? Richiudo la busta e la infilo di nuovo nella tasca. Sono rimasto orfano molto presto, a sei anni, per colpa di una condotta che ha risucchiato, uno dopo l’altro, mia sorella più grande, mamma e papà. In quel punto non c’era neanche un cartello che indicasse: PERICOLO DI BALNEAZIONE! Soltanto un molo di grezzo cemento armato, il torrido sole di metà agosto e un ventaccio caldo e ruvido di sabbia africana (per chi ancora voleva crederci). Non doveva succedere nulla di tragico quel pomeriggio, eppure era successo lo
stesso… A volte, a notte fonda, mi sembra ancora di sentire le grida della mia famiglia, trascinata sotto dalla corrente invisibile e spietata, che risuona nel tunnel colmo d’acqua contaminata. Qualcuno, più tardi, mi spiegò che quel condotto faceva parte dell’impianto di raffreddamento di una fabbrica chiusa da dieci anni, che doveva esserci una recinzione per impedire l’accesso e un’inferriata a sbarrare l’imboccatura del molo. Bla, bla… Queste spiegazioni postume non servono a nulla. Io sono vivo. Loro no. Quando mia sorella è stata catturata nel vortice, papà si è subito tuffato per tirarla fuori. Ma è finito di sotto pure lui, in un attimo, senza un grido. A quel punto mamma, disperata, si è gettata in mare. Anche lei non è più riemersa. Solo io non ho avuto il coraggio (o l’incoscienza) di lanciarmi nel gorgo. Sono rimasto lì, pietrificato sul molo di cemento rovente, con la schiena tutta rossa e spellata dal sole, gli occhi colmi di lacrime puntati sulle onde che sbattevano bottiglie vuote di plastica contro pali di legno incrostati di alghe e cirripedi. Non so quanto tempo è ato prima che quel pescatore della domenica lanciasse l’allarme, strappandomi dal coma. Da quel funesto e riarso pomeriggio di mezza estate, fino alla maggiore età, ho vissuto con mia nonna materna. Gli altri tre avi erano già ospiti fissi dell’affollato cimitero comunale (carcinoma polmonare, omaggio della Fabbrica dei Cancri). Subito dopo aver preso il diploma di ragioniere sono partito per il Continente, come dicono qui. Trovare un lavoro è stato questione di giorni: un calabrese, grossista ortofrutticolo nei Mercati Generali di Torino, cercava un onesto contabile. Il diploma di ragioniere, alla fine, mi era tornato utile. Nel giro di una settimana ero sistemato: affitto e bollette. L’anno dopo, un’asettica telefonata mi aveva comunicato la morte della nonna e il pignoramento della sua casetta da parte della Banca. A quanto risultava, la
vecchia bisbetica si era indebitata fino al collo pur di garantire alla mia famiglia distrutta un servizio funebre in pompa magna. Bella mossa. Chiuso nell’abitacolo, sorrido attraverso il fumo. L’eredità non è mai stata in cima ai miei pensieri, al contrario di quello che succede di solito in tutte le famiglie di Solus. Del resto, c’è poco altro a cui pensare qui. È un posto fatto così, lo so. Finisco la sigaretta. L’ultima è sempre la più buona, anche quando ha il sapore della cacca. È un brevetto delle Multinazionali per impedirti di smettere? Il ricordo della precedente fumata è sempre così dolce che ti viene subito voglia di succhiarne altre. Perché no? A che serve smettere quando, ovunque, spuntano cilindri di cemento alti cento metri che nebulizzano tumori ai quattro venti? Tanto vale smettere di respirare e farla subito finita. Guadagnando tempo (per cosa?), esamino la strada oltre il parabrezza e getto il mozzicone sul tappetino, insieme ai suoi simili e alle lattine di birra Ichnusa schiacciate che ho bevuto durante il solito periglioso viaggio sulla Carlo Felice. Nelle curve, prima di Abbasanta, rotolavano sotto i sedili con un rumore di ferraglia. La colonna sonora del mio viaggio. Che ci volete fare, non ho più l’autoradio. Me l’hanno rubata. Sogghigno di nuovo, batto una mano sul volante, poi giro la chiave nel quadro. Non accade nulla. Ci riprovo. Nulla. La Uno non parte. In una zona buia del cervello mi balena un lampo di genio. Spingo la levetta dei fari. Niente. Non s’illumina neppure la lucetta verde nel cruscotto impolverato. Batteria scarica? Non so per quale bizzarra intuizione, o presentimento, ma tiro fuori il mio vecchio cellulare Nokia dal taschino. Guardo lo schermo. È spento. Provo ad accenderlo. Niente da fare. Eppure l’ultima volta che l’ho guardato, un paio d’ore prima, mentre facevo colazione in un baretto di Vallermosa, c’erano tre tacche su quattro di carica residua. È una vera sfiga!
Qualcosa ha fritto i circuiti. Impulsi elettromagnetici? Ecco un esempio delle tante cazzate che ho nella testa. L’aria intorno alla macchina è sempre più compatta, tetra, frusciante e caliginosa. La luce assume una strana sfumatura violacea, molto simile a quella di un bernoccolo. Sono quasi le undici del mattino, anche se non sembra. Pare piuttosto un’ora che non esiste, un ibrido tra il crepuscolo e l’aurora. Che sta succedendo? Imprecando, a bassa voce, rimetto il cellulare nel taschino. Odio la tecnologia. Soprattutto quando smette di funzionare. A Solus, per qualche ragione, capita un po’ troppo spesso. Tolgo la chiave dal quadro e sollevo il vetro del finestrino in fretta. Adesso non me ne frega più un cazzo di romperlo. Esco dalla Uno, sbatto lo sportello e infilo il mazzo di chiavi nella tasca dei jeans, scuriti dalla pioggia e dalla sporcizia. Nell’altra c’è il rigonfiamento del portafoglio, in finta pelle di vitello, che ormai ha preso la forma curva della mia natica. Contiene l’ultimo stipendio incassato. Poca cosa. Esamino il cartello scorticato, dall’altra parte del tettuccio, poi sposto lo sguardo su e giù per la strada. Nessuno in vista, a parte quelle due pulciose cornacchie sopra la trave storta. Non ho incrociato nessuna auto, trattore o motocarro, da quando ho svoltato all’incrocio tra la ss126 bis e la ss126 ter. Alzo il colletto del giubbotto e inveisco contro me stesso e quella frenesia di tornare al triste paesello delle origini. Nello stesso istante, come in risposta, le cornacchie gracchiano e spiccano il volo con uno sbattere d’ali simile a un applauso svogliato, perdendo un mucchio di piume luride e svanendo in mezzo alle nubi che lambiscono le cime degli eucalipti. Decido di lasciare la valigia nel baule. Tornerò a prenderla più tardi, insieme all’elettrauto. Mi stringo nelle spalle e inizio a camminare lungo il ciglio della carreggiata, calpestando grovigli di gramigna e sguazzando nelle pozzanghere. Solus dista 500 metri, sulla destra, dietro la fascia di eucalipti che cinge il centro abitato, come una muraglia vegetale. Per tenere gli estranei fuori… o i paesani
dentro. Nel canale di scolo, invaso dall’avena selvatica, un grillo frinisce e salta via spaventato. Atterra tra gli alberi e il suo vocalizzo viene soffocato dai mucchi di bottiglie vuoto a perdere e gli scarti dei lavori edili del circondario. Nessuno si prende mai la seccatura di portare i detriti alla Discarica Controllata. No. Molto più facile ed economico caricarli sul cassone di un autocarro e scaricarli, senza troppi problemi, nei recessi più o meno nascosti del Sulcis. Comunque, l’estetica del paesaggio naturale, da queste parti, non ne risente troppo. Continuo a marciare sotto la pioggia. Il paese è vicino. Il cielo sopra la mia testa è coperto da una coltre di nuvole temporalesche, pesanti, così basse che mi sembra di poterle toccare sollevandomi sulle punte degli stivali. Il maestrale si è rafforzato e scudiscia le fronde con rabbia, strappandone effimere galassie di gocce di pioggia e foglie ingiallite. Per un momento, nell’ombrosa fascia di eucalipti mi pare di percepire il rumore di qualcosa che striscia in mezzo alle immondizie. È un suono sibilante. Una specie di Fssssh… Scompare subito. Cosa era? Una biscia extralarge? Fischietto una canzoncina, sentita al Festivalbar, tanto per farmi coraggio. Mentre cammino mi guardo intorno. Nulla è cambiato. Non c’è nulla che potesse o volesse cambiare. Alla gente di Solus non piacciono le novità. Le novità sono spesso pericolose e non portano niente di buono ai poveracci. Duecento metri più avanti, superata la semidistrutta Casa Cantoniera e l’ex aggio a livello, con il vecchio binario ancora incassato nell’asfalto, arrivo all’incrocio principale. La strada alla mia destra, dopo aver fiancheggiato il muro di cinta e la recinzione metallica della Stazione (da cui il nome, Via della Stazione), a davanti alla Caserma dei Carabinieri, aggira le gradinate del Campo da Calcio ed esce dal paese, trasformandosi in una sterrata circondata da fichi d’India e rovi pieni di spine. La sterrata termina in un campo abbandonato, pieno di sterpaglie e piccoli tumuli, cinto da un basso e semidistrutto muretto a secco. Quel luogo è chiamato Perdas Fittas. L’appellativo è dovuto al circolo megalitico composto da sei rozzi pinnacoli di pietra (alti due metri e mezzo) infissi nell’umido terriccio argilloso. Insieme con il “Pozzo Sacro” dietro l’oratorio (la culla dei drogati), le “Domus de Janas” sulle colline e le vestigia di
Villa Massidda, rappresenta quanto rimane del nostro trascurato patrimonio archeologico. A sinistra, Via Deledda porta al distributore dell’Agip e al Cimitero, identificabile dai maestosi cipressi che ne ornano le mura perimetrali di mattoni rossi. Curvando a destra, poi, la strada conduce alle Scuole (Materna, Elementari e Medie) e al paese “nuovo”: una falange di villini. Tutti uguali, a parte il colore. Proseguendo, c’è il posteggio del Supermarket Deidda. Più avanti, Via Deledda, diventando a sua volta una sterrata, oltrea un boschetto di olivastro e si dirama nella cosiddetta “zona industriale”. Un posto squallido, pieno di capannoni fatiscenti e carcasse d’auto, dominato dall’intelaiatura di ferro arrugginito dell’ex Cementificio. È fallito negli anni ’70. Davanti ai miei occhi, cinquanta metri dopo l’incrocio, la strada sfocia nell’arteria principale del paese: Corso Savoia. Non ci sono cartelli, strisce pedonali o semafori. La via, nonostante l’ora, è ancora avviluppata dalla bruma mattutina. Dalla foschia affiorano anemiche case monofamiliari, facciate senza intonaco, condomini squadrati; muri fatiscenti, giardini aridi, aiuole spartitraffico infestate dalle erbacce; una manciata di utilitarie acciaccate, i parabrezza sporchi di polvere rossa, posteggiate lungo la via e sopra i marciapiedi, tra un oleandro e l’altro; vicoli bui e maleodoranti, botteghe con la saracinesca abbassata; tetti obliqui, tegole muscose, camini fuligginosi, cancellate ossidate, l’insegna del NUOVOCINE, la seconda O sfasciata. La misteriosa nostalgia, l’oscura forza che mi ha pilotato in quel luogo, sta per essere placata. Il vuoto inesorabile che sento dentro verrà presto colmato, forse. Non tutto, certo, ma almeno un po’. Questo sì… È possibile. Ma chi può dirlo? Smetto di fischiare. A casa tutto è più bello… penso. Anche la morte. Un timore immotivato mi ostruisce la bocca dello stomaco. Forse sono ancora in tempo per voltarmi, tornare di corsa alla statale, trovare un aggio e fuggire chissà dove. Non mi importa più nulla di quell’inspiegabile messaggio. Non voglio sapere chi, cosa o perché… Ci sono fatti destinati a restare senza spiegazione.
Per esempio, una tubatura allagata che rovina la tua vita o una malattia incurabile che sceglie te e non un altro che se lo merita. Non c’è un motivo. Le cose succedono. La morte di un essere umano possiede lo stesso identico significato di quella di un insetto spiaccicato sul paraurti di un’automobile. Resto immobile, come quel rovente pomeriggio sul molo. Fradicio. Con il fiato che diventa vapore davanti alla bocca. Qualcosa mi urla dentro che il prossimo o sarà fatale. A Solus non troverò risposte, ma soltanto altre domande. In quello stesso momento, per un attimo meraviglioso e fuggevole, tutto mi appare nitido. Ogni cosa prende la giusta collocazione. Il mosaico di intuizioni si completa e il disegno nascosto diventa visibile. Come ho fatto a non comprendere? Quindi… è questo che… La rivelazione è subito oscurata da un sipario di ombre. Rabbrividendo mi o le mani tra i capelli e sospiro. Non ho scelta. Non l’ho mai avuta. Ricomincio a camminare.
2 – FLASHBACK
Corso Savoia, la strada principale di Solus, è deserto. A vederlo così, adesso, non sembra tanto diverso da come l’ho lasciato. Solus non è mai stato il paese ridente e pieno di colori, tipico dei telefilm americani. Ricordo che da bambino, quando uscivo da casa per andare a scuola o in biblioteca (o viceversa), facevo un gioco. Chiudevo gli occhi e camminavo per le strade vuote e silenziose, affidandomi solo alla memoria visiva per raggiungere la destinazione. Ho fatto quel breve percorso milioni di volte: pioggia, sole o vento. Di solito, non incrociavo nemmeno un’auto. Soprattutto dopo pranzo. A quell’ora, tutti i paesini sardi sembrano spogli e abbandonati. In questo momento, però, sono le undici del mattino. Ho un altro brutto presentimento. Non c’è più nessuno. L’asfalto ha assunto una tonalità di colore sgradevole. Le griglie di scolo sono intasate di sporcizia e foglie d’eucalipto secche. La brezza salata solleva dal manto stradale nuvole di pulviscolo giallastro. Il silenzio è insopportabile. Le finestre sembrano tanti occhi socchiusi che mi fissano con disprezzo. Solus sembra essere stata colpita da una di quelle bombe nucleari ai neutroni, quelle che vaporizzano persone e animali, lasciando integro tutto quanto il resto. Senza nessun bisogno di controllare, ho la terribile certezza che non ci sia anima viva in paese. È una percezione netta e precisa. Quasi tangibile. È possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Sono il primo a scoprirlo? Non ho nessuna risposta valida. Il “fenomeno” potrebbe essere recente. Forse si sono tutti volatilizzati durante le ultime ore della notte. Nel mezzo di un violento temporale notturno, rapiti da una scintillante astronave aliena. O forse no… In fondo non ci sarebbe niente di così strano se l’intera popolazione di
Solus fosse evaporata nel nulla, senza suscitare clamore mediatico. La realtà è che, per quanto ne so io, Solus potrebbe anche essere stato evacuato da parecchi anni e la sua popolazione dispersa. Non c’era nessuna ragione per rimanere e tante per andare via. La spiegazione mi sembra ragionevole, razionale e soddisfacente… Solus è diventato un vero paese fantasma. Qualcosa, però, mi dice che la spiegazione è tutt’altra. Avanzo lungo la carreggiata dissestata. I granelli di sabbia scricchiolano sotto le suole. Davanti a me, sopra un poggio, s’innalza la cima della chiesa, oltre la piazza di granito ornata dai sempreverdi… o almeno lo erano quando sono partito. Adesso ci sono soltanto gli scheletri anneriti dei fusti e dei rami. Niente foglie. Gli alberi sono tutti morti. La grande scalinata di trachite, che conduce al portale, è viscida di poltiglia prodotta dalla pioggia. Al centro del piazzale c’è ancora la scultura di bronzo. Raffigura San Giorgio a cavallo che trafigge il Drago con una lancia. Nella luce plumbea di questo mattino sembra quasi animata da uno spettrale gioco d’ombre. Non ci è mai piaciuta quella statua. Ma l’abbiamo tenuta, perché da noi è più facile sopportare che cambiare. Il campanile, a pianta quadrata, svetta contro le opprimenti nuvole sfilacciate e scure. Assomiglia a un enorme matitone di cemento. Nel progetto originale doveva essere piastrellato d’azzurro e bianco, i colori del paese, poi il tempo è ato e nessuno ha completato l’opera. Adesso, l’intonaco è crepato e in alcuni punti s’intravedono i mattoni sottostanti. Non ha un bell’aspetto, anzi, sembra quasi sul punto di crollare sopra la piazza, seppellendo il Santo, il Drago e mezzo Municipio. Quando arrivo a metà strada sento il rumore di qualcosa che sbatte nel vento. Un rumore secco dal ritmo irregolare. Legno contro legno. Sbam-Sbam-Sbam… Mi fermo e ruoto lo sguardo tutt’intorno, sui marciapiedi ingobbiti, sulle facciate delle case, sulle finestre sbarrate, sulle viuzze ombrose. Alla fine localizzo la fonte di quel suono. Una porta socchiusa. La targhetta di plastica sopra l’uscio informa che quello è il civico numero 133.
Ai miei tempi ci abitava una famiglia di cui non ricordo il nome. Chissà che fine hanno fatto… Spinto dalla curiosità, mi avvicino alla porta che sbatte e sbatte e sbatte. A parte il sibilo del vento e il suono dei miei i non si sente altro che quello sbamsbam-sbam. Nello spazio dietro la soglia s’intravede uno spiraglio di tenebra. Quell’oscurità mi attira, come il raggio traente di Star Trek. Devo entrare. Forse troverò alcune delle risposte. Salgo sul marciapiede, composto da un butterato incastro di mattoni rossi e grigi che il tempo ha sbiadito e reso quasi indistinguibili. Scorgo gomme da masticare rosa spiaccicate e fossilizzate, chiazze d’olio bruciato e mozziconi di sigaretta. Il “decoro urbano” è sconosciuto in questo angolo di mondo. Davanti alla porta mi assale un’intensa sensazione d’irrealtà. Simile a quella che, poco prima, mi ha colto all’incrocio. Mi sento come un profanatore di tombe antiche, colme di oscure maledizioni e lugubri profezie. Non capisco da dove provenga questa emozione. Ne resto paralizzato, turbato e affascinato. Forse è proprio questo il motivo per cui sono tornato a Solus. È il punto di non ritorno? Un concetto estraneo al mio solito modo di ragionare. Quasi un segnale di pericolo. Una minaccia inconscia. La ignoro. Poso il piede destro sulla soglia di cemento e afferro la maniglia, interrompendo lo sbattere esasperante della porta… Lampi di luce iridescenti esplodono nelle mie retine. Accade tutto in un attimo. Percepisco un bruciante formicolio elettrico sotto il palmo della mano, molto simile alla scossa che si prende toccando un interruttore mal isolato. Una fitta di bianco dolore tra le tempie mi acceca. Perdo il contatto con la realtà. Non ho il tempo per spaventarmi. La mia mente è già in viaggio, in una sfavillante spirale di colori che si impastano, risucchiati da un buco nero. Non ho idea di quello che succede. Il mio corpo è ancora su un marciapiede di Solus, sotto un cielo gravato da nuvole fosche che promettono tempesta. La destra stretta sulla maniglia della
porta. Occhi che si muovono rapidi dietro le palpebre chiuse. La bocca spalancata. Un filo di bava schiuma dalle mie labbra. Posso vedermi. Ho l’aria del folgorato. È un’esperienza onirica, orribile e meravigliosa allo stesso tempo. La mia coscienza non è più imprigionata e costretta dentro la cella angusta del cranio. La mente precipita nel gorgo d’oscurità vorticosa e vi si perde. Oh, no… sto morendo? Non m’importa. Non mi è mai importato. Ad un tratto, la voce preoccupata di una ragazza grida: “Rallenta! Vuoi ammazzarci tutti?”
3 – IL CARTELLO
“Rallenta! Vuoi ammazzarci tutti?” Il ragazzo dietro al volante finse di non sentire le parole preoccupate dell’amica e continuò a canticchiare Johnny B. Goode in sincrono con l’autoradio. La vecchia Cinquecento rombava che era un vero piacere da quando il padre aveva sostituito la marmitta. Il nastro opaco della statale scorreva rapido sotto il cofano bombato, illuminato dalla luce incerta dei fanali. Guidare forte a notte fonda ti faceva sentire bene, libero e selvaggio. Specialmente a diciannove anni scarsi. “Non fare il cretino, Paolo. Tua sorella sta male!” Paolo lanciò uno sguardo al retrovisore e sogghignò. Incastrati sul sedile posteriore dell’utilitaria, stretti come sardine in scatola, c’erano la sorellastra, il suo spasimante e l’amica rompipalle. Si chiamava Anna Frailis. La sua vocetta stridula faceva pensare al trapano del dentista e, più o meno, produceva lo stesso effetto sulla psiche. Per il resto, Anna era meritevole del doppio paginone centrale di Playboy. Questa era l’unica ragione per cui lui sopportava la sua presenza. Oh, beh, ammettiamolo: una delle ragioni. “Tutta sua mamma…” commentò Paolo, senza ironia. Betty era semicosciente, come al solito. La testa reclinata sulla spalla dell’amica del cuore. Un “collier” luccicante di saliva le ornava la gola, colando dalla bocca socchiusa. Il suo Romeo “part-time” sonnecchiava con la fronte appoggiata al finestrino. La faccia di uno che capisce metà di niente. Era la prima volta che Paolo portava la sorella a ballare, forse anche l’ultima. Non gli piaceva averla tra i piedi. La mamma, però, aveva insistito. Nei rari momenti di sobrietà riusciva a tirar fuori argomenti persuasivi: “Se non prendi lei, non prendi neanche la macchina. Cosa vuoi fare?”
Poco da discutere. La serata, in fin dei conti, non era stata neppure tanto malvagia. La discoteca era piena come un uovo e la musica decente. Poi quella stronza si era attaccata a una bottiglia di vodka alla pesca e si era ubriacata. La degna figlia di sua madre. Nel vicinato era nota come l’Enoteca Ambulante. Così la festa era finita. Tutti a casa. Addio ai balli. “Cazzo, oh, no, merda, cazzo!” gemette Anna, disgustata. “Questa stronza mi sta sbavando sulla camicetta nuova!” Paolo alzò gli occhi allo specchietto e incontrò lo sguardo rimmellato della ragazza. Le sue pupille brillavano nella penombra dell’angusto abitacolo, rischiarato dal bagliore del quadro. Paolo era (segretamente) innamorato perso di Anna da quando aveva dieci anni, ma lei lo considerava soltanto come il fratellastro mezzo scemo della sua migliore amica. All’inizio, Paolo aveva cercato di farsene una ragione ma, con l’inesorabile trascorrere degli anni e delle umiliazioni, l’innamoramento era diventato risentimento. Era più facile odiarla che amarla. Non era necessario essere corrisposti. “Zitta!” sibilò fra i denti “Non vedi che sto guidando?” Anna non replicò, incrociò le braccia sul seno sodo, fece una smorfia offesa e volse gli occhi al finestrino appannato. Paolo sorrise ancora, contento di aver ferita. Almeno per un po’. Assaporò per qualche secondo il piacere meschino della sua vendetta… sentendosi una merda subito dopo. Cercò di concentrarsi sulla strada che correva in mezzo a due fasce di eucalipti. L’asfalto umido luccicava. Una fetta di luna sbucò da dietro una solitaria nuvola color melanzana. Mancavano ancora dieci chilometri al paese. Senza fermarsi o rallentare allo STOP, Paolo attraversò l’incrocio Carbonia-Sant’Antioco-SolusMatzaccara. Era una nottata tranquilla. Nessun’altra auto in circolazione. Le stelle appena velate di foschia. Non c’era freddo e spirava un leggero maestrale. Paolo girò la testa sul sedile accanto al suo.
L’amico d’infanzia, Antonello, non era messo meglio della sorella acquisita. Aveva gli occhi aperti, ma sembrava perso in un viaggio tutto suo. Mormorò qualcosa a voce bassa. Una frase senza senso compiuto: “È qui. Lui ci sta guardando.” Inutile cercare di afferrare la logica di quelle parole. Lello era pieno di marijuana e rum fino alla punta dei capelli. Non sapeva controllarsi. Un tizio, nel cesso della sala da ballo, ne aveva offerto un po’ anche a Paolo, che però aveva declinato l’invito. D’accordo, era la “moda del momento”… ma non aveva nessuna intenzione di schiantarsi contro un eucalipto durante il viaggio di ritorno. Non che avesse paura di morire. Questo mai. Era il terrore di sfasciare l’unica automobile della famiglia a renderlo più giudizioso. Il padre lo avrebbe massacrato di botte al minimo graffio sulla verniciatura. Non era proprio quel che si diceva un tenerone, specie da quando lavorava in nero e si era anche risposato con quell’ubriacona, prosciuga conti correnti. Bell’affare. Davvero una furbata. Dall’autoradio, sintonizzata su Gamma Radio Luna, dopo Chuck Berry, fluì un lento dei Platters: quello del fumo negli occhi o qualcosa di quel genere. Paolo sbatté le palpebre e fissò bene gli occhi sulla carreggiata. A destra sfrecciavano i catarifrangenti rossi, a sinistra quelli bianchi. Il loro scorrere era ipnotico. Quando era piccolo, insieme all’inseparabile compagno d’avventure Lello, aveva distrutto decine di quei paletti. Per quale motivo, ora, non avrebbe saputo più dirlo. “Lello?” disse, dando una gomitata all’amico. “Oh!” Lello aprì gli occhi, disorientato. “Oooh?” “Vieni in Piazza, domani?” Era la domanda più in voga a Solus, dopo: vai alla messa? Lello annuì, sbadigliò e si stropicciò gli occhi, più rossi dei catarifrangenti. Subito dopo, posò il mento sul petto e proseguì il suo incomprensibile mormorio, come se niente fosse. Non era mai stato un ragazzo molto sveglio, sicuro, però sapeva sempre come movimentare una giornata noiosa. Paolo aggrottò le sopracciglia, perplesso e divertito.
Era una strana notte. Staccò la mano dal cambio (aveva la pessima abitudine di tenercela fissa sopra, anche quando non cambiava marcia) e sollevò il volume della musica. Tenne il ritmo dei Platters tamburellando sul volante. La stanchezza iniziava a pesargli sulle palpebre. Visto che nessuno parlava più, meglio tenere in allerta il cervello. Un colpo di sonno poteva essere letale. Paolo fissò la strada e lasciò andare a so i pensieri. L’asfalto, pieno di buche e avvallamenti, scorreva rapido sotto gli pneumatici. I Platters cantavano. Lello mormorava. Betty sbavava. Romeo dormiva e Anna scrutava il paesaggio fuori del finestrino. L’atmosfera era rarefatta. Perfetta per un breve sonnellino. Ad un certo punto, a Paolo parve di non essere più presente fisicamente, ma di osservare la scena da lontano, molto lontano, come se quella non fosse più la sua vita, il suo schifoso e frustrante angolo di mondo… Non addormentarti! Sveglia! Percepì il nauseante profumo dolciastro della saliva della sorellastra. Lui detestava la vodka e quell’odore corposo di pesca stracotta gli dava il voltastomaco. Pensò di abbassare il vetro per far circolare un po’ d’aria fresca e pulita. L’avrebbe aiutato ad allontanare la sonnolenza. Erano quasi arrivati. I fari della Cinquecento illuminarono il bivio. Paolo svoltò a destra senza mettere la freccia. Lanciò un’occhiata al retrovisore. Anna non staccava gli occhi dall’oscurità. Le sue tette gigantesche si sollevavano e abbassavano, gonfiando la camicetta al ritmo del respiro. Forse ho sbagliato tattica con lei… rimuginò il ragazzo. Magari è una di quelle cui piacciono gli stronzi presuntuosi. Con il mio approccio da buon samaritano non andrò certo in buca. Piacerà alle madri, forse, ma con le figlie è un’altra storia. In effetti, quando la tratto male è meno indifferente. Stava appunto riflettendo su queste “verità fondamentali” del rapporto uomodonna, quando Anna gridò: “FERMATI!”
Paolo reagì con qualche istante di ritardo, intorpidito da quella strana percezione d’irrealtà e dal ritornello romantico dei Platters. Dopo un paio di secondi, fece il primo gesto. Allungò la mano e spense la radio. Anna strillò: “Ho detto FERMATI!” Questa volta lui recepì il concetto e schiacciò il freno. La Cinquecento scivolò sul ghiaino che copriva il manto stradale. Per un pelo non finirono nella cunetta affollata di rifiuti e cianfrusaglie assortite. Alla fine, l’auto si arrestò. Paolo pregò che la sorellina non stesse per vomitare. Questo avrebbe giustificato il tono d’urgenza nella voce di Anna, che di certo non voleva beccarsi qualche schizzo caldo sulla minigonna. Era una scena a cui non voleva assistere. “Porca troia!” sbraitò, rabbioso. “Papà mi rompe il culo se stamattina trova la sua macchina tutta sporca di vomito!” Mise il cambio in folle e si voltò con occhi stralunati. Betty stava ancora dormendo, la testa reclinata sul sedile, il respiro gorgogliante come un tubo intasato. Anche Romeo non aveva perso il filo dei suoi sogni. La reazione di Lello si limitò a un semplice consiglio di guida sicura: “Stai attento alle buche”. E risprofondò nel suo strambo stato vegetativo. “Che ti prende?!” sbottò Paolo, il cuore impazzito. Guardò l’amica, odiandola e amandola come non mai. Anna lo fissò con sguardo inorridito da cerbiatta. “Ho… visto… qualcosa…” balbettò. Le pulsazioni rallentarono. Qualsiasi cosa era meglio del vomito sui sedili.
“Dove?” domandò, cercando di non fissarle il seno. Sopra il brontolio del motore si sentiva un irritante: Tic!-Tic!-Tic! Era il segnale pulsante degli indicatori di direzione. Nel frenare, Paolo aveva meccanicamente inserito la freccia. Le sue cinque lezioni obbligatorie di “Scuola Guida” non erano state del tutto inutili, quindi. Abbassò la leva senza girarsi. “Lì dietro…” disse Anna. Le tremava il labbro inferiore. Ha visto un cane schiacciato con le budella di fuori? “Allora?” Nel sedile accanto, Lello biascicò: “Casa. Ora. Sonno.” “Mi è sembrato di vedere un… un…” mormorò Anna, con voce tesa e lo sguardo sconvolto. I suoi occhi febbrili, a Paolo, non piacevano per niente. La facevano sembrare quasi pazza. “Cosa hai visto?” domandò, conciliante. Lei non rispose. “Cosa-hai-visto?” l’incalzò Paolo, adesso il suo tono era leggermente incazzato e peggiorò in fretta. “Parla! Cazzo!” “Torna indietro, per favore.” “Dietro dove?” “Dove c’è il cartello…” sussurrò la ragazza, abbassando lo sguardo allucinato sulle mani tremanti che stropicciavano il tessuto semitrasparente della minigonna. “Era proprio lì.” “Cosa era lì?” la interrogò Paolo, esasperato. Anna non disse nulla. Continuò a guardarsi le mani. Pareva terrorizzata. Soltanto per aver intravisto un animale sfrittellato sull’asfalto? Perché lui non aveva visto
niente? Era vicino al cartello? L’avevano sorato un istante prima che quella maggiorata incominciasse a sbraitare. Cento metri più indietro. Tuttavia, Paolo non rammentava niente di terrorizzante. Era distratto dalle sue elucubrazioni sulla natura sado-masochista delle donne moderne, quando erano transitati davanti alla cosa. L’abitudine gli aveva fatto vedere il solito cartello… ammaccato, sbiancato e sforacchiato dai pallettoni, mentre invece… Insomma, non è che lo avesse guardato. C’era un modo molto semplice per togliersi ogni dubbio. Era anche una buona occasione per rinfacciare ad Anna la sua suscettibilità. Oh, sì. Quella era una mossa fantastica. Paolo consultò il suo orologio da polso: 4.40. “Va bene, Anna…” acconsentì, rivolto più a se stesso che alla ragazza. “Come vuoi tu. Andiamo a controllare.” Innestò la retromarcia, strinse il volante con la sinistra, torse il busto e guardò oltre il lunotto posteriore. Non si vedeva molto, perché le teste coprivano quasi tutto lo spazio. Tutti quegli strilli per un gattino schiacciato dal camion della spazzatura. Diventerà la storiella del giorno in Piazza! Paolo tornò indietro con prudenza. La ghiaia scricchiolò sotto gli pneumatici. L’asfalto, attraverso il vetro posteriore appannato, sembrava scarlatto a causa delle luci di posizione. Intravide la sagoma del cartello che si avvicinava lento sulla destra. Le folte fronde degli eucalipti vi ondeggiavano sopra. Finora niente di strano in vista, come avevo previsto… Una fitta gli percorse la schiena, nel punto di sempre. Con una smorfia, Paolo soffocò un gemito di dolore. Tutte le prossime volte si sarebbe ricordato di riordinare gli attrezzi del padre, dopo averli utilizzati. Lo stesso ordine. Esatto al millimetro. L’officina era il suo regno inviolabile.
“Che cosa hai?” domandò Anna, sollevando di scatto la testa e scrutandolo con ansia. “L’hai visto? C’è davvero?” “Non vedo nulla, per ora.” Paolo si raddrizzò sul rigido sedile e afferrò il volante con entrambe le mani. Sudava freddo. Era un modo di guidare in retromarcia molto scorretto, ma in quel momento non gliene fregava più niente. Il dolore si attenuò quasi subito. In fondo erano stati solo due calci. Ne aveva ate di peggiori… Strinse i denti e proseguì la manovra. Perché le ho dato retta? A quest’ora sarei già a casa. Con la coda dell’occhio, il ragazzo vide il cartello sfilare sul fianco destro della Cinquecento, dietro il montante dello sportello e la testa sobbalzante di Lello. I tre dormienti non reputavano molto interessanti le “fantasie notturne” di Anna. Il cartello superò il cofano e venne inquadrato dai fari. E Paolo vide… Vide quello che aveva terrorizzato la bella ragazza alle sue spalle. La ragazza che odiava e amava. La stessa ragazza che adesso teneva lo sguardo fisso sul grembo, torcendosi le dita. Paolo non riuscì a non guardare. Una parte malsana della sua mente voleva vedere, analizzare e memorizzare. Tutto. Il cartello era sorretto da tubi zincati alti due metri. Crocifisso sul pannello rettangolare c’era un cadavere. Un uomo. Nudo. Le braccia spalancate, come Gesù sopra l’altare. La testa rovesciata sulla spalla. I capelli sulla faccia. Il corpo era fissato al cartello con del filo spinato, che gli intersecava a X il torace. Numerose spirali gli fasciavano i polsi. Una collana uncinata gli serrava il gargarozzo. Ultimo dettaglio della macabra parodia era la corona, sempre di filo spinato, che copriva la fronte del cadavere. Rivoli di sangue colavano dove
gli aculei erano entrati nella carne. Centinaia di ferite sanguinanti, come frustate, tagliavano la sua pelle. Le scie di sangue rigavano la vernice scolorita del cartello. Dal margine inferiore, raccogliendosi in grumi, sgocciolava sui cardi selvatici che crescevano sul margine della strada. Quel particolare saturò la sua primitiva voglia d’atrocità. Chiuse gli occhi con forza, spalancò di scatto lo sportello e vomitò sull’asfalto. Il puzzo acido gli restituì la lucidità. Alle sue spalle, sentì Anna bisbigliare: “Lo hai visto?” Ho visto, pensò lui traumatizzato. Ho visto tutto. Tremando, si ripulì le labbra con il dorso della mano e richiuse lo sportello, cercando di non guardare il cadavere. Pallido e stravolto dall’orrore, Paolo afferrò la leva del cambio e ingranò la prima. In testa gli martellava un unico, roboante imperativo: via da qui! VATTENE SUBITO VIA! L’assassino poteva essere in agguato tra gli eucalipti. Sollevò il piede sinistro dalla frizione e spinse a tavoletta l’acceleratore. Le ruote fischiarono in segno di protesta, poi fecero presa e lasciarono sull’asfalto strisce nere di gomma. La Cinquecento partì a razzo. In quel momento la paura del padre era l’ultimo dei suoi problemi. Voleva mettere più distanza possibile tra lui e quel corpo straziato. Dietro di lui, Anna stava ripetendo qualcosa che non aveva nessuna voglia di ascoltare. Non ora. Non con quella truce immagine di morte ancora impressa nelle retine. Rallentò soltanto quando avvistò le prime luci del paese.
Lello, Betty e Romeo si risvegliarono in caserma.
Polizia, Carabinieri e l’ambulanza, inviata dall’Ospedale di Carbonia, raggiunsero il cartello all’alba. In Sardegna, spazio e tempo erano relativi già parecchi secoli prima che Einstein divulgasse le sue teorie. I giornalisti arrivarono pochi minuti dopo. Ben presto tutta la zona venne illuminata dai flash. Il giorno dopo, sulla prima pagina dell’UNIONE SARDA sarebbe apparsa una macabra fotografia di quel cartello. La foto, in bianco e nero granuloso, inquadrava il cartello subito dopo la rimozione del corpo (il cadavere crocifisso era stato giudicato troppo “orripilante” dal Direttore, ma i lettori invece l’avrebbero apprezzato): si vedeva il sangue rappreso a strisce, i buchi lasciati dalla doppietta, i graffi prodotti dal filo spinato e i cardi che prosperavano sulla banchina. Grandi lettere nere, sbiadite dal sole, indicavano il paese: SOLUS. Qualcuno (forse l’assassino), con un pennarello indelebile, vi aveva aggiunto sotto un’inquietante scritta in stampatello: HIC SUNT LEONES.
4 – MEDIUM
Precipito nel mio corpo materiale con una violenza tale da farmi sanguinare il naso. Mi sento come se fossi piombato a terra da un paio di metri d’altezza. Fisso la mia mano, pallida e vibrante, che artiglia ancora l’impugnatura della porta. Ho freddo fin dentro al midollo. Inizio a battere i denti e tremo. A fatica, con un enorme sforzo, stacco le dita dal pomello e riesco a compiere qualche barcollante o all’indietro. Il gusto del sangue mi invade la gola disseccata. Trattengo a stento un conato acido di vomito. La nausea mi centrifuga testa e stomaco. Alzo gli occhi al cielo tempestoso e risucchio grandi boccate d’aria fresca, salmastra e umida, finché la strada non smette di beccheggiare. Sto ansimando. Che mi è successo? Guardo la porta. Adesso è chiusa. Non ho nessuna intenzione di toccarla di nuovo. Impiego qualche minuto per comprendere che ho provato la prima esperienza paranormale della mia vita… oh, beh, quasi. Non so come o perché, ma sono praticamente sicuro che la mia mente abbia fatto un balzo nel ato. Ho visto, oppure rivissuto, un episodio avvenuto pochi anni dopo la mia nascita. Una vicenda di cui, a Solus, circolavano almeno venti versioni differenti. Pur essendo documentata, la popolazione preferiva considerarla una leggenda paesana. Una favoletta macabra da raccontare ai bambini indisciplinati. Se non fai il bravo, come dico io, ti troveranno nudo, crocifisso al cartello. Il mostro verrà a prenderti di notte… Non lo sentirai arrivare e ti farà molto, molto male. Dolore e le lacrime sono il suo solo cibo. La minaccia preferita della mia cara, dolcissima nonnina. Incespicando, ritorno al centro della carreggiata deserta. Una nuvola di polvere
mi avvolge per un attimo, simile a un tornado in miniatura. Socchiudo gli occhi. Non ho idea di quanto tempo sono rimasto in trance. Controllo l’orologio. Scopro che sono soltanto le undici e dieci. La “sbirciatina” è durata pochi secondi. So bene che dovrei essere parecchio spaventato, confuso e preoccupato per la mia attuale condizione mentale, però una strana sensazione di benessere e pace si sta diffondendo nel mio corpo. Ogni traccia di fatica, sgomento e ansia defluisce come acqua sporca dallo scarico del lavandino. Sto bene. È come se mi avessero iniettato un potente sedativo. Ci metto poco a capire che si tratta di un delizioso effetto collaterale della visione. Forse ha scatenato, per reazione, un’ondata di endorfine nel mio sangue. Comincia a piacermi. Una parte di me, quella che farebbe qualsiasi cosa per una sigaretta, non vede l’ora di ripetere subito quell’esperienza extracorporea. Mi sto avviando sulla strada di una nuova dipendenza? Probabile, penso, con un sorriso idiota sulle labbra. Mentre sorrido come un ebete, vengo investito da un’altra folata di polvere ruvida. Solo ora mi accorgo che è strano… La strada è bagnata. Quando mai si è visto un mulinello di pulviscolo asciutto, pochi minuti dopo un forte acquazzone? D’altronde, trovarsi nel centro di un paese fantasma, dopo un’insolita esperienza psichica, è altrettanto inconsueto. Decido di dare un’occhiata nelle strade secondarie. Lascio la via principale e infilo uno stretto vicolo laterale che, se non ricordo male, conduce a una stradina parallela a quella maestra. Il silenzio mi opprime. Il senso di profonda solitudine, che da sempre infonde Solus, ora è più intenso che mai. È come se qui non vivesse più nessuno da secoli o millenni. Le finestre continuano a fissarmi minacciose. Dopo cinquanta i, noto che uno dei lampioni posti sul marciapiede è . Tutti gli altri hanno i vetri infranti. Una pozza di luce arancione si riflette sull’asfalto lucido.
Mi avvicino. La lampadina ronza come un vecchio rasoio elettrico. Il palo brunito e lucente di pioggia assomiglia come modello a quelli che uno si immagina di trovare a Londra… nello stesso periodo di “Jack lo Squartatore”. Mi pare che si chiami stile Liberty. Non mi sono mai piaciuti. Sono troppo inquietanti. Senza considerare un momento le conseguenze, allungo una mano e accarezzo il metallo con i polpastrelli. È freddissimo. Avverto un’improvvisa deflagrazione sopra la mia testa e una cateratta di scintille azzurre, verdi, rosse e gialle mi precipita addosso sfrigolando. Non è un fenomeno di natura elettrica. È una reazione metafisica. Sono io il catalizzatore? Prima ancora di accorgermi di quello che ho appena fatto, percependo il più esplosivo orgasmo della mia vita, parto per un altro viaggio nel tempo… nel ato prossimo di Solus.
5 – POLVERE
Il ragazzo spense i fanali della sua Lancia Delta “HF” (di seconda mano) e aprì lo sportello. Scese e ansimò nell’afosa notte d’agosto. Il lampione, sotto cui aveva parcheggiato, era avvolto da sciami di moscerini, falene e zanzare. Sul vetro, che proteggeva la lampada gialla, erano spiaccicati migliaia di insetti volanti carbonizzati. Il ragazzo li scrutò per qualche istante. Poi distolse lo sguardo e girò intorno all’auto lucida di cera, con o disinvolto e deciso. Aprì lo sportello del eggero e si piegò in un esagerato inchino da gentleman. Sorridendo, disse: “Prego, signorina.” Rafforzò l’immagine con un ampio gesto della mano. La serata era torrida, il cielo stellato e nemmeno un alito di libeccio. Quando la ragazza scivolò fuori dall’abitacolo, con mosse sinuose ma calcolate, lui notò che aveva goccioline di sudore sopra il labbro superiore. La traspirazione femminile era uno di quei “fenomeni strani” che non mancavano mai di affascinarlo. Da piccolo credeva che le donne non sudassero. Una volta in piedi accanto alla macchina bollente, lei non si aggiustò la minigonna, che le era risalita sopra la coscia nuda. Difficile stabilire se era un buon segno o no. Erano già al terzo o quarto rendez-vous. Le cose procedevano piuttosto bene, per ora, ma con le donne belle non si poteva mai sapere. “Mi scorti fino alla porta, Claudio?” propose la ragazza. Claudio la fissò per un paio di secondi. Lei era una ragazza molto attraente, anche se una decina di centimetri in più non avrebbero dato fastidio. Per il resto: tutta da palpeggiare. Si chiamava Serena. Ventiquattro anni, viveva sola soletta e le voci, che a Solus circolavano sul suo conto, non erano certo delle migliori… Del resto, a Claudio non interessavano i pettegolezzi e le chiacchiere di paese.
Sentendosi analizzata, Serena s’imporporò. Imbarazzata, tormentò tra le dita la sua minuscola borsetta di camoscio sintetico. “Hai intenzione di stare imbambolato per molto?” “No…” replicò lui, accostando la portiera della sua auto con estrema delicatezza e attivando l’antifurto. “Andiamo.” Camminarono sul marciapiede vuoto. Senza mai sfiorarsi. Erano appena le ventitré di un sabato estivo, ma a Solus vigeva da sempre una sorta di “coprifuoco” spontaneo, che faceva sgombrare le strade pochi minuti dopo il tramonto. I trasgressori alla regola venivano guardati come criminali dal resto della popolazione. Claudio aveva perso l’abitudine di rincasare così presto, quando aveva lascito il paese per andare all’Università. Adesso rientrava a casa soltanto per il fine settimana. Un pasto decente, ogni tanto, era indispensabile. Il rumore dei loro i risuonava, nitido e privo di echi, nella via che non mostrava segni di vita. Persiane, serrande e avvolgibili erano tutti abbassati. Le porte sprangate. Il brusio indistinto dei televisori era appena udibile in sottofondo. Un gatto in calore miagolò da qualche parte nel buio torrido. Giunsero davanti alla porta. Serena rovistò dentro la sua borsetta, che era tanto piccola quanto strapiena di cianfrusaglie. Alla fine trovò un mazzo di chiavi. Ne scelse una e la infilò nella serratura. Due scatti. Dischiusa la porta, la ragazza si voltò verso Claudio, che finse di essere interessato a una costellazione lontana milioni di anni luce. Un distacco che nascondeva l’attrazione verso quel sedere che, per un minuto, aveva avuto dritto sotto gli occhi. In certe situazioni era meglio ostentare una dose di indifferenza. “Ci rivedremo?” domandò la ragazza, con voce incerta. Strana domanda. “Ma certo!” esclamò Claudio, che in quattro uscite aveva già speso duecentomila lire e non l’aveva ancora spupazzata. “Quando?”
“Sabato prossimo?” “Per me va benissimo…” dichiarò Serena, abbassando gli occhi da dolce cerbiatta. Per un attimo si erano fatti radiosi. “Sono stata bene. Posso chiamarti uno di questi giorni?” “Quando vuoi. Mi fa piacere. Ti telefonerò anch’io.” “Sono molto…” Claudio chinò la testa e la zittì con un bacio. Il primo. Lei non si ritrasse, ma ricambiò con una certa rigidità corporea che il ragazzo non poté ignorare. Durò solo pochi secondi. Fu lui a ritrarsi. Era stato come baciare una lastra di marmo. “Scusa…” mormorò, impacciato. “Non volevo.” “Oh, io sì…” lo tranquillizzò la ragazza con tono di voce un po’ metallico, leccandosi le labbra unte di burrocacao. “Davvero?” “Sì.” Sospirò. “Ancora un pochino, ti va?” A Claudio non andava tanto di ripetere l’esperienza, però non poteva rifiutare. Lui era pur sempre un uomo e lei era una donna, anche se lo aveva baciato come una vampira appena uscita dalla tomba. L’accontentò. Per consolarsi le palpò il sedere. Questa volta fu lei a staccarsi, divincolandosi fra le sue braccia come disgustata e offesa dalla sua ovvia manovra. Afferrò la maniglia del portone e lo spalancò in fretta. “Che cosa c’è? Ti sei offesa?” chiese Claudio, sentendosi in colpa, solo per un tipico istinto maschile. “Ho esagerato?” Serena tentennò sulla soglia. La sua espressione era di nuovo cambiata, con una rapidità incredibile. Adesso esibiva un sorrisetto malizioso. “Cerchiamo di non avere fretta, ok?”
“Sì…” rispose il ragazzo, perplesso e frastornato da quegli improvvisi sbalzi d’umore. “Va bene. Ho tutto il tempo.” “Buonanotte!” Serena entrò in casa e sprangò la porta. Claudio restò da solo sul marciapiede sconnesso. Sbuffò. Gli sembrava fe più caldo, adesso. Con i misurati ritornò alla sua Delta. I moscerini continuavano a vorticare intorno al lampione e lui considerò che quell’immagine fosse una buona metafora dell’interazione tra maschi e femmine. Non aveva voglia di are dagli amici al Bar Sport. Tornò a casa. Allontanò i brutti pensieri con una doccia fredda, una birra e l’amichevole notturna tra Juventus e Lazio. Non c’era nulla di meglio del calcio per andare a letto tranquilli e soddisfatti.
* * *
Dopo essersi svestita, struccata, ripulita e preparata una tazzona bollente di camomilla al limone, Serena s’infilò nel suo letto profumato e tirò fuori il suo diario dal cassetto del comodino. Bevve un sorso. Regolò il fascio di luce dell’abat-jour sulle ginocchia e sfilò la penna dalla copertina rigida.
Ventisette agosto. È stato un giorno davvero meraviglioso. Ci siamo baciati! È stato romantico. È la quarta volta che usciamo. Questa sera siamo andati in pizzeria e poi al cinema all’aperto. Abbiamo visto “Un mondo perfetto”. Kevin Costner aveva la pancetta. Il film mi è piaciuto. Durante l’ultima scena, Claudio mi ha messo un braccio sulle spalle come se fossimo fidanzatini. Quando il tizio stronzo spara, nel finale, ho sussultato e lui mi ha baciata. È stato bello. Credo si sia innamorato di me. Io non lo so ancora. Lui mi piace e forse non è come
tutti gli altri uomini meschini di Solus. Dobbiamo sentirci per telefono. Sabato prossimo usciamo di nuovo. Domani devo andare in chiesa. Stanotte non fa tanto caldo.
La mattina dopo Serena si svegliò di malumore. Non aveva sognato nulla e questo la faceva sempre sentire più stanca e meno riposata del solito. La maggior parte delle notti sognava così tanto che poi all’alba le rintronava la testa. Era una piacevole, corroborante, sensazione di stordimento. Serena si alzò, fece una breve doccia calda e indossò una vecchia tuta da ginnastica sformata. Scese in cucina e mise la caffettiera da quattro sul fornello medio. Dopo una frugale colazione a base di Nesquick, confettura di more e Bucaneve, consumata sul tavolino davanti alla finestrella da cui entrava la luce dorata e radente del sole mattutino, Serena sciacquò subito le stoviglie e dopo salì in camera sua a prepararsi per andare alla messa delle nove. Ci andava tutte le domeniche. La funzione religiosa si svolse come al solito. Preghiere, molteplici richieste di perdono, parabole edificanti e sermoni incomprensibili. Non c’era un posto libero: tutte le panche, donate dalle famiglie di Solus in memoria di qualche caro estinto, erano occupate. Quella mattina i fedeli mostrarono più interesse per l’abbigliamento casual di Serena che per la storiella del seminatore. Quello che gettava i semi ovunque, tranne che sul campo arato. Don Antioco, con l’abituale faccia scocciata, trasformò l’omelia nella solita sequela di luoghi comuni e frasi preconfezionate. Serena ignorò le occhiate e i bisbigli dei suoi compaesani esperti di look. Seguì tutta la messa stando in piedi, nell’angolo tra il portale d’ingresso e l’acquasantiera di marmo. Anche se, quando attraversò tutta la navata centrale per ricevere la comunione, non poté fare a meno di sentire gli occhi lubrici di tutti i vecchietti fissi sul posteriore teso della sua adorata canadese sdrucita. Pazienza. Dopo la messa, nell’ombra protettiva della piazza, le comari avrebbero avuto qualcosa su cui spettegolare. Rientrò a casa intorno alle undici.
“Al lavoro!” esclamò, nel silenzio della cucina assolata. Serena risiedeva, in magnifica solitudine, nell’abitazione lasciatale in eredità dai suoi genitori. Erano morti di cancro ai polmoni, pochi mesi l’uno dall’altra, cinque anni prima. In quel periodo, Serena aveva appena compiuto diciotto anni. Era figlia unica. Anche se non era stato sempre così… A dieci anni stava per avere un fratellino che, però, morì prima di nascere, perché la madre cadde dalle scale ed ebbe un aborto traumatico. Un brutto incidente che privò per sempre Serena di un fratello. Cercava di pensare a quel tragico episodio il meno possibile. Ricordare era doloroso. L’inventore della memoria doveva essere un maniaco sadico. Serena lavorava come igienista presso un avviato studio odontoiatrico privato di Carbonia. Lo stipendio era sufficiente per arrivare alla fine del mese senza troppi debiti, anche se, ogni tanto, il dentista tentava di prendersi delle libertà. A parte questo, conduceva una vita tranquilla e insignificante. La domenica era il suo giorno libero, l’unico che poteva dedicare del tutto alle faccende domestiche. Serena era sempre stata un’amante dell’ordine e della pulizia. Odiava la polvere in un modo che sconfinava nel fanatismo e, spesso, trascorreva tutta la giornata a spolverare e lucidare. Una fatica ripagata: non c’era nulla di più bello che vivere in un ambiente lindo. Così, anche in quella soffocante mattinata, nonostante il cattivo umore e gli sguardi di disapprovazione delle bigotte, Serena rimboccò le maniche e si lanciò anima e corpo nella corvée. Era un ottimo metodo per rilassarsi e non pensare. Dopo aver pulito alla perfezione bagno, ripostiglio, cucina e salotto, Serena ò all’ingresso. Posò secchio e Mocio sul pavimento a scacchi bianconeri, poi riassestò la bandana che usava per tirarsi su i capelli dalla fronte e per impedire che il sudore le finisse negli occhi. Erano le due del pomeriggio. Tra un po’ avrebbe dovuto sospendere tutte le manovre e prepararsi qualcosa da mangiare. Pane, mozzarella e pomodoro. L’ideale. Sbuffò accaldata e lo sguardo le cadde sull’intercapedine tra la porta d’ingresso e lo zoccolo di granito rosa. C’era parecchia polvere grigia in quella porzione del pavimento, forse la lieve corrente d’aria l’aveva sospinta all’interno. Il mondo esterno era pieno di immondizia. C’era lerciume infetto dovunque.
Serena scrutò la polvere per alcuni lunghi secondi. C’era qualcosa di strano. Era proprio sopra le due mattonelle davanti alla porta, delimitata dalle fughe, proprio accanto alla fessura. Faccenda curiosa. Come regola la polvere non resta tra i limiti di due riquadri del pavimento. Non con quella precisione, perlomeno. Il pulviscolo era sottile, impalpabile e opalescente. “STUPIDA!” strillò Serena, scocciata. “Ricominciamo?” Afferrò la scopa e in pochi istanti trasformò la striscia di polvere in un mucchietto che raccattò con una paletta di plastica rossa. Gettò la sporcizia nella spazzatura e uscì di corsa per buttare il sacchetto nel cassonetto, dall’altra parte della strada. Fatto questo, lavò tutti i pavimenti della casa, primo e secondo piano, con un disinfettante al profumo di pino. Mentre lucidava tutto quanto con uno straccio in finto daino, fischiettò il motivetto della pubblicità delle batterie Duracell per darsi la carica. Le ritornò subito il buonumore. La sua particolare forma di psicoterapia era infallibile. Alle sedici meno un quarto aveva sbrigato tutti i lavori possibili e immaginabili. Ogni superficie visibile brillava, l’aria negli ambienti della casa odorava di pineta e il pavimento era così pulito che ci poteva mangiare sopra. Dopo un’ultima occhiata di controllo, Serena andò in cucina e si lasciò cadere sfinita su una sedia. Senza alzarsi allungò una mano e accese la radiolina che teneva accanto al lavello. Dalle casse stereo uscì la voce melliflua di un tizio che era stato scaricato dalla fidanzata e lo cantava al mondo intero, come se fosse un evento straordinario e senza eguali. Serena chiuse gli occhi e si rilassò. Soltanto cinque minuti di pausa, pensò. Cinque minuti. Il telefono squillava sulla mensola del soggiorno. La radio trasmetteva una malinconica canzone di Domenico Modugno che parlava di un vecchio indumento. Serena aveva ancora le palpebre chiuse. Dormiva profondamente e non si svegliò.
Il telefono smise di squillare. La radio continuò a sfornare brani anni sessanta. Serena continuò a sognare…
… Era ancora una bambina con le treccine e le ginocchia sbucciate. Dormiva nel suo lettino, sotto lenzuola decorate da orsetti e farfalle, e sognava di sognare. Faceva freddo. Sognava la polvere. La polvere era viva, grigia e cattiva. Filtrava, in un silenzioso soffio grigiastro, sotto la porta chiusa a chiave e invadeva la sua minuscola cameretta. La polvere scivolava, strisciava sul pavimento, silenziosa e letale. Turbinava e si arricciava come una nube tempestosa, raggiungeva i piedi del letto, si arrampicava sulle coperte e serpeggiava verso la sua faccina di bambina addormentata. Poi… le si insinuava dentro le narici, soffocandola, penetrando nei polmoni, nella bocca, negli occhi e allora Serena, nel sogno, si svegliava dal sogno urlando, lottando con le coperte e piangendo e…
… Il telefono squillò di nuovo. Serena scattò in piedi, col cuore in gola, sbattendo forte le palpebre appiccicose di lacrime e polvere. Il sogno era già dimenticato. Controllò l’ora sull’orologio a forma di girasole attaccato sulla parete: le lancette di plastica gialla segnavano le diciannove e quarantacinque. Altro che cinque minuti! “Oooh… che mal di testa!” mormorò, spegnendo la radio. Caracollò verso il telefono e sollevò la cornetta. Domandò: “Claudio?” La voce che rispose non era quella del ragazzo.
“Serena? Sei tu?” “Sì…”, biascicò lei, rintronata. Aveva voglia di vomitare e pisciare. Le pulsavano forte le tempie. “Chi è?” “Chi sono? Il tuo dentista preferito, dolcezza! Dormivi?” “Dottore? Scusi. Qualche problema?” “No, anzi. Devo partire domani per un convegno medico in Continente. Una settimana intera. Chiudo lo studio. Ti mando in vacanza per sette giorni. Non sei contenta?” “Contentissima.” “Cosa hai? Ti sento più strana del solito. Stai male?” “No… è che mi sono appena svegliata, ho mal di testa, non è nulla di grave. Ci vediamo il prossimo lunedì, allora.” Serena riattaccò. Si guardò nella specchiera antica sopra il telefono. Era solo un po’ pallida, niente di preoccupante, ma perché le girava la testa in quel modo? Magari un calo di pressione. Beh, visto che aveva saltato il pranzo, era più che normale. Un po’ di zuccheri e tutto si sarebbe sistemato… Un riflesso opalino nell’angolo attirò la sua attenzione. Serena si voltò verso l’arco che dava sull’ingresso. Una nuvoletta di polvere grigia scivolava, senza rumore, attraverso la fessura ai piedi della porta. Come spinta da un venticello, solcava il pavimento diretta verso i suoi piedi. “No…” sussurrò Serena, incredula. “Sto sognando.” In quello stesso istante il telefono trillò fortissimo, come succedeva spesso nei film horror trasmessi a tarda notte, facendo trasalire la ragazza, come lo scoppio di un petardo. Serena si girò di spalle alla porta e sollevò il ricevitore. Le dita le tremavano. Quasi le scappò di mano. Si rese conto di avere le palme viscide di sudore e la pelle decorata dalle mezzelune sanguinanti lasciate dalle unghie che vi aveva conficcato. Le fissò stupita. Non sentiva ancora il dolore... Percepì la voce acuta, ansiosa e allarmata di Claudio, lontanissima, che ripeteva:
“Serena, ci sei? Mi senti?” Al rallentatore, Serena avvicinò la cornetta all’orecchio. Rispose: “Ehm, sì, Claudio. Ti sento.” “Cosa hai? Non stai bene?” “Oh, niente. Sono solo un po’ stanca.” Serena girò la testa verso la porta e abbassò gli occhi. La polvere era scomparsa. Non c’era più. Forse non c’era mai stata. Un’allucinazione? “La polvere…” disse, a bassa voce, quasi un sussurro. “Parla più forte, non ti sento!” “È andata via.” “Non ti capisco, Serena. Di che stai parlando?” Serena scosse la testa. Respirò a fondo. Deglutì qualcosa di amaro che le ristagnava in fondo alla bocca, fin da quando si era svegliata dall’incubo. “Non è nulla. Ho fatto un bruttissimo sogno. Non preoccuparti. Allora, cosa mi racconti di bello?” “Solito. Studiare, mangiare e dormire. Ho l’esame di Fisica tra due settimane e mi mancano ancora due capitoli.” “Sono certa che andrà bene.” “Dipende da come si sveglia il docente. Tutto è relativo.” “Così dicono.” “Tu che combini, incubi a parte?” “Sono in vacanza.”
“Davvero?” “Boh. Il dentista è partito per un convegno e ha chiuso lo studio senza preavviso. Per sette giorni starò lontana dalle carie dei bambini e le gengive dei vecchi. Fantastico.” “Non ti invidio. Per sabato siamo d’accordo?” “Confermato. Cosa si fa?” “Non lo so. Decidiamo poi. Senti… devo lasciarti adesso, il mio collega è arrivato e dobbiamo riare tre argomenti entro stanotte. Chiamami domani, okay? Ciao, Serena.” Claudio riattaccò. Con il telefono ancora incollato all’orecchio, Serena ruotò su se stessa impigliandosi le gambe nel cavo. Fissò la porta chiusa e si costrinse a guardare di nuovo il pavimento. La polvere era tornata. Serena riagganciò. Le girava tutto. Era come essere al centro di una giostra. Camminò come un marinaio ubriaco in direzione del bagno. Per sostenersi si appoggiò alle pareti del corridoio con mani tremanti. Le gambe le si erano trasformate in gelatina. Alla fine riuscì a raggiungere il water. Si lasciò cadere sulle ginocchia e sollevò la tavoletta. Un’ondata di atroce nausea la travolse, rivoltandola dai piedi alla testa senza pietà.
Oggi, ventotto agosto, è stato un giorno bruttissimo. La polvere è tornata!!! non so perché. Come quando ero piccola. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Dio mio, aiutami! Ho paura. Cosa devo fare? Entra dalla porta d’ingresso. Da sotto. L’ho pulita mille volte questa sera. Subito dopo è ancora lì. Ritorna. E avanza. Sempre di più. Perché non va via? Cosa è? Non può essere polvere. Solo polvere. A volte mi
sembra di sentire dei lamenti, una specie di pianto straziante, come se filtrasse dal pavimento. No. Non è così. quel lamento incessante proviene dalla polvere grigia. Adesso è nell’ingresso. Ma non si fermerà lì. Penetrerà in tutta la casa. Mi cerca. Mi segue. Vuole me. Non smetterà di piangere fino a quando non sarà entrata dentro il mio corpo. Vuole uccidermi. È ato tanto tempo. Ho dimenticato. Ma lei non può dimenticare. Mi ha chiamato Claudio. Dice di chiamarlo domani. Credo voglia dirmi qualcosa di importante. Forse so cosa. Avrò voglia di ascoltarlo? Non lo so. Ci penserò dopo. Adesso ho solo voglia di dormire.
P.S.: ho chiuso la porta della mia stanza a chiave e ho tappato il buco della serratura con una pallina di gomma da masticare. Poi ho incastrato un asciugamano bagnato sotto la porta. Non credo che così riuscirà a are e a sorprendermi. Almeno spero.
Serena entrò con circospezione nell’ingresso. Un enorme fazzoletto umido le copriva il naso e la bocca. Assomigliava a un rapinatore del vecchio West. Si era infilata dei tappi nelle orecchie e sopra gli occhi indossava una maschera da sub Cressi appartenuta al padre. Le lenti erano appannate. “Non entrerai dentro di me!” ringhiò la ragazza, facendo un o oltre la soglia. “Maledetta! Non mi avrai mai!” Tutto inutile. L’angusto ambiente squadrato dell’anticamera era pulito e profumato come se fosse uscito dallo spot di un detersivo. Non un pizzico di polvere. Non un capello. Un’impronta di scarpa. Ed era questa la cosa più inquietante e orribile: perché un po’ di polvere e sporcizia c’è sempre. Qualsiasi cosa tu faccia.
“Dove sei nascosta?” urlò Serena, strappandosi il fazzoletto dal viso. “So che ci sei! Ti ho sentito piangere tutta la notte!” Nessuna risposta. Soltanto il frastuono del camion della nettezza urbana che transitava sulla strada davanti a casa e il miagolio di un gatto. Serena ritornò nella sua stanza, al secondo piano, gettò la maschera sul comodino e si sdraiò sul letto. Fissò il soffitto. La lampada che dondolava e il riquadro illuminato della finestra, che si spostava sulle pareti con il lento trascorrere delle ore. Aveva ancora i tappi di gomma nelle orecchie. Non voleva più sentire quel pianto angosciante. Non sentì neppure gli squilli del telefono. Continuò a fissare il vuoto fino al crepuscolo e oltre.
A cinque minuti dalle ventitré discese le scale aggrappata al corrimano e andò al telefono per chiamare Claudio. Niente polvere. Anche se, con tutto quel buio, era molto difficile averne la certezza assoluta. Serena non aveva voglia di accendere la luce per controllare. Meglio non vedere. La ragazza si sforzò di mantenere i nervi saldi. Se non riusciva a eliminarla, almeno poteva provare a ignorarla, no? Quando era piccola, lo stratagemma aveva funzionato e dopo un paio di lunghi mesi la polvere se n’era andata. Poteva tentare. Cosa aveva da perdere? “Lo so… lo so che ci sei ancora…” bisbigliò, mentre digitava a memoria il numero sulla tastiera. “Ti sento. Mi stai spiando.” Claudio rispose al secondo squillo. “Pronto?” “Ciao Claudio, sono Serena…”
“Oh, ciao! Come mai mi chiami solo a quest’ora?” “Ho dei problemi con la polvere. Non vuole andare via.” “Ma… stai scherzando o cosa?!” “Certo che scherzavo!” Nessuno poteva capirla. Meglio lasciar perdere. “Era una battuta. Sai, pensavo… per sabato sera, ti andrebbe di cenare da me? Sono un’ottima cuoca.” Un attimo di esitazione. “Va bene. A che ora?” “Facciamo alle otto.” “Perfetto. Porto vino e dolce. A sabato.” “Sì. Ciao, ciao.” “Ciao.”
Molto più tardi, in cucina, mentre cercava di svuotare controvoglia un piatto di spaghetti aglio e olio, Serena notò macchioline di polvere grigia sopra i mobili di finto noce massello. C’era un triangolo di pulviscolo nell’angolo libero tra il lavello e il forno a gas. Una striscia polverosa si era annidata sotto il televisore. Sullo schermo, in quel momento, avano le immagini dell’ultimo telegiornale della notte. Un servizio sulle vacanze degli italiani: mare o montagna? Quella sì che era una scelta difficile. Ma per favore… Serena afferrò il grosso telecomando con stizza e cambiò canale. Pubblicità di automobili con donne seminude. Cambiò. Pubblicità di pizza surgelata con donne seminude. Cambiò. Donne seminude e lascive che cercavano uomini soli con cui parlare al telefono. Cambiò. Un documentario sulla Seconda Guerra Mondiale. Sul Fronte Orientale, durante l’Assedio di Stalingrado, non c’erano ragazze in topless. Per il momento. Disgustata dalla perpetua stupidità umana, Serena posò il telecomando e infilzò la forchetta nella pasta ormai fredda. Masticò un boccone unto, colloso e
insipido, poi riportò la sua attenzione sotto ai mobili, agli angoli e allo spazio infido sotto il televisore. Le impalpabili chiazze grigie erano svanite. “Sei furba. Ma so che tornerai. Alla fine torni sempre.” Scagliò con rabbia la forchetta nel piatto e sbatté i pugni sul tavolo. Aveva lo stomaco chiuso e sentiva che la nausea stava montando di nuovo. Doveva calmarsi. Riflettere. Trascorse un minuto, immobile, concentrata sul nulla. Poi corse in bagno e vomitò tutto.
Oggi, ventinove agosto, giorno da dimenticare. Le povere c’è e non c’è. Vuole farmi impazzire? Ci sta riuscendo. Ho pulito casa, da cima a fondo, sei volte in 12 ore. Allucinante: non riesco a tenerla fuori! per adesso ha raggiunto la cucina. Procede lenta ma inesorabile. So qual è il suo obiettivo finale. La mia stanza. Ma prima deve arrivare in soggiorno, salire le scale, il corridoio a destra… si fermerà dietro alla mia porta. Aspetterà che mi addormenti, scivolerà sotto la fessura, poi… Basta parlare della polvere. Non riuscirà mai a prendermi. Sono più furba di lei. Pulirò tutto il giorno, tutti i giorni.
P.S.: sabato sera ho invitato a cena Claudio. Una mossa un po’ azzardata. Mi è sembrato entusiasta. È un ragazzo dolce. Magari lo assaggio. Spero che la polvere non ci disturbi!
Claudio suonò il camlo alle otto spaccate. La porta si aprì senza cigolii. In una mano teneva per il collo una bottiglia di Vermentino di Gallura e sotto l’altro braccio una confezione di cioccolatini Perugina assortiti. Sorrideva.
L’invito a cena risultava essere troppo “intimo” per non celare, secondo il suo punto di vista, un secondo fine. Lei doveva essere sul punto di cedere. Al quinto appuntamento! Dietro alla soglia, Serena si osservò attorno con la faccia preoccupata e cupi occhi febbrili. Indossava un completo color crema di marca ignota. Il genere di vestiti che si trovavano nei negozietti dei cinesi. Aveva un po’ esagerato con il trucco. Nonostante il generoso fondotinta, le occhiaie spiccavano. “Ciao. Posso entrare?” Claudio mostrò vino e cioccolatini, gonfiando i pettorali, con un sorriso da consumato seduttore. Serena non lo degnò della minima considerazione. Sembrava impensierita per le condizioni estetiche dell’ingresso. Per un attimo angoscioso il ragazzo ebbe la netta sensazione che lei stesse per sbattergli la porta in faccia. Le donne a volte facevano di queste cose. Dopo una vaga smorfietta indecifrabile, Serena, con voce incerta, esordì: “Scusami. Entra pure. In questi giorni sono un po’ distratta. Troppi pensieri nella testa. Accomodati.” Si scostò con riluttanza e lo lasciò entrare nell’ingresso, fragrante e lucido. Serena si chiuse la porta alle spalle e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Pareva che non sapesse dove mettere le mani. Alla fine le incrociò dietro la schiena, dondolando da un piede all’altro. Lui le sbirciò le gambe. “Mi dispiace molto. C’è un po’ di polvere…” mormorò, sull’orlo delle lacrime. “Sono giorni che cerco di toglierla, ma… lei ritorna. Ti chiedo scusa per il disordine, Claudio.” “Polvere? Io non ne vedo un granello!” esclamò Claudio, ammirato, girando sui tacchi. Per quanto si sforzasse, non riuscì a trovare la minima ombra di sporco. “È pulitissimo.” Serena fece una smorfia strana. “Furbastro. Sì, fai il finto tonto. Non vuoi mettermi in imbarazzo perché ti piaccio e mi vorresti scopare. Davvero carino. Però io la vedo lo stesso!” “Ma veramente, io…” protestò Claudio, perplesso. “Non ti sto mentendo per… Credimi! Questa casa è uno specchio.”
Serena gli posò un dito sulle labbra per farlo stare zitto, poi lo prese per il gomito e lo condusse in cucina. “Va bene, va bene. Fai come vuoi tu. Adesso andiamo a mangiare.” La cucina era così pulita da brillare alla luce soffusa delle candele poste a centro tavola. Era apparecchiato per due. Piatti di porcellana e calici di cristallo orlati d’oro. C’erano riflessi argentei ovunque. L’aria profumava di lavanda e cera d’api. “È bellissimo!” si complimentò Claudio, affascinato da tanto splendore e ordine assoluto. “Complimenti. Davvero.” Senza una parola di ringraziamento, Serena gli tolse di mano la bottiglia di vino e i cioccolatini. Mise tutto in frigo e, per un istante, Claudio vide l’interno dell’elettrodomestico. Tutti i ripiani erano vuoti. Gli sembrò piuttosto insolito. Poi gli venne in mente che le giovani donne erano sempre a dieta. Non ci pensò più. “La tua casa è proprio ben tenuta, Serena. Qui è come in quelle fotografie delle riviste di arredamento. Vedessi il mio appartamento a Cagliari! Pensa un po’, quando ho affittato la mia stanza singola c’erano ancora tutte le cose dell’inquilino precedente. Era un nostro compaesano. Lorenzo Carta. Lo conoscevi? Se n’è andato via senza avvisare nessuno, da un giorno all’altro. Pare fosse depresso per un esame fallito…” “Ah, sì?” chiosò Serena, acida. “Dovrebbe interessarmi?” “Eh?” “Piantala con questa commedia, Claudio. Sul serio. Non mi offendo mica. Vengo a letto con te anche se ammetti che qui è pieno di polvere fino agli occhi. Stai tranquillo, okay?” Claudio era allibito. “Ascolta, Serena, ma sei proprio certa di non stare male? Non c’è polvere, cazzo. E non lo dico per galanteria. È la verità. Questa discussione è stupida.” Serena lo fissò con sguardo gelido e duro.
Disse: “Sai cosa non mi piace? Essere presa per il culo.” Lui ammutolì, sperando di non aver capito bene l’ultima frase della ragazza. Lei lo guardò con occhi carichi di rancore. All’improvviso l’atmosfera si era fatta pesante. “Cosa stai dicendo?” chiese il ragazzo, allontanandosi da lei, come se scottasse. “Non capisco. Spiegati meglio.” “Hai capito benissimo.” Serena sogghignò, mostrando i denti. Lo incalzò: “Lo sapevo che sarebbe finita così! Sei troppo preso da te stesso, dai tuo esami del cazzo e dai tuoi colleghi fighetti. Non poteva funzionare. Ti credi un essere superiore solo perché sei iscritto a ingegneria? Per te sono un’ingenua ragazza di paese da scopare nei fine settimana. Ho sentito cosa dicono i tuoi genitori su di me. Lo sanno anche le pietre: pensano che io sia una puttana pazza.” “Serena, ragiona!” Claudio tentò un’estrema difesa. “Ragionare non serve a nulla.” “Tu non stai bene. Cosa hai?” “Ho un coglione su due gambe nella mia cucina e vorrei che se ne andasse!” sbraitò, scattando in piedi. “Ecco cosa ho! Fai funzionare quella testa di cazzo, mio caro studioso! Mi senti? Muovi il culo e togliti di mezzo. Non voglio più vederti. Esci subito da casa mia! Vattene via! ADESSO!” Allibito e sconvolto, Claudio uscì dalla cucina. Questa proprio non poteva immaginarla. Certo, in paese correva la voce che Serena Lilliu fosse una tipa eccentrica, però non fino a questo punto. Avrebbe dovuto aggiornare le storie sul suo conto. E avrebbe dovuto pensarci prima di farsi vedere in giro con lei. L’unica cosa che la salvava era la bellezza. Quando arrivò nell’ingresso, lo raggiunse la voce isterica e acuta di Serena: “Stai attento, stronzo, non scivolare sulla polvere! Se ti rompi il collo in casa mia danno la colpa tutta a me e poi mi tocca pagarti per nuovo! Sei ancora lì? Vaffanculo! Non telefonarmi più! Non farti più vedere!” Senza ribattere, Claudio sbatté la porta e andò al Bar. Con gli amici e la birra alla spina andavi sempre sul sicuro.
Per strada sentì ancora Serena che gli urlava dietro. “LA POLVERE! ECCOLA! LA VEDI?”
Oggi, primo settembre, giorno di merda. Claudio è un ragazzo di merda. La polvere è polvere.
Dieci del mattino. Serena tirò via l’asciugamano bagnato, incastrato sotto la porta della sua camera da letto sigillata e la spalancò di colpo. Rabbrividendo dentro il suo spiegazzato pigiama di flanella, anche se c’erano trenta gradi all’ombra, esaminò il corridoio con meticolosità, prima di fare un solo o fuori. Vide un coagulo di polvere fare subito capolino sul bordo dell’ultimo scalino. La stava aspettando. Da troppi anni. Viva, grigia, cattiva. “Stai arrivando, eh?” sibilò. Incassò la testa tra le spalle magre ed emise un lungo sospiro di rassegnazione. “Beh, io ti aspetto. Ti aspetto da anni. Sono pronta. Non mi avrai!” Come al solito, nessuna risposta dalla polvere. Anche il pianto fantasma era cessato. Trattenendo il respiro, Serena chiuse la porta e sistemò di nuovo l’asciugamano dentro la fessura. Per essere sicura lo schiacciò a fondo con la punta delle dita. Quando fu certa di non aver lasciato il minimo spazio vuoto, attraverso il quale la polvere poteva filtrare all’interno, tornò a letto e s’infilò sotto le coperte. La luce del sole, entrando dalla finestra, disegnava un trapezio luminescente sulla parete opposta.
Oggi, tre settembre, è un giorno buio. C’è un temporale fortissimo. Piove a raffiche. Dietro i vetri della finestra è tutto viola e nero. Bianco, quando scende un fulmine. La gente qui è contenta se piove. In piazza dicono: lascia che piova, che così si riempie la diga di Tratalias… Solus fa più schifo quando piove. Anzi, fa schifo sempre. Per questo ci abita così poca gente. Vanno via tutti. Ci sono un sacco di funerali e nemmeno un battesimo. Non nascono quasi più bambini. Nessuno li vuole. Li capisco. A me non piacciono. Neanche quelli degli altri. Hanno un futuro senza speranza. Questo posto piace solo ai disperati e ai malati di mente, perché qui non ci si può illudere di niente. Un giorno, seduta sull’autobus che mi riporta qui, ogni sera, ho letto questa bella scritta su un muro di Carbonia: “L’Italia in Europa, il Sulcis in Africa.” Non possiamo andare oltre il fondo. Cosa sto scrivendo? Sono ubriaca marcia. Mi sono scolata la bottiglia di vino che ha portato l’uomo di merda. Buono. Il vino. La pioggia, invece, non mi piace. Forse perché pioveva anche quella notte? Boh. poi dicono che in Sardegna non piove. Ahi, che mal di testa! Ho sonno basta scrivere. Ancora freddo qui dentro. Letto caldo dormire notte
Durante la notte, Serena uscì dal letto e dalla stanza. Con brevi ettini instabili da sonnambula superò il corridoio e scese le scale. La polvere non c’era. Il marmo sotto i piedi nudi era gelido e scivoloso. Barcollò in preda a una leggera vertigine. Le sembrò di udire di nuovo il pianto, lontano e disperato. Poteva essere il figlio neonato dei vicini di casa? No. Impossibile. Ricordò che si erano trasferiti a Brescia da due anni, ormai. Lui aveva trovato lavoro come operaio in una fabbrica di pentole. Lei, la moglie, era stata una sua compagna di banco delle elementari. Una ragazza così intelligente da farsi mettere incinta da un disoccupato quarantenne… che aveva preso la licenza media da privatista. Il massimo della vita.
Serena scese le scale, ben attenta a dove metteva i piedi e aggrappandosi al corrimano di ottone lucidissimo. Arrivò in cucina e rovistò nei cassettini sotto il lavello. Non sapeva neanche quello che stava cercando. Alla fine, trovò qualcosa che poteva tornare utile per combattere la maledetta polvere. Risalì piano fino alla sua stanza, con la testa che le girava per i postumi dell’ubriacatura e l’intestino in subbuglio. Inserì l’asciugamano sotto la porta e una gomma da masticare nel buco della serratura. Poi fissò la porta per qualche secondo, cercando di ricordare cosa era andata a fare in cucina. Glielo rammentarono gli oggetti che stringeva ancora nelle mani. “Ah, ecco. Questa sì che è una bella idea…” mormorò. Tornò a letto e si rintanò sotto le coperte maleodoranti.
Oggi, quattro settembre, è un giorno orribile. mal di testa!!! nausea. Ho vomitato due volte sul tappetino affianco al letto. Odore cattivo. Non posso aprire la finestra. Ieri ho scritto tante stronzate. Colpa del vino che ho bevuto. Però ho fatto una cazzata ancora più grande! Me ne sono accorta pochi minuti fa. Prima di mettere la gomma nel buco della serratura ci ho spezzato la chiave dentro. Non ricordo di averlo fatto!!! Geniale, vero? Devo essere completamente partita. Non ho voglia di uscire. La polvere è fuori che aspetta. Eppoi: perché ho preso questa roba?A cosa mi serve? Ho fame. Mangio i cioccolatini dell’uomo di merda. Sono buoni anche se un po’ sciolti. Molto strano davvero. Fa caldo qui dentro? Ma io sento sempre freddo.
P.S.: sento la polvere che sta cercando di entrare.
La polvere filtrò nella stanza al tramonto. Sfruttò ogni spiraglio, la minima imperfezione del legno, gli spazi tra telaio e porta, le scanalature del pavimento, i pori dell’asciugamano ormai quasi asciutto. La chiazza di polvere si allargò come una pozzanghera d’olio grigio impalpabile. Era dentro. Serena, immobile sul letto, accovacciata sotto le coperte come un vecchio capo indiano, osservò con occhi sbarrati e impotenti l’invasione silenziosa e inesorabile della polvere: era implacabile. Come poteva illudersi di sfuggirle per sempre? Non c’era un luogo sicuro dove nascondersi. Strisciava verso il letto… Viva. Grigia. Cattiva. Era polvere reale? O un incubo prodotto dal senso di colpa? C’era solo un modo per scoprirlo. Serena aprì il diario che teneva in grembo e scrisse.
Forse esiste una spiegazione razionale. Non ho sempre avuto il terrore della polvere. Diciamoci la verità, la fobia è iniziata quando avevo dieci anni. Circa. La spiegazione sta proprio qui. Dove sempre è stata. Adesso tutto appare più chiaro. Questa non è polvere. Normale e semplice No. È solo la forma che il mio fratellino morto ha scelto per vendicarsi. È per questo motivo che, quando il silenzio è assoluto, lo sento piangere negli angoli oscuri della casa. È il pianto di un bambino mai nato. Mio fratello vuole uccidermi. Portarmi nella terra. Con lui. Polverizzarmi. Sapevo che sarebbe finita così.
Anche se per anni, negando l’evidenza e condannandomi alla solitudine, mi sono illusa che lui mi avesse perdonato. Ho pregato tantissimo. Ogni domenica. Non è servito. Devo pagare. Ricordo tutto. Come se fosse successo stanotte. Il telefono squilla forte (in seguito ho saputo che era papà, voleva sapere come stava la mamma). Lei esce dalla camera matrimoniale. Vestaglia e pantofole, comincia a scendere le scale, tenendosi il pancione. Sorride. Come se avesse pensato qualcosa di buffo. Accade in un attimo. Ops! La vedo cadere. Vedo il sorriso morire sulle sue labbra. I suoi occhi blu spalancati per la paura. Le pantofole volano per aria. Le sue braccia mulinano in cerca della ringhiera o forse dell’equilibrio perduto. Tutto inutile. Rotola fino in fondo alle scale. Ogni gradino un tonfo… Non grida nemmeno. Rimane immobile. Priva di sensi. Un rivoletto di sangue rosso e nero in mezzo alle gambe divaricate. Addio pancione. Addio fratellino. Oh, sì, sapevamo che era maschio. Lo avevano desiderato così intensamente che poi non avevano saputo resistere alla curiosità. Un maschio. Auguri e figli maschi!!! diceva la gente. Le femmine non sono un affare. Devi pure trovarle un marito. Ho risposto io al telefono. Ho detto: papà, vieni. Mamma è caduta. Da quel giorno, casa nostra non è stata la stessa. Pensavo che fosse esagerato. Tutto quel casino per un fratellino che non era neppure nato. Per me non avrebbero fatto nemmeno la metà di quello che hanno fatto per lui. Lo sapevo benissimo. Ero femmina.
Adesso, certo, con il senno di poi, capisco che ho sbagliato. Ma allora… mi sembrava giusto difendere il mio spazio. Non c’era altra alternativa. E il tempo ormai stringeva… Ho fatto cadere io mamma dalle scale. Uno sgambetto e patapum! Niente fratellino maschio. Cosi logico da far paura. Tutto previsto. Quando faceva il turno di notte, papà la chiamava sempre alla stessa ora. Calcolato. Mamma non ha mai capito o voluto capire. Le mamme fanno sempre così quando ci sono di mezzo i loro figli. L’amore le acceca. Ha pensato di aver inciampato sul primo gradino, sul tappeto, su un mio giocattolo rimasto sul pavimento… niente di questo. Era il mio piedino. Perché l’ho fatto? L’ho fatto perché avevo paura. Una paura fottuta di quel fratellino maschio in arrivo e delle inevitabili conseguenze negative della sua presenza nella mia vita. Dovevo farlo. All’asilo avevo sentito parlare di loro… I fratellini. I miei compagni non facevano che lamentarsi e rimpiangere quando erano figli unici. I fratellini… sapevo tutto sul loro conto. Arrivano in casa tua senza essere invitati e nessuno ti chiede se tu li vuoi oppure no. Prima prendono il tuo posto (soprattutto se sono maschi e tu sei femmina). Poi tutte le tue cose: culla, giocattoli, vestiti, cibo, coccole e attenzioni. Tutto l’affetto è per loro. E tu diventi invisibile, relegata in un angolo della stanza, mentre lui è al centro dell’attenzione. Il piccolo intruso diventa il fulcro della casa. Con il are del tempo vieni ignorata sempre di più. Loro pensano che ormai tu sia grande e non hai più bisogno di nulla. Non ti parlano e quasi non ti rispondono. Però, se lui piange, sono subito pronti a cullarlo e consolarlo. Fino all’alba. Succede così. Succede sempre. Ecco perché l’ho fatto. È semplice: i fratellini si prendono sempre tutto. Non potevo accettarlo. Non potevo perdere tutto. Ho fatto quello che tutti i miei compagni dell’asilo non avevano saputo o voluto fare… È bastato allungare un piede nel momento giusto. All’inizio non è stato facile. Lei ha pianto per qualche mese e ha preso a fare
discorsi strani. Papà si è un po’ incazzato con lei. Non è stato piacevole, ma alla fine le cose si sono aggiustate da sole. È così che capita. Il tempo nasconde ogni cosa. Fino a che, una notte, piovosa come questa, commisi un errore. Non so come mi venne in testa. Forse cominciavo già a rendermi conto davvero di quello che avevo fatto. Il segreto stava diventando troppo pesante e scomodo per una bambina di dieci anni e mezzo. Lo è anche adesso. Sempre di più. Quella sera chiesi alla mamma: “Cos’è diventato adesso il fratellino?” Una domanda stupida. Erano giorni che mi frullava in testa. Mi sembrava un interrogativo sensato. In quel periodo avevo vaghe nozioni religiose. Chissà, forse mi aspettavo una risposta consolatoria che avrebbe placato il mio crescente senso di colpa. Sapevo soltanto che, quando muoiono, i neonati diventano angeli (l’aveva detto il prete durante il catechismo). Un pensiero confortante: in fondo avevo regalato a Dio un nuovo angioletto… Però mamma non disse nulla del genere. Oh, no. La ricordo così, seduta nella poltrona, mentre guardava la pioggia scorrere sui vetri sporchi e pensava a tutte le cose che non andavano bene nella sua vita. Il soggiorno era illuminato dalla luce giallastra del lampione fuori dalla finestra e dal bagliore intermittente dei lampi. A mamma piaceva restare al buio quando rimuginava. È una cosa che ho preso da lei. Era una cosa che non capivo… adesso sì. Trascorse un minuto prima che mi rispondesse. Io aspettai, aggrappata al bracciolo imbottito, che puzzava di cuoio e sigarette al mentolo. Ricordo anche il rumore scrosciante dell’acqua nelle grondaie. Le sue unghie mangiucchiate che grattavano il plaid. Il ticchettio meccanico dell’orologio. Il rombo di un’auto che sfrecciava nella strada allagata, con la radio sparata a tutto volume, illuminando le pareti con una luce accecante. È strano come funziona la memoria, no? Lei disse: “Tuo fratello è diventato polvere.” Non so perché, quelle parole mi entrarono nel sangue come un’infezione, attecchirono nel mio inconscio e cominciarono a perseguitarmi anche nel sonno.
Iniziò così. Da quella triste notte di pioggia, la polvere diventò il mio incubo quotidiano. Nel cuore di tenebra delle mie notti insonni, raggomitolata sotto le coperte, ripensavo alla polvere cattiva. Mio fratello era diventato polvere. Io l’avevo ucciso per egoismo e invidia. Lui mi odiava. per sempre. Nei miei incubi infantili, la polvere entrava furtiva nella mia cameretta e cercava di soffocarmi. Certe volte la sentivo piangere, nascosta negli angoli, come un neonato affamato. Altre volte, quelle peggiori, la polvere si raggrumava ai piedi del mio letto e piano piano assumeva le sembianze di un bambino deforme. I denti erano sottili aghi di polvere grigia e la bocca una contorta voragine di oscurità. Mi svegliavo, in un bagno di sudore freddo, il cuore impazzito. Non ho mai detto nulla. Non potevo. Comunque… nessuno mi ha chiesto niente. Quando la mamma morì, per un’agghiacciante coincidenza, al suo funerale il parroco ripeté la storia della polvere. Parola per parola. Io ho interpretato la cosa come una specie di atto d’accusa subliminale inviatomi dall’aldilà. I morti sanno tutto. Ora mamma sapeva cosa le avevo fatto. Anche lei mi odiava. Infatti, cominciò a visitare i miei sogni. (…) Le disgrazie non vengono da sole. Sei mesi dopo ero in testa al singhiozzante corteo funebre che scortava la modesta bara di mio padre al cimitero comunale. Alle mie spalle c’era quasi tutto il paese. A Solus tutti sono amici di chi muore e nemici di chi resta in vita. Boh. Questa cosa non la capirò mai. Il fratellino. Mamma. Papà. Tutti morti. Sono tornati a casa per portarmi via. Vogliono uccidermi. Stanotte. Per farmi diventare polvere. Come loro. La famiglia al completo. È giusto così. La polvere mi chiama. C’è solo un problema: non voglio morire! Non oggi. Combatterò! Non riuscirete a entrare nel mio corpo! Mi dispiace
tanto mamma, papà e fratellino. Lo so che ho sbagliato. Ma perché non provate a perdonarmi? Voi ormai siete morti… ma io sono viva. Viva! Vi prego. Andate via. Andate via. Andate via! Non ascoltano. Pazienza: io non diventerò polvere. Mai.
Asciugandosi le lacrime sulla manica del pigiama, Serena sollevò gli occhi arrossati e gonfi dalle pagine del suo diario. Confessare tutta la verità era stato doloroso ma terapeutico. La pozza di polvere lambiva ormai il bordo inferiore delle coperte. Vi si arrampicò, rapida e impietosa. Assomigliava a uno sciame compatto, brulicante di minuscoli e voraci insetti. Era come l’aveva immaginata. Un denso pulviscolo animato da cattive intenzioni. Odorava di terriccio e decomposizione. Serena richiuse con calma il diario, tenendo il segno con la penna. Lo posò sul comodino. Non aveva più paura. “Ciao, fratellino. Sei qui per me?” In muta risposta, la polvere serpeggiò tra le sue gambe. Era come una brezza leggera, soffice, intessuta di taglienti cristalli di ghiaccio. Le si accapponò la pelle e un brivido le risalì lungo la schiena irrigidita. Restò immobile, mentre un gigantesco urlo le rintronava nella testa. Le orecchie fischiavano. Di scatto, Serena estrasse da sotto il cuscino l’oggetto che aveva prelevato dalla cucina, mentre smaltiva i postumi della sbornia. Si trattava di un sacchetto di plastica trasparente. Quelli che si utilizzano per congelare la carne o le verdure di stagione nel vano freezer. Il modello dotato di chiusura a laccio e doppia resistenza agli strappi. “Non te lo aspettavi, eh?” Con un sorriso di sfida, Serena infilò la testa nel sacchetto e strinse forte i lacci sotto la gola. In precedenza si era sigillata i polsini e le caviglie del pigiama con
un intero rotolo di nastro isolante rosso. Era lo stesso che usava il padre elettricista. In cucina c’era un cassetto pieno zeppo. “Come farai a entrarmi dentro, adesso? Fregato!” Serena sbatté le mani ed emise una risatina che la plastica rese lugubre. Era una strana e curiosa sensazione vedere la sua stanza, distorta, attraverso un sacchetto per la ghiacciaia. Era buffo. Quasi comico. Avrebbe dovuto pensare molto prima a quella soluzione. Non avrebbe sprecato tempo in pulizie. Ormai quasi senza fiato, Serena rise ancora più forte. La nuvola di polvere si addensò.
6 – MEMORIE
Questa volta è meno doloroso. Quasi come svegliarsi da un intenso sogno a occhi aperti. Suoni, strutture e colori tornano pian piano al loro posto. Le terminazioni nervose, ancora palpitanti di impulsi elettrici, ricominciano a funzionare nel modo giusto. Nei muscoli mi rimane un confuso ronzio simile a energia statica. Gli occhi bruciano nelle orbite come se avessi fissato il sole per ore. Aspirando un’enorme boccata d’aria, barcollo in preda a un’improvvisa e tremenda vertigine. Soffocato dai conati, lascio che le mie ginocchia si pieghino e rimango fermo così, curvo sul marciapiede, le mani piantate sulle rotule. Aspetto che lo stordimento si plachi. Nel frattempo, fisso lo sguardo sull’asfalto nero, fradicio e incrinato. Dondola come il ponte di una nave. La brezza mi arruffa i capelli e asciuga la fronte. Dopo qualche minuto sto già meglio. Raddrizzo la schiena e inalo altra aria. Mi sento indolenzito e dolorante come se avessi corso una maratona di cento chilometri. L’effetto collaterale di queste visioni comincia a rompermi le palle. È come se il flusso di immagini e sensazioni, che si riversa nella mia mente in quei pochi secondi di connessione, intossicasse il resto del mio corpo. Connessione a che cosa, poi? A un’arcana memoria collettiva di Solus? Un archivio invisibile delle sue tragedie? La sensazione è quella di assistere in prima, seconda e terza persona agli eventi. Percepisco ogni emozione. Colgo tutti i dettagli dell’ambiente. È come se fossi presente sulla scena. Spettatore involontario e privilegiato di frammenti di vita. Non voglio avere questo… come posso chiamarlo? Dono? Capacità extrasensoriale? Forse… Oppure è un collegamento free con il sito soprannaturale www.Solustory.it. Non lo so.
Quello che so è che non ho chiesto io questa facoltà. Neanche ci volevo tornare in questa merda di paese! Adesso che ci penso… La causa di questa desolazione potrebbe essere un’epidemia letale. Forse le case intorno a me sono gremite di cadaveri in putrefazione, rigonfi e purulenti, infetti. Ecco la spiegazione! Le mie non sono affatto visioni: sono soltanto allucinazioni generate da un agente patogeno esogeno che ha scelto Solus come nucleo di espansione. Una tesi azzardata. Un momento… Sto trascurando un particolare fondamentale. A quanto sembra queste “percezioni” si scatenano quando tocco qualcosa. Qualcosa di Solus... Prima la maniglia, poi il lampione... Sì, è così! Non può essere una semplice coincidenza. Le cose si sono fatte strane appena ho rimesso i piedi in questo schifo di paese. Forse avrei fatto molto meglio a restarmene bello e tranquillo in Continente. Probabilmente quel misterioso impulso irresistibile a tornare qui è stato inviato da Solus stesso… Ma come è possibile? Perché ha scelto me, tra tanti emigrati? Non capisco. Senza sapere come, intuisco che la risposta definitiva è racchiusa e nascosta in queste misteriose… proiezioni astrali. Alzo lo sguardo sui lampioni spenti. Fisso i vetri rotti. Il cielo mi a sopra la testa come una vorticosa corrente di piombo fuso. Le abitazioni abbandonate hanno un aspetto spettrale. Le ombre si rincorrono sui muri, colano nei vicoli, serpeggiano sulla strada dissestata. Il ventoso silenzio è quasi apocalittico. L’aria stessa ha qualcosa che sa di morte. Devo scoprire cosa è successo in questo posto. Ho un’idea. Un po’ folle, forse, ma che importa? Intorno a me, ormai, tutto quanto è assoluta follia.
Ho constatato che il contatto medianico, tra me e Solus, avviene solo in modo diretto. A pelle. Sono convinto che le suole consunte degli stivali che indosso mi isolino da questa strana forma di energia psichica. Un fenomeno interessante. Vi chiederete: come faccio a conoscere questi argomenti? Da adolescente, solitario e bistrattato dai bulletti coetanei, ho attraversato uno strampalato periodo in cui ero attratto dallo straordinario mondo del paranormale e del mistero. Credo succeda a tutti i ragazzini sfigati. Seguivo ogni trasmissione televisiva che trattava di UFO, fantarcheologia, Atlantide, Area 51, enigmi egiziani e segreti custoditi negli Archivi del Vaticano. Ero affamato di notizie sensazionali. Acquistavo ogni rivista sull’argomento e, quando riuscivo a mettere da parte abbastanza spiccioli, correvo al mercatino dei libri usati per comprare volumi pieni zeppi di teorie utopistiche e ipotesi strampalate. Diventò una potente droga mentale. Mia nonna, ovviamente, non approvava queste letture. Per lei, a parte Pippo Baudo, La Bibbia e Uno Mattina, non esisteva altro motivo per cui valesse la pena rovinarsi gli occhi. Così ero costretto a nascondermi per poter sfogliare in santa pace quelle pagine cariche di mistiche suggestioni. Per diversi anni la mia fantasia restò in balia di Yeti, Chupacabras, Civiltà Perdute e Antichi Visitatori. Alla fine, come tutte le ioni giovanili, la cosa si sgonfiò da sola. Impacchettai tutta quella mia collezione in quattro ingombranti scatole di cartone (prese dal cassonetto davanti al Supermarket Deidda) e la dimenticai in un angolo della soffitta. C’erano altre cose su cui riversare tutte le mie energie. Le ragazze. In ogni modo, cambiando discorso, adesso quelle matte e disperate letture adolescenziali mi stanno tornando utili. Per lo meno, non sono tanto impreparato nei confronti di questa situazione… Ai Confini della Realtà. Mi sono sempre vantato di avere una mentalità aperta. È il momento di verificarlo. L’alternativa è impazzire. Mentre rifletto su queste cose, torno indietro fino a Corso Savoia. I muri trasudano muffa e odorano di urina. Dalle grate di ghisa dei tombini esalano
pennacchi di vapore. Le nuvole corrono nel cielo, appena sopra la mia testa, da est a ovest. Hanno un colore strano, lugubre, simile a batuffoli di cotone idrofilo imbevuti di succo di mirtillo e sanguinaccio. Un gracchiare insistente richiama la mia attenzione. Al margine del Corso, due cornacchie (le stesse di prima?) si aggirano intorno a un oggetto bianco posato sull’asfalto. Il vento freddo, incanalato tra le case, ne sfoglia le pagine. Le cornacchie sentono i miei i, aprono le ali e volano via. Sempre più incuriosito, mi avvicino e raccolgo l’oggetto. È un bloc-notes, di quelli tascabili, con una penna a sfera infilata nella spirale. Sembra usato, ma non c’è scritto nulla. Comunque sia, decido di tenerlo. Potrebbe tornarmi utile. Lo infilo dentro la tasca della camicia. Ci sta alla perfezione. Il mio orologio Casio sostiene che sono le undici e mezza, tuttavia ho la sensazione che da queste parti il Tempo non sia più attendibile. Non lo è mai stato. Il contrario mi stupirebbe. È giunta l’ora di mettere alla prova la mia teoria. Sei sicuro di volerlo fare? Raggiungo il centro della strada e mi inginocchio. Un’azione che a Solus avrebbe fatto più scandalo di una bomba a mano lasciata sulla porta principale del Municipio. Rimugino per qualche secondo. Okay, quello che sto per fare adesso è pazzesco, assurdo e masochista, ma non ho altra scelta. Ho bisogno di sapere! Devo anche ammettere, con una certa ritrosia, che ho voglia di percepire ancora il brivido freddo della connessione. Quel lampo accecante al centro del cervello ha qualcosa di troppo simile all’orgasmo sessuale. Una specie di “petite mort”. Non credo sia del tutto casuale. Il piacere nasconde quasi sempre una trappola letale. Per questo è così dolce annegarci dentro.
Dopotutto, non sono ritornato a Solus (proprio oggi) per un caso fortuito. Ne sono perfettamente consapevole. La mia presenza fisica, in questo luogo e in questo momento, ha un significato trascendente e uno scopo concreto. È il mio fato? Non posso rimandare l’inevitabile. Emozionato, trattengo il fiato e chiudo gli occhi. Appoggio entrambe le mani sull’asfalto bagnato. Questa volta il viaggio è istantaneo… (Dong… Dong… Dong…)
“A volte l’ironia è presente persino nei più terribili orrori” H.P. Lovecraft
Storie Di Solus
7 – RISVEGLI
Dong… Dong… Dong… Il campanile batte le tre della notte. L’eco sorda di i in corsa rimbalza sui muri di mattoni che racchiudono strade troppo strette, ritorte e oscure. Una violenta raffica di maestrale penetra nel paese addormentato, scava nel suo fango, rimescola la polvere e strappa le ultime foglie secche ai rachitici alberelli che circondano la piazza. L’aria profuma di eucalipto, terra bruciata e salsedine. Il buio nasconde le improduttive coltivazioni che accerchiano quel mucchietto anomalo di costruzioni e anime. Nell’oblio delle tenebre, Solus mostra la sua vera faccia al mondo assopito. L’eco dei i svanisce con l’ultima frustata eolica. Tre o quattro secondi di nulla. Poi… Un urlo atroce lacera il tenebroso sudario della notte. Una donna. Di nuovo nulla. Tra qualche minuto o forse un’intera ora, lugubri sirene e bagliori di luce azzurra e rossa taglieranno a intermittenza l’oscurità silenziosa. Le scariche elettrostatiche delle radio e le voci sovrasteranno il lamento triste del maestrale. I neon si accenderanno dietro le finestre sbarrate, gli usci si apriranno. Occhi avidi, gonfi di sonno, scruteranno le strade affollate. Per qualche ora o forse interi giorni, Solus tornerà in vita, brulicherà di pettegolezzi e balle varie sul chi, come, dove, quando e perché. Tutti sapranno tutto e nessuno saprà niente. Non durerà molto. Alla fine, l’inerzia vincerà comunque. È una regola immutabile dell’Universo. A un certo punto, il paese ricorderà di essere oramai alla frutta, sospirerà rassegnato e striscerà di nuovo
verso il suo accogliente giaciglio di morte. Senza rimpianti. Senza rimorsi. Tanto non ha mai vissuto. Un ultimo sussulto e poi si addormenterà, di nuovo. Fino al prossimo urlo. Fino a quando un’altra secchiata di sangue fresco non lo desterà dal suo sonno mortale, resuscitandolo, con la faccia e le mani sporche di rosso vivo. È l’unico modo per riuscirci. Per riportare in vita un paese è necessaria una tragedia, improvvisa, cruenta e misteriosa. Niente di più. La vita nella morte. La visione di un cadavere per ricordarsi di essere vivi. Una catastrofe repentina per togliere dai nostri occhi ciechi e stupidi l’ingannevole riverbero della televisione e l’ipocrita qualunquismo dalle nostre bocche mute. Inutile, pazza folla. La cinica voce narrante della nostra coscienza sussurra: “Quello è un morto. Io sono vivo e ho paura. Voglio vivere. Voglio anche io la mia porzione di falsa libertà, il mio angolo di sogno irrealizzabile, il mio barlume di vana speranza. Non è possibile che tutto finisca così. Un corpo straziato e inerte sotto gli occhi assonnati della gente. Non è questo che voglio nel mio futuro. L’ho capito. Tutto è chiaro. Oggi. Domani.” Domani… ma domani ricomincia la solita girandola. È un meccanismo perfetto e invisibile. Una macchina di raccapricciante e implacabile semplicità, congegnata dai forti per soggiogare i deboli: il lavoro, le responsabilità, scadenze inderogabili, retribuzioni in ritardo, bollette puntuali, figli disillusi, genitori disperati, imposte sul reddito, automobili usate da revisionare, esami che non finiscono mai, malattie incurabili, certificati, telefoni occupati, tariffe condominiali, appartamenti da affittare, festività comandate, inguardabili spettacoli televisivi, partite di calcio truccate, orribili sfilate di moda, catastrofi mondiali, età pensionabile, corruzione di minori, fidanzati stronzi, coppie aperte, amanti sfuggenti e bugiardi, matrimoni falliti, medicine palliative, emigrazione clandestina, inarrestabile crisi globale, vacanze intelligenti, clima impazzito, pandemie influenzali, petrolio alle stelle, inflazione programmata, effetto serra, sesso, sesso virtuale, terrorismo islamico, macchie solari, debiti a tasso variabile, creditori insolventi. Gabbie mentali di sbarre
indistruttibili. Qualsiasi cosa ti impedisca di pensare, pensare davvero. Un labirinto senza uscite di sicurezza, benedetto da un Dio disattento, insensibile spettatore di questo “reality show”. La fabbrica delle falsità ti mastica dalla nascita e ti risputa alla morte. Tuttavia, visto dall’interno, questo enorme congegno infernale appare ragionevole e coerente. Inevitabile. A volte, però, quando vediamo il nostro riflesso confuso nelle pupille vitree di un cadavere, il mondo che ci accerchia e la nostra stessa esistenza appaiono deformati, caotici e senza senso. Una temporanea presa di coscienza che lascia il tempo che trova, perché il malvagio dispositivo ha sempre più fame e ci risucchia indietro nelle sue oscure, anguste, infinite viscere. Non c’è nulla da fare. Nessuna guerra da combattere. Miliardi di cadaveri urlanti non basteranno a salvarci. Tutto è sempre diverso e sempre uguale.
8 – LIMBO
Questa volta succede qualcosa di diverso. Al termine della visione, a cui hai partecipato come semplice spettatore, dopo una lenta e pietosa dissolvenza in nero, è come se la tua anima (proiezione astrale?) non sia riuscita più a trovare la strada per rientrare nel tuo corpo. Come in uno di quei bizzarri sogni che facevi da bambino, ti sembra di volare libero e leggero sopra le case e le vie di Solus. Non senti nulla. Niente peso, niente odori, niente sapori. Caldo e freddo sono un lontano ricordo. Dall’alto, vedi il tuo corpo inginocchiato in mezzo a Corso Savoia, le palme delle mani posate sull’asfalto. Le dita aperte a ventaglio. Tieni la testa piegata verso il basso, i capelli ti ricadono sul viso, nascondendoti gli occhi. I muscoli del collo rigidi. Le vene gonfie. La schiena vibra, come percorsa da una micidiale scarica elettrica. È strano vedersi così. Ricorda quei racconti di gente che, in punto di morte, ha visto il proprio corpo dall’esterno… Ma tu non stai per morire. Questa consapevolezza ti rassicura. Sospeso in quel limbo sensoriale, come racchiuso in una bolla di sapone, il tuo spirito si libra sopra il paese deserto. Concentrandoti, anche se è difficile farlo quando non si ha la percezione della materialità, riesci addirittura a ottenere ulteriori informazioni sul tragico episodio a cui hai appena assistito. Nella tua mente, finalmente affrancata dal fardello della carne, scatta una specie di flash bianco. Dopo questo bagliore, si ripete quello che è già successo prima… prima che avessi l’idea di metterti in ginocchio e toccare la strada. Per qualche ragione, riesci a intravedere un articolo di giornale collegato con i fatti appena visti. Non è come guardare le schermate in bianconero di un microfilm, nella luce polverosa di un archivio, è più come sfogliare una raccolta di ritagli ingialliti, i margini sbocconcellati
dalle tarme. Una collezione di notizie, selezionate da chissà chi e nascoste in una soffitta maleodorante di muffa, naftalina ed escrementi di topo.
Estratto da L’UNIONE SARDA del 2 Aprile 1994.
ORRENDO DELITTO INSANGUINA IL SULCIS
Questa notte Solus, piccolo e desolato comune del Basso Sulcis, è stato risvegliato da un grido di morte. Nella piazza principale del paese, infatti, i militari dell’Arma dei Carabinieri (prontamente intervenuti sul luogo) hanno rinvenuto il corpo della giovanissima Luisa Loru, 17 anni. La ragazza è stata uccisa mentre rincasava, a tarda notte, dopo una serata di festa con gli amici trascorsa alla discoteca JOYLAND di Narcao. Le informazioni, vista l’ora in cui è avvenuto il tragico fatto, sono ancora frammentarie. Pare che la ragazza sia uscita di casa alle 21.00 in compagnia di alcuni amici di San Giovanni Suergiu. Questi l’avrebbero riaccompagnata a Solus alle 02.30. Uno dei ragazzi, V. M., 18 anni, ha dichiarato alle autorità: “Luisa mi ha chiesto di farla scendere in piazza, abitava lì vicino…” In base alle prime ricostruzioni, la ragazza è scesa nella piazza antistante la chiesa di San Giorgio e si è subito diretta verso la sua casa. Meno di cinquecento metri. Non ci è mai arrivata. Qualcuno (un maniaco? Un innamorato respinto?) dopo averla intercettata, l’ha aggredita e massacrata nei pressi della statua che abbellisce la piazza. Dai rilevamenti compiuti, pare che l’assassino abbia agito in modo selvaggio, schiantandole ripetutamente la testa sul blocco di granito del piedistallo. Secondo alcune dichiarazioni, non confermate, la ragazza ha gridato una sola volta, forse al momento dell’aggressione. I carabinieri della caserma, intervenuti sulla scena del crimine in seguito a una telefonata anonima, hanno rinvenuto la giovane. L’autopsia, prontamente eseguita presso l’Ospedale Civile “Sirai”, non ha indicato tracce di violenza sessuale. Gli inquirenti stanno indagando a tutto campo e seguono diverse piste. Una di queste, a quanto ci risulta, porta dritta verso l’ex fidanzato della ragazza, un militare. Tuttavia, quest’ultimo pare abbia un alibi di ferro. All’ora esatta del delitto, il giovane soldato si trovava nel poligono di Teulada per un’esercitazione interforze… (cont. pag. 20)
All’improvviso ti accorgi che tutte le visioni riportano a episodi accaduti a Solus dopo la tua partenza. Ricordi bene l’ultima volta che sei stato in paese. Era il 1° settembre 1991. Cinque mesi dopo l’incendio di Villa Massidda e dell’alluvione che aveva sommerso parte del Sulcis. Qualche buontempone, cliente fisso del Bar Sport, sosteneva che a Carbonia avesse perfino nevicato… Balle. Comunque sia, chiunque abbia raccolto quel catalogo di ritagli ha cominciato a farlo in quel periodo. Vorresti capire di chi si tratta, ma non è possibile. Leggi quei ritagli attraverso i suoi occhi e, a meno che il suo viso non si rifletta in uno specchio, la sua identità resterà un mistero. Ad ogni modo, questo dettaglio può restare anche senza spiegazione. La cosa che ti interessa è capire il significato di quell’esperienza. Chiuso in quel sottile guscio invisibile, la mente dilatata dalla deprivazione sensoriale, hai una intuizione. La semplicità del ragionamento è folgorante: devi rimetterti in pari con le storie. Le storie di Solus. Devi conoscere quello che è accaduto durante la tua assenza. Per quale ragione? Al momento, non ti è concesso saperlo. Proprio mentre realizzi questo, qualcosa colpisce con forza la bolla. È come una forte raffica di maestrale. La membrana vibra, si deforma, eppure mantiene la sua consistenza. Come un palloncino sfuggito dalla mano di un bambino, in un attimo sali più in alto, nel cielo grigio, spostandoti rapido verso sud… dritto verso la costa. È una zona che conosci molto bene. Dista pochi chilometri dal luogo dove hai perso tutta la tua famiglia. Appena ci pensi, subito ti sembra quasi di sentire le grida, nella condotta, echeggianti sulle curve pareti di cemento… Allontani quel ricordo, come hai già fatto milioni di volte. Quel dolore, purtroppo è in grado di raggiungerti ovunque. La bolla si ferma dolcemente e fluttua sopra il promontorio di “Punta ’e Trettu”. Una lingua di terra che si allunga nelle acque del golfo, quasi a voler indicare l’isola di Sant’Antioco. La luce cambia colore, più rossa e meno grigia. Sotto di te, ancora scombussolato, la pineta artificiale è simile a una macchia verde. Al
limite della rada vegetazione, composta in gran parte da oleandri, salicornia, appuntiti cespi di giunchi e gracili mimose, intravedi la semiluna della spiaggetta. Ci sei andato tante volte da ragazzino in bici, insieme ai tuoi pochi amici, per cercare le vongole nascoste sotto la sabbia. Due puntini neri si muovono sopra lo stretto arenile. Perdi quota, senza avvertire il minimo movimento. I puntini sono persone che camminano mano nella mano. “Non possiamo continuare così…” dice la ragazza. Capisci di essere capitato nel mezzo di una litigata. Vorresti voltarti da un’altra parte, ma non puoi. Questa è un’altra storia e tu devi conoscerla.
9 – UNA MACCHIA A FORMA DI X
Il sole affogò nel mare, tingendolo di rosso, giallo e viola. Sulla sinistra dell’orizzonte, la sagoma brumosa dell’isola di Sant’Antioco risplendeva già di mille puntini luminosi. Stelle artificiali. Le più brillanti erano quelle del lungomare e del molo turistico. A destra, al di là delle brulle colline chiazzate di cisto, l’alta ciminiera a strisce bianche e rosse di Portoscuso sputava nell’aria limpida una minacciosa linea di vapore tossico, subito sfilacciata dal forte maestrale. Un’altra manciata di stelle, quelle vere, iniziò a spuntare nel cielo. Mauro abbandonò la gelida mano della ragazza e raccattò un ciottolo dalla spiaggia imbrattata di alghe, ossi di seppia calcinati, cocci di vetro e scaglie di catrame secco. Soppesò il sassolino nel palmo. Era tiepido. Dopo una breve valutazione, Mauro si piegò e lo lanciò sulle onde. Non fece un solo salto. Affondò con un liquido e beffardo plop! “Hai sentito quello che ho detto?” domandò lei, spazientita. Lui non rispose. Claudia incrociò le braccia sul seno. Indossava una maglia leggera a maniche corte. Mauro notò che aveva la pelle d’oca. La ragazza lo fissò con sguardo indispettito. “Allora?” Ignorandola, Mauro curvò la schiena. Cercò un altro sasso levigato in mezzo alla sabbia, le alghe marce e le pulci di mare. Lo trovò. Lo scagliò. Sbagliò la mira un’altra volta. Plop! Il ragazzo osservò le onde concentriche prodotte dalla pietra che affondava. Quando si voltò, il tramonto gli incendiò viso e occhi. “Allora cosa?” sbottò, con voce rotta dalla disperazione.
“Mi hai ascoltato?” l’incalzò Claudia, cercando di evitare il suo sguardo. Non le sfuggì il luccichio umido negli angoli delle palpebre. Non voleva vederlo piagnucolare. Strusciò le Sisley rosa nella rena bagnata e aspettò una risposta. Alle sue spalle, il flusso della marea spazzò le impronte che avevano lasciato sulla battigia. Tra pochi minuti, come accadeva tutti i giorni dell’anno, quella lingua di sabbia sarebbe stata sommersa. Mauro replicò: “Sì. Ho sentito. Mi stai lasciando?” Claudia annuì. “Perché?” domandò lui, infilando le mani callose nelle tasche posteriori dei Levi’s. Aveva diciannove anni. Faceva il manovale da quando era stato bocciato in seconda media. Cinque anni prima. “Io non…” mormorò Claudia. “Non ti amo più.” “Perché?” ripeté Mauro, esasperato e confuso. “Non lo so!” esclamò lei. Poi, anche se non era quello che voleva dire, aggiunse: “È complicato da spiegare a parole. Forse…. forse non ti ho mai amato… amato per davvero.” “Ho fatto qualcosa di sbagliato?” “No. Non sei tu il problema. Sono io.” “Tu? Cosa è cambiato? Perché non vuoi stare con me?” “Non posso stare con un ragazzo che non amo. Lo capisci?” “No. Stavamo così bene insieme.” “Adesso non è più così, per me…” “Ah. Forse ho capito.” “Cosa?”
“Ti sei innamorata di un altro?” esplose Mauro, sputando saliva e rabbia repressa. All’improvviso, capì tutto. “Il povero manovale squattrinato, figlio di nessuno, non può andare bene per la nipotina preferita del sindaco di Solus, vero?” Questa volta fu Claudia a tacere. “Benissimo!” gridò il ragazzo. “Messaggio ricevuto. Non mi ero sbagliato… sapevo che tra noi non sarebbe durata a lungo. Ma almeno non chiedermi di restare amici, okay?” Mauro voltò le spalle alla ex ragazza e cominciò a incedere a o di marcia verso la sua Fiat Panda. Era parcheggiata al limite della spiaggia, sotto un gruppetto di pini cresciuti storti a causa del forte vento che in quella zona soffiava senza sosta. Dispiaciuta e preoccupata di restare appiedata, Claudia lo inseguì, correndo e sollevando con le suole nuvolette di sabbia macchiata di catrame. “Mauro! Ascolta! Aspettami!” Lui accelerò, le mani sprofondate nelle tasche. La brezza gli spettinava i folti capelli. Un’onda di marea gli lambì le scarpe da tennis. Non ci badò. Erano tenute insieme dal Bostik. “Aspettami! Ti ho fatto male, scusa…” “Scusa un cazzo!” sbraitò Mauro, inviperito. “C’era bisogno di portarmi qui per mandarmi affanculo? Non potevi dirmelo in piazza? Paura che ti fi una scenata di fronte a tutti?” È quello che stai facendo, pensò lei. Stupido zoticone. Le ombre erano ammassate in mezzo ai cespugli anemici sotto la pineta. I giunchi frusciavano. La notte era alla soglia. “Pensavo fossi migliore delle altre. Invece sei una stronza!” La ragazza incassò quegli improperi con filosofia e continuò a inseguirlo. Le venne il fiatone e una fitta alla milza. Studiare tutti i giorni assicurava ottimi voti al Liceo e buone prospettive per un futuro da disoccupata a tempo indeterminato,
soprattutto nel Sulcis, ma non era il massimo per mantenere una discreta forma fisica. Beh, non si poteva avere tutto dalla vita. Quando lo raggiunse, Mauro stava già aprendo lo sportello sinistro della Panda. L’aveva acquistata di seconda mano, sei mesi prima (dopo aver preso la Patente B), da uno zingaro di Carbonia. Claudia e Mauro, entrambi figli unici, abitavano a con le famiglie. Dopo l’estate e il Diploma di Maturità, lei si sarebbe iscritta come matricola all’Università di Cagliari. Un fatto che aveva pesato parecchio sulle sue decisioni. Irrequieto, Mauro aprì lo sportello, penetrò nell’abitacolo, sprofondò nello scomodo sedile e rialzò il finestrino che aveva lasciato aperto per far circolare l’aria. Sbuffando, Claudia girò intorno al paraurti ammaccato dell’auto ed entrò dalla parte del eggero. All’interno, l’aria odorava di plastica bruciata da sole, polvere e gasolio. I due ragazzi non si guardarono e non parlarono. Chiuso nel suo mutismo, Mauro non mise subito in moto e lei non voleva mettergli fretta. Per quel pomeriggio si era già presa una bella dose di offese. In certe situazioni, bisogna aver pazienza. arono cinque minuti. Nel silenzio statico del buio imminente, il sibilo leggero dei loro respiri era l’unico suono. Annoiata, Claudia aprì il suo finestrino. Un refolo salmastro invase l’abitacolo. La sagoma stilizzata di un abete, sospesa allo specchietto retrovisore, dondolò pigra nella piacevole corrente d’aria. Claudia fissò il paesaggio attraverso il parabrezza, sporco di cemento nelle zone fuori dalla portata dei tergicristalli. Il crepuscolo avvolgeva la pineta artificiale, la spiaggia e la Panda. Ad est, appena prima delle colline, la ragazza poteva scorgere il riflesso della pubblica illuminazione di Solus su uno strato di nuvole. A Ovest, si vedeva ancora la guglia della ciminiera. Il rumore dei flutti che si rompevano sull’arenile era ipnotico. Le mascelle contratte dalla rabbia, Mauro si concentrò su quel suono monotono per calmarsi. Alla sua destra, Claudia contemplava il cielo scuro incastrato tra le chiome dei pini e sembrava persa dietro chissà quali pensieri. Si era sbagliato, prima: quello era lo scenario perfetto per essere mollato. Appeso all’elastico, l’abete di cartone profumato oscillò.
Nessuno voleva parlare per primo, né fare qualsiasi altra cosa, così rimasero muti e immobili, mentre la notte si faceva sempre più buia e silenziosa. Le onde sciabordavano placide nell’oscurità. Ad un certo punto la brezza trasportò un suono lamentoso. Un clacson… pensò Mauro. Un gufo… pensò Claudia. Il lamento non si ripeté. Di colpo, Mauro allungò la mano e accese la sua autoradio Pioneer. Sorpresa da quel gesto, Claudia distolse lo sguardo dalle fronde e lo rivolse per un attimo al profilo spigoloso del suo ex. Mauro non incrociò i suoi occhi e trafficò per qualche istante con il pomello del sintonizzatore. Alla fine trovò l’unico canale, a parte Radio Maria, recepibile in quella zona: Radio Luna. Nell’insenatura, chiusa da campi incolti e aride colline, la trasmissione era debole, disturbata da scariche e fruscii. Dai potenti amplificatori, installati ai lati degli sportelli, eruppe la voce stridula di una bambina. Non poteva avere più di sei anni. “Ciao, Luciano…” salutò la bimba, emozionata. “Ciao, piccolina. Come ti chiami?” domandò il presentatore. “Martina. Telefono da Solus. Sono contenta che ho presa la linea. Ti ho chiamato stasera perché ho perduto il mio gatto. È sparito. Forse è scappato perché ha fame. È strano. Non lo so. Lo rivoglio. Era bravo. È bianco e ha una macchia nera a forma di X sul muso. Se qualcuno lo vede, chiamatemi subito…” Proprio in quel momento, Claudia spense la radio con un gesto nervoso. Odiava quel programma di musica a richiesta. “Perché hai spento?” sbottò Mauro, voltandosi verso di lei. “Parliamo?” chiese lei, posandogli una mano sulla spalla. “No” rispose lui, gelido. Non cercò di sottrarsi al tocco della sua mano, ma fissò ostinato il volante di plastica nera screpolata. “Non c’è nulla da dire. Hai parlato anche troppo.”
“Bene…” sibilò lei, imbronciata. “Allora riportami a casa.” “Agli ordini!” sbottò Mauro, sarcastico. “Come desidera.” Un miagolio lacerante si sovrappose alle ultime sillabe. Sbigottito, Mauro si girò alla sua sinistra, la direzione da cui era giunto il gemito. Vide cespugli, erba e grovigli di tenebra. “Un gatto…” mormorò il ragazzo, con voce preoccupata. “Sì” confermò lei. “Pareva lo stessero strozzando.” Un secondo miagolio, disperato, risuonò nella notte. Vicinissimo. Dalla parte opposta a quello precedente. Spaventata, Claudia si volse di scatto verso il finestrino aperto. Non vide nulla, a parte il buio sotto i pini, ma le arrivò alle narici un’improvvisa zaffata nauseante di ammoniaca, escrementi secchi e pesce marcio. Un miasma simile a quello sul retro del Mercato di Solus, dopo l’orario di chiusura. “Due gatti…” commentò, abbozzando un sorrisetto nervoso. Ora c’erano strani rumori indecifrabili tutt’intorno all’auto. Molti rumori. Troppi. L’oscurità della pineta, all’improvviso, era diventata ostile. “Andiamocene” propose Mauro, guardandosi intorno. Avviò il motore. Nello stesso istante qualcosa di pesante balzò sul cofano. Il tonfo sordo sulla lamiera li fece sobbalzare. Sbarrarono gli occhi e fissarono sbalorditi la cosa. Era un gatto.
Senza motivo, Claudia strillò. Mauro restò impietrito. Il gatto, un enorme soriano grigio, inarcò la schiena, arruffò il pelo incrostato di lappe e soffiò mostrando i candidi canini. Si trovava a trenta centimetri dalle loro facce. Il parabrezza impolverato di colpo sembrò una barriera troppo fragile. Il felino, del peso di dieci chili, aveva il naso secco e spaccato. Le orecchie, piegate in una posa aggressiva, erano sbrindellate. I suoi occhi gialli, screziati di rosso, mostravano nere pupille dilatate a forma di losanga. Un liquido vischioso e scarlatto gocciolava dalle fauci. Le unghie sporgevano dalle zampe. È malato… pensò Mauro. È cattivo… pensò Claudia. D’istinto, Mauro schiacciò frizione e acceleratore. Il gatto avvertì il motore rombare a vuoto sotto di sé, soffiò rabbioso e saltò giù dal cofano. In un attimo svanì. “Portami a casa…” disse Claudia, tremando. “Subito.” Il ragazzo annuì e ruotò la levetta degli anabbaglianti. I fasci di luce inondarono l’oscurità davanti alla Panda e si specchiarono in centinaia di occhi luminescenti con la pupilla verticale. Gatti. Randagi, domestici, di razza, bastardi. Sporchi, laceri, le zanne in mostra, artigli sfoderati, code e orecchie a brandelli, schiumanti bava. In apparenza, erano stati circondati da tutti i gatti del Sulcis. Un evento assurdo e inaspettato. Increduli, Mauro e Claudia si scambiarono un’occhiata. Cominciarono ad aver davvero paura. Il recente litigio era stato già dimenticato e archiviato. Quei gatti non parevano innocui. Ed erano dappertutto. Silenziosi e furtivi, come solo i felini sanno essere, avevano accerchiato la Panda. Si erano assiepati a centinaia, seduti composti sulle zampe posteriori come nelle statue egizie, nel breve tratto di sterrata rischiarato dai fari. L’insolito
silenzio della desolata pineta, nei momenti precedenti al tramonto, ora aveva una spiegazione. Niente grilli, rane o uccelli notturni. Attonito, Mauro scrutò l’immobile schieramento di gatti. Erano in attesa. Di cosa? D’un tratto, all’unisono, tutti i gatti iniziarono a miagolare. Un coro assordante. Andò avanti per una decina di secondi. Poi cominciarono a muoversi. Intorno all’auto, come in un incubo, il terreno sembrò animarsi. Ogni centimetro disponibile, compresi arbusti e pozzanghere, era occupato da gatti miagolanti. Da quanto tempo erano lì? Stavano nascosti in mezzo alla pineta mentre loro litigavano sulla spiaggia? Perché avevano aspettato la notte per attaccarli? Fotofobia? Erano diventati ipersensibili alla luce diretta del sole a causa delle pupille dilatate? Per quale ragione? Se era così, perché la luce accecante dei fari non li intimoriva? Cosa era successo a quelle bestiole? Paralizzati da un terrore ancestrale e irrazionale, i due ragazzi fissarono l’avanzata della massa informe di gatti furiosi. Le orecchie piene di miagolii e soffi, attesero l’assalto. Lo stallo durò poco. Lo stesso gigantesco soriano di poco prima saltò di nuovo sul cofano e, artigliando la vernice, si scagliò come impazzito contro il parabrezza. Uno schizzo di saliva chiazzò il vetro. Mauro urlò: “CHIUDI IL FINESTRINO!” In quello stesso momento, decine di gatti di tutte le razze si accanirono con le unghie e con i denti sulle fiancate rugginose dell’utilitaria, producendo un suono raschiante. Il panico prese il sopravvento. “Ci attaccano!” gridò Claudia. “Vogliono entrare!”
Un randagio tigrato spiccò un balzo e si schiantò di testa contro il vetro. Ripiombò a terra, tramortito. Claudia strillò. Allarmato da quel grido, Mauro si girò verso la ragazza. Il suo finestrino non era chiuso. Non del tutto, almeno. Le zampe, incrostate di fango e sangue, di un persiano magrissimo erano incastrate tra il bordo del vetro e il telaio dello sportello. Il gatto strillò di rabbia e sofferenza. Graffiò il cristallo untuoso con gli acuminati artigli delle zampe posteriori. Era rimasto appeso e sbatacchiava da tutte le parti, miagolando come un indemoniato. “Stai calma!” sbraitò Mauro. “È bloccato. Non può entrare!” Claudia, il viso distorto dall’orrore, trasalì e si rannicchiò tra le sue braccia. Lui la strinse e, nella foga del momento, si ritrovò a baciarla. Lei si irrigidì, ma non si ritrasse. C’è ancora speranza per noi? Pensò lui, lasciandola andare. Non era certo il caso di pensarci in quel frangente. Mauro ingranò la retromarcia e pestò sull’acceleratore. Il motore rombò e si spense. La Panda non si era mossa di un millimetro. Nel frattempo, l’ossuto persiano incastrato nel vetro, iniziò a mordersi furibondo le zampe anteriori, come si sostiene facciano i lupi caduti in una tagliola. Contemporaneamente, altre decine di gatti affondarono i denti aguzzi negli pneumatici rigenerati, nei paraurti. La Panda era seviziata dall’orda felina. “Che cazzo?!” ruggì Mauro… poi capì. Il freno a mano era inserito! “MERDA!” Riaccese il motore, sbloccò il freno e l’auto schizzò indietro, travolgendo e schiacciando e stritolando una cinquantina di gatti. Zampilli di sangue, carne
macinata, visceri calde, pelo, imbrattarono ruote, cerchioni e parafanghi. Anche se dalla loro posizione loro non potevano vederla, la testa mozzata di una bella gatta arancione restò attaccata al tubo della marmitta, i denti affondati nel metallo rovente. Le vibrisse e il pelo del muso s’incendiarono. La Panda arrestò la sua corsa dopo pochi metri, contro il fusto contorto di un pino. Il lunotto s’incrinò, producendo una vasta ragnatela di crepe. Per fortuna non andò in frantumi. Mauro imprecò, inserì la prima, accelerò e sterzò. I proiettori spazzarono la fitta oscurità, rivelando la presenza di alcune centinaia o forse migliaia di gatti. Aggrappati ai rami bassi, tra i cespugli di cisto, nei canali di scolo lungo la stretta e sinuosa strada sterrata che portava fino alla Statale 126 ter. L’unica via di fuga da quel cul-de-sac. C’erano gatti ovunque. Una sola cosa in comune: l’aspetto. Malato e cattivo. Molto cattivo. Mauro schiacciò l’acceleratore e la Panda sobbalzò sulla strada piena zeppa di profondi avvallamenti, avanzando sopra la famelica legione di gatti impazziti. Gli ammortizzatori, scarichi e prossimi alla rottura, gemettero a ogni impatto. Non era la cosa peggiore. Sotto il pianale dell’auto, infatti, riecheggiava un incessante sequenza di tonfi mollicci e schiocchi d’ossa fratturate. Geyser di sangue e gomitoli di budella fumanti schizzavano il parabrezza. L’intera carrozzeria era zebrata di rosso. Nonostante la carneficina, i gatti non retrocedevano. Al contrario, continuarono a scagliarsi con furia suicida contro l’automobile. Mauro zigzagò tra i pini in direzione della sterrata. Decine di gatti, come kamikaze, balzarono sul cofano e si schiantarono uno dopo l’altro sul parabrezza, lasciandovi grumi di ossa, peli e cervella. Altri si immolavano contro le fiancate dell’auto, riempiendo di bozzi le lamiere. In sottofondo, sopra il fragore della marmitta, Claudia udì il rumore dei crani che esplodevano sotto gli pneumatici. Quello che stava capitando, intorno a loro, era inconcepibile. L’infernale gnaulio di quella torma di gatti era insopportabile,
come lo stridio del gesso nuovo sulla lavagna o delle unghie su una lastra di polistirolo. Roba da far accapponare la pelle. “Smettetela!” gridò Claudia, chiudendo forte le palpebre per non vedere e tappandosi le orecchie con i palmi sudati per non sentire. Cominciò a piagnucolare. “Basta! Sto impazzendo!” In mezzo a quel frastuono, sentì la voce soffocata di Mauro. “Che cazzo hanno? Perché fanno così?” Tonfi contro gli sportelli. Ossa sbriciolate. Carne stritolata. Nel buio dietro i suoi occhi, ancora la voce del suo ragazzo. Mio ragazzo? Ma cosa stava pensando? “Ci siamo! La sterrata! Guarda… Mangiano i loro morti!” Claudia tenne gli occhi chiusi. Non voleva vedere nulla. Non voleva sapere nulla. Voleva tornare a casa, fare una lunga doccia bollente e poi mettersi a letto, sotto lenzuola profumate. La nausea le rivoltò lo stomaco. Percepiva il fetore acre, tiepido e metallico degli intestini. Il sangue le faceva schifo. Vomitava quando lo vedeva, anche se era il suo. Soprattutto se era il suo. Bastava una goccia. No. Non doveva pensarci. Troppo tardi. Una bolla acida le risalì l’esofago e si riversò bruciante nella sua bocca. In qualche modo, riuscì a non rigurgitare. Claudia deglutì. Cercò di respirare il meno possibile. Pregò che Mauro la conducesse più in fretta possibile lontano da quell’orrore. “Non ci lasciano!” Mauro era sconvolto. “Non vanno via!” Un urto violento. “Porco Giuda! La cunetta!”
L’auto sbandò. Imprecando, controsterzò, riportò la Panda in carreggiata, superò la curva e imboccò la sterrata. Durante la manovra i fari sciabolarono sopra un triste campo di carciofi abbandonato: raccoglierli sarebbe costato al contadino molto più di quanto avrebbe incassato. Era più conveniente lasciarli andare a male. L’economia globale era una fregatura per l’agricoltore locale. Sbiancando in volto, Mauro frenò e gli sfuggì un gemito. La sterrata era ostruita da un esercito tumultuoso di gatti. “Oh, no, cazzo…” “Perché ti sei fermato?” domandò Claudia, angosciata. Di colpo, a parte il borbottio del motore, calò il silenzio. Nessun miagolio. “Cosa stanno facendo?” bisbigliò Mauro, attonito. A malincuore, curiosa, Claudia aprì gli occhi. Fissò la strada. I gatti erano svaniti, infilandosi nel buio ai lati delle cunette. La luce (che aveva assunto una tonalità rosa, perché il vetro dei fari era coperto di sangue) non si specchiava più in nessuna pupilla verticale. La brezza faceva ondeggiare i rigogliosi ciuffi d’avena selvatica cresciuta ai bordi della sterrata. Il filare di fichi d’India, sulla destra, era un impenetrabile intrico d’ombre. Sopra la loro testa, un manto di nubi si spostava verso la costa. Non ci sono più… pensò Claudia, allibita. Sono andati via! Ruotò gli occhi verso Mauro. Era pallido, i capelli scarmigliati incollati alla fronte dal sudore, le labbra esangui. Dopo aver guidato la Panda in mezzo a un mare turbinoso di gatti imbestialiti, per quella che gli era sembrata un’eternità, adesso… non gli pareva
possibile avere davanti una strada vuota. La cosa gli sembrò buffa. Sorrise. Poi si accorse che Claudia lo fissava sgomenta, gli occhi sbarrati e cerchiati di viola. Le lacrime avevano scavato due righe nello strato di trucco. Claudia ci andava giù pesante con il make-up, come tutte le ragazze di Solus. La ragione di quelle maschere era un mistero. “Dove sono andati?” chiese, con tono incerto. Mauro osservò la sterrata devastata dalle buche, come dopo un bombardamento aereo, poi lo specchietto retrovisore (dove vide il lunotto crepato e il bagliore rosso delle luci di posizione) e, infine, gli occhi scintillanti della sua (ex?) fidanzata. In quel momento, nonostante tutto, si rese conto di amarla ancora. E più di prima. Certe cose non puoi spegnerle. Non esiste un interruttore nascosto. “Boh…” rispose. “Forse siamo usciti dal loro territorio.” Sollevò il piede dalla frizione e la Panda si rimise in moto. La ghiaia scricchiolò sotto le ruote. Senza pensare alle conseguenze, Claudia s’allungò e gli baciò con estrema dolcezza la guancia ispida. “Grazie…” Mauro sorrise di nuovo, continuando a guardare la strada. Niente gatti. Avrebbe voluto accelerare di più, per allontanarsi in fretta da quel posto, ma il terreno era troppo sconquassato per permettergli di superare i sessanta all’ora. Inoltre, dopo quel bacio inaspettato, non aveva più voglia di tornare a casa. In fondo, dovevano ancora parlare. Chiarirsi. Forse se… “Da dove cavolo venivano quei gatti?” domandò Claudia. “Chissà!” Mauro era confuso e frastornato. Lei lo baciava, dopo averlo lasciato senza spiegazioni… e poi pensava ai gatti? “Erano tutti davanti a noi. Stavo quasi per investirli, quando… insomma, nel giro di un secondo sono spariti nel buio.”
“Ci hanno attaccato! I gatti normali non fanno queste cose!” “Che ne so?! Sembravano malati.” “Idrofobia?” “Quella non viene ai cani?” “Boh.” La carreggiata scorreva, piena di fossi, sotto e intorno alla Panda. Al di fuori della portata dei fari, solo tenebre e silenzio. Niente grilli. Niente uccelli. Sul parabrezza, coaguli di sangue e rimasugli di cervella erano sparsi come osceni coriandoli. Sovrappensiero, Claudia girò la testa verso il finestrino. Sgranò gli occhi. Urlò. Poi vomitò: sul cruscotto, sul tappetino e sulle sue Sisley. Mauro staccò subito gli occhi dalla strada. Vide Claudia che si premeva la mano gocciolante di bava sulla bocca. Un attimo dopo, notò quello che le aveva rivoltato lo stomaco. Incastrati nel finestrino socchiuso c’erano i moncherini di due zampe. L’osso, bianco e scheggiato, sporgeva fuori dalla carne squarciata. Due rigagnoli di sangue solcavano il vetro. Gli artigli erano sguainati. Alla fine, quel bastardo di un gatto persiano era riuscito a liberarsi dalla sua tagliola di cristallo. Proprio come un lupo selvaggio, si era amputato a forza di morsi le zampe anteriori. Che coraggio… pensò Mauro, concentrandosi sulla guida. È una follia… pensò Claudia, con un brivido sulla schiena. La ragazza si asciugò le labbra sulla spallina della maglietta, impataccandola tutta di vomito e rossetto. Il tanfo acidulo e nauseante dei suoi succhi gastrici riempiva l’angusto abitacolo.
“Pazzesco, vero?” “Già…” commentò lui, laconico. “Hai notato gli occhi? Sembravano quasi posseduti!” “Non dire scemenze.” Mauro era stanco. La testa gli pulsava. Avrebbe dovuto lavare tutta quella schifezza, dentro e fuori, appena tornato a casa. Prima che seccasse. Bella serata! Tutto il romanticismo era ato. E il mattino dopo doveva anche alzarsi alle sei. Dopo questa avventura non verrò mai più in questo posto! Ridacchiò. “Cosa c’è di così divertente?” sbottò Claudia, irritata. Le sue scarpe sguazzavano in una pozza di poltiglia rancida. Era divertente, in un certo senso. Zampe di gatto appese al finestrino, la carrozzeria coperta di sangue e la sua ragazza viscida di vomito. Oh, sì, davvero una bella serata. Ghignando come un demente, Mauro spostò gli occhi sullo specchietto retrovisore. Risa e sorriso gli morirono sulle labbra. La Panda avanzò, gli ammortizzatori che cigolavano su ogni asperità del terreno, preceduta dalla luce rosa dei fari e seguita dall’oscurità della notte. Il maestrale frusciò tra i fichi d’India. Sbigottito, Mauro fissò lo specchietto. Riflesso nel vetro c’era un gatto. Rannicchiato sulla spalliera del sedile posteriore, immobile, pronto a scattare. Il gatto ricambiò imibile il suo sguardo. Le sue iridi verdi luccicavano. Alle sue spalle, le incrinature sul lunotto erano come vene d’argento. Claudia non si era accorta di nulla. Continuò a lagnarsi e a ripulirsi dal vomito con una
manciata di fazzolettini di carta, presa dal cassetto portaoggetti. Il gatto, silenzioso, dondolò la testa e appiattì le orecchie. Nello stesso istante, Mauro lo riconobbe. Era una coincidenza impossibile. (… ho perduto il mio gatto…) Era lui. Il gatto di Martina. La macchia a forma di X sul muso era inconfondibile. Mauro aprì la bocca per gridare un avvertimento. Proprio in quel momento il grosso gatto spiccò un salto. Atterrò sulla sua spalla destra, soffiando, mentre lui urlava: “ATTENTA!” Non riuscì a dire altro, perché gli artigli taglienti come rasoi del felino gli si infilarono nella morbida carne della gola. Per un caso, o forse no, il gatto gli recise di netto la carotide. Il fiotto di sangue arterioso, caldo e corposo, investì Claudia in piena faccia. La ragazza si era voltata, di scatto, quando lui aveva gridato. Accecata, Claudia inghiottì il sangue, tossì e sputò. Per un attimo non comprese appieno quello che era… Poi sentì il miagolio. Capì tutto. Oh, no… un gatto è entrato mentre noi eravamo in spiaggia! Sentì qualcosa di umido e peloso sfiorarle il braccio. Strillò e tentò di scacciarlo. Nel frattempo, ormai senza controllo, la Panda uscì di strada. Il piede di Mauro era ancora schiacciato sull’acceleratore. Piombò nel canale di scolo, corse inclinata per un centinaio di metri, investì un paracarro e s’impennò. Per un paio di secondi, i proiettori puntarono dritti verso il cielo come il fascio luminoso di
un faro nella notte, poi l’auto si rovesciò in un caos di lamiere accartocciate, plastica rotta e vetri rotti. Restò così, come una tartaruga rovesciata sul dorso. Per un istante, il tempo sembrò rallentare e congelarsi. L’unico faro intatto illuminava un filare di carciofi apiti. I cristalli sbriciolati erano sparsi intorno, come diamanti grezzi. Le ruote giravano ancora, ma sempre più piano. Il radiatore ticchettò, raffreddandosi. L’aria puzzava di gas di scarico. Un rivolo di gasolio usciva dal serbatoio spaccato, sgocciolando su un paraurti contorto e impregnando la terra asciutta. Cinque minuti dopo, le ruote smisero di girare a vuoto. Incastrata nell’abitacolo distrutto e fumigante, con braccia e gambe e spina dorsale fratturate in decine di punti, Claudia alzò le palpebre pesanti e fissò il cielo da un punto di vista per lei inedito. Era bloccata, di traverso, tra il sedile e il cruscotto. Gli arti inferiori piegati a novanta gradi rispetto al busto. Ruotò la testa sul collo rigido, serrando le mascelle per sopportare il dolore, cercando di non svenire. Studiò la prigione sbilenca in cui si era risvegliata. Un minuscolo mondo di plastica e metallo informe. Non avrebbe mai immaginato di sperimentare una cosa del genere. Alla sua sinistra, vide quello che restava del suo (ex?) ragazzo. Anche Mauro era un fagotto informe. Un ammasso sanguinante di muscoli, ossa, nervi e cartilagini. Gli ho detto che non l’ho mai amato… Era una bugia. Perché? Che importa ormai? Claudia richiuse le palpebre. Sto morendo… rifletté, delirante. Pensavo fosse più brutto… Qualcosa le alitò sulla faccia. Un olezzo dolciastro le riempì le narici. A fatica, invasa dal torpore causato dall’emorragia interna, riuscì a riaprire gli occhi. A pochi centimetri dal suo naso c’era un gatto enorme. Bianco. La X nera sul muso. Lunghi baffi sporchi di sangue. Incapace di reagire, Claudia comprese che la vita le sfuggiva come sabbia tra le
dita, eppure non si ribellò alla prospettiva della morte. Il suo corpo spezzato, nell’agonia, pompava in circolo endorfine che rendevano il trao più facile. Come se avesse l’intento di rincuorarla, il gatto si avvicinò alla sua faccia deturpata e cominciò a leccarle il sangue dalla guancia sfigurata dalle schegge. La lingua saettante era ruvida come una lima. I suoi strani occhi giallo-verdi la osservavano. Rassegnata, Claudia pianse. Senza scomporsi, il gatto di Martina leccò lacrime e sangue. Slap-slap, slap-slap… Ricomparvero anche gli altri gatti. Tutti quanti. In silenzio, attorniarono i resti dell’auto, rovesciata sul ciglio del campo, come una marea concentrica di pelo arruffato, artigli taglienti e denti aguzzi. La fissarono, immobili, accovacciati sulle zampe posteriori. Le orecchie tese. In attesa del loro turno. Il gatto bianco con la X era forse il capo branco? Claudia era appena arrivata a quella conclusione, quando lui smise di leccarle il viso e iniziò a masticarle l’orecchio sinistro. La repentina variazione nell’intensità del suo dolore superò la soglia anestetica prodotta dalle endorfine. Anche se, in mezzo a quella desolata campagna, nessuno poteva udirla, Claudia urlò. “Oh, no! Mamma mia, NO!” Con la coda dell’occhio, distinse un gruppo di gatti che si avvicinava, o dopo o, al cadavere di Mauro: affamati e spietati. La fine era vicina. Claudia decise di andarle incontro. Aspettate che sia morta, prima di mangiarmi… pensò. Chiuse le palpebre, emise un gemito e perse conoscenza.
Non aspettarono.
10 – RITAGLI
Allontanarsi da quella scena è un sollievo. Hai visto anche troppo, di certo più di quanto volevi. Non conoscevi quei ragazzi, eppure la loro morte ti ha sconvolto… Che nesso c’è tra quella storia e le precedenti? Quando ti concentri, per avere qualche altra notizia, vedi questo articolo:
Estratto da L’UNIONE SARDA del 14 Aprile 1994.
NOTIZIE IN BREVE. Curiosa segnalazione degli abitanti di Solus al nostro corrispondente nella zona. Pare che da alcuni giorni tutti i gatti del paese e i suoi dintorni, randagi e non, si siano misteriosamente dileguati. “Svaniti nel nulla”, ha affermato, romanzescamente, uno degli intervistati. “Non ho più visto un gatto dalla settimana scorsa.” Ignote la cause della loro repentina scomparsa.
Con il senno di poi, la notizia è meno banale. Non hai tempo per rifletterci, però, perché una forza invisibile ti afferra e trascina la tua coscienza verso un’altra coordinata. Il paese che vedi, come in un’immagine ravvicinata di Google Earth, si muove lento sotto la bolla di quiete che ti circonda. È assurdo. No, no… la parola giusta è: psichedelico. È questo che prova chi si impasticca di LSD? Probabile. Per un attimo, sperimenti una brutta sensazione, molto simile allo sgradevole mal di mare che ti ha colpito sul traghetto della Tirrenia Genova-Porto Torres. La dislocazione della tua coscienza è inevitabile. Non hai nessun controllo sul fenomeno. Lo subisci.
Dato che non puoi farci proprio nulla e che, in fondo, è stata una tua decisione sottoporti a quell’esclusiva tortura psicologica, decidi di prendere le cose così come vengono, sperando di trarne vantaggio, senza opporre resistenza. Sarebbe uno spreco di forze. È un viaggio di cui non conosci la durata, lo scopo e la meta. Sai soltanto una cosa: ogni tappa corrisponde a una visione. La bolla si ferma sopra il tetto di una casa. Perforando un velo di vapore acqueo, la tua coscienza viene attratta verso il suolo, come un pezzo di ferro da un potente magnete. A grande velocità, precipiti dritto contro le tegole. Nel silenzio della caduta, cominci a vedere delle parole. Scritte a mano su fogli protocollo, quelli che usavi a scuola per i temi di italiano. La calligrafia è precisa, ordinata. “Mi chiamo… no, niente nomi. È inutile.” Cominci a leggere. Non puoi farne a meno.
11 – SILENZIO
Mi chiamo… no, niente nomi. È inutile. A che serve un nome nel silenzio? A nulla. Questa è la mia storia, o almeno, parte della mia breve storia di ventenne. L’unica che valga la pena di scrivere. Scrivo nel chiarore della luna, che penetra dalla finestra aperta nella quale è incorniciata, in alto a destra. Le stelle pulsano, sopra una fettuccia scura di nuvole filamentose, posate sul profilo eroso delle colline. Rivolgo uno sguardo al pallido satellite. Immagino un volto, in rilievo sul disco latteo, ma non riesco a metterlo a fuoco. Non c’è nessun volto lassù. Solo crateri, circhi montuosi e depressioni polverose. Nessuna faccia sorridente. Io non la vedo. Non l’ho mai vista. Una notte, un amico romantico e ubriaco me l’ha additata. “Non sembra una faccia?” mi ha chiesto. “No…” ho risposto. Sorrido alla luna senza volto. Come un ritardato mentale. Tanto non c’è nessuno, qui, a farmelo notare. Non c’è mai nessuno. Scrivo queste parole, frasi, solo per me. Le rileggerò, forse, domattina… poi brucerò tutto. Faccio sempre così. Scrivo la notte e brucio all’alba. Cenere nel camino a ricordo di notti di insonnia. Polvere in una bara a ricordo di una vita. È possibile sentire il silenzio? Credo di sì. Ci sono due diverse tipologie di silenzio: quando nessuno parla e quando
nessuno ascolta. Muti e sordi. Ecco cosa siamo. Parliamo e non diciamo, ascoltiamo e non sentiamo. Questo è il vero silenzio. Parlare senza dire, ascoltare senza sentire. Questa è l’essenza della solitudine. Questa è anche la base dell’episodio che volevo raccontare, in questa notte mite e senza vento, davanti alla luna butterata e senza faccia, come la maggior parte degli uomini. Teste prive di volto, anonime, nascoste da maschere inespressive. Nessuna emozione, a parte quelle che noi (stupidamente) attribuiamo loro. Non voglio divagare, però. Può essere utile quando si scrive per gli altri, ma è superfluo se lo si fa solo per se stessi. Non c’è nessun Premio da vincere, nessun critico egocentrico da sollazzare nella sua vanità. Il silenzio è tutt’attorno a noi, spesso dentro di noi, quindi non alimentiamolo con vuote introspezioni o riflessioni sempliciotte. Tutto è vano. Per altri questo potrebbe non essere vero silenzio, per me lo è. Quello che un altro scrive per me non è silenzio, per lui lo è. Voce di colui che grida nel deserto? L’universo stesso, Big Bang incluso, è un luogo silenzioso. Vengo al dunque. L’episodio è questo.
Un anno fa. Secondo lunedì di Gennaio. Tardo pomeriggio. Percorrevo a piedi (come faccio di solito) la strada appartata che separa la Biblioteca Comunale da casa mia. Settecento metri di vecchio asfalto. Alberi scheletrici da un lato e un marciapiede di sconnesse mattonelle grigie e marroni sull’altro. Incrociai una ragazza, che spingeva affannata la bicicletta. Una variopinta mountain-bike. La ruota anteriore era sgonfia. Quella mattina aveva piovuto. L’asfalto era ancora bagnato, i rami spogli degli alberi sgocciolavano, il marciapiede era ridotto a una lunga pozzanghera. Nel cielo, a est, era rimasta
qualche nuvola color melanzana. La ragazza, che avanzava sbuffando a testa bassa, indossava una cappa stile Hobbit con il cappuccio verde pastello. Sotto l’orlo dell’impermeabile, vidi un paio di jeans strappati sulle ginocchia. Schizzi di fanghiglia inzaccheravano le sue scarpe da ginnastica. Dal cappuccio, allacciato sulla gola, spuntava la sagoma di un viso ovale. Un’ombra obliqua le copriva gli occhi. Quando la ragazza si avvicinò, la osservai meglio. Intravidi disordinate ciocche di capelli biondi, tagliati corti. Rallentai il o. Era a due metri da me, adesso. La testa della ragazza cambiò angolazione e potei scorgere un paio d’occhi verde chiaro, molto grandi, ombreggiati da lunghe ciglia ricurve all’insù. Labbra rosa, carnose e sensuali. Cambiai subito idea, non era affatto un viso normalissimo. Mi piaceva. Una graziosità insolita. Non l’avevo mai vista prima. La ragazza, boccheggiante, mi transitò accanto. La seguii con lo sguardo, incapace di trattenermi. Stringeva il manubrio con forza, concentrata, mani tremanti. La gomma cigolava. La ragazza si fermò. Anche il mio cuore sembrò arrestarsi, oppresso da un’emozione intensa, inspiegabile e improvvisa. Un’emozione che esplose come una supernova quando lei mi sorrise. Abbassai gli occhi sui miei scarponcini Lumberjack con le suole a carrarmato, consumate ai lati esterni dei tacchi. Una bella voce, chiara e dolce, disse: “Scusa…” Sollevai subito lo sguardo. Incontrai i suoi occhi e ne restai subito folgorato. Non sono romantico, spero che si sia capito, non credo al colpo di fulmine, all’amore a prima vista, all’amore in generale. Tuttavia, in quel momento, capii
che potevo innamorarmi di quella ragazza sconosciuta. Alcuni (scienziati, come quelli che hanno inventato la bomba atomica) sostengono che è tutta una questione di chimica. Credo che succeda a tutti gli uomini. Quando incontriamo una ragazza, sentiamo dentro qualcosa (spesso a inosservato) che ci dice se in futuro potremo innamorarcene o meno. Non riesco a spiegarmi meglio. Non so. Forse capita solo a me. Forse è soltanto una mia sciocca fantasia. Non ne ho mai parlato con nessuno. “Bucato?” ho chiesto, raggiungendola dall’altro lato della strada allagata. Ho attraversato senza guardare. “No…” ha replicato, seria. “Collaudo un prototipo.” La mia faccia si è incendiata all’istante. Non mi aspettavo una risposta così ironica e sferzante. Stavo per ribattere con qualcosa di spiritoso, ma lei mi precedette. Fortunatamente, perché a volte perdo le staffe sul serio e rispondo molto male alla gente che mi deride senza ragione. Sono fatto così. “Scherzavo!” esclamò lei, sorridendo. “Ti sei offeso?” Mostrandomi meravigliato (non dovetti impegnarmi), scossi la testa, sorrisi anche io e mentii: “Io? No. Avevo capito.” “Meno male.” “Eh, già.” Ci fissammo per un po’, cercando le parole più giuste e meno imbarazzanti per continuare il dialogo. Non era facile. “Ti serve aiuto?” ripetei, alla fine. Repetita iuvant, dicono. “Magari…” sospirò lei, guardandosi intorno. “Questo paese sembra disabitato! Non ho visto nessuno, a parte te. Ho bucato sulla strada bianca, dietro la fascia frangivento. Laggiù. È mezz’ora che spingo! Devo tornare a casa e tra poco farà buio.” “Non sei di Solus?” “Sono di Matzaccara.”
“Come mai da queste parti?” “Cercavo lumache…” rispose lei. “Quando ha smesso di piovere sono saltata sulla bici e sono venuta a Solus. Lo faccio spesso. Mi piace la campagna qui vicino. È ancora selvaggia.” “Non ci sono lumache nel tuo paese?” “Ci sono, ma secondo me sono tutte avvelenate dalle ceneri tossiche della fabbrica. Qui, almeno, siamo un po’ più lontani da quelle schifose ciminiere. L’anno scorso ho scoperto un campo dove ne ho trovate. È un posto speciale, appartato e nascosto da siepi. Nel mezzo c’è un cerchio di megaliti. Grosse pietre, gialle e rosse di licheni… C’è una strana atmosfera. Cos’è quella faccia? Non dirmi che tu non ci sei mai stato!” “Mai.” “Mai? Perché?” “Non mi piace avvicinarmi a Perdas Fittas.” “È uno di quei luoghi misteriosi di cui parlano in tv, vero?” Annuii, confermando la sua teoria, senza alcun motivo. “Posso aiutarti?” domandai, per cambiare discorso. “Non so. Dovrei aggiustare la ruota… e si sta facendo tardi. La dinamo del faretto non funziona. Non prendermi in giro, adesso, ma pedalare al buio mi fa sempre molta paura.” Mi esaminò, inibita e disturbata dal dover chiedere aiuto a un perfetto estraneo, per giunta neppure del suo paese. “Ho la soluzione al tuo problema” affermai. “Sì?” “Sì. A casa ho una di quelle bombolette… sai, una di quelle per aggiustare gli pneumatici. Le vendono al distributore.”
“Capito. Le conosco.” “Vado a prenderla e torno.” “Abiti lontano?” Indicai un punto alle sue spalle. “La porta gialla.” Si voltò e guardò la porta. “Fantastico! Ti aspetto qui?” “Ci metto un attimo: poso il libro e prendo la bomboletta dal garage. Due minuti e sono qui. Okay?” Dopo averle rivolto un sorriso rassicurante, da uomo di mondo fatto e finito, mi avviai con o disinvolto e rapido, sapendo benissimo che lei mi osservava. Penso di aver sorriso più quel pomeriggio che nel resto della mia vita. Non era così spiacevole, anche se faticoso. “Ehi!” mi chiamò. Senza fermarmi, girai la testa e le domandai: “Cosa c’è?” “Grazie!” “Di niente.” Con il cuore pieno di allegre farfalle colorate, saltai sul gradino di marmo della soglia. Aprii la porta con la chiave ed entrai in casa. All’interno c’era il solito aroma stantio: fumo di sigarette MS (che fumava mio padre) e lumini da camposanto (che mia madre accendeva ogni giorno sotto la foto incorniciata e listata a lutto di mia sorella maggiore, uccisa da un folle sconosciuto nella piazza principale di Solus). In quel momento, la casa era deserta. I miei genitori erano andati a Sant’Antioco per comprare non so cosa. Andai in camera mia, posai il libro sul comodino e mi guardai intorno per vedere se c’era qualcosa fuori posto. Qualche volta, sempre più spesso, mia madre rovistava tra le mie cose in cerca di riviste pornografiche o qualsiasi altra cosa potesse compromettere la salvezza della mia “anima immortale”. È una bigotta fanatica, sempre in prima fila alle messe di don Antioco. Sopratutto dopo la morte violenta di mia sorella. Per conto mio, a parte il funerale di quest’ultima,
l’ultima volta che sono entrato in chiesa è stato per la Cresima. Ricordo ancora il sapore amarognolo e la consistenza gommosa dell’ostia. L’ho presa senza confessarmi. Mamma dice che sono un “miscredente comunista”, proprio come quel “grasso e analfabeta e alcolizzato e fannullone scansafatiche di tuo padre”. Quest’ultimo è un cassaintegrato da innumerevoli anni. Sul ripiano della mia scrivania graffiata c’era un libro di trigonometria, con una matita Staedtler HB per tenere il segno. L’estremità della matita era mordicchiata come quella della penna Bic con cui sto scrivendo adesso. È un vizio idiota. So che è stupido, infantile e dannoso, ma non riesco a liberarmene. Uscii dalla stanza e raggiunsi il garage dall’ingresso interno. Cercai la bomboletta nel cassettone sotto il banco di lavoro, in mezzo a chiavi inglesi, cacciaviti, cartucce di grasso, martelli e chiodi assortiti. Niente. Provai negli scaffali. Niente. Alla fine la rintracciai dentro un secchio incrostato di cemento a presa rapida, sotto a un cumulo di strofinacci imbrattati d’olio motore bruciato e appiccicosi di segatura. Sembrava ancora piena. Mio padre l’aveva comperata al distributore dell’Agip. L’unico di Solus. Nello spiazzo vicino al cimitero. Non l’aveva mai usata e probabilmente si era pure dimenticato della sua esistenza. È bravo a dimenticare. Come tutti gli abitanti di Solus, d’altronde. È genetico. Comunque sia, tornai in strada neanche sessanta secondi dopo, lasciando aperta la porta di casa per far circolare l’aria. Lei aspettava paziente sul bordo della strada. Aveva messo il cavalletto alla bici, ora stava inclinata e si specchiava obliqua su una pozzanghera che, nella forma, assomigliava all’Africa. Dal manubrio stillavano sporadiche gocce: producevano perfetti cerchi concentrici sulla superficie marrone dell’acqua. La ragazza si era levata il cappuccio e mi osservava con le braccia conserte su un seno tutt’altro che indifferente. Con l’impermeabile chiuso, non l’avevo visto. Cercai di non fissarlo troppo a lungo. Per distrarmi osservai i riccioli dorati che spuntavano dalla sua nuca e le ciocche incollate alla sua fronte. Il taglio era quello che dal parrucchiere si definisce “sbarazzino”. Sì, era una ragazza piuttosto attraente. Le andai incontro, camminando piano stavolta. Stringevo la bomboletta nel palmo umidiccio. Il raccordo di plastica trasparente era fissato con un doppio giro incrociato di elastico.
“Ho fatto in fretta, visto?” “Più veloce della luce… Caspita, qui è proprio un mortorio!” “La popolazione di Solus è in calo. Pochi nati, molti morti.” “Crescita sotto zero, eh? Non c’è una bella atmosfera.” Sfilai l’elastico dal raccordo. “Ripariamo la ruota?” Posò con noncuranza una mano sulla mia spalla. “Grazie. È stata una fortuna incontrarti! Ehi! Non mi sono presentata!” Tese di scatto la mano destra. “Mi chiamo Lilly.” Le strinsi la mano velocissimo, senza indugiare, non volevo che si accorgesse che la mia era viscida come una seppia. “Piacere. Io sono…” Le dissi il mio nome. “A scuola tutti mi chiamavano lillipuziana, naturalmente.” “A scuola sono tutti ignoranti…” L’avevo messa giù così, senza neppure riflettere sul doppio senso. Nessuna premeditazione. “Okay. Ci siamo presentati. Aggiustiamo questa ruota!” Accovacciati, spalla contro spalla, sul fianco della bicicletta, fissammo insieme la ruota sgonfia per qualche istante. La valvola era a ore quindici. Bene. Svitai il piccolo tappo di plastica nera e, poi, agganciai il raccordo della bomboletta. Lilly aveva seguito ogni mio gesto con estrema attenzione. Ogni tanto la spiavo con la coda dell’occhio. Potevo avvertire il calore emanato dal suo corpo. Profumava di rose e muschio. Percepivo il suo fiato. Ero emozionato, senza sapere perché. “Sei gentile…” osservò, studiando il mio profilo. “Una vera rarità, eh?”
Per un attimo, quando si era voltata verso di me, avevo avvertito il suo alito sul collo. Una sensazione inebriante. Per distrarmi avevo schiacciato il pulsante rosso in cima alla bomboletta. C’era stato un sibilo, poi una collosa schiuma bianca aveva cominciato a riempire il raccordo e a fluire, espandendosi, nel pneumatico bucato. Subito la ruota aveva iniziato a gonfiarsi. Era la prima volta che eseguivo una riparazione di quel tipo. Non ero un apionato di motori. “Iuhu!” esultò Lilly, cingendomi le spalle con un braccio. “Iuhu…” ripetei io, a bassa voce. Più fuso di un fusibile. Quando, a occhio e croce, stimai la ruota abbastanza gonfia (saggiando la pressione da esperto, tra pollice e indice), smisi di schiacciare il pulsante. Svitai il raccordo, misi il tappo alla valvola e sistemai l’elastico intorno alla bomboletta. Ci rialzammo e allontanammo di mezzo metro. “Bisogna solo far girare un po’ la ruota…” suggerii. Senza attendere altre istruzioni, Lilly aveva impugnato il manubrio e spostato il cavalletto con il piede. Poi aveva sollevato da terra la ruota anteriore. Io l’avevo fatta girare con un breve colpo della mano. Oltre che molto carina, era anche una ragazza pratica e sveglia. Tutti e due guardammo la ruota girare, girare, girare, in silenzio (a parte il cigolio del mozzo) fino a che si era fermata. Spezzando l’incantesimo, le dissi: “Così può bastare.” “Bene…” aveva risposto lei, arricciando le labbra turgide e appoggiando di nuovo la ruota sull’asfalto. “Non so come…” “L’hai già fatto.” “Come?” “Non lo saprai mai.” “Ah! Come sei enigmatico… Comunque, grazie lo stesso.”
“Di nulla.” Lilly aveva scrutato il cielo, le case, la strada vuota e gli alberi. Alla fine aveva riportato di nuovo lo sguardo su di me, impalato accanto al marciapiede, come un monumento vivente alla stupidità maschile: una mano in tasca e l’altra occupata dalla bomboletta semivuota. Non sapevo cosa aggiungere. Lei consultò l’orologio. “È tardi. Devo andare.” “Vai in quel campo?” “No. Col buio diventa un brutto posto. Torno a casa. Devo fare un po’ di compere prima che chiudano la bottega.” Non dissi nulla, ma ero molto felice della sua decisione. Perdas Fittas, alla sera, era un posto poco raccomandabile. La esaminai mentre inforcava agile la bicicletta, immobile, imprimendomi ogni dettaglio nella memoria. Si era rimessa in testa il cappuccio. Un’ombra obliqua le nascose il viso. Aspettò qualche secondo. Un piede sul pedale, l’altro sull’asfalto. Sembrava che volesse dirmi qualcosa, prima di andarsene. Qualcosa… “Ciao…” le dissi io, stupido, pentendomene all’istante. Pausa. “Ciao”. Poi era partita. L’avevo seguita, gli occhi lucidi, mentre pedalava veloce e si allontanava lungo la strada deserta. Prima di svoltare l’angolo, in fondo all’incrocio, mi salutò con un veloce cenno della mano. Non l’avrei mai più rivista. Questo pensavo, paralizzato su quel marciapiede, stordito come dopo un sogno violento e luminoso. Probabilmente lei mi avrebbe dimenticato, pochi metri dopo aver svoltato l’angolo, mentre per me sarebbe rimasta un ricordo
indelebile. Lilly. Una voce nel silenzio.
Questa è la storia. Insignificante e ingenua come le digressioni di cui scrivevo qualche pagina prima. Potevo innamorarmi di lei? Sì. In un certo senso l’ho fatto. Anche se lei è andata via pedalando, per sempre, dimenticandomi. Potrei anche cercarla e trovarla (abita nel paese accanto, in fondo)… ma non lo farò. Mai. Il momento è ato. L’attimo fuggente era in quella pausa prima del suo “ciao”. Guardo la luna. Immagino un viso… e stavolta lo vedo. Lo vedo! Nei crateri ombreggiati, monti corrosi, mari di polvere. C’è una faccia lassù. Un volto di luce e oscurità. Lo vedo, in quel gioco indefinito di contrasti. Distinguo gli occhi, le labbra, la fronte… Lilly. C’è un’uscita d’emergenza da questo eterno silenzio? No. Non c’è. Che io, dopo un anno, sia ancora innamorato di una ragazza che ho incontrato una sola volta, per pochi minuti, significa soltanto che il silenzio assoluto intorno a me è impenetrabile. Un silenzio che la sua voce allegra ha rotto per miracolo, un desolato pomeriggio nuvoloso, mentre rinunciava a cercare le lumache in un campo che con il buio la intimoriva. Un bel ricordo, Lilly. Niente di più. Non sono innamorato di lei, no, ma del suo ideale ricordo. Non voglio rovinarlo con lo squallore del quotidiano. Per questo non ho
intenzione di cercarla, trovarla e scoprire che neanche si ricorda chi sono. Una cosa così mi ucciderebbe. Quindi, mi alzerò da questa sedia scomoda, accenderò la luce e raccoglierò le pagine. Le chiuderò nel cassetto per questa notte. Domattina presto, prima di uscire, forse le rileggerò. Lo so. Non ho scritto un capolavoro immortale. Non c’è nulla di significativo in queste mie parole. Butterò tutto nel fuoco e guarderò le fiamme lambire, bruciare, accartocciare, annerire, disgregare e incenerire la carta. Infine, smuoverò la cenere con l’attizzatoio, spargendola sul fondo del caminetto. Non resterà nulla. Come sempre. Non conservo niente. Tranne i ricordi. Sono fatto così.
12 – LA BOLLA
Dalle ceneri di quelle pagine bruciate, la tua coscienza riprende forma, ritrovandosi ancora una volta prigioniera della bolla. Come un pallone aerostatico, al di sopra di Solus, oscilla e vaga tra umidi banchi di nuvole, in cerca di un altro obiettivo. Un altro racconto. L’ultimo ti ha lasciato leggermente perplesso, per la sua apparente insipidezza. La banalità della quotidianità. L’incontro fortuito che potrebbe cambiare la vita incolore di un ragazzo qualunque e, invece, lascia tutto invariato. Conosci quella sensazione. L’hai vissuta in prima persona. L’impressione che il paese ti stia stretto e il mondo largo. La bolla si sposta di nuovo e si posiziona sopra il cortile di una casetta di periferia, nei pressi della strada che conduce alla “zona industriale”. Alle sue spalle un vecchio canale di cemento, residuo della miracolosa bonifica fascista, pieno di arbusti, canne e mobili distrutti. Al tuo aggio, le nubi si diradano e le ombre si allungano. In mezzo al cortile, invaso dalla gramigna, ci sono due bambini… Quello più magro esclama: “Roby! Guarda! Guarda!” Sai già cosa accadrà adesso… e lasci che accada.
13 – ROBY
All’inizio quasi non se ne accorge. Glielo fa notare il suo MIGLIORE AMICO, Beppe. Beppe ha sette anni fatti, come Roby, però a scuola non ha bisogno dell’INSEGNANTE DI SOSTEGNO. Beppe non è un RITARDATO. Beppe Atzori è anche l’unico bambino coetaneo che parla e gioca con Roby. “Roby! Guarda! Guarda!” esclama Beppe, all’improvviso, assestandogli un doloroso manrovescio sulla schiena. Roby è più alto e robusto di Beppe, ma Beppe è più sveglio e attivo: quello che i GRANDI chiamano un BAMBINO VIVACE. Stanno su un anemico prato di gramigna, nel cortile dietro la casa di Roby, alla periferia di Solus. Dopo la casa di Roby c’è solo campagna, una fascia di eucalipti, la zona industriale e le colline. Beppe abita accanto al cimitero. La sua famiglia gestisce da sempre il distributore AGIP di Solus. L’unico posto in cui è possibile rifornirsi di benzina, gasolio e olio. Quasi ogni sabato pomeriggio, la madre lascia Beppe “a giocare” con Roby. Lei ne approfitta per andare a Carbonia e fare lo shopping. Di solito lo porta dopo pranzo, con la sua preistorica Fiat 600 blu, poi viene a riprenderselo verso le 17.00. Ma sempre prima del tramonto, comunque. A Solus solo i “poco di buono” circolano dopo il crepuscolo. È una regola non scritta, ma sempre in vigore. Un vero coprifuoco. Roby e Beppe sono “compagni di merende” e di classe, la 2° elementare. A Solus ci sono solo le Scuole Elementari e Medie. Per il Liceo, le Magistrali o Professionali, bisogna scegliere se spostarsi in autobus a Sant’Antioco o Carbonia. I pochi iscritti all’Università si trapiantano a Cagliari. Quasi tutti, per una ragione o l’altra, non tornano più in paese. “Cosa?” risponde Roby, massaggiandosi la spalla dolente. “Guarda! L’hai morta…” replica Beppe, entusiasmato.
Indica qualcosa ai piedi dell’amico. È pallido, magro, le orecchie a sventola, un groviglio di capelli rossi sulla testa e una spruzzata di lentiggini a cavallo del naso. I ragazzi più grandi lo prendono spesso in giro soprannominandolo “cagaredda ’e musca”: diarrea di mosca. Beppe non si rattrista più di tanto: sa prenderle, ma soprattutto darle. Oltretutto, quando per malasorte alloggi accanto al Cimitero e la tua mamma va ogni sabato sera a fare “lo shopping” (e torna senza aver mai comprato nulla da mangiare), lo sberleffo continuo del vicinato è garantito. “Eh?” ribatte Roby, perplesso, fissandosi le scarpe logore. “Sei cieco? L’hai morta! Quella lì!” Roby si accovaccia ed esamina con attenzione la gramigna. Cerca la cosa che ha morta. Forse è nascosta nell’erba secca. Morto. È una parola che sente spesso in televisione. Però non ha ancora capito bene cosa significa. Di solito qualcuno lo dichiarava a qualcun altro quando un altro ancora cadeva a terra e dopo non si rialzava più. Non si muoveva più. Restava immobile come un albero. Ecco allora che quelli dicevano: “Oh, mio Dio, è morto!” Naturalmente, Roby sapeva che non era VERO. Era soltanto una FINTA. Una sera, mentre guardavano l’Ispettore Derrick, Papà gli aveva spiegato tutto: appena il telefilm finiva, quelle persone MORTE si rialzavano. Poi ridevano e andavano “a mangiare in ristorante”. Fare il MORTO era un bello SCHERZO. Se eri un ATTORE FAMOSO dei film americani, addirittura ti pagavano per fare il MORTO. Papà, quando non era di turno in fabbrica, vedeva un sacco di film e telefilm americani con la gente MORTA. Mamma, invece, leggeva un sacco di libri. “Dov’è?” chiede Roby, pacato e serio, come suo solito. Beppe si avvicina. “Qui! Non la vedi?” Indica una formichina spiaccicata in mezzo all’impronta della scarpa di Roby. Il cortile è sempre pieno di formiche. Soprattutto in quella stagione. Finora, Roby
non ci aveva mai badato. Gli insetti non gli piacevano, meglio i dinosauri. “L’hai streccata!” grida Beppe, saltellando come un grillo. “L’ho schiacciata…” lo corregge lui, scuotendo il testone. Roby non parla mai in sardo. È VIETATO. La Mamma dice sempre che quella è “la lingua dei pastori ignoranti”. Visto che lui è già nato MONGOLO, “ci manca solo che adesso parli in dialetto”. Roby non capisce, ma si adegua. Roby a l’indice sui resti della formica, esaminandone la rigida corazza cheratinosa con l’unghia smangiucchiata. In effetti, come nella televisione, non si muove più. Quindi è, per definizione, MORTA. Tuttavia, non gli sembra che, quando lui e Beppe se ne andranno via dal cortile, quella formica si possa rialzare, ridere e poi andare a cenare in ristorante con tutte le altre formiche. Proprio no. “L’hai morta! L’hai morta!” lo canzona Beppe, girandogli intorno, con le guance della stessa tonalità dei capelli. Forse non ha bisogno dell’Insegnante di Sostegno (forse), però non avrebbe mai vinto il Nobel. Come nessun altro a Solus. “Uffa!” sbotta Roby, irritato. Si rialza e spazzola il fondo dei pantaloncini. Riflette. Analizza la formica morta. È un fenomeno curioso. Lo “stuzzica” (è un’espressione tipica della mamma, quando compra uno dei suoi romanzi con le strane copertine). Alla fine, commenta: “È bello, vero?” Stavolta è Beppe a fare la faccia perplessa. “Bello cosa?” “Lo scherzo.” “Che scherzo?” “Lo scherzo del morto…” spiega Roby, tranquillo, come se il RITARDATO fosse l’amico. “C’è un sacco di gente che lo fa. Ogni giorno. In tutto il mondo. Non lo sai? Mi stuzzica.” Beppe aggrotta le folte sopracciglia. Sa che il suo amico è STRANO, ma continua a frequentarlo perché lo fa ridere e può prenderlo in giro senza rischiare le botte. “Ma che dici? Non è bello. Non è mica uno scherzo. L’hai morta e
basta.” Roby lo osserva, strusciando i piedi, con un sorrisetto di sufficienza sulle labbra carnose. I suoi occhi scuri dal taglio orientale (MONGOLOIDE, dicevano a scuola) brillano. Una folata di maestrale gli scompiglia i lunghi capelli castani. “A me piace!” sentenzia, con voce squillante. “Comunque, non si dice: l’hai morta. Ignorante! Si dice: l’hai uccisa!” Roby è un RITARDATO, sì, ma parla bene l’italiano per un bambino sardo della sua età. Ci mancava solo quello. In quel momento, un clacson risuona nell’aria bollente del tardo pomeriggio. Nel vicino canale d’irrigazione, invaso di immondizie, frigoriferi, scarti edilizi ed erbacce, grilli e rane già accordano gli strumenti per il Gran Concerto notturno. “Boh…” commenta Beppe corrucciato, infilandosi le mani nelle tasche sformate della giacchetta. “Se lo dici tu.” “Sì…” sibila Roby, scrutando le fronde degli eucalyptus che si agitano in lontananza, dietro lo stradone, prima delle colline. “L’ho sentito ieri sera nel telegiornale delle otto!” Per un po’ si fronteggiano in silenzio, pronti al duello. Poi dalla porta sul retro arriva il richiamo lacerante della Mamma: “Roooby! Beppe! Basta giocare! Tornate dentro!” Ubbidiscono. Beppe non verrà mai più “a giocare” con Roby.
Più tardi, Roby, seduto da solo nella cucina, sorseggia una bottiglietta di succo di frutta alla pesca e finisce di disegnare una mappa approssimativa di Solus nel suo album Fabriano. Non è venuta bene. È più difficile immaginare il paese visto dall’alto. Come gli è venuta quell’idea? Dopotutto non farà mai il geometra. È già molto se ti faccio fare le elementari, diceva sempre la Mamma. Roby sbuffa e chiude l’album.
Ascolta il ronzio del frigorifero. Pensa. Guarda il sole che tramonta piano, dietro le colline rocciose, incorniciato nella finestra. Pensa. Il succo finisce. Getta la bottiglietta vuota nella pattumiera. Riordina le matite colorate. Qualcosa, nel suo astruso cervello, alla fine, si incastra nel posto giusto. Roby sorride. Esce dalla cucina e cerca la Mamma.
La trova al suo solito posto, in salotto, stesa sul divano, le ginocchia piegate a V rovesciata sotto un plaid stropicciato e cosparso di peluzzi grigi di gatto. È immersa nella lettura. Gli occhiali da presbite stanno in bilico sulla punta del naso. Avvicinandosi, Roby sbircia il titolo del libro in edizione economica, preso in prestito dalla Biblioteca Comunale di Solus: STEPHEN KING, LA META’ OSCURA. Ritratta sulla copertina sciupata c’è una figura nera. Roby, anche se si esprime piuttosto bene, ha imparato a leggere e scrivere da appena un anno. Non è interessato. Preferisce la televisione. I libri sono noiosi: poche immagini e nessuna esplosione. “Mamma?” “Mmmh…” mugola lei, senza staccare gli occhi dal libro. È una donna piccola, gracile, nervosa, capelli neri venati d’argento, scompigliati e trascurati. Indossa sempre jeans e maglioni di una taglia più grande. Non fuma più da quando ha partorito Roby (“il tabacco mi ha fatto concepire un figlio guasto”, almeno così dice a parenti e amici), eppure l’indice e l’anulare della sua mano destra sono giallastri di nicotina. Dorme pochissimo, mangia male e cucina peggio. Le sue frasi ricorrenti erano: “Non sono la tua schiava”, “maledetta l’ora che ti ho sposato”, “ci manca solo quello” e “Mmmh”. Imperterrito, Roby dice: “Ho ucciso una formica.” “Mmmh…” replica la Mamma, per nulla interessata. Non è una novità. Non le interessa mai niente. A parte le storielle scritte nei
romanzi. In quel momento, di sicuro, le imprese di George Stark sono più coinvolgenti delle solite stupidaggini e fantasie bambinesche di Roby. Avere un figlio MONGOLOIDE è una rottura di coglioni quotidiana. Più cresceva e più rompeva, più rompeva e meno lo sopportava. Sentendosi ignorato, senza esserne turbato emotivamente, Roby lascia la mamma sul divano e corre fuori, in cortile. Il vento rastrella le foglie secche e le accumula negli angoli. Il cielo è azzurro, rosso e viola come un occhio infiammato. C’è abbastanza luce per vedere. Roby guarda per terra, in mezzo alle erbacce, con intensa e incantata concentrazione. Cerca qualcosa. La trova. Una lunga processione di indaffarate formiche nere. Con espressione seria, concentrata, Roby si inginocchia e comincia a schiacciarle metodicamente, con la punta del dito con cui si scaccola il naso. Tutte le formiche che gli capitano a tiro finiscono spiaccicate sulla terra arida. Un sorriso beato e un’espressione soddisfatta illuminano la sua faccia paffuta da bambino RITARDATO. Non si è mai sentito tanto bene. Uccidere formiche è molto divertente. Piacevole. a un’ora. La Mamma lo ignora. Nessuno lo disturba. Smette soltanto quando è così buio che non vede più.
Un mese dopo. All’improvviso Roby si rende conto, senza sapere come, che uccidere le formichine non è così divertente e piacevole. Ora ha bisogno di qualcosa di diverso. Schiacciare migliaia di formiche, nere o rosse, nel cortile è palloso (parola che Mamma dice spesso) e, comunque, ne sono rimaste poche. Così, quel pomeriggio, mentre la Mamma è in salotto a leggere e Papà nell’orto a zappare le patate, Roby afferra con due mani la grossa bolla di plastica
trasparente che contiene acqua sporca e tre anemici pesciolini rossi. La bolla e i pesci stanno su un mobile dell’andito da un anno. Dimenticati e ignorati da tutti. Era il “Regalo di Natale” di una vecchia zia zitella. Zia Licia. Ogni tanto, Mamma ricordava di cambiare l’acqua e alimentare i pesciolini. Questi ultimi, da parecchi mesi non erano più rossi, ma rosa pallido tendente al grigio. Con la pesante bolla stretta tra le mani grassocce, evitando di annusare troppo l’acqua torbida e verdastra (che odora di gorgonzola Gim scaduto), Roby attraversa l’andito e a, senza fare rumore, davanti alla porta aperta del salotto. Per nessuna valida ragione, la Mamma lo scorge. Senza sollevare lo sguardo dal libro, domanda: “Cosa stai facendo, Roby?” “Sto facendo un gioco, mamma.” “Mmmh.” Roby capisce che il discorso è finito. Entra in cucina. Il fuoco scoppietta nel minuscolo camino prefabbricato. Papà, quando è in casa, sovente lo accende anche se non è necessario. Dice che “gli fa compagnia”. Roby è d’accordo. Attaccato sulla canna fumaria c’è un orologio: la batteria è quasi scarica e le lancette indicano le 07.35 da una settimana. Roby si inginocchia sul pavimento e posa la bolla davanti a sé. Sente le piastrelle gelide sotto le rotule. Resta fermo. Pensa. Guarda le fiamme dimenarsi tra i ceppi di ulivo. Scintille salgono verso il fumaiolo annerito dalla fuliggine. I nodi del legno scoppiettano, facendo volare la cenere. a il tempo. Roby osserva la bolla: i pesciolini nuotano in cerchio. a altro tempo.
Roby infila la mano destra nell’acqua, tiepida e viscida. Acchiappa un pesce rosso. Lo sente divincolarsi, scivoloso, nella gabbia delle sue dita. Stringe. È una bella sensazione. Senza indugiare, estrae il pesciolino e lo lancia nel fuoco. Breve crepitio, qualche scintilla, uno sbuffo di cenere. Nient’altro. Un cattivo odore si diffonde nell’aria. Il pesce rosso è morto. Carbonizzato… come dicono nei telefilm!, pensa Roby. Quella parola lo fa sorridere, ogni volta, perché gli ricorda Carbonia. Certe cose le capisce, altre no. Non può farci nulla. Non è colpa sua se è MONGOLOIDE. La mamma glielo dice un sacco di volte. Quindi deve essere la verità. Senza smettere di sorridere, Roby scruta di nuovo la bolla. I due pesci sopravvissuti, ignari e/o indifferenti a quello che è successo al loro simile, continuano a nuotare in tondo. Roby ne prende un altro. Assapora per un po’ l’eccitante e indefinibile sensazione di tenerlo prigioniero tra le sue dita. Poi lo scaraventa tra le fiamme. Crepitio. Scintille. Cattivo odore. Pochi minuti dopo, l’ultimo malaticcio pesciolino vola nel piccolo camino prefabbricato, scatenando le solite reazioni. Roby resta a guardare il vuoto per qualche minuto. Alla fine, si alza e si massaggia le ginocchia intorpidite. È stato abbastanza piacevole. All’inizio, almeno.
Dopo essersi lavato le mani puzzolenti di pesce marcio nel lavello, con il detersivo Svelto, rimette al suo posto la bolla. Va dalla Mamma. Lei è al solito posto, stessa posizione, identico look. Quel pomeriggio il titolo del libro è: LA ZONA MORTA. “Mamma?” “Mmmh.” “Ho ucciso i pesci rossi.” “Mmmh…” Cosa sono tre pesci al confronto con Johnny Smith? Soddisfatto, Roby esce e va a guardare i cartoni in TV.
La scomparsa dei pesci rossi, constatata solo un mese più tardi, venne attribuita a Cujo, il gatto di casa. In realtà era un randagio sudicio e malandato. Uno dei pochi gatti rimasti a Solus. Frequentava spesso il cortile in cerca di topi, lumache o lucertole. Talvolta rimediava gli avanzi della cena. Era un micione bigio, zoppo e mezzo cieco. Mamma lo chiamava Cujo e, qualche volta, quando fuori pioveva, gli permetteva addirittura di dormire nella veranda. Cujo non dava fastidio a nessuno e non aveva né le pulci né zecche. L’accusa di aver mangiato a tradimento i pesci lo lasciò alquanto indifferente. Come tutti i felini, Cujo era menefreghista e pragmatico. In definitiva, l’unica conseguenza di quella scomparsa fu che il Papà un giorno tornò a casa con due cocorite chiuse in una gabbietta bianca. Giustificò il suo acquisto con una sola frase sibillina: “Al mio bambino piacciono gli animaletti.” La mamma, in un raro momento di trasporto, ribattezzò subito i due uccellini con i leggendari nomi (secondo lei) di Misery (affibbiato a quello giallo) e
Christine (quello verde). Roby accolse i due animaletti con un quieto sorriso.
Lo stesso sorriso aleggia sulle sue labbra quattro settimane più tardi, mentre ruota la manopola per accendere il forno elettrico. Lo regola a 200 gradi e accende la lucetta interna. Roby si accovaccia all’indiana davanti alla finestrella unta del forno, appoggia il mento ai pugni e osserva interessato. Misery e Christine svolazzano agitati dietro il vetro. La luce all’interno è densa e gialla come il lardo vecchio. La temperatura sale in fretta. Roby controlla tutto con attenzione. È come una TV. Cinque minuti dopo, Misery e Christine crollano sul fondo del forno. Le ali sbattono, senza più forza. I becchi si aprono e chiudono. Le zampette artigliano disperate l’aria rovente. Altri trenta secondi e non si muovono più. Morti. Dondolando appena la testa, Roby non si scompone. Guarda. Le carcasse di Misery e Christine cominciano a sfrigolare, arrostire e fumare. Le piume si carbonizzano e Roby, ancora una volta, non può proprio trattenersi dal sorridere. Questa volta, chissà come mai e perché, è stato molto più piacevole. Un’ora dopo, Roby ripulisce per bene l’interno del forno usando la spugna ruvida e una generosa spruzzata di Fornet. Occulta nella pattumiera i resti delle cocorite, avvolte nel Domopack, facendo
attenzione a che finiscano sul fondo. Il Papà (che getta sempre le immondizie nel cassonetto davanti a casa, quando torna dal lavoro) non avrebbe potuto notarle. Sbrigate tutte queste faccenduole domestiche, Roby si reca in salotto. La Mamma sta divorando un altro romanzo di S. King. PET SEMATARY. “Mamma?” “Mmmh.” “Ho ucciso gli uccellini.” “Mmmh…” Uccellini? Che valore hanno rispetto a Gage Creed?
Anche in questo caso, per quanto irrazionale e improbabile, senza alcun processo Cujo venne accusato dell’uccellicidio. In ogni caso, non ricevette una seria punizione: continuò a dormire sullo sdraio in veranda, nei lunghi e noiosi giorni di pioggia. Quell’anno pioveva parecchio, ma, come al solito la diga di Tratalias era sempre vuota. Era un mistero insoluto. Cujo, però, continuò la sua esistenza da randagio come se nulla fosse, ignorando di avere poche settimane da vivere. Roby, infatti, cominciava a guardarlo in modo strano.
“Cujo? Cuuujo?” sussurra Roby, con voce suadente, dolce e rassicurante. “Cujo… Psst! Psst! Micio, micio… vieni qui.” Riluttante, il gatto sgambetta zoppicando verso di lui. “Bravo, micione. Vieni. Ti do le crocchette buone.”
Affettuoso, Roby liscia la schiena di Cujo, che la inarca subito, dimenticando ogni dubbio o presentimento negativo. Cujo è un gatto coccolone, nonostante il nome inquietante. Miagola, fa le fusa e dimena la coda soddisfatto. Il suo pelo grigio, pieno di nodi e croste, puzza di urina e carne putrida. Roby lo prende in braccio, per la prima e ultima volta. Non gli piacciono le cose sporche. Tuttavia, continua a grattargli amorevole il dorso magro e arruffato. Cujo, sopraffatto dal piacere inaspettato di quel contatto, socchiude le palpebre su occhi lattiginosi e ripiega le orecchie sbrindellate. Le sue fusa adesso sono così forti che Roby le sente nel braccio come vibrazioni di un motore. “Bravo, bravo micione.” Tranquillo, Roby cammina verso il bagno con o lento. È quasi il tramonto. Un fascio di luce rosata attraversa la finestrella aperta e si riversa nel minuscolo locale piastrellato di bianco. Nel silenzio della periferia di Solus, Roby sente il papà che fischia allegro “Nanneddu meu” in cortile, mentre annaffia la gramigna come se fosse l’erbetta di un bel prato. Infastidito da quel fischiettare, Roby chiude la finestra. Poi si avvicina alla lavatrice, incastrata nell’angolino tra la porta e il box della doccia. Non smette mai di accarezzare la schiena ispida del gatto, ormai quasi appisolato. Nemmeno quando allunga una mano e apre lo sportello della lavatrice. A quel punto, insospettito, il gatto cerca di divincolarsi. Roby lo tiene stretto. La forza non gli manca di certo. Piega le gambe e le ginocchia schioccano. In fretta e senza riguardo, schiaffa Cujo dentro il cestello e chiude subito l’oblò, prima che il gatto possa schizzare fuori e fuggire chissà dove. Non ha voglia di ricominciare da capo.
Sarebbe troppo palloso. Invece, per fortuna, tutto va come aveva previsto. L’unica cosa che Cujo riesce a fare è graffiare il vetro. Il gatto soffia minaccioso, curva il dorso e gonfia il pelo. Divertito, Roby sorride e gli fa “ciao-ciao” con la mano. Programma un lavaggio a 90°, completo di centrifuga. Fa partire la lavatrice, come gli ha insegnato Mamma, che è troppo impegnata con i suoi romanzi per “perdere tempo” con maglie, mutande e calze maleodoranti di marito e figlio. Roby si accoscia davanti all’oblò e guarda. Ben presto, Cujo comincia a rotolare terrorizzato, vortica nel cestello, sbatacchiando di qua e di là, su e giù, in mezzo a spruzzi di acqua bollente. Il lavaggio dura tre quarti d’ora. Meglio della televisione. Quando, al termine del programma, Roby tira fuori Cujo dalla lavatrice, il gatto è trasformato in un ammasso informe di pelo fradicio e tiepido. Sotto la pelle può percepire le ossa spezzate e sbriciolate. Non c’è sangue. Gli fa schifo toccarlo.
In seguito, al buio e senza paura, Roby scaricò Cujo nel cassonetto dall’altro lato della strada. Prima di attraversare guardò a sinistra e destra, come gli aveva insegnato il Papà. STEPHEN KING-OSSESSIONE. “Mamma?” “Mmmh.”
“Ho ucciso il gatto.” “Mmmh…”
Nessuna spiegazione ufficiale per l’improvvisa scomparsa di Cujo. Era andato via e tanti saluti. Tipico dei gatti di Solus. Svanivano nel nulla, senza dare spiegazioni. Ad ogni modo, la mamma ci restò male e si consolò leggendo un altro romanzo di Stephen: IL GIOCO DI GERALD. Papà, invece, accolse benissimo la notizia, non gli era mai piaciuto quel bastardo rognoso, soprattutto da quando si era pappato pesci rossi e cocorite. Roby non sembrò turbato dalla sua assenza. Qualche giorno dopo, Cujo era già stato dimenticato.
La notte del 1° settembre 1993, una decina di minuti dopo le 22.00 (difficile stabilirlo con certezza, perché la batteria dell’orologio sul caminetto è ancora scarica), Roby ciabatta nel salotto. Indossa il suo consunto pigiama preferito, quello di felpa blu con la faccia di Topolino. La sua faccia, come al solito, è imibile. L’espressione dei suoi strani e profondi occhi a mandorla neutra. Il sorrisetto furbo di ogni giorno. La Mamma, sdraiata sul divano con una coperta lisa sulla gambe, sfoglia assorta il solito librone di Stephen King: LE CREATURE DEL BUIO. Una brutta lampada da studio, che pare recuperata da una discarica, proietta un cono di luce gialla sulla sua figura. La polvere danza nell’aria. C’è un cattivo odore di stracci bagnati e varecchina. “Mamma?” La voce di Roby è serena e limpida. Inclina la testa ovale, grande come un cocomero, aspettando la solita risposta. “Mmmh.” Con lo stesso tono di prima, Roby dice: “Ho ucciso papà.”
“Mmmh…” ribatte lei, in automatico, con un vago sospiro. Poi, però, assimila il concetto e reagisce. Chiude il libro, lo posa sul seno, tenendo il segno con un dito lungo e sottile. Quelli che fanno le orecchie alle pagine andrebbero tutti appesi per i pollici, dice spesso, alle poche amiche che frequenta ancora. Fissa il figlio MONGOLOIDE e RITARDATO con sguardo sbalordito e divertito. “Ancora questa storia, Roby? Piantala. Non è divertente.” Imperterrito e serio, Roby ripete: “Ho ucciso papà.” Stavolta, la Mamma ride come una ragazzina. “Ah, sì?” “Sì.” “Va bene.” Non ride più adesso, ma si sta incazzando. “Ti piace questo giochetto? Va bene. Come hai fatto? Spiegami.” Roby spiega. “Ero in camera. Prima di andare al lavoro, Papà è venuto a rimboccarmi le coperte e vedere se mi ero già addormentato, come fa sempre. Quando si è chinato per darmi il bacio della buonanotte sulla fronte, gli ho ficcato uno dei tuoi ferri da maglia nell’occhio. Quello lungo blu. L’ho preso dal cassetto sotto il tavolo della cucina. È stato facile. Ho fatto così.” La faccia smunta della mamma si rabbuia. “Roby!” strepita, adirata e suscettibile. “Non scherzare con queste cose. Non è bello. Non è normale. Hai capito?” Roby non risponde. “Torna a letto! Subito!” Lui, docile e mansueto, ubbidisce senza protestare. La mamma scuote la testa scocciata e riapre il libro.
“Aspetta!” Roby si ferma sulla soglia del salotto, ma non si volta. “Sì, Mamma?” “Di a tuo padre di fare i piatti della cena prima di uscire.” Detto questo, riaffonda il naso tra le pagine del suo libro. Tranquillo, Roby torna nella sua camera.
Il papà era rimasto dove lo aveva lasciato. Disteso sul pavimento, la testa piegata di lato, lo spillone blu conficcato nell’orbita destra. L’occhio, castano, scalzato dalla sua posizione naturale, penzolava vicino al naso appeso al nervo. Una pozza di sangue si espandeva sulle mattonelle. Un piede si agitava ancora, spasmodico, come se cercasse di scalciare via la pantofola. Un gemito usciva dalle sue labbra. Questa volta era stato molto più piacevole. Più delle formiche, più dei pesci rossi, più delle cocorite, più del gatto. Uccidere un uomo era meglio di tutto. Non era FINTA come alla televisione. Questa era un’emozione VERA. Un’esperienza da analizzare, ricordare e riprovare. Roby si accostò al corpo del Papà e lo esaminò con calma, fino a che lui non smise di tirare calci e gemere. Poi sfilò il ferro da maglia dalla testa, piano, un millimetro alla volta. Era lucido di sangue. Rossoblù, come la squadra del Cagliari. Anche quello era bello. Quando aveva ucciso le formiche, i pesci, gli uccelli e il gatto non c’era stato sangue. Era la prima volta che lo vedeva per quello che era. Alla televisione ne vedeva molto, certo, ma era fasullo. Alle persone piaceva guardarlo, sì, ma soltanto quando era sangue di altri o finto. Roby aveva appena scoperto che gli interessava quello vero. Era una cosa che non capiva, ma che sapeva d’istinto.
Roby posa il lungo ferro insanguinato sul comò, accanto alla sua pila di fumetti di Paperino. Sono pallosi. Li legge lo stesso soltanto per fare fessa e contenta la Mamma. Queste storielle vanno benissimo per i bambini piccoli, Roby… diceva lei. Ma non sarebbe rimasto piccolo per sempre. Sto crescendo in fretta. Con questo pensiero confortante che gira in cerchio nella sua testa, come i pesci rossi nella bolla di plastica, Roby si introduce sotto le coperte. Le lenzuola sono ancora tiepide. Chiude gli occhi e si addormenta subito.
Lo svegliarono le urla. Era notte fonda. Dopo avere oziato per ore, avendo trovato i piatti ancora sporchi impilati nel lavandino della cucina, la Mamma era entrata nella sua camera e aveva visto il papà steso per terra. Morto. Roby finse di non sentire le sue grida e restò immobile. Dopo, successe tutto molto in fretta. Per primi giunsero i vicini di casa, ancora in pigiama. Poi uomini con cappello a visiera e divise nere con strisce rosse. Per finire, gente in camice bianco e il parroco, don Antioco. Roby venne costretto a uscire dal letto, mentre la Mamma, urlante, veniva portata in caserma dagli uomini in divisa. Un uomo, che puzzava di sigaretta e resina di pino, gli fece molte domande. Roby incrociò le braccia, assunse
un’espressione ebete e non aprì la bocca. Bisognava fare così. L’aveva visto fare nei telefilm. Se stavi zitto non potevano farti nulla. Poco prima dell’alba, uno dei vicini di casa bisbigliò all’uomo curioso che Roby era un MONGOLOIDE e RITARDATO. Quello allora scosse la testa, sbuffò e lasciò perdere. Interrogarlo era inutile. Più tardi, Roby, affidato alle braccia amorevoli e flaccide di una donna grassa, bionda e con tette gigantesche, lasciò la sua casa e salì su una grossa automobile. Per tutto il viaggio, verso un luogo sconosciuto, la premurosa matrona lo soffocò in un umido abbraccio odoroso di ascelle sudate e borotalco. La faccia inondata di lacrime, lei non riuscì a guardarlo per più di un minuto senza dire: “Oh, piccolo angioletto!” Immobile e silenzioso, Roby decise di non contraddirla. Comportarsi da BRAVO BAMBINO era una buona idea. Prima o poi, il piccolo angioletto sarebbe cresciuto.
14 – DIMENTICATOIO
Con un brivido di orrore, esci dalla testa di quel bambino. Per uno spaventoso istante ti sembra ancora di percepire i suoi pensieri, acuminati e taglienti come i bordi delle parole maiuscole impresse a fuoco dall’odio nella sua mente contorta. Dov’era adesso Roby? Qualcuno lo aveva adottato? Chi? Senti il bisogno, quasi fisico, di saperne di più.
Estratto da L’UNIONE SARDA del 3 Settembre 1993.
SOLUS. La scorsa notte, probabilmente in seguito a un litigio familiare, E.S., 37 anni, ha ucciso il marito, M. C., 41 anni, conficcandogli nell’orbita un grosso ferro da maglia che la stessa utilizzava nel suo lavoro di sarta a domicilio. Restano ancora ignoti i motivi che hanno condotto la donna, descritta da tutti come brava madre e moglie esemplare, a un simile gesto efferato. Gli anziani vicini di casa, incontrati dal nostro reporter, non hanno rilasciato ulteriori dichiarazioni in merito alla vita coniugale della coppia. Da fonti bene informate abbiamo appreso che la E.S., attualmente reclusa in attesa di giudizio presso il penitenziario di Buoncammino, nega di essere responsabile del brutale omicidio, attribuendone la colpa all’unico figlio, R.C. di soli sette anni. Quest’ultimo, un bambino handicappato e affetto da un grave deficit mentale, non parla con nessuno dalla notte dell’omicidio. Tuttavia gli inquirenti, dopo le accurate indagini preliminari e i rilievi scientifici effettuati nella modesta casa della vittima, escludono che il bambino (considerata la sua età e lo stato di salute) possa avere avuto una qualche parte nella disgrazia. Per il momento, il povero bambino è affidato ai Servizi Sociali (…)
Tutto qui? Una storia di quel tipo era finita nel dimenticatoio così in fretta? Sembra incredibile, ma sai che è credibilissimo. A chi importa davvero di quello che succede (per quanto degno di nota) in uno sperduto paesello della Sardegna? Quando eri nel Continente, hai sentito parlare della tua terra natale solo in occasione delle vacanze estive dei VIP, degli incendi boschivi, della epidemia di lingua blu e delle proteste dei cassaintegrati. Ogni uomo è uno scoglio circondato dal mare della morte. Ci può stare. Ma che succede se quell’uomo è anche nato in un’isola circondata da un oceano d’indifferenza? Pensare a queste cose ti fa male. Accogli con gratitudine lo spostamento della bolla (ormai non senti più il mal di mare), che si sposta verso la periferia e punta dritta verso una casa, sperduta in mezzo ai campi incolti. Dal fumaiolo sale un filo di fumo, subito dissipato dal vento. Intorno all’isolata abitazione, ancora senza intonaco, l’erba è bianca di rugiada ghiacciata…
15 – LA CREPA
Quel mezzo matto di mio fratello ha notato la crepa, per la prima volta, questa mattina all’alba. Le campagne circostanti alla nostra malconcia casetta erano ricoperte dalla brina. La crepa si trova in uno dei quattro rettangoli di vetro che compongono l’unica finestra della sua oscura e angusta camera da letto. Probabilmente, lui, prima di oggi, non ci si è mai avvicinato (per quanto ne so io). Non gli piace guardare fuori. Dall’età di nove anni, infatti, a causa di un incidente stradale (in cui morirono i nostri genitori e da cui io uscii illeso), è costretto a sopravvivere sopra una sudicia sedia a rotelle. Paralizzato dalla vita in giù. Adesso ho sessantacinque anni. Mio fratello ne ha settanta. Viviamo da soli e dimenticati da tutti nella casa di famiglia, alla periferia di Solus, oltre la bigia cintura degli eucalipti. Quando siamo in vena di burle, io e mio fratello, lo chiamiamo il Profondo Sulcis. Dove tutto è molto distante dalla vita e troppo vicino alla morte. La costruzione più prossima è… cioè era… Villa Massidda. Dopo l’incendio ne restano solo le macerie affumicate, circondate da un alto muro di mattoni rossi e quel che resta di uno spettrale giardino. Un amico d’infanzia, muto fin dalla nascita, che incontro spesso quando faccio la spesa settimanale al Supermarket Deidda o o in edicola per comprare il giornale, sostiene di averla vista ancora integra durante una notte di luna piena. Certo, potrei anche aver capito male, perché conosco poco il linguaggio dei segni. È un uomo strano. eggia al buio, quando nessuno lo può vedere. Capisco anche questo. È dura essere diversi in un paese. Adesso devo parlare della crepa.
Stamattina, alle sei e mezzo, dopo aver bussato alla porta, sono entrato come di consueto nella fredda camera di mio fratello. Reggevo il vassoio della colazione: una scodella di caffellatte e biscotti Le Macine del Mulino Bianco. Anche la tazzona era quella del Mulino Bianco. Raccogliamo i punti di tutti i prodotti possibili. Abbiamo sempre vissuto qui, noi due. Insieme. Non ci siamo mai sposati. Qualche donna ha incrociato le nostre vite. Per poco. Siamo una coppia di vecchi scorbutici e misogini. Ci piace stare da soli. Da quando sono andato in pensione (io lavoravo in miniera) dieci anni fa, esco di casa solo il minimo indispensabile. Stiamo bene qui, nella piccola casetta costruita da mio padre al prezzo di tanti sacrifici. Non abbiamo la televisione. Ascoltiamo la radio e leggiamo i romanzi che riceviamo a domicilio tramite il Club degli Editori. Giochiamo a scacchi, qualche volta. Parliamo molto poco. La gente del posto ha strane idee sul nostro conto. Circolano voci assurde… che però non voglio riportare su queste pagine. Noi non ci sintonizziamo mai su “Radio Paese”. È noiosa. Ripetitiva. Come lo squillo di un telefono (un orrore moderno che non è mai penetrato in questa casa benedetta da Dio) in una stanza vuota. Sto ancora divagando. Torniamo alla crepa. Ho già detto che mio fratello non si avvicina mai a quella finestra. Preferisce starsene nell’angolo, in ombra, a meditare. È un abitudinario. Non esce mai dal letto prima delle otto. Questa mattina, però, è accaduto un fatto davvero insolito. L’ho trovato già seduto sulla sedia a rotelle, con una coperta a scacchi sopra le gambe ossute e inutili, proteso verso la finestra. L’intelaiatura è di legno dozzinale, tarlato, dipinto di verde pallido un quarto di secolo fa. Nessuno l’ha mai rinfrescata. Perché farlo? Ho posato il vassoio sul suo letto, disfatto e puzzolente.
“Ti sei già alzato?” gli domando, allibito. “Cosa guardi?” Senza muoversi, mio fratello bisbiglia: “Guardo la crepa.” “Crepa?” Incuriosito, mi sono avvicinato. “Dov’è?” Lui indica la finestra coperta di polvere e dice: “Qui.” Il suo dito punta sul rettangolo di vetro in basso a sinistra. Ho guardato e, dopo qualche secondo, l’ho vista anch’io. Una crepa sottile, lunga un paio di centimetri, brillante nella luce del sole che spunta dietro le colline. Niente di straordinario. “Vedi come brilla?” dice lui, con una strana nota nella voce. “Si…” rispondo, distogliendo gli occhi dalla crepa. “Certo.” La mia risposta pare sorprenderlo. “È strana…” afferma, serio, dondolando la testa arruffata. Mio fratello è sempre stato un tipo enigmatico. Agguanta le ruote della sedia e spinge con forza, dirigendosi verso il letto, dove avevo lasciato la sua colazione. Il latte sta ancora fumando. “Cos’ha di strano?” gli chiedo, seguendolo con lo sguardo. Lui non risponde e comincia a trangugiare biscotti, uno dopo l’altro, pensieroso, intingendoli nel caffellatte tiepido. Il rumore dei biscotti sbriciolati sotto la sua dentiera è un po’ sgradevole. “Che ha di strano?” chiedo, incrociando le braccia. Smette di mangiare. Mi guarda, fisso, senza parlare. Sta riflettendo sulla questione. “Toccala…” dichiara, alla fine. “Prova a toccarla.”
Senza pensarci troppo, mi volto verso la finestra e la tocco. Il mio indice lascia una striscia pulita nella polvere spessa e grigia che ricopre il vetro. Non puliamo spesso. C’è qualcosa di strano, tuttavia. Il tatto non percepisce alcuna discontinuità. “Non la senti, giusto?” “No…” replico, tranquillo. “Forse perché è all’esterno.” “Forse…” mormora mio fratello, grattandosi i testicoli. Sospiro e mi stringo nelle spalle. “È solo un’incrinatura.” “Indiscutibile…” conferma lui, sornione. Scola il caffellatte e sistema la tazza nel vassoio. Poi aggiunge: “Esci da qui.” Non dico nulla. Fa spesso così. Mi detesta. Posso capirlo. Ho raccattato il vassoio e sono uscito dalla camera. Chiudendo la porta, ho avvertito il cigolio gommoso della sua sedia a rotelle. So benissimo cosa significa. È facile. Mio fratello, come ha fatto forse per quasi tutta la notte (mentre io russavo e sognavo cose brutte), è di nuovo accanto alla finestra… e osserva, come un demente, quella stupida crepa. La studia. Perché? Sta forse impazzendo del tutto? Ah, dimenticavo di scriverlo: oggi è il sette febbraio.
Otto febbraio. Mio fratello salta la colazione. Resta lì, immobile al suo posto, con lo sguardo fisso sulla crepa. Mi scaccia via e rifiuta il vassoio della colazione.
“Non ho tempo per mangiare!” grida, allontanandomi con un gesto nervoso della mano, come fossi stato un insetto. Un secondo prima di lasciare la sua stanza noto, con vago stupore, che i vetri della finestra sono puliti. Posso scorgere la crepa anche da quella distanza. Brilla di luce riflessa. Come gli occhi scuri di mio fratello. Tutto questo trambusto per una crepa.
Nove febbraio. Mio fratello continua a scrutare la crepa, ossessivo, come un invasato. Dopo una lunga ed estenuante trattativa, alle tre e mezzo del pomeriggio riesco a convincerlo a mangiare qualcosa per pranzo (uova sode, pane e un bicchiere di vino), a condizione che gli lasci saltare la cena senza disturbarlo. Non parla più per il resto della giornata. Per tutta la notte, solo nella sua camera, nella fioca luce argentea della luna piena, continua a scrutare la crepa. Minuto dopo minuto, ora dopo ora. Ormai è la sua ossessione.
Dieci febbraio. Novità. Si è chiuso a chiave nella camera e non mi fa entrare. Urla di lasciarlo stare. La cosa sta diventando preoccupante. a tutto il giorno (credo) a osservare quella crepa. Sotto ogni possibile e immaginabile angolazione.
Undici febbraio.
È uscito dalla sua camera, ormai sudicia (a eccezione dei vetri e della crepa risplendente), sorridendo come un bambino la vigilia di Natale. Senza rivolgermi mai la parola, ha mangiato, poi si è lavato, sbarbato, profumato e pettinato. Non si abbiglia così bene neanche quando, il pomeriggio della seconda domenica dopo Pasqua, puntuale come un orologio giapponese, don Antioco viene a casa nostra per benedirla con l’acqua santa e darci la comunione. È una gran brava persona, don Antioco, si preoccupa della nostra anima. A Solus, però, non è apprezzato. Non come il predecessore, almeno. Don Peppino era amato. Soprattutto dalle giovani vedove. Basta divagare! Ogni tanto, tra una cosa e l’altra, mio fratello torna nella sua camera (lasciando la porta socchiusa) a guardare quella crepa. Seduto sulla sua sedia, sorride e annuisce compiaciuto. Di cosa? Ha forse capito? Capito cosa?
Stanotte, prima di andare a letto, mentre lo spingo verso la sua camera, mi ha detto qualcosa a proposito della crepa. Ne parla con molta tranquillità, pacatezza e soggezione. Cosa significa per lui quella crepa nel vetro? Ha detto così: “Non è mai facile penetrare negli abissi della conoscenza. Ecco di cosa si tratta! Quella crepa, adesso lo so, è una fenditura nel tessuto della realtà. Un varco.” Non ho capito. Troppe parole difficili. Come le conosce? Quasi incazzato, ho esclamato: “Che cavolo stai dicendo?” Lui mi ha sorriso, paziente, scuotendo la testa. I suoi radi e sottili capelli bianchi si diradano proprio in cima al cranio. Poi, tranquillo, ha borbottato. “Lo devi scoprire da solo.”
“Perché?” “Funziona così.” Non ha detto altro. Funziona così… L’ho lasciato al centro della sua camera. Il chiarore spettrale della luna piena, entra dalla finestra attraverso vetri senza macchia, formando un parallelepipedo sul sordido pavimento. Preoccupato e nervoso, ho dato la buonanotte a mio fratello. Non ha risposto. Quando sono uscito, lui si è chiuso dentro girando la chiave.
Tredici febbraio. Non vedo e non sento mio fratello da due giorni. È barricato nella sua camera con la sua dannata crepa. Ignora le mie suppliche e i miei pugni contro il legno della porta. Ma so che è sempre lì, immobile, con gli occhi incollati a quella malaugurata crepa. La odio! La prossima volta che entro, in quella schifosa camera, fracasso il vetro con un calcio. Lo giuro.
Quattordici febbraio. Ho perso la pazienza. Mi sono alzato dal letto, ho attraversato di corsa il corridoio, ho preso un’accetta dalla legnaia e sfasciato con rabbia la porta della camera di mio fratello. Senza pronunciare una sola parola.
Sono entrato nella camera, schivando le schegge acuminate. L’ho trovata vuota. Mio fratello non c’è più! C’è ancora la sedia a rotelle, la lisa coperta che stava sulle sue gambe morte, ma lui non c’è… E non può essere uscito! Cosa è successo?! Tutto è come l’ho visto l’ultima volta: disordinato, squallido e fetente. Tutto tranne la finestra. Che è ancora chiusa. Il panico mi ha frantumato le ossa e sciolto il cervello. Ho smesso di pensare e, in lacrime, mi sono accasciato sullo scomodo sedile della sua sedia a rotelle. Ho pensato: come hai fatto a vivere così, per tutti questi anni, fratello mio? Come hai potuto resistere? In quello stesso momento, un bagliore guizzante, un fulgido lampo ha catturato la mia attenzione. Mi sono voltato di scatto. Il sole sta sorgendo… Un singolo raggio di luce colpisce la crepa facendola scintillare come un meraviglioso prisma. Aghi luminosi saettano verso di me, scaturendo dal vetro e feriscono i miei occhi spalancati. Come in sogno, mi rialzo e cammino piano verso la finestra chiusa. A bocca aperta. Mio fratello è ormai dimenticato. Fisso la crepa, la sua innaturale e arcana aura mistica. Il suo sbalorditivo e arcaico splendore. “Gli abissi della conoscenza…” mormoro, ammaliato, ricordando le ultime deliranti parole di mio fratello. Cado in ginocchio davanti alla crepa. Qual è il suo segreto? Mio fratello l’ha scoperto? Come? Dov’è finito? Si è infilato nella crepa? Posso
raggiungerlo? Raggiungerli tutti? Al di là della crepa… cosa c’è laggiù? Come arrivarci? Devo analizzarla con più attenzione. Bisogna studiarla in ogni sua recondita sfaccettatura, comprenderla, amarla… ecco cosa è necessario per poterla attraversare. Che idiota e cieco sono stato! Come ho potuto non notare prima quella stranezza? Tempo perduto. Da recuperare. Subito. Così, in ginocchio, ho cominciato a guardare la crepa. Smetto solo per scrivere. Sono ati minuti, ore… giorni?
Oggi. Non conosco la data esatta. Non importa. Come non importa il resto: fame, sete, sonno. Non devo perdere di vista la crepa. Soltanto questo è importante! Prendo questi ultimi appunti nella luce morente di un giorno qualunque. Mi fanno molto male le ginocchia e la vista (rovinata dalle troppe letture) mi si confonde qualche volta. Non devo mancare il momento giusto… per entrarci. Come ha fatto mio fratello. Quando succederà? Chissà. Adesso devo solo guardare e aspettare, aspettare e guardare. Manca poco. La crepa, in qualche modo, me lo ha fatto capire. Fuori fa freddo. La campagna è vuota e silenziosa. Ho la punta del naso congelato. Il mio fiato caldo appanna il vetro, ma non la crepa… Devo restarle vicino. Pronto a scattare. Non ci sarà un’altra occasione. Questa
anomalia è destinata a sparire, prima o poi. Oltre la crepa, ovunque sia, mio fratello mi aspetta. Anche io aspetto. E aspetto. Aspetto…
16 – TRASLAZIONE
Dopo un’attesa che sembra infinita, durante la quale hai il terrore di restare imprigionato per sempre dentro quella stramba visione, il vetro annebbiato di vapore si dissolve e si trasforma nella superficie curva e trasparente della bolla. È un sollievo enorme. Conoscevi quei due uomini. A Solus erano nominati spesso. Tua nonna, così raccontava, era stata alle elementari con quello paralizzato. Dopo l’incidente, i fratelli Balloccu erano diventati quasi una coppia di eremiti. Chiusi nella loro misera casetta, con il cadente tetto di eternit a disperdere fibre d’amianto ai quattro venti, andavano avanti grazie a una pensione da fame e l’assegno per l’invalidità. Qualcuno, al bancone del Bar Sport, spettegolava sottovoce sulla loro presunta omofilia. Davano fastidio a tutti, in paese, proprio perché non davano noia a nessuno… Allontani quel pensiero. È proprio vero: la verità fa male. La bolla riprende consistenza e veleggia pigra verso sud, in direzione della statale 126. Nascosta dietro la fascia di eucalipti, a duecento metri dalla strada, sul fondo di una sterrata assediata da una muraglia di canne fruscianti, c’è un’altra desolata casetta. Tetto di tegole, pareti bianche di calce, imposte di alluminio. Sullo spiazzo, davanti al porticato, è parcheggiata una macchina nera. La vernice riflette la luce del tubo al neon attaccato sopra la porta d’ingresso. Moscerini e zanzare, attratti dal bagliore, vorticano nell’aria. La terra è piena di pozzanghere nere orlate di schiuma. La luce è accesa perché, d’improvviso, si è fatto molto buio. All’interno dell’impalpabile sfera organica che ti avviluppa (soltanto adesso ti accorgi, con vago stupore, che è molto simile a quella che avvolge il feto nelle scene finali di 2001: Odissea nello Spazio), ristagna una cangiante luminosità opalescente. Quando ci plani sopra, silenzioso e rapido come un rapace notturno, puoi scorgerne il riverbero sul parabrezza dell’auto. È reale? Sei davvero in quel luogo e in quel tempo?
Non hai tempo per trovare una risposta. Un’altra domanda, pronunciata da una voce bassa e ruvida, cancella ogni tuo pensiero consapevole: “Vuoi dormire qui?” La bolla diventa piccolissima, vola sotto il portico sbilenco, a attraverso gli insetti e s’infila nel buco della serratura. Anche se in quel momento non hai la bocca, e nemmeno una lingua, senti il gusto dolce di caramelle alla menta. Senza soluzione di continuità, entri in una nuova visione.
17 – DIETRO LA PORTA
C’è un luogo, nel mondo, dove la speranza è morta e l’incubo sorride con denti rossi di follia. Qui, un uomo nudo, nell’umidità imprigionata in una stanza odorosa di muffa, allunga una mano e la posa sulla spalla di una ragazza. La sua pelle è morbida e calda. “Vuoi dormire qui?” chiede, con voce bassa e ruvida. Il suo tono è sufficientemente convinto. Nella lingua sente ancora il sapore dolciastro dei confetti Mentos che lei sgranocchia in continuazione. Non ha smesso neppure quando glielo ha preso in bocca. Anche adesso ne sta polverizzando uno sotto i molari. Percepisce quel fastidioso cric-crac nel buio, davanti a lui, sulla sponda sinistra del letto grinzoso. Gli viene quasi voglia di sputare via quel gusto rivoltante. Di sputarglielo dritto in faccia. A proposito, lei che viso ha? Prova a ricordarlo. Fallisce. L’ha raccattata dalla statale 126 ter, un paio d’ore prima, fradicia, il pollice alzato verso il cielo turbinoso, impegnato in una brutta copia del Diluvio Universale. È tutto quello che ricorda. Il resto della sua giornata si è perso nell’oblio selettivo che da anni controlla la sua vita. È un tormento, sì, ma pure una benedizione. “No posso…” mormora la sconosciuta. “Devo andare.” Cric-crac. A questo punto, l’irritazione dell’uomo esplode di colpo. Sputa nella tenebra che ha davanti agli occhi. “Cosa hai?” s’informa la ragazza, masticando. “Tosse?” Mancata. Dannazione.
“No…” borbotta lui, seccato. “La gola infiammata.” Deglutisce, poi aggiunge: “Perché non resti? Hai paura?” “Avere paura? No, dai, tu no insistere. È tardi.” “Appunto. Dove vuoi andare a quest’ora? Fuori dilluvia.” Lei ridacchia. “No si dice diluvia? Con elle sola.” “Non ho bisogno di un’insegnante di dizione ucraina.” “Tu offeso? Come permaloso! Scherzavo.” “Io ho l’accento sardo. Tu quello slavo. E quindi?” “Quindi niente. Hanno già detto che tu noioso?” “Molte volte, specie quando andavo al catechismo…” ribatte lui, grattandosi il sedere. “Ti accompagno a Calasetta?” Questa volta lei non gli corregge la pronuncia della elle. “No preoccupa.” Cric-crac. “Io trova subito aggio.” Fruscii indistinti. Piedi nudi calpestano piastrelle instabili. L’uomo capisce subito che lei si sta rivestendo. Senza fretta. Cerca qualcosa a tastoni nel buio. Inciampa nel comodino. “Dove è interruttore?” domanda, innervosita. Ecco cosa. “Vicino all’ingresso. A destra.” “Ah.” Altri i. Sbatte contro una sedia. Tramestio. Un clic. La luce ronzante dei neon invade la squallida stanza.
L’uomo è steso sul letto, gambe divaricate, mani intrecciate dietro la nuca. Un fisico muscoloso sotto un volto rinsecchito dal troppo sole. Lavora all’aperto. Capelli cortissimi. Le lenzuola sono spiegazzate, consumate e ingiallite. L’uomo scruta le spalle magre e ossute della ragazza, mentre si infila una camicetta scollatissima. La ragazza si volta e pettina i lunghi capelli con le dita. Lui esamina i suoi capezzoli, rosa e turgidi, che tendono il tessuto ancora impregnato di pioggia. Non usa il reggiseno, anche se c’è molto da reggere. Prima, al buio, non ci aveva fatto caso. È curioso quanto le stesse cose appaiano diverse alla vista e al tatto. “Piace mie tette?” gli chiede la sconosciuta, tirando su la zip dei jeans, squarciati sulle ginocchia. “Io fatte nuove.” Lui la scruta in silenzio, poi alza lo sguardo al soffitto. “No, non particolarmente…” bisbiglia. “Sono fredde.” “Questo cosa dire?” commenta lei, guardandosi intorno con espressione disgustata. Tira fuori un altro mezzo tubetto di confetti alla menta dalla tasca posteriore. Ne prende due, li mette in bocca e rosicchia. Cric-crac. Poi domanda: “Tu abitare davvero qui?” “Certo…” risponde lui, laconico. “È la mia oasi di pace.” “Brutto posto. Che fare? Nascondi dal mondo?” Perplessa, la ragazza esplora il perimetro rettangolare della camera, sfiorando lo strato di polvere accumulata sui mobili. Roba comprata al mercatino delle pulci. Le sue dita magre assomigliano alle zampe nervose di un animaletto. I capelli pendono sul viso. Era mora, un tempo. Adesso di nero rimangono solo le radici. Il resto è di un indistinto giallo paglierino. “Può darsi. Mi piace stare da solo e farmi i cazzi miei.” “Oggi però fatta io cazzo tuo…” ironizza lei, ispezionando la finestra. La maniglia è smontata. “Tu entra mai aria qui?”
“No.” “Perché no maniglia?” “Era rotta e l’ho tolta.” Lei ride e continua a vagare assorta per la stanza. Nell’aria risuona il tic-tac di un piccolo orologio a pendolo messo sopra un armadio a sei ante. Un’anta, quella dotata di una specchiera rettangolare, è aperta. S’intravedono i vestiti appesi alle grucce. Abiti di ogni tipo e di tutte le mode: da donna, da uomo, da ragazzo e da bambino. Molti sono inzaccherati di fango e ruggine. Dall’interno esala un puzzo di naftalina, feci di topo e scarafaggi. La ragazza esamina gli abiti, con espressione indecifrabile, facendo stridere le stampelle. “Tu conserva roba vecchia?” “Diciamo di sì. È una specie di promemoria.” Come se avesse capito, lei annuisce e si avvicina alla tenda che ricopre la parete di fondo. La scosta con uno strappo. “Cosa è qui?” esclama, stupita, voltandosi verso il letto. Indica una porta verniciata di blu. Il legno, anche se solido, è pieno di buchi, i buchi pieni di tarli, i tarli pieni di pesticida. “Una porta…” risponde l’uomo, con tono annoiato. Si alza, raccoglie un paio di boxer sgualciti e li indossa. La ragazza sbuffa. “Stronzo. Io dire dietro porta!” Con molta calma, lui apre un cassetto del comodino che sta affianco al suo malridotto letto matrimoniale di ferro battuto. “Tu no rispondere?” strilla lei, isterica. È in astinenza? L’uomo rovista nel cassetto, ignorandola di proposito.
“Pezzo merda! Chi credi essere? Pensi io solo stupida troia che non riparare da pioggia?” La faccia della ragazza è paonazza: gli occhi sbarrati, il collo gonfio e le mani ad artiglio. “Pensi che piacere succhiare te? Mangia caramella per questo. Tu sentire?” “Sì, ma non mi interessa.” Estrae dal cassetto un accendino, un pacchetto stropicciato di sigarette, un paio di forbicine per le unghie, un rotolo di nastro americano grigio, un contenitore di plastica trasparente pieno di spilli. Capocchie colorate: rosse, gialle, blu, bianche, rosa, verdi. “Cosa serve quello?” domanda lei, avvicinandosi all’uomo, incuriosita. La crisi di rabbia è ata in fretta. Meglio così. “Ancora non lo so. Sono una marionetta senza fili.” Prende una sigaretta. La porta alle labbra. L’accende. Soffia fumo dal naso e la osserva con sguardo rapito. “Che palle! Tu dire parole vuote… Fai fumare me?” L’uomo socchiude le palpebre e replica: “Sì, ma… dopo.” Tace e, pensoso, sposta lo sguardo verso la porta blu. Come rispondendo a una domanda inudibile, annuisce. La ragazza, spazientita, lo incalza: “Allora?” “Cosa?” “Cosa nascondere?” L’uomo aspira a fondo. Sembra che voglia finire la sigaretta in una singola tirata. Alza una mano e le fa cenno di avvicinarsi. Lei ubbidisce, docile, stringendosi nelle spalle. I suoi piedi nudi strusciano sul pavimento. Si ferma a mezzo metro. Lascia scorrere gli occhi sul suo robusto torace. Tutto sommato, non è male. Nota la caratteristica abbronzatura del muratore: solo su testa e braccia.
Già a quella distanza, l’uomo avverte l’alito mentolato della ragazza, gli si infiltra tra i capelli tagliati con la macchinetta. È sgradevole. Come il profumo dei fiori apiti del cimitero. “È segreto?” domanda lei, frugandosi nelle tasche strette dei jeans, alla ricerca di altre caramelle. Non ne trova, per fortuna. Lui tira fuori la mezza sigaretta dalle labbra screpolate e la tiene penzoloni tra indice e medio della mano sinistra, in una posa alla Humprey Bogart. La contempla per qualche istante. Espelle il fumo dalle narici. È un uomo stravagante. Odora di selvatico. Senza dire una parola, si dirige verso la porta blu. Lei lo squadra, perplessa. Ha gambe solide, forti e villose. Il suo o, però, è leggero come quello di un ballerino di tip-tap. L’uomo posa la destra sulla maniglia di ottone. Gira la testa di scatto e lancia un’occhiata alla ragazza. Nello stesso istante, lei sperimenta una dolorosa sensazione: come se qualcuno le stesse sussurrando un avvertimento: Non entrare… non entrare… Confondendosi con il sibilo del vento, la voce svanisce. La curiosità ha la meglio sull’apprensione. “Dai, vieni…” dice lui, sorridendole da sopra la spalla. Ha i denti storti, ma il suo sorriso è invitante. “Così vedi meglio.” Lei si avvicina, fino a toccargli il braccio con la spalla. A quel punto, lui abbassa la maniglia e spinge la porta. Si spalanca senza produrre rumore. Nessun cigolio. I cardini sono ben lubrificati. Chissà perché, forse condizionata dai troppi film horror visti al cinema da adolescente, lei è certa che ci sarebbe stato qualcosa. Invece niente. Peccato. Atmosfera rovinata. Quasi…
Dietro la porta, infatti, regna l’assoluta oscurità. “Accendi luce!” protesta la ragazza. “No vedo nulla!” Lui sta ancora sorridendo. “Come tutti.” “Eh?” “Guardi e non vedi. È questo il problema dell’umanità.” “No capire.” L’uomo, immobile sulla soglia, scruta il buio. “Lo so.”
La ragazza guarda i muscoli nella schiena pallida dell’uomo guizzare come serpenti. Un puntino rosso rubino, accanto alle dita della sua mano sinistra, indica che la sigaretta è ancora accesa. Lui scuote la cenere con un abile colpo del pollice. “Vuoi davvero capire?” domanda, come per dissuaderla. “Sì che voglio!” replica lei. “Donna sempre curiosa.” “Bene. Aspetta un attimo. Ti accendo la luce…” L’odore del sudore dell’uomo, ora, le fa arricciare il naso. Impaziente, allunga il collo per sbirciare oltre la porta. Non distingue nulla. All’improvviso, un lampo bianco le esplode negli occhi. Il dolore è così forte da obliterarle la coscienza. Le cedono le ginocchia. Stramazza sul pavimento. Perde i sensi.
Il pugno dell’uomo gronda di sangue, caldo e viscido.
Voleva metterla KO al primo colpo. C’è riuscito. Lei ora è per terra. Scomposta come una bambola di pezza. I capelli gialli, rovesciati sulla faccia, macchiati di cremisi. Respira con la bocca. Gorgoglia saliva. L’uomo solleva la mano insanguinata davanti agli occhi e la studia con attenzione. Un dente della ragazza gli ha scalfito una nocca. È soltanto un graffio. Non sanguina, ma brucia un po’. “Adesso…” sibila, assaporando quel momento. “Capirai.” Sogghigna e si inginocchia accanto al corpo della ragazza. Smorza quello che resta della sigaretta sulla sua fronte. Solleva lo sguardo verso il soffitto e scoppia in una risata. Non è preoccupato. Ha tutto il tempo per prepararla. Lei non rinverrà presto. La prende tra le braccia e attraversa la soglia. Come uno spettro, s’immerge nel nero e scompare. La porta si richiude piano. Questa volta, proprio come nei film dell’orrore, cigola.
La ragazza si sveglia e inizia subito a urlare. L’uomo, usando le forbicine per le unghie, ha appena finito di ritagliarle le palpebre. Le soppesa nel palmo della mano, come flaccide monete. Brandelli di pelle rosa e ciglia finte. Con una smorfia di schifo, le getta in un angolo della stanza. Una finisce sopra una delle decine di candele che illuminano l’ambiente e inizia ad arrostire, esalando un orribile puzzo di cera bollente, carne bruciata e peli strinati. Luce e ombra danzano sulle pareti di cemento armato. Le grida rimbalzano e fanno oscillare le fiammelle. L’aria è stantia. Nessuna apertura,
tranne la porta blu. La stanza è un semplice cubo, come un rifugio antiaereo. Lei è legata al soffitto e al pavimento. Nuda. Allungata come in una tortura medievale dell’Inquisizione. Le mani bloccate a un anello di ferro, i polsi avviluppati da spirali di nastro americano. Stessa cosa per i piedi. Il volto della ragazza, ora, è un’oscena maschera di sangue. Sopra il naso sfasciato, orlati da brandelli di carne viva, un paio di occhi giganteschi esprimono una sofferenza così grande da non poter essere manifestata soltanto da una bocca urlante. “Sfogati. Urla quanto vuoi…” dice l’uomo, ancora in boxer. “Tanto non disturbi nessuno. Per questo che abito qui.” Lascia cadere le forbicine insanguinate sul pavimento. “Ti piace la stanza? L’ho costruita con le mie mani.” Il tanfo di carne bruciata è più forte. Denso e penetrante. “Ora faccio il muratore. Prima ero nell’agricoltura. Avevo una trebbiatrice, poi, a causa di un… incidente ho dovuto cambiare mestiere.” Lei continua a strillare e si dibatte come un’epilettica, ma il nastro è robusto e gli anelli sono stati fissati dentro al cemento con bulloni d’acciaio. Un buon lavoro. Fatto nel tempo libero. “Ti annoio?” Senza preavviso, l’uomo le sferra un pugno allo stomaco. Le urla cessano di colpo. La ragazza perde di nuovo conoscenza, forse per il dolore, forse per l’emorragia. Gli occhi, privi di palpebre, si rovesciano nelle orbite, mostrando il bianco. Il mento le sbatte sul petto. “Così va meglio.” L’uomo volta le spalle, apre la porta blu ed esce.
Ritorna poco dopo. In mano tiene la scatoletta di spilli. “Non hai ancora capito, vero?” L’unica risposta della ragazza è un rantolo agonico. Respira a fatica e sputacchia sangue, a causa del naso fratturato. Strette nella morsa del nastro, gambe e braccia si sono gonfiate. L’uomo le si avvicina. Apre la scatoletta e ne preleva uno spillo. Capocchia gialla. Guarda lo spillo, poi il corpo nudo della ragazza, solcato da rivoli scarlatti. Le tette al silicone sfidano la gravità. “Ti spiace se le tocco?” Chi tace acconsente. Accarezza con il dorso della mano la curva soda del seno. Come prima: piacevoli al tatto, morbide, eppure… fredde. “Ah… ho messo i tuoi vestiti nell’armadio. Come souvenir.” Detto questo, conficca lo spillo con la capocchia gialla nel capezzolo destro. Una perlina di sangue vermiglio emerge dove l’acciaio si è infilato. Lei reagisce con un fremito. L’uomo pesca un altro spillo dalla scatoletta. Capocchia bianca. “Dimmi: adesso hai capito?” Lo spillo penetra nell’altro capezzolo, stillando altro sangue.
La ragazza emette un lamento e alza la testa, mostrando il volto straziato e dagli occhi enormi. Piange lacrime rosa. Altro spillo. Blu. “Gradisci questo colore?” Ride. E ridendo le infila lo spillo nella guancia sinistra. Ancora uno spillo. Viola. Lo introduce nell’altra guancia. “Uhm… va bene, ma bisogna rispettare la simmetria.” L’uomo cerca un nuovo spillo tra quelli disponibili nella sua scatoletta. Ne trova un altro con la capocchia viola. E un altro. La ragazza mugola qualcosa di incomprensibile. “Finito? No, no… Tranquilla. Ho ancora molti spilli.” L’uomo vede le sue pupille dilatarsi per lo spavento. “Che occhi grandi che hai…. ti piacerebbe averli blu?” Così dicendo, rovista nella scatoletta, trova uno spillo con la capocchia blu. Glielo mostra soddisfatto. “Cerca di stare ferma, altrimenti non viene bene…” afferma. Le ghermisce la testa per i capelli con la mano sinistra, poi, tenendo stretto lo spillo tra indice e pollice della destra lo infila al centro dell’occhio della ragazza. Lei si agita, eppure, in qualche modo, riesce a non fare esplodere il bulbo oculare. Non è facile. La lingua nell’angolo della bocca aperta, osserva il risultato. Poi cerca un’altra capocchia uguale… e ripete l’operazione.
Non ha nessuna fretta.
L’ultimo spillo entra nell’ultimo centimetro di pelle libero. L’opera è completa. Accovacciato sul pavimento grezzo, costellato di macchie di sangue fresco, l’uomo contempla il corpo della ragazza. È ancora viva. Dalla sua carne tremula, emergono centinaia di spilli. Le capocchie risaltano sul liquido sfondo rosso. “È un fottuto capolavoro d’arte moderna!” esclama. Si rimette in piedi, aggiustandosi il fondo dei boxer, che si è incastrato fra le natiche. Sospira e si massaggia i lombi. È stanco. Sono le sei e mezzo del mattino. L’età si fa sentire. L’uomo strofina i palmi callosi delle mani. “Dunque…” Il corpo martoriato della ragazza sussulta. Anche gli spilli. Il bagliore delle candele, ridotte a mozziconi, pulsa come un cuore. Gocce di sangue tamburellano sul cemento. “Prima hai detto che volevi fumare, vero?” L’uomo stacca una delle candele e la tiene sospesa sulla testa della ragazza. Le fa colare sopra un rivolo di cera rovente. Lei non si muove. È rinvenuta soltanto un paio di volte nelle ultime ore. La prima volta, mentre la stava vestendo di spilli, la seconda, durante un estemporaneo intervento di orecchio-tomia. Adesso la ragazza non ha posto per gli orecchini, non sulle orecchie. Al momento, si trovavano dentro il water e galleggiano sulla sua ultima dolorosa e bruciante pisciata. Un’ora prima, nell’incoscienza, la ragazza ha pronunciato un’ultima frase: “Lui guarda.” A chi si riferiva? Dio? Satana? L’uomo si era posto questo quesito, mentre andava nell’altra stanza per cercare
un’altra scatoletta di spilli. Dopo non ci ha più pensato. L’opera richiedeva la massima concentrazione, gli spilli dovevano penetrare per un centimetro, non di più, non di meno, altrimenti l’effetto finale non sarebbe stato uniforme. L’uomo scuote la testa e decide di esaudire il suo desiderio. Accosta la candela ai capelli della ragazza e li incendia. Alimentati dalle sostanze chimiche contenute nella tintura, i capelli bruciano con una rapida fiammata bluastra. L’odore è peggiore di quello delle palpebre. L’uomo trattiene un conato e si allontana. Nessuna reazione. Nessun movimento. Resta a guardarla finché le fiamme non si estinguono. Alla fine, si avvicina e controlla il polso della ragazza. Per farlo deve togliere una decina di spilli. Non sente il battito. “Hai finito di masticare caramelle…” dice. Soffia sulle candele, una ad una, esce dal cubicolo e spranga la porta blu. Rimette la tenda a posto e chiude l’armadio. È in ritardo. Appena il tempo per una bella doccia bollente. Alle 08.00 deve essere al cantiere, o il capo lo ammazza.
18 – PUNTI DI VISTA
È stata un’esperienza orribile, vissuta sia dal punto di vista dell’assassino che da quello della sua vittima. Hai cercato in tutti i modi di avvisare quella ragazza, di salvarla dal suo destino, ma è stato inutile. Non puoi modificare il ato. La tua presenza è un fattore ininfluente. Sei solo uno spettatore, per quanto coinvolto, senza nessuna possibilità di intervenire. Sapere come è andata a finire, oltretutto, alimenta l’orrore.
NOTIZIE IN BREVE. IL CADAVERE NUDO DI UNA RAGAZZA, IN AVANZATO STATO DI DECOMPOSIZIONE, È STATO TROVATO DA ALCUNI RAGAZZINI CHE PESCAVANO IN UN CANALE. L’IDENTITA’ DELLA GIOVANE È IGNOTA. CARABINIERI E POLIZIA INDAGANO.
Librandosi nella nebbia umida di un’alba indefinita, la bolla si allontana dalla scena del crimine e ritorna sopra Solus. Dalle parti di via della Stazione, vicino alla caserma. In lontananza, il trillo di un telefono spezza il silenzio. Prima di avere il tempo di riprenderti, precipiti di nuovo.
19 – L’APPUNTAMENTO
Il telefono squillò per la seconda volta. La ragazza attraversò di corsa il corridoio lucido di cera per pavimenti, schivò il fratellino che giocava bocconi sul pavimento con un transformer a forma di aereo, anticipando la madre, che aveva già allungato la mano verso il ricevitore. “Non rispondere! È per me!” gridò la ragazza, con le guance rosse e gli occhi lucidi. L’eccitazione le si leggeva in faccia. Sollevò il ricevitore e se lo incastrò fra orecchio e spalla. La madre la scrutò, inarcando il sopraciglio e assumendo un’espressione di rimprovero. Non le era permesso ricevere telefonate a quell’ora. Soprattutto quando il padre era assente. “Gloria? Cosa ti avevo detto?” la rimproverò. La ragazza finse di non vedere quell’espressione contrariata, strizzò l’occhio alla madre, scavalcò il fratellino disinteressato e si trascinò la prolunga del cavo del telefono fino in camera. Frattanto, nel ricevitore, una voce ripeteva “Pronto?”. Gloria chiuse la porta spingendola con il tallone consumato della pantofola e si accovacciò sul letto sfatto. A sinistra c’era un grosso librone di Chimica Inorganica aperto alle pagine 118/119, sulla destra, a faccia in su sopra le lenzuola stropicciate, una foto polaroid del suo primo e attuale fidanzato. Ha scattato lei quella foto, una luminosa giornata dell’estate appena conclusa. Il ragazzo biondo sorrideva imbarazzato verso l’obiettivo: indossava sandali di plastica, pantaloncini rossi e una t-shirt bianca con una scritta azzurra stampata sul petto: SILVER BLUE’S. Teneva un pallone da basket sotto il braccio e la mano destra alzata in un saluto.
Erano molto innamorati. “Ciao Giorgio!” esordì la ragazza, torcendosi una ciocca di capelli castani tra le dita. Giorgio era il ragazzo della foto. “Ciao!” rispose lui. “Che stavi facendo, Glory?" La chiamava sempre Glory, mai Gloria. A lei questo piaceva moltissimo. Aumentava l’intimità del loro rapporto. “Niente… Mamma era nei pressi e ho preferito defilarmi.” Rise. All’altro capo del telefono, Giorgio sospirò: “Non lo sa?” “No. Ma credo sospetti qualcosa.” “Credo anch’io. Quando glielo dirai, Glory?” “Boh. Quando papà torna dalla Germania, forse. Non so.” “Ok, lascia stare. Come va? Hai fatto quel paragrafo?” “Un casino! Gli esercizi sulle ossidoriduzioni non mi hanno dato pace. L’esame a quest’appello non lo o…” “Non demoralizzarti. Vuoi che studiamo insieme?” “Da me?” propose lei, di slancio. Giorgio era già venuto a casa sua per studiare, qualche volta, con la qualifica inoffensiva di amico e collega. La madre non aveva creato problemi, a parte quello di entrare nella camera ogni quarto d’ora con ogni scusa: fame? Sete? Freddo? Caldo? C’è abbastanza luce? Devo prendere una cosa che ho lasciato qui, ecc. Nonostante questa persecuzione (per il tuo bene, avrebbe detto la madre) erano addirittura riusciti a scambiarsi qualche bacio, una fuggevole carezza e il virus dell’influenza. “Okay!” accettò lui, senza nessuna protesta o condizione.
“Mitico!” gioì Gloria, con un sorriso a trentadue denti. “Sei contenta ora, Glory? Sembra di sì!” “Quando vieni?” “Quando vuoi tu, Glory.” “Subito allora! Quanto ci metti?” “Vediamo… Se riesco a prendere l’autobus delle due e venti, beh… dovrei sbarcare a Solus alle tre meno un quarto e da te cinque minuti dopo. Calcolando i ritardi diciamo alle tre.” “Ottimo! Faccio qualche altro esercizio. Ti aspetto. Ciao.” “Un attimo!” intervenne lui, serio. “Mi mandi uno smack?” “Vuoi uno smack da me?” chiese lei, in falsetto. “Da me?” Uno smack nel loro gergo significava bacio schioccante. “Sì, ti prego!” implorò Giorgio, assecondandola nel gioco. “Perché dovrei?” “Perché io ti amo!” declamò lui, apionato. Lei se lo immaginò in ginocchio e con una mano sul cuore. Recitò: “Oh, Romeo… Perché sei tu Romeo?” Poi scoppiò a ridere. Anche Giorgio rideva. “Allora me lo mandi o no questo smack?” Smack!, l’accontentò, schioccando le labbra sul ricevitore. “Mi hai fatto felice!” replicò lui, all’altro capo del telefono. “Sì, sì…” si schermì lei, con una freddezza che non le apparteneva. “Vai alla
fermata. Vuoi perdere l’autobus, forse?” “Non lo perderò, Glory!” promise Giorgio, tranquillo. “Allora vai. Alle 03.00 ti voglio qui! Hai capito?” “Ci sarò. Niente potrà fermarmi!” dichiarò lui, solenne. Nello stesso istante, Gloria fu percorsa da un brivido freddo lungo la spina dorsale. Una sensazione che si dileguò subito, senza lasciare traccia. La ragazza scrollò le spalle e dimenticò quel fremito. Tutto questo avvenne in meno di un millisecondo. “Sì. Bravo. Ci conto…” disse. “A tra poco. Ciao.” “Glory… io… no, niente. A dopo.” Il segnale della linea interrotta. Gloria riattaccò. Guardò per qualche minuto la fotografia di Giorgio, poi se la portò alle labbra e sussurrò: “Smack-Smack, amore mio.” Gloria uscì dalla camera e rimise il telefono di bachelite al solito posto. Madre e fratellino erano in salotto, seduti sulle poltrone, a guardare una soap-opera. Il volume era troppo alto. Tornò indietro e chiuse la porta. Sedette sul letto, girò la pagina del libro e iniziò un altro esercizio sulle ossidoriduzioni. Erano le due e un quarto.
Alle 03.00 esatte, la porta della camera di Gloria si aprì. Il legno del battente sbatté sulla parete, staccandone alcune croste che precipitarono a terra. L’intelaiatura vibrò sui cardini. Gloria staccò gli occhi dalla chimica e sollevò lo sguardo. Sulla soglia c’era Giorgio.
“Giorgio!” strillò Gloria, allibita. “Vuoi sfasciare la porta?” Giorgio non rispose. Stava lì e la fissava con occhi sgranati. Era pallidissimo. “Cosa…” mormorò lei, confusa. Si alzò. “Stai male?” Avanzando verso di lui osservò qualcosa di strano, qualcosa che la fece fermare subito di scatto. Gloria si portò il pugno destro alla bocca e si morse le nocche a sangue per non urlare. L’ombra… Impossibile. Oh, mamma… Perché non ha l’ombra? Proprio dietro le sue spalle c’era una lampadina da 100 watt accesa, ma lui non aveva l’ombra… e i suoi jeans, a brandelli, erano davvero macchiati di… cosa? Le sue mani erano piene di bolle? Perché l’impermeabile era strappato e sembrava fumare? Cos’era quell’odore irritante? “C-cosa?” balbettò Gloria, sconvolta, prossima alle lacrime. Giorgio aprì la bocca e parlò. Parlò con voce serena, tranquilla, nonostante il suo aspetto. “Hai visto, Glory?” disse. “Puntuale. Merito uno smack?” La porta si richiuse sbattendo. Gloria indietreggiò fino a toccare il bordo del letto con le ginocchia. Mosse le labbra e, in un sibilo, ripeté: “Smack.” Con un tonfo di molle, rovinò sul materasso priva di sensi.
20 – NOTIZIE IN BREVE
Rientri nella bolla, schiacciato da un inspiegabile senso di annientamento. Quella storia, banale se confrontata con le precedenti, ti ha lasciato disorientato e sull’orlo delle lacrime. Sei andato via da Solus, senza rimpianti, convinto che fosse un posto dove non succedeva mai nulla… e invece… ti ritrovi con il cuore gonfio di tristezza e la testa piena di racconti sconvolgenti.
NOTIZIE IN BREVE: TRAGICO INCIDENTE, IERI POMERIGGIO, SULLA 126 ter. UN AUTOBUS DELLE F.M.S. DIRETTO A SOLUS SI È INCENDIATO DOPO LO SCONTRO CON UNA CISTERNA CARICA DI BENZINA. QUINDICI VITTIME, STUDENTI E OPERAI. IGNOTA LA DINAMICA DELL’INCIDENTE.
Hai sentito quella notizia al telegiornale. Era abbastanza tragica da attirare il momentaneo interesse dei media. Tuttavia, quel risvolto paranormale era rimasto inedito. Un clacson richiama la tua attenzione verso il basso. Avvisti un autobus, il tetto macchiato di cacca di piccione, risalire lungo il Corso Savoia lasciandosi dietro sbuffi di gas…
21 – IL SECONDO TEMPO
Il vecchio autobus blu sbiadito delle F.M.S. mi scarica sul marciapiede, puzzolente di piscio di gatto e cacca di cane, e si allontana sferragliando. C’è molta umidità e fa freddo. Le ombre, incuneate nei vicoli e sotto le macchine parcheggiate a casaccio, sembrano grosse chiazze di petrolio bruciato. Mi sento come un sacco di rifiuti a brandelli, abbandonato sul bordo della strada. Gente sconosciuta e conosciuta, anonimi compaesani, mi camminano intorno senza degnarmi di un saluto. Sguardi indifferenti giudicano la mia apparenza. Non ci faccio caso. Attraverso il Corso Savoia e mi dirigo verso il cinema, dirimpetto alla terza fermata di Solus, la cui grande porta a vetri (impolverati e unti) è l’estratto dello squallore puro. Sopra la porta, nel cemento scrostato è imbullonata una vecchia insegna al neon. NUOVOCINE, dice l’insegna, in spesse lettere maiuscole scarlatte. La seconda O è spenta, la E lampeggia e ronza fastidiosamente. Lo stesso rumore di una mosca imprigionata nel pugno. Soltanto un po’ più forte. Un incerto sole primaverile è tramontato appena cinque minuti fa, dietro le colline rocciose che fanno da sfondo al paese e le fasce di eucalipti sferzate dal maestrale. Prima di varcare la soglia del cinema sollevo gli occhi al cielo sopra il paese. Sempre uguale. Grigio e rosa come un cervello spalmato su un muro di piastrelle. Lo so perché una volta ne ho visto uno. Era quello di mia madre. Cambiamo discorso, ora non mi va di ricordare papà… La locandina del film, attaccata ai vetri con lo scotch ha gli stessi colori di una brutta ferita. Si tratta di una pellicola indipendente in seconda visione, mai sentita prima. Il titolo è vagamente affascinante, come una bella ragazza che fuma tutta sola su una panchina del porto: ANIME MORTALI. Entro. All’istante m’imprigiona un vortice d’aria calda, umida e stantia. L’androne è deserto. Le oscene poltroncine verde pisello, allineate sulla parete di destra, assomigliano a un enorme serpente morto. Sul pavimento lurido, impronte di
fango, involucri di snack e gomme Big-Babol schiacciate. La tizia dietro il banco della biglietteria mi scruta con aria annoiata. Mi conosce da molti anni ormai, vengo spesso in questo cinema, il venerdì sera, sempre da solo… e lei lo sa. Sa chi sono. Sa di chi sono figlio. Anzi, ero. Credo che provi comione per me. A volte mi chiede: come va? Forse mi considera perfino un conoscente, dopo tutto questo tempo. Le sorrido, imbarazzato e poco convinto. Lei non se ne accorge nemmeno. Sbadiglia. Mi avvicino al banco. Prendo il portafogli in mano. Il cuoio è ancora caldo e ha la stessa curva della mia natica destra. Questa cosa mi turba sempre. Un biglietto, per favore. Platea o galleria? Platea. Cinque. Ecco. Tenga il resto. Afferro il piccolo rettangolino di carta celeste che la tizia mi porge sotto la fessura della cassa. Lo infilo nel taschino della camicia. Sempre le stesse parole. Sempre gli stessi gesti. La routine della mia vita: vuota, noiosa e rassicurante. Grazie. La bigliettaia, come al solito, non risponde. Annuisce e basta. Questa è l’unica forma di comunicazione che abbiamo stabilito in questi anni. Penso che sia il rapporto più intimo che io abbia con una persona da quando papà ha deciso di cambiare colore alle pareti di casa. È successo dieci anni fa. Pochi secondi dopo, scosto una pesantissima tenda color vinaccia ed entro in platea. È completamente vuota. File e file di seggiole. Una falange di legno scheggiato. Non è una cosa rara. Capita sempre più spesso, ultimamente, che io sia il solo spettatore. Dopotutto questo è il primo spettacolo della settimana. Il Nuovocine, fino dagli anni ’80 (da quando la gente ha iniziato a comprare videoregistratori e noleggiare cassette) chiude i battenti dal lunedì al giovedì. I ragazzi di Solus vanno al cinema sabato sera o domenica pomeriggio.
Sospiro e discendo i soliti tre scalini, coperti dal solito linoleum pieno di bolle, che mi portano nel solito corridoio centrale in discesa fra i due settori di seggiole. L’atmosfera in platea è sempre un po’ angosciante, specie quando è vuota e silenziosa come questa sera. La luce delle plafoniere è fioca. Il rimbombo dei miei i cupo. Avverto nell’aria un sentore acido, come di foglie marcescenti o sperma secco. Mi siedo sulla seggiola n° 56. Sempre la stessa. Davanti a me c’è la n° 89. Il numero sta scritto su una targhetta di plastica avvitata alla spalliera. In molte seggiole la targhetta manca. Chissà chi le ha prese e per quale motivo. Non vedo a cosa possano servire. Comunque, detto tra noi, anch’io una volta ho pensato di staccarne una e portarla a casa, non so… sembrava quasi che non potessi farne a meno. Invece ne ho fatto a meno, come di tante altre cose. Non è una novità, per me, fare a meno delle cose… e delle persone. È come per le targhette: non vedo a cosa possano servire. Forse, però, sono io a non servire a nessuno. Non c’è nulla di utile in me. Non sono. Non voglio. Non posso. Controllo l’ora: 20.14. Il film sta per iniziare. Le luci si spengono e il proiettore comincia a ticchettare. Da qualche parte ho letto che quando uno va al cinema deve lasciare il cervello a casa, o disattivarlo prima della proiezione. Anche se il senso della questione è (forse) un altro, penso che questo sia il sistema migliore per godersi un film. La sospensione dell’incredulità è più facile e diretta, quando il senno resta nel cassetto. Nel mio caso, poi… Il fascio di luce bianca taglia la sala e colpisce lo schermo, durante il percorso fa risplendere i granelli di polvere come miriadi di stelle o lucciole o plancton bioluminescente… ma è soltanto sporcizia che galleggia nell’aria muffosa e viziata. Tutto è polvere, tutto apisce, tutto muore. Sullo schermo ingiallito appare il titolo a caratteri cubitali del film, nello stesso istante, dalle casse installate sulle pareti della sala, esplode il tema portante della
colonna sonora. ANIME MORTALI, sullo sfondo azzurro di un cielo. Spengo il cervello e guardo.
Anime Mortali (La Trama)
William “Bill” Cody è un uomo dal ato tanto tragico quanto misterioso. Al principio, tutto quello che sappiamo è che la sua ragazza si è suicidata il giorno del matrimonio. Bill vaga senza meta per gli States, guida un vecchio furgone giallo ocra, con un’enigmatica scritta verde sulle fiancate: WATARU. Nient’altro… ah, sì, gli piacciono i Nirvana. Mah. All’inizio del film, dopo i titoli di testa, vediamo Bill steso sull’erba, in cima a una collina, in estatica contemplazione di un bellissimo cielo azzurro e senza nuvole. Dall’autoradio gracchiante del furgone, parcheggiato sul bordo di una tipica strada di campagna, il defunto Kurt Cobain sputa il suo veleno. A un certo punto Bill torna al furgone, le labbra contratte in una specie di sorriso. Gli occhi rossi e lucidi ci rivelano che stava piangendo fino a poco tempo prima. Adesso le lacrime sono finite. È ora di mettersi di nuovo in viaggio, nel vano tentativo di seminare i ricordi da qualche parte, prima o poi. Bill cammina lento, non crede molto alla teoria succitata. Nella scena successiva, il brutto furgone di Bill attraversa un villaggio dal nome impronunciabile, più grande del luogo che lo porta. Comunque sia, il nostro protagonista non fa caso a questi dettagli. Infatti parcheggia davanti all’unico abbeveratoio del posto. Il neon sopra l’ingresso sostiene che quello è KARL SNACK BAR. A quell’ora è ancora spento.
Il bar, però, è aperto. Bill fa il suo ingresso nel fumoso locale, interrompendo il chiacchiericcio degli avventori abituali, camionisti e bifolchi, che in perfetta sincronia spostano lo sguardo verso di lui. Lo studiano con molta attenzione, notando anche i particolari (una contorta cicatrice bianca sulla tempia destra) importanti per future rievocazioni del Fatto dell’Anno: lo straniero senza nome arrivato in paese nell’estate del 1995. Roba da riempirci pomeriggi interi, con le più disparate e assurde ipotesi. Questo Bill non lo avrebbe mai saputo. Né gli sarebbe importato. Durante il vagabondaggio ha capito una cosa fondamentale: in posti isolati, come quello, la gente vive di storie. Se non le ha… le inventa. Bill si accosta al banco e siede su uno sgabello di legno. Alle sue spalle il mormorio sommesso riprende, con tono più cospiratorio che mai: è lui l’argomento principale. Dietro il lungo bancone lucido c’è una graziosa ragazza. Jeans Levi’s e camicia di cotone annodata sul ventre piatto. Le pale dei ventilatori sul soffitto, rumorosi come elicotteri Huey, creano una corrente che fa ondeggiare i folti capelli neri e ondulati della ragazza. Un’immagine molto piacevole. La ragazza si porta davanti a Bill, che ora ha modo di osservare gli splendidi occhi azzurri di lei. Nota anche un piccolo neo sullo zigomo destro, questo prima di spostare lo sguardo su un posa-bicchieri di cartoncino, umido di birra, abbandonato sul banco. Indizio sicuro di una bevuta veloce e recente. Qualcuno ato da Karl poco tempo prima. “Desidera?” Senza sollevare gli occhi, Bill risponde: “Una fetta di torta qualsiasi e un caffè nero. Senza zucchero. Grazie.” La ragazza annuisce e si allontana verso la macchinetta del caffè canticchiando la melodia di Per Elisa. Bill trova interessante questo particolare, più del neo ma meno degli occhi azzurri. Segue le fluide movenze di lei, con la coda dell’occhio, i gomiti puntati sul banco e il mento fra le mani.
La ragazza sembra essere mortalmente annoiata. Consumata l’ordinazione, Bill chiede il conto (più basso di quanto si aspettasse) e lascia lo sgabello. Si sente tutti gli sguardi addosso. Non vede l’ora di tornare sulla strada. Mentre la ragazza gli porge il resto, due dollari e venti, senza mai guardarlo in faccia, Bill le chiede: “Chi è Karl?” Lei esita, sorpresa, poi risponde: “Mio padre. Si è preso l’influenza. Lo sostituisco per qualche giorno. Perché?” “Niente. Semplice curiosità.” “Non è di queste parti, vero?” “No.” Bill si volta e cammina veloce verso l’uscita. Esce senza salutare.
Quella notte il furgone di Bill è di nuovo sulla collina. Imbozzolato dentro un liso sacco a pelo militare, steso fra i fari accesi, Bill fissa le stelle con le mani intrecciate dietro la nuca. L’espressione del viso è serena, rilassata, come se stesse ricordando qualcosa di bello. Accanto a lui, sull’erba, giacciono i resti di una cena a base di cosce di pollo fritto e birra. La radio è spenta. Grilli e raganelle danno un gran concerto. Ad un certo punto Bill fischietta Per Elisa. Chiude gli occhi.
La mattina dopo Bill fa colazione al “Karl Snack Bar”. Stessa ragazza annoiata, stessa ordinazione (torta e caffè), stessi camionisti e bifolchi, stessi sguardi e voci sommesse.
Stessa brezza dei ventilatori. Stessi occhi azzurri. Stavolta, però, lei lo guarda mentre gli porge il resto. Bill chiede alla ragazza: “Le piace Beethoven?” “Sì. Come fa a saperlo?” “Ieri ha canticchiato Per Elisa.” “Ah, sì. Sto imparando a suonarlo sul pianoforte.” Bill sta per andarsene, quando lei s’informa: “Tornerà?” Bill si volta. La fissa. Sorride. Scuote il capo. “No.” Esce. Bill lascia il villaggio dal nome assurdo e continua il suo girovagare. Attraversa decine di stati, città, contee, villaggi, montagne e praterie, fiumi, laghi e deserti. Senza tuttavia fermarsi più di un giorno in nessuno di questi luoghi. Non trova pace. Forse neanche la cerca. Durante questo periodo, in modo indiretto, scopriamo che Bill possiede un discreto credito in banca: è il frutto della vendita di tutti i suoi averi. Bill spende, non lavora, ma non spreca un dollaro. Sempre nello stesso tempo, più o meno tre quarti della durata del film, Bill incontra e conosce diverse persone. Alcuni cercano di aiutarlo, altri di fregarlo, altri ancora tutte e due le cose. Questi ultimi di solito lo chiamano “amico mio”. A questo punto le condizioni economiche e psicofisiche di Bill sono critiche quanto quelle del suo furgone. La scritta WATARU comincia a scrostarsi.
Autunno. Bill giunge a Sainjust, sperduto villaggio nel Connecticut.
È un’alba piovosa. La strada sterrata che porta giù al lago sembra un torrente in piena. Bill parcheggia sotto le fronde di un immenso abete Douglas. Lì sotto, l’atmosfera è talmente cupa ed irreale che a Bill pare di intravedere una specie di elfo saltellare fra i rami grondanti di pioggia. La bizzarra allucinazione svanisce con il cessare dell’acquazzone. Mentre il sole fa capolino tra le nuvole sfilacciate e viola (viste attraverso il parabrezza rigato di sporco), Bill accende l’autoradio e tira indietro il sedile. Solleva le gambe magre e appoggia i tacchi consunti degli stivali sul cruscotto. Tra i piedi spiccano le bruciature sadiche dell’accendisigari. Le cicatrici circolari impresse nella plastica polverosa non sono disposte a casaccio. Formano un nome femminile: KATHY. Probabilmente, nel cuore di Bill c’è una ferita con la stessa forma, soltanto che non è ancora diventata una cicatrice. Bill intreccia le dita sul petto e scruta l’orizzonte. L’alba piovosa sta diventando una mattina soleggiata. Il lago sembra la tavolozza di un pittore che abbia finito tutti i colori tranne azzurro zaffiro e verde smeraldo. Il panorama è stupendo. Abeti a perdita d’occhio. Dopo un sorriso, Bill chiude gli occhi e, per la prima volta in cinque lunghi anni, permette alla sua mente di naufragare nei ricordi. Con una rapida dissolvenza incrociata iamo dalla panoramica del sole che si riflette sul lago, al riflesso dello stesso sole (cinque anni prima) negli occhi sgranati e incredibilmente azzurri di una ragazza sorridente seduta sul bordo di un’enorme piscina, con i piedi a mollo nell’acqua. Indossa un bikini giallo fatto all’uncinetto ed è bellissima.
Comincia il flashback. Una voce, fuoricampo, dice: “Sono così buffo, Kathy?” La voce è quella di Bill. La riconosciamo ancor prima che vada a sedersi accanto alla ragazza, sul bordo pieno di riflessi della piscina. Quella che non riconosciamo è la sua faccia. Non perché ha cinque anni in meno, ma per la netta differenza d’espressione. Non è quello che ha sulla faccia. È quello che
non ha: dolore, rimorsi, rimpianti e solitudine. Quello seduto accanto a Kathy è un altro Bill. Quel Bill è felice. Quel Bill non esiste più. La causa della sua felicità e del suo dolore strizza un occhio in primissimo piano e, con voce morbida, risponde: “Sì, amore… soprattutto quando fai il serio.” Ridono, si baciano, si abbracciano e cadono nell’acqua cristallina sollevando spruzzi. Nuotano. Le scalette brillano invitanti nel sole del mezzogiorno, ma i due innamorati non emergono dall’acqua squisitamente tiepida… Non prima di aver fatto l’amore, sotto l’ombra triangolare del trampolino. Tutto questo avveniva una settimana prima delle nozze. Kathy ha ancora sei giorni di vita. Anche Bill. Dissolvenza in nero.
Dopo una dissolvenza dal nero, il flashback rivelatore continua con Bill, in mutande, che apre la porta della sua villa a due poliziotti in divisa con la faccia da brutte notizie. “Cosa è successo?” chiede Bill, con voce rotta. “Kathy?” Uno dei poliziotti, fissandosi la punta lucida delle scarpe d’ordinanza, nervoso come uno scolaretto sotto esame, consiglia a Bill, con tono di supplica, di rientrare in casa e mettersi qualcosa addosso, di sedersi e bere qualcosa… Pochi istanti dopo gli dice che Kathy si è impiccata. Nello stesso momento, Bill, ancora in piedi, sviene. Bill stramazza sul costoso parquet, spaccando con la testa il prezioso tavolino di cristallo Swarovski, dove aveva posato il bicchiere di vodka liscia che non avrebbe mai bevuto.
È così che si è fatto la cicatrice sulla tempia. Fine del flashback.
In seguito il film diventa confuso e indecifrabile (quel tipo di opera per cui i critici cinematografici italiani vanno in estasi, insomma), come diapositive con didascalie cirilliche. In rapida sequenza, vediamo quello che segue. Un foglio con evidenti tracce di piegatura e poche frasi scritte a macchina. L’immagine è sfuocata. Non riusciamo a distinguere cosa c’è scritto, ma intuiamo che è l’ultimo messaggio di Kathy. Forse spiega il motivo del suo suicidio. Bill vestito di nero, in lacrime, barba incolta, che posa il capo su una lapide con inciso in lettere d’oro il nome di lei. Piove a dirotto. Intorno un oceano di fiori di tutti i colori. Sconosciuti in secondo piano, parenti o amici o curiosi. I flash dei fotografi si confondono con quelli del temporale. Bill barcolla sul bordo della piscina della sua villa. In una mano regge una bottiglia vuota, nell’altra una bottiglia piena. La luna piena si specchia nell’acqua sporca. Bill, barricato nel bagno, steso nella vasca, intento a tagliarsi le vene con un cavatappi. Ovunque macchie di sangue a forma di mano. Anche sulla tavoletta del water. Bill, con i polsi bendati, che firma un contratto di vendita che include villa, azienda di famiglia e Ferrari Testarossa. Una rivendita di macchine usate, da qualche parte negli USA. In secondo piano, nel parcheggio di cemento, si vede il furgone giallo ocra. Sul parabrezza impolverato il prezzo è scritto con il sapone. Sulle fiancate non c’è nessuna scritta enigmatica, solo qualche ammaccatura piena di ruggine. Bill, con un pennello in mano, dipinge lettere maiuscole sul fianco del furgone. Ha già fatto la W e la A, sta facendo il tratto verticale della T. Le sue dita sono
sporche di vernice. Il furgone giallo ocra sul margine del Gran Canyon. Bel panorama. Bill seduto sul cofano scruta l’abisso e sorride. Bill, al volante del malconcio furgone, attraversa di notte il Golden Gate. Il suo volto ora sembra un teschio, con la differenza che i teschi non hanno gli occhi e non piangono. Bill guarda l’insegna al neon del KARL SNACK BAR. Occhi incredibilmente azzurri. Il risveglio di Bill è così repentino da far cigolare gli ammortizzatori scarichi del vecchio furgone. L’uomo è in un bagno di sudore. Guarda verso il lago increspato dal vento e si accorge che il sole sta tramontando, tingendo di rosso e arancione l’intero panorama. Ha dormito tutto il giorno. Bill allunga la mano destra verso il cruscotto e apre un cassetto. Ne sfila un rettangolo di carta ingiallita e lo spiega con delicatezza. Osserva il foglietto in controluce. Lo vediamo in dettaglio (è la stessa pagina del flashback). Bill legge.
NON È COLPA TUA. RICORDALO. SEI LA COSA MIGLIORE DELLA MIA VITA. CERCA DI CAPIRE QUELLO CHE NON POSSO SPIEGARTI CON LE PAROLE. NON LASCIARTI MORIRE. ADDIO. KATHY.
Scuote la testa, spargendo lacrime nell’abitacolo. “Perché?” urla, travolto dall’angoscia. “PERCHÉ?”
Come sempre, nessuna risposta. Nessuna risposta nel mondo. Nel crepuscolo, Bill accende il motore e gli abbaglianti. Ingrana la prima e riporta il furgone sulla strada. Alle sue spalle, tra le fronde dell’abete risuona una maliziosa risata. Dopo una rapida dissolvenza in nero, seguiamo il furgone giallo di Bill che sfreccia lungo la via principale del paese dal nome allucinante e alla fine di una rumorosa frenata si arresta sotto l’insegna del KARL SNACK BAR. Stavolta i neon sono accesi e mandano una spettrale luce verdastra, quasi aliena. Dal traffico praticamente nullo, deduciamo che è tarda notte o che manca poco al sorgere del sole. Bill smonta dal furgone fumante e a o svelto s’infila nel piccolo locale. Nessuno sguardo converge su di lui. Non c’è nessuno ai tavoli. Anche il bancone è deserto. Affranto, Bill grida: “C’è nessuno in casa?” Risponde una voce femminile da dietro il bancone. “Sì?” Un attimo dopo appare la ragazza con gli occhi azzurri e il neo sullo zigomo. Ha uno straccio bagnato fra le mani e i capelli raccolti in una lunga coda. Indossa sempre i jeans e la camicia annodata sull’ombelico. A Bill sembra bellissima. La sua espressione è talmente assorta da risultare divertente agli occhi della ragazza, che infatti scoppia a ridere. Imbarazzato, lui chiede: “Sono così buffo?” Lei fa l’occhiolino e con voce morbida, risponde: “Sì.” Con un sorriso disarmante, lui si presenta: “Sono Bill.” La ragazza posa lo straccio sul bancone e annuisce. Dice: “Kathy.”
Coincidenza o no, il film finisce così. Anche se non ha senso come finale. Dopotutto neanche quello che lo precede ha molto senso. Per lo spettatore medio e non l’intellettuale di sinistra, almeno. Tipica cinematografia da Festival.
THE END
Le luci si riaccendono sulle poltroncine deserte. Tranne la mia. Riaccendo il cervello. Primo pensiero razionale: Bene, fantastico, questa sera ho sprecato la considerevole cifra di cinquemila lire! Il secondo: Merda, questa poltroncina mi ha sfasciato la schiena, mi sembra di avere chiodi piantati nelle vertebre! Mi sollevo con un gemito dolorante e dirigo i miei i zoppicanti (mi si è quasi addormentata una gamba, a forza di tenerla accavallata) verso l’uscita. Mi stiracchio in modo poco aggraziato ma molto soddisfacente per le giunture. Scosto la pesante tenda e la luce che mi colpisce gli occhi è tanto forte da accecarmi per alcuni penosi secondi. Sbatto in fretta le palpebre, infastidito e disorientato. Quando riacquisto la vista, il disorientamento è totale. Davanti ai miei occhi non c’è l’atrio del Nuovocine. È cambiato tutto. Comincia a girarmi la testa. Ho voglia di vomitare.
In fondo al nuovo atrio c’è una nuova biglietteria con una nuova bigliettaia. Un’estranea. Con l’aria poco amichevole. Solleva lo sguardo su di me e dice: “Tutto bene, signore?” Riesco appena a sussurrare un illogico: “Certo.” Poi, preso dal panico o chissà che, volto le spalle e fisso la tenda. Non so cosa fare. Senza una valida ragione, i piedi mi riportano in platea. Soltanto che è cambiata anche quella: adesso le poltroncine sono imbottite, comode e azzurro vivo. Per poco non cado sul pavimento, che ora è foderato da una morbida, fittissima ed elegantissima moquette grigioverde. Mi aggrappo alla tenda. L’unica cosa rimasta uguale a prima. Dannazione! Cosa sta succedendo intorno a me? Cosa sta accadendo dentro me? Quel film del cazzo mi ha fatto impazzire? Sto sognando? Questa è la realtà? Una diversa realtà? Dimensione follia? L’unica costante universale sembra essere l’assenza di logica in entrambe le realtà. Già. Perché in questa platea, misteriosa e bellissima, non c’è neppure una poltroncina libera. Sono tutte felicemente occupate. Coppie di giovani, coppie di anziani, gruppi di amici, schiere di bambini vocianti, single annoiati, zitelle isteriche, solitari cinefili. L’atmosfera è serena, quasi giocosa. L’illuminazione intensa, avvolgente e calda. I suoni infiniti. Echi melodiosi di risa. Dovunque aleggia la dolce fragranza delle merendine al cioccolato, degli enormi coni gelato, delle patatine fritte, dei popcorn caldi con il burro. È tutto incredibilmente invitante. Qualcuno, ogni tanto, si volta e mi lancia un’occhiata perplessa, ma non
indifferente. Sguardi che sembrano voler dire: “Non stare lì impalato: lo spettacolo sta per iniziare!" Spinto dall’onda magnetica di quel richiamo subliminale, percorro il largo corridoio in mezzo alla platea. Mi sento osservato, certo, ma non giudicato. Quando raggiungo la poltroncina n° 56, non mi meraviglio di trovarla libera. La targhetta è identica a quella del vero Nuovocine. Noto che su tutte le poltroncine ci sono le targhette, diverse dalla mia, ma ancora saldamente ancorate ai comodi schienali imbottiti. Mi accomodo. Nella poltroncina accanto siede una ragazzina sui dieci anni. Lecca un gigantesco gelato alla fragola e chiacchiera animatamente con il fratellino di qualche anno più piccolo. I genitori fissano lo schermo in silenzio, assorti in chissà quali preoccupazioni… solo che non hanno gli occhi tristi. È come se stessero già guardando un film. Un bel film Disney. Si tengono per mano. Provo una fitta di sottile invidia. La reprimo come sempre: penso che facciano finta di volersi bene e che non lo sappiano. Non ancora. Questa è una delle poche lezioni fondamentali che ho appreso dai miei genitori. Ruoto il polso sinistro e controllo l’ora. 20:14. La luce si attenua di colpo. Il film sta per… … oh, MIO DIO. Che sto facendo? Perché resto qui? Voglio davvero vedere questo film, con tutta questa folla? Le luci si spengono. Il raggio bianco illumina lo schermo. Nel fascio di luce non brilla neanche un granello di polvere. Questo è un fenomeno così strano e insolito da convincermi a restare seduto sull’accogliente poltroncina di questo cinema irreale, formatosi come per magia intorno al mio corpo, senza alcun motivo al mondo. Accetto la cosa così com’è. Questa è la mia filosofia. Il silenzio cade sulla platea.
Parte la colonna sonora. Sullo schermo è apparso il titolo del film in programma, sgocciolanti lettere cubitali rosso sangue su fondo nero. Il mio cuore salta un battito. Spalanco occhi e bocca fino ai limiti umani. Credo che stavolta non disattiverò il cervello. Guardo il grande schermo, impressionato e sbalordito, come se fosse la prima volta che vedo scritto il mio nome.
PRIMO TEMPO
Quando l’uomo attraversò la fatiscente doppia porta a vetri del Nuovocine, aveva la classica faccia disgustata di chi ha appena assistito a uno spettacolo ignobile e pietoso. Il film, Anime Mortali, non gli era piaciuto per niente. Non ci aveva capito un’acca. Quel tizio, Bill Cody, era l’archetipo dello sfigato di sinistra autodistruttivo. Se fosse esistito sul serio, gli sarebbe piaciuto parecchio spaccargli il cranio sbattendolo sul cofano del suo furgone giallo diarrea. Puah! Con questi allegri pensieri nella mente, l’uomo percorse il breve tratto di marciapiede che lo separava dalla fermata dell’autobus. Erano le ventitré. Le strade desolate come il cinema. Puzzavano di cacca di cane e benzina bruciata. Sotto la luce itterica dei lampioni ai vapori di sodio, l’asfalto bagnato sembrava una lunga lapide di marmo nero, solo che di solito sulle lapidi non si schiacciano mozziconi, gomme da masticare o ci si sputa catarro sopra. Odiava quel paese.
Lo sguardo incollato al marciapiede (prevenire è meglio che pulire), raggiunse in pochi minuti la fermata. L’ultimo autobus ava di lì alle 23.15. Per lunga esperienza, però, lui sapeva che sarebbe arrivato in anticipo di cinque minuti. Nessuno sapeva perché. Come al solito, l’arrivo del veicolo era annunciato con grand’anticipo dal fracasso del suo stanco motore sbiellato. Era un mezzo degli Anni Sessanta. Quando sollevò gli occhi da terra, l’uomo si accorse di non essere solo. C’era qualcun altro ad attendere l’autobus. Una giovane donna. Infreddolita ed esile, stretta nel suo impermeabile scuro. Con falsa noncuranza, la studiò. La donna aveva un aspetto terribile. Era scalza. Dai collant sintetici, strappati sulle ginocchia, spuntavano dita dei piedi luride, con le unghie smaltate di rosso. Dietro il ciuffo di capelli stopposi, faceva capolino un occhio gonfio e acquoso. Parte dell’impermeabile appariva tagliuzzato, come da una lama affilata. A conclusione del ritratto, un filo di sangue colava dall’orecchio sinistro fino alla clavicola. Ben visibile perché, a quando sembrava, la donna non portava niente sotto all’impermeabile affettato. Nell’ombra fra due lampioni, la giovane donna tremava. L’uomo ebbe pietà di lei. Era una persona fredda, priva di empatia, insensibile al dolore altrui, quella notte però si sentiva ben disposto. Non sapeva quanto quell’innaturale stato emotivo potesse durare, tuttavia avrebbe desiderato poterlo prolungare all’infinito… Non proprio per sempre, certo, solo un po’ di più. Con lunghe falcate avvicinò la donna, esibendo quello che credeva e sperava fosse un sorriso rassicurante. Per lui fu uno sforzo titanico. Non era abituato a sorridere. Non in quel modo. D’altronde, quei due i furono i più difficili della sua vita. Paragonabili a quelli di Neil Armstrong.
Dopo che ebbe guadato la sua versione del Rubicone, cominciò a star meglio. Ormai la nuova strada era stata imboccata, non restava che percorrerla tutta e vedere dove conduceva. Alla fine poteva esserci solo un altro bivio o un definitivo vicolo cieco. Comunque, a questo punto, non importava nulla. Quelli erano ragionamenti che potevano interessare uno sfigato come quel Bill Cody. Un ragazzo tormentato che, messo in un circolo chiuso, avrebbe continuato a girare, girare e girare fino a consumarsi piedi, caviglie e ginocchia. A questo punto, probabilmente, si sarebbe trascinato in avanti con le mani. Non avrebbe mai capito e accettato che quando non c’è una via d’uscita, non c’è è basta. Per quanto uno possa sbattersi per trovarla. Bisognava arrendersi. Lui non era così. Non si sentiva così. Nello stesso circolo vizioso lui, dopo un giro di attenta ricognizione, si sarebbe seduto per terra e avrebbe aspettato la fine del gioco. Certo, avrebbe salutato Bill quando ava… e potendo gli avrebbe anche rifilato un calcio in culo. Così, tanto per dargli un po’ di carica. La donna tossì, strappandolo dalle sue riflessioni. “Signora, sta male?” chiese. “Posso aiutarla?” La donna lo guardò impaurita e scosse la testa con forza. Sconcertato, l’uomo allargò le braccia e disse: “Ma io…” A quel punto la donna vacillò. Lui accorse per afferrarla al volo… ma non ci riuscì. Lei si afflosciò sul marciapiede come una busta vuota. Frattanto, dalla zona del aggio a livello giunse il rombo sbiellato dell’autobus. L’uomo ruotò lo sguardo in quella direzione e vide due punti luminosi in avvicinamento.
Che fare? Aveva forse alternative? Forse. Curvò la schiena e raccolse fra le braccia il corpo inerte della donna. Era magra come un grissino. L’uomo attese l’autobus, sorridente. Si sentiva straordinariamente leggero, quella notte.
Qualche ora più tardi la donna si risvegliò dentro un letto caldo e morbido, con le narici piene di un profumo così invitante da impedirle di restare distesa un altro secondo. Si alzò e vide la sua immagine riflessa nello specchio appeso sulla parete accanto al letto. Lo stupore di essersi risvegliata in un letto che non era il suo fu alimentato a dismisura da quello che lo specchio le mostrò. Qualcuno le aveva disinfettato le ferite, lavato i capelli (anzi, l’intero corpo) e fatto indossare un pigiama maschile blu notte. L’occhio era sgonfio. L’orecchio non sanguinava. La donna fece un giro su se stessa e analizzò la stanza. Una comune stanza da letto: anonima e ordinata e pulita. La stanza di un uomo che viveva da solo. L’unica nota di colore era una riproduzione de “Le Muse Inquietanti” di De Chirico, attaccata con due pezzi di nastro adesivo su un’anta dell’armadio. Sul comò una radiosveglia di marca ignota che segnava le 06:18. Accanto al letto un paio di pantofole. Visto che cominciava a sentire i piedi gelati, la donna pensò bene di indossarle. Erano sbiadite, sformate, più grandi dei suoi piedi di due taglie, ma calde e accoglienti. Quel delizioso profumo continuò a stimolarle lo stomaco.
Decise di scoprirne la fonte. Spalancò l’unica porta della stanza e si ritrovò in uno stretto corridoio invaso dalla penombra. In fondo, sulla destra, c’era un’altra porta, aperta, da cui fuoriusciva una soffusa luce gialla. Il profumo veniva da lì. In quel momento riconobbe l’inconfondibile e penetrante fragranza di uova strapazzate, formaggio, pancetta affumicata e tanta cipolla. Come aveva fatto a non capirlo prima? Era uno dei suoi piatti preferiti… era… ma, poi… La donna scacciò con rabbia i ricordi e pantofolò lungo il corridoio oscuro senza timore. Se qualcuno era stato così umano da soccorrerla (non ricordava proprio chi, come, dove e quando) mentre si trovava incosciente all’angolo di chissà quale strada, certamente non era da considerarsi un tipo pericoloso… Considerando anche che l’aveva curata e lavata con tanta premura. No. Sicuramente non c’era niente da temere alla fine di quel tetro corridoio. A meno che… Già. A meno che in quella cucina, indaffarato a cucinare, non ci fosse stato lui ad attenderla. Lui ed i suoi pugni e/o piedi, a seconda dell’umore. Ma era impossibile! Quella non era casa sua. Non era la casa in cui era stata imprigionata per due lunghi anni. No, questa era una casa diversa. Questo qualcuno era diverso. Chi cucinava le uova a quel modo non poteva essere cattivo. Era assolutamente contro natura. Presto, comunque, l’avrebbe scoperto. La risposta era appena dietro l’angolo. Facendosi coraggio, la donna aprì la porta, varcò la soglia e sorrise all’uomo seduto dietro un tavolo da cucina. Lui leggeva con attenzione le pagine di un quotidiano e sorseggiava il caffè bollente da un bicchiere di plastica. Al suo ingresso gli andò di traverso. L’uomo diventò rosso e tossì.
La donna non riuscì a trattenere una risata liberatoria. Eh, sì, quello non era di sicuro un uomo pericoloso. Eccetto che per sé stesso, ovviamente. Quando l’attacco di tosse e risa cessarono, i due estranei si studiarono a vicenda, avvolti da un imbarazzato silenzio. L’uomo parlò per primo, quasi un sussurro. “Buongiorno.” Lei incrociò le braccia sul seno e rispose: “Buongiorno.” Lui annuì e con un gesto la invitò a sedersi a tavola. “Ti piacciono le uova al bacon?” domandò. Sedendosi, lei sorrise con bocca e occhi. “Le adoro!” Un attimo dopo divorò le uova con avidità. Alla fine fece la scarpetta al piatto con l’ultimo pezzetto di pane bianco e innaffiò il tutto con un bicchiere di corposo vino rosso. “Buonissime. Davvero!” affermò la donna, ripulendosi le labbra con un tovagliolo di carta. L’uomo alzò appena gli occhi dalla pagina della cultura dell’Unione Sarda (stava leggendo la recensione dell’ultimo romanzo di Clive Cussler) e annuì imbarazzato. Non era un tipo modesto… solo che nessuno si era mai complimentato con lui. In fondo, si trattava solo di uova e pancetta. Niente di trascendentale. Un piatto che tutti quanti sapevano fare. “Ti ringrazio.” “Figurati…” rispose lei. Poi guardò verso la finestra della cucina, che aveva la tapparella marrone (sforacchiata chissà quando da una forte grandinata) calata a metà. All’esterno si vedeva solo buio.
Domandò: “A che ora spunta il sole?” Lui spostò lo sguardo sulle tenebre incollate al vetro. Sorrise enigmatico. La donna l’incalzò: “Allora? Quanto manca all’alba?” Incrociò di nuovo le braccia sul seno e l’uomo non poté far a meno di notare il turgore dei capezzoli sotto il pigiama. Dopo essersi schiarito la voce contro il palmo della mano, rispose: “Dodici ore. La radiosveglia in camera è sfasata. Sono quasi le sette della sera. Hai dormito tutto il giorno.” La donna restò di stucco. Pensava di trovarsi in quella casa da poche ore. “Ma tu… come?” balbettò, incerta. Lui capì subito quello che intendeva. Le spiegò tutto, con calma, mentre riordinava la tavola e infilava le stoviglie sporche nel lavandino smaltato, dove spiccava un sottile filo di ruggine sotto il rubinetto. “Quando ti ho portato qui, la scorsa notte, erano quasi le due del mattino…” dichiarò lui, con tono impersonale. “Sei rinvenuta solo una volta. È stato dopo il… beh, dopo che ti ho lavata. Hai socchiuso gli occhi e mi hai bisbigliato qualcosa tipo “ti prego non picchiarmi”. Poi sei svenuta di nuovo. Così ti ho disinfettato le ferite e infilata dentro il mio pigiama di riserva. Ti ho messa a letto verso le tre. Sei ata direttamente dall’incoscienza al sonno… Ti agitavi parecchio. Io ho dormito sul divano. Alle otto del mattino, come al solito, sono uscito di casa per andare al lavoro. Nel caso ti fossi svegliata durante la mia assenza avevo lasciato un messaggio sul comò… Quando sono rientrato, però, tu dormivi ancora. Così l’ho levato. Ho trascorso il pomeriggio in cucina a guardare la tv. Mi piacciono molto i telefilm.” Dopo una breve pausa, aggiunse: “Spero di non aver fatto nulla di male. Se così
è… scusami tanto. Mi dispiace.” La donna sorrise per tranquillizzarlo, poi fece qualcosa di inaspettato. Allungò la mano sul tavolo e sfiorò le dita callose di lui. La sua pelle era morbida e fredda. L’uomo trasalì e ritrasse di scatto la mano come se lei scottasse. Imbarazzata, lei disse: “Non conosco il tuo nome.” Lui deglutì e si presentò. “Io mi chiamo Anna… e credo di doverti la vita.”
Più tardi, in salotto, i due sconosciuti stavano seduti sul vecchio divano di pelle consunta ad ascoltare un “Notturno” di Chopin diffuso dallo stereo Pioneer, relegato in un angolo e decorato con piccoli dinosauri di plastica colorata trovati negli ovetti di cioccolata. Il volume era basso. In sottofondo, nell’oscurità circostante, si udiva il frinire dei grilli e il fruscio del vento tra le foglie degli alberi. Da qualche parte nella casa risuonò una pendola. Scandì otto cupi rintocchi. Anna fissava il lampadario di finto cristallo, sopra le loro teste, velato di polvere e addobbato da ragnatele. Sul soffitto risaltava una lunga crepa, sinuosa e scura, come una faglia. Ad un certo punto, l’uomo si alzò e ruppe il silenzio. “Ti va un po’ di vodka?” “Perché no?” replicò lei, ormai a suo agio, accavallando le gambe, lunghe e sinuose come la fenditura sul tetto. L’uomo aprì lo sportello di un mobile bar che aveva visto tempi migliori e ne trasse una bottiglia di Keglevic integra. “Ho soltanto quella alla pesca…” confessò, voltandosi. Anna inarcò un sopracciglio e socchiuse le palpebre.
Lui chiese: “Non ti piace?” “È l’unica che bevo” rispose lei. “Che coincidenza!” “Non credo più alle semplici coincidenze da parecchio tempo ormai…” mormorò lui, restando di spalle, rovistando nel mobile per cercare due bicchieri puliti. “La vita non è governata dal caso. C’è qualcosa di prestabilito. Una trama segreta così complessa e articolata da apparire caotica. Ma non è così. Basta saper guardare. I dettagli, anche quelli più banali e insignificanti, tradiscono un disegno nascosto.” Anna, confusa da quel monologo, preferì non dire nulla. L’uomo, però, cambiò argomento. “Non bevo spesso. Non mi piace perdere la lucidità. Bevo un po’ di vino solo quando mangio. Questo è l’unico alcolico che conservo. Ghiaccio?” “No…” rispose lei, con voce inespressiva. Poi, sottovoce, bisbigliò qualcosa di incomprensibile. L’uomo si voltò, reggendo la bottiglia con una mano e i due bicchieri con l’altra. “Eh? Scusami… non ho capito.” “Nulla…” replicò lei, scuotendo il capo. “Brutti ricordi.” Lui annuì. Quella donna aveva di certo un ato poco felice, come lui, dopotutto… e a entrambi non piaceva parlarne. Tanto di guadagnato. Anche perché, si sa, uno sfogo tira l’altro e alla fine… Si, ecco, avrebbe finito per raccontarle di quando suo papà spaccò la testa alla mamma. Per colpa di una stupida torta di mele bruciata nel forno. Non gli andava di dirle che era stato proprio lui a mandare indietro il timer per scherzo (particolare mai confessato) e di come la testa di mamma fece CRAK! quando papà la schiantò per la decima volta sulla parete piastrellata della cucina. No. Non gli andava di ricordare quelle cose (anche se l’aveva appena fatto). Stappò la vodka e la versò nei bicchieri. Ritornò al divano e ne porse uno ad Anna, che nel frattempo si era immersa in chissà quali tristi reminiscenze.
“Grazie…” biascicò lei, prendendo il bicchiere con dita tremanti. Il liquido ondeggiò. “È quello che mi ci vuole.” “Anche a me.” L’uomo distolse gli occhi dallo sguardo della donna. Centellinarono il liquore caldo, in silenzio, accompagnati da Chopin e da un ato ormai morto… ma non sepolto. All’improvviso, l’uomo si chinò, collocò il bicchiere vuoto sul pavimento e propose: “Anna, perché non mi parli di te?” Lei lo fissò per un infinito istante, con il bicchiere sospeso a un centimetro dalle labbra dischiuse, sensuali e pallide. Chiudendo gli occhi, replicò: “Non c’è nulla da dire.”
In verità, sul ato di Anna c’era molto di cui parlare. Tutti i suoi ventuno anni, nel complesso, potevano essere riassunti in un’unica terribile parola: ABUSO. Anna ebbe, come si soleva dire, un’infanzia difficile. Soltanto che questa rassicurante definizione burocratica era (per quanto la riguardava) un po’ troppo generica. Non le piaceva parlare di sé (anche se, per un attimo, stava quasi per farlo) soprattutto perché raramente qualcuno le credeva. La sua storia era così drammatica e brutale da sembrare inventata. Certo, non completamente… ma in gran parte sì. Giudicate voi stessi.
La vita di Anna cominciò male.
La madre, una tossica con problemi mentali, la scaricò in un cassonetto dimenticato nella zona industriale di Cagliari, presso un distributore della ESSO. Il gestore la trovò, nuda e insanguinata, tra le immondizie, richiamato dai suoi sempre più fievoli strilli. Dei genitori naturali nessuna traccia. Il tizio del distributore, quella calda notte di fine agosto, spiegò i fatti a un carabiniere assonnato con queste orribili parole: “Secondo me, quegli stronzi tenevano la piccola nel cofano. Parcheggiano qui davanti, si sparano una dose e la buttano all’immondezza. Poi fanno il pieno e spariscono nel nulla.” Una ricostruzione fantasiosa, sicuro, ma realistica. Da quando venne estratta dal cassonetto, fino al giorno dell’adozione (dieci anni dopo), l’esistenza di Anna fu simile a quella di tutte le altre vittime della cosiddetta “Teoria del Cassonetto”. Poteva andarle peggio. I suoi strafatti genitori biologici avrebbero potuto, per esempio, decidere di scaraventarla fuori dal finestrino dell’auto in corsa… con il risultato di spalmarla sull’asfalto della S.S. 131 per chissà quanti metri. Oh, sì, potevano farlo. Su quanti pneumatici radiali Michelin sarebbe finita, prima di venire trovata? Comunque, il peggio (forse) doveva ancora venire. E infatti arrivò. Come al solito celato dall’Illusione di un Futuro Migliore. Stiamo parlando del Gran Giorno dell’Adozione. Peccato, tuttavia, che i cosiddetti Genitori Adottivi fossero pessime brutte copie dei Genitori Naturali. Ammesso che ciò fosse possibile. Gli otto anni che Anna trascorse con i Genitori Adottivi furono un incubo senza interruzioni. Giorni, mesi e anni di violenze troppo raccapriccianti per essere narrate. Basti citare un episodio (non il peggiore, uno qualsiasi). Accadde la notte di Natale, sotto l’albero pieno di palline multicolori, lucette intermittenti e nastri d’argento. In cima all’albero il Papà Adottivo aveva collocato una Stella Cometa di vetro tempestato di brillantini. Costo effettivo: cinquemila lire. Quella particolare notte, Anna (che a quell’epoca aveva tredici anni) ebbe la malaugurata idea di salire su una sedia per raddrizzare la Stella Cometa, che pendeva mollemente verso la parete dietro l’albero. Inutile aggiungere che, pochi istanti dopo, l’albero di Natale, la Stella Cometa, la sedia
e una terrorizzata Anna rovinarono sul pavimento. Niente di rotto… a parte la Stella Cometa. Oh. Oh. Il Papà Adottivo piombò subito in salotto come un bisonte impazzito. Vide quello che era successo e prima di ogni cosa, prima di qualsiasi spiegazione, sollevò un piedone taglia quarantacinque e lo piantò nello stomaco della Figlia Adottiva, ignorando il fatto che lei fosse già in lacrime. “STRONZA FOTTUTA!” ringhiò, sbavando e indicando i frammenti della Cometa. “GUARDA COSA HAI FATTO!” Mentre urlava queste costruttive ed educative parole, sferrò un altrettanto educativo calcio sulle braccia protese di Anna. Inutile difesa. Due ulne e un radio si spezzarono. Ma non finì così. Il Papà Adottivo raccolse una manciata di lucenti schegge della Stella Cometa e ne colmò la bocca urlante di Anna. “QUESTO È IL MIO REGALO, MANGIA, STRONZA!” Poco dopo arrivò anche la Mamma Adottiva. Nella sua ristretta mente contorta, Anna avrebbe dovuto sostituire la sua unica vera bambina morta in culla molti anni prima. Questa ossessione non poteva essere positiva per Anna. La Mamma Adottiva, per nulla turbata dalla scena, commentò: “È questo il regalo che fai a mamma, Stefy?” Lei la chiamava sempre Stefy, il nome della figlia defunta. Anna era il nome che le avevano dato in ospedale, la famosa Notte del Cassonetto. Probabilmente era il nome di qualche egocentrica infermiera. Tuttavia, la Mamma Adottiva non usava mai quel nome. Per lei era Stefy e basta.
Nel frattempo, sotto lo sguardo imibile e vuoto dei Genitori Adottivi, Anna si contorceva sopra le mattonelle, sbriciolando palline colorate, nastrini e lucette intermittenti. Più tardi la portarono in ospedale. Molto più tardi. Impiegarono tutto quel tempo per immaginare una buona giustificazione alle sue fratture scomposte e multiple. Come sempre non fu un problema: la bambina era vivace e, mentre aiutava il paparino a ornare l’Albero di Natale, era caduta dalla sedia e bum! Poverina, molta bua per lei e moltissimo spavento per loro. Grazie a Dio non era così grave. Amen. Otto settimane di ingessatura. Questo solo per fare un esempio. Ma non finisce qui. Compiuti i diciotto anni regolamentari, Anna scappò. I Genitori Adottivi non fecero nulla per fermarla. Erano scocciati di avere sempre in mezzo ai piedi quella ragazzina problematica. Soprattutto da quando avevano concepito un loro figlio. Interferiva troppo con i Progetti per il Futuro. Qualche mese più tardi, dopo aver vissuto d’espedienti (come dicono i giornalisti), conobbe Giacomo, un farmacista disoccupato. Il giorno seguente si trasferì a casa di lui. Amore a prima vista? Qualunque cosa fosse, non durò. Non ò molto tempo prima che Giacomo trasformasse il suo amore in follia e la sua casa in una prigione. E poi le donne si lamentano che gli uomini non cambiano mai… Forse Giacomo era l’eccezione alla regola. Comunque sia, dopo appena tre mesi di serena convivenza (con i problemi di tutte le giovani coppie, cioè economici) Giacomo iniziò a cambiare. Causa: il
mostro dagli occhi verdi la cui vittima più famosa fu un certo moro di Venezia. Il mostro era ovviamente la Gelosia, che distrugge chi la nutre. È forse superfluo specificare che questa gelosia era del tutto immotivata. Come sappiamo, questa tragica emozione, come l’erba cattiva, attecchisce sempre e dappertutto. Ed è difficile da estirpare come i tumori maligni o il terrorismo. I frutti amari dell’albero della Gelosia non tardarono a crescere. Giacomo prese subito confidenza con l’alcool. In qualunque forma gli si offrisse. Dal bicchierino alla bottiglia in una stagione, può sembrare poco tempo, ma per Anna fu un supplizio interminabile. Dalle carezze alle botte. Il o fu ancora più breve e repentino, la tortura straziante… nello spirito e nel corpo. Sopratutto in quest’ultimo, già provato. Così trascorsero due anni. Anni da dimenticare. Fino a quell’ultima, orrenda notte (di cui l’uomo, il soccorritore, era stato l’inconsapevole testimone dell’epilogo.) Torniamo indietro di ventiquattro ore.
Giacomo rientrò a casa sbronzo marcio. Niente di nuovo. Ultimamente frequentava dei tizi, giù al Bar Sport dell’angolo, che avevano come unico scopo nella vita il bere e sparare cazzate. Furono questi stessi tizi a instillare certi sospetti nella fragile identità di Giacomo. La sua prima bevuta, in ogni senso. Poi le cose degenerarono. Le cazzate sono come le palle di neve, più rotolano è più diventano grandi… fino a formare valanghe incontrollabili. Proprio quello che accadde. Quella sera, infatti, Giacomo portò tra le claustrofobiche mura domestiche (oltre alla sbronza) un micidiale strumento: un bisturi. La sua provenienza resterà un mistero. Una cosa è certa… il bisturi era nuovo e tagliente. Quanto
successe in seguito è degno della fantasia di uno scrittore. Appena oltre la soglia, Giacomo urlò: “ANNA! DOV’È QUEL PORCO BASTARDO? DOVE LO NASCONDI?” Chiuse la porta alle sue spalle con un calcio, avanzò nell’atrio con il bisturi stretto nel pugno destro. Occhi rossi e un filo di saliva che colava dal mento ispido di barba nera. Era impazzito, definitivamente. Anna osservò la scena attraverso la fessura della porta. Era nuda, a parte i collant. Rabbrividì di freddo e terrore. Si era nascosta, dietro la porta del bagno, quando nella tromba delle scale erano risuonate le prime folli grida. In quello stesso istante, mentre infilava le gambe nei collant, capì che era giunto il tempo di fuggire. Un’altra volta. Finora aveva sempre rimandato, di giorno in giorno, impantanata nelle solite scuse. Scappare: dove? Vivere: di che? E… se lui ritornasse buono e romantico, un giorno? Erano belle scuse, sicuro, ma sempre scuse. La vista del bisturi luccicante cancellò ogni speranza. Fuggi o muori, pensò Anna. Scrutò nella fessura. Vide che lui barcollava in mezzo all’atrio, perplesso, con uno sguardo idiota privo di intelligenza e umanità. Respirava affannosamente, forse perché aveva fatto le scale di corsa. Già… per sorprendere l’amante inesistente con le mani sulla sua donna. Oh, sì. Facciamo una sorpresa alla puttanella. Chissà chi gli aveva sussurrato nell’orecchio quell’idea. Si accettano scommesse. Alcuni secondi dopo, Giacomo prese una decisione. “VENGO A PRENDERTI. TI TROVO E TI SQUARTO!” Con o strascicato si incamminò verso la camera da letto. Sventolò il bisturi e per miracolo non si staccò il naso.
Mangiandosi le parole, sibilò: “Sto arrivando…” Varcò la soglia e Anna non lo vide più. Però sentiva ancora il suo respiro pesante e indistinte frasi sconnesse. Un borbottio omicida. Sgusciò fuori dal suo nascondiglio, cercando di produrre il minimo rumore possibile. A ettini rapidi raggiunse l’antiquato e bruttissimo appendiabiti, accanto alla porta d’ingresso. Afferrò l’impermeabile e lo indossò. Era una cosa assurda, non poteva fuggire di casa conciata così… Ma ormai, presa dal vortice nero del panico, non ci pensò. Anche perché, quando si voltò, avvistò Giacomo che le si scagliava addosso sbavando e con il bisturi pronto all’uso. Urlò: “AH! ECCOTI QUA! TI HO BECCATA!” Anna indietreggiò e alzò subito le braccia per difendersi, come faceva da bambina. Come allora, fu un gesto inutile. Giacomo la ingannò. Fece finta di volerla colpire con il bisturi allo stomaco e, invece, le assestò un pugno nell’occhio sinistro. L’urto fu tremendo. Anna stramazzò a terra e batté la testa sul vaso portaombrelli, collocato nell’angolo. Una spina di dolore le trafisse il cranio, da una tempia all’altra. Avvertì il sapore del sangue sulla lingua arida. Stava per svenire. La vista le si oscurava, partendo dai bordi dell’immagine. Non poteva permetterlo. Puntò le mani sul pavimento. Piegò le ginocchia. Il mondo girava come una giostra. Sputò sangue. Frattanto, Giacomo sghignazzava divertito, proteso su di lei, la mano sinistra posata sul ginocchio e la mano destra saettante. Il bisturi brillava, intercettando la luce, proprio come aveva visto in centinaia di film e letto in un romanzo. Credeva se li inventassero gli sceneggiatori certi dettagli. Evidentemente non era così. “Brutta serata, eh?” bisbigliò tetro Giacomo. “Io la vedo molto brutta. Soprattutto per te. Tu come la vedi, tesoro?” Anna strisciò verso la porta.
Sapeva benissimo che era una sola, ma in quel momento ne vedeva due, tre o quattro. Ad un certo puntò non ricordò nemmeno perché fosse così importante raggiungerla. Una cosa era certa: tutte le due, tre o quattro porte erano chiuse. Intanto, quasi per gioco, lui le tagliuzzava l’impermeabile in lunghe strisce. Quasi volesse farne una di quelle strane opere d’arte iperrealiste. Il rumore del bisturi che tagliava era ossessionante. Una specie di latrato, quasi un ululato. Altra certezza: appena finito con l’impermeabile, avrebbe iniziato a strapparle strisce di pelle… e poi pezzi di carne. Poi… Rantolante, Anna ritrasse le gambe e provò a tirarsi su. Il tentativo fallì. Giacomo rise. “QUANTO SEI BUFFA!” Continuò la sua attività di tagliuzzamento. Il rumore era, più o meno, questo: Frrr… Frrr! A questo punto, Anna tentò il classico colpo di coda. Raccolse le forze, incanalò tutto verso le gambe e slanciò un piede nudo. Sperando di colpirlo nei testicoli. Non fallì. Nel senso che effettivamente colpì qualcosa. Il suo tallone raggiunse Giacomo in pieno volto, così forte da scaraventarlo al centro dell’atrio. Il bisturi gli scappò di mano e scivolò sulle piastrelle. Rimbalzò sul battiscopa con un metallico TLINK! e roteò su se stesso qualche volta prima di fermarsi proprio davanti ai suoi occhi inondati di lacrime. Per qualche attimo, Anna restò immobile, come una ginnasta al termine dell’esibizione, con il piede per aria che sgocciolava sangue tiepido e viscoso. Non era suo. Quando aveva fatto partire il colpo, Anna aveva percepito sotto il
tallone uno schiocco secco. Era il setto nasale di Giacomo che si fracassava. Quel suono la inorridì. Era la prima volta che lo udiva fuori dal suo corpo. Non era così spiacevole. Respirò, tenne l’aria nei polmoni a lungo e poi la rilasciò. Abbassò il piede. Anna girò la testa e notò che lui non si muoveva. Il volto coperto da una grottesca maschera di sangue. Morto o svenuto? Non c’era né la voglia né il tempo per controllare. Anna si rimise in piedi, traballò un po’ davanti alla porta chiusa. Un pensiero folle le occupò la mente per un secondo. “C’è qualcuno, seduto nel buio, che ti sta guardando.” Questo pensiero svanì, quando scoprì di avere ancora la forza per spalancare la porta e affrontare qualsiasi cosa vi fosse dietro. Senza voltarsi mai indietro, Anna aprì la porta sul buio umido della rampa di scale. Annodò la cintura dell’impermeabile sbrindellato e scese i gradini alla cieca. La sua mano tremante, umidiccia di sudore, scivolava sul amano di marmo gelido. Fuggì, dopo tanti anni di prigionia, da quel misero condominio sordo, muto e cieco. In fuga. Ancora. Corse sopra i marciapiedi, aggirò le auto parcheggiate (fece scattare lo stesso alcuni allarmi), apparve e scomparve tra le luci e le ombre dei lampioni, percorse vie a caso e imboccò diversi vicoli senza uscita. Tornò indietro, con il vento che le faceva svolazzare intorno alle gambe le falde sfrangiate dell’impermeabile, simili a tentacoli neri. Il gelo spietato della notte le si insinuò fra le gambe. La sabbia le irritò gli occhi già gonfi di lacrime. Sangue e sudore le si rappresero addosso, rendendola sporca e appiccicosa.
Evitò tutte le persone che incontrò per strada, cambiando spesso direzione o marciapiede… ma la maggior parte delle volte non fu necessario: erano le persone a evitare lei. Non era una cosa gradevole, ma era meglio così, in fondo. Non sentì nessuna sirena, né polizia né ambulanze. Forse non era morto. Quello sì che era sgradevole. Perché, se era ancora vivo, allora la stava cercando. Con il bisturi in mano. Alla fine, distrutta, i piedi a pezzi, Anna concluse la sua fuga senza meta vicino alla fermata d’autobus di fronte al NUOVOCINE. Ricordava quella ronzante insegna al neon. La porta a vetri illuminata di giallo. La locandina attaccata al muro scrostato. Ricordava l’uomo che le venne incontro… (Giacomo?) Lui aveva detto qualcosa, che non aveva capito, ma non sembrava niente di buono. Anzi, era decisamente cattivo. “TI HO BECCATA! ADESSO TI RIPORTO A CASA!” Le era parso di vedere un bagliore nelle sue mani… (bisturi!) … poi era svenuta.
Chopin aveva esaurito le note e ora taceva. Il silenzio era quasi solido, premeva su tutti gli oggetti del salotto, come l’oceano sugli abissi. Lui e Anna, a disagio sotto l’implacabile pressione di quel silenzio, si muovevano sul divano. Ogni movimento era accompagnato da un
cigolio di molle. I bicchieri giacevano sul pavimento, vuoti e tristi. Quell’atmosfera di sublime imbarazzo durava ormai da cinque minuti. Esattamente da quel fatidico monosillabo. “No.” Dopo non c’era più stato spazio per nulla. Tranne che per i ricordi. L’uomo, infatti, aveva intuito che quei vuoti cinque minuti erano stati tali solo per lui. Gli occhi di lei, invece, tradivano un flusso costante di pensieri… pensieri che spesso le strappavano una brutta smorfia. Le sue labbra erano tese e bianche come uno spago. Le rughe sulla fronte profonde. C’era qualcosa nel ato di quella donna che la divorava, la distruggeva dall’interno. Qualcosa di nebbioso, sporco e vivo. Una creatura senza forma che si nutriva del suo dolore. ò qualche secondo, poi lei fece una strana domanda. Così inaspettata e imprevedibile che lui sussultò. Anna lo osservò attentamente, con le palpebre a mezz’asta e le pupille scintillanti. Lo stava esaminando, più che altro. Nessuno lo aveva mai osservato in quel modo, tanto a lungo, a parte (forse) la bigliettaia annoiata del Nuovocine. Con voce pacata, lei disse: “Da quanto non fai l’amore?” L’uomo deglutì a vuoto. Un’incandescente palla di ferro uncinata cominciò a rotolargli nello stomaco. Tuttavia riuscì a non tradire il suo turbamento. Cercò di fare il disinvolto, incurvò le labbra in un incerto sorrisetto sornione. Rispose: “Intendi in compagnia e senza pagare?” Anna inclinò il capo. “Certo. L’altro non è amore.” “Ah!” esclamò lui, sempre più confuso. “Beh, io…” “Non lo ricordi?” “No. Cioè. È ato molto tempo. Troppo.”
“Anche per me…” mormorò Anna, seria. “Lei… chi era?” “Una come tante. Credeva nell’amore, ma non lo capiva.” “Tu l’amavi?” “Sì. Nel modo sbagliato. Capisci?” Anna incrociò le lunghe gambe e se le abbracciò. Posò il mento sulle ginocchia e si soffiò via il ciuffo dalla fronte. L’uomo si alzò, raggiunse lo stereo e riavvolse il nastro. Voltandosi, domandò: “Perché me lo hai chiesto?” Anna sorrise e non rispose. Lui notò che la pelle del suo volto non era più pallida. Sfumava nell’avorio. Ne fu felice. “Allora?” l’incalzò, facendo ripartire il nastro. Anna ammiccò, spalancò le braccia magre e tese le mani. Sorridendo, disse: “Vieni qui e scoprilo.” Chopin attaccò il Nocturne op.9. n° 2 e l’uomo si avviò verso il divano, per soddisfare la sua curiosità. E non solo.
Il letto era singolo, ma nessuno dei due si soffermò su questo irrilevante particolare. Una delle caratteristiche più affascinanti dell’atto sessuale era la sua intrinseca capacità di alterare la percezione della realtà. In quei momenti tutto diventava relativo. Un letto singolo sembrava un tre piazze, una piccola stanza appariva enorme e il rumore del traffico si trasformava in un piacevole sottofondo. Ovviamente tutto finiva, prima o poi. Quello che prima sembrava comodo, poco dopo diventava scomodo. Per loro non fu diverso. Intorno alla mezzanotte, cominciarono a rigirarsi sopra e sotto le lenzuola, alla ricerca di un’inesistente e fantomatica posizione comoda. Nessuno dei due la trovò, come era ovvio. L’unico risultato che ottennero fu un ritorno di fiamma.
Quando anche questo terminò, l’uomo sospirò soddisfatto e allungò una mano nell’afosa oscurità. Trovò e premette il vecchio interruttore a pulsante sopra il comodino. La luce si riversò impietosa sul letto disastrato e sui loro corpi nudi. La radiosveglia indicava 01:02. Anna si stiracchiò, sbadigliò e fece schioccare la lingua. “Ho fame!” affermò, rilassata. “Odio questa luce…” replicò lui, mettendosi a sedere sul bordo del letto e sfregandosi gli occhi. “Devo decidermi a mettere quell’altro tipo di lampadine. Quelle a luce soffusa.” “Ho fame!” replicò lei, battendo il pugno sulle lenzuola. Lui sembrò non sentirla neppure. Infilò i boxer e andò all’armadio. Scrutò intensamente le Muse di De Chirico. “Belle…”, affermò, grattandosi la testa. “Mi ispirano.” “Ho fame!”, ripeté lei, come una bambina capricciosa. L’uomo afferrò le manopole e socchiuse l’armadio. Una zaffata rancida esalò all’esterno. Sapeva di zolfo e naftalina. “Io-Ho-Fame!” recitò Anna allegra, gli occhi fissi sulle spalle muscolose di lui. Notò qualche escoriazione scarlatta. Non ricordava di averlo graffiato a sangue sulla schiena, mentre facevano l’amore. Non era sicura, però. Forse sì. Era troppo distante da lui per avvertire il fetore nauseante che emanava dall’armadio socchiuso. Non lo sentiva. Non ancora. Senza girarsi, lui mormorò: “Sì. Anche io ho fame.” Poi sorrise, un sorriso deformato, ma lei non poté vederlo. Non ancora.
Spalancò l’armadio. Dissolvenza in nero.
INTERVALLO
Di scatto mi alzo dalla sedia e, contemporaneamente, le luci si riaccendono in sala. Il pubblico sembra soddisfatto dello spettacolo. Fin qui. Tutti si domandano “Cosa succederà adesso?” Beh, io lo so già. Perché quello sono io. Quella è la mia casa. Quello è il mio armadio… Intorno a me la gente chiacchiera allegra, mangia patatine e teorizza sul finale o sul significato metaforico di certe frasi o scene. A me non importa nulla di tutto questo. Voglio solo uscire da questo cinema orribile dove si proietta la mia vita. Per fortuna nessuno presta attenzione alla mia espressione sconvolta… Dio, potrebbero riconoscermi, capire che quello sono io e iniziare a indicarmi e urlare in coro: “Ehi! È LUI!” Basta. Devo uscire subito da qui. Non resisto! Non voglio vedere anche il SECONDO TEMPO. Senza preavviso, le luci si spengono. Le chiacchiere degli emozionati spettatori si affievoliscono. Parte il proiettore. Scappo, ando tra le file di poltroncine, cercando di non guardare mai lo schermo, mentre alle mie spalle il film continua. La colonna sonora non è affatto rassicurante. A testa bassa raggiungo nella penombra la tenda, sopra c’è una scritta rossa illuminata che dice: EXIT. Trovo una certa sottile ironia in questo particolare. Scosto il pesante sipario. Esco.
Trattengo il fiato. Chiudo gli occhi e li riapro. Tanto per essere sicuro. Tutto è come prima. Davanti a me c’è l’atrio desolato del Nuovocine. Con una paura matta che tutto cambi un’altra volta, o quasi di corsa davanti alla biglietteria e ignoro l’occhiata indagatrice delle due ragazzine che confabulano a bassa voce con la mia pseudo-amica. Attraverso la doppia porta a vetri. Mi ritrovo sul marciapiede deserto e ventoso. Le cartacce volano. Credo di avere un’espressione schifata sulla faccia. Quel film è stato un incubo. Deve esserlo, per forza! Ero io il protagonista. Impossibile… Se esistesse veramente un film del genere mi piacerebbe bruciarlo o buttarlo nel cesso, insieme alla mia vita di merda. Con in testa questi pensieri felici, percorro il pezzo di strada lurida tra il Nuovocine e la fermata. Sto molto attento a non calpestare uno stronzo di cane. Ho già visto abbastanza merda, per oggi. Senza contare quell’allucinazione, oh, sì… Meglio scordare tutto. Tra poco a l’autobus, anzi, mi sembra già di sentire il rombo del suo motore sbiellato. Sollevo lo sguardo e mi accorgo di non essere l’unico ad aspettare l’autobus. Con me c’è una ragazza in impermeabile, con le gambe tremanti e… (un aspetto terribile) … oh, no. NO! Non può essere lei. Non è reale. Non è davvero… (Anna)
… però sembra proprio lei, traballante in mezzo alla luce dei lampioni. I lividi. Il sangue dall’orecchio, l’impermeabile a pezzi. I collant bucati. Le dita dei piedi smaltate di rosso. È lei. Resto immobile, a pochi i. Anna tossisce malamente. (che fare?) Dal fondo della strada arriva il fragore dell’autobus, giro lo sguardo e vedo la luce accecante dei fanali avvicinarsi. (alternative?) Salgo sull’autobus e l’abbandono, senza alcun rimorso. Anche se sono conscio che lei sta afflosciandosi come un sacco per la spazzatura, alle mie spalle, lontano nella notte.
Qualche ora più tardi mi sveglio nel mio letto, caldo e morbido, con le narici piene di un profumo così invitante da impedirmi di restare disteso solo un altro secondo. Mi alzo e vedo la mia figura riflessa nello specchio. Ho il mio solito aspetto. Faccio schifo. Guardo la radiosveglia sul comodino: 06.18. Un giorno o l’altro dovrò riprogrammarla. Infilo le pantofole e mi dirigo senza fretta verso la fonte del profumo, che mi fa venire subito l’acquolina in bocca. L’armadio è aperto. Con sguardo rapito, osservo il contenuto dei tre ripiani con la stessa meraviglia di sempre. I barattoli di vetro sono allineati perfettamente. Otto per ogni
mensola. Tre barattoli sono vuoti. Devo riempirli. In questi giorni non me la sento. Chiudo un’anta e ammiro il poster delle Muse Inquietanti. Quasi mi ci perdo dentro. (mi ispirano) Sì. Vero. Danno molta ispirazione. Già. Sposto lo sguardo sui cartellini incollati sul bordo di ogni scaffale. Mi piace l’ordine. Non in tutto, però… lo ammetto. Nel primo, dall’alto, in stampatello c’è scritto: LINGUE. Nel secondo: ORECCHIE. Nel terzo: OCCHI. Nell’ultimo, quello con più barattoli vuoti: VERMI. (ho fame!) Sorrido. Anche io… Scelgo un barattolo a caso e comincio a mangiare.
22 – MORTI CHE PARLANO
Per un attimo, prima di uscire dall’incredibile visione, ti sembra di sentire nella bocca il disgustoso sapore terroso di quei vermi putrescenti, mollicci e appiccicosi di muco. La coscienza di non avere una bocca, in quel momento, non allevia la sensazione di voltastomaco purissima che ti strizza la mente come uno straccio bagnato. Il dolore provocato da quei virtuali conati è reale quanto ciò che hai appena visto. Il puzzle, anche se ancora informe, comincia ricomporsi. Quando hai ricevuto quell’inaspettata lettera e di punto in bianco hai deciso di mollare tutto e tornare a Solus, non ti aspettavi di trovarci una situazione di quel tipo. Restando in tema di paragoni dotti, sei come rimasto intrappolato in una trasposizione a tinte horror della favolosa “Spoon River”. La differenza è che a Solus, i morti non parlano restando tranquilli nelle loro tombe… ma ti urlano dritto nel cervello. Come a conferma di questo pensiero, mentre la bolla galleggia sopra il paese silente, viene avvolta da una nuvola profumata di pioggia e crepitante di energia statica…
23 – AUTOSTOP
La giornata era cupa. Il cielo coperto da nubi bronzee. Lui stava seduto su una sdraio da spiaggia, sotto l’enorme ulivo che poco più di cento anni prima il bisnonno aveva piantato nel suo cortile. Proprio nel punto in cui, un secolo dopo, si sarebbe affacciata l’unica finestra della sua cameretta. Un forte maestrale squassava i rami, strappandone manciate di foglioline grigioverdi che scendevano volteggiando intorno alla sua testa. Si rese conto all’improvviso di avere un libro aperto sulle ginocchia nude, le quali recavano ancora i segni di una rovinosa caduta dal motorino. Nell’atmosfera rarefatta di quel sogno mattutino echeggiava una voce strozzata. Una voce che non aveva niente da spartire con quell’ambientazione ma che, tuttavia, era presente in esso. La voce rintronava nel nucleo addormentato della sua mente e, a intervalli regolari, modulava parole incomprensibili con tono indifferente. A ogni ripetizione la frase si allungava. Tu parli troppo, qui… Il sogno proseguì e la voce tacque. Il libro! Non riusciva proprio a ricordarne il titolo. Forse non l’aveva mai saputo… O, forse, quel libro non aveva mai avuto un titolo. Incuriosito da quell’originale bizzarria, chiuse il libro e ne fissò la rigida copertina: non c’era stampato nulla. Era bianco. Di nuovo la voce. Tu parli troppo, qui dietro… Di nuovo il silenzio.
Il sogno si focalizzò ancora sul libro. Perché quel libro non aveva titolo? Dopo qualche tempo, decise che non gli importava. Non era un particolare importante. Anzi, era addirittura assurdo assillarsi con quell’interrogativo. Nei sogni le cose strampalate abbondavano. Alzò lo sguardo e fissò la nebbia grigia che lo circondava. Appena sollevò gli occhi da quel libro, in lontananza si udì lo squillo di un telefono… Driiinnn! … che calamitò immediatamente la sua attenzione. Lo squillo sembrava fuori posto nell’atmosfera tranquilla e silenziosa (a parte la voce) in cui si trovava. Fuori posto come qualcosa di reale. Comunque sia, voce o non voce, quello squillo c’era stato… Driiinnn! … E non era rimasto isolato. Si mise il libro sotto il braccio e si alzò dalla seggiola. Gli ultimi squilli erano stati più forti e acuti. Silenzio. Driiinnn! Silenzio. Frattanto il seggiolino da spiaggia era scomparso nel nulla. Driiinnn! Il secolare ulivo si disgregò nella caligine. La voce echeggiò di nuovo, come il rombo di un tuono. Tu parli troppo, qui dietro ho qualcosa che…
Silenzio. Driiinnn! Anche il cortile, coperto di erbacce e vecchi giocattoli rotti, svanì. Restava solo il fantasma bianco e fluttuante della nebbia.
Alessandro si svegliò. L’allarme della radiosveglia ronzò, per l’ennesima volta. Quel brusio acuto non assomigliava per niente allo squillo di un telefono, ma si sa, i suoni esterni vengono sempre trasformati dal subconscio durante il sonno. È un fenomeno comunissimo. Dopo essersi agitato tra le lenzuola sudate e aggrovigliate, Alessandro allungò un braccio intorpidito sul comodino. A tastoni riuscì nell’impresa di bloccare l’allarme della radiosveglia. Dopo aver dormito per almeno otto ore di fila si sentiva ancora esausto, i muscoli delle gambe stirati e le ossa a pezzi. Giocare a calcetto per tutto il pomeriggio del giorno prima era stato bello ma eccessivo, soprattutto per un “rachitico secchione quattr’occhi” come lui. Alessandro aprì un occhio, ma questo era così pieno di cispa che non distinse nulla oltre a una baluginante nebbia lattiginosa. Batté ripetutamente le palpebre appiccicose, poi si sfregò energicamente gli angoli degli occhi con il dorso delle mani. Dopo alcuni secondi di parziale cecità, arrivò a focalizzare lo sguardo sul display luminoso della radiosveglia. L’ora esatta era indicata con numeri digitali verdi: 07.04 Quando realizzò il significato di quei numeri, Alessandro sobbalzò sul letto tiepido. “Porca… Oggi perdo l’autobus!” Sgusciò via dalle calde coperte. Sotto i suoi piedi nudi il pavimento era come di ghiaccio vivo. Raggiunse con un balzo l’interruttore sulla parete di fronte e accese la luce. Dopo un lungo sbadiglio infilò un paio di zoccoli e si trascinò fino al bagno.
Meno di venti minuti per prepararsi e filare via di corsa. Alessandro aveva sedici anni e frequentava brillantemente, secondo i suoi genitori, il terzo anno del Liceo Scientifico. Ogni mattina, dal lunedì al sabato, doveva recarsi all’unica Fermata dell’autobus che quotidianamente lo raccoglieva dalla piazza di Solus e trasportava fino alla vicina cittadina di Sant’Antioco, dove sorgeva l’Istituto a cui si era iscritto. Era un viaggetto di soli 15 km e 15 minuti. Ad Alessandro non piaceva fare il pendolare, anzi lo infastidiva molto, ma non poteva fare altrimenti. Era destino. I genitori lo consolavano ribadendogli che la condizione di pendolare, come il servizio militare, temprava lo spirito. E, forse, non avevano tutti i torti. Per quanto lui odiasse entrambe le cose.
Uscì dal bagno, dieci minuti più tardi, lavato, pettinato e con una leggera pellicola di gel sui capelli. Era ancora in boxer, però. La casa era silenziosa e piena di scricchiolii. I suoi genitori dormivano ancora. Alessandro era figlio unico. Ritornò in camera. Si vestì in fretta. Infilò i suoi Levi’s preferiti, la felpa bianca By American alla moda, un paio di calze in spugna pulite, le solite Sisley scolorite, con la suola un po’ consumata sul bordo. Andò in cucina, dove si preparò una veloce colazione a base di latte fresco intero e biscotti ai cereali. Dopo aver consumato la frugale colazione schizzò in camera dove raccattò lo zaino Invicta e se lo gettò alle spalle. Com’era sua abitudine, aveva preparato lo zaino la notte precedente, per guadagnare alcuni minuti la mattina. Era un ragazzo assennato. Nell’ingresso appoggiò lo zaino sul pavimento e, dopo aver staccato il classico Montgomery dall’attaccapanni, lo infilò con pochi movimenti automatici. Si guardò allo specchio e sorrise. Era pronto. Quando uscì di casa, correndo, alle sette e mezzo del mattino, immergendosi in
una piovigginosa foschia, Alessandro sembrava esattamente quello che era: uno studente liceale, media statura, magro, capelli neri e lisci pettinati all’indietro, un viso imberbe dai lineamenti anonimi. Corse a perdifiato per la via deserta. Dalla bocca semichiusa gli fuoriusciva a intermittenza una nuvola di vapore.
Alessandro abbassò, preoccupato, lo sguardo sull’orologio che aveva al polso. Il quadrante dello Swatch, regalo di compleanno dei compagni, indicava le sette e trentasei ate. Scosse la testa, sbuffando un candido pennacchio. Sapeva di essere in ritardo, ma sapeva anche (per triennale esperienza) degli enormi ritardi con cui quotidianamente il famigerato autobus delle ottomenoventi si presentava alla Fermata… Sì, forse ce la faceva. Certo, come no? Una volta, più precisamente il lunedì della settimana ata, l’autobus era arrivato alla Fermata con quindici minuti di ritardo. In quell’occasione l’autista rischiò il linciaggio da parte di alcuni operai. In compenso venne ringraziato dalla maggior parte degli studenti pendolari che, grazie a lui, avevano avuto una buona scusa per saltare la prima ora di lezione. A rassicurarlo c’era anche la consapevolezza ancestrale che, finché in Sardegna gli autobus arrivavano in ritardo, tutto quanto era normale. QUANDO GLI AUTOBUS ARRIVERANNO IN ORARIO, LA FINE DEL MONDO CHIUDERA’ IL SIPARIO. Così ripeteva la popolazione. Autobus era sinonimo di ritardo, un’accoppiata inscindibile. Con questi allegri pensieri nella testa, Alessandro aumentò la velocità. L’aria gelida gli pungeva il viso, i polmoni si gonfiavano, lo zaino saltellava sulla schiena e le suole battevano sull’asfalto bagnato sollevando schizzi d’acqua grigia. Durante la notte c’era stato un violento temporale. Ai lati della strada, i canali di scolo erano pieni di acqua limacciosa. Il cielo sopra il paese era color piombo (come nel suo sogno), carico di umidità ed elettricità. Questa sera si scatenerà una vera tempesta, pensò.
Le strade secondarie di Solus erano deserte, i lampioni erano ancora accesi e tingevano di giallo le pozzanghere che coprivano vasti tratti della via. Si vedeva più acqua che asfalto. L’unico rumore era il chaff chaff delle sue scarpe. Le foglie, degli anemici alberi sempreverdi che circondavano la piazza, stormivano, coperte di gelo, sotto le glaciali frustate della tramontana. La piazza, un enorme e squallido rettangolo lastricato di granito, circondato da terribili panchine verdi, quella mattina aveva un aspetto più triste del solito. Triste e desolato. Al centro, l’enorme statua di bronzo, raffigurante San Giorgio a cavallo nel momento in cui trafiggeva il drago, si stagliava contro l’imponente e marmorea facciata, finto rinascimentale, della chiesa patronale. Nell’angolo più lontano della Piazza, quella che dava sul Corso Savoia, sopra un sottile palo sbilenco c’era un piccolo rettangolo azzurro striato dalla ruggine rossiccia. Nel cartello, a cubitali lettere bianche semicancellate, vi era questa scritta:
F. M. S. FERMATA AUTOBUS
Intorno al cartello non c’era nessuno. Alessandro, sconcertato, si portò lo Swatch sotto gli occhi. Le sette e quarantadue. Accidenti! L’autobus era già ato, altrimenti la Fermata non sarebbe stata vuota. A Solus c’erano almeno quindici studenti pendolari. Già ato? Un miracolo! Perfetto orario. Forse in anticipo… Incredibile. La fine del mondo è vicina!, rifletté ironico Alessandro.
Rallentò la corsa fino a fermarsi, con il fiatone e la lingua fuori come un cagnolino accaldato. Dopo aver meditato alcuni secondi, sollevò il colletto del cappotto e sfregò con forza le mani intorpidite. Poi attraversò a grandi i la piazza, in direzione del vecchio cartello macchiato umido di rugiada.
“Maledizione! Non dirmi che è già ato?” Alessandro si voltò. Era appena arrivato alla Fermata. “Ciao, Marco.” Marco, che frequentava per la terza volta il Primo Anno nello stesso Liceo Scientifico di Sant’Antioco, si accasciò sopra la panchina, piena di scritte colorate e pittoresche, situata a pochi metri dalla Fermata. Sotto la panchina c’era di tutto: gomme da masticare rinsecchite, matite spezzate, penne a sfera Bic scariche, schiacciate o esplose, mozziconi di sigaretta, accendini usa e getta esauriti, pacchetti stritolati di Marlboro, bottigliette di succo di frutta, barattoli di Coca Cola ammaccati, foglietti di block-notes appallottolati che maceravano in una pozza di pioggia infangata. Marco alzò lo sguardo. I suoi occhi erano infiammati. “Ciao Alex. Siamo rimasti a terra, eh?” Distratto, Alessandro fissò l’ombra scura di una nuvola che scivolava sulla piazza come una chiazza di petrolio sull’oceano. Non rispose. Marco si infagottò ancor più nel suo giubbino blu imbottito con piume d’oca. Poi gettò l’unico libro che aveva con sé, Storia della Letteratura Latina, su un lato della panchina. Era evidente che la sua situazione scolastica non lo preoccupava più di tanto. Era figlio di cassaintegrati, nipote di braccianti agricoli e parente di nessuno. Per un ragazzo nato a Solus, era l’equivalente di una condanna ai lavori forzati. Il suo futuro era la fabbrica e il cancro. “Adesso che facciamo?” borbottò Alessandro.
“Io me ne torno a casa!” ribatté Marco, agitando un braccio. “A casa?” “Certo, Alex. Ho sonno arretrato. Una notte da leone.” “Beato te. Io non posso proprio mancare, oggi.” “Perché?” “Compito in classe di Geometria Analitica.” “Cosa? A che ti servirà? Per arare meglio i campi?” “Non posso saltarlo. Mi rovinerebbe la media.” Sospirando, come se stesse compiendo uno sforzo enorme, Marco si alzò, sorrise divertito e diede una pacca ad Alessandro. “Bravo, Alex. Rovinarsi la media è come rovinarsi la vita.” Sorrise di nuovo, si massaggiò il collo rigido, poi raccattò il suo libro sgualcito dalla panchina e lo infilò sotto il giubbino. “Sei un ragazzo modello, Alex. L’orgoglio di Solus!” Diede un’altra pacca ad Alessandro, poi scoppiò a ridere. “Marco?” sbottò lui, con la faccia in fiamme. “Sì?” “Vai a quel paese!” “Ci sono già, amico.” Stizzito, Alessandro fece un rapido dietrofront e cominciò a camminare lungo il bordo della piazza. Sopra di lui le fronde degli alberi si agitavano. Come quelle dell’ulivo nel sogno. Alle sue spalle Marco sbottò, indignato: “Ti sei offeso? Ehi! Stavo scherzando.
Cosa fai? Dove stai andando?" Continuò a camminare, imperterrito e infreddolito. “Allora?” urlò Marco sopra il frusciare assordante dei rami. Alessandro si arrestò. Il vento si attenuò per un attimo, il cupo frusciare diminuì. Preoccupato, Marco gracchiò: “Vuoi rispondere?!” La risposta di Alessandro risuonò nella piazza deserta. “Vado all’uscita a stoppare. Non posso mancare, oggi.” Per uscita i ragazzi di Solus intendevano l’incrocio a T, il punto dove l’inizio del Corso si intersecava con la 126 ter. Marco ammutolì. Alessandro non aveva mai fatto autostop. Non ne aveva mai voluto sapere. Non gli piaceva quell’antiquato e inaffidabile sistema di trasporto gratuito. Eppure… Marco sollevò lo sguardo. Alessandro non c’era più. La piazza era vuota e spazzata dal vento. Doveva aver svoltato al primo angolo, dietro alla tozza e bigia palazzina in stile fascista del Municipio. Una scorciatoia. Perplesso, Marco sospirò una nuvola di vapore. Poi ritornò a casa, camminando con o lento e strascicato per le vie ancora silenziose, profumate dall’odore elettrico della pioggia.
Cinque minuti dopo, Alessandro, intirizzito, batteva i piedi sul ciglio della Statale, il braccio indolenzito e il pollice alzato. Alle sue spalle, oltre la cunetta piena di immondizie, la fascia di eucalipti, sferzata dal vento, sussurrava una tetra litania.
Una Lancia Delta “HF” gli sfrecciò davanti, ignorandolo. Alessandro imprecò. Poteva andare bene al primo colpo? No. Due minuti più tardi andò a vuoto anche il secondo colpo. Una Citroen “AX” bianca, quasi nuova. Terzo colpo: FIAT Tipo Selecta, grigio metallizzato. Niente da fare. Quarto colpo: Renault 5, blu sbiadito, sporca di fango. Prese in pieno una pozzanghera e lo schizzò d’acqua. Quinto colpo: Ford Fiesta nera, tutti i vetri azzurrati. Nemmeno rallentò. Sesto colpo: FIAT Uno Fire, rosso fuoco, smarmittata. Quasi lo travolgeva.
Quando ormai Alessandro era rassegnato all’idea di dover saltare la scuola e il compito in classe (la prima assenza in tre anni), dopo sedici colpi mancati, qualcuno si accorse di lui. Questo qualcuno guidava una Seat Ibiza Black. La Seat ò davanti al tremante pollice teso, sollevando enormi spruzzi d’acqua limacciosa dall’asfalto butterato come una grattugia. Sembrava volesse are oltre, invece frenò la sua corsa a venti metri da Alessandro. Le quattro Goodyear si incollarono sul manto bagnato della sede stradale. Alessandro corse verso l’auto, sportiva e dotata di tutti gli optionals (inclusi i vetri oscurati), sguazzando fra le pozzanghere sulla banchina della Statale.
Frattanto il cielo sopra la sua testa era diventato nero e basso. L’acquazzone previsto dal servizio meteo non avrebbe aspettato il pomeriggio per scatenarsi. Quando si chinò sul finestrino destro della Seat già cadevano le prime gocce. Il vetro si abbassò. La Seat aveva gli alzacristalli elettrici. Un optional costoso e inutile, pensò Alessandro, infilando la testa nell’abitacolo. Dietro al volante c’era un uomo sorridente, sulla quarantina, tarchiato e corpulento, con una corona di capelli brizzolati e riccioluti sopra grandi orecchie a sventola. “Salve giovanotto” esordì l’uomo. “Dove devi andare?” “Sant’Antioco.” L’uomo annuì, strinse le mani callose sul volante foderato in pelle nera e lo esaminò, come per valutarne la personalità, poi si massaggiò pensoso la mascella coperta da una barba di tre giorni. “Come mai stai facendo autostop?” “Ho perso l’autobus.” “Alzato tardi, eh?” “Già!” L’uomo fissò per un breve istante il parabrezza solcato dalla pioggia, sovrappensiero. I suoi occhietti grigi, circondati da rughe, seguivano il movimento intermittente dei tergicristalli. Poi si voltò di nuovo verso Alessandro. “Salta dentro, svelto. Ti stai inzuppando.” Lui non se lo fece ripetere. Aprì lo sportello e si infilò nell’abitacolo odoroso di pino silvestre della Seat. Imbarazzato e anche un pochino a disagio (era la prima volta in assoluto che stoppava), tenne lo zaino appoggiato sulle ginocchia. La Seat ripartì di scatto, sgommando, lasciandosi alle spalle una scia d’acqua nebulizzata. Nello stesso istante la tempesta si scatenò, rovesciando sulla Statale cascate di gelida pioggia.
A parte il fastidioso, pungente e nauseante olezzo di pino sintetico diffuso da almeno una dozzina di Arbre Magic appesi e dondolanti in ogni angolo disponibile dell’automobile, la prima parte del tragitto andò bene. Le consuete chiacchiere banali tra il giovane autostoppista e l’automobilista generoso. “Che scuola fai?” “Liceo Scientifico.” “Ah. Io ho fatto solo la quinta elementare.” “Davvero?” “Mi basta saper leggere, scrivere e contare.” “Stamattina un mio amico mi ha detto che studiare non serve a nulla, quando vivi da queste parti. Fatica sprecata.” “Stronzate.” “Lo penso anche io.” “Bravo. Io non ho studiato, come ti ho detto, ma mi piace moltissimo leggere. Leggo di tutto. Fa bene al cervello. Non è come la tele. Allarga gli orizzonti. È quasi un miracolo.” “Lei vive a Solus? Non l’ho mai vista.” “Abito in periferia. Prima delle colline.” “Vicino a Villa Massidda? Non vado mai in quella zona.” “Fai bene. È un brutto posto per i soggetti impressionabili.” Dopo quell’asserzione, senza mettere la freccia, il generoso automobilista svoltò in una stradina piena di squarci, battuta dalla pioggia, nascosta agli sguardi da ammassi di lentisco e cespugli spinosi di more selvatiche. Da questi ultimi sporgeva, appeso a un tubo corroso dalla ruggine, un cartello con scritto: DIVIETO DI CACCIA. Il lamierino dondolava nel vento come una banderuola,
costellato di buchi lasciati dai pallettoni. “Ehi! Ma che cosa sta facendo?” sbottò Alessandro. “Una deviazione…” rispose lui, senza l’ombra di un sorriso. L’uomo frenò, girò la chiave e spense il motore. Alessandro mollò lo zaino e tentò di aprire lo sportello. Non ci riuscì. Era bloccato. L’uomo si voltò verso di lui. L’espressione della sua faccia raggrinzita e bruciata dal sole non tradiva la minima emozione. Alessandro urlò e continuò ad armeggiare con la sicura dello sportello. Non riusciva a sollevarla. Gli fuggiva sempre di mano. Dopo qualche secondo di panico, Alessandro cominciò a battere i pugni sul vetro coperto di pioggia sporca di sabbia. “Che c’è, ragazzo?” Alessandro gridò, tirò la maniglia dello sportello e si dibatté sul sedile. Non serviva a nulla, ma non riusciva a smettere. L’uomo parlò di nuovo. La sua voce, adesso, era rauca. “Paura?” domandò. Domanda retorica. Alessandro continuò a strattonare la maniglia e a battere con il pugno sul vetro. Urlò e pianse. Il terrore arrivò così rapido da fargli perdere la ragione. Questa cosa non stava succedendo! L’uomo osservò, cinico come un entomologo, il panico del suo giovane prigioniero. Era sempre il momento che preferiva. “Smettila!” sibilò, seduto di sbieco sul sedile, accostando le labbra al suo orecchio. Il suo fiato era infuocato. “Non puoi aprirlo. Ho la chiusura centralizzata e i vetri antiproiettile. Mi piacciono gli optionals. Questa auto mi è
costata un occhio!” Il ragazzino si divincolò come un indemoniato davanti allo sportello blindato, controllato da una centralina dissimulata sotto il cruscotto lucidato. Poi, improvvisamente, dopo alcuni interminabili minuti di folle terrore, non si mosse più. “Così va meglio…” disse l’altro. “Adesso spogliati.” Alessandro si girò verso l’uomo senza nome che lo teneva in trappola, la faccia bianca come un piatto di porcellana, i capelli incollati a ciocche sulla fronte. I suoi occhi erano lucidi. “NO! Cosa vuoi? Sei un pedofilo?” proruppe, ansimando. L’uomo si leccò le labbra. “Non voglio sporcare i vestiti.” “Lasciami andare! Non dirò nulla a nessuno! Lo giuro!” “Non lo sai che i giuramenti li fanno soltanto i bugiardi?” “Mi lasci uscire dalla macchina! Per favore!” “Non posso farlo…” ammise l’uomo, scuotendo il capo, con voce strozzata. “Sto costruendo una stanzetta speciale proprio per evitare situazione come questa. Ma non l’ho ancora finita.” A questo punto, Alessandro capì tutto. “Sei il serial killer!” strepitò, sgomento, riattaccandosi alla maniglia. “Quello che uccide tutta quella gente a Solus!” “Parli troppo” replicò l’uomo, infilando il braccio nello spazio tra i sedili. “Qui dietro ho qualcosa che ti farà star zitto.” L’istante seguente, un martello strappachiodi da carpentiere piombò con violenza sulla nuca di Alessandro, fradicia di sudore. L’impatto distruttivo risuonò come quello di un’asse spezzata. Il metallo si conficcò nel cervello, riempiendolo di affilate e micidiali schegge d’osso. Nonostante la ristrettezza dell’abitacolo, l’uomo riuscì a imprimere una forza tale da far ruotare la testa del ragazzo di 180
gradi. Sul parabrezza iniziò a colare una grossa patacca di sangue. L’uomo osservò la macchia, con il viso picchiettato di rosso. Se fosse stato uno di quei test psichiatrici, uno di quelli che i dottori in camice gli facevano spesso quando era ragazzino, avrebbe probabilmente risposto… È una falena. Nessuno, però, gli diceva mai se aveva sbagliato o no.
Sant’Antioco. Ore otto e trenta. Classe Terza “C”. Nel freddo stanzone, illuminato dai palpitanti tubi al neon, impera un silenzio pieno di bisbigli. La prof. di matematica, una vecchietta che somiglia a Jessica Fletcher, gli occhiali da lettura comprati in farmacia in bilico sul nasone, sta facendo l’appello. Su tutti i banchi sono posati: un foglio protocollo a quadretti, l’economica calcolatrice scientifica Casio, la grossa penna a sfera Bic a quattro colori, la matita Faber tipo B, le squadrette spuntate, il solito como sbilenco (ereditato dai fratelli maggiori o dagli zii più giovani) che non rimane mai fisso in una posizione stabile, qualunque essa sia, facendoti sbagliare tutte le circonferenze. “Fadda?” chiama la prof con tono annoiato, già a quell’ora. “Presente.” “Locci?” “Presente!” “Mereu?” “Presente.” “Satta?” Nessuna risposta.
Il primo banco, quello accanto alla finestra, è vuoto. “Un’assenza strategica…” dichiara la prof. all’intera classe, gongolando. “Furbo. Così non rischia di rovinarsi la media.” Tutti ridono.
24 – Il CUBO
La risata finale è la parte peggiore della visione. Riecheggia a lungo dentro la bolla e rimbalza beffarda sulla sua superficie traslucida, come a sottolineare il vero significato di quella storia crudele. Non c’è pietà, comione o empatia… Raggomitolato in te stesso, invochi qualsiasi cosa, terrena o trascendente, affinché quella raffinata tortura psicologica cessi prima possibile. Non preghi da molto tempo, ormai, ma le parole fluiscono senza impedimenti, come se non avessi fatto nient’altro in questi anni. Ma è tutto inutile, naturalmente. Nessuno ti ascolta. L’effetto, anzi, è contrario. Con uno schiocco liquido, la bolla perde la sua trasparenza, cambia forma e diventa un cubo. Un perfetto cubo bianco, senza traccia di giunzioni. Quelle sei facciate ti fanno sentire ancora più male. È come trovarsi dentro l’asettica cella di una prigione futuristica e… Lunedì… Maledetto… Diario… Quando le parole iniziano a scorrere sulle pareti laterali, simili a un videowall, non puoi fare a meno di leggerle. Il loro flusso ipnotico sequestra senza scampo la tua attenzione.
25 – ULTIMO SPETTACOLO
LUNEDI
Maledetto diario… oggi è una giornata come tutte le altre: brutta. Come me. Una di quelle giornate orribili che solo io posso vivere. Non so più cosa fare. Sono stanca. Non ho più voglia di vivere così, persa in questa solitudine. Anche stamattina, a scuola, LUI mi ha ignorata. Completamente. Non gli do torto. Come fa un ragazzo ad accorgersi che esisto? Che vivo? Che amo? Lo sguardo non gli è mai caduto su di me, né io d’altronde ho fatto molto per farmi notare. Eppure, dovrebbe bastare il grasso che ho attorno per spiccare sulle altre, in senso negativo, ovvio. Cellulite, brufoli e naso da befana a parte, non ho nient’altro che possa attrarre l’attenzione (momentanea) di un maschio senziente. In breve: faccio pena. Lo so bene e non posso farci niente. Non posso nemmeno piagnucolare sulla spalla di un’amica. Una come me non può avere amiche, amiche vere intendo, di quelle che non ti ridono alle spalle. Colpa mia, non dovevo nascere. Sono un errore… o un orrore? Entrambi. Io non sono e quindi non posso. Già. La vita va così, lo insegnano alla tv e sui giornali. La vita non è un film, dove (probabilmente) anche una come me avrebbe un piccolo ruolo a lieto fine. Un classico Disney. La ragazza brutta e disperata che affronta timidamente il mondo, a capo chino, presa per il culo da tutti e tutte, che ama follemente un tizio che non la guarda neppure… poi la riscossa! Lei alza la testa, se ne sbatte dell’aspetto fisico e si scontra a muso duro con il porco mondo. Per questo tutti l’ammirano e iniziano ad apprezzarla. Anche LUI la nota e… sì, apriti cielo, la invita a uscire. Poi, dopo una serata fantastica, le dichiara tutto il suo amore. Squilli di tromba, tenero bacio romantico in controluce (con la luna, il mare e la spiaggia in secondo piano) e, infine, la scritta THE END sullo schermo… e vissero felici e contenti.
Ma questo non è un film. Se solo provo ad alzare la testa, quelli mi ridono in faccia e mi mandano affanculo. LUI compreso. No. Non è per niente un film. Neanche un film dell’orrore, dove quelle bone muoiono seminude, mentre quelle cesse, invece, vengono uccise vestite. Gente come me può vivere solo in un modo. Infelice e scontenta.
MARTEDI
Anche oggi schifo totale. Ho preso 3 in matematica e 4 in latino. Da quando mi sono innamorata non studio più bene. Ho la testa fra le nuvole. o ore e ore a sognare. È gratis. Non posso permettermi di più. Ah! Buone notizie! Questa mattina LUI mi ha parlato! Davvero! Io stavo sulla porta della mia classe (la III A) e LUI mi è venuto incontro. Il cuore ha cominciato a battermi forte, non riuscivo a fare niente, solo a guardarlo… Poi LUI mi ha detto: “Spostati. Devo are”. Così, nudo e crudo. Mi sono fatta da parte, rossa come un pomodoro marcio. L’ho lasciato are. È andato subito a parlare fitto con una mia compagna di classe. Una troietta ninfomane. Credo l’abbia invitata al cinema. Sabato. Che bastardo! Se n’è andato senza degnarmi di un secondo sguardo. Beh, almeno stavolta mi ha visto e parlato. Mi accontento di poco. Anzi, di nulla.
MERCOLEDI
Che giorno di merda! Mi sono presa una nota sul registro. La motivazione? Atti vandalici contro la proprietà pubblica.
Stavo lì, seduta sul mio banchetto (che ha minimo trent’anni ed è ricoperto da scritte e/o incisioni che vanno dal 1969 al 1994), appoggiata su un gomito, dolcemente cullata dalle mie innocenti fantasie sessuali. Immaginavo di farlo con LUI sopra un canotto alla deriva in mezzo all’Oceano… e, frattanto, intagliavo, con la punta del como, una frase nel legno del banco, di lato, lungo il bordo. C’erano altri due graffiti. Uno diceva “PINO 1978”. L’altro “FRANCA PUTTANA”. Ho appena concluso la mia opera d’arte, quando il prof di Mate mi ha beccata. È un siciliano con i baffi alla Errol Flynn. “Cosa fai, signorina?” ha detto con voce petulante. “Niente.” Così si è avvicinato. Curvo alle mie spalle, ha letto la scritta a voce alta: “Io amo LUI.” L’intera classe ha iniziato a ridere. Io ho iniziato a morire. Nel frattempo il prof, sogghignando, è tornato in cattedra e mi ha messo la nota sul registro. Quando ha finito di scrivere, mi ha chiesto davanti a tutte quelle iene ridens: “LUI chi è?” Non ho risposto e questo, ovvio, li ha fatti ridere di più. Proprio una bella giornata. A casa ho pianto, chiusa nel bagno, per quasi cinque ore. Non è un record, lo so, ma mi fa male la pancia lo stesso.
GIOVEDI
Niente scuola, oggi. Sono rimasta a letto. Troppa vergogna. A quest’ora, ormai, LUI saprà già tutto. Ho voglia di morire.
VENERDI
Giorno normale. Mi hanno preso per il culo tutti quanti, tutto il tempo. Senza la minima pietà. Era prevedibile. Anch’io, al loro posto, avrei fatto la stessa cosa. Deve essere bello prendere in giro le persone, farle star male, farle fuggire in lacrime, braccarle nei corridoi, lanciargli palline di carta in classe… ridurre una ragazza timida e sensibile a un ammasso di gelatina tremante, accucciata in un minuscolo angolo dell’Universo. Per non dar fastidio. Oh, sì, deve essere davvero bello. Chissà cosa si prova. Ho saputo che domani LUI e la troietta vanno al cinema. Bene. Ci vado anch’io.
SABATO
Il film era intitolato Sotto shock. Storia di un elettricista che va in giro ad ammazzare dei tizi. Cosa ridicola: il killer è un fantasma elettrico che si muove lungo i cavi della corrente. Comunque sia, non ho capito molto della trama, perché tutta la mia attenzione era rivolta a LUI e alla troietta. Stavano seduti due file più avanti. Non si sono accorti della mia presenza. Meglio così. LUI le teneva un braccio (il destro) sulle spalle e ogni tanto inclinava la testa per infilarle la lingua dentro l’orecchio.
Bleah! Che lurido! Gli piace leccare il cerume? Dalla mia posizione non vedevo bene le sue mani, ma posso benissimo immaginare dove fossero posizionate. La troietta porta la quarta misura, in teoria. In pratica non ha mai nulla sotto. Lo sanno tutti gli alunni della scuola. Oltre ai professori e i bidelli. Quanto a lei… Beh, se ne stava li, languida, quasi svogliata. Ogni tanto gli saltava addosso e… brutta stronza! Come ha osato? È stato a quel punto che sono impazzita. Non lo so. Forse, in quel momento, era semplice gelosia, forse complesso odio… o forse era niente. All’improvviso, nessuna emozione. Perfetta lucidità. Soltanto un pensiero orribile: AMMAZZARLI! SUBITO! Proprio così. Nell’oscurità asfissiante di quel vecchio cinema polveroso. Naturalmente mi ero già attrezzata in precedenza. Non era un’idea estemporanea. Pensandoci bene, sapevo cosa fare prima ancora di uscire di casa. Ecco perché, nella borsetta, che tenevo stretta in grembo, avevo infilato un lungo coltellaccio da cucina. Di quelli che si vedono spesso nei film horror di serie B. Come quello che stavo appunto fingendo di guardare. Okay, ma perché? Ieri avevo voglia di morire… Oggi invece avevo voglia di uccidere. Sta di fatto che, durante il secondo tempo, ho cominciato a scrutare nella penombra che mi circondava. La galleria era quasi vuota. Come sempre nel primo spettacolo del sabato pomeriggio. C’eravamo solo io, LUI, la troietta e due tizi in prima fila. Un altro tizio, una faccia davvero strana, era stravaccato sulla poltroncina e fissava lo schermo tranquillo beato, come se stesse guardando una commedia (in quell’istante Horace Pinker balzava fuori dalla tv). Situazione
quasi ideale. Mi sono alzata con calma e ho tirato fuori il coltello dalla borsetta, che ho lasciato sopra la poltroncina. Ho fatto poco rumore. In ogni modo, il volume dell’audio era assordante. Avrebbe coperto anche eventuali urla. Che tra l’altro si sarebbero confuse con quelle del film. Non ci avevo pensato. A i brevi, calpestando carte di caramelle e preservativi usati, sono sgusciata dalla fila di poltroncine. Ho percorso il corridoio centrale fino ad arrivare alle spalle di LUI e della troietta. Non si sono accorti di nulla. Avvinghiati come polpi. Ricordo che l’aria viziata, contenuta nelle tenebre immobili della sala, puzzava di patatine, pop-corn e coca-cola… Oltre a quel sottile odore specifico dei cinema, come di foglie secche e fango umido. Non è così sgradevole. I cinefili lo trovano, anzi, molto piacevole. Così come gli studiosi amano il profumo dei libri che pervade tutte le biblioteche. Scrivo di questo argomento perché è un pensiero che mi ha attraversato la testa in quel momento. Mah. Sono arrivata nella poltroncina proprio dietro di loro e mi sono seduta, in attesa dell’ispirazione. Sono molto calma. Il coltello mi sembra sempre più leggero e più caldo. Ho dato un’occhiata al film. Il cuore mi batte lento. ano cinque minuti. LUI e la troietta continuano imperterriti le loro effusioni. Li ho osservati in silenzio, respirando piano, quasi fosse quello il film. Un porno. Grottesco e triste allo stesso tempo. L’ispirazione è arrivata come sempre arriva: improvvisa. Sono schizzata in piedi, gridando come Norman Bates nella scena conclusiva di Psycho. Ho sollevato il coltello e afferrato con rabbia l’acconciatura della troietta. Ho sempre odiato e invidiato i suoi lunghi, profumati e morbidi capelli biondi. L’ho strattonata. Lei ha emesso uno stupido stridulo: “Ahia!”
LUI, ansante, ha chiesto: “Che c’è? Ti ho morso la lingua?” Niente male, come ultime parole, no? Fine del discorso. In pochi, deliziosi, secondi… li ho sgozzati. Tutti e due. Non hanno reagito. Non hanno urlato. Sono morti e basta. In fondo, ato il momento, è stato un po’ deludente. Senza fretta, ho ripulito la lunga lama del coltello sulla stoffa della camicetta di seta quasi trasparente indossata dalla troietta. Adesso, imbrattata di sangue, non doveva essere carina. Non avrei certo aspettato che si accendessero le luci per verificarlo. Dovevo tornare a casa, lavare il coltello con la candeggina e rimetterlo al suo solito posto. Non c’era tempo per gigioneggiare o darsi al feticismo. Per quanto mi riguardava lo spettacolo era finito. Sono ritornata alla mia poltroncina. Afferrata la borsa, vi ho riposto il coltello, insieme a rossetto, fazzoletti Tempo e caramelle. Uno sguardo finale alla prima fila: nessun cambiamento. Con calma innaturale, sono uscita inosservata dal cinema. Poi, sorridendo come una scema, ho eggiato fino a casa.
Post Scriptum.
Sono le 23.15. Al TG regionale non hanno detto nulla. I due porcellini sono ancora nel cinema, come li ho lasciati io, seduti nel buio, che guardano il film con gli occhi spenti? Li troveranno solo alla fine dell’ultimo spettacolo? Non vorrei essere nei panni della bigliettaia del Nuovocine. Quando troveranno me? Molto presto.
Comunque vada a finire, non mi troveranno viva.
26 – RIFLESSIONI
Il cubo si comporta in modo diverso dalla bolla. Tutto è più rapido, un’involontaria trasfusione di immagini ed emozioni, assorbita senza filtri, trasmessa direttamente alla corteccia cerebrale (o, perlomeno, al suo equivalente astratto). Da quando sei partito da Solus, a quanto pare, la situazione è inspiegabilmente peggiorata. Quella che prima era una corrente sotterranea di psicosi negate e represse, tenuta a malapena sotto controllo dai freni inibitori e da un codice di condotta di origine feudale, alla fine è emersa in superficie con effetti catastrofici. Se il sonno della ragione genera mostri, come sostengono i filosofi, quello dell’etica produce assassini. Adesso non ti stupisce più aver trovato Solus deserto al tuo arrivo. La popolazione, già ridotta dalla continua crisi economica e dal vertiginoso calo delle nascite, è stata decimata da un incremento spaventoso del numero di persone scomparse, omicidi e suicidi. Certo, la spiegazione non è né sufficiente né completa, ben altri fattori sono scesi in campo. Qualcosa ti distoglie da queste riflessioni… Un battito scuote le pareti del cubo, con un rumore simile a quello di un cucchiaio di legno sopra un barattolo vuoto. Stavolta, tuttavia, non ci sono parole… ma nitide immagini tridimensionali.
27 – NATO MORTO
Qualcuno le batté premuroso sulla mano. Una voce, preoccupata, sussurrò: “Amore… mi senti?” Ti sento, pensò. Non riusciva proprio ad aprire gli occhi, le pareva di avere le palpebre di piombo. La testa le rintronava come dopo una sbronza colossale presa durante un concerto rave di Hard Rock. “Svegliati, su!” Sono sveglia! Soltanto che non riesco ad aprire gli occhi! “Dai, amore. Non fare così. Mi fai paura!” Paura? Tu? Io ho paura! Non ricordo niente. Dove sono? i e voci che si avvicinavano. Le voci erano serie. “Dottore…” disse la voce preoccupata. Il dottore rispose: “Non è ancora rinvenuta?” “No. Comincio a preoccuparmi.” “Non deve preoccuparsi…” soggiunse, rassicurante, una voce di donna. “Svenire durante un parto difficile non è raro.” “Ma io…”, mormorò la voce preoccupata. “Vedrà, si riprenderà tra pochi minuti!” interloquì il dottore. “Certo!” esclamò la voce di donna.
In quell’istante, l’interessata riuscì ad aprire gli occhi. La luce intensa le contrasse le pupille. Sbatté le palpebre pesanti. Bisbigliò: “Potreste abbassare le tapparelle, per piacere?” Tre facce sorprese si chinarono sulla sua. Una a sinistra e due a destra. In quella a sinistra riconobbe il marito, in quelle a destra il dottore e l’ostetrica che l’avevano assistita durante… Il parto! Ecco! Era all’ospedale… “Amore!” gioì il marito, baciandola sulla fronte gelida. … per partorire… “Come volevasi dimostrare!” recitò il dottore. … il suo primo figlio. Sì. Ma cos’è successo? Sono svenuta durante il parto? Mosse le labbra e formulò questa domanda: “Mio figlio?” Il dottore e l’ostetrica si guardarono, un rapido sguardo d’intesa, poi fissarono il pavimento. Restarono in silenzio. Lei ruotò gli occhi verso il marito: stava piangendo. “Cosa è successo?” sibilò attonita, non riusciva a capire. L’atmosfera era mutata di colpo. Guardò il dottore. “È successo qualcosa al mio bambino?” Sapeva che era maschio grazie all’ecografia.
L’interpellato non rispose. Il silenzio nella stanza d’ospedale diventò angosciante. Oppressa da tale angoscia la donna sul letto urlò. Il marito e l’ostetrica sobbalzarono. “Va bene…” dichiarò, calmo e imibile, il dottore. Si levò lo stetoscopio dal collo e lo lasciò cadere in una delle tasche del camice. Avanzò verso il letto della paziente. Scrutò con espressione neutra l’uomo in lacrime dall’altra parte del letto. Poi fissò i suoi occhi sull’ostetrica, che annuì. Infine, guardando gli eucalipti fuori della finestra, strappati alle tenebre dalla soffusa luce gialla dei lampioni, ripeté quello che aveva riferito al marito della donna venti minuti prima, appena uscito dalla Sala Parto. “Mi dispiace immensamente. Suo figlio è… nato morto”. Quando riuscì ad afferrare il senso ultimo di quelle parole, la donna stesa sul letto d’ospedale svenne per la seconda volta nel giro di poche ore. Difficile dire se il dolore estremo che le causò l’incoscienza fosse più intenso la prima o la seconda volta.
Nel certificato di morte, compilato dal dottore sopracitato, si può leggere che il neonato nacque morto alle 22.46 del 23 ottobre 1993. Causa: ERITROBLASTOSI NEONATALE.
Il cadavere del nato morto venne cremato, senza nessuna cerimonia, la mattina del 24 ottobre. La donna che aveva partorito quel corpo fu dimessa, come risulta dall’archivio dell’Ospedale, alle ore 16.05 del giorno 28 ottobre.
Questa vicenda potrebbe concludersi qui, o meglio, avrebbe potuto… ma non può. Per questo motivo: al cadavere del neonato, quando venne incenerito,
mancava un organo. È sulla fine di quell’organo che si basa il resto della storia.
23 ottobre 1993. Ore 23.25
Gli abbaglianti della Thema inondarono di luce bianca le sbarre del cancello. Oltre questo, la lussuosa residenza del dottor Frongia era immersa nell’oscurità di quella cupa notte. L’auto si arrestò a un metro dal cancello. Il dottor Frongia, che stava al volante, allungò una mano sotto il cruscotto e rovistò nell’ordinatissimo vano portaoggetti. Trovò il telecomando che apriva il cancello. Pigiò il pulsante. Il cancello iniziò a schiudersi, stridendo sulle guide. I neon lungo il viale asfaltato s’illuminarono. L’erba era coperta di rugiada. “Tranquilla?” Frongia guardò la donna che gli sedeva accanto. “Non molto…” mormorò la donna. Oltre a essere la sua assistente era anche la sua amante. Rispondeva al nome di Clara Canu ed era ostetrica da cinque anni, cioè da quando si era diplomata a venticinque anni. Era stata raccomandata dal dottor Frongia e non ne faceva mistero. Il cancello era aperto. La Thema avanzò sotto la luce nebbiosa dei neon, facendo scricchiolare la ghiaia sotto gli pneumatici, mentre il cancello le si richiudeva alle spalle. La notte era nuvolosa. Frongia parcheggiò l’auto davanti ai gradini della porta principale. Le luci sul portico si accesero. Spense il motore. Sfilò le chiavi e le porse a Clara. Lei le
studiò perplessa. “Cosa devo fare?” chiese, esitante, scostandosi una ciocca di capelli neri dagli occhi blu. “Non iamo dalla rampa?” “No. Scendi e aprimi la porta…” rispose semplicemente il dottore. “Io prendo il frigo portatile dal bagagliaio.” Lei annuì. “Brava!” L’incoraggiò lui, baciandola in fretta sulla guancia gelida. “Non aver paura. Andrà tutto bene. Ho pensato a tutto.” Scesero dalla Thema e si ritrovarono esposti a fredde folate di maestrale. Clara girò intorno alla macchina e andò ad aprire la porta. Il dottore dischiuse il bagagliaio e ne estrasse un contenitore termico, molto simile a quelli che si usano nei pic-nic. Chiuse il bagagliaio con il gomito. Poi camminò verso la porta, tenuta aperta da Clara, con il contenitore tra le braccia. Salì i pochi gradini ed entrò in casa. Clara richiuse la porta dietro di lui. Dentro la grande casa l’impianto di riscaldamento garantiva un dolce tepore. “Precedimi, Clara!” ansimò Frongia, la fronte madida di sudore e la schiena curva. Il contenitore che reggeva, pieno di ghiaccio secco, pesava una cinquantina di chili. “Accendi le luci del corridoio. Sbrigati, dannazione! Non perdiamo tempo!” “Va bene, Ivan…” bisbigliò lei, precedendolo nel corridoio con le braccia incrociate sul petto. “Funzionerà, vero?” Alle sue spalle, nonostante la fatica e i crampi ai reni, Frongia sorrise e rispose con tono deciso: “Funzionerà!”
Ore 23.51
Il laboratorio segreto del dottor Frongia si trovava quattro metri sotto il garage seminterrato, al termine di una stretta rampa di cemento armato rivestita di
gomma antiscivolo. Le pareti del corridoio in discesa erano coperte di lucenti pannelli d’alluminio. Il soffitto era illuminato da due tubi al neon. Il laboratorio aveva la forma di un enorme parallelepipedo. Vi si accedeva mediante un’unica, impenetrabile porta d’acciaio cromato, monolitica, fornita di una serratura elettronica. Il codice necessario per far scattare la serratura era noto solo al dottore. Nessuno, escluso lui, poteva accedere al laboratorio segreto che aveva progettato e realizzato in anni di duro lavoro clandestino. Il problema più estenuante era stato quello di staccare il laboratorio dall’ambiente esterno. Alla fine era riuscito nell’impresa. Adesso il laboratorio era un’unità funzionale autonoma. Perfettamente isolato da ogni punto di vista: energetico, acustico e termico. Tutto era pronto. Da più di un mese le complicate apparecchiature installate nel laboratorio erano in attesa di poter lavorare al Progetto Brain. L’unica cosa mancante era un cervello idoneo e disponibile. Adesso c’era. Il Progetto Brain poteva essere avviato. Il dottor Ivan Frongia digitò rapido il codice d’accesso sul tastierino. Le cifre verdi balenarono sul display per un istante. La pesante porta scivolò di lato lasciando libero il o. “Perfetto!” commentò Frongia, consultando il pesante Rolex d’oro che portava al polso. “Siamo in orario! Sai cosa fare, Clara. Prepara il Conservatore e accendi tutti i computer. Fai partire il Programma di Rivitalizzazione. Il tempo è tiranno.” “Okay…” rispose lei, un po’ titubante. “Cosa hai?” s’informò lui, irritato, mentre curvava la schiena per raccogliere il frigo dal pavimento. L’aveva posato per poter digitare il codice. “Qualcosa che non va?” “Niente. Sono stanca.”
“Ti vedo strana. Rimorsi?” “No!” sbottò lei. “Allora fai quello che devi fare!” sibilò Frongia, varcando la soglia del laboratorio. Una nuvola di condensa fuoriusciva dalla porta. La temperatura, all’interno dell’ambiente operativo del piccolo laboratorio, era tenuta costantemente a zero gradi da un costoso impianto di refrigerazione. Nel resto della grande casa di solito la temperatura si aggirava sui 20 gradi centigradi. Clara lo seguì dentro il laboratorio asettico e cominciò a svolgere i suoi compiti. Preparò il Conservatore. Accese il computer e attivò il Programma di Rivitalizzazione, ideato e programmato dallo stesso Frongia negli ultimi mesi del 1990. Frattanto, la porta d’acciaio si era richiusa automaticamente. “Ivan, ho freddo…” disse Clara, rabbrividendo. “Hai finito?” replicò Ivan, brusco, in maniche di camicia, apparentemente a proprio agio, sollevando il coperchio rosso del frigo. Ne esalò una tenue nebbiolina che svanì quasi subito. Tra il ghiaccio macinato c’era un contenitore di vetro cilindrico. Dentro questo recipiente si vedeva un piccolo cervello umano. Il cervello era di colore rosa-grigio, striato da una rete di capillari vermigli. Le circonvoluzioni, i solchi, i canali rilucevano sotto la luce livida dei neon. I gangli recisi, i nervi spezzati, le fibre… “Clara!” Clara distolse lo sguardo dal cervello, aveva la nausea e una fastidiosa emicrania. Pensava di essere più forte, ma… “Clara, mi ascolti?” Guardò Ivan. “Sì” mormorò. Il suo fiato diventò vapore davanti al naso. “Se hai freddo indossa una tuta termica.” “Certo.”
“Sei sicura di star bene?” “Sì…” confermò lei, dirigendosi verso le tute appese a dei ganci sulla parete alle sue spalle. “Tu non senti freddo?” Prese una spessa tuta gialla e cominciò a infilarla partendo dai piedi. Erano comode da indossare, ma soprattutto calde. “Ho freddo anch’io, ma sai, l’emozione…” ammise lui, con gli occhi brillanti, gesticolando. “Meglio che indossi la tuta.” Così s’infilò anche lui dentro una tuta integrale celeste. Con molta attenzione si chio a vicenda le cerniere sulla schiena. “Ci siamo!” esclamò Ivan, sfregandosi le mani guantate. “Sterilizziamo il laboratorio. Metti gli occhiali schermati.” “Subito.” Inforcarono gli occhiali schermati. Ivan si avvicinò alla tastiera del computer e batté alcuni tasti. All’istante, una pioggia di luce ultravioletta si riversò su ogni centimetro del laboratorio. Le radiazioni ultraviolette uccisero ogni microrganismo e batterio, sterilizzando l’ambiente. L’irraggiamento ebbe una durata di trenta secondi. Alla fine dei trenta secondi Ivan computerizzò alcuni dati e con un sorriso dichiarò: “Fatto. Puoi togliere gli occhiali.” Clara levò gli occhiali e ammiccò: “Adesso?” chiese. “Adesso…” proclamò Frongia, solenne, “Diamoci da fare!”
Ore 00.17
Il Progetto Brain era l’ossessione inconfessabile di Ivan Frongia fin dai tempi dell’Università. Vent’anni prima. L’idea gli era venuta mentre preparava l’esame
propedeutico di Anatomia Umana. Folgorante. Il concetto, in sintesi, era questo: può un cervello umano svilupparsi e crescere in una sede diversa dalla naturale scatola cranica? E, se la risposta è sì, cosa succederebbe? Questa utopia fu il germe che portò alla nascita del Progetto Brain, al quale Ivan Frongia lavorava intensamente prima ancora di laurearsi in Medicina “summa cum laude” e specializzarsi in Neurochirurgia. Vent’anni di lavoro indefesso, studio disperato e ricerca futuristica avevano alla fine reso possibile il Progetto Brain. Frongia era figlio unico e ricco di famiglia. Con la sua professione, intra ed extra ospedaliera, intascava parecchi soldi, molti dei quali non erano stati denunciati al Fisco. Non aveva avuto nessun grosso problema ad autofinanziare il suo progetto. Per non destare eventuali sospetti aveva acquistato e fatto arrivare i materiali e le attrezzature dall’estero. Quello che non esisteva lo aveva inventato, progettato e costruito da sé… come il Conservatore e il PDR. Nell’ultimo mese, dopo aver messo a punto ogni dettaglio, era rimasto in paziente attesa del momento giusto. Senza falsa modestia, Ivan Frongia si considerava un Genio. Con la G maiuscola. Tuttavia sapeva che, se la sua mania non fosse stata segreta, lo avrebbero considerato un Pazzo. Con la P maiuscola. Questo era solo uno dei tanti motivi per cui il Progetto Brain era e doveva restare top-secret, come lui stesso (patito dei romanzi di spionaggio) amava definirlo o, ancora meglio, classificarlo. Recentemente gli era anche venuta l’idea per un ulteriore progetto, molto più ambizioso. Aveva già iniziato a chiamarlo Progetto Brain-tech, che mirava alla elaborazione, sintetizzazione e realizzazione di un cervello artificiale… ma quello era il futuro. Il presente era Brain. Vent’anni di illusioni, sogni, speranze e sacrifici stavano per realizzarsi. Non subito, ovviamente, ma in capo a qualche anno i risultati sarebbero stati considerevoli. Ivan Frongia non aveva fretta. Era razionale, ottimista e sereno. C’era riuscito, ormai.
Ore 02.45
Ivan si tolse la mascherina dalla bocca e spostò gli occhi su Clara. Lei leggeva
cifre e dati sullo schermo del computer. “Pressione?” domandò, massaggiandosi il collo indolenzito. “Nei parametri” rispose lei subito, posando l’indice destro sullo schermo per mostrargli i valori della pressione. “Stabile.” Lui si avvicinò, sbirciò lo schermo un secondo, poi si lasciò cadere sfinito su una delle due scomode sedie metalliche presenti nell’anticamera del laboratorio. L’operazione era durata dodici ore filate. Dodici ore di concentrazione, stress e paura di sbagliare. Un errore insignificante, come il fallito innesto di un ganglio nervoso o l’inversione di due arteriole, poteva distruggere il lavoro di vent’anni. Per fortuna tutto sembrava essere andato per il meglio. L’espianto del cervello dal neonato non era stato un problema, mentire ai genitori sulla sua sorte, neppure… La versione ufficiale del parto, infatti, non coincideva con la versione reale. Tutto era stato previsto… anzi, programmato. Grazie a qualche tangente nella tasca giusta, Frongia si era fatto assegnare quel parto, con la motivazione accettabile ma non plausibile di voler provare un’esperienza che mancava al suo curriculum. Vista l’insufficienza cronica di medici nell’Ospedale, nessuno aveva posto serie obiezioni. Aveva anche fatto in modo di avere per assistente l’ostetrica Clara Canu. Unica collaboratrice e corresponsabile nel Progetto Brain. Non era stato troppo difficile. Durante il travaglio avevano volontariamente fatto svenire la partoriente e le avevano praticato il taglio cesareo. Il neonato era nato vivo e vegeto. Era ancora vivo e vegeto (ma anestetizzato) quando, con una rapidità degna del Guinness dei Primati, il dottor Frongia gli aveva espiantato il cervello. Cervello che era stato subito raffreddato e conservato nel frigo pieno di ghiaccio secco. Il resto era storia. Dopo aver compilato il certificato di morte, documentando il neonato come nato morto a causa di una eritroblastosi neonatale, aveva informato i genitori del tragico fatto e si era mostrato ragionevolmente sconvolto con i colleghi. Il cadavere del bambino sarebbe stato cremato quella mattina e lui aveva già predisposto le cose in modo da non suscitare scomodi interrogativi. Come al solito, era bastato lubrificare con denaro liquido qualche ignaro ingranaggio.
Facilissimo. Com’era stato facile assoldare l’altro membro del Progetto. Clara Canu. Quando l’aveva conosciuta non era nulla, solo una ragazza graziosa con molto culo e poco cervello. Grazie a lui (e alle sue conoscenze) si era diplomata ed era diventata ostetrica. Clara si era infatuata di lui quasi subito. Ivan l’aveva assecondata, sfruttata e asservita in pochi mesi. I primi della loro convivenza. Non che la trattasse male, faceva solo valere la forza della sua personalità. Certo, a volte la forza della persuasione non bastava… e bisognava aggiungere quella delle sue mani. Non capitava tanto di frequente. Ivan non aveva paura che lei potesse tradirlo e rivelare i suoi segreti. No. Clara sapeva bene cosa comportava un voltafaccia… tornare a essere nulla. Per una donna che si era abituata ai ristoranti lussuosi, ai gioielli, alle pellicce, alla ricchezza, non era concepibile ritornare all’indigenza. Una volta finita la fedeltà dell’amore (era sicuro che prima o poi sarebbe finita), quella del denaro avrebbe preso subito il suo posto. Nessun problema in vista anche su quel fronte. Tutto era sotto controllo. Programmato. Come sempre.
“Come ti sembra l’elettroencefalogramma?” domandò Ivan. “Buono…” disse Clara, consultando il grafico dell’ECG. “Le crisi sembrano ate. L’ultima è avvenuta quaranta minuti fa, mentre collegavi i gangli del ponte al Sistema di Sostegno.” Frongia annuì, preoccupato. Si ò una mano sulle guance e constatò di avere la barba un po’ lunga. Non gli piaceva. Lo faceva sentire trasandato e ignorante. Inoltre, le lenti a contatto iniziavano a dargli fastidio. Era miope. Sbadigliò. “Stanco?” chiese Clara, distogliendo gli occhi dallo schermo Gli lanciò uno sguardo ansioso. Lei sembrava sempre ansiosa. “Un po’. Tu?” “Sì.”
“La fase difficile è superata. Ora non resta che controllare la sua crescita, verificarne le capacità e confrontarle con quelle di un cervello in condizioni naturali. È la parte più interessante.” Clara sospirò e girovagò nel laboratorio a braccia conserte. Ivan, stravaccato sulla seggiola, la seguì con lo sguardo. Clara sembrò presa nella contemplazione delle attrezzature che riempivano i banchi, gli scaffali e gli angoli del laboratorio. Osservò, come se non li avesse mai visti, microscopi ottici, Becker e provette, ECG e flebo, micropompe e dissociatori. Alla fine si fermò davanti al Sistema di Sostegno, all’interno del quale Ivan aveva da poco collocato il cervello espiantato. Quell’eterogeneo macchinario era l’orgoglio di Ivan. Concepito, elaborato e realizzato in sei anni, rappresentava tutto il Genio di Frongia. Era la sede diversa in cui avrebbe dovuto svilupparsi il cervello. Un corpo artificiale il cui unico scopo era favorire lo sviluppo del cervello neonato fino allo stadio di cervello adulto. Un sofisticato cuore sintetico garantiva una regolare circolazione sanguigna. Una concatenazione perfetta di microscopici sensori, collegati alle terminazioni nervose corrispondenti, davano al cervello la percezione del mondo esterno: vista, tatto, udito, olfatto. L’unico senso trascurato era quello del gusto. Il cervello veniva sfamato arricchendo il sangue con calibrate razioni di sostanze nutritive. Il giusto apporto di zuccheri, proteine, vitamine e tutto il resto venivano governati da uno specifico programma controllato dal computer. Tutte le condizioni necessarie alla crescita del cervello erano comandate e gestite dal software. A suo tempo, il cervello avrebbe potuto anche parlare e muoversi. Perché in fondo tutti gli uomini sono soltanto cervelli. Cervelli che pensano. “Crescerà?” La domanda restò sospesa nell’atmosfera del laboratorio come la nuvola che l’aveva seguita fuori dalla bocca di Clara. Ivan uscì dalle sue riflessioni, si sentiva spossato, come se avesse ato tutte le notti degli ultimi vent’anni in bianco. Guardò il Sistema di Sostegno, che
assomigliava vagamente a una piccola botticella… ma molto meno vagamente al C1-P8 di Guerre Stellari: il piccolo robot che riceveva il messaggio della principessa Leyla. Era una coincidenza. Frongia non aveva mai visto quel film. Non guardava nemmeno la TV. Era una perdita di tempo. Il cervello era inserito in una cavità particolare all’interno del meccanismo, pieno di spie luminose, indicatori e pulsanti. La cavità era peculiare perché aveva la capacità di espandersi man mano che il cervello che conteneva si accresceva in volume. In pratica era una scatola cranica artificiale. Era la parte più fragile dell’intero sistema. Come in un vero corpo. Sospirando, Ivan si alzò e raggiunse Clara. L’abbracciò. Le tute frusciarono. Lei cercò di baciarlo. Lui si ritrasse. Era fatto così. “Andiamo a letto…” disse. “A lui baderà il computer.” Uscirono dal laboratorio in silenzio, le tute ancora addosso. Risalirono la rampa. La loro camera da letto era al primo piano. Dopo aver fatto l’amore, senza nessun trasporto, Ivan scivolò nella sua parte di materasso e lasciò che il torpore l’avvolgesse. L’ultimo pensiero prima di assopirsi fu: Sì, crescerà.
11 novembre 1993. Ore 8.05
“Rosy?” La porta della camera da letto venne socchiusa e un fascio di luce si stagliò netto sulla massa informe avvolta fra le coperte di un letto matrimoniale. Sopra la testata era appeso un crocefisso di legno. L’oscurità era piena d’aria calda e viziata. “Sei sveglia?” Una voce triste attraversò le coperte. “Sono sempre sveglia.” L’uomo entrò nella stanza puzzolente, con o felpato, senza accendere la luce.
Lei non sopportava più la luce. Si arrestò davanti al letto. Fissò il crocefisso, Gesù morto, e scosse la testa. “Vuoi parlare?” bisbigliò mesto. La voce strillò “Che cazzo vuoi? Lasciami in pace!” “Amore, perché fai così?” piagnucolò l’uomo. “Sei chiusa in questa stanza, al buio, da dieci giorni. Fa male a me e a te.” Unico suono, un respiro sibilante sotto le coperte. “Amore?” Nessuna risposta. “Lo so che sei sconvolta per… il bambino.” L’urlo della donna arrivò improvviso e straziante. Neppure lo spessore delle coltri riuscì a smussare quel tagliente lamento. “No!” urlò la donna, dibattendosi. “Lasciami sola!” Affranto, stremato dal dolore, l’uomo indietreggiò e uscì. L’uscio si richiuse e la tenebra riempì di nuovo la stanza. Fuori dalla porta, steso sul pavimento sporco del corridoio, un uomo di trent’anni, alto e magro, disperato, in lacrime, con gli occhi fissi al soffitto crepato, si domandò: Perché? La risposta era una sola. Quella che si dà quando non si hanno altre risposte. Destino.
20 novembre 1993. Ore 21.10
Il brusio sordo e ripetitivo del Sistema di Sostegno era l’unico rumore udibile nel laboratorio sotterraneo del dottor Frongia. Il computer esaminava, istante per istante, tutti i parametri essenziali del cervello. Lo alimentava periodicamente e altrettanto regolarmente gli somministrava una serie di stimoli che erano necessari per una corretta maturazione delle cellule nervose. Durante gli ultimi giorni il cervello, chiuso nella sua cella, era cresciuto di peso e la sua attività elettrica si era amplificata. Cresceva bene. L’unica anomalia era data dall’impianto vocale, collegato con la zona del cervello che presiedeva al linguaggio. L’anomalia consisteva in brevi e sporadiche scariche. Non suoni veri e propri, ma incoerenti emissioni di fluttuazioni sonore. Il programma non comprendeva queste sporadiche emissioni, si limitava a segnalarle. A riguardo di quella novità, il dottor Frongia la pensava in modo differente dal PC. Pochi minuti prima, verso le 21.00, mentre usciva dal laboratorio, aveva scritto nel suo taccuino queste parole: Singolarità normale. Cresce bene. P.V. Ok. Idea: Piange?
8 dicembre 1993. Ore 12.15
La porta si aprì. “Il pranzo è servito!” recitò l’uomo, con un enorme vassoio nelle mani. Divertito, canticchiò la sigla dell’omonimo quiz televisivo di Corrado. Quel giorno era quasi di buon umore. Spinse l’interruttore con il gomito e accese la luce. Guardò verso il letto e sorrise. La donna, seduta sul letto e appoggiata allo schienale con un cuscino sotto la testa, non ricambiò il sorriso. Aveva rinunciato all’oscurità e alla solitudine, ma
non aveva nessuna intenzione di sorridere… non per i prossimi duemila anni, almeno. “Come stai oggi, amore?” “Male…” rispose lei, laconica e acida. “Che novità…” osservò lui, accostandosi al letto disfatto e depositando il vassoio sopra le coperte maleodoranti. Arricciò il naso. “Non vuoi che cambi le coperte?” “Perché?” L’uomo si strinse nelle spalle. “Sono sporche.” “Allora?” sbraitò Rosy, scoccando uno sguardo rovente al marito. “Anch’io sono sporca. Guarda che capelli! Guardami! Non m’importa delle coperte. Vattene. Mangio da sola.” “Ma io…” protestò lui, torcendosi le mani sullo stomaco. “Tu cosa?” lo rimbeccò lei. “Vuoi che faccia come ieri?” L’uomo girò lo sguardo e scrutò una macchia sulla parete di fronte. Era il punto esatto dove lei aveva scagliato il vassoio. Distolse lo sguardo dalla chiazza di minestrone e lasciò la stanza strascicando le ciabatte sul pavimento polveroso. Stava per piangere, ma non doveva, non poteva farlo davanti a lei. La porta si chiuse.
20 dicembre 1993. Ore 16.47
Immagini! Sensazioni! Suoni! Odori!
All’improvviso tutto si era fatto più nitido. Il pensiero era uscito dalla nebbia dell’incoscienza, ed ora esplorava quello strano nuovo mondo. Era più interessante e vario della nebbia. Interessante, questo sì… ma anche più preoccupante. Nella nebbia non c’era niente e nessuno. Non c’erano domande e quindi risposte. In quel luogo sconosciuto invece c’era qualcosa e qualcuno. C’erano molte domande… ma nessuna risposta. Non era bello. Il pensiero rimpianse la nebbia, la rassicurante protezione e tranquillità che essa gli regalava. Sapeva di non potervi più tornare. Ora doveva sapere, capire, trovare le risposte giuste. Le immagini erano sempre più nitide. Luci colorate. Cose di cui non sapeva il nome. Sentiva qualcosa intorno a lui (o a lei?), ma non capiva in effetti cosa fosse lui (o lei). Nella nebbia non aveva mai avuto questo problema. Certo, a volte aveva sentito una specie di dolore… ma non durava mai molto. I suoni sembravano senza senso. Gli odori: incomprensibili. Doveva capire. In fretta. Lui (o lei) sentiva di potercela fare. Iniziò subito a esplorare e capire quel nuovo mondo.
Sul monitor del computer, nel laboratorio segreto di Ivan Frongia, i tracciati grafici verdi dell’EEG si fecero di colpo più dinamici e intensi. Il ritmo alfa scomparve dal tracciato.
31 dicembre 1993. Ore 21.30
Rosy entrò in cucina e sorrise. Sul tavolo imbandito, in cima a candele di lucida cera rossa, brillavano vivaci fiammelle che diffondevano una balbettante luce soffusa. La cena era pronta: agnello, ravioli, vino rosso, insalata, ananas. Per dolce, una gigantesca crostata di fragole. Il profumo era allettante. La tavola apparecchiata per due. “Marco! È… meraviglioso!” esclamò la donna, con gli occhi pieni di luce riflessa. “Hai fatto tutto da solo?” Marco, che stava dietro a Rosy, ò un braccio intorno alla vita sottile della moglie e l’accompagnò fino alla tavola. Constatò con piacere che lei stava pian paino riprendendo il suo peso forma. Scostò una sedia e la fece accomodare. Girò intorno al tavolo e si sedette anche lui. Socchiuse gli occhi e studiò il volto di Rosy. Ripensò a quello che era successo nelle ultime settimane. A poco a poco, Rosy era uscita dall’incubo in cui era precipitata la tragica serata del parto. Aveva lasciato il buio, la solitudine e il fetore mortale della sua stanzetta ed era ritornata alla vita. Aveva ricominciato a sorridere e parlare. Era tornata a essere la Rosy che lui aveva conosciuto, corteggiato, amato e sposato. Come lei, anche lui era risorto. “Tra un’ora e mezza inizierà un nuovo anno!” disse, serio. Lei rifletté un po’ su quella frase, sorseggiando un bicchiere d’acqua minerale. I suoi occhi si scurirono solo per un istante. Sorrise come quando era bambina e il futuro era più bello.
Ore 23.50
Nello stesso momento, Ivan, che odiava i festeggiamenti per il Capodanno, si trovava nel laboratorio, seduto su una sedia, con la testa fra le mani e lo sguardo fisso sul Sistema di Sostegno. Nel taccuino, posato fra le sue ginocchia, c’erano
gli ultimi appunti: presenza nel tracciato elettroencefalografico del sonno REM. Sogna? Aumentato livello concentrazione endorfine alfa, beta e gamma. Regioni della corteccia dinamiche. Zona motoria meno. Le aree di Broca, Wernicke e fascicolo arcuato presentano elevata attività elettrica. Circonvoluzione angolare idem. È molto più sviluppato del normale. Credo possa già parlare. Ma allora perché non lo fa? P.S.: secondo i test preliminari e le analisi comparative effettuate dal computer, dovrebbe avere già l’intelligenza media di un bambino di dieci anni. Dimensioni e attività corrispondono. Cresce molto in fretta, forse troppo. Se è così intelligente, dovrebbe avere coscienza di sé. In due mesi si è sviluppato enormemente. Ciò significa che il corpo umano ostacola e rallenta lo sviluppo del cervello? O forse è l’interfacciamento con il computer che accelera lo sviluppo cellulare? Entrambi i fattori? Da verificare. In base ai miei calcoli, pare che il processo sia esponenziale. Domanda: se è cosciente e può comunicare, perché non lo fa? Dopo essersi ravviato i capelli, Ivan continuò a scrutare i grafici, i tracciati e tutte le informazioni che il computer proponeva in tempo reale, riempiendo schermate su schermate, saturando gli hard disk e stampando decine di tabulati.
Ore 23.57
Clara Canu scese le scale che conducevano al laboratorio. Era preoccupata. Ivan era chiuso nel laboratorio da ore ormai. E questo non le pareva giusto. Non la notte di Capodanno. Mentre tutta la gente del mondo si divertiva e festeggiava, lui era lì che vegliava il suo dannato cervello. Come se non bastasse, l’aveva lasciata sola e abbandonata in quella gelida villa. Adesso basta, però! L’avrebbe tirato fuori dal suo insopportabile laboratorio e avrebbe preteso un suo
bacio apionato allo scoccare preciso della mezzanotte.
Ore 23.59
Lui/Lei vedeva l’uomo, seduto sulla seggiola. Sentiva i suoi mormorii. Ne percepiva l’odore acido. Ormai aveva esplorato e capito a sufficienza quel mondo. Era giunto il momento di interagire con esso. Sapeva come fare.
Ore 00.00
La serratura elettronica del laboratorio scattò. “Sorpresa!” esclamò Clara, varcando la soglia. Nello stesso istante avvennero tre cose. Ivan si voltò e sbottò: “Cosa vuoi?!” Sullo schermo del PC apparve la scritta: INIZIALIZZAZIONE. SISTEMA VOCALE ATTIVATO. Dal Sistema di Sostegno, attraverso il sintetizzatore situato sulla calotta, una strana voce metallica domandò: “Chi sono?” Per cinque minuti, Ivan e Clara non riuscirono a parlare.
Ore 00.01
“Cosa c’è, amore?” Rosy scrollò il capo, confusa. La sensazione che l’aveva stordita, subito dopo il bacio della mezzanotte, era come svanita nel nulla. Non seppe decifrarla. Ma le sembrò strana. “Rosy?” ripeté Marco, preoccupatissimo. “Niente. Un capogiro. Colpa del vino…” lo rassicurò lei. La sensazione si sarebbe manifestata solo sette mesi dopo.
Ore 00.05
In ginocchio di fronte al sistema di sostegno, Ivan implorò: “Parlami. Parla ancora!” “Sì. Parlo.” Clara sobbalzò e strillò: “Mio Dio! È vivo! È vivo!” “Zitta!” le urlò contro Ivan, furioso. “Silenzio, donna!” Clara ammutolì e restò in piedi accanto alla sedia. Incrociò le braccia. Le spuntarono lacrime agli angoli degli occhi. “Capisci quello che dico?” disse Ivan, scandendo le sillabe. “Capisco.”
“Incredibile. Come hai imparato?” “Ho ascoltato.” “Tu mi vedi?” “Sì.” “Sai chi sono?” “Un uomo.” “Bravo. Esatto.” “Chi sono io?” “Tu sei… Beh, in effetti è difficile dire cosa sei.” “Io sono una cosa?” “No, sei… un bambino. Sì, ecco. Un bambino speciale!” “Un bambino?” “Ehm, quasi… Ma lasciamo stare questo discorso. Ci sono molte altre cose da fare ora!” spiegò Ivan, sfregandosi le mani. Il sintetizzatore restò muto. Clara anche. Ivan sorrise e mormorò: “Adesso viene il bello!”
1 gennaio 1994/3 giugno 1994
In effetti ci furono davvero tante cose da fare. Tantissime. Alcune semplici e brevi, altre complicate e lunghe. Con pazienza, forza di volontà, metodo e
applicazione (qualità che Frongia, quando voleva, possedeva in quantità industriale) riuscì a portarle a termine. Era stata un’esperienza fantastica! In ventiquattro settimane il cervello aveva fatto progressi straordinari, inconcepibili, al di là di ogni sua più ottimistica previsione. Dopo soli sei mesi il cervello aveva già imparato a leggere, scrivere e parlare correttamente due lingue: italiano e inglese. Aveva persino memorizzato alcune frasi in sardo. Il cervello era bravissimo in matematica, fisica e chimica. Risolveva, con eguale tranquillità, equazioni differenziali, problemi di termodinamica ed esercizi sulle ossidoriduzioni. In alcuni casi, addirittura, era stato semplicemente geniale. Assorbiva qualsiasi tipo di informazione. Negli ultimi giorni si era dato alla letteratura e alla filosofia. Argomenti che lo interessavano molto. Ivan e Clara avano ormai quasi tutto il loro tempo libero nel laboratorio, cercando di tener dietro a tutte le domande e richieste del cervello. Quest’ultimo dormiva pochissimo, tre ore per notte. Ormai, grazie all’interfaccia neurale con internet, era in grado di collegarsi da solo con le banche dati di tutto il mondo. In quei mesi il cervello aveva raggiunto qualità intellettive pari a uno studente universitario. Aveva un Q.I. elevatissimo. Questo, mentre i coetanei succhiavano il latte dal biberon, erano incapaci di movimenti autonomi e gorgogliavano sillabe idiote come “ma-ma”, “pa-pà” e “ghè” per la gioia di genitori, nonni, zii, parenti e affini, altrettanto deficienti. Ivan aveva capito che il cervello umano aveva un potenziale enorme, che la massa inerte e inutile del corpo inibiva. Per quanto riguardava i sentimenti e le emozioni, che Ivan aveva maturato per il cervello in questo breve intervallo di tempo, essi si potevano condensare in una sola parola: nessuno. Clara, invece, provava qualcosa: disagio, inquietudine e paura. Non stava mai con il cervello più del minimo necessario per controllarlo e non fare incazzare Ivan. Si sentiva a disagio quando comunicava con lui. Inquieta quando restava in silenzio per ore. Ma soprattutto aveva paura quando il cervello le faceva qualche domanda. Non sapeva come rispondere. Quindi non rispondeva. Lasciava che a rispondere fosse Ivan, dopotutto era lui l’unico responsabile del Progetto. Lei era solo un’assistente.
Ivan la trattava come sempre: a volte male, a volte peggio. Ciononostante, lei era innamorata di lui e sperava che un giorno sarebbe cambiato, in meglio. Ci sperava davvero. Il cervello, beh, lui non lasciava trapelare emozioni. Forse non ne aveva. Forse bisognava avere un corpo per averne.
4 giugno 1994
Il cervello chiese: “Chi sono?”. Attese la risposta che nessuno finora aveva saputo dargli: nessun libro, nessuna banca dati, né Clara né Ivan. Quest’ultimo, ora se ne stava seduto, immobile, con le dita congiunte sotto il mento a fissare i led dell’Unità di Sostegno. E non rispondeva. Quella domanda, dopo sei mesi di relativa tranquillità, era ritornata. Soltanto che adesso non poteva più cavarsela con una risposta vaga. Non poteva ingannarlo. Eppure ci provò ancora. “Un bambino…” disse pacato, mentre si alzava e iniziava a camminare su e giù nel laboratorio. “Sei un bambino. Lo sai.” “Non sono un bambino. So com’è fatto un bambino.” “Certo. Tu sei, ecco, un po’… diverso.” Su e giù, con calma. Clara stava di sopra, preparava la cena. “Sono molto diverso. Dimmi la verità. Adesso. Cosa sono?”
“Va bene!” si arrese Ivan, spazientito dalla sua ostinazione. Gli disse tutto. Dall’inizio. Il cervello ascoltò in silenzio.
“Quindi non sono un bambino, un bambino vero…” La voce elettronica del cervello vibrò nell’atmosfera fredda e asettica del laboratorio. “Sono il cervello vivo di un bambino morto.” “Non è esatto!” precisò Ivan. “Tu sei qualcosa di unico.” “Non cambia molto…” commentò amareggiato il cervello. La sua voce era piatta e metallica, tuttavia si avvertiva lo stesso una certa ironia in quella frase. Ivan, però, non riuscì a percepirla. L’empatia non era una delle sue doti. “È una questione irrilevante” sibilò disinteressato. “I miei genitori?” domandò il cervello. “Eh?” sbottò Ivan, perplesso, ma aveva sentito benissimo. “I miei genitori” ripeté, scandendo le parole. “Chi sono?” “Che cazzo ne so io?!” proruppe Ivan, irritato. Non aveva previsto queste complicazioni. Forse era stato il suo unico errore. “Mi hai stufato! Sei quello che sei! Ti ho creato io!” “Non è esatto!” intervenne il cervello, ripetendo la sua frase di pochi minuti prima e alzando il volume del sintetizzatore. “Non mi hai creato. Tu mi hai distrutto. Hai ucciso il mio corpo e fai vivere il mio cervello in questa prigione. Perché?” Ivan gli voltò le spalle. Aprì la porta del laboratorio.
Prima di uscire, sentenziò: “Per la Scienza. E per me.” Uscì. Raggiunse Clara in cucina. Non le raccontò nulla e lei non chiese niente.
Quella notte, nel laboratorio (mentre al piano superiore Ivan e Clara stavano, ognuno nel suo lato di letto, con gli occhi sbarrati nel buio a riflettere sui loro problemi contingenti: Ivan, il cervello; Clara, Ivan) queste sequenze di informazioni digitali arono dal computer all’Unità di Sostegno e quindi al cervello…
MARCO COSSU - nato il 29/07/1956 a Carbonia (Cagliari) Coniugato con Rosa Massa il 01/02/1990
ROSA MASSA - nata il 17/10/1960 a Solus (Cagliari) Coniugata con Marco Cossu il 01/02/1990
Residenza in Via Manzoni 19, Solus, (Cagliari).
5 giugno 1994.
La porta del laboratorio si aprì con un sibilo e il cervello vide Ivan in piedi sulla soglia. Ivan aveva stampata sul viso un’espressione indecisa, come se qualcosa non lo convincesse del tutto. L’espressione svanì e l’uomo entrò nel laboratorio.
“Ciao!” salutò, allegro. “Hai ato una buona notte?" Il cervello non rispose. “Ah, capisco. Sei ancora arrabbiato con me.” Non rispose. “Beh, guarda, sono cavoli tuoi!" ribatté Ivan, bussando con le nocche della destra sulla cupola dell’unità di sostegno. Toc, toc! Il cervello avvertì le vibrazioni. Erano molto sgradevoli. “Allora! Vuoi parlare o no?” Non rispose. “Bene. Ascolta. Stanotte riflettevo sui tuoi favolosi progressi e mi domandavo…” continuò lui, imperterrito, girandogli intorno. “Come mai non riesci ancora a muoverti? Dovresti essere in grado di farlo. Ho controllato ogni dettaglio funzionale. Eppure… C’è un errore nel programma? O forse una lacuna nei circuiti dell’Unità. Un guasto nel meccanismo semovente? La diagnostica è sballata?” Il cervello ascoltava in silenzio. “È davvero irritante. Sei sicuro di non riuscirci proprio?” Nessuna risposta. “Strano…” mormorò Ivan, sedendosi sbuffando sulla solita seggiola e appoggiando gli avambracci pelosi sulle ginocchia. “Questa notte ti ho sognato… e ti muovevi in modo autonomo.” “Perché mi dici questo?” s’informò il cervello. “Ah! Parli!” esclamò Ivan, sorridendo. “Mi hai perdonato?” “No. Ma ho capito.”
“Cosa?” “Mi sbagliavo. Se adesso sono vivo lo devo soltanto a te.” “Bene! Bravo!” Il sorriso di Ivan divenne raggiante. “Lo sapevo che alla fine avresti capito. Noi due siamo simili, no?” “Esatto.” “Esatto!” ripeté Ivan, compiaciuto. “Ti stavo dicendo?” “Il sogno.” “Sì, sì, giusto. Beh, vedi, nel sogno ti muovevi e poi…” “Poi?” “Non lo so. Una sensazione di freddo e buio. Non ricordo di preciso. All’improvviso il sogno si è fatto confuso e irrazionale. Mi sono svegliato di cattivo umore. Per questo sono sceso qui. Pensavo che fossi riuscito davvero a muoverti.” “I sogni sono solo casuali anomalie elettriche, differenze di potenziale tra i neuroni…” disse il cervello, che non sognava. “Già…” sospirò Ivan, massaggiandosi la nuca meditabondo. Per un breve istante l’espressione perplessa ricomparve sul suo volto. Sparì. Poi aggiunse: “Forse dovrei darti un nome…” “Io ho già un nome.” “Un nome?” replicò, Ivan stupito. “Quale?” “Ho deciso di chiamarmi Cervello.” Ivan scoppiò a ridere. Quando la risata terminò, Cervello chiese: “Dov’è Clara?” “Di sopra. Nel bagno, come sempre. Perché vuoi saperlo?”
“Voglio parlare con lei.” “Davvero? Di cosa vuoi parlare?" “Portala qui e lo saprai…” disse Cervello. “Ti dispiace?” “No, sono curioso. Tu a Clara non piaci. Di cosa si tratta?” “Chiamala e lo saprai.” “Okay! Vado e torno.” Ivan era elettrizzato. La pesante porta d’acciaio si chiuse alle sue spalle. Cervello percepì i i di Ivan che risalivano la rampa. Disse: “È vero. Noi due siamo simili. Siamo bugiardi.” E iniziò a muoversi.
“Clara! Dove sei finita?” Dal bagno Clara rispose: “Sono qui.” La raggiunse. Lei indossava una vestaglia di seta blu notte e aveva i capelli avvolti in un asciugamano bianco. Nel bagno aleggiavano nuvole di vapore. Lo specchio era appannato. Nell’aria c’era un buon profumo. Ivan le aveva regalato quell’essenza per San Valentino. Gli piaceva. Clara lo sapeva e, naturalmente, lo usava sempre. “Cosa c’è?” Ivan si appoggiò con le spalle alla porta. “Vuole parlare con te…” esordì.
“Chi?”. Le pupille della donna si dilatarono. Sapeva bene di chi si trattava. “Come chi?” sbraitò lui, acido. “Chi cazzo vuoi che sia?” Clara arretrò di un o, urtò una mensola con il fianco e la rovesciò. Pettini, spazzole, spazzolini e phon rovinarono sul pavimento. Per un attimo temette che lui volesse picchiarla. “Porca troia!” urlò Ivan, irato. “Piantala di fare la stronza!” “Scusami… io… sono inciampata…” farfugliò Clara, in lacrime, inginocchiandosi per raccogliere gli oggetti caduti. “Non volevo fare disordine, è stato… Metto tutto a posto sub…” Uno schiaffo la colpì in piena faccia troncando l’ultima parola. L’impronta di cinque dita scarlatte apparvero sulla sua pelle. Bruciavano. Come le lacrime. Strano, dopo tutto quel tempo ato con lui, non si era ancora abituata a quel dolore. “Lascia quella merda! Seguimi. E non fiatare. Capito?” Ivan le voltò le spalle e s’incamminò verso il laboratorio. Clara si leccò le lacrime scivolate agli angoli della bocca. Erano amare e salate. Si alzò. Calzò un paio di pantofole e seguì Ivan. Senza fiatare. Non era la prima volta che una cosa del genere capitava. Lei lo capiva… non era cattivo, si comportava così soltanto per il suo bene, per istruirla. Era una donnicciola, stupida e goffa e piagnucolosa. Doveva imparare a vivere. Ivan glielo stava insegnando. Con pazienza. Era un maestro severo ma giusto. Lei, piuttosto, era una cattiva allieva. Sì, lui sarebbe cambiato quando lei sarebbe cambiata. Se lui faceva ancora così, la colpa era sua. Lo seguì, cercando di reprimere lacrime e singhiozzi. Durante il tragitto, Ivan non si girò mai a guardarla.
Ivan digitò il codice d’accesso. Cifre verdi sul display. La porta si aprì. Entrò nel laboratorio e annunciò: “Eccola. Te l’ho portata!” Finì la frase e sbarrò gli occhi, allibito. L’Unità di Sostegno era scomparsa. Non c’era più! Il cervello, il suo cervello, non era più nel laboratorio! “Dov’è?” mormorò Ivan, con la voce rotta dal panico. Panico? Perché panico? Clara l’affiancò, silenziosa, stringendo i cordoni della sua vestaglia di seta. Una morbida ciocca di capelli le era sfuggita dall’asciugamano e le pendeva davanti agli occhi attoniti. “È andato via…” bisbigliò, rivolta più a se stessa che a lui. Nello stesso istante, prima che potesse reagire, la massiccia porta d’acciaio del laboratorio si chiuse alle loro spalle. Sssshh…tlak! “Ma cosa…?” iniziò a dire Ivan, ma non concluse la frase. Le luci si spensero. Buio. “Ho freddo…” disse, Clara, tremando nell’oscurità. Ivan si mise a urlare.
Una voce chiara, calma e sintetica attraversò l’acciaio. “Ascoltate!” affermò la voce. “Ora siete voi i prigionieri.” Nella gelida tenebra del laboratorio, Ivan smise subito di urlare. Picchiò i pugni sul metallo e ordinò: “Fammi uscire!” Nessuna risposta. Clara singhiozzò: “Ivan… fai qualcosa. Ho tanto freddo.” Lui ignorò le sciocche parole della donna, spezzettate dal battere dei denti. Tempestò la porta con una gragnuola di calci e pugni che echeggiarono nel laboratorio come altrettanti gong. “Bastardo!” sbraitò, furioso. “Che cazzo vuoi fare?” Silenzio. Poi la dura voce sintetica di Cervello, disse: “Vendicarmi.” Questa volta fu Clara a urlare.
“Hai mentito! Hai detto di non riuscire a muoverti!” strillò Ivan, con tono sdegnato. “Volevi farmi cadere nella trappola?” “Sì.” “Figlio di puttana, come osi farmi questo?” “Perché Clara non urla più adesso?” domandò Cervello, indifferente, lasciando cadere nel vuoto l’interrogativo di Ivan. “È svenuta!” rispose Ivan, stizzito. “Sei contento adesso?” Nessuna risposta. “Perché vuoi vendicarti?”
Non rispose. “Te la farò pagare!” minacciò Ivan, toccando nel buio la parete a destra della porta. Cercava il tastierino interno della serratura elettronica. “Appena esco… Vedrai cosa ti faccio!” Trovò i tasti e digitò il codice d’accesso con un ghigno. Numeri verdi lampeggiarono sul display. La porta non si aprì. Il ghigno lasciò il volto di Ivan, sostituito da una maschera di paura. Ai suoi piedi Clara gemette, stava riprendendo i sensi. Il freddo era insopportabile. “È inutile…” disse Cervello, oltre lo spessore d’acciaio. “Ho cambiato il codice. Non potete più uscire. Morirai nello stesso laboratorio dove hai creato questo orrore biologico.” “Non puoi farlo! Maledetto!” “Lo sto già facendo” “Non è giusto! Non ti ricordi? Devi a me la tua vita!” “Mi ricordo. È vero… devo a te questa vita. È per questo che ti uccido. Odio la mia vita. Sono un mostro ed è merito tuo. Hai negato al mio corpo una vita normale e hai concesso al mio cervello una vita anormale. Tu non immagini neppure il mio dolore quotidiano. Il dolore che ho dentro da quando ho preso coscienza del mio essere… o meglio, del mio non essere. Tu non sai cos’è il dolore. Ma, forse, oggi lo capirai.” “No! Non capisci che…” “Non c’è nulla da capire. Devi morire. Nel buio e nel freddo. Ecco perché ho tolto l’illuminazione e riprogrammato l’impianto di refrigerazione per farlo scendere fino a meno trenta gradi centigradi. Morirai dove io ho vissuto e vivo.”
“Ma… Clara… Vuoi uccidere anche lei?" “Sì.” “Lei cosa c’entra? Ho fatto tutto io! È solo colpa mia!” Il piano di Ivan, a questo punto, era il seguente: convincere quel bastardo a risparmiare Clara. Non perché all’improvviso fosse diventato un eroe, ma perché, se Cervello avesse aperto la porta per far uscire Clara, ne avrebbe approfittato per schizzare fuori e disconnettere l’Unità di Sostegno. Era un ragionamento un po’ cinico, ma da Ivan cosa ci si poteva aspettare? “No…” sentenziò Cervello, uccidendo ogni speranza di fuga. “È anche colpa sua. Certo, non voleva farmi del male… ma non ha impedito a te di farlo. Era una tua vittima. Adesso è la mia. Ti ho detto io di portarla quaggiù, no? Rassegnati. È finita.” “Assassino! Facci uscire! Apri questa cazzo di porta!” “No.” Ivan si scagliò invano contro l’acciaio gelido. Pugni, calci, spallate. L’unico effetto concreto era quello di provocare vibrazioni sorde nell’aria ghiacciata del laboratorio. “Ah… Ivan? Dove siamo? Perché è così buio…” borbottò Clara, intontita, rinvenendo, la pelle fredda e insensibile. Ivan non l’ascoltò. Continuò a martellare la porta. Urlò: “Come puoi? Perché?” Cervello rispose: “Per la scienza. E per me.” Calò il silenzio. Cervello, recluso nell’Unità di Sostegno, se n’era andato. Per sempre.
Ivan crollò sul pavimento ghiacciato, sfinito e sgomento. Brancolando nella tenebra, Clara lo raggiunse e si avvinghiò al suo corpo per trarne sostegno, conforto e calore. Stavolta lui non la scacciò. Anche Ivan aveva bisogno di sostegno, conforto e calore. Il suo Progetto Brain-1 era stato un fallimento. Rabbrividirono e restarono in silenzio. Le parole erano inutili. Il buio e il gelo aumentarono. Il tempo che li separava dalla morte diminuì.
5 giugno 1994, ore 19.45
L’Unità di Sostegno procedeva, sobbalzando sul terreno impervio, nel mezzo di una lunga fascia di eucalipti. Le vibrazioni e le scosse non erano piacevoli per Cervello, tuttavia sopportava quella sofferenza con stoica rassegnazione. Era libero! Sopra di lui, tra le fronde agitate dal maestrale, cinguettavano decine di cardellini e eri. Erano quasi le otto della sera. La notte estiva scendeva pigra su quella parte di mondo. Nella penombra degli eucalipti faceva fresco. Cervello aveva sofferto il caldo per tutto il giorno… da quando aveva lasciato la villa isolata di Ivan Frongia. Non aveva previsto quel fattore. Fino ad allora l’ambiente freddo del laboratorio era stato l’ideale. Ma all’esterno… oh, l’esterno! Com’era bello, spazioso e vario! Il sole! La luce! Il vento! Gli animali! Era stupendo. Cervello era contento e soddisfatto di se stesso, per la prima volta nella sua brevissima esistenza. Nonostante la sua autonomia energetica non fosse
illimitata, era sicuro di poter raggiungere il suo scopo prima dell’esaurimento delle batterie. Conosceva la sua esatta posizione grazie al localizzatore satellitare incorporato da Ivan nell’Unità di Sostegno. Aveva memorizzato la cartografia dei luoghi (ottenuta interfacciandosi con l’I.G.M.) e procedeva spedito verso il luogo chiamato Solus. Il paese dove risiedevano i genitori naturali. Era importante trovarli. Lo sapeva. In molti romanzi, che aveva “letto” nelle ultime settimane, c’erano storie come la sua. Innumerevoli racconti di bambini piccoli strappati all’amore della famiglia. Presunti orfanelli che sfuggivano ai loro carcerieri e partivano alla ricerca di papà e mamma. Era così che si doveva fare. E lui lo stava facendo… anche se si sentiva un po’ infantile. C’era qualcosa di sbagliato nei suoi pensieri. Non era un bambino. Era un cervello e… no! Doveva andare a casa, dove anche un cervello può sentirsi meno solo. Avanzò, zigzagando tra i tronchi abbattuti e le foglie secche, guardando ogni cosa con innocente curiosità: lucertole, schegge di vetro, rottami, immondizie e ciarpame assortito. Dalla sua fuga ad ora non aveva incontrato nessun essere umano. Aveva attraversato campagne assolate, vigneti, siepi di fichi d’India e strade asfaltate, strette, roventi e deserte. Da più di un’ora seguiva quella fascia di eucalipti che, secondo i suoi calcoli, arrivava proprio fino a Solus. Ancora poco e sarebbe arrivato. Ancora poco e avrebbe visto la sua casa. Ancora un po’ e avrebbe conosciuto i genitori. Sarebbe stato magnifico e commovente. Proprio come nei romanzi. Certamente. Cervello era ansioso. La sera si era fatta scura e fresca, intanto. Lontano si sentiva il rumore del traffico. Più vicino, il ronzio fastidioso di una motosega in azione. Cervello, mentre le sue piccole ruote, inadatte a quel terreno, procedevano a fatica tra radici e pietraie, rifletté sugli inevitabili problemi del suo futuro prossimo: come avrebbe fatto a sopravvivere, al di fuori del laboratorio in cui era stato creato? In che modo poteva nutrirsi e ricaricare le sue batterie? Aveva ancora un’autonomia di cento ore… ma i suoi meccanismi interni si stavano già usurando e surriscaldando. Il sistema non era stato progettato per lunghe esplorazioni come
quella che stava facendo. All’improvviso ci fu il silenzio. Niente traffico. Niente motosega. Niente uccellini. Niente. Cervello si arrestò. L’Unità di Sostegno ronzò e ticchettò nel crepuscolo. C’era qualcosa con lui, negli eucalipti. Gli veniva incontro, strisciando sul fogliame, nascosto nell’ombra screziata e mobile. Era qualcosa di strano. Sibilava. Fsss… Fsss… Restò immobile per qualche secondo. Il sibilo cessò. Il qualcosa se n’era andato. Chissà cos’era. L’Unità di Sostegno riprese a muoversi. Ormai era notte. Nel cielo splendeva una gonfia luna piena, che rischiarava il cammino in maniera sufficiente. Cervello scorse una sagoma scura dietro il limite degli eucalipti. Era sostenuta da tubi di ferro. Intuì di cosa si trattasse. Una segnalazione stradale, sforacchiata da numerosi proiettili, eretta sul bordo di una strada. Per un istante fu illuminato dal chiarore lattescente dei fari di una Seat Ibiza Black (Cervello conosceva quasi tutti i modelli di auto) che sfrecciò sull’asfalto a tutta velocità. L’autoradio, con il volume al massimo, produceva un fastidioso rimbombo dissonante. Il lampo di luce rivelò una scritta: SOLUS.
Ore 21.30
La sensazione ritornò. Ritornò netta e intensa, come la prima volta, a Capodanno. Era come una specie di vuoto mentale, un vuoto angosciante che le serrava la gola, il cuore e la mente… una sensazione cupa che, chissà perché, le ricordava quella notte in ospedale. La notte del parto. Come la volta precedente la sensazione svanì quasi subito. “Marco?” chiamò Rosy, spegnendo il televisore nel salotto. Marco entrò nel salotto e si fermò di colpo. Reggeva un vassoio di plastica, con sopra due giganteschi bicchieroni di Coca Cola. I cubetti di ghiaccio scricchiolarono nel silenzio. “Cosa c’è?” domandò, notando il pallore sulla faccia della moglie, mentre pensava: Una ricaduta? Oh Dio, ti prego, no. “Nulla”, mentì, per non far preoccupare il marito. “Siediti.” Lui avanzò verso il divano. Posò il vassoio sul tavolino e si sedette accanto a lei. Le ò un braccio intorno alle spalle. “Sicura?” chiese, allarmato. “Sicura.” “Bene. Perché hai spento la tv?” “Non c’è nulla di bello stasera. D’estate non fanno mai niente. Pensano che tanto tutti vanno in vacanza e hanno di meglio da fare che guardare la televisione. Ai poveri non ci pensano. Ci tolgono anche il piacere di guardarci un bel film!” Lui sorrise e la baciò. “Hai ragione, amore…” commentò Marco, tuttavia raccattò il telecomando e
riaccese la tele. Se abitavi a Solus, a quell’ora della sera o ti ubriacavi al Bar Sport o cazzeggiavi sulle panchine o guardavi la televisione, qualsiasi vecchia schifezza trasmettessero. Sullo schermo apparve Mike Buongiorno. “Allora, signorina? Gioca il jolly?" Cambiò canale. Su Telegamma, la rete locale privata, era in onda un film di Carpenter: quello dove c’era un tizio alto, con la faccia bianca, che faceva a pezzi la gente e non si riusciva mai a ucciderlo. “Vuoi vedere questo?” esclamò Rosy, preoccupata. A differenza di Marco, quei film non poteva soffrirli. C’era già abbastanza orrore nella sua vita, anche senza il cinema. “No. Faccio zapping.” Cambiò ancora canale e in quel momento qualcuno suonò il camlo alla porta principale. Due trinn! Acuti e fastidiosi. “Chi sarà a quest’ora?” si lamentò Marco, sbuffando. A Solus, in qualunque stagione, era sempre quest’ora. “Resta qui….” disse Rosy, alzandosi dal divano. Sapeva che, appena uscita dalla stanza, Marco sarebbe subito tornato su Telegamma. Suo marito era un uomo prevedibile. Uscì dal salotto. Attraversò il corridoio e si fermò davanti alla porta. “Chi è?” chiese Rosy, un pochino nervosa. Abitavano in una modesta casetta in periferia, appena prima della campagna, subito dietro alla fascia di eucalipti che circondava Solus. Via Manzoni, in realtà, era una sterrata che portava verso le colline. Il misterioso visitatore non rispose.
“Chi è?”, ripeté lei, allarmata e spazientita. Una strana voce metallica rispose: “Sono io, mamma.” Rosy non si mosse. Non reagì. Era come spenta. Sono io, mamma… Sono io, mamma… Sono io, mamma… Il camlo suonò ancora. Trinn! Trinn! Nel salotto Marco ad alta voce chiese: “Rosy? Chi è?” Lei non rispose. “Rosy?”
Non apriva la porta. Forse si era bloccata. Era difettosa? “Mamma? Apri. Sono io!” disse Cervello, ansioso. Ma lei non aprì e nemmeno rispose. Cervello decise di provare ad aprire lui stesso la porta. Con un ronzio, spostò il suo unico braccio meccanico dal pulsante del camlo e lo indirizzò verso la serratura. Estroflesse le sensibili e minuscole propaggini metalliche. Le infilò nella rudimentale toppa e cominciò a sce il nottolino. Non sembrava complicato.
Nel salotto, Marco sentì la porta cigolare sui cardini.
Azzerò il volume della tele, proprio mentre Michael Myers tentava di uccidere con un coltellaccio la figlia di Tony Curtis. “Rosy… ma chi è? Un testimone di Geova…” Un tonfo, come di un corpo che stramazzava sul pavimento. Subito dopo percepì un brusio e una strana voce che diceva: “Cos’hai mamma… stai male?” Marco scattò in piedi, rovesciando il tavolino, i bicchieroni di Coca Cola e disseminando cubetti di ghiaccio dappertutto. Cosa stava succedendo nell’ingresso? Non c’era tempo per ragionare: Rosy era in pericolo! Senza pensarci troppo, Marco afferrò una delle pesanti sedie di noce massello del salotto e si precipitò nel corridoio. Agiva spinto dall’istinto animale di protezione e dall’adrenalina pura. Non pensò. Non esitò. Non dubitò. Rosy era stesa sul pavimento, un sottile rivoletto di sangue le usciva dall’orecchio sinistro, gli occhi vacui spalancati. Sembrava morta! C’era qualcosa al suo fianco. Un affare di metallo, un incrocio tra un cilindro e una sfera, ricoperto di pulsanti e luci colorate e quadranti. Era un mostro? Un robot? Un Ufo? Una creatura aliena? Cosa stava facendo? “NO!” gridò Marco, furibondo.
Si scagliò senza timore contro quell’orrore indefinibile. Cervello udì quel grido rabbioso e ruotò verso l’uomo che correva contro di lui, con una grossa sedia sollevata sopra la testa. Mamma era svenuta per l’emozione di averlo rivisto. Quell’uomo doveva essere papà. Il suo papà. Ma… perché aveva quella sedia? Incapace di dare tono alla sua voce, esclamò: “Papà!” Come risposta, il padre gli schiantò addosso la sedia. Un impatto violento e distruttivo. L’Unità di Sostegno perse il baricentro, si rovesciò e rotolò sull’antiquato pavimento a scacchi bianchi e neri. Luci e quadranti s’infransero. Il sintetizzatore vocale sfrigolò, emise una nuvoletta di fumo nero e andò in cortocircuito. Un’ondata di dolore travolse Cervello che fu sbatacchiato qua e là, dentro la sua bara artificiale. Provò a parlare e non ci riuscì. Era stato danneggiato in modo irreparabile. Cercò di rimettersi in posizione stabile. Non ci riuscì. Pensò: papà, non picchiarmi… Basta! Sono tuo figlio!
Dal mostro uscivano scariche elettriche e suoni inarticolati. “Fzzz! Pa… zzz! Sta!… Fzzz! Glio!” Ignorando quel cicalio, Marco continuò a colpirlo con la sedia, che adesso aveva due gambe sfasciate e sanguinanti… Sanguinanti?! No. Non era la sedia a sanguinare. Era la cosa che sanguinava.
Dal metallo contorto e sfrigolante sprizzava sangue. “P-pà… zzz… io… Fzzz!” Scintille blu elettrico avvolsero la cosa. Fumo acre esalò dai rottami. Il sangue dilagò sulla lega metallica squarciata, colò su una miriade di tubicini, circuiti elettronici e microprocessori. Altro sangue sgorgò da vasi di plastica messi a nudo. Marco, snervato, grondante di sudore rancido, assestò un ultimo colpo e lasciò cadere la sedia a terra. Rivolse tutta la sua attenzione alla moglie. Non era morta. Il petto si muoveva. Respirava! “Grazie a Dio!” Prese fra le braccia Rosy e la sollevò. Lei si lamentò, tossì e biascicò qualcosa. Marco cercò di tranquillizzarla: “Va tutto bene. Ti porto all’ospedale. Non preoccuparti. Va tutto bene.” Si avviò verso la porta. Prima di varcare la soglia, con Rosy in braccio, in senso contrario rispetto al giorno delle nozze, lanciò una breve occhiata alla massa informe della cosa. Il sangue fluiva più lento, adesso. “Il mio bambino…” mormorò Rosy. Marco scosse la testa, in lacrime, sapendo che ci sarebbero state molte notti e molti giorni difficili nel suo futuro, come già nel ato. Quasi certamente non avrebbe avuto la forza e il coraggio per affrontarli, ma ci doveva provare lo stesso, con Rosy, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte. Non aveva scelta. Uscì nella notte.
Come era nato, Cervello cessò di vivere senza clamore. Scollegato dal mondo esterno, ogni interfaccia distrutta, per Cervello tutto diventò vago e senza nome. La nebbia invase la sua mente. Non era doloroso. Era proprio come era stato all’inizio… stava ritornando nella nebbia senza domande e senza risposte. Il pensiero stava perdendo consistenza. Le immagini, le sensazioni, i suoni, gli odori. Ogni cosa perdeva di significato e tangibilità. Papà e mamma erano andati via. Era solo, stava morendo e, malgrado ciò, era felice lo stesso. Il sintetizzatore dell’Unità di Sostegno, in un ultimo sussulto di funzionalità, gracchiò una frase che risuonò confortante. “A casa è tutto più bello… anche la morte.” Poi tacque e la nebbia l’avvolse. Il mondo reale non esisteva più e, forse, non era mai esistito.
28 – CAMBIAMENTI
Quando esci dalla visione, anche se “uscire” non è il termine più adatto per descrivere il fenomeno, senti vibrare tra le facce del cubo una specie di fischio. Assomiglia a quello che sentivi da bambino, spegnendo la vecchia e grossa televisione a tubo catodico della nonna… il sibilo decrescente delle valvole che si raffreddavano. Ricordi il flebile puntino bianco che si estingueva al centro dello schermo di vetro grigio, curvo agli angoli, come una stella morente elettronica. L’odore della bachelite surriscaldata, per un incredibile istante, ti riempie il naso e aizza mille altri ricordi. La triste storia di Cervello, per quanto ti sia apparsa inverosimile nella sua ambientazione, continua a riverberare nella tua mente per molto tempo. Nel mentre, il cubo bianco si muove, senza che tu possa vederne la destinazione. In un certo senso, ti accorgi di rimpiangere la prigionia della bolla. Era più accogliente. Inoltre, anche spremendoti le meningi come acini d’uva sotto il torchio, non riesci più a ottenere altre informazioni. Niente flash di ritagli ingialliti e anguste soffitte polverose. L’intervallo tra un racconto e l’altro è sempre più breve. Infatti, all’improvviso, un lampo bianco scaturisce dalle pareti del cubo, avvolgendoti in un sudario di luce…
29 – SENZA TITOLO
22 settembre, lunedì, ore 4.35 (a.m.)
Bene, come prima riga della prima pagina del primo diario della mia prima annata di Magistrali non c’è male, nevvero? E con questo mi pare che il contesto sia chiaro, no? Dopo le tre noiosissime messe a cui ho assistito ieri mattina, nell’adempimento delle mie funzioni di primo chierichetto di Don Antioco, avrei pensato di cascare addormentato sul divano già alle 21.00. Invece, eccomi qui, a scribacchiare cazzate nelle ore piccole. Non credo in Dio più di quanto credo a Pinocchio, però, se dicessi a mia madre che non voglio più andare in chiesa ogni domenica, lei pianterebbe su un pianto greco. Ah, dimenticavo! Già che siamo in tema di prime volte, oggi sarà il mio primo giorno di scuola (o squola, come squalo; o scquola, come acqua? Sto scherzando, ovviamente, mi diverto a sembrare più ignorante e stupido di quello che sono, in questo paese le persone intelligenti sono trattate come gli appestati nel Medioevo). Problemi filosofici e/o dilemmi amletici a parte, data l’ora in cui scrivo, sono morto di sonno. Ritorno a letto.
ore 15.05
Primi giorni di scuola, ah, che malinconia! Oh, cielo, che struggente (?) nostalgia dei tempi e dei compagni che furono. Quando mai! Il primo giorno dell’asilo, il primo giorno delle elementari, il primo giorno delle medie, il primo giorno delle superiori… sempre la stessa inutile
merda. Che sublimi cazzate!
ore 16.00
Noia noia noia noia noia noia noia noia noia noia noia noia noia noia solo noia e noia!!!
ore 18.00
Vedi ore sedici: ah-ah!
ore 19.00
Ho la televisione. Mi è bastato un fiammifero e un po’ di benzina. Ah-ah-ah.
ore 19.05
L’ho accesa sul serio, adesso. Per qualche misterioso motivo (mafia) si vede soltanto Raiuno. Su tutti gli altri canali nevica. Ho cercato di guardare l’Almanacco del Giorno Dopo (stronzata del giorno prima) ma non ho resistito, abbandono la nave. Sic! Raiuno è meglio guardarlo con la televisione spenta. Mah, forse esagero. No, meglio non averla proprio, quella scatola scura con una parete di vetro. Non mi piace.
Interrompono troppo spesso la pubblicità.
ore 23.07
Non riesco a prendere sonno. Credo che per conciliare il sonno leggerò qualcosa di poco impegnativo. Già, forse qualcosa di Alberto Valium Moravia.
ore 23.20
Oh, sì… Oh, sì. Ho acchiappato il sonno! Bene. Ho letto dieci pagine dell’Elenco Telefonico. Già, come dice la barzelletta: “Bel romanzo, ma un po’ troppi personaggi.” Chissà, forse ha ragione. Buonanotte e sogni neri.
23 settembre, martedì, ore 15.00
Secondo giorno di scuola. Com’è andata? Schifosamente bene. Beh, quasi. Per quanto strano possa sembrare, sono un mezzo genio (di conseguenza vivo in una mezza lampada). Buona questa. Oh, sì, buonissima. Ah! Ah! Ma via, dai… riassumiamo un pochino gli accadimenti.
Anche questa mattina mi sono risvegliato nel mezzo del mio solito incubo. Mi tormenta già da due settimane. Ogni notte. Buffo, no? No, appunto. Vediamo… stavo scrivendo? Ah, sì, certo. Il secondo giorno di magistrali! Solita routine mattutina. Sveglia alle 7.00 precise. Bagno. Colazione. E poi, via! Alla Fermata. Tutti riuniti sotto quel vecchio palo sbilenco striato di ruggine, tutti mezzo addormentati. La didascalia più giusta, per una scena del genere, sarebbe il titolo del numero 1 di Dylan: “L’alba dei morti viventi”. Ossia noi. Noi studenti pendolari ammassati intorno a un palo storto, tutti noi, pronti alla quotidiana battaglia per impadronirsi di un posto a sedere nel fatidico autobus delle ottomenoventi. Che squallore! E il bello è che non possiamo fare altrimenti. Già. Oh, beh, forse ci condiziona un po’ il ricordo di quello che è capitato a uno di noi, lo scorso anno… Uno di noi che ora sta sottoterra. Uno che conoscevo a livello di “Ciao! Ciao!” e “Chi si è visto si è visto”. Però sul momento, quando l’ho saputo, ci sono rimasto. Addolorato. Non per molto. In un certo senso se l’è meritato. Voleva fare il furbo, il fu Alessandro Satta. Non si fa così. No. O quello delle ottomenoventi o niente. Peccato, a domani. Invece lui no. Lui va a stoppare! Il figo! Che stronzo, dico io. Poi ci si lamenta, dico io! Per favore. Guarda come è finito! L’hanno trovato sepolto sotto un metro di fango, dentro uno di quei sifoni in cemento armato dei canali per l’irrigazione. Era nudo. La testa spaccata. Il cervello che gli traboccava nella melma. Hanno rinvenuto il suo zaino e suoi vestiti sul bordo del sifone, piegati e sistemati con folle cura. Inzuppati di sangue e pioggia. Il tipo che gli ha dato uno strappo doveva essere proprio pazzo. E che strappo! Bah, come dicevo prima: chi cerca trova. Un momento, perché scrivo di questo? Ho perso il filo.
Ah, ecco! Dovevo fare il resoconto della mia mattinata. Già, vero, solo che adesso non ne ho proprio voglia. E tanto non serve. Poca storia. C’è solo un particolare degno di nota. Ho fatto conoscenza con una compagna di classe. Gli altri sono ancora sconosciuti. Solita storia. Comunque lei l’ho conosciuta. Ecco come. Appena sono entrato in classe, lei mi si avvicina. Sorridente. Chissà perché poi. Con una vocetta acuta, cinguetta: “Lo sai che siamo compaesani?” Io non l’ho mai vista in paese. Forse perché vedo poco anche il paese. Ma lei sta ancora sorridendo. “Davvero?” dico io, dirigendomi verso un banco libero. Lei mi segue. “Sì!” dice e, per un attimo, mi sfiora il braccio con la mano. Io cerco di non muovermi. “Ti ho visto spesso in chiesa. Tu fai il chierichetto, no? Io vado sempre alla messa delle nove con le mie amiche. Ci sediamo nell’ultima panca per spettegolare.” Mi siedo. Lei si siede nell’altra seggiola del banco. Ieri ero da solo. “Posso sedermi qui?” chiede, voltandosi verso di me. Adesso sorrido anch’io. Meglio assecondarla, mi sono detto. “Sei già seduta…” ho commentato. Non era una battuta. Lei si è messa a ridere. Non mi è piaciuto. Pensava scherzassi? “Ah!” questo è stato il mio secondo commento. Solo un ah! In pochi secondi si era nominata mia compagna di banco. Bella cosa, eh? Così ci siamo presentati e con un lungo bla bla bla, di quasi cinque ore, abbiamo fatto conoscenza. Niente di più. Dimenticavo, naturalmente quelle cinque ore
erano vuote. Tranne la mezz’ora in cui un polveroso professore ha fatto l’appello con tono scazzato. Quasi tutti assenti, ovvio. Quando mai studenti e professori rientrano al completo il secondo giorno di scuola? Mai visto. Cos’altro dire? Oh, certo, lei si chiama Daniela. Dany per gli amici. Quindi io la chiamerò Daniela. Com’è? Una stronza del tipo peggiore, di quelle che non si accorgono di esserlo. Bah! Non sarò certo io a renderla consapevole del fatto. Forse. Basta, adesso devo riare un po’ di roba. Meglio portarsi avanti. Ci vediamo, eh? Ciao.
24 settembre, mercoledì, ore 17.55
Salve! Incredibile (ma vero), oggi abbiamo fatto lezione regolare!!! Tutti i prof. hanno risposto alla chiamata. Gli alunni no. Comprensibile. Questo è il periodo della vendemmia. L’occasione annuale per guadagnare qualche lira svalutata con un po’ di sudore da parte di molti ragazzi. Io preferisco essere povero e asciutto. Sicuro 100%. Anche oggi Daniela mi ha sommerso di chiacchiere. Sono stato paziente (ma vi dirò che preferisco essere dottore, ah-ah, che so, ah-ah!) con lei. Strana ragazza, Daniela. Davvero. Sorride e ride troppo. Per oggi è tutto.
P.S.: perché diavolo continua a toccarmi quando parla? P.P.S.: lo fa apposta? No? Cos’è questa confidenza? Cosa vuole da me? Mi sento
strano. Non mi piace. Non mi piace.
25 settembre, giovedì, ore 16.10
Piove. L’uva andrà a male. Non m’importa, io non ho uva. Piove ancora. Mi ritrovo a pensare a Daniela. Oggi non c’era a scuola. Perché? Cosa m’importa?
ore 17.10
Un’ora dopo. Penso ancora a lei. E fuori piove a dirotto. Già. Sto impazzendo?
ore 18.10
Altra ora. Non piove più, ma il cielo è ancora livido come la pelle del fu Alessandro Satta, quando l’hanno ripescato da quel sifone. Bella metafora. Molto delicata. Ah ah, proprio degna di me. Sì. Però continuo a pensare a Dany…
Mi piace la pioggia. Cosa c’entra? Beh, ora credo che guarderò un po’ di tv, su Italia Uno deve esserci MacGyver: l’idealista più fortunato degli “United States”. Bye, bye!
ore 23.30
Altre dieci pagine dell’elenco. Altri personaggi. Buonanotte.
26 settembre, venerdì, ore 14.55
Oggi c’era! Non è cambiata, ancora stronza e chiacchierona. Mmmh… Ho riletto quello che ho scritto ieri. L’ho chiamata Dany. Strano. Colpa della pioggia. Forse era radioattiva. Chissà cosa esce dalla ciminiera di Portoscuso. Niente di salutare.
P.S.: l’ho chiamata Dany anche in classe. Sto impazzendo sul serio?
27 settembre, sabato, ore 15.55
Stamattina eravamo seduti sullo stesso sedile dell’autobus, all’andata. Intorno a noi il solito casino. Ormoni impazziti. Abbiamo avuto questo dialogo, io e lei.
“Come ti trovi alle magistrali?” mi ha chiesto. “Non lo so, non mi sono ancora perso…” ho risposto. Lei mi ha guardato, un po’ perplessa. Non l’aveva capita. Che stupida. Siamo rimasti in silenzio per il resto del viaggio. Gli altri hanno continuato a strillare come scimmie in gabbia. Al ritorno, verso le due e dieci, una volta scesi nella piazza granitica del paese, mentre tutti gli altri idioti si disperdevano nelle strade circostanti e l’autobus era un puntino blu che si allontanava, lei mi ha detto: “Sai che sei davvero strano?” “Eh?” faccio io, sorpreso. Fingevo. “Sei sordo?” ribatte lei. Mi sono messo la destra a coppa sull’orecchio. “Cosa?” È scoppiata a ridere fino alle lacrime. Ho riso anch’io, per solidarietà. “Tu sei pazzo!” mi ha strillato alla fine, allontanandosi. Strana ragazza, Daniela.
P.S.: Domani è domenica. Verrà alla messa? Mi mancherà?
28 settembre, domenica, ore 10.00
Non è venuta alla messa delle 9.00. Ho scrutato per tutta la funzione le ultime panche. Lei non c’era… Perché? Mi manca. Quando ho preso la comunione, dalle dita ferme e profumate di don Antioco, l’ostia mi è rimasta in gola per quanto ce l’avevo secca. Ho dovuto deglutire più
volte per mandarla giù. Io le mancherò? Idiota, che domande! Certo che no.
P.S.: cosa te lo fa credere? Povero, povero pazzo. P.P.S.: eppure mi manca.
ore 22.00
Niente insonnia, oggi. Meglio così. Non ho voglia di leggere.
29 settembre, lunedì, ore 15.10
Mi hanno interrogato in storia. Sette +, anche se meritavo otto. Beh, le magistrali non sono come le Medie. E viceversa. Il prof. ha “spennato” anche Daniela. Parla parecchio anche sotto torchio. Otto. Beh, se lo è meritato tutto. Niente da dire, proprio niente. E questo è molto strano. Mi conosco bene, io. Troppo bene. Volevo chiederle come mai non era venuta in chiesa, ieri, ma alla fine non ho spiccicato parola. Non voglio si faccia idee.
30 settembre, martedì, ore 4.36 (a.m.)
Ancora quell’incubo! Non ce la faccio più! Basta!!!
Mi sono risvegliato con il petto gonfio di un urlo silenzioso. Fradicio di sudore. Faccio schifo, vero? Lo so. Ho avuto paura. Molta. Quell’incubo… Non lo ricordo, ma so che è sempre lo stesso. Che razza di incubo! Perché non riesco a ricordarlo? Cosa mi succede? Che cosa cazzo sta succedendo alla mia testa, dannazione?! Torno a letto. Ci penserò un pochino su. Al buio.
ore 14.59
Daniela si è accorta che qualcosa non andava in me, oggi. “Come stai?” mi domanda, verso la fine dell’ora di inglese. Io ho capito cosa intendeva: pallore e tutto il resto. Così le ho risposto: “Seduto.” A volte fa domande curiose Daniela. Molto curiose.
31 (?) anzi, 1 ottobre, mercoledì, ore 9.35
Niente scuola oggi. Ho la febbre a 38. Mamma dice che è l’influenza. Papà non dice niente, perché è morto nell'estate del 1978. Quel furbone si è fatto mettere sotto da una trebbiatrice. Un incidente. I giornali hanno detto così. Forse ci hanno azzeccato. Ma io ero lì quel
pomeriggio assolato. Ero ancora un lattante. Stavo seduto su una zolla arida a guardare quell’enorme dinosauro verde della trebbiatrice che mangiava tutto quel grano. Era bello. Le spighe ondeggiavano nel vento rovente e gli uccellini raccoglievano i chicchi caduti. Poi mio padre ha urlato. Il conducente della trebbiatrice ha urlato anche lui. Nello stesso istante, un’esplosione di sangue nebulizzato si è riversata su quel mare dorato. Un effetto spettacolare. Rosso su giallo. Subito dopo, mi sono messo a urlare anch’io. Un episodio da film dell’orrore, vero? Solo che non era un film e quello che schizzava ovunque non era sangue finto. No, non era un film: era un incidente sul lavoro. Un incidente mortale. Eppure, quell’afoso pomeriggio, mi era sembrato che mio padre avesse urlato prima di finire sotto le lucide lame rotanti. Ma ero piccolo, terrorizzato e confuso. Del resto, che motivo poteva avere il tizio sulla trebbiatrice per travolgerlo? Beh, tutto sangue ato sotto i ponti, ormai. Niente scuola oggi e niente Daniela. Mi manca? No. Sì. No. Sì.
ore 20.40
La febbre si è abbassata. Non era influenza. Mamma si è sbagliata, papà non aveva scommesso. Domani vado a scuola.
Sono bravo, io. Perché mi manca così tanto? Boh.
ore 22.20
Daniela Daniela Daniela Daniela Daniela. Dany Dany Dany.
ore 23.58
Ancora l’incubo! Non sognerò, per caso, quel tragico episodio dell’infanzia? Tutto è possibile. Anche che papà abbia urlato prima di venire trebbiato. Perché no?
2 ottobre, giovedì, ore 15.45
Oggi a scuola è successo questo. Un divertente dialogo tra me e Daniela (a proposito, gli altri compagni ora non sono più sconosciuti, sono degli estranei. Ci vorrà ancora del tempo, sì). “Perché sei mancato ieri?”
“Un giorno vale l’altro.” “Ah.” “Già.” “Chi verrà ai colloqui coi professori? Mamma o papà?” “Mamma. Mio papà non può.” “Perché?” “Un tizio lo ha trebbiato.” “Ah.” Poi, poco dopo: “Questa non l’ho capita, me la spieghi?” Questo per far comprendere che lei era sempre la stessa. Non cambiava. No, non cambiava mai, lei. Gli altri cambiano. Lei no. Strana ragazza. Ripeto: strana ragazza.
3 ottobre, venerdì, ore 16.05
Solo una cosa, oggi. Solo una. Non ridete di me. Non so perché l’ho fatto. Non lo so, davvero. Però l’ho fatto. Cosa? Al ritorno dalla scuola… ho accompagnato Daniela a casa. Ora potete ridere.
4 ottobre, sabato, ore 15.55
Ta-ta-taaa! Ecco ci risiamo. L’ho fatto anche oggi. Sulla soglia di casa sua lei ha detto: “Ci vediamo lunedì?” Mentre lo diceva sorrideva. Come sempre. “Se domenica non diventiamo invisibili.” Il sorriso è diventato una scoppiettante risata. “Mi piaci, sai?” ha dichiarato poi. “Ah, sì?” dico io. “Quando mi hai assaggiato?” Ha riso di nuovo. Lei. Io no. Io non rido mai. Quando lo faccio è tutta una finta. Fanno tutti così. Lo so. Nessuno al mondo ride sul serio. Nessuno. Tutti fingono. Anche Daniela. Solo che non lo sa. Nessuno sa di far finta. Nessuno tranne me. Io lo so. Da sempre.
5 ottobre, domenica, ore 2.25 (a.m.)
Notte fonda. Fuori c’è il diluvio, tra vento, tuoni e fulmini. Fa freddo. Perché sono in piedi a quest’ora? Le messe di questa mattina erano pallose oltre i limiti umani. Detesto l’assurda morale della parabola del Figliuol Prodigo e l’infinito sermone conseguente. Don Antioco, invece, sembra apprezzare l’argomento e si dilunga ogni volta in un discorso così soporifero da raffreddare perfino le zitelle bigotte e le vedove con gli scialli neri allineate nelle prime file. A mio parere, il figlio ingrato e spendaccione avrebbe dovuto fare la stessa fine di quell’idiota di Abele. Altro che vitello grasso!
Una bella pietra in testa si meritava! Comunque sia, questa volta Daniela c’era. L’ho vista, seduta nell’ultima panca, attorniata da un gruppo di amichette bercianti. Lei si è accorta che la fissavo e mi ha fatto un cenno di saluto con la mano, senza farsi notare dalle altre ragazze. Ho apprezzato il gesto così tanto che la mia faccia è diventata dello stesso colore porpora della stola di don Antioco. Per fortuna, nessuno degli altri chierichetti si è accorto di nulla. Altrimenti, sai che risa in Piazza. La mia insonnia ha un’altra causa: è colpa dell’incubo. Oh, sì, certo, sicuro, proprio lui. Questa notte, però, c’è una differenza. Una differenza fondamentale. Lo ricordo. La mia intuizione era giusta. Forse lo sapevo fin dall’inizio. Perché quest’incubo ha cominciato a perseguitarmi soltanto qualche settimana fa? Perché non prima? Perché non dopo? Non lo so. Non lo so. Non lo so.
La-la-là, la-la-là… Trallalero, trallalà!
Cos’è questa riga? Quando l’ho scritta? L’ho scritta io? Boh. Dicevo? Ah, sì. Che adesso ricordo l’incubo! Il mio incubo è come ve lo descrivo nelle righe sottostanti. Ho una sensazione… di… di… vuoto mentale intermittente. Cosa sarà? Oh beh, forse un po’ di stanchezza. Sì. Ok. L’incubo è questo.
Il sole è alto, grande e arancione intenso. L’aria cocente e statica. Unici rumori sono il fruscio leggero delle spighe di grano e il rombo assordante del motore della trebbiatrice verde. Io sono lì, accovacciato su una gigantesca zolla secca. Una processione di formiche transita accanto ai miei piedi, nudi e sporchi. Sono così piccolo. Tutto quanto mi sembra luminoso, enorme e magico. La trebbiatrice mi a davanti, rombando e sussultando. Papà cammina sul fianco. Indossa i jeans da lavoro e una vecchia maglietta bianca macchiata d’erba, terriccio e sudore. Verifica che qualche pietra sfuggita al dissodamento autunnale non finisca fra le lame della trebbiatrice e le danneggi. A un certo punto, papà grida: “Fermo! Fermo!” La trebbiatrice rallenta di colpo e si ferma. Papà grida: “Solo un momento! La tolgo di mezzo!” Io guardo verso l’abitacolo del conducente (o manovratore). Il riflesso bianco del sole sui vetri mi impedisce di vedere l’uomo al volante. Fumo oleoso scoppietta dal tubo di scarico. Papà, nel frattempo, corre davanti alla trebbiatrice e si curva su una grossa pietra arroventata. Cerca di spostarla. Doveva essere pesante. Intravedo, non so come, goccioloni di sudore imperlargli la fronte ampia, rugosa e abbronzata. Dopo alcuni secondi riesce ad afferrare il masso, sollevarlo al petto e lanciarlo fuori dal grano. Cade a cinque metri da me, schizzando terra asciutta tutt’intorno. Papà si drizza sbuffando, si asciuga il sudore dalla fronte con l’avambraccio. Alza una mano, la sinistra, e la agita sopra la testa. Grida: “Vai!” Di certo, papà intendeva: vai, dopo che mi sono spostato. Ma il tizio dentro l’abitacolo deve aver capito male. La trebbiatrice infatti scatta in avanti, soffiando fumo nero.
Ed è a questo punto che papà urla. La trebbiatrice verde gli a sopra, riducendolo a brandelli di carne e ossa. Il suo sangue zampilla a profusione. Nonostante questo orrore, urlando a sua volta, l’uomo al volante continua a trebbiare con quelle lame insanguinate per altri cento metri, prima di fermare l’ansante trebbiatrice verde. Ora è macchiata di rosso. Durante quei cento metri il manovratore ha urlato, ma il suo non era un urlo di terrore: era piuttosto un urlo di gioia selvaggia e isterica. Dopo aver udito quell’urlo malvagio, anche io comincio a urlare, fino a ridurmi i polmoni in fiamme. Le orecchie piene del suono lacerante delle mie stesse urla, guardo lo sportello dell’abitacolo della trebbiatrice aprirsi. Il vetro è attraversato da lunghe e orribili strisce di sangue e manda bagliori accecanti. La faccia ispida di barba, rugosa e sorridente di un uomo sporge fuori. Il manovratore! Mi guarda con un’espressione sorpresa sul volto. Ricordo molto bene quella faccia, adesso. Rotonda, barbuta, fronte spaziosa e corrugata, capelli rarefatti, occhietti grigi distanziati, naso appuntito. Quell’uomo mi guarda come se niente fosse, come se non avessi nessun motivo per urlare in quel modo. Io, stupido, piccolo marmocchio. Mi guarda e sorride come un pazzo. Sorrideva proprio come i pazzi dei film, voglio dire. Poi, tra uno sghignazzo e l’altro, con una voce rauca, quasi gracchiante, mi ha detto: “Ciao! Visto come ho trebbiato il tuo papà? Eh? L’hai visto? Non è stata colpa mia, no, no, è stato un incidente. Cose che possono succedere soltanto a chi lavora.” A quel punto svengo e le formiche mi eggiano sopra.
Così finisce il mio incubo. Forse non è solo un incubo. Forse quel torrido pomeriggio è successo davvero
questo. Forse quell’uomo terribile esiste davvero e, chissà perché, immagino che se ne vada in giro a bordo di una Seat Ibiza Back. Che bella immaginazione, eh? Sono le tre e cinque, ora. Torno a letto. Anche se so già che non riuscirò più a dormire, questa notte.
Trallalà, trallalà, trallalaaà!
Ancora quella sensazione di vuoto nella testa? Cos’è?
6 ottobre, lunedì, ore 15.15
Niente commenti. Scriverò solo quello che mi è successo. Anche oggi ho accompagnato Dany a casa. Era una bella giornata. Cielo azzurro e nuvole bianche. Lei stava sul gradino della soglia. Io stavo sul marciapiede, 15 cm più in basso. “Beh, io devo andare, Dany.” “No. Aspetta.” “Perché?” “Devo darti qualcosa.” “Cosa?” “Questo.” Si è protesa verso di me e mi ha baciato il labbro superiore.
“Cos’era?” “Un bacio.” “Lo so. Ma… cosa significa?” “Che ti voglio bene, no?” “Ah.” “Già.” “Già. Beh, allora ciao. A domani.” “Eh?” “Ho detto: ciao a domani.” “Ciao.” Me ne sono andato e sono tornato a casa di corsa. Non è più una bella giornata. Niente commenti.
ore 23.01
No, così non va proprio bene… non può andare bene. Gli eventi stanno precipitando. In fretta. Bisogna sistemare le cose. Bisogna rimediare.
7 ottobre, martedì, ore 15.05
“Allora? Hai ripensato a ieri?” “Sì.” “E cosa vuoi fare?” “Tu cosa vorresti fare?” “Beh, ecco, si potrebbe stare insieme…” “Noi due?” “No, io e il prete!” “Perché?” “Non capisco…” “Perché io e non un altro?” “Gli altri non mi interessano. Tu invece sì.” “Oggi… ma domani? Quanto tempo potrà durare?” “Che discorso è questo?” “Prima o poi ti stuferai. Succederà quando ti accorgerai che gli altri sono più interessanti di me, che gli altri hanno più di me: soldi, fisici atletici, macchine nuove.” “Questo vale anche per te, no?” “Per me? Che ne sai tu di me?” “Scusa. Non capisco qual è il tuo problema…” “Hai ragione. Non capisci. Senti, si è fatto tardi, perché non riprendiamo questo discorso stasera alle sei e mezza. A casa mia?”
“Per me va bene. Hai bisogno di pensarci un po’, vero?” “Stasera chiariremo tutto. Dopo potremo stare insieme.” “Nulla è per sempre, lo sai.” “Forse.” “A stasera, allora.” “A stasera.”
Questo dialogo avveniva in piazza alle 14.15.
Adesso sono quasi le tre e mezzo.
Devo iniziare il lavoro. Mi fa molto male la testa. Mamma è in cucina, sta lavando i piatti. Inizierò da lei. Dany si sbaglia. “Nulla è per sempre”. Sbagliato. Qualcosa è per sempre. A dopo.
ore 19.19 (?!), sempre martedì 7 ottobre
Ho sistemato tutto. Quasi tutto, ma il più ormai è fatto. Dany è arrivata puntualissima, come un ritardo delle F.M.S.
Sei e mezza spaccate. Sono andato io ad aprire. Logico, no? Dietro alla porta c’era lei, raggiante e con il solito sorriso. “Ciao!” “Ciao Dany. Entra.” È entrata. Sembrava a disagio. Ho richiuso la porta a chiave. Lei non ci ha fatto caso. “Sei solo in casa?” mi ha chiesto. “Mia mamma è in cucina.” “Ah.” “Già.” Le ho fatto strada fino alla mia camera: 3mx2mx2.50m. “Bella!” ha commentato, guardandosi intorno. Mentiva. Lo sapevo. Ma non aveva più importanza. “Sì, piccola ma bella.” “Allora. Hai pensato a… cos’è stato?” Un tonfo sordo, proveniente dalla cucina. Mamma? “Cosa?” ho chiesto io, facendo finta di niente. “Non hai sentito?” “Cosa?” “Era come se qualcuno fosse caduto sul pavimento…”
“Io non ho sentito niente.” Ancora quel tonfo, più forte questa volta. “Adesso non dirmi che non l’hai sentito?” strilla lei, un po’ turbata. Turbata? Un po’? Le donne hanno uno strano cervello. “No. Non te lo dico.” “Cos’era?” Come si dice: a domanda diretta, risposta diretta. “Era mia mamma, probabilmente.” “Probabilmente?” “Pensavo di averla… beh, mi sono sbagliato.” Lei ha sbarrato gli occhi e mi ha fissato sconcertata. Io sapevo che avrebbe reagito così. Naturale. Tutto previsto. Mi sono avvicinato alla porta e l’ho chiusa. “Cosa fai?” Sentivo la paura crescere nella sua voce, frase dopo frase. Ho messo la chiave nella tasca posteriore dei miei Levi’s. “Sistemo tutto. Non preoccuparti.” Frase ad effetto. Non era preparata, ma mi è piaciuta. Ho sorriso. Lei non ha ricambiato. “Cosa stai dicendo? Ti senti bene?” Non ho risposto. Ho lasciato squillare, come si dice.
Sono andato alla mia scrivania, nell’angolo della camera. Ho aperto il cassettone e ne ho sfilato il matterello di legno che la mia mamma utilizzava per spianare la pasta del pane. Infatti, quasi per intero, era macchiato del bianco della farina “00”. In una delle due estremità, invece, era inzaccherato di sangue rappreso. C’era pure qualche capello. Capelli di mamma, castano chiaro, quasi biondi. Inorridita, Dany ha fissato prima il matterello e poi me. “Co-co-cos’è uno scherzo?” ha balbettato, indietreggiando. “Non è uno scherzo, Dany. È un matterello.” Non mi ha risposto. Non ha nemmeno urlato. Questo mi ha fatto incazzare. Ma come? Mi prendeva per il culo? Ho stretto bene nel pugno l’estremità pulita del matterello. Il legno ruvido sotto il palmo mi ha procurato una strana sensazione. Dany si è buttata contro la porta e ha strattonato la maniglia. Niente da fare. Con un balzo le ho schiantato il matterello sulla schiena. Stavolta lei ha urlato (che urlo!), rimbalzando sulla porta per poi ruzzolare sul pavimento. Si contorceva, dimenando braccia e gambe, come un indemoniato in piena crisi. Non era bella. Mi sono fatto forza e ho superato il momento di stallo. Oh, Dany, sapessi com’eri buffa mentre sputavi sangue! Mi hai fatto pena, davvero. Per questo ti ho preso a mattarellate finché non hai smesso. Mi facevi pena. Non sorridevi più. Con la mamma era stato più facile, un colpo in testa e via. Soltanto che non c’era rimasta subito… Dopo aver finito con Dany, sudato come una scimmia, sono andato in cucina e le
ho dato il colpo di grazia. Appena in tempo. Era quasi riuscita a raggiungere il telefono.
Come ho già scritto, Dany si sbagliava. Non è vero che nulla è per sempre. Qualcosa è per sempre. La morte.
Ho quasi finito. Cosa farò adesso? Presto detto. Mi ripulisco dal sangue e cambio la maglietta. Esco di casa. Cerco un ricovero dove lasciare questo breve diario. Penso che il posto più indicato sia in uno scaffale della Biblioteca Comunale, magari nell’affollato settore dei romanzi thriller-horror, prima o poi qualcuno dovrebbe trovarlo… e leggerlo. Poi? Poi torno a casa. Scendo in cantina, un semplice cubicolo di cemento grezzo, dove ho già portato il cadavere di Dany e quello di mamma. Poi prendo il bidone da 20 litri, che ieri ho riempito di benzina super all’Agip. Le innaffio e mi inzuppo anch’io, finché finisco la benzina. Per finire, mi intrufolo tra i loro corpi già freddi. Forse aspetterò un po’ (non troppo, sennò la super evapora). Ho intenzione di far scattare l’accendino alle 19.30 esatte.
30 – PRISMA
E così era stato. Ti sembra quasi di percepire l’odore della benzina, il calore delle fiamme, il lieve crepitio delle bolle di grasso cutaneo che esplodono. L’incendio avvampa nella notte, colorando il cielo di rosso, divorando i cadaveri e la casa di un contadino. La colonna di fumo nero si innalza sopra i tetti di Solus. È un’immagine che si stampa nella tua mente, percettiva ed empatica, come una diapositiva in bianco e nero. La lucida follia intrinseca di quella visione ti lascia senza fiato, stordito, incapace di giustificare a parole gli eventi a cui hai assistito. Questo tuo stato d’animo si riflette, in apparenza, sul cubo. Le sei pareti quadrate si incrinano con un fragore di vetri rotti, spezzandosi in uno schema geometrico, moltiplicandosi, fino a darti l’impressione di trovarti all’interno di un cristallo o di un diamante enorme. Ti senti come un insetto preistorico sepolto vivo nell’ambra, destinato a diventare un fossile. La cosa peggiore è che puoi ancora pensare e soffrire. Quando tutti gli altri suoni e odori svaniscono, resta solo un profumo dentro il poliedro: un aroma caldo e invitante. Caffè.
31 – PRIGIONE DI TENEBRA
Dopo aver svuotato una caffettiera da dodici, Angelo si sentì abbastanza vigile per poter affrontare la doccia senza il rischio di affogare. Per chi lavora la notte, cinque giorni su sette, il momento più difficile è sempre quello del primo risveglio. Quando pare che il corpo stia con le gambe ancora nel sonno e la testa appena fuori dal dormiveglia. Una curiosa sensazione. Un po’ come muoversi sott’acqua. S’impiega un’eternità anche per le operazioni più semplici, tipo lavarsi i denti o pisciare. Come per dispetto, se si deve rispettare un orario, il tempo (a quelle ore antelucane) sembra galoppare più svelto del solito. Una volta timbrato il cartellino, rallenta fino quasi a fermarsi. Così, come tutte le notti lavorative, quando uscì dalle pareti di plastica del box doccia, Angelo controllò l’ora e scoprì di essere in ritardo sulla tabella di marcia. Non era una novità. A quel punto, quindi, accelerò ogni suo movimento. Indossò gli indumenti da lavoro sbiaditi e calzò i pesanti scarponcini anti-infortunistici. Scolò mezza bottiglia di succo d’arancia. Infilò il giaccone impermeabile. Prese le chiavi di casa e della macchina. Infine, dopo essersi accertato di aver chiuso il gas, Angelo spense tutte le luci e uscì chiudendosi alle spalle la robusta porta blindata. Corse giù per le scale. Il vecchio caseggiato scrostato delle Case Popolari, l’unico esistente a Solus, era silenzioso come una catacomba. Dei dieci appartamenti, soltanto uno era disabitato. La proprietaria, un’anziana vedova, era morta una settimana prima a causa di un’emorragia cerebrale. I due nipoti già si contendevano l’immobile. Angelo non li aveva mai visti fare visita alla nonna. Quaranta gradini dopo, Angelo si sentiva più attivo e lucido. Prima arrancava come un bruco, ora era diventato farfalla. Percorse l’atrio e si fermò davanti al portone dello stabile.
Per un istante scrutò attraverso i brutti vetri caramellati e vide, sull’altro lato della strada, la sua scassata Fiat Uno bianca. Notò di aver parcheggiato, la sera prima (dopo aver scolato una birra di troppo con gli amici del Bar Sport), con la ruota posteriore sul marciapiede. Il parcheggio in retromarcia non era mai stato il suo pezzo forte. Auto e moto erano fuori dalla lista delle sue ioni. Angelo si strinse nelle spalle, abbottonò il giaccone e uscì. Attraversò di buon o lo stradone deserto e luccicante di brina. L’aria immobile odorava di asfalto bagnato, foraggio fresco e terra appena arata. Il cielo notturno era stellato. Prelevando il mazzo di chiavi dalla tasca, Angelo si avvicinò alla Uno e notò che tutti i vetri dell’auto erano velati di condensa. Nello stesso momento in cui infilò la chiave giusta nella serratura, si rese conto che lo sportello era già aperto. Non era la prima volta che succedeva, soprattutto dopo che esagerava con le libagioni. “Merda!” imprecò, contrariato dalla sua stessa negligenza. Aprì lo sportello con rabbia ed entrò nell’abitacolo gelato. “Fortuna che questo rottame non vale nulla…” borbottò. Bestemmiando sottovoce, Angelo inserì la chiave nel blocco dell’accensione e si stirò sul rigido sedile. Quella notte pareva più scomodo del solito. Una compatta sporgenza gommosa gli premeva proprio in mezzo alla schiena. Bah. Girò la chiave e il motore si accese protestando. Anche a lui non piacevano troppo le levatacce. Partì, senza mai smettere di inveire contro il Fato Bastardo. Dal momento in cui la Ditta per cui lavorava aveva vinto l’appalto per il ritiro e lo smaltimento degli R.S.U. a Solus, Angelo era stato obbligato a trasferirsi di nuovo nel suo paese natale. Nello stesso alloggio delle Case Popolari dove lui e i suoi genitori avevano vissuto per quarant’anni. Non sopportava quel posto. Dieci anni prima, quando la Ditta lo aveva ingaggiato tramite l’Ufficio di Collocamento (per coprire una carenza di personale nell’appalto di Cagliari), Angelo era stato felicissimo di cambiare subito residenza e abbandonare Solus al
suo merdoso destino. Detestava quel luogo. I genitori erano traati da nemmeno un anno, a causa di un incidente stradale, prima di aver estinto il mutuo con cui avevano riscattato l’appartamento. Una sfortuna bestiale. Tuttavia, era stato costretto dalla Ditta (che aveva colto al volo l’occasione) e dalla prospettiva della disoccupazione a mollare la sua bella casetta in affitto di via Is Mirrionis e ritornare con il morale a terra in un paese che non gli era mai piaciuto. Non gli era stata data possibilità di scelta: o vai o sei licenziato. Per la Ditta era un vantaggio avere un operaio del luogo. Per indorare l’amara pillola, gli avevano messo a disposizione un camion compattatore, un capannone vuoto dove parcheggiarlo e la libertà di gestire come voleva i duecentodieci cassonetti della spazzatura che punteggiavano il comune di Solus e i suoi malinconici e isolati medaus. Attualmente, la settimana tipo di Angelo era questa. Dal lunedì al venerdì, sole, pioggia o vento, estate o inverno, Angelo usciva da casa alle 03.00 esatte della notte, accendeva la Uno, raggiungeva il capannone, metteva in moto il compattatore e faceva il suo usuale “tour dei cassonetti”. Poi, dopo averli svuotati tutti quanti, si recava alla “Discarica Autorizzata” di Carbonia per smaltire i rifiuti. Intorno alle 11.00 rientrava a Solus, rabboccava il serbatoio al distributore dell’Agip, scambiava quattro chiacchiere con il benzinaio (ex compagno delle Medie), parcheggiava il compattatore nel capannone, riprendeva la Uno, andava a fare la spesa al supermarket Deidda e, infine, ritornava a casa in orario per cucinare un rapido pranzo. Dopo aver guardato il TG Gamma, faceva una bella pennichella pomeridiana. Alle 17.00 si preparava un caffè con la moka e lo sorseggiava sul balcone, mentre scrutava le desolate campagne che cingevano Solus. Sciacquata la tazzina, usciva per una veloce eggiata fino alla Piazza. Poi sedeva su una panchina, guardava la gente are con aria annoiata e aspettava che arrivasse qualcun altro per dire cazzate fino all’ora di cena. L’attesa non era mai lunga. Dopo cena, di solito pizza e birra o bistecca e vino, Angelo usciva di nuovo e s’incamminava nella luce del tramonto verso il Bar Sport, l’abbeveratoio di Solus. Da tempi immemorabili, incontrava sempre le stesse persone, che facevano sempre gli stessi discorsi, lamentandosi senza sosta di tutto e tutti.
Alle 22.00, tranne quando c’era una partita dell’Italia oppure la chiacchierata si prolungava, Angelo salutava la compagnia di sfaccendati, disoccupati e alcolizzati, pagava il conto e tornava a casa sua. Qualche volta, quando era più affaticato del solito (come era successo quella notte), per percorrere il tragitto di cinquecento metri scarsi, Casa-Bar Sport, si concedeva il lusso di usare la Uno. Durante il sabato e la domenica, l’unica vera differenza era che non lavorava e quindi si svegliava alle 11.00. Per il resto era tutto uguale.
Dopo aver sfogato abbastanza la rabbia esistenziale, Angelo guidò senza fretta per le viuzze deserte di Solus. Incrociò soltanto il Fiorino blu del panificio e un tizio in vespa con il fucile a tracolla che andava a caccia. La calma della notte gli lasciava il tempo per pensare e ricordare. Cosa che non faceva molto spesso. Il salto dalla frenesia di Cagliari alla quiete mortale di Solus era enorme. Vivere in città gli aveva dato un senso di indipendenza che in paese era inimmaginabile. Non si trattava della semplice libertà fisica, ma di un progressivo spostamento dei suoi orizzonti mentali. I suoi pensieri più intimi, nel capoluogo regionale, non erano assoggettati e compressi dalla logica ermetica del paese. In poche settimane, Angelo aveva scoperto parti di sé che a Solus non avrebbero avuto la possibilità di emergere. Il paese sacrificava e mortificava ogni iniziativa privata in onore delle divinità Apparenza, Ipocrisia e Invidia. In città, Angelo si sentiva forse più anonimo, ma di certo con più possibilità di fare e pensare con la sua testa. In paese non era mai stato così: il controllo degli altri condizionava ogni comportamento. A Solus non era un’ignota pedina della società, un ingranaggio libero di muoversi come più gli piaceva. No, a Solus, lui era (e lo sarebbe sempre stato) Angelo Porcu, quello che svuota i cassonetti. Quello che in terza elementare aveva picchiato la maestra. Quello che in chiesa bruciava le gonne delle ragazzine con l’accendino. Quello che aveva i genitori in un centro di riabilitazione e poi morti di overdose. In realtà, le comunità non proteggevano mai l’individuo, ma il loro status quo. Nonostante i bei tempi trascorsi in città, dove c’erano comportamenti più alla moda e ragazze meno dogmatiche, Angelo non aveva dimenticato la monotona vita di paese, le campagne disabitate e le stradine polverose. Non poteva farci
nulla. Doveva rassegnarsi a quello stato di cose. Considerato come stavano andando adesso le cose a Solus, e nel Sulcis in generale, era già fortunato ad avere un lavoro. Come diceva suo padre, autista in un’impresa di Onoranze Funebri: “Solo morti e spazzatura non finiranno mai.” Mentre rifletteva su queste cose, Angelo era uscito dalla periferia est di Solus e penetrava nelle cosiddetta “zona industriale”, dove si trovava il deposito della Ditta. In verità, il nome altisonante, affibbiato a quell’area dalla popolazione, non corrispondeva affatto alla realtà. In sostanza si trattava soltanto di un terreno arido disseminato di rugginosi rottami, carcasse di veicoli, baracche di lamiera ondulata e capannoni fatiscenti. Un tempo, quando le miniere di Carbonia funzionavano e le fabbriche di Portoscuso giravano a pieno ritmo, in quel sito c’era un impianto che produceva cemento. Le officine, lo stabilimento e i magazzini ora erano ridotti a un intricato coacervo di ferraglia contorta e pericolante. Angelo controllò l’ora: 03.20. Il ritardo era stato recuperato. Bene. Non mi piace cominciare male la giornata lavorativa. C’era tutto il tempo per timbrare il cartellino e scaldare il vecchio motore del suo camion, prima della mezza. Angelo, unico dipendente, si era imposto un orario e voleva rispettarlo. Davanti al cofano della Uno si allungava il nastro brullo e polveroso della strada secondaria che conduceva al capannone. Le cavità e le protuberanze erano enormi. Ogni notte, gli sembrava di guidare nell’epicentro di un terremoto. Sulla sinistra scorrevano le sagome bisbiglianti e ombrose dell’infinita fascia di eucalyptus. Il loro olezzo aromatico era tipico di Solus, i cui dintorni (fin dai tempi del fascismo, dopo la bonifica degli acquitrini) era invaso da quella resistente e adattabile specie vegetale di origine australiana. Concentrato sulla guida, Angelo stava appunto rimuginando su questa singolare associazione geografica, Australia-Sardegna, quando nello specchietto retrovisore colse un movimento… oltre a un suono sotto il rombo del motore. Il bozzo nel sedile scomparve. “Che cazzo…”
Angelo fece per voltarsi, ma una voce stridula lo paralizzò. “Non girarti. Se lo fai ti sparo in testa. Non scherzo.” Stupito, Angelo non si mosse. La Uno sobbalzò su una buca. Guardò di nuovo nel retrovisore. Intravide l’ombra di una testa. Un attimo dopo il bagliore verde del cruscotto illuminò la canna di una pistola e un sorriso inquietante. Lo smalto lucido di quei denti rifletteva la luce e faceva sembrare le labbra come coperte da una strana muffa. “Hai visto?” domandò la voce. “Benissimo. Adesso spegni i fari e continua a guidare. Ti conduco io. Stai attento alle buche. Mi fa male la schiena. Al prossimo incrocio svolta a destra.” Angelo restò in silenzio e ubbidì. Cosa succede? Vuole rapirmi? Lo sa che non ho una lira? Era ancora troppo sorpreso per sentire la paura dell’ignoto che già si faceva largo verso la sua mente. La sua non reazione era la conseguenza di un autentico e attonito sbigottimento. La voce alle sue spalle, soddisfatta, disse: “Bravo.” Sembrò concludere la frase così. Poi, dopo un breve sospiro, continuò: “L’ultima ragazza che ho preso faceva un sacco di domande stupide. Non la sopportavo.” Angelo non commentò. Quale ragazza? Arrivato all’incrocio sterzò con cautela a destra. “Perfetto. Prosegui dritto e al bivio vai a sinistra.” La voce del sequestratore, che si era introdotto nella sua auto nottetempo grazie
alla coglionata di lasciarla aperta, lo pilotò attraverso l’oscurità delle labirintiche campagne di Solus con straordinaria precisione e sicurezza. Quel ragazzo (a giudicare dalla voce, poco più che ventenne) sembrava conoscere ogni strada, sentiero e viottolo. Segnalava ogni curva in anticipo e ogni svolta con millimetrica esattezza, come indirizzato da un’invisibile segnaletica. Conosceva il tragitto a memoria. Ogni cespuglio, ogni pietra, ogni zolla. Quindi, doveva per forza essere uno pratico della zona. Chi cazzo è? Perché mi ha fatto spegnere i fari? “Rallenta. Vedi quel ponticello sul canale? Attraversalo.” Angelo eseguì i suoi ordini senza protestare Era una cosa positiva o negativa? Non lo sapeva. “Siamo quasi arrivati…” annunciò il ragazzo sporgendosi in avanti, in mezzo ai sedili anteriori. “Casa dolce casa, giusto?” Angelo lo osservò nello specchietto ma non replicò. In tutto il percorso non pronunciò neanche una parola. “Così va bene. Adesso puoi riaccendere i fari.” Ubbidì. Un istante dopo gli abbaglianti della Uno illuminarono uno slargo ricoperto di ghiaia che brillò di diecimila riflessi quarzosi. Su quella superficie irregolare gli pneumatici producevano un rumore come di biscotti sbriciolati. Intorno al piazzale, circondato da eucalipti fruscianti, soltanto tenebre e foschia. All’improvviso, nella luce accecante si stagliò un muro di cemento scrostato. Si trattava della parete posteriore di una piccola casetta di campagna. Il tetto a doppio spiovente era ricoperto da lastre ondulate di Eternit. “Vai più piano, adesso. Gira a sinistra.” La casetta era quadrata, intonacata ma non pitturata, come quasi tutte le costruzioni della periferia di Solus. Sulla facciata anteriore, immersa nell’oscurità, s’intravedeva un minuscolo portico.
Disorientato e confuso, Angelo rallentò e a livello inconscio registrò un particolare anomalo. Stava per focalizzarlo, quando la voce alle sue spalle parlò di nuovo. Era strana, metallica e roca. La voce di chi parla poco o addirittura mai. Era tutto molto bizzarro. Questo non è un semplice sequestro a scopo di estorsione. La voce disse: “Perfetto. Fermati qui, per favore.” Senza dire nulla, Angelo frenò con decisione. Spense il motore e restò immobile. Fino a quel momento aveva cercato di arginare il panico e, per un po’, c’era pure riuscito. Ma adesso… Forse tutte le minacce o frasi intimidatorie del mondo non avrebbero ottenuto lo stesso effetto di quel per favore. L’atmosfera sinistra di quel luogo sconosciuto conferiva a quelle due parole un aspetto orribile e angoscioso. Quando un pazzo maniaco ti rapisce nel cuore della notte e chiede le cose per favore, non è solo matto… è qualcosa di molto peggio. “Scendi dalla macchina.” Angelo annuì e percepì il gelido bacio della pistola sul collo. Un tentativo di fuga non gli ò neppure per la testa. La Uno aveva tre porte. Probabilmente, muovendosi in fretta, sarebbe forse riuscito a scendere di corsa, mettendo qualche metro tra lui e il suo rapitore ma… quando rischi una pallottola nella schiena non c’è spazio per i probabilmente. Così, con la velocità di un bradipo sedato, aprì lo sportello e scese dall’auto. Aveva appena posato gli scarponcini sul pietrisco scricchiolante che già la voce del ragazzo era dietro alle sue spalle. “Bravo. La prima che ho preso è morta due metri più in là… Pensava di essere la sorella di Carl Lewis.” Ancora una volta, Angelo non disse nulla. Del resto cosa poteva ribattere? Le risposte spiritose le danno i duri nei film d’azione. Questo non era cinema e lui non era Bruce Willis. “Cammina.”
Camminò e il ghiaino fece cric-crac, cric-crac. Dietro di lui un respiro regolare e un o più leggero del suo. Non sentiva il contatto della canna della pistola al centro della spina dorsale, ma ne intuiva ancora la presenza. Niente tiri mancini. Uno starnuto e quel tizio l’avrebbe tagliato in due. Lontano, sulle colline, un cane randagio abbaiò. Una civetta gli rispose mesta. Poi solo il rumore ghiaioso dei loro i. “Attento agli scalini, la brina li rende scivolosi.” Circospetto, Angelo salì i due gradini del portico e si ritrovò in una gelida penombra. Uno spicchio di luna emergeva sopra le chiome degli eucalipti e il suo chiarore faceva splendere la bruma. D’istinto, Angelo controllò di nuovo l’ora: 03.45. “Sei in ritardo? Fermati. Vedi la porta? Aprila.” In effetti non l’aveva proprio vista. Anche perché, più che una porta, pareva un insieme di assi di legno grezzo incastonate nel nudo cemento. In basso, a destra, c’era una manopola. Angelo l’impugnò e provò a ruotarla. Niente. La tirò. Non accadde nulla. La risatina divertita che provocò nel ragazzo gli fece rizzare i capelli del collo. Percepì il suo alito caldo sull’orecchio. “Devi spingere.” Così fece. Quando la porticina si richiuse cigolando e stridendo alle sue spalle, Angelo si ritrovò immerso nell’oscurità totale. L’aria era fredda, umida e rancida. Odorava di catacomba e medicinali scaduti. Non si vedeva nulla. Il pavimento sotto i suoi scarponcini sembrava liscio, solido, ma non dava la stessa sensazione delle piastrelle. “Ti stai comportando bene. Adesso non muoverti.” Stavolta, Angelo avvertì l’impulso irresistibile di parlare e ribattere con uno
spavaldo: e chi si muove! Invece riuscì a controllarsi. Non era il modo migliore per salvarsi la vita. Un movimento alle sue spalle. Il tizio armeggiò con qualcosa: stropiccii, tintinnii, fruscii. All’improvviso la voce gli parlò nell’orecchio sinistro. Vicinissima. “Pronto a partire?” Angelo sussultò. No! Troppo tardi! Dovevo reagire prima! Una stilettata lancinante dietro la nuca. Pressione. Bruciore. Vertigini. Angelo si afflosciò come un preservativo usato. Mentre stramazzava, prima di toccare terra, alla fine colse il particolare sbagliato che finora gli era sfuggito. La casa… Oltre a essere spoglia, aveva un’altra bizzarra caratteristica: Non ha nemmeno una finestra. Fu l’ultimo pensiero articolato.
“SVEGLIATI! È quasi l’alba!” Una secchiata d’acqua ghiacciata lo investì. Qualcosa di piccolo, duro e freddo gli colpì la faccia. Un cubetto di ghiaccio, forse? All’istante, Angelo uscì dal torpore. In tutta la sua vita non si era mai risvegliato così in fretta. Evitò le solite scenate romanzesche in circostanze del genere. Niente “dove sono?” o “che mi è successo?” Ricordava tutto. Era lucido e cosciente.
Sbatté le palpebre per scrollarsi di dosso i postumi del sonno chimico. Era consapevole di essere stato drogato, ma non aveva idea di quanto tempo avesse trascorso in stato comatoso. Pensò di avere qualcosa da dire, finalmente, al suo carceriere, ma alla fine non disse niente. Davanti ai suoi occhi solo tenebre. Era come avere gli occhi chiusi. Perché? Perché lo teneva al buio? Per non farsi vedere? Non bastava bendarlo? “Buongiorno. Come ti senti, Angelo?” domandò il ragazzo, con tono interessato. “Ho letto il nome sulla patente.” Nessuna risposta. “Angelo. Mi piace. Ti si addice. Silenzioso e docile come loro. A me, invece, non si abbina per niente. Parlo troppo, eh?” Lui fece una smorfia che, al buio, l’altro sembrò cogliere. “Non mi trovi divertente?” “Come un brufolo sul culo….” replicò Angelo, per la prima volta, senza nemmeno rendersi conto di quello che diceva. Merda. Ho visto troppi film. Invece di ammazzarlo, il suo rapitore scoppiò a ridere. “Bella metafora!” Questa volta, Angelo tenne la bocca ben chiusa. Meglio non sfidare troppo la fortuna. Al momento, un paradossale senso di estraniamento si diffuse nel suo cervello annebbiato. Era un effetto collaterale del sedativo che gli era stato iniettato? Chissà. Angelo si sentì più sereno e calmo di quanto lo fosse mai stato. Ma quando provò a muoversi, scoprì di essere immobilizzato in quella che gli dava tutta l’impressione di essere una sedia elettrica legnosa e scomoda. Cercò di non perdere la testa. Doveva riflettere bene su quel che faceva e diceva. Niente cazzate da macho hollywoodiano. “Non mi sono ancora presentato…” asserì il ragazzo, come se si fossero
incontrati al Bar Sport. “Mi chiamo Dario.” Non aggiunse altro. Angelo non lo incoraggiò. Restarono in silenzio. Dopo qualche minuto Dario sospirò nell’oscurità. “Scusami. Devo andare. È molto tardi.” Angelo sbottò: “Perché non mi ammazzi subito, bastardo?” “Non sono quello che credi…” rispose il ragazzo, serissimo. “Cosa sei?” Dopo una breve pausa, Dario dichiarò: “Devo andare.” “Dove?” sbottò Angelo, ormai stravolto dall’angoscia. “Non andrò lontano…” replicò Dario enigmatico. “Ma non preoccuparti. Non resterai da solo a lungo. Comportati bene.” Dario andò via, silenzioso e invisibile. Qualcosa scricchiolò. Imprigionato nel buio, Angelo precipitò nel panico. Pensò di urlare, chiamarlo e… e poi cosa? Se quel pazzoide fosse tornato, adesso, cosa poteva fargli? Vuole torturarmi? Forse. Non l’avrebbe ucciso, no, non subito, almeno. Non era questo che voleva, altrimenti lo avrebbe già fatto. Di certo poteva fargli parecchio male. Quindi era meglio tacere. Alla peggio, avrebbe guadagnato qualche altra ora di vita. Pessima prospettiva, certo, ma restando vivo avrebbe forse potuto escogitare un piano di fuga. Legato a quell’inamovibile sedia, immerso in quelle tenebre sature d’umidità, Angelo cominciò a scervellarsi sulla sua esistenza ata, sulla sua morte futura e su una sua improbabile evasione da quella strana casa senza finestre. I pensieri si confondevano mescolandosi e rivelavano analogie sempre più morbose. Poco dopo gli parve di non poter più scindere i tre concetti fondamentali dei suoi ragionamenti. Erano un’unica cosa, un nodo incandescente e inestricabile nel
profondo della sua mente: Vita, Morte, Fuga. Nient’altro.
Frattanto, all’esterno, i primi tiepidi raggi di sole iniziarono a scacciare le ombre e le nebbie della notte sulcitana. Il disco arancione salì all’orizzonte e dalla brulla terra incolta delle campagne circostanti svanì la bruma. Anche alla luce radente del mattino, intorno alla piccola e sperduta costruzione, non c’era molto da vedere. Campi abbandonati, macchie di cespugli spinosi, qualche anemico arbusto di mirto, fichi d’India, corbezzoli e alaterno. In ogni direzione lo sguardo era arginato dagli alti e frondosi eucalipti. Per un raggio di cinque o sei chilometri non c’era nulla. Era una zona isolata e deserta, attraversata soltanto da una stretta strada sterrata e dai tralicci ronzanti dell’alta tensione. A un centinaio di metri dalla casetta, colmo di detriti e rifiuti, c’era un vecchio canale di cemento armato del Consorzio Agrario, a secco da decenni. Il pallido sole salì lento oltre le creste smerlate delle colline. Era giorno, ormai.
Nel buio si udì un cigolio indistinto, seguito da un ruvido fruscio, poi la voce di una ragazza domandò: “C’è qualcuno?” Angelo sobbalzò, dolorante e meravigliato. “Sì! Chi sei?” La voce proveniva dalla sua destra. Angelo si voltò, ma non vide nulla. Solo un’impenetrabile muro nero. “Elisabetta. Ma tutti mi chiamano Lilly. Tu come ti chiami?” “Angelo. Angelo Porcu. Abiti a Solus?” “No, io sono… di Matzaccara” La donna parve confusa. La voce impastata, come se avesse dormito. Dario aveva rapito, drogato e imprigionato anche lei? Probabile. Ricordò che ne aveva
parlato in auto. La ragazza tossì, poi continuò a parlare: “Cosa è successo?” “Un bastardo ci ha rapito, narcotizzato e imprigionati qui!” “Sì, ora ricordo… Ho preso una scorciatoia. Stavo tornando a casa in bicicletta, al buio, ero andata a cercare lumache in campagna… quando lui… Ho fatto tardissimo perché mi si era bucata la ruota davanti. Un ragazzo di Solus me l’ha riparata.” “Da quanto tempo sei qui?” “Molto. Troppo.” “Cazzo! Ma cosa vuole da noi questo stronzo?” “Ti ha legato alla sedia?” “Sì. Mi sta spaccando il culo da quanto è dura!” “Ehi! Che modo volgare di esprimersi! Calmati.” “Scusa. Sono parecchio nervoso.” “Che giorno è oggi?” “Il diciassette novembre. Perché?” “Ho perso la cognizione del tempo.” “Quel bastardo figlio di puttana ci ha sequestrati!” “Sequestrati…” ripeté lei, come se non lo avesse saputo. “Tu sei ricca?” “No. Mio padre lavora alle Poste. Mamma è casalinga.” Stupito, Angelo esclamò: “Allora ci ha scelto a caso?”
“Non lo so.” Angelo non chiese più nulla. La risposta della ragazza aveva un’intensità così drammatica da togliergli il fiato. “Dobbiamo cercare di fuggire, prima che torni Dario…” Sorpresa, Lilly domandò: “Lui ti ha detto il suo nome?” “Sì. Sembra che gli stia simpatico. Magari mi ucciderà per ultimo…” Angelo aveva appena detto una cazzata micidiale. Lo capì prima che l’ultima sillaba si staccasse dalle sue labbra. Idiota! La ragazza reagì in modo imprevisto. Con voce piatta, dichiarò: “Non penso sia un vantaggio.” Per l’ennesima volta quel giorno, Angelo restò senza parole. Per fortuna, l’oscurità celò la sua paura e il suo imbarazzo. Frustrato, sentenziò: “Non voglio morire senza combattere!” Lilly rise. “È così buffo?” sbottò Angelo, gonfiando il petto, offeso. La ragazza placò subito la sua ilarità, forse un po’ isterica. “Scusa…” mormorò, dispiaciuta. “Non volevo. Pace?” Angelo, anche se non capì, accettò le sue scuse. “Pace.”
Il tempo trascorse. Difficile stabilire quanto: forse minuti, forse ore. A un certo punto, Angelo sbottò: “Mi sto pisciando.” “Come sei educato…” commentò Lilly, quasi scandalizzata. “Mi perdoni, madamoiselle. Tu come fai a resistere?”
“Non lo faccio. Vado al water. È in un angolo. Qui vicino.” “Cosa? Tu non sei legata?” la incalzò subito lui, irrequieto. Quando si vede l’uscita, è difficile non mettersi a correre. “No.” “Come mai?” “Sarebbe inutile. Non ci sono finestre e la porta è sbarrata.” Esasperato, Angelo sbraitò: “Porca puttana! Perché non me l’hai detto subito! Perché non hai provato a liberarmi prima?” Lilly tacque, intimorita dall’aggressività delle sue parole. Angelo non avrebbe dovuto aggredirla così, però lei aveva un modo di fare davvero esasperante. Era spaventata quanto e più di lui, d’accordo, ma questo le dava il diritto di comportarsi come una maestrina severa e petulante? Beh, stava in quel buco da più tempo, era normale che fosse confusa e disorientata. Doveva calmarsi e affrontare quella situazione con coraggio. Alla fine, forse solo per interrompere il silenzio, Lilly spiegò: “Perché ho paura. Se riesco a slegarti, ma non a fuggire, poi lui torna e ti trova libero… Che fa? Mi ammazza? Non ho la forza di scoprire la risposta. Perdonami.” Di nuovo, Angelo sprofondò nel disagio e nell’incertezza. La ragazza non aveva poi tutti i torti. Dario era imprevedibile. Un rapitore psicopatico o un serial killer. Non c’era da scherzare tanto con lui. Una mossa falsa e finivano entrambi in pasto ai lombrichi. Comunque sia, non potevano restare lì in attesa che il loro destino si compisse. No. Meglio provare a modificare il corso degli eventi. Per prima cosa, doveva liberarsi e alzarsi da quella sedia. Con piedi e mani liberi era più facile ragionare. Con voce ferma e risoluta, Angelo disse: “Ti perdono. Lilly, ascoltami adesso. Dobbiamo provare a fuggire. Lo so che hai paura che Dario torni da un momento all’altro… Ne ho anche io. Non ha senso aspettare senza tentare. Quando lui tornerà, qualunque cosa voglia da noi, alla fine ci ucciderà. È sicuro.”
Esitando, lei sussurrò: “Cosa vuoi che faccia?” “Prova a slegarmi. Trova i nodi a tastoni e scioglili.” “Ci proverò.” “Coraggio, Lilly. Ti porterò fuori di qui. Promesso.” Un attimo dopo, Angelo la sentì muoversi nel buio. Trascorse moltissimo tempo durante il quale Angelo e Lilly non aprirono bocca. Nelle tenebre gli unici rumori furono i loro respiri e lo strofinio delle corde che raschiavano una sull’altra. Angelo attese, con infinita pazienza, mentre la vescica gli si riempiva e lo stomaco si svuotava. Non sentiva più le natiche. Alla fine, Lilly esultò come una bambina: “Ce l’ho fatta!” Neanche un istante dopo, Angelo poté alzarsi in piedi. Le articolazioni irrigidite protestarono sonoramente. I muscoli del sedere, della schiena e delle spalle sembravano fossilizzati. Un dolore pulsante dilagò nel suo corpo atrofizzato ma non riuscì a sminuire la sua gioia. Il sangue riaffluì alle estremità. Sono libero! Nell’oscurità, Lilly lo abbracciò con trasporto e lui l’accolse senza esitazioni. Era il loro primo contatto fisico e, anche se non poteva vederla, gli altri quattro sensi riuscirono lo stesso a dargliene un’idea. Era più bassa di lui, gli arrivava appena al mento, ma aveva il corpo snello, morbido e ben proporzionato. La strinse con forza e, sotto le sue mani, Lilly non pareva affatto debilitata dalla prigionia. Percepì il calore intenso della sua pelle e un vago odore di terriccio nei suoi capelli. Il suo seno florido e sodo premette contro il suo torace, provocante. Gli sembrò che indossasse un vestito senza maniche, lungo quasi fino alle caviglie. Era stravagante. Dopotutto la moda contemporanea, ideata dai gay, era bislacca. Mentre Angelo analizzava per bene il corpo della ragazza, senza riuscire a trattenersi, Lilly continuò a tenerlo stretto, avvinghiata, in cerca di conforto e protezione. A lui piaceva quella sensazione. Lo faceva sentire forte e importante.
Come a tutti gli uomini, di tutti i tempi, bastava quell’illusione a galvanizzarlo. Banale, ma vero. Dopo alcuni minuti, Angelo si staccò da lei e le posò le mani ai lati del viso. Era ovale, liscio, regolare. Lui immaginò il colore dei suoi occhi (azzurri? Verdi?) e, con vago stupore, scoprì di provare una sorta di attrazione sessuale nonostante si trovasse in una circostanza per nulla romantica. A volte, l’istinto animale se ne frega di tutto. “Dobbiamo muoverci. Può tornare in qualsiasi momento.” La sentì annuire tra le dita. I suoi capelli gli solleticarono il dorso delle mani, facendogli scorrere un brivido. Era bello toccarla così. Angelo cominciò a sentirsi come la pessima imitazione di un cavaliere medievale, protettore di fanciulle indifese e disponibili. La sua ultima fidanzata, un’estetista di Monserrato, l’aveva mollato quando aveva saputo del suo trasferimento a Solus. Lei aveva accolto la notizia peggio che se avesse scoperto di avere il cancro. “Forza! Ce la faremo, Lilly, vedrai…” la incoraggiò Angelo staccandosi a fatica dal suo corpo. “Provo a cercare la porta.” “Okay…” disse lei, come se fosse una perdita di tempo. Angelo allungò le braccia e cominciò a sondare l’oscurità.
Fuori, il sole era ormai alto nel cielo. Mezzogiorno era vicino.
La prima cosa che Angelo incontrò, nel nero microcosmo che li inglobava, fu una fredda parete di cemento. Erano bastati pochi i in una direzione qualunque. In base a un rapido e approssimativo calcolo mentale, Angelo
dedusse che la stanza buia in cui erano stati imprigionati misurasse meno di quattro metri di lato. A quanto ricordava, la casetta, vista da fuori, non sembrava così piccola. Doveva esserci più di una stanza. Dario ora stava in una di quelle altre stanze? A fare che? Dormire? Difficile. Nell’ultima mezz’ora, lui e Lilly avevano fatto abbastanza rumore da svegliarlo e attirare la sua attenzione. Forse era uscito. Aveva preso la Uno ed era andato… dove? A nasconderla? A rapire qualcun altro? Probabile. C’erano tante domande senza risposta. Ci stanno cercando? Hanno denunciato la mia scomparsa? Angelo cercò di riflettere. Probabilmente la Polizia e i Carabinieri stavano battendo il territorio, come spesso si vedeva alla televisione. Uomini in divisa, con cani al guinzaglio, che perlustrano campagne e casolari abbandonati, alla ricerca delle vittime di un rapimento. In ogni caso, quanto ci avrebbero messo a trovarli? Troppo. Qualunque tempo ci mettessero, sarebbe stato troppo. Dario non aveva di certo buone intenzioni. Come minimo avrebbe violentato Lilly e seviziato lui. No, dovevano uscirne fuori da soli, se possibile. Non potevano aspettare fiduciosi e rassegnati l’arrivo della cavalleria, come in un film western. Tastoni, Angelo seguì il muro. Trovò quasi subito un angolo retto e poi un’altra parete. L’intonaco sembrava molto vecchio, granuloso, e si sbriciolava sotto le sue dita. Continuò a camminare, tenendo una mano poggiata al muro e tesa in avanti. Altro angolo, altra parete. Nessuna apertura. Solo cemento farinoso. Proseguì. Angolo. Parete… Porta! Era diversa da come la ricordava: rozze assi di legno inchiodate alla meglio. Questa porta era di metallo, duro, spesso e solido. Demoralizzato, Angelo esplorò i bordi della porta con i polpastrelli. Era liscia. Gelida. Gli diede l’impressione di toccare qualcosa che il sole non aveva riscaldato. Cosa c’era
dietro quella lastra di metallo? Un tunnel segreto? Oppure un’altra stanza? Dove li aveva portati Dario? Angelo cercò una maniglia. Nulla. Era probabile che ci fosse un chiavistello solo all’esterno. Un secondo dopo, Angelo individuò un piccolo foro a circa un metro e mezzo da terra. Lo ispezionò con la punta dell’indice. Una toppa? La serratura doveva trovarsi nell’intercapedine tra le due lastre che formavano la porta. Brutto affare. Sul lato interno non c’erano cardini, quindi erano esterni. Era una porta insolita per un’abitazione. Ammesso che quella fosse una vera casa di campagna. Cosa che, al momento, non sembrava affatto. Deluso, Angelo annunciò: “Niente da fare. Non riusciremo ad aprire questa porta a mani nude. Per sfondarla ci vorrebbe un bulldozer. Siamo in trappola. Come e, forse, più di prima.” Lilly sospirò. “Forse… potremmo fare un buco nel muro.” “Come? Con le unghie? Ci vorrebbe un milione di anni.” Angelo si lasciò scivolare a terra, con le spalle appoggiate alla fredda porta che li separava dalla salvezza. Era così avvilente. Non poteva sperare di farcela. Quel Dario era pazzo, sì, ma non stupido. Li avrebbe mai lasciati da soli, senza la certezza che non sarebbero riusciti a evadere? No. Se ci avesse pensato prima, avrebbe forse evitato quel senso di avvilimento. Camminando leggera nelle tenebre, Lilly lo raggiunse vicino alla porta, sedette accanto a lui e gli prese una mano in grembo. L’accarezzò con pazienza e dolcezza. Era molto piacevole. “Non arrenderti, Angelo. Possiamo ancora salvarci, no?” “Come?”
“Quando Dario tornerà lo prenderemo di sorpresa. Lui non sa che ti ho liberato. Entrerà al buio… come sempre. Non ha paura di me. Sono una donna. Lo colpiremo alle spalle!” Angelo era scettico. “Tu credi? Dario ha una pistola.” “Certo. Ma non starà all’erta. Sei più alto, muscoloso e robusto. Puoi stordirlo. Prenderemo la chiave e fuggiremo.” “E se rinvenisse?” Angelo era dubbioso. “ Ci seguirà!” “Allora… lo ammazziamo.” Nella voce determinata della ragazza affiorò la traccia di un’insospettabile durezza. Angelo ne restò un po’ sorpreso e intimorito. Chissà per quale infantile ragione, come tanti altri uomini, aveva sempre pensato che le ragazze belle non dicessero mai cose brutte. Eppure l’esperienza gli insegnava che era vero il contrario. Tuttavia, in quel contesto, non c’era motivo per giudicarla male. La posta in ballo era la vita e non potevano permettersi ipocriti moralismi. L’omicidio per autodifesa era accettabilissimo. “Va bene. Penso di poterlo fare…” Angelo si abbracciò le ginocchia e vi posò la testa. “Adesso che facciamo?" Lei gli strinse la mano. “Che vuoi fare? Aspettiamo.” Aspettarono.
Quando nel mondo esterno erano le quattro del pomeriggio e il sole scendeva verso ovest, dentro la casa Angelo si alzò. “Dove vai?” chiese subito Lisa, allarmata. “Devo fare pipì.” “Non dovevi farla prima?” “Sì, ma poi mi è ata la voglia e l’ho dimenticato.”
Angelo, avanzando nel buio, andò nell’angolo opposto, dove c’era il water. Inciampò nella sedia imbullonata al pavimento, imprecò, poi trovò il gelido bordo di porcellana della tazza. Abbassò la zip, prese la mira alla cieca e orinò a lungo. Sospirò di sollievo. Non era una cosa carina da fare, soprattutto in presenza di una ragazza, ma non ce la faceva più a trattenerla. Non poteva farsela addosso. Del resto Lilly non sembrò turbata. Lui si vergognava a morte, ma cosa poteva farci? Soltanto i personaggi dei romanzi non pisciano mai. Fortuna che, almeno, stavano al buio completo. A proposito, pareva che non ci fossero interruttori su quelle pareti e non c’era nemmeno una lampadina appesa al soffitto. Perché? Ponendosi questo interrogativo, Angelo cercò a alla cieca la leva di plastica dello sciacquone a schienale. La trovò e azionò. Lo scrosciare vorticoso dell’acqua riecheggiò nella stanzetta. Quando la vaschetta si riempì, Angelo riuscì, brancolando, a smontarne il coperchio. Era pesante. Lo posò sul pavimento. Poi infilò entrambe le mani nell’acqua fredda e si lavò con vigore la faccia. Quel semplice gesto sembrò restituirgli una parvenza di lucidità. La situazione, in fondo, era un po’ migliorata. Dopo essersi rinfrescato e riavviato i capelli con le dita bagnate, Angelo tornò indietro e si accucciò di nuovo accanto alla porta. Lilly si accostò subito, in cerca di conforto. “Se Dario non tornasse, in caso di emergenza potremo bere dalla vaschetta dello sciacquone. È gelida e odora di pozzo, ma…” disse Angelo, massaggiandosi le tempie. Riflettere su quei dettagli pratici lo faceva sentire più forte. “Ho visto un documentario su Quark, l’estate scorsa. Il corpo umano può resistere molte settimane senza mangiare, ma solo pochissimi giorni senza idratarsi. Ci staranno cercando in tanti. Prima o poi ci libereranno. Dobbiamo resistere.” “Dario tornerà…” replicò lei, sussurrando. “Prima o poi.” “Meglio. Allora metteremo in atto il nostro piano.” “D’accordo. Ma abbiamo ancora un po’ di tempo…” “Per cosa?”
Quando Lilly lo abbracciò, Angelo si accorse subito che… Era nuda. Prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa, lei lo baciò. Sbigottito, Angelo cedette e ricambiò. Poi si ritrasse. “Lilly… io non… cosa…” balbettò con il fiato corto. Lei, ansimando, rispose: “Ho voglia di te. Qui. Adesso.” Lo baciò ancora, montandogli cavalcioni, strofinandosi sul suo corpo, carezzandolo dappertutto con ione. Gli sbottonò la camicia e l’aprì di scatto, impaziente. La sua pelle, odorosa di terra bagnata e muschio, era infuocata. I capezzoli, eretti e turgidi, sfregarono contro il torace di Angelo come chiodi. I suoi lunghi capelli setosi gli sfiorarono il viso, odorosi di terra. La sua lingua gli lambì il collo. “No, dai, aspetta…” protestò, mentre di riflesso le sue mani le agguantavano i seni. “Non mi sembra il caso, non è…” “Zitto.” Angelo tacque. All’inizio, provò davvero a resisterle, ma i suoi sforzi furono inutili. Perché opporsi? Un ragazzo e una ragazza, giovani, imprigionati da un pazzo nel buio, vicini alla morte. Che motivo c’era per non cedere ai piaceri del sesso? Nessuno.
Dopo, molto dopo, Angelo e Lilly si rivestirono in silenzio. Era stato delizioso, anche troppo, tuttavia lui già sentiva un vago senso di colpa. Aveva forse commesso un grave errore? Subito dopo avere fatto l’amore, Lilly si era allontanata. Riabbottonandosi la camicia con dita incerte, Angelo scrollò la testa, come se
con quel gesto potesse allontanare tutti suoi pensieri negativi. Considerò quello che aveva appena fatto e quello che lo attendeva. No. Non c’era ragione alcuna per colpevolizzarsi. Era successo e basta. Lei era bella, adulta, consenziente e disponibile. Quanti uomini, trovandosi al suo posto, l’avrebbero respinta? Pochissimi. Lei era uno schianto. Angelo si appoggiò spalle alla porta e infilò gli scarponcini. “Lilly…” disse. “Dove sei andata? Devi usare il water?” Lei non rispose. “Lilly?” Nessuna risposta.
All’esterno, il sole era tramontato. Nel cielo limpido sopra la strana casupola senza finestre, le stelle ammiccavano. La notte era tornata.
In preda all’angoscia, Angelo gesticolò nell’oscurità satura d’umidità. Esplorò la stanza a braccia tese. Non trovò nulla, a parte la sedia imbullonata al pavimento e il water nell’angolo. La stanza era vuota. Lilly era scomparsa. “Lilly!” Angelo stava per chiamarla ancora, con voce incrinata dalla disperazione, quando percepì un cigolio rugginoso. Si bloccò. Il rumore proveniva dalla sua destra, molto in basso. Dove è finita?
Dario interruppe i suoi pensieri e il suo respiro. “Bene…” esordì. “Vedo con dispiacere che ti sei liberato.” Vedo? Che cosa mai poteva vedere il bastardo in quel buio? Da dove è entrato? Di sicuro non dalla porta di metallo. “Che ti prende, Angelo. Perché fai quella faccia?” Ho capito! C’è una botola! Un sotterraneo sotto la casa! Come leggendogli il pensiero, Dario spiegò: “Ci sei arrivato, eh? Sono sempre stato sotto i tuoi piedi. Ho dormito un po’.” Angelo gridò: “Non mi fai paura, stronzo. Ti prenderanno!” “Chi?” replicò lui, tranquillo. “Le forze dell’ordine? Come? Nessun testimone. Niente tracce. Per loro io non esisto.” “Bugiardo! A Solus mi staranno cercando tutti!” “Davvero? Pensi di essere indispensabile? Non ci sperare. Non ti troveranno. Non hanno trovato neanche le altre. Anzi, sai che ti dico? Tra qualche mese non ti cercherà più nessuno. Le ricerche costano parecchio e tu non vali nulla. In paese ti dimenticheranno presto. Non sei nessuno. Sei solo quello che va in giro la notte per raccogliere la loro spazzatura. Alla televisione farai meno notizia di un cucciolo abbandonato sull’autostrada… È già successo. Succederà ancora. Fidati. Anche tu, del resto, hai scordato tutte le donne scomparse nell’ultimo anno in questa zona… o sbaglio? Erano forse meno importanti di te? Non credo proprio.” Dario aveva ragione. Sconfortato, Angelo ricordò tutte quelle facce sconosciute, intraviste sui giornali o su Chi l’ha visto, ritratte spesso in foto prese dall’album del matrimonio. Donne svanite senza lasciare traccia. Ricordò anche di aver pensato: chi se ne frega?
Adesso quello scomparso era lui… Una faccia e un nome alla tv. Nessuno di importante. Ah, beh, chissenefrega. All’improvviso, tutto gli apparve chiaro. Non aveva nessuna speranza. Senza forze, domandò: “Cosa hai fatto a Lilly?” Dario esitò un attimo. “Lilly? Oh… io non le ho fatto nulla.” “Non ti credo. Era qui con me un minuto fa! Dov’è?” “Davvero? Lei è salita quassù?” Confuso, Angelo preferì non rispondere alla domanda. “Ho capito…” sibilò Dario, spostandosi nel buio senza mai inciampare. La sua voce proveniva sempre da punti diversi. “È stata lei a liberarti, vero? Immagino si sentisse sola.” Disorientato, Angelo rabbrividì come mai avrebbe creduto possibile nella vita reale. Niente era andato nel verso giusto. “Cosa vuoi da me?” chiese, con voce incolore. Dario si avvicinò. Non aveva nessun problema a muoversi nell’oscurità totale. Pareva quasi dotato di un sonar, tipo un pipistrello. Oppure possedeva una specie di visione notturna. Troppa fantasia. La spiegazione più ragionevole era un’altra e lui avrebbe dovuto arrivarci prima. Dario indossava semplicemente un visore a infrarossi. Qualcosa di tipo militare. Angelo rammentò di aver visto un attrezzo simile nel famoso film Il silenzio degli innocenti. Quel pensiero riportò una discreta ragionevolezza nella mente di Angelo. Avere intuito quel particolare lo fece sentire ancora vivo. Finché restava lucido c’era ancora un filo di speranza. Se perdeva del tutto la testa, invece, era la fine. Fermandosi proprio di fronte a lui, Dario sentenziò: “Vuoi sapere perché ti ho portato qui? Non è una bella storia.”
Angelo restò immobile. Un attimo dopo, un cerchietto duro e ghiacciato gli atterrò al centro della fronte. Il fiato di Dario puzzava di funghi e muffa. “La riconosci?” Era la pistola. In quel momento Dario si trovava a pochi centimetri di distanza. Volendo, avrebbe potuto toccarlo o aggredirlo… ma non fece assolutamente nulla. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, Angelo era paralizzato da un terrore senza nome. “Osservo con piacere che non sei cambiato durante la mia assenza. La frequentazione con… Lilly… non ti ha trasformato in un eroe. Meglio per te, credimi. Sarà tutto molto più facile.” Rise soddisfatto. “Per qualche istante ho creduto che lei… ti avesse montato la testa. Le ragazze lo fanno spesso. È nella loro natura. Giusto?” Angelo non si sbilanciò. Dario proseguì il suo discorso come se niente fosse, il tono di voce sereno e cordiale di chi parla con un vecchio amico. “Fino a ora ho portato qui soltanto donne. Non sono particolarmente pericolose e ubbidiscono agli ordini senza troppe discussioni. In questo sono abbastanza brave… dopo tutto, lo fanno da migliaia di anni. Però sono furbe. Conoscono il punto debole degli uomini e, se appena le lasci fare, cercano di approfittarne. Con me non funziona. Non cedo alle facili lusinghe. Ma perché ti racconto di questo?” “Perché sei un complessato?” ribatté Angelo, di nuovo allo sbando totale, la canna della pistola premuta sulla fronte. Stavolta, Dario non lo giudicò divertente. Con tono severo, disse: “Adesso non esagerare, Angelo. Tu mi piaci, sì. Ma questo non vuol dire che siamo amiconi.”
Angelo capì di essere arrivato sull’orlo del baratro. Più in là non c’era nulla: solo morte. “Bene. Ora che ci siamo chiariti, parliamo, ok?” Angelo annuì. Nello stesso momento si rese conto di vedere qualcosa nel buio. Riusciva quasi a scorgere ombre e contorni. Intravide la silhouette scura di Dario, davanti a lui, con il braccio destro sollevato e la pistola spianata. Era più basso di lui, almeno dieci centimetri e molto magro. Le spalle strette e spioventi. “Che ti prende?” “Ho paura di morire…” mentì Angelo, a bassa voce. Dario sembrò credergli. “Io invece ho paura di vivere.” Angelo si stupì di come ora potesse distinguere addirittura la robusta sedia di legno a cui era stato incatenato. Uno scheletro nero nella penombra. Come mai adesso vedeva? I suoi occhi si erano così abituati alle tenebre da potenziarsi? Era possibile? Un po’ di luce naturale filtrava da qualche fessura nel tetto? Forse fuori non era affatto notte, ma pieno giorno e il sole era alto. Il disorientamento temporale l’aveva ingannato. Era notte fonda quando Lilly l’aveva liberato! Per questo prima non… “Muoviti!” sbottò Dario, nervoso. “Devo legarti di nuovo.” Dario si spostò di lato e abbassò la pistola, per farlo are. Non si era ancora accorto che ormai Angelo poteva scorgerlo. Abbastanza da notare che non indossava nessun visore. “Cammina. Quattro i…” ordinò Dario, secco. Quando Angelo fece il primo o in avanti, lui si accostò al suo fianco destro, la pistola bassa. Era un vecchio modello. È il momento!
Il gomito di Angelo partì di scatto verso l’alto e lo colpì in piena faccia. Il naso si spezzò e un paio di denti presero il volo. Mentre Dario crollava a terra, sbigottito, Angelo ruotò su se stesso e gli sferrò un poderoso calcio in mezzo al torace. La pistola cadde. Dario fu scaraventato contro la parete alle sue spalle e si ammosciò come una ruota bucata. Angelo si avvicinò per dargli il colpo del KO, ma Dario si riscosse e balzò in piedi come una molla con un urlo rabbioso. Lo caricò a testa bassa, colpendolo sul petto e facendolo ruzzolare sul pavimento. Angelo si dibatté per toglierselo di dosso. In quel momento, con la punta delle dita della mano sinistra sfiorò il solido coperchio della vaschetta del water. L’afferrò e, con un grugnito, lo abbatté sulla testa di Dario. Il rumore del cranio fratturato gli riempì le orecchie. Dario collassò e rimase immobile. Un rivolo di sangue caldo e colloso gli sprizzò in faccia. Ce l’ho fatta! L’ho battuto! Ansimando per lo sforzo, Angelo lo rovesciò di lato senza tante cerimonie, si rimise in piedi e tornò zoppicando nei pressi della porta di metallo. Poi si curvò e raccolse la pistola. Un ghigno cattivo gli distorse le labbra. “Adesso gioco io.”
Gemendo e sputando sangue, Dario riprese conoscenza. Il suo volto era gonfio, sanguinante, straziato da lancinanti schegge acuminate di dolore. Un rivolo di sangue gli scorreva al lato della bocca ferita. I denti ballavano. Il petto gli faceva un male ogni volta che respirava. Doveva avere qualche costola rotta. Provò a muoversi. Non ci riuscì. Era saldamente legato alla sedia. Di fronte a lui vide Angelo.
L’uomo stava in piedi, immobile, accanto alla botola quadrata che conduceva nel sotterraneo. Lo sportello era di solido legno. Sulla sua superficie superiore, Dario aveva steso un sottile strato di cemento per mimetizzarla con il pavimento. Una buona idea, ormai inutile Quella preda si era dimostrata più forte, astuta e letale del predatore. La situazione si era ribaltata. Adesso era lui la vittima. Aveva sbagliato, si era sopravvalutato, aveva abbassato la guardia e adesso… In un certo senso era inevitabile. La cosa era durata per troppo tempo. Non poteva andar bene in eterno. Sapeva che, prima o poi, i guai sarebbero arrivati. C’era una fine per tutto. Angelo chiamò: “LILLY! SEI LÌ SOTTO?” Dal sottosuolo giunse un suono cupo e strisciante. “Lilly, sei tu?” domandò Angelo, teso. Rabbioso, si voltò verso Dario. “Chi altro c’è laggiù?” Lui sputò un grumo di sangue rappreso e non disse nulla. Determinato, Angelo cercò di schiudere la botola con tutte le sue forze. Ma era impossibile. Non c’erano appigli o fessure. Niente cardini. Era chiusa dall’interno e sembrava inamovibile. Un altro suono, una specie di rantolo soffocato. “CHI C’È LAGGIU? RISPONDI!” Angelo raggiunse Dario e gli puntò la pistola alla testa. “Parla subito o ti ammazzo!” Dario era attonito. La preda si muoveva con una disinvoltura incredibile. Come faceva? Vedeva nel buio anche lui? Come… “Come si apre la botola? Dimmelo.” Dario sorrise e il gesto gli provocò una fitta bruciante.
“Si apre dal basso.” La sua voce era resa liquida, biascicata dal sangue e dai denti persi. “Non devi preoccuparti per lei.” “Perché l’hai chiusa laggiù?” Dario tossì e non rispose. “Rispondi! Perché mi hai rapito?” Dall’intonazione di quella domanda, Dario intuì che Angelo voleva davvero conoscere il perché di tutta quella faccenda. Così decise di raccontargli tutta la verità. O quasi. Se giocava bene le carte che gli restavano in mano, forse poteva farcela. “È una storia lunga…” annunciò. Angelo gli premette la pistola sulla fronte. “Ho tempo.” Dario cominciò a raccontare. “Allora, ascolta.”
“I miei genitori erano agricoltori. Hanno lavorato i terreni improduttivi di queste campagne per decenni. Sono nati, vissuti e morti senza mai uscire dal comune di Solus. Non erano persone socievoli. Un tempo, nelle casette qui intorno, vivevano diverse famiglie di braccianti agricoli. Era quasi inevitabile che si sposassero tra loro. Nessun altro avrebbe sopportato quel genere di vita. Oggi è tutto abbandonato. La fabbrica ha inquinato l’aria, la terra e le falde acquifere. Cresce poco e quello che cresce non si può né raccogliere né vendere. Adesso non c’è più nessuno nei dintorni. Quelli che non sono morti, sono andati via per sempre. Comunque sia, poco dopo il matrimonio, mamma e papà si ritrovarono da soli in mezzo a queste terre incolte e dimenticate. La gente di Solus non viene mai da queste parti. Anche i ragazzini evitano questa zona. Non c’è nulla che attiri l’attenzione o stimoli l’interesse. Il paesaggio è desolato, il terreno infestato dalle zecche e, dal crepuscolo all’alba, l’aria brulica di zanzare fameliche. La vita era dura, per loro, ma andarono avanti lo stesso.
Che scelta avevano? Nessuna. Così mia madre restò incinta e, nonostante tutto, l’evento rinsaldò la coppia e portò felicità. I campi producevano a malapena patate, fave, piselli, pomodori e carciofi. Tuttavia, con Fede, Buona Volontà e il Sudore della Fronte, i miei genitori erano convinti di poter superare qualsiasi difficoltà futura. Un’assolata e asfissiante mattina di luglio, senza ostetrica né epidurale, mia madre partorì due gemelli. Maschio e femmina. In apparenza stavamo bene, sembravamo sani e robusti. I miei genitori erano felici. Ma… la gioia, come sempre succede, durò poco. Infatti, al calar della notte, io e mia sorella Aurora, cominciammo a stare male. Molto male. Lei anche più di me… Mio padre, preso dal panico, voleva correre subito in paese in cerca del dottore o di un telefono pubblico per chiamare un’ambulanza. Non ci aveva ancora nemmeno registrati all’anagrafe. Mamma lo fermò. Non voleva restare da sola con noi nemmeno un minuto. Le nostre iridi erano diventate bianche come il latte… La pelle diafana trasudava sangue, squamandosi e spaccandosi. Per qualche strana ragione, lei credeva che fosse tutta opera del demonio. Poi, per caso, mentre si muoveva disperato per casa in cerca di una soluzione a quel problema, papà abbassò un interruttore e accese la luce. Come per magia, cambiò tutto. I nostri occhi tornarono normali. La pelle si cicatrizzò e guarì in pochi minuti. Per puro caso avevano trovato l’unica cura esistente. Il rimedio era a portata di mano. La luce. La causa del nostro misterioso male erano le tenebre. Senza chiedersi perché o percome, i miei genitori reagirono in coerenza con la loro natura: si isolarono ancor più. L’anagrafe non registrò mai la nostra nascita. Per vergogna o paura, mamma e papà decisero di nasconderci. La nostra esistenza era un segreto. Da quella prima, triste notte, la mia famiglia condusse una vita strana e bizzarra.
Mio padre murò tutte le finestre e lasciò un solo ingresso. C’erano luci dovunque e centinaia di lampadine di scorta. In modo che non potessimo mai più vedere il buio. La cantina, illuminata a giorno, era il nostro asilo nido. Ogni tanto papà scendeva in paese: scambiava frutta e ortaggi con latte, formaggi e carne o altri prodotti utili. Per il resto ci si arrangiava alla meglio. Il problema maggiore era convivere con il nostro male. Nella nostra piccola casa c’era sempre la luce accesa. Quando crescemmo, mamma ci faceva uscire soltanto con il sole ben alto. Durante la notte restavamo chiusi dentro, con tutte le luci accese. Noi non capivamo perché e loro non lo spiegarono mai. A un certo punto ci sembrò normale. Eravamo bambini. Pensavamo che tutti vivessero così. Anche se non sapevamo chi fossero questi tutti. Le nostre idee sul resto del mondo erano piuttosto vaghe. Lo sono ancora, forse. arono gli anni. Crescemmo in totale isolamento. Papà lavorava dall’alba al tramonto. Mamma badava a noi. Imparammo a leggere e scrivere. Mamma ci insegnò quel poco che sapeva della vita. Il resto lo leggevamo nei libri, giornali e riviste che ogni tanto papà raccattava chissà dove, forse alla discarica. Mi piaceva leggere, conoscere le cose e le storie delle persone. Dai libri capii che la nostra esistenza era molto diversa da quella di tutti gli altri. Questo mi rattristò molto. A mia sorella sembrava non importare molto. Lei ha un carattere molto diverso dal mio. A me mancava soprattutto una cosa. Ne parlavano tutti i romanzi, ma io non l’avevo mai visto, tranne che in fotografia. Il buio. Così un giorno (per noi era sempre giorno) sfruttai la distrazione di mia madre e mi chiusi in un armadio… BUIO! Durò pochi istanti. Gli sportelli si spalancarono di colpo e presi un bel po’ di schiaffi. Da quel giorno non ci furono più sportelli in casa. Ti sembrerà assurdo ma siamo andati avanti in quel modo, lontani da tutto e tutti, per diciassette lunghi anni. Nessuno ha mai sospettato nulla. Nessuno è mai venuto qui. Nemmeno il parroco di Solus. Poi, un anno fa… mancò la corrente
elettrica. Era notte. Ci ritrovammo, per la prima volta, soli nel buio. All’ inizio provai un dolore fortissimo, come se qualcuno mi strape tutti gli organi interni con le unghie. Ma fu una fase breve. Dopo mi sentii diverso, fisicamente ed emotivamente. Niente sarebbe più stato come prima. Quella notte il buio mi parlò per la prima volta. Non lo dimenticherò mai… Quando la luce se ne andò i miei genitori dormivano. Non si svegliarono mai. Mia sorella li uccise nel sonno e iniziò subito a mangiarli. L’oscurità l’aveva trasformata in una creatura… mostruosa, assetata di sangue caldo e carne fresca. A me, però, non fece nulla. Ero suo fratello. Aveva bisogno di me. Per nutrirsi. Da quella tragica notte, la nostra vita cambiò. Adesso era la luce a farci male, una sofferenza indicibile. Lo capimmo la mattina dopo, appena ritornati “normali”, quando provammo a uscire di casa. Quasi impazzimmo dal dolore. La pelle cominciò a bruciare, spaccarsi e staccarsi a brandelli, come corrosa da un acido. Tornammo dentro casa di corsa, urlanti e fumanti. Chiudemmo la porta di metallo e ci rintanammo nel buio, leccandoci le ferite aperte a vicenda. Ci riprendemmo, ma solo dopo molti giorni di agonia. Terrorizzati, non uscimmo più alla luce diretta del sole. Dopo lunghi ragionamenti, io e mia sorella abbiamo capito che la luce artificiale non era proprio una cura, ma ci impediva di trasformarci… quella naturale, invece, era letale. Tuttavia, una volta attivata dalla prima vera esposizione all’oscurità, la nostra mutazione rispecchia comunque il ciclo notte-giorno.
Qual è la causa? Non lo so. Nell’ultimo anno l’elettricità non è mai tornata. Credo che l’ENEL, alla fine, abbia tagliato i nostri cavi. Forse papà non ha pagato le bollette. Nessuno si è disturbato a controllare. In ogni caso, abbiamo distrutto tutte le fonti di luce qui dentro. Nei mesi seguenti, io e mia sorella, ci organizzammo per sopravvivere e modificammo la casa dei nostri genitori come la vedi adesso. Togliemmo tutti i mobili e ogni altra cosa che potesse rivelare la nostra presenza. Ora il posto sembra deserto. Uno dei tanti casolari di campagna abbandonati di questa zona. Detto questo, arriviamo alla parte che ti interessa… Al nostro principale problema: il cibo. Vedi, io, durante la notte, a parte il dolore dentro le ossa e il richiamo suadente delle tenebre nella testa, sono quasi normale. A parte certi dettagli che non sto qui a specificare. Mia sorella, invece, diventa quello che diventa… Non so come definirla. Il cibo, dicevo… per farla corta: io mangio di tutto, lei no. Non so proprio come sia possibile (o a cosa sia dovuto), ma dopo la prima trasformazione notturna ha fame solo di carne umana. Forse perché è la prima cosa che ha mangiato nella sua nuova forma e adesso non ne può più fare a meno… La nostra mutazione genetica è senza ritorno. Ancora oggi, vent’anni dopo la nostra nascita, ne scopriamo nuovi e singolari aspetti. Non è facile conviverci, credimi. Ma ci si abitua a tutto, quando non c’è altra scelta. Comunque sia, devo prendermi cura di mia sorella. È tutta la mia famiglia. L’unica che possa capire e accettare il mio tormento interiore. L’unica con cui posso vivere. Siamo solo io e lei. Ecco perché ti ho portato qui. Lo stesso motivo per cui, prima di te, ho portato tutte quelle donne. Per sfamarla. Non posso lasciarla morire di fame… Non voglio restare solo al mondo, ho soltanto lei, mi capisci?” “No. Non capisco. Perché mi racconti tutte queste cazzate?” Dario scosse la testa, agitandosi sulla sedia e spruzzando sangue dalle narici dilatate. “Cazzate? Tu non mi credi?”
“Dovrei credere che voi due siete una specie di mutanti, che si trasformano al buio e muoiono alla luce del sole? Vuoi che creda che avete vissuto nelle campagne di Solus per tutti questi anni senza che nessuno ne abbia mai saputo nulla? Che hai rapito tutte quelle donne per darle in pasto a lei?” “Perché dovrei mentire?” strillò Dario. “È la verità!” “La verità è che sei un mostro… ma un mostro qualunque.” Angelo premette il grilletto, senza rimorsi. La faccia di Dario esplose in mille frammenti sanguinolenti. La detonazione, in un ambiente così piccolo, l’assordò. Dove ha preso questa pistola? Si domandò Angelo, in grave ritardo. Era del padre? Aveva forse pensato di uccidere i figli? Chi poteva biasimarlo? Quando l’eco dello sparo si esaurì, dalla botola chiusa salì una flebile voce disperata. “Aiuto… Angelo…. aiutami.” Un rumore sordo. Qualcosa di flaccido che sbatté sul legno. Lo sportello si spalancò di colpo, sollevando una nuvola di polvere di cemento. Nel pavimento si profilò un quadro scuro. “Lilly!” urlò Angelo, precipitandosi verso il buco. Senza riflettere, in ginocchio, si affacciò dentro la cantina. Cosa c’era di vero in quella storia assurda? Nell’antro sotto la catapecchia, l’odore di morte, putridume e decomposizione era nauseante. Dalle umide pareti di terra argillosa, in alcuni punti emergevano neri grovigli di radici disseccate. Il soffitto era basso e irregolare. Meno di due metri. Ragnatele filamentose pendevano, agitate dalla corrente d’aria fetida, in quella che Angelo ormai percepiva come penombra. Per scendere non c’era una scala. Oppure, Dario l’aveva tolta. Doveva infilare le
gambe nel pertugio e lanciarsi di sotto. Lo fece. Sbuffando, atterrò su qualcosa di molle e limaccioso. Non aveva il tempo per capire cos’era e neppure voleva saperlo. Cercò solo di non perdere l’equilibrio, sia fisico che mentale. Spianò la pistola e ruotò lo sguardo intorno. In quella semioscurità, Angelo ci vedeva piuttosto bene. Da dove proveniva quella luminosità? Muschi fosforescenti sulle pareti fradice? Ne aveva sentito parlare (sempre su Quark, il suo programma preferito), ma l’ipotesi non lo convinceva. I suoi occhi compirono una panoramica a 360 gradi. Lilly non c’era. La cantina, un tetro parallelepipedo di terra scura, era vuota. C’era forse un aggio segreto? Angelo avanzò di qualche o nella melma. Le sue scarpe produssero schiocchi liquidi e vischiosi. Dove ha nascosto Lilly? Provò a chiamarla: “Lilly? Sono io. Dove sei? Parlami!” Avanzò. “Ho ucciso Dario. Se troviamo la chiave, siamo liberi”. In quel momento, Angelo si sentì come uno di quegli stupidi personaggi dei film dell’orrore, quando incauti s’inoltrano in case indemoniate alla ricerca di qualcuno… Quasi gli sembrò di udire le voci degli spettatori che gridavano: idiota, scappa! Ma non scappò.
“Lilly?” Doveva per forza esserci un pertugio, magari camuffato. Non poteva lasciare Lilly lì, da sola, mentre lui fuggiva da quella casupola in cerca di aiuto. La sorella cannibale, Aurora (un nome così simbolico che non poteva non essere inventato), ammesso che esistesse, poteva spuntare in qualsiasi attimo. Con gli occhi sbarrati perlustrò la parete che aveva di fronte. Niente. Solo terriccio franoso, intriso d’acqua e coperto di muschio. “Lilly? Mi senti?” Silenzio. A quel punto, una voce roca gli rispose: “Lilly non c’è più.” Angelo si voltò di scatto, terrorizzato, agitando la pistola. Non vide nessuno. “Chi sei?” Era una domanda insensata, ma non riuscì a trattenersi. “Hai ucciso mio fratello?” domandò la voce, incolore. Angelo non rispose. Scrutò la penombra. Niente. A parte il tanfo di putrefazione. “Hai fatto bene. Non ho più bisogno di lui. Ora ho te.” Lui non fiatò. La voce parve venire da ogni direzione. Che trucco era? Microfoni nascosti nelle pareti? Perché? “Dario era troppo sensibile per sopportare questa situazione. Non poteva andare avanti così a lungo. Mi portava da mangiare con regolarità, certo, ma si
lamentava sempre. Io ho accettato la mia diversità… Voglio sopravvivere. Ero stufa marcia dei suoi continui piagnistei, dei suoi rimorsi, dei suoi discorsi senza senso. Negli ultimi tempi mi ha confidato che voleva farla finita con questa esistenza di merda. Adesso sarà contento.” Angelo sbraitò: “Tuo fratello era pazzo demente! Non credo a una parola di questa folle storia! Cosa hai fatto a Lilly?” Pausa. “Il tuo intuito è davvero scarso. Non hai capito niente.” “Che c’è da capire?!” La risposta arrivò da una voce diversa. “Dario mi ha rapito e poi… lei mi ha mangiata, Angelo.” Era Lilly. Triste, dolce e sensuale allo stesso tempo. Angelo rabbrividì, sconvolto da quell’atroce rivelazione. La voce lugubre della sorella di Dario, spiegò: “Mio fratello non ti ha raccontato tutto sugli effetti collaterali della nostra mutazione. Quando all’esterno è giorno, forse a causa dei raggi solari, non lo so, io ritorno al mio precedente aspetto umano. Lui, invece, cadeva in una specie di profondo letargo. Quando il sole è dall’altro lato del pianeta, schermando le radiazioni, al contrario, lui si sveglia e io mi trasformo di nuovo. Curioso, eh? C’è anche un’altra cosa. La mia condizione mi ha concesso una capacità: assorbo la memoria di quelli che mangio e posso riprodurne l’aspetto fisico. Per questo so tutto di Lilly. Non ti sarebbe piaciuta, credimi. Era una ragazza ignorante, sciocca e piena di complessi. Ho usato la sua identità per ingannarti, perché è la donna più giovane che ho mangiato. Non volevo certo usare il corpo di una vecchia per la mia prima volta…” Angelo ascoltò quel monologo in stato comatoso. Scoprire di avere fatto sesso con una creatura antropofaga non era una bella esperienza. “Vuoi… mangiarmi?” balbettò, inebetito. “Non ci penso nemmeno…” rispose Aurora.
“Cosa vuoi da me?” “Voglio che tu ti prenda cura di me.” Il pavimento sotto i piedi di Angelo iniziò a muoversi. “No!” urlò, facendo un balzo indietro. “Non voglio!” Disperato, Angelo puntò la pistola verso il pavimento, che ribollì e si gonfiò come un effetto speciale da pessimo film horror. Sparò tre volte. Le fiammate arancioni illuminarono un’oscena sostanza amorfa che andava raggrumandosi al centro dell’interrato. Era spugnosa, rossastra, come sangue coagulato. I proiettili vi penetrarono con sonori tonfi flaccidi, sollevando putridi zampilli viscosi. Un forte puzzo di muschio, ammoniaca e fanghiglia saturò l’aria immobile. La cosa lo derise. “Non ti è forse piaciuto scopare con me? Mangio soltanto una volta al mese. Non è difficile. Vedrai, ci divertiremo insieme. Sarò la tua Lilly quando e come vorrai.” Angelo gli scaricò la pistola addosso. “NO! NO!” Indietreggiò verso l’apertura della botola. La cosa incassò tutti i colpi come un coagulo di cera, senza danni visibili, continuando a modificare la sua struttura. “Non hai scelta…” sibilò. “Tornerai strisciando da me.” Lui le lanciò contro la pistola ormai inservibile e spiccò un salto. Si aggrappò al bordo dello stretto aggio con la punta delle dita e si issò fuori con facilità. Avere movimentato e svuotato migliaia di cassonetti, per anni, gli aveva irrobustito non poco le spalle e le braccia. Senza perdere tempo, rotolò su se stesso e chiuse lo sportello. Era inutile. Il chiavistello stava dall’altro lato. Scattò verso il cadavere ancora tiepido di Dario. Gli frugò nelle tasche e sentì un cigolio alle sue spalle. Sta salendo!, pensò. Nello stesso istante, si trovò tra le dita una grossa chiave.
Era quella giusta? C’era un solo modo per saperlo. “Angelo, amore… dove corri? Perché vuoi fuggire?” Aurora usò la voce di Lilly per convincerlo. “Resta con me stanotte. Sarò la tua troia. Farò quello che vuoi. Il tuo futuro è con me.” “LASCIAMI STARE, MOSTRO!” gridò lui, esasperato. Correndo nel buio, Angelo si lanciò sulla porta di metallo. Infilò la chiave nella toppa e la girò. Clack! Spalancò la porta, uscì e la richiuse subito alle sue spalle. Si ritrovò in un cubicolo stretto come un ascensore. Di fronte c’era un’altra porta, una normale porta di legno. Dietro di lui, sgusciando fuori dalla cantina, la cosa urlò di rabbia e percosse il metallo con i suoi untuosi tentacoli. “ALLORA SEI SCEMO!? NON PUOI ANDARTENE!” Angelo puntellò i piedi e spinse con tutte le forze che aveva. “TORNA DA ME!” La cosa era fortissima, non avrebbe resistito per molto. All’improvviso, si accorse di avere la chiave stretta nel pugno. Non indugiò oltre. Chiuse la pesante porta a tripla mandata. Clack-clack-clack! A quel punto, Aurora, la cosa informe, sembrò calmarsi.
Con la voce di Lilly, suadente, implorò: “Ascoltami. Non lasciarmi qui, da sola… Non puoi andare via. Resta, ti prego. Non lo capisci? Abbiamo fatto l’amore. Sai cosa vuol dire?” Angelo ignorò quelle idiozie. Che cazzo sta dicendo? Si aspetta forse che la sposi? I suoi pensieri, al momento, erano molto meno romantici. Questa solida porta di metallo e le pareti di questa casa terranno quella cosa prigioniera finché non morirà d’inedia. Angelo si girò e ghermì il pomello della porticina esterna. Non indugiò oltre nel cubicolo, lo girò e uscì nella notte. Un leggero velo di foschia avvolgeva gli eucalipti fruscianti che assediavano la tetra casetta con le finestre murate. La volta celeste era limpida. Le stelle luccicavano come pezzi di ghiaccio. Nello spiazzo di ghiaia umida, la sua Uno non c’era. Angelo non si demoralizzò, era una cosa che si aspettava. Individuò l’inizio della stradina sterrata e si incamminò. Alle sue spalle, la voce attutita di Lilly continuò a strepitare sciocchezze senza senso su occhi bianchi e contagio sessuale. A o svelto, Angelo si allontanò e non la udì più. Non sapeva bene in che direzione dirigersi. Quando era stato rapito, la notte precedente, Angelo aveva perso l’orientamento, ma Solus non poteva essere distante. Una volta individuato nel cielo il riverbero dell’illuminazione pubblica, ritrovare la strada giusta sarebbe stato uno scherzo da ragazzini. L’importante, adesso, era allontanarsi il più possibile da quel posto maledetto. Privata del suo pasto, la cosa sarebbe morta di fame. Era finita.
Angelo sorrise alle stelle e gli parve che lo ricambiassero. Non era mai stato meglio. “Sono ancora vivo!” esclamò, respirando a pieni polmoni. Cominciò a correre.
Nella sua prigione di tenebra, la cosa, Aurora, costretta nel suo orrendo aspetto notturno, scivolò sul polveroso pavimento di cemento grezzo verso il corpo ancora tiepido del fratello. Già a quella distanza poteva ancora sentire lo sfrigolio elettrico nei centri nervosi del suo cervello. Tra poco avrebbe assimilato i suoi ricordi e le sue frustrazioni. Era stanca e affamata. Aurora non mangiava da più di un mese e le sue energie stavano diminuendo in fretta. Era stata una notte stressante. Doveva riposare e ragionare sul suo futuro. Le cose non erano andate tutte secondo i suoi piani. Inutile piangerci sopra. Del resto era prevedibile: la realtà è diversa dalla fantasia. Comunque, alla fine, avrebbe vinto lei. Era certa di aver scelto l’uomo giusto. Presto, molto presto, Angelo sarebbe tornato da lei. Doveva farlo. Per forza. Nel giro di pochissimi giorni avrebbe capito che in lui qualcosa non andava… Il dolore dentro le ossa, la febbre, la fotofobia, quella voce persuasiva che gli bisbigliava al centro della testa. Non avrebbe potuto negare la verità a lungo. Qualche settimana, forse. Non di più. Aveva già notato gli effetti istantanei del contagio? Iridi lattiginose e capacità di vedere nel buio? Possibile che non si fosse accorto di nulla? Sì, presto sarebbe tornato: per chiederle aiuto. A quel punto, lei l’avrebbe persuaso della necessità di non separarsi… adesso erano soli al mondo. Non potevano fidarsi di nessuno. Erano mostri. L’unico modo per sopravvivere era restare insieme, nel bene e nel male, chiusi in quella casa.
Aurora non aveva dubbi (non era come i suoi bigotti genitori o quello smidollato di suo fratello), Angelo sarebbe tornato, prima o poi. Bisognava solo aspettare qualche settimana. Nient’altro. Per ingannare l’attesa e per reintegrare le energie consumate nell’ultimo mese di digiuno, Aurora inglobò e fagocitò Dario. Dopodiché, con calma, iniziò a digerirlo.
32 – UNIRE I PUNTINI
I rumori digestivi della creatura erano nauseanti. Quando le facce del cristallo iniziano a ruotare intorno a te, producendo un suono simile al ronzio di un motore elettrico, quasi ringrazi il cielo (o chi per lui) per averti strappato dagli ultimi orribili scampoli di quella visione… Il finale, anche se aperto, in realtà è chiuso. Vorticando, come all’interno del pendolo di un indovino da fiera, non riesci a cogliere lo spostamento e il cambiamento repentino che avviene intorno alla tua proiezione astrale. La successione di eventi e informazioni ti lascia frastornato, senza il tempo di unire i puntini per risalire all’immagine completa. Troppi indizi e poco margine per elaborarli in modo coerente. La corrente psichica si è fatta tumultuosa, adesso. Sballottato di qui e di là, peggio di un tappo di sughero in mezzo all’oceano, in balia della misteriosa forza che gioca con la tua mente, l’unica cosa che puoi fare è aspettare che finisca. In un modo o nell’altro. Per fortuna, nulla dura in eterno.
33 – IL PACCO
C’era qualcosa nella cassetta della posta. Sporgeva dalla fessura: carta color panna andata a male. La cassetta era rossa, sbiadita da decenni di sole e pioggia. Lara Locci, proprietaria di quella cassetta, indugiò un attimo con la chiave della suddetta stretta nel pugno. Il capo inclinato. Un pacchetto? Pensò, terribilmente incuriosita. Gli unici pacchetti che le venivano recapitati erano quelli del Club degli Editori. Ma erano mesi che non ordinava un romanzo. Forse… beh, faccio prima ad aprire la cassetta! Infilò la chiave nella rugginosa serratura e la ruotò. Lo sportello si aprì di scatto e il pacco rovinò sul pavimento. “Merda!” esclamò stizzita. “Speriamo non sia roba fragile!” Si inginocchiò e raccattò l’anonimo involucro, sigillato con del nastro adesivo giallo. Controllò l’indirizzo: Lara Locci, via Manzoni 14, Solus (Ca), 090100 Scritto in stampatello, con una penna a sfera nera. Il mittente non era indicato. Insomma, un semplice pacco. Tutto per lei. “Cosa ci sarà dentro?” mormorò Lara, soppesandolo. Inclinò la testa e lo agitò vicino all’orecchio destro. Qualcosa si muoveva. Una bomba! Rifletté, allegramente, mentre lasciava il porticato e rientrava in
casa. Le borse della spesa erano accanto alla porta d’ingresso, dove le aveva lasciate poco prima, nella fretta di andare a vedere cosa c’era nella cassetta della posta. Chiuse la porta e decise di trascurare, per ora, il misterioso pacco. Lo posò sul tavolo della cucina e di buona lena si accinse a sistemare le provviste con la solita meticolosa precisione: questo qua, questo là. Fece in fretta. Per quella sera aveva organizzato una cena intima con il suo nuovo compagno, Sergio. Un ragazzo atletico e simpatico che aveva conosciuto in palestra, a Sant’Antioco. Si frequentavano solo da un paio di settimane. Niente di serio, per il momento. Erano due giorni che non lo sentiva, ma le andava bene così. Lara era uscita da poco da una lunga relazione, sfortunata, burrascosa e tormentata. Non voleva complicarsi di nuovo la vita. Cinque minuti ed era tutto a posto. Perfetto… Ora poteva dedicare tutta la sua attenzione al pacco che, per il momento, un ignoto qualcuno le aveva spedito il 19/06/1993 (a prestar fede al timbro postale, apposto in quel di Carbonia). Non esitò oltre: strappò frenetica il parallelepipedo di cartone. Pochi istanti dopo fissò meravigliata il contenuto del pacco. Era una videocassetta TDK 90 GOLD. Se la rigirò, stupita, fra le mani. Che cosa c’è registrato? Sul bordo di plastica della videocassetta era stata applicata una striscia autoadesiva (di quelle dove si annota il titolo del film) dove, con la stessa penna dell’indirizzo, c’era scritto: GUARDAMI. Solo questo, chiaro e semplice. Un laconico imperativo che le rammentò subito Alice nel Paese delle Meraviglie, un libro che aveva letto ai tempi delle Elementari. Non le era piaciuto. “E se non volessi guardarti?” disse Lara, con un sorriso.
Perché mentire a se stessa? Certo che l’avrebbe guardata. Eccome. Magari è piena di cose oscene… Un film porno recapitato all’indirizzo sbagliato? E chi se ne frega? Sono maggiorenne e vaccinata, ho un lavoro parttime e vivo da sola in questo merdoso paesino del Sulcis. Non posso fare quello che voglio? Certo che poteva. Poteva e voleva. A proposito… C’era qualcosa di strano. Come poteva sapere l’anonimo mittente che lei possedeva un videoregistratore? Boh. Però, visto che si trattava di uno scherzo cretino e che di solito gli scherzi cretini erano opera di persone conosciute, ergo queste persone sapevano del suo videoregistratore. Facile, no? Facilissimo. “Enigma risolto!” esclamò Lara, piroettando nella cucina silenziosa. Imitò la voce di Perry Mason: “La qui presente è vittima di una burla. Architettata da uno dei suoi amici, che, guarda caso, risiedono per la maggior parte a Carbonia. Ergo, possiamo dedurre che la videocassetta contenga ogni amenità!” Rise di gusto. Le capitava spesso di parlare e ridere da sola, come sempre accadeva a chi soffriva di solitudine persistente (in forma più o meno grave). Così, tra una sghignazzata e l’altra, si avvicinò al suo videoregistratore Aiwa (preso a rate) e relativo televisore Phonola (preso di seconda mano). Attivò entrambi. Sullo schermo apparve Gerry Scotti lanciato in una telepromozione. Lara afferrò il telecomando e rispedì Gerry Scotti nell’etere. Con la mano libera inserì la videocassetta nell’Aiwa, che la inghiottì con un
ronzio di ingranaggi e ruote dentate. Frrrr. Tak! “Okay, anonimo mittente…” bisbigliò Lara, sedendosi sulla sedia più vicina. “Vediamo se riesci a farmi ridere o piangere.” Intanto rimuginò: chi sarà stato? Giorgia? Luca? Alessia? Antonio? Può darsi, lui è tipo da scherzi di questo genere. “Hai vinto. Adesso ti guardo.” Schiacciò con il pollice il tasto PLAY. Guardò. All’inizio della registrazione c’erano solo puntini bianchi e neri e grigi che vorticavano sullo schermo. L’audio mandava un ronzio, come di zanzare impazzite dentro una bottiglia. Trenta secondi dopo, apparve una scritta: BENVENUTA AL “MARCO CIRRONIS SHOW”! Dopo aver letto quella frase, Lara venne travolta dal panico. Marco? Premette il tasto PAUSE. Rimase allibita davanti allo schermo, le labbra tremanti. Provò a riflettere con calma. Innanzitutto, perché il cuore le batteva così forte? Marco. Eh, già, Marco. Era il suo ex. L’aveva lasciato da quasi due mesi e… Oh, Dio, no! Non così! ….per lui era stato difficile accettarlo, non voleva capire che quando un rapporto
si è rotto non si può aggiustare. È finito. Non per quello! Quello che c’era stato, tra loro, ormai non c’era più. “No!” urlò Lara, in preda alle lacrime e allo sgomento. Strinse il telecomando, fino a sbiancarsi le nocche. Toccò il tasto PLAY e il nastro riprese a scorrere. Non riuscì a trovare la forza per fermarlo. La parte morbosa, oscura e masochista, della sua personalità voleva vedere. Qualcosa in lei sperava che alla fine di quel nastro non ci fosse quello che aveva intuito. La scritta sparì e al suo posto apparve il volto di Marco. Era orrendo. Occhi infossati nelle orbite, striati di rosso, la barba lunga e sudicia, pelle esangue. Denti gialli di placca, caffè e nicotina. Un sorriso da brividi. “Ciao… come va?” esordì Marco, la sua voce era tranquilla e rassicurante. Non corrispondeva all’aspetto e soprattutto a quel sorriso. Fissava l’obiettivo con i suoi occhi neri come la notte. Nonostante tutto, il suo sguardo risultava maligno e ipnotico, come se fosse presente in carne e ossa nella cucina di Lara. Dietro la sua testa si intravedeva l’angolo fra due pareti, su una era attaccata una gigantografia di Freddy Krueger. Marco era il gestore di una videoteca. Era un fanatico dei film dell’orrore. Lara conosceva quella stanza, era lì che l’aveva mollato. “Spero meglio di me…” continuò lui, in tono discorsivo. “So a cosa stai pensando, Lara. Stai pensando che il sottoscritto stia per fare una cazzata. Anzi, dal tuo punto di vista penserai che l’abbia già fatta. Giusto? Giusto. Indovinato. Non vinci nulla, però. Dopo aver spedito questa cassetta farò la cazzata. Piangi? Commovente. Quasi quasi piango anche io…” Per qualche minuto non parlò, continuò a fissarla attraverso lo schermo e il tempo. Lara non riuscì a distogliere lo sguardo da quegli occhi stralunati. Si era
accorta che era strano, ma… “Su con la vita!” gridò Marco, all’improvviso, facendola sussultare e strappandole un gridolino. “Com’è il tempo oggi? In che giorno mi guardi? Venti, ventidue? La posta arriva sempre in ritardo, eh? Che effetto fa parlare con un morto? Ecco cosa pensi, ora: se questo stronzetto si è sparato in bocca, sì, farò così, come nei film, qualcuno se ne sarà accorto, no? Allora perché non ho letto la bella notizia sull’Unione Sarda?” Breve pausa. “Indovinato?” Attese la sua risposta e infatti lei rispose: “Indovinato.” Marco annuì e, a quel punto, Lara stava già precipitando nel solito pensiero rassicurante e consolatorio: è solo un incubo! Lui proseguì il suo assurdo monologo. “La risposta alla tua domanda è questa: se a nessuno interessa la tua vita, nessuno si accorge della tua morte. Comunque ò un silenziatore. A quest’ora sto imputridendo, cara mia. Ora che tu mi guardi io marcisco, con le mosche negli occhi, chiuso in questa stanza. È tutta colpa tua Lara! Preferisco morire piuttosto che vivere senza di te. Pensi che non abbia mai fatto nulla per te? Per farti piacere sono pure andato a messa con te! Mi concedi ancora un minuto della tua preziosa attenzione? Ho un’ultima sorpresa.” Marco sogghignò e si sporse verso la telecamera. L’inquadratura traballò, piroettò, andò fuori fuoco. Per un attimo, Lara avvertì il bisogno di vomitare. La scena si bloccò e quello che vide la fece impallidire. “Lo riconosci?” domandò Marco, restando fuoricampo. Oh, no… In mezzo a un lago di sangue a forma di asterisco, del fisico atletico di Sergio
restava poco di integro. La parete retrostante era diventata una specie di museo degli orrori, parti anatomiche inchiodate in ordine sparso. La testa, i lineamenti contratti un una smorfia agonica, era stata mozzata e piantata sul mozzo di un paralume. Una lampadina da 100 watt brillava all’interno della bocca, illuminando le guance come un’oscena abat-jour. Lara chiuse gli occhi. Non voleva più vedere. “Stai guardando? No? Sì?” proseguì Marco, godendosi la sua vendetta postuma. “Questo scemo non ti meritava, fidati. Per salvarsi la pelle, lo schifoso mi ha proposto addirittura di succhiamerlo. Ti devo lasciare. È tutta colpa tua, Lara. Colpa tua. Ti avevo avvisato. Non mi hai creduto? Peggio per te.” Il brusio del pulviscolo bianco-nero riempì la cucina. Premette il tasto EJECT. Frrr. Tak. GUARDAMI. In lacrime, Lara si alzò e chiamò il 113.
34 – ASSUEFAZIONE
La velocità di rotazione del prisma dalle mille sfaccettature aumenta, così come lo scintillio e il brusio elettrico. Ormai ti è difficile organizzare i pensieri in un ragionamento sensato. Se da un lato questo fatto t’intimorisce, dall’altro ti rende quasi immune agli effetti collaterali di tutte le emozioni, di seconda mano, che stai sperimentando. Visione dopo visione, orrore dopo orrore, ti stai assuefacendo. Per scuoterti dal torpore ipnotico hai bisogno di dosi sempre più massicce di adrenalina. Non provi più paura e disgusto, ma una crescente sensazione di gelida apatia. Ci si abitua a tutto. Anche a questo. DLIN-DLON! Ed ecco che si riparte, di nuovo, imprigionati in un vortice caleidoscopico di specchi che non riflettono la tua immagine. DLIN-DLON! Cosa vedrai adesso? Cos’altro è successo a Solus? DLIN-DLON!
35 – LA COSA BRUTTA
La ragazzina premette il camlo, a destra del massiccio portone di ferro verniciato di verde, e si strinse ancor più nel suo parka. Rabbrividì. Proprio come nei romanzi, era una notte di pioggia, tagliata dai lampi e assordata dagli scoppi dei tuoni. Suonò ancora, mentre la pioggia le frustava la schiena. Ho sbagliato indirizzo, forse non è qui… La porta cigolò su cardini mai oliati e iniziò a schiudersi. Uno spiraglio di luce giallognola si riversò sugli scalini della pericolante scala di cemento fradicio e fatiscente che conduceva davanti all’uscio del seminterrato, immerso nella penombra, simile a un bunker della seconda guerra mondiale. Sulla soglia comparve un uomo. Circa sessantacinque anni, radi capelli brizzolati e grossi occhiali alla Craxi appollaiati su un naso a patata, ricoperto da una miriade di capillari rotti. Non era corpulento, ma aveva il ventre rigonfio del bevitore di birra. La pelle molliccia e lucida di unto. “Cosa vuoi?” disse l’uomo, esaminandola dalla punta delle scarpe a quella dei capelli (castani, quasi biondi, dopo un’estate al sole). Il tanfo alcolico nel suo alito faceva supporre che, oltre a essere buon amico dalla bière, fosse anche in ottimi rapporti con lo scotch doppio malto. Non era quello che si aspettava. La ragazza esitò, strusciò le scarpe sullo scalino viscido. Forse è meglio che me ne vado. Ah, sì? Brava. E dove vai? “Allora?” ripeté l’uomo. Le lenti degli occhiali si erano appannate. “Datti una mossa. Non vedi che sta piovendo?” Lei arrossì e abbassò lo sguardo. Lo rialzò quasi subito. “Sono la… ho chiamato questa mattina. Ricorda?” disse, con voce carica di
disagio. “Mi ha detto che… potrebbe aiutarmi.” L’uomo si ò una mano fra i capelli scarmigliati e sorrise. Un sorriso che alla ragazza sembrò imbarazzato. “Sì.” “Senza che nessuno venga a saperlo?” chiese lei. “Nessuno!” ribadì lui. “Posso garantirtelo, ragazza. Sarà un nostro segreto. Anzi, il tuo segreto…”. Sorrise, allo stesso modo di poco prima. La pioggia tamburellava e scivolava sulla porta. “Quando…” bisbigliò la ragazza, impaurita. Era logico. Non stava mica andando al cinema a vedere un film di Walt Disney. “Anche subito, se hai fretta!” sentenziò l’uomo, poi si fece da parte e invitò la ragazza a entrare con un gesto della mano. “Qui fuori si gela. È più comodo e sicuro parlare del come e del quanto nel mio studio. Prego, si accomodi signorina.” Lei attraversò la soglia con o incerto. Lui chiuse la pesante porta di ferro cigolante, la sprangò con un chiavistello e un attimo dopo le fece strada lungo un corridoio stretto e poco illuminato da una lampadina nuda. Le pareti erano di cemento, impregnato d’umidità e striato dai segni lasciati dalle tavole usate dai muratori per tirarle su. I rumori dell’acquazzone si attenuarono man mano che si inoltravano nelle viscere contorte di quell’edificio, costruito quando Mussolini era ancora il Duce. “Prego, prego!” continuò a ripetere l’uomo, che camminava con le mani infilate nelle tasche posteriori dei Levi’s sbiaditi e lisi sulle ginocchia. Un lembo dell’economica camicia in acrilico gli sporgeva fuori dalla cintura, proprio sotto il rigonfiamento della pancia. “Questo è l’ingresso secondario. Io abito di sopra, ma mi piace stare quaggiù. C’è più silenzio. Siamo quasi arrivati.” La ragazza sospirò. Aveva i piedi bagnati e le dita delle mani congelate. Non vedeva l’ora che tutta quella storia fosse finita… E intanto ricordò com’era iniziata. Quattro mesi prima. Nella prima metà dell’agosto 1993.
Arrivò davanti alla spiaggia di Maladroxia, verso le dieci e mezzo, con il suo malconcio Sì della Piaggio. Quel ciclomotore (usato) era il regalo di suo padre per il sedicesimo compleanno e quella mattina di due anni dopo era quasi fuso. Quando lo spingeva a manetta, produceva un fracasso infernale. Parcheggiò la carcassa – così lo avevano soprannominato i suoi compagni di scuola – appena fuori dell’arenile e, dopo aver chiuso il lucchetto della catena antifurto, fra i raggi della ruota posteriore, raggiunse gli amici e le amiche, che si erano radunati sotto un vasto ombrellone giallo presso il bagnasciuga. Il bordo sfrangiato ondeggiava nella brezza. “Eccola!” esclamò una delle ragazze. “È arrivata Gianna!” Lei si avvicinò all’allegra brigata, ciabattando sulla sabbia rovente. Un vago sorrisetto sulle labbra lucide di burrocacao. “Ciao!” disse, ando in rassegna i volti. “Qui da molto?” “Un’ora…” rispose Carla, la ragazza che l’aveva avvistata. L’amica esibiva una splendida abbronzatura, che faceva risaltare i suoi enormi occhioni blu. Gianna l’aveva sempre invidiata. Ovviamente non lo aveva mai fatto trasparire. “Ah, sì? Siete venuti con il pullman?” s’informò, mentre si sfilava le infradito dai piedi con noncuranza artefatta. “Ci ha dato un aggio Steven…” spiegò uno dei ragazzi. Paolo Manca, quello che due anni prima era stato compagno di classe di Simona Fadda. Quella ragazza di Solus che si era suicidata buttandosi sotto un autobus delle F.M.S. “La Toyota gialla di fianco alla tua carcassa è sua. Bella macchina, vero?” Gianna ignorò l’ironia da quattro soldi dell’amico e si levò i pantaloncini di jeans, ricavati da un vecchio paio di Carrera, con tutta la sensualità di cui era capace. Voleva far venire la schiuma alla bocca ai ragazzi e schiattare di invidia le ragazze. Ci riuscì. Escludendo, come sempre, l’insuperabile Carla Farci.
“Carina…” commentò, fingendosi disinteressata. “Sì” confermò Paolo, mangiandosela con lo sguardo. “Chi è questo Steven?” domandò Gianna, facendosi are sopra la testa la canotta. Rivelò così, nella sua interezza, il bel corpicino snello e atletico, con tutte le curve giuste al punto giusto, coperto poco da un ridottissimo bikini color pesca. Con velata soddisfazione, Gianna constatò che ogni maschio nei paraggi le sbavava addosso. Le donne, potendo, l’avrebbero arsa viva. Era una bella sensazione. Carla restò imibile, stesa sul suo asciugamano, con la sua regale magnificenza. Fu proprio lei a rispondere alla domanda. “Mio cugino…” disse. “È un americano.” “Però! Non sapevo che avessi un cugino oltreoceano.” “Zia Lucia, la sorella di mio padre, ha sposato un ufficiale italo-americano. È il daddy di Steve, come si dice. L’ha conosciuto a La Maddalena. Era di stanza nella base NATO. Ora vivono a Pittsburgh. È la sua prima volta in Sardegna. Il prossimo anno andrà a Yale. L’ho ospitato in casa nostra.” “Che bella storia. Dov’è Steve, adesso?” s’informò Gianna, incuriosita, inginocchiandosi sulla sabbia scintillante di quarzo e togliendo un asciugamano policromo dal suo zaino Invicta. “Sta facendo una nuotata. Ah, eccolo lì!” intervenne Paolo, che pendeva dalle labbra di Carla fin dai tempi dell’asilo. Indicò un tipo alto, muscoloso e sexy, che emerse dall’acqua cristallina come una divinità greca. Sgocciolante, camminò verso di loro a o svelto. Tutti gli occhi puntarono su di lui. Gianna lo fissò, affascinata. Un brivido le incendiò il ventre. Era il classico ragazzone americano: robusto, biondo, occhi azzurri come il cielo d’estate. Sembrava il tipico personaggio dei romanzi della collezione Harmony
che sua madre leggeva da una vita. Il principe azzurro che sorge dalle limpide acque del mare sardo. Un principe azzurro nato in un paese libero e cresciuto a forza di integratori vitaminici e dentifrici al fluoro. “Ciao!” esordì Steven con un accento marcato, mettendo in mostra una dentatura perfetta. La ammirò, senza nemmeno cercare di nascondere il suo apprezzamento. “Tu devi essere…” Lei tese la mano, rapida e decisa. “Gianna. Piacere!” Lui la strinse con delicatezza e sembrò non accorgersi che il suo palmo era madido di sudore. Che cavolo le succedeva? “Steven. Cugino di Carla. Così sei la famosa Gianna? Dove hai lasciato la… carcassa?” esibì ancora il suo candido sorriso. La faccia di Gianna diventò rossa. Steven rise. “Scherzo!” la rassicurò, dandole un buffetto sulla guancia. Paradossalmente, si ritrovò a ridere anche lei. La pelle, dove lui l’aveva toccata, avvampava come dopo una scottatura. Dopo essersi un po’ ricomposta, Gianna si sentì leggermente cretina. “Lo so, lo so, il mio motorino è davvero un rottame." “Tu sei molto carina, invece…” osservò Steven, serio. “Ah?” fece lei, perplessa. Non era sicura di aver capito. “Ho detto che sei molto carina.” Gianna chinò lo sguardo sullo smalto rosso che decorava le unghie dei suoi piedi. Era emozionata, eccitata e confusa. Oh, sì! Ho capito bene! “Grazie…” sussurrò, cercando di tenere la voce ferma.
Steven l’abbagliò con un altro sorriso. “Facciamo il bagno?” Parlava bene l’italiano, per essere americano.
Questo fu il principio della loro relazione. Il giorno dopo si erano già “messi insieme”. Gianna era al settimo cielo, sia perché lui era un ragazzo fantastico, sia perché finalmente era riuscita a intaccare la sfera emozionale della imperturbabile Carla. Quello sì che era bellissimo! Il resto delle sue amiche nascose sotto il letto bambole voodoo con le sue fattezze e le riempì di spilloni. I ragazzi che lei di solito frequentava si mostrarono distaccati e freddi nei suoi riguardi e ignorarono Steven. Tuttavia, lei sapeva che erano molto gelosi… forse addirittura l’odiavano. Lei ne era felice. Farsi invidiare… Questo era il bello della vita. Farsi invidiare da tutti. L’unica cosa da scongiurare era l’indifferenza.
Gianna e Steven, come da programma, ebbero il loro primo rapporto sessuale dodici ore dopo l’incontro sulla spiaggia. Si erano appartati, con la Toyota gialla di Steven, in una zona poco frequentata della costa, a pochi chilometri da Solus. Intorno a loro, nell’oscurità rischiarata dalla luna piena e dalle stelle di agosto, la macchia mediterranea e la pineta erano spazzati da un forte vento di scirocco: quello che gli anziani del Sulcis chiamavano Bentu ’e soi. I fari del fuoristrada illuminavano due strisce di vegetazione e si perdevano nel mare brulicante di punti luminosi. In lontananza si intravedeva la sagoma dell’isola di Sant’Antioco. Le lampade a carburo dei pescatori brillavano sull’orizzonte. Il rumore ipnotico della risacca si confondeva con la musica pop di Phil Collins che usciva dalla costosa autoradio, sintonizzata su Radio Luna. “No, dai… non fare così, Steven…” mormorò Gianna, un po’ impaurita e molto accalorata. “Forse è meglio che aspettiamo.” Steven, audioleso come la maggior parte dei ragazzi in tali frangenti, continuò a baciarla e frugarle i seni sotto la canotta. Pareva avere cento mani e mille dita. Una piovra. “Cosa vuoi aspettare?” sibilò, con voce roca e affannata.
“Il matrimonio?” ironizzò lei, mordendogli il collo. “Sciocca!” esclamò lui, ridendo. “Dai, rilassati.” Le infilò una mano nei pantaloncini e iniziò ad accarezzarla. Gianna si stupì di come lui avesse potuto baciarla, parlare e accarezzarla, senza interrompere nessuna delle sue attività. Già. “Ehi!” sbottò, fingendosi indignata. “Cosa credi di…” “Sssst!” la zittì lui, come si zittisce qualcuno che parla al cinema. “Fai come ti ho detto. Rilassati. Non te ne pentirai…” La sua voce era così suadente, le sue carezze così deliziose e i suoi baci così zuccherosi, che Gianna non poté fare a meno di rilassarsi. I concetti di Aids e anticoncezionali non sfiorarono mai la sua mente. Si concesse a Steven, senza farsi problemi. Oh, sì, l’avrebbero invidiata anche per quello. Per lei era la prima volta. Tutto sommato (nonostante i lividi), non fu così spiacevole.
Le cose spiacevoli arrivarono venti giorni più tardi. La prima cosa spiacevole fu la constatazione che il suo ciclo era in ritardo, con conseguente angoscia e relativo senso di colpa. La seconda cosa spiacevole fu il test di gravidanza (comprato in una farmacia di Iglesias, dove non conosceva nessuno) e scoprire di essere incinta. Cosa che fece aumentare in modo esponenziale l’angoscia, il senso di colpa e la paura che i suoi genitori potessero scoprirlo. Già immaginava il padre (Carabiniere) incazzato nero e la madre (casalinga) in lacrime. Uno scandalo assicurato a Solus. La terza cosa spiacevole (ma molto meno delle altre due) fu che Steven la mollò.
Proprio così. Di nascosto, senza lettere o telefonate, prese armi e bagagli e Toyota gialla e scomparve. Probabilmente era tornato nel suo paese libero, i fottutissimi Stati Uniti d’America. Non si sarebbe mai più fatto vivo. Fine del flirt estivo di un’ingenua ragazza sarda, fottuta – in senso letterale – da un ignobile principe azzurro yankee. Lui si era sollazzato e le aveva lasciato la pagnotta nel forno, sotto forma di un embrione che si sviluppava, giorno dopo giorno, nel suo utero. Se qualcuno avesse chiesto a Gianna, in quei giorni, quante volte avesse definito Steven figlio di puttana, chiusa nella sua stanza, mentre calde lacrime le solcavano la faccia, lei avrebbe risposto che non lo sapeva, ma che di sicuro il numero era simile a quello della pubblicità dei salami: milioni di milioni.
Dalla mattina in cui, chiusa nel bagno, aveva scoperto di essere gravida, alla notte in cui suonò il camlo a destra del portone di ferro, Gianna visse nel terrore che il suo segreto fosse scoperto. Con le già citate conseguenze. Per due mesi non seppe che cosa fare, poi si ricordò che esisteva una cosa chiamata aborto. Il pensiero che fosse una scelta sbagliata e la paura riuscirono a trattenerla per un altro mese. Alla fine di quel mese si rese conto che, se non si decideva subito a fare la cosa brutta, tutto si sarebbe complicato: prima o poi il suo stato sarebbe stato evidente e il suo segreto sarebbe diventato di pubblico dominio. La Piazza di Solus avrebbe gradito. Cos’altro poteva fare? Poteva nascondere la gravidanza fino all’ultimo, partorire da sola in un cesso puzzolente della stazione e poi gettare il bambino in un cassonetto per la spazzatura? Poco probabile. Quelle erano cronache che si leggevano sui giornali. Fatti veri, certo, ma lei non sarebbe mai riuscita a farlo. No. Non poteva. Era schifoso. E non poteva neanche tenere il bambino. Sua madre ne sarebbe morta, suo padre l’avrebbe sbattuta fuori di casa a forza di calci nel culo e non c’era futuro per una ragazza-madre non autosufficiente. Per sopravvivere sarebbe stata costretta a battere i marciapiedi, ma i soldi non sarebbero mai bastati per lei, il bambino e il magnaccia. Non poteva tenere quel bambino.
L’unica soluzione possibile era fare quella cosa brutta. Farla segretamente e al più presto. Non c’era altro modo per uscire da quella situazione. Una volta fatta la cosa brutta, tutto si sarebbe aggiustato, tutto sarebbe ritornato come prima. Niente bambino, niente nausee, niente scandalo, niente prostituzione. Tutto risolto. L’unica differenza era la sua perduta verginità. Oh, beh, pazienza. Una volta presa la decisione, non restava altro che trovare un posto dove si potesse fare la cosa brutta in perfetto anonimato. Non fu difficile procurarsi tutte le informazioni. A quanto pareva, non era la prima a Solus a trovarsi nei guai. E non sarebbe stata neanche l’ultima. Di persone come lei e Steven era pieno il mondo.
Adesso, quella triste storia stava per concludersi. Forse la cosa brutta, non era poi così orribile. “Eccoci” disse l’uomo aprendo una porta. “Prego, entri!” Rabbrividendo, mentre una gelida goccia di pioggia o sudore le percorreva il solco della spina dorsale, Gianna entrò nella stanza in fondo al corridoio. Il dado era tratto: non poteva tornare indietro. C’erano due lunghi neon ronzanti sul soffitto, picchiettati da una sostanza nera che era meglio non identificare. Non in quel momento, perlomeno. Le nude pareti bianche riflettevano la luce in modo da renderla quasi accecante. Sulla destra c’era un tavolo ricoperto da una tovaglia di plastica a scacchi rossi e bianchi. Sulla tovaglia era posta una bottiglia mezza vuota di Stock 84 e un paio di libri in edizione economica. Non riuscì a distinguerne i titoli. A sinistra, un letto somigliante a quelli dell’ospedale di Carbonia. Sulla parete di fronte, sotto a un dozzinale crocefisso, era attaccata la modesta cornice di una pergamena. Il riflesso dei neon sul vetro impolverato le impedì di accertarne la natura. Un altro piccolo quadretto, sistemato accanto alla misteriosa pergamena, ritraeva il volto austero di Padre Pio. L’incongruenza di quell’immagine era raccapricciante. Al centro della stanza c’era un minaccioso lettino d’ospedale e uno di quegli
attrezzi di lucido acciaio cromato che si vedono nei telefilm ambientati negli ospedali. Gianna lo riconobbe subito: la madre l’aveva portata dal ginecologo, due anni prima, per i sintomi di un’infezione vaginale. Tutto si era risolto per il meglio grazie a una pomata antimicotica. In tutto c’era stata due volte. Ma quell’attrezzo lo ricordava bene. E anche l’umiliazione che aveva provato. Doveva cercare di non pensarci, adesso. L’uomo sedette dietro al vecchio tavolo, sbuffò, spianò un’increspatura della tovaglia e afferrò il collo della bottiglia. Bevve a canna. Il suo ispido gargarozzo andò su e giù. Poi disse: “Diamoci del tu, signorina, va bene? Non stare impalata! Siediti. E rilassati.” Lei si avvicinò, prese l’unica altra sedia nella stanza e vi si sedette. Era scomoda e dura come le seggiole della scuola. “Siediti…” ripeté l’uomo, sorridendo. “E rilassati.” Preoccupata, Gianna sogghignò sarcastica e rifletté: l’ultima volta che mi hanno detto di rilassarmi l’ho presa nel culo. Accavallò le lunghe gambe e fissò l’uomo in paziente attesa che la cosa brutta sistemasse tutto. Lui bevve un altro sorso. Poi si levò gli occhiali e li asciugò strofinandoli nella camicia, con il risultato di sporcarli di più. Inforcò di nuovo gli occhiali, che gli restarono un po’ storti sul naso. Il riflesso sulle lenti era accecante. Senza preavviso, domandò: “Questo è il tuo primo aborto?” Imbarazzata e colta di sorpresa, Gianna impiegò un paio di secondi per trovare le parole giuste, anche se la parola era una. “Sì…” rispose. Mi hai preso per una puttana? L’uomo annuì. “Prima gravidanza?” “Sì.” “Quanti anni hai?”
“Diciotto.” “Quante persone sanno che sei incinta?” “Nessuna. Lo so io. E basta.” “Mmmh. Chi ti ha suggerito di venire qui?” Gianna prese tempo. Quelle inaspettate domande a raffica l’avevano stordita. Non voleva dire nulla più del necessario. Per un attimo, le mancò l’aria. “Un’amica…” rispose, ed era la verità. Era la stessa amica che le forniva l’alibi per quella notte. Ufficialmente, cioè per i genitori, lei era andata al cinema con questa amica per vedere La Bella e la Bestia. Avrebbe ato la notte da lei. Plausibile. Salvo complicazioni. “Capisco” disse lui, annuendo. Accarezzò pensieroso il collo della bottiglia. “Questa amica… conosce la situazione?” “Lei sa solo che mi serviva una copertura per questa notte. Crede che me la stia sando con un ragazzo di Piscinas. Mi deve un favore. Sa come vanno queste cose, no?” “No, non lo so…” borbottò lui, con voce atona. “Però, questa amica come sapeva della mia… chiamiamola piccola attività?” “Perché l’ha utilizzata sua sorella. Un paio di anni fa. Si era fatta fottere anche lei, come me, da un emerito figlio di troia!” Un sorriso leggero increspò le labbra dell’uomo. Ingenuamente, Gianna interpretò quel sorriso impercettibile come una manifestazione di simpatia nei suoi confronti. In realtà i pensieri dell’uomo, al momento, erano tutt’altro che simpatici. “Già, già. So come vanno queste cose. Stessa storia, diversi attori…” commentò
lui, tamburellando con le dita sul bordo del tavolo. Sospirò e poi dichiarò: “Ora devi dirmi la verità. Prima di venire qui da me, hai forse tentato di abortire per conto tuo?” Lei sgranò gli occhi, allibita. Si poteva abortire da soli? Come? “Io… non capisco. Cosa intende dire?” balbettò, confusa. Dopo aver intrecciato le dita dietro la nuca ed aver mostrato enormi patacche di sudore sotto le ascelle, l’uomo spiegò quello che intendeva. Lo fece in modo distaccato, quasi fosse insensibile alla brutalità delle sue stesse frasi. “Ci sono molte ragazze della tua età che prima di rivolgersi a un abortista, legale o illegale che sia, prima tentano di fare da sole…” disse, con un tono di voce tra l’annoiato e il disgustato. “Con risultati qualche volta tragici. Anzi, sempre tragici. Molte sono morte nel tentativo di procurarsi un aborto. Alcune le hanno ritrovate, chiuse a chiave nel bagno, distese nella vasca piena di sangue. Stringevano in mano il ferro da maglia insanguinato che avevano immaginato di utilizzare per strapparsi fuori l’incomodo. Invece, sono solo riuscite a perforarsi l’utero e morire dissanguate. Queste ragazze hanno parecchia fantasia. Usano di tutto: forchette, spiedini, attaccapanni, maniglie, pugnali. Pazze! L’unica cosa che riescono a pensare è questa: devo riuscire a cavarmi fuori quella cosa. Ci riuscirò, a qualunque costo! È difficile crederlo ma è così. Una specie di psicosi. Non è compito mio trovare le cause di tale psicosi, ma credo che una delle cause maggiori sia la nostra cultura o meglio, in-cultura. Dicevo? Queste psicopatiche arrivano al punto di riempirsi la vagina di sostanze velenose. Addirittura il mercurio dei termometri! Infatti ne escono avvelenate, intossicate, morte. Ma a loro non importa, vogliono farlo fuori e basta!” Smise di parlare di colpo, quando si accorse che Gianna era sbiancata. Aveva gli occhi dilatati e lucidi di lacrime represse. Forse non aveva intenzione di terrorizzarla, ma ci era riuscito. Eccome. “Scusami per il monologo…” mormorò, afferrando di nuovo la bottiglia di Stock84. “Parlo troppo. Mi sono lasciato andare. La morale del discorso, comunque, è che hai fatto bene a non provare il metodo fai-da-te. Non è una
buona idea.” Ingollò una lunga sorsata, poi soffocò un rutto con il pugno. Molto fine. Raffinato. “Insomma…” aggiunse, ammirando la bottiglia ormai quasi vuota. “Sei stata furba a venire qui da noi. Oh sì, molto furba!”. Rise. Noi? Gianna cominciò a sentirsi un po’ a disagio. Era ancora in tempo per andarsene, se voleva. Forse se, invece di, poteva… Ah, sì? Brava cocca di mamma! E poi che fai? Ti barrichi nel bagno, ti stendi nella vasca piena di acqua bollente e cerchi di tirartelo fuori con lo sturalavandini? Oppure provi ad annegarlo con il “Vim” liquido? Davvero? Chi fa da sé, fa per tre, giusto? Non sei affatto furba, cocca. Fissò l’uomo dietro il tavolo. Quello strano tizio era l’uomo della cosa brutta e, ubriaco o no, era più bravo di lei nel portare a termine l’operazione. Quindi, coraggio! Fai fuori l’incomodo una volta per tutte! Con aria di sfida, affermò: “Allora? Quando si comincia?” Era fatta. Non poteva più tornare indietro. Poteva solo andare avanti. Come fanno tutti, d’altronde. Vanno avanti. “Non avere fretta…” ribatté lui, mentre consultava l’orologio che aveva al polso. “Ancora qualche domanda. Aspetto la mia, ehm, assistente. Quando hai avuto l’ultima mestruazione?” Gianna mormorò qualcosa a bassissima voce.
“Eh?” “Tre mesi e mezzo fa, circa..” ripeté, tenendo il capo chino. “Bene!” sentenziò l’uomo, battendo i grossi pugni sul tavolo e alzandosi in piedi. Si stiracchiò la schiena. “Gruppo sanguigno?” “Zero.” “Rh?” “Positivo.” “Sangue dal naso?” “Mai successo.” “Hai contratto qualche malattia ultimamente?” “No, nessuna.” “Ottimo. Ti viene spesso la febbre?” “Raramente.” “Il tuo ciclo è regolare?” “Sì, più o meno.” “In quei giorni stai molto male?” “Non molto…” confessò Gianna. “A volte esagero, per giustificarmi a scuola o per evitare qualche lavoretto a casa.” “Mmmh…” mugolò lui, camminando avanti e indietro per la stanza. “Le condizioni ideali. Non ci saranno complicazioni." “Sono contenta per me!” esclamò Gianna, rinfrancata. “Se tutto va bene, potrai andare via domattina. Altrimenti…” disse l’uomo, accostandosi al lettino ginecologico e sistemando alcuni attrezzi. L’acciaio
luccicò e tintinnò. “Altrimenti niente!” intervenne Gianna, stringendo i pugni. “Non mi porti sfiga! Me ne andrò domani. Il mio alibi non…” “Calmati!” proruppe lui, continuando ad armeggiare con il lettino. “Non porto sfiga a nessuno io. Volevo solo avvertirti che a volte ci sono complicazioni più o meno serie. Comunque, a me non importa. Se vuoi andare, vai. Sai quanto ti costa?” “Certo.” “Hai i soldi con te?” “Sicuro. Pagamento anticipato?” “Ovvio. Metti il contante lì…” indicò il tavolo con il pollice. Lei pescò i soldi dalla borsetta e li posò sulla tovaglia. “Ecco…” disse, acida. “Vuole contarli o si fida?” L’uomo si voltò. L’espressione del volto indecifrabile. “Tu ti fidi?” Gianna restò in silenzio. Proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta. “Avanti! È aperto! Entra!” urlò l’uomo, seccato. Entrò una donna sui quarant’anni, bassa e grassoccia. I capelli tinti in un’improbabile sfumatura di rosso Tiziano. Labbra sottili e grinzose, poco inclini al sorriso spontaneo. Lo sguardo, sotto le lunghe ciglia irrigidite dal troppo mascara, era vigile e penetrante. “Ciao, amore…” esordì la donna, varcando la soglia. Sotto l’impermeabile indossava un camice verde pallido.
Una mascherina da chirurgo le pendeva sul seno floscio. L'uomo scambiò una rapida occhiata d’intesa con la donna. “Qual è il tuo nome, figliola?” chiese quest’ultima. “Sonia” mentì lei, decisa, senza tradire incertezze. “Bel nome falso. Allora… per te, io sono Teresa.” L’uomo produsse un verso di disapprovazione. “Oh, non fare caso a lui, Sonia…” osservò Teresa, scrutando il piccolo mazzetto di banconote posato sul tavolo. Si avvicinò, lo prese, contò e sorrise amabile. “È un orso scorbutico.” Infilò i contanti nella tasca del camice. “Hai già fatto l’anamnesi, amore?” “No, stavo aspettando te!” rispose lui, ironico. “Certo che sì. Prepara la paziente. Infilo il camice e poi possiamo iniziare.” Uscì dalla stanza. “Devi spogliarti, Sonia, lo sai no?” disse Teresa, suadente. Gianna annuì, non pensava certo di abortire vestita e non era il caso di fare la pudica. Era come dal ginecologo. Beh, quasi. Si spogliò in fretta. Canticchiando sottovoce la canzonetta vincitrice dell’ultimo Festival di Sanremo, Teresa sistemò i suoi abiti in un armadio a muro e le fornì un camice di carta giallo, molto largo e soffice al tatto. Con quell’affare addosso si sentì ridicola. “Ora stenditi sul lettino…” la invitò Teresa, indicandolo. Lei ubbidì.
“Solleva le gambe. Così. Piegale e infila i piedi lì. Brava.” La donna si appostò sul fianco destro del lettino e le sorrise. Era una posizione comica. Da ridere. Posizione ginecologica, che so! Le sue amiche non l’avrebbero certo invidiata per questo. “E adesso?” si informò, scostandosi una ciocca dalla faccia. Con una smorfia, Teresa si infilò uno stetoscopio intorno al collo. Era una donna piuttosto bizzarra. “Altre domande.” “Quali?” “Hai bisogno di urinare? Defecare?” “No.” “Sicura?” “Sicura.” “Va bene.” Indossò gli auricolari, alitò sul piattino dello stetoscopio per riscaldarlo e le auscultò il cuore per un minuto. Parve soddisfatta. Subito dopo, prese un sottile termometro e glielo ficcò in bocca. Mentre attendeva il responso della temperatura, le misurò la pressione sanguigna con uno sfigmanometro digitale. Rapida e sbrigativa. Per concludere, controllò il termometro, lo scosse per azzerarlo e lo rimise a bagno in un bicchiere pieno d’alcol rosato. “Tutto bene?” mormorò Gianna, preoccupata. “Benissimo.” Poco convinta, Gianna sospirò. Nello stesso istante, la vecchia porta si aprì cigolando e Antonio, l’uomo della
cosa brutta, rientrò nella stanza. Indossava anche lui un camice verde, portava la mascherina sulla faccia e un cappuccio di plastica sui capelli. Teneva le mani in alto, lontano dal corpo. Pareva uno dei chirurghi della serie General Hospital. “Fatto tutto?” domandò. “Fatto!” replicò Teresa, estraendo due paia di candidi guanti di lattice da una scatola. “Direi che possiamo procedere.” “Temperatura?” “Trentacinque e cinque.” “Bene. Frequenza cardiaca?” “Normale.” “Pressione?” “I valori sono nella norma.” “Ottimo! Questa ragazza è in perfetta salute.” Mentre parlavano, Teresa aveva infilato i guanti ad Antonio e viceversa. Entrambi se li aggiustarono sulle dita, provocando risucchi e schiocchi plastici degni di una vera sala operatoria. Una potente lampada si accese sulla testa di Gianna. Era così forte che dovette chiudere gli occhi. Avvertì del movimento intorno a lei e un tintinnio metallico. Teresa: “Sei pronto, amore?” Antonio: “Anestesia totale?” “Non so. Preferirei la locale. Sonia, tu quale vuoi?” Tenendo gli occhi ben serrati, Gianna ci pensò su un attimo.
Farà male, sicuramente. E poi non voglio vedere. Sapere. Si, meglio la totale, in fondo. Quando mi sveglio è tutto fatto! “Totale!” esclamò, la voce strozzata da un groppo in gola. Antonio: “Lo immaginavo. Rispondete quasi tutte allo stesso modo. Pensaci tu, Teresa. Io frattanto la disinfetto.” Teresa: “Ho già preparato l'occorrente. Ci vorrà un minuto.” Gianna cercò di concentrarsi, di prepararsi psicologicamente a quello che le stava per succedere. Tuttavia, quando lui la toccò lì per disinfettarla, non poté fare a meno di sobbalzare. Piena di vergogna, sopportò quello che stava accadendo laggiù. Strinse gli occhi più forte. Adesso stava sudando. Un minuto dopo, Antonio disse: “Pronta per l’anestesia?” “Prontissima…” rispose Teresa. Ostinata, Gianna continuò a tenere chiusi gli occhi. Era tesa come un tamburo, muscoli e nervi induriti dalla tensione. “Procediamo, allora.” Percepì il tocco soffice delle mani di Teresa. Erano fredde e strane. Stupida! Ha i guanti di lattice, non ricordi? Un lieve pizzicotto nell’incavo del gomito sinistro. “Così non va…” disse la donna, con tono di rimprovero. “Sei rigida. Non posso farti l’iniezione, rischiamo di spezzare l’ago nella vena. Concentrati sulla respirazione. Rilassati.” Il prossimo che mi dice “rilassati” lo ammazzo! Innervosita, Gianna inspirò a fondo, poi espirò dalla bocca.
“Brava, così. Brava, rilassati…” la incoraggiò Teresa. Cazzo! Inspirò. Espirò. “Sì, ora va bene.” Rumori imprecisabili alla sua sinistra. Oh Dio! Sta per bucarmi, sta per bucarmi! “Teresa!” sbraitò Antonio, impaziente. “Quanto ci metti?” Una fitta al centro del braccio, dura e gelida. L’ago che entrava. Pressione, come se qualcosa le si gonfiasse sottopelle. “Ho fatto. Ho fatto. Non parlarmi in quel modo!” Bagliori violacei esplosero nel buio dietro le sue palpebre. L’oblio dell’anestesia totale era prossimo. “Calmiamoci…” brontolò Antonio. “ami lo speculum.” Il fruscio dei camici. Movimento. Tintinnio. Rilassati cocca rilassati cocca rilassati cocca rilassati. Brusio sordo nei timpani, come quello dentro le conchiglie. “Andata?” La voce di Antonio echeggiò come in una tomba. Mi sta ficcando dentro quel coso freddo. Lo speculum. Devo rilassarmi. Sto andando… “Quasi…” Teresa. Da lontano, molto lontano, lontanissimo. … nel buio, rilassante buio, è li che vado…
“Collegala all’E.C.G. ” … a rilassarmi sempre, durante… “Prepara i tamponi vaginali e dammi il cucchiaio smusso.” … un aborto. L’oblio l’accolse nel suo grembo, caldo e rassicurante.
Dopo il raschiamento, Gianna venne ripulita e disinfettata. Teresa le applicò una medicazione protettiva e assorbente. Subito dopo Antonio e Teresa trasferirono la ragazza, ancora incosciente, sullo scomodo lettino d’ospedale e la coprirono con una ruvida coperta trafugata da un traghetto della Tirrenia. La tennero a turno sotto sorveglianza. Per ingannare il tempo, seduti intorno al tavolo da cucina, improvvisarono una partita a Scopa. L’aborto clandestino non ebbe nessuna complicazione. Apparentemente.
All’una di notte, Gianna si svegliò dall’anestesia urlando. L’urlo fece trasalire Teresa sulla seggiola, sulla quale si era assopita. A sua volta emise un grido, simile al verso di un uccello. Le si avvicinò. “Cosa c’è? Hai fatto un brutto sogno?” La ragazza si mise a sedere sul letto, ansimante, ciocche di capelli le pendevano davanti alla faccia stravolta. Respirava a boccate rapide e sibilanti. Le labbra prive di colore. “Cosa c'è?” ripeté la donna, premurosa, scostandole i capelli dagli occhi. Erano spalancati, enormi, striati di rosso. “Qualcuno… qualcosa…” farfugliò Gianna, la bocca piena di saliva. “Scivolava… nell’oscurità. Era… era viscido e mi voleva uccidere. Strisciava, sibilava, come un serpente. Era schifoso!”
Teresa cercò di rincuorarla come meglio poteva. Cioè poco. Alla fine, a forza di carezze e cazzate sdolcinate, riuscì a persuadere Gianna che era solo un incubo indotto dall’anestesia e che non c’era proprio niente che strisciava e sibilava nei paraggi. Andava tutto bene. Nessuno voleva farle del male. Tranquillizzata dalle moine della donna, Gianna posò la testa sul cuscino. Nel giro di pochi istanti si addormentò. La donna, per nulla turbata, continuò la sua veglia. Antonio, crollato sul tavolo, la testa affondata tra le braccia e gli occhiali appollaiati sulla fronte, non smise mai di russare.
Verso le sei e tre quarti del mattino, Gianna stava infilandosi dentro i suoi jeans. L’inguine le faceva male da impazzire e la medicazione prudeva. In ogni caso, si vestì in fretta e furia. Con la mente ancora annebbiata e lo stomaco in subbuglio, mangiò svogliata la colazione che Antonio le servì in un vassoio di plastica verde, graffiato e con un angolo sbreccato. La colazione consisteva in una tazzona del Mulino Bianco, quella con le rondini svolazzanti, piena di caffelatte e un croissant ripieno di marmellata di fragole. Poi, tanto per gradire, un paio di pastiglie bicolori. “Cosa sono?” domandò Gianna, tenendole nel palmo. “Antibiotici. Per le infezioni…” spiegò Antonio, mettendole davanti alla tazza di caffelatte una grossa scatola. Un timbro rosso spiccava su un lato della confezione: CAMPIONE GRATUITO -VIETATA LA VENDITA. “Devi prenderne due. Tutti i giorni, per un mese. Ti faranno bene. Leggi le istruzioni all’interno se vuoi..” L’uomo della cosa brutta la fissò dritto negli occhi. Gianna sostenne quello sguardo indagatore. “Problemi?” “Non potevi metterti pantaloni più larghi?” replicò lui.
“Non ci avevo pensato”, si giustificò lei, sentendosi stupida. “Pensare non è facile…” commentò lui. “Senti dolore?” “Ho l’inguine in fiamme. Può darmi della Novalgina?" “Quella no. Ma un altro antidolorifico sì. Dopo.” Gianna si morse il labbro inferiore e continuò a sopportare. “Sanguini ancora?” “Un po’.” “Appena puoi, mettiti una borsa di ghiaccio sulla pancia.” “Lo farò.” “Sicura che stai abbastanza bene?” “Posso camminare senza zoppicare. È già qualcosa. A casa non si accorgeranno di niente. Dirò che ho preso l’autobus delle sette e dieci per tornare a Solus. Poi telefono subito alla mia amica per ringraziarla e dirle che ho ato una magnifica nottata…” Antonio assentì, sovrappensiero, grattandosi un’ascella. Nella stanza senza finestre del seminterrato l’aria era stantia e puzzava di alcol denaturato. Sul tavolo, con la tovaglia a scacchi bianco-rossi, c’era il vassoio pieno di briciole della colazione, la scatola di antibiotici e una bottiglia di Ichnusa già mezzo vuota. L’ombra ispida della barba incupiva il volto assonnato dell’uomo. Le lenti spesse dei suoi orribili occhiali erano cosparse di ditate. “Se ti chiedono com’era il film?” “L’ho visto…” rispose sicura Gianna. “Primo spettacolo.” “Furba!” giudicò lui, sorseggiando la sua birra mattutina. “Già.”
“Già.” “Dov’è Teresa?” “È andata via alle cinque, mentre dormivi. Ha vegliato su di te per tutta la nottata. Il suo turno di lavoro inizia alle sei.” Che tipo di lavoro fa? Voleva chiedere lei, ma non lo fece. Diversi secondi arono in un silenzio imbarazzante. Per tutto quel tempo, Gianna scrutò Antonio, corrucciata. “Dottore?” disse alla fine, quasi in un sussurro. Lui posò la bottiglia sul vassoio, socchiuse gli occhi. “Sì?” Lei esitò. Poi, tutto d’un fiato, disse: “Il mio feto… che fine ha fatto?" L’uomo parve sorpreso. La fronte gli si imperlò di sudore. “L’ho incenerito. Come sempre. Perché?” “No, niente. Solo una curiosità.” Mentivano entrambi.
Un quarto d’ora dopo Gianna varcò per la seconda volta la soglia muschiosa della porta di ferro. Nessuno l’accompagnò. Non vedeva Teresa da quando, quella notte, si era svegliata terrorizzata da quel bruttissimo sogno. L’incubo della cosa viscida, come già lo definiva, anche se il suo ricordo stava già scolorendo nella sua memoria. A dirla proprio tutta, non voleva nemmeno rivederla. La stronza era capace di salutarla con un abbraccio. Se c’era una cosa che non sopportava era l’ipocrisia.
Risoluta, sollevò il colletto del parka e s’incamminò per le strade bagnate di pioggia, cercando di ignorare le fitte brucianti nel basso ventre. Presto, come tutto, il dolore sarebbe ato. È finita, cocca, l’incomodo non c'è più… hip-hip-hurra! Niente di più sbagliato.
“È andata via?” La voce di Teresa, all’altro capo del telefono, era stanca. “Sì…” rispose Antonio, scolandosi l’ultima goccia di birra. “Stava bene?” “Così ha detto. Tu hai fatto quello che dovevi fare?” Un’esitazione, poi lei rispose. “Certo. Come sempre.” “Allora è tutto a posto!” Calò la bottiglia sul bordo del tavolo, ma lo mancò di due centimetri buoni. La bottiglia si sfasciò sul pavimento, schizzando pezzi di vetro tutt’intorno. Per fortuna era vuota. Almeno quello. “Sei già ubriaco?” chiese Teresa, soffocando uno sbadiglio. “Acuta osservazione!” ironizzò Antonio, sghignazzando. Incazzata, Teresa riagganciò senza salutarlo.
“Vaffanculo!” imprecò Antonio, alzandosi. Girò intorno al tavolo e raggiunse barcollando il centro della stanza. Sotto la suola delle le sue scarpe il vetro rotto scricchiolò.
Lui si aggiustò gli occhiali appannati sul naso. “Vaffanculo!” ribadì, avvicinandosi alla laurea incorniciata. Era una laurea in medicina. Ed era falsa. Antonio, dopo aver seguito qualche corso, si era ritirato. Che bisogno c’era di prendersi una laurea vera quando era più facile ed economico procurarsene una falsa? C’erano molti casi di persone che si spacciavano per dottori ed esercitavano la professione, tranquilli, con gran soddisfazione dei pazienti. No problem, avrebbe detto la ragazzina. C’est plus facile! Chiuse la questione con un sonoro rutto liberatorio. Poi rise della sua stessa grettezza. “Fanculo a tutti quanti!” sibilò a denti stretti.
Come previsto, a casa di Gianna nessuno si accorse di nulla. Quando si affacciò in cucina, fingendo di essere arrivata con il primo autobus del mattino, papà e mamma fecero le domande di routine e sembrarono soddisfatti dalle risposte. Era tardi, papà doveva presentarsi in caserma per l’inizio del suo turno e la mamma aveva un “casino di cose da fare” quella mattina. In un battibaleno, la casa si svuotò. Per dire tutta la verità, un problemino c’era stato. Appena uscita dalla cucina, togliendosi il parka umidiccio e appendendolo all’attaccapanni nel corridoio, Gianna si era accorta di avere il cavallo dei jeans macchiato di rosso. Non si era fatta prendere dal panico e aveva preso le dovute precauzioni senza indugiare. Chiusa a chiave nel bagno (nel caso qualcuno dei suoi fosse rientrato all’improvviso) si era cambiata l’assorbente zuppo di sangue
e aveva indossato una gonna al ginocchio. I jeans sporchi li aveva gettati in lavatrice, programmato subito il lavaggio a freddo. Tutto a posto. L’assorbente usato era finito nello scarico del water. No problem. Dopo, rintanata nella sua cameretta, si sdraiò sul letto con la borsa dell’acqua calda piena di acqua fredda sull’addome gonfio e dolente. Quello sarebbe stato un weekend impossibile da scordare.
All’ora di pranzo si presentò a tavola un po’ stralunata. “Qualcosa che non va?” chiese la mamma, sotto lo sguardo preoccupato del papà. Rientrava sempre a casa per mangiare. Gianna sorrise. “Cose che capitano alle donne ogni mese.” Il papà concentrò tutta l’attenzione sul piatto di spaghetti. La mamma annuì comprensiva e lasciò cadere il discorso. Cercando di dissimulare i suoi reali sentimenti, Gianna si complimentò con se stessa per quella trovata: adesso ogni perdita era giustificata, per metterla in linguaggio militaresco. Sei furba, cocca… oh certo, certo, un vero genio! Nonostante il dolore alla pancia, mangiò con appetito.
Quello stesso pomeriggio telefonò alla sua amica. “Pronto? Chi parla?” “Gianna.” “Gianna! Ciao! Com’è andata stanotte con il ganzo?”
“È stato fantastico. Mi sono proprio divertita.” “Davvero? Uhau! Ora me lo dici come si chiama?” “Si chiama… Antonio. È un tipo molto divertente, sai?" “Uhau! Come l’hai conosciuto?” “In autobus. Era pieno e ci siamo seduti vicini.” “Lo conosco?” “No, non credo.” “Allora me lo farai conoscere?” “Forse.” “Uhau! Non vedo l’ora, sai, davvero!” “Immagino. Ti lascio. Ci vediamo lunedì a scuola. Ciao.” Tutto sistemato. Nessuna complicazione. Le perdite cessarono tre giorni dopo. Gianna, senza più pensieri, ritornò alla sua vita di sempre: svegliarsi alle sei e mezzo, lavarsi e vestirsi, fare colazione, andare alla FERMATA dell’autobus, chiacchierare con gli amici pendolari di Solus sulle panchine della piazza, salire sull’autobus in perenne ritardo, spettegolare durante il tragitto fino a Sant’Antioco, seguire le lezioni al Liceo Scientifico per sei ore da cinquanta minuti, prendere il solito autobus CALASETTA-CARBONIA delle 13.50, scendere a Solus, tornare a casa, pranzare, guardare un po’ di tv, studiare e fare i compiti fino alle diciotto, qualche commissione per la mamma, un’altra chiacchierata in piazza, rientrare per cena puntuale all’ora del TG1, sparecchiare e lavare i piatti, divano, guardare la tv o leggere un libro fino ai primi sintomi di sonno, espletare i bisogni, lavare i denti, poi tutti a nanna e buonanotte. Per mesi non accadde nulla di rilevante, per quanto riguarda questa storia. Solita roba, invece, per quanto riguardava la storia italiana. C’era stato l’intervento
militare in Somalia, Tangentopoli, Mani Pulite, rapimenti, omicidi, suicidi, autobombe e stragi, tasse, manovra e manovrina, aumento dei prezzi e dell’inflazione. Niente di nuovo, insomma. Le complicazioni iniziarono il 16 giugno 1993, quando quel nuovo giorno era cominciato da un minuto appena.
Antonio scrollò la testa e, intontito, scrutò il suo orologio. 00:01 indicavano le cifre digitali. Sbadigliò, si stropicciò gli occhi, inforcò gli occhiali e si concentrò sullo strano rumore che lo aveva strappato al sonno. Come al solito si trovava nel seminterrato (il tuo antro privato, lo scherniva spesso Teresa) e si era addormentato sul tavolo coperto dalla tovaglia di plastica piena di fiori che lei aveva messo al posto di quella a scacchi bianco-rossi. Nel pugno sinistro stringeva ancora il collo di una bottiglia di Vodka alla pesca. Era vuota. Quel rumore… “Chi è?” disse, con voce impastata, cercando di mettersi in piedi. Un lucido filo di bava gli colò dalla bocca. “Teresa?” … veniva da dietro la porta, quella che dava sul corridoio. Era un suono flaccido, viscido e frusciante. “Teresa?” Udì un tonfo. Qualcosa di molliccio, come un asciugamano bagnato e arrotolato, colpì e scivolò sulla superficie esterna della porta di legno. Qualsiasi cosa fosse, produceva un sibilo insistente e inquietante. Assomigliava al soffio di un vecchio compressore. Fssss… Fssss… Antonio riuscì a tenere i piedi fermi sul pavimento.
Anche se era vuota non mollò la bottiglia, lo rassicurava. Asciugandosi la saliva dalle labbra, caracollò verso la porta. Fssss… Fssss… “Teresa, sei tu?” mormorò alla porta, iniziando a spazientirsi. Allungò la tremante mano libera in direzione della maniglia, per quella che sotto l’influsso malefico dell’alcol gli sembrò una distanza enorme: metri, chilometri. Afferrò la maniglia, solo un attimo prima di perdere l’equilibrio. Una bolla acida gli salì in gola. Adesso vedeva tre maniglie, tre porte, tre mani. Fssss… Fssss… Strinse la maniglia… “Te…” … l’abbassò… “… re…” … spalancò la porta… “… sa?” … e vide quello che c’era dietro. Fssss… Fssss… Antonio, l’uomo della cosa brutta, schiuse la bocca e urlò.
Flashback
Dopo aver raschiato via dall’utero della ragazza (diceva di chiamarsi Sonia) il feto e le ritenzioni placentari, Antonio scodellò quella poltiglia sanguinolenta in
una lucente vaschetta d’acciaio. Chissà perché, quella robaccia gli faceva sempre tornare in mente l’uovo crudo e la carne macinata che sua madre (buonanima) amalgamava per fare il polpettone della domenica. Era un pensiero stomachevole e come sempre lo scacciò. Trasferirono la ragazza, Sonia, nel letto rubato all’ospedale. Teresa le controllò il polso e la temperatura. Antonio fissò ancora un istante il disgustoso contenuto della vaschetta d’acciaio, poi si allontanò e prese dal cassetto sotto al tavolo una bottiglia calda di Sans Souci. Acquistava sempre birre di marche diverse, per non affezionarsi troppo a un solo tipo. La stappò con i denti e sputò il tappo in un angolo. Tracannò una lunga sorsata. Doveva decidersi a impacchettare per bene quella robaccia. Sua moglie, Teresa, avrebbe iniziato alle sei esatte il suo turno in ospedale. Era un’infermiera generica nel reparto di Chirurgia e, di nascosto, usufruiva dell’inceneritore per sbarazzarsi dello “scarto biologico” prodotto dalla loro illecita attività secondaria. Era la soluzione ideale. Per adesso, nessuno si era mai accorto di niente. “Gioventù bruciata…” bisbigliò Antonio, sogghignando. Bevve ancora a canna. Il pomo d’Adamo saliva e scendeva, Buona. Calda come piscio, ma buona… Si avvicinò alla mensola su cui era posata la vaschetta con dentro i rimasugli dell’embrione. Prese il contenitore nella destra, mentre nella sinistra reggeva la Sans Souci. Andò verso l’angolo, dove c’era il cesto dei rifiuti e vi gettò dentro il grumo filamentoso. All’esterno, dove l’acquazzone non dava tregua ai tetti e alle strade di Solus, un lampo azzurro guizzò nel buio, esplose il tuono e lo spostamento d’aria fece vibrare addirittura la porta interna nel telaio. Teresa, alzò lo sguardo al tetto. “Bella botta.”
“Vai piano in macchina, la statale sarà allagata…” “Non ti preoccupare.” Antonio si inginocchiò e posò la birra sul pavimento. Estrasse il piccolo sacchetto dell’immondizia dal cestino e ne annodò l’estremità con lo stesso identico nodo che aveva fatto da bambino, quando in un triste, assolato e silenzioso pomeriggio di metà settembre aveva annegato i cuccioli indesiderati della sua cagnetta nel laghetto per l’irrigazione dietro la Casa Cantoniera. La plastica crepitò sotto le sue dita, mentre la collosa poltiglia bavosa all’interno fluiva sul fondo del sacchetto, mescolandosi a cartacce e tappi di bottiglia. Al diavolo la raccolta differenziata, pensò. Raccattò la bottiglia e ne succhiò l’ultimo sorso. “Ti ho fatto il pacchetto!” annunciò, rialzandosi. Lei si allontanò dalla ragazza e sedette al tavolo, sospirando. “Non urlare…” disse, irritata, massaggiandosi le tempie. Sarebbe stata una lunga notte. “Lo lascio qui. Ricordati di prenderlo, quando esci…” “Mi ricordo, mi ricordo. Smettila di bere, va bene?” “Che palle!” sbottò Antonio, accomodandosi sull’altro lato. Bere fino a stordirsi era l’unico sistema per sopportare quel mondo di merda. “Abbiamo fatto un ottimo lavoro, vero?” “Sì. Ma sono stanca di farlo. Dobbiamo smetterla.” “Smetterla? Che dici? Facciamo una partitina a carte?” Teresa scosse la testa, affranta e disillusa. “Una sola.”
La bottiglia di vodka andò in frantumi ai suoi piedi.
Come paralizzato dall’orrore, non riuscì a trovare la forza per richiudere la porta. Il cuore gli batté in gola. Lo stomaco gli si contrasse in uno spasmo. Vomitò un fiotto di crackers. Oh, Dio, gli ho vomitato sopra! Gesù santo nostro signore! La cosa cessò di sibilare. Non ricordava né l’uovo crudo né la carne macinata. Somigliava piuttosto a un lumacone grigiastro senza guscio, appiccicoso, ricoperto da una sostanza cerosa, gocciolante e traslucida. Soltanto che non era una lumaca geneticamente modificata, era un ammasso carnoso, roseo, lucido e amorfo. Grande, più o meno, come il motore di un’utilitaria. Il sibilo era una sorta di respiro. L’asmatico Fssss… Fssss… infatti proveniva da una sottile fessura, uno sfiatatoio come quello dei cetacei, posto sul dorso della cosa. La sua epidermide non era uniforme, ma solcata da innumerevoli capillari, venuzze, arteriole. Era sporca di terra. Pulsava. Era viva. Per un’allucinante associazione di idee, Antonio collegò subito la cosa che aveva di fronte alla poltiglia sanguinolenta che aveva impacchettato per Teresa mesi prima. La cosa ricominciò a respirare. In quel momento, notò un particolare che gli era sfuggito. Sul fianco della orrenda creatura, qualunque cosa fosse e da qualunque luogo venisse, sporgeva una gibbosità bitorzoluta. Era una mano. La mano di una donna, unghie smaltate e ben curate. Veniva fuori dalla carne molliccia della creatura, con cui sembrava essersi in parte fusa. Non era una porzione della sua anatomia. Non ancora. Nell’anulare della mano era infilato un anello nuziale d’oro.
L’anello che Antonio aveva infilato nell’anulare paffuto di Teresa. Vent’anni prima, sotto lo sguardo severo del parroco, nella chiesa di Solus, piena di preghiere, aria viziata e parenti. FINCHÈ MORTE NON CI SEPARI, era inciso all’interno. La creatura aveva fagocitato e assorbito e ucciso Teresa. Dove? Quando? Mentre dormivo ubriaco sul tavolo? Come in risposta, la cosa ansimò proprio sotto il suo naso. Fssss… Fssss… Antonio, travolto dalla rabbia, dimenticò l’orrore e si scagliò contro la cosa. Provò a tempestarla di pugni, ma le sue braccia vennero imprigionate fino al gomito nella carne palpitante e bollente. Era come prendere a cazzotti un ammasso di bitume. All’inizio non sentì niente, solo il calore che si diffondeva. Poi il dolore scoppiò acuto nelle sue terminazioni nervose. Urlò e cercò di liberarsi. Più lottava e più si invischiava. Inutile. In poco tempo, la cosa fagocitò, assorbì e uccise Antonio. Fssss… Fssss…
Flashback
Quando Teresa uscì dal seminterrato, stringendosi addosso l’impermeabile, una cascata d’acqua l’accolse sugli scalini muschiosi. Erano le cinque ate. Doveva sbrigarsi se voleva arrivare in orario per timbrare il cartellino. Odiava guidare quando pioveva. Le strade di e per Solus facevano tutte cagare,
soprattutto quando erano allagate. Non c’era nemmeno il tempo per are di sopra, dove abitavano lei e Antonio, per farsi una doccia calda. Il sacchetto dell’immondizia che stringeva in mano, sferzato dalle gocce di pioggia, emetteva un rumore sgradevole. Non era la prima volta che Antonio le combinava una stronzata del genere. Gli aveva detto mille volte di non gettare quella roba nel cestino dei rifiuti, ma lui no, continuava, fingeva di non sentire. Bastardo alcolizzato. Un giorno o l’altro l’avrebbe piantato. Sarebbe caduta in piedi, questa volta. Quel porco avvizzito e pedante del primario, “Jack Mano Morta”, come era soprannominato, la tampinava da anni. Teresa salì i gradini scivolosi, immergendosi nella pioggia. La sua Diana era parcheggiata proprio davanti a casa. Un lampo rischiarò il paesaggio oltre la strada. Cento metri più in là, dietro quello che restava in piedi di un antico muretto a secco, sommerso dentro una miriade di cespugli, alberelli e arbusti, Teresa scorse per un attimo sei sagome di pietra puntate verso il cielo tempestoso. Gli anziani del posto, a bassa voce e con rispetto, chiamavano quella zona derelitta Perdas Fittas. Un circolo megalitico preistorico, con monoliti alti due metri e mezzo, di cui nessuno conosceva la funzione precisa. Qualche ricercatore sosteneva che si trattasse di un osservatorio astronomico, altri lo consideravano il sito di un culto dimenticato. La leggenda locale, tuttavia, raccontava di un “sabba” finito male. Sei streghe malvagie, le “bruscie”, che ballavano e cantavano in circolo in onore del demonio attorno a un enorme falò, la notte di San Giovanni, erano state trasformate in pietra da Dio in persona. Senza esitare e con o rapido, Teresa attraversò la strada evitando le pozzanghere, saltò oltre la cunetta allagata e s’inoltrò nella breve striscia di terreno incolto che separava la periferia di Solus dagli enigmatici megaliti. La pioggia battente limitava la visibilità a pochi metri. Ad ogni modo, nelle vicinanze, a parte loro non abitava più nessuno. Il paese si stava spopolando ormai. Le bugie non le piacevano, ma erano spesso necessarie. Da molti anni raccontava ad Antonio la frottola dell’inceneritore. Lui credeva davvero che lei smaltisse i feti in quel modo, semplice e pulito. Era comodo per lavarsi un po’ la coscienza. In realtà, Teresa ne aveva bruciato in quel modo soltanto uno. Il
primo. Tutti gli altri erano stati interrati in mezzo ai menhir di Perdas Fittas. In quella zona il terreno era argilloso, facile da scavare, anche a mani nude. Inoltre, era anche poco frequentato. Le persone normali e “per bene” se ne tenevano alla larga. Gli unici disposti a violare la tacita regola del paese, come al solito, erano i fornicatori del sabato sera, tossici e gatti randagi. Oltre a lei, naturalmente. Il rombo lontano del tuono la distolse da questi pensieri. Trovò un minuscolo varco nell’intrico di cespugli di cisto e rovi spinosi, scavalcò con un balzo il muretto diroccato e si diresse verso il centro geometrico del circolo megalitico. C’era un’atmosfera mistica in quella località, notte e giorno. Alcuni simpaticoni lo chiamavano la piccola “Stonehenge sarda”. Cazzate. Dopo l’incendio che aveva divorato “Villa Massidda”, un paio di anni prima, a Solus la gente era letteralmente uscita di testa. Succedeva di tutto e di più. La chiesa era sempre piena. Le solite vecchiette con lo scialle e vestite di nero si facevano il segno della croce per ogni nonnulla. Solus era sempre stato un paese superstizioso, ipocrita, bigotto e “malato”, ma negli ultimi tempi il fenomeno aveva preso una brutta piega. Comunque, ora non aveva voglia di pensare a quelle cose. Era tardi. Teresa piegò le ginocchia e si accucciò sul terreno fradicio. Circondata dalle sei silenziose streghe pietrificate, flagellata dalla pioggia incessante, cominciò a scavare un’altra fossa.
“Gianna!”
Lei aprì gli occhi e guardò il soffitto della sua camera. “Gianna!” chiamò ancora la madre, da dietro la porta. Gianna si stiracchiò sotto le lenzuola umidicce di sudore, le membra formicolanti. Era stata una notte afosa e quasi insonne. Doveva prepararsi per la Maturità, ed era già parecchio indietro con il programma di rio. Il cervello non funzionava. “Cosa c’è, mamma?” “È arrivata una cartolina per te. Posso entrare?” “Entra.” La mamma entrò nella camera, aprì la finestra e sollevò la tapparella. Il panorama era costituito dalla fascia di eucalipti che correva proprio sul retro della loro casetta. Una brezza già tiepida, odorosa di erba, accarezzò le tende. Il sole illuminò la scena. La camera di Gianna era zeppa di cianfrusaglie. C’erano parecchi poster incollati con nastro biadesivo alle pareti: Iron Maiden, Metallica, Gun’s Roses, Juventus campionato 91/92, Kevin Costner. Tutti gli scaffali erano stracolmi di pupazzetti di peluche, libri di scuola, cassette e flaconi vuoti di profumi. I vestiti erano sparsi dappertutto, tranne che nell’armadio. Quest’ultimo, al solito, era vuoto e con le ante spalancate. “Che ore sono?” mugolò Gianna, mettendosi a sedere. “Sono le otto ate!” rispose la mamma, raccogliendo una camicetta dal pavimento e sistemandola sullo schienale della sedia della scrivania. Per lei non esisteva un’ora precisa, erano sempre le sette ate, le otto ate, etc… “Ti sei divertita in pizzeria?” “Mmmh…” uggiolò lei, strofinandosi le palpebre. “Poi mi sono messa a studiare. Dov’è la cartolina di cui parlavi, mà?” “Sul tavolo, in cucina. La colazione è pronta.”
“Papà?” “Al lavoro. Io sto per andare al mercato. Ti serve qualcosa?” “No. Ah! Se i in edicola comprami Cioè, ti scoccia?” “No. Beh, io vado. Non riaddormentarti. Ciao.” Uscì. Gianna restò tra le lenzuola per altri quindici minuti.
La cartolina era posata sul tavolo della cucina, vicino alla colazione a base di caffellatte, succo di frutta e Kinder Brioss. Un classico. La fotografia rappresentava un infuocato tramonto sul mare, alcuni gabbiani volteggiavano sullo sfondo. Niente di che. Con noncuranza Gianna soffocò uno sbadiglio e la rivoltò, mentre inseriva una musicassetta nello stereo sulla credenza. La prima occhiata rivelò che c’erano poche righe scritte a mano, con una Bic blu. La calligrafia era pessima. Maschile. Premette il tasto PLAY. Poi si assestò sulla sedia, davanti alla sua colazione. “Vediamo chi mi scrive…” sussurrò incuriosita, incrociando le caviglie sotto il tavolo e scartando la brioche dal cellophane. Frattanto, nella luminosa atmosfera della cucina, ancora odorosa dell’aroma di caffè, si diffondevano le melodiose note dell’intro di November Rain. Gianna adorava quella canzone. Mentre sbocconcellava la brioche, lesse:
Hi, Gianna! Come stai? Ho una buona notizia per te. Sono tornato! Contenta? Sono a Sant'Antioco, a casa di mia cugina. Perché non mi chiami? Ti aspetto! Ci divertiremo insieme. Baci e Abbracci. By Steven.
Gianna fissò in silenzio il retro della cartolina. I Gun’s continuavano a suonare. Il caffellatte era freddo. “Figlio di puttana!” esclamò Gianna, il volto paonazzo. Sbatté sul tavolo la cartolina, il tramonto verso il soffitto. “Figlio di puttana!” ripeté furiosa, scattando in piedi e sputacchiando sul tavolo briciole di brioche semimasticate. Girò sui tacchi e tornò in camera sbattendo gli zoccoli. Pac! Pac! Pac! Lo stereo, imperterrito, riprodusse “November Rain”. Spalancò la porta della sua camera. Entrò. Richiuse a chiave. Alla fine, saltò sul letto e affondò la faccia sul cuscino. Non devo piangere, non devo piangere, non devo… Pianse.
In cucina November Rain finì, sostituita da Don’t Cry.
Chiusa nella sua stanza, lei non poté fare a meno di notarlo. Era l’ultima canzone su quel lato della cassetta. Quando anche quella terminò, Gianna alzò la faccia gonfia e arrossata dal cuscino spiegazzato e umido. Notò subito qualcosa di strano. Cosa… cosa è? Dal davanzale di marmo della finestra aperta, sgocciolava un liquido viscido e colloidale. Le rammentò la bava di Alien. Cos’è questo suono? Un rumore. Sotto il letto. Prima la musica lo copriva. Sembrava il sibilo di un serpente. Fsss… Fsss… Il cuore di Gianna si fermò per qualche terribile istante. C’è un serpente sotto il letto! Balzò lontano, tirandosi dietro il lenzuolo. Inciampò. Cadde davanti alla porta e sbatté la faccia sul pavimento. “Ahia!” ululò, intontita. Rotolò di schiena, il lenzuolo attorcigliato a una caviglia. Cercò di divincolarsi. Strisciò verso la porta, lo sguardo fisso sul letto sfatto e il lenzuolo galeotto avvinghiato alla caviglia. Il sibilo era regolare e sottile. Era sotto di me tutto il tempo! Era lì e io non lo sentivo! Oh, Gesù! Agitò le gambe, disperata. Il lenzuolo non mollò la presa. E se viene fuori? Cosa faccio se esce da lì sotto?
Forse è velenoso, è cattivo, è… Qualcosa si mosse nell’ombra polverosa sotto il suo letto. Oh no! Oh no! Sta uscendo! In preda al panico, Gianna gridò. Non riusciva a scivolare via dal dannato lenzuolo che le teneva imprigionata la caviglia. Mollami! Stronzo d'un lenzuolo! Vuoi lasciarmi?! Lasciami! In una circostanza normale avrebbe impiegato poco meno di due secondi per sgarbugliare quel viluppo. Ma quella non era una situazione normale. I secondi erano già una cinquantina. La cosa sgusciò da sotto il letto, uscì dall’ombra e… Non era un serpente. Gianna iniziò a strillare e a dibattersi. Riuscì a liberarsi. La cosa sibilò, scivolando sul pavimento, verso di lei. Fsss… Fsss… È come il sogno! La cosa viscida! Vuole uccidermi! Indietreggiò fino a toccare la porta con le spalle. Sollevò lo sguardo. La maniglia… Alzò un braccio e l’afferrò. Piegò il braccio, fletté le gambe. Riuscì a rimettersi in piedi. La caviglia le inviò una lama di dolore. Gemette. Era slogata? Comunque fuori servizio. In aggiunta, la porta era chiusa. Armeggiò con la chiave.
Non girava. Non girano mai quando hai fretta. La sfilò. Non funziona! Non funziona! Provò a infilarla di nuovo nella serratura. Perché l’ho tolta? Questo non è un film dell’orrore! Mancò il buco e la chiave scivolò fra le dita sudate. Rimbalzò sul pavimento con un tintinnio, quasi di scherno. Gianna si chinò per raccoglierla. La cosa sibilò più forte. È vicina! Sembra più forte perché è più vicina! Era a mezzo metro da lei. Non osò voltarsi per appurarlo. Raccattò la chiave e si raddrizzò di scatto. Il peso del corpo si spostò sulla caviglia rovinata e le strappò un altro lamento. Infilò la chiave. Devo farcela, devo farcela, devo… Qualcosa di untuoso, molle e caldo le sfiorò il polpaccio. Sussultò. Urlò e avvertì un debole crack davanti a lei, in basso. La maledetta chiave si era spezzata! L’ho rotta, cazzo! L’ho rotta! Rannicchiandosi alla base della porta, con la chiave spezzata stretta nel pugno, ruotò gli occhi verso l’ammasso informe che lambiva le dita curate e le unghie smaltate dei suoi bei piedi.
Con le lacrime che scorrevano copiose ai lati della faccia, Gianna fece una cosa che non faceva da molti anni. Da quando era bambina e aveva ancora paura del buio e delle cose brutte. Pregò. Ave Maria, piena di grazia, Padre Nostro che sei nei cieli prega per noi peccatori, nell’ora della nostra morte… Amen. Non era sicura che tutte le parole fossero giuste, ma meglio di niente. Quello che conta è il pensiero… O almeno, cosi dicevano.
La madre di Gianna rientrò intorno alle undici. Entrò sbuffando come una locomotiva, due grossi shopper con la scritta Supermarket Deidda, uno per mano. Erano traboccanti di provviste. Collocò le pesanti borse sul tavolo della cucina. Perplessa scrutò la colazione di Gianna: intatta. La cartolina era scomparsa. Naturalmente, lei l’aveva letta un attimo dopo che il postino l’ebbe recapitata. Non vi aveva trovato proprio nulla di tragico o equivoco. Nulla per cui valesse la pena saltare la colazione. Forse non sta bene, pensò, spegnendo lo stereo. Era rimasto e mandava un ronzio. C’era puzza di nastro bruciato. S’incamminò verso la sua camera. La porta era socchiusa. “Gianna?” chiamò, avvicinandosi. Sentì qualcosa di scivoloso sotto le scarpe. Abbassò lo sguardo. C’era un liquido denso sulle piastrelle. “Olio?”
Strusciò i piedi e socchiuse le palpebre dubbiosa. Non sembrava olio e nemmeno cera per pavimenti. Cos’è? Colava anche dalla maniglia della porta. La spinse con la punta del piede per evitare di toccarla. Magari è un acido corrosivo… ma cosa ci fa in casa? La camera di Gianna era vuota e in disordine, come sempre. Le lenzuola erano sparse sul pavimento. La finestra aperta. Alcune mosche ronzavano pigre attorno al lampadario. “Gianna, ci sei?” Nessuna risposta. Stava per uscire, quando percepì quel rumore. Si voltò. Perlustrò l’intera stanza con sguardo attento. C’è qualcuno? Un ladro? Impossibile. Non a casa sua. Il rumore, una sorta di lento scalpiccio, si ripeté. Lo localizzò. Proveniva da dentro l’armadio di Gianna. Era chiuso. Il misterioso liquido gocciolava dai pomelli di plastica. Ora che ci pensava, qualche istante prima non ci aveva fatto caso, c’era un po’ di quella sostanza appiccicosa anche sul bordo del tavolo in cucina. La donna iniziò a essere parecchio turbata. Che cosa era successo in sua assenza?
“Gianna? Sei tu? Sei nell’armadio?” Ancora quel rumore. Vuole farmi paura. Adesso salta fuori e fa buh! Avanzò verso l’armadio. “Gianna non scherzare! Non è il caso!” Un sinistro rantolo risuonò sordo dentro l’armadio. Adesso basta! Impugnò i pomelli viscidi. “Vieni fuori!” Tirò a sé le doppie ante, trattenendo il respiro per la paura. Guardò quello che c’era dentro. Cercò di gridare… ma non ci riuscì.
36 – CENTRIFUGA
Quell’urlo inespresso ti rimbomba dentro, a lungo, prima di venire risucchiato dal brusio frenetico della rotazione. Alla fine, sei rimasto sbalordito, dentro l’armadio non c’era quello che ti aspettavi… ma qualcosa di peggio, in un certo senso. Molto peggio. In ogni caso, non puoi pensare al finale della storia, perché la forza centrifuga, generata dal movimento rotatorio, ti trascina con sé, trasformando la tua vista periferica in un turbine di colori fiammeggianti. Qualcosa di oscuro comincia a pulsare, come un paradossale buco nero in procinto di esplodere, nel centro esatto della struttura geometrica in cui sei relegato. D’istinto, cerchi di ritrarti da quella cosa… in qualche modo, sai che non è positiva. Come non lo è la nuova voce che s’infiltra nella tua mente. “Cara Lisa, finalmente, dopo tanti anni sono potuto rientrare nella mia vecchia casa natale…” Basta quell’incipit, per sconfiggere la breve resistenza che hai opposto al gorgo palpitante. Vieni risucchiato nell’abisso, come il sangue nello scarico di un lavello, incapace di reagire.
37 – LETTERE A LISA
13 febbraio 1993, Solus
Cara Lisa, finalmente, dopo tanti anni, sono potuto rientrare nella mia vecchia casa natale. Mi piace. Non è cambiata. Neanche papà è cambiato molto, anzi, non è cambiato per nulla. Il solito. Mi sono sistemato bene, nella mia piccola stanzetta, come ai bei tempi dell’infanzia. I compaesani sembrano non ricordarsi di me. Dopotutto, neanche io mi ricordo di loro. Non mi lamento. È ato troppo tempo. Papà è stato felice di rivedermi, dice che gli sono mancato. Anche tu mi sei mancata, Lisa. Ti ho scritto centinaia, migliaia di volte, ma tu non hai mai risposto. Perché? Cosa ti ho fatto? In dieci anni non hai trovato il tempo per spedirmi una lettera? Una cartolina? Ora sono tornato a casa. Ti prego, fatti sentire. Vuoi? Ho voglia di rivederti e parlarti. Spero che questa mia ti arrivi presto. E anche una tua risposta. Io aspetto.
15 febbraio 1993, Solus
Carissima,
perché non scrivi? Ho aspettato per due lunghi giorni. Quanto dovrò aspettare ancora? Per sempre? Non vorrai mica che… beh, mi hai capito. Voglio raccontarti una cosa strana che mi è successa oggi. eggiavo con papà sul marciapiede, sotto i sempreverdi (sempre più morti) che circondano la piazza del paese. La conosci, no? È davanti alla chiesa, con in mezzo l’inutile e pacchiana statua di San Giorgio che trafigge il Drago Cattivo, delimitata da tre vie: via Manzoni, via San Giovanni e via del Lattaio (sì, lo so, un nome idiota, non glielo ho dato io, cosa ci posso fare?). A Pasqua, per la via crucis, il prete, i chierichetti e tutti i fedeli girano intorno alla piazza, alla tremula luce di candele schermate da coni di carta colorata, snocciolando preghiere e invocazioni. È un po’ sinistro. Tuttavia, cambiando discorso… beh, ho subito notato che durante questa camminata, nessuno salutava papà. I anti neanche lo degnavano di uno sguardo. Proprio così, davvero. Ora, posso capire che nessuno saluti me, visto che nessuno si ricorda più della mia esistenza… ma non capisco perché queste persone abbiano rifiutato il saluto di mio papà. Infatti lui, gentile, educato e cordiale, si toglieva il basco e dava il buongiorno a tutti quanti con un sorriso. Non è per niente bello essere trattati così. Sei d’accordo, Lisa? Appena notato questo fatto, ho chiesto spiegazioni a papà. Gli ho chiesto: “Perché non ti saluta nessuno?” Lui si è fermato e mi ha guardato con occhi tristi, umidi. “Non lo sai?” mi ha risposto. “Questa gente ci odia.” Questo mi ha sorpreso. Perché ci odiavano? L’ho chiesto a papà. Non voleva rispondere. Ho insistito. “Ci odiano perché siamo diversi. Non siamo come loro.”
“Cioè? Non capisco, cosa vuoi dire?” “Noi siamo ricchi, viviamo di rendita. Loro invece devono faticare per sopravvivere. Ecco tutto. Nei piccoli paesi è così. Di solito questo odio non è manifesto, ma qui a Solus… è un luogo strambo. Pieno di bugie e segreti. Lo sai anche tu.” Non ha più parlato. Siamo tornati a casa in silenzio. Il resto della giornata è stato grigio, piovoso e noioso. Soprattutto noioso. Ma lo sai, a Solus anche il divertimento è un po’ noioso. Non devo dirti altro. Aspetto ancora una tua risposta.
22 febbraio 1993, Solus
Amatissima Lisa, oggi sono andato al “mercatino”, come si dice da queste parti, per differenziarlo dal Mercato permanente che sta vicino alla piazza. Dovevo comprare un paio di scarpe da ginnastica. A Solus non ci sono negozi che vendono questo genere di articolo. Bugia. Uno c’è (e il proprietario lavora anche come calzolaio, in nero, nel retrobottega), però non volevo affatto entrarci. Papà ha ragione. Ci odiano. Tutti. In quest’ultima settimana… lasciamo perdere! Dicevo? Ah, sì. Le scarpe. Ogni mercoledì mattina, a Solus, c’è il classico mercatino di venditori ambulanti. Sai quelli che vanno di paese in paese, con furgoni stracarichi di mercanzia? Quelli che il pomeriggio, mentre schiacci un pisolino, ti rompono le palle con i megafoni a tutto volume che strillano: “Affare! Teloni da spiaggia solo diecimila! Offerta speciale: ombrellone, tavolino, sei sedie! Prezzo buono!”
Hai presente, no? Insomma, in questo stradone (quello che va verso la “zona industriale”), ventoso, prosciugato dal sole e chiuso al traffico (per l’occasione) fanno il mercatino. Era pieno così di gente. Solus si rianima dal suo coma vegetativo in queste circostanze. Tra le due file di malandati furgoni, camioncini ammaccati, Api, Fiorini con il cassone refrigerato per pesci e carne, tendoni strappati dal solito maestrale, potevi scorgere: venditori esagitati, casalinghe vocianti con bambini in un braccio e la sporta nell’altro, pensionati a caccia di sconti, disoccupati seduti sul cordolo della cunetta, a fumare mozziconi di sigarette, contadini che esponevano miseri ortaggi apiti su banchetti improvvisati con le casse della frutta vuote, gettate dai “regolari”, cani e gatti randagi in cerca di rifiuti commestibili. Vigili urbani e caramba (in coppia, tipo nelle gag di La sai l’ultima?), eggiavano avanti e indietro, sorvegliando, impettiti come pavoni in parata, lo svolgersi caotico del mercatino. In quattro e quattr’otto mi sono comprato le scarpe. Quindicimila. Un affare, no? Visto che mi ero sbrigato in fretta, ho deciso di fare un giro. Così, tanto per arrivare all’ora di pranzo, mi sono incamminato verso il centro. Solus contava poco più di mille abitanti, all’ultimo censimento. Ora non so. In tutti i paesi della Sardegna la piazza è facile da individuare: trovate la chiesa. Basta alzare lo sguardo e scorgere la sommità appuntita di un campanile. Dopo un centinaio di metri ero già arrivato. Sono tutte uguali: la chiesa, gli alberelli rachitici, le strade dissestate, il Bar Sport, il Municipio, il Mercato coperto, l’autoscuola, una profumeria e un barbiere uomo/donna. Tutto qui, o quasi. Ah, c’era poco traffico. Solus è un paese morto. In più sensi, direbbe papà. Erano appena le undici. Mi sono accomodato su una panchina, scomodissima, una di quelle che usano al mattino gli studenti pendolari che aspettano l’autobus per Carbonia o Sant’Antioco. La parete alle mie spalle era ricoperta da un mare di scritte colorate, fatte con l’Uni-Posca, Tutta roba indecifrabile come: SCORPIONS FOREVER, AC/DC, DANY LOVE ROBERTO, M INTER W JUVE, ALEX T.V.T.B.
E tante altre ancora. Ho guardato la gente che ava. Che è il massimo dello svago da queste parti, in mancanza di un qualsiasi pettegolezzo in anteprima o un incidente mortale. Mi sono svagato per quasi dieci minuti. Alla fine mi sono alzato, sgranchendomi la schiena a pezzi. Nell’angolo, oltre la strada, c’era l’unica Edicola di Solus. Ho deciso di prendere l’Unione Sarda e anche il Corriere dello Sport, per papà. Era da un pezzo che non leggevo un quotidiano. Mezzo minuto dopo ho attraversato la strada deserta e camminato verso l’Edicola, dondolando le braccia lungo i fianchi. Sul marciapiede ho incrociato un ragazzo sui vent’anni che ne usciva tutto sparato. Alto, mingherlino, capelli arruffati, sguardo distratto. Indossava i jeans e un impermeabile, sbottonato sopra una felpa. In mano, stringeva un albo a fumetti: DYLAN DOG. Chiederai, come mai ho osservato tutto questo? Non lo so. Quel ragazzo mi ha colpito, non so perché, ma è così. D’istinto, come se volessi chiedergli l’ora, l’ho fermato. “Scusa?” ho esordito, cercando di non mangiarmi la parola. Lui mi ha guardato, molto sospettoso, le labbra serrate. “Un’informazione. Sai dov’è il telefono pubblico?” Ha fatto un cenno per indicare qualcosa alle mie spalle. “Quella cabina della SIP?” ho sbottato, perplesso. “Ma se l’hanno demolita tanti anni fa! Scusa un po’, ma non abiti a Solus?”
Lui ha annuito, poi si è portato l’indice davanti alla bocca e ha scrollato le spalle amareggiato. Ho capito al volo: era il Muto. “Non lo sapevo, lascia stare…” gli ho detto. “Buongiorno.” Se n’è andato, a testa bassa, con la stessa aria pensierosa di prima. Immobile, sul marciapiede deserto, l’ho seguito per un po’ con lo sguardo. Il ragazzo è saltato sul pedale della messa in moto di una motocicletta Benelli ed è partito a razzo, giù lungo Corso Savoia, lasciandosi dietro una nuvola azzurrina di gas di scarico. Il Muto. Non l’avevo riconosciuto. L’ultima volta che l’ho visto aveva più o meno nove anni, correva in mezzo agli olivastri, inseguito da un branco di ragazzini che gli tirava addosso le pietre. Io ero in prima posizione. Rimuginando sulla schifosa esistenza di merda, che doveva fare un handicappato costretto a vivere in un paese, sono entrato in Edicola (spoglia e senza riscaldamento) e ho acquistato l’Unione Sarda. L’edicolante, una cariatide incartapecorita che conosco da sempre, non mi ha detto una parola. Poi sono uscito e sono andato più avanti, sul marciapiede, verso il Bar Sport. Volevo telefonare a casa e avvisare papà che rientravo in tempo per l’ora di pranzo. Ignorato da tutti gli avventori, allineati dietro il bancone (e da tutti gli attempati giocatori di briscola, seduti intorno ai tavolini rotondi), ho infilato un gettone nell’apparecchio imbullonato sulla parete accanto alla porta d’ingresso. La tenda antimosche, di strisce di plastica verde, frusciava alle mie spalle, sospinta dalla brezza. Ho composto il numero sulla ruota. Ho lasciato squillare dieci volte e, alla fine, riattaccato. Non c’era nessuno. Papà era in giardino e non ha sentito squillare il telefono? Non lo so.
Sono uscito dal Bar Sport senza salutare nessuno. Quando sono rientrato, verso mezzogiorno, lui era in casa di fronte alla televisione spenta. La fissava come se fosse accesa. Senza muoversi, ha detto: “Perché ci hai messo tanto?” “Ho fatto un giro in piazza e comprato il giornale.” “Ah.” “Ti ho telefonato, prima. Non eri in casa?” “Cosa dici? Non esco mai a quest’ora.” “Ma… perché non hai risposto?” “Non uso il telefono. Non mi piace. Voglio vedere in faccia le persone quando parlo con loro. La voce mente, la faccia no.” “Sì, papà. Certo. Ti preparo qualcosa da mangiare.” Era un discorso paranoico (anche se sensato), come quello della gente che ci odia. L’età gioca brutti scherzi al cervello. Papà ha una certa età, anche se non sembra invecchiato in questi anni. Tu sei invecchiata, Lisa? Vorrei rivederti. Ma so già che forse non è possibile. Puoi sempre scrivermi, però. Perché non lo fai, eh? Ti devo lasciare. Papà è ancora seduto davanti al televisore spento. Meglio che vada ad accenderlo. È meno inquietante. Un po’ meno. Alla prossima.
P.S.: Scrivimi. Per favore. Ne ho bisogno.
28 febbraio 1993, Solus
Lisa, mi stai facendo arrabbiare, sai? Ti vuoi decidere a scrivermi!? Voglio essere breve stavolta, ma chiaro… parlare con papà non mi basta più, voglio comunicare con te, capisci? Vuoi capire?
1 marzo 1993, Solus
Va bene, Lisa. L’hai voluta tu. Questo è un ultimatum. O mi scrivi o faccio un’altra volta la… cosa cattiva. Non costringermi. Hai due giorni. P.S.: papà è d’accordo con me. L'idea dell’ultimatum è sua.
3 marzo 1993, Solus
L’ultimatum è scaduto. Peggio per te, Lisa. Farò la cosa cattiva.
Colpa tua. Papà aveva ragione… sei stupida. Come tutte le altre. Avrai presto mie notizie.
4 marzo 1993, Solus
Ciao Lisa, eccomi qui. Come promesso. Leggi l’articolo di giornale che allego alla lettera. Ti avevo avvertito, no? Peccare è umano. Perseverare è diabolico. Mi scriverai, adesso? Ti conviene. Conviene a tutti.
Allegato: dall’Unione Sarda del 4 marzo 1993, pag. 19
BRUTALE OMICIDIO SCONVOLGE IL SULCIS
La scorsa sera, alle diciannove e trenta, una giovane coppia di fidanzati ha fatto un’orribile scoperta sul litorale nella zona di Porto Botte. I due giovani, infatti, hanno rinvenuto il corpo del piccolo Silvio Carta, sette anni, scomparso la mattina dello stesso giorno, poco dopo le otto del mattino, quando il povero bambino è uscito di casa per recarsi alla Scuola Elementare di Solus, dove viveva con i genitori e la sorella. Un tragitto di neanche cinquanta metri. Pare che il piccolo sia stato tramortito, seviziato e sepolto vivo sotto la sabbia. La notizia dell’orrendo delitto si è sparsa in poche ore in tutto il Sulcis, che ne è rimasto sconvolto, preoccupato e con un senso di rancore impotente. Chi è il mostro? Polizia e Carabinieri seguono diverse ipotesi, le indagini proseguono a
ritmo serrato su tutto il territorio. Gli investigatori sembrano aver trovato delle “similitudini” con un altro episodio di sangue, risalente al 1983. Nell’inverno di quell’anno, infatti, nella stessa spiaggia vennero trovati i corpi senza vita di due bambine, tramortite, seviziate e uccise allo stesso identico modo. L’autore del delitto non venne individuato. Anche questa volta andrà così? Speriamo di no. La popolazione del Sulcis ha paura e continuerà ad averne fino a che questo crudele mostro senza nome… (Continua)
P.P.S.: Visto? Qualcuno si ricorda di me. Ha paura di me!!!
5 marzo 1993, Solus
Lisa, perché? Perché mi hai fatto questo? Io non volevo farlo, tu mi hai costretto! Quel bambino… non volevo fargli la cosa cattiva, non volevo. E ora mi sono addosso. Lo so. Anche papà lo sa. Fra non molto verranno a prendermi. I carabinieri suoneranno alla mia porta e… mi porteranno via. Dicono che “Buoncammino” non sia una bella prigione. Pazienza. L’importante è che possa scriverti. Papà dice che farei meglio a costituirmi. Non so… Ha ragione? Tanto, prima o poi... Forse capiranno, forse mi perdoneranno, forse… Va bene. Ora mi alzo, vado in caserma e confesso tutto. Farò così. Forse potevo farcela anche stavolta… ma non posso fuggire da me stesso. Bisogna assumersi le proprie responsabilità, come dice papà. E anche se ora
guarda la tv spenta, non è mica scemo. Ha ragione, quando in sardo dice: “sa zenti esti maua”. Proprio così. La gente è cattiva.
14 aprile 1993, Cagliari
Carissima Lisa, questa è la mia ultima lettera. Come avrai notato, ti scrivo dal carcere. Non è poi così brutto. C’è tanta gente come me, qui. Gente che mi capisce. E mi crede. Perché dico questo? Ora ti dico. Ogni tanto viene qui questo tizio, una specie di dottore del cervello. Viene e comincia a parlare, a dire stronzate. Paroloni e concetti complicati. Io sto ad ascoltare, per educazione, come mi ha insegnato papà. Questo tizio ha idee strane sul mio conto. Chissà come se le è fatte. Boh. Dice che, dieci anni fa, io ho ucciso quelle bambine perché ero arrabbiato con la mamma, sì, ero incazzato con lei perché era morta e mi aveva lasciato solo con un papà pazzoide. Così… per vendicarmi. Si può essere più idioti? Chi gli ha messo in testa queste cazzate psicanalitiche? Li ho uccisi per colpa tua, Lisa… e gliel’ho anche detto. Allora quello sorride, saputello, poi sai cosa mi dice? Dice che tu non esisti! Che sei solo una mia fantasia, una valvola di sfogo, un’ossessione per giustificare le mie azioni. Capisci? Dice che non ricevo tue risposte perché non sei reale, esisti solo nella mia testa.
Quello è tutto scemo! Però io gli do ragione. Lo faccio sentire intelligente. Mi ha consigliato papà di fare così. A proposito di papà, vuoi sapere cosa dice il tizio di lui? Mi ha detto che si è suicidato cinque anni fa, impiccandosi a una trave del salotto… e che è stato sepolto nel cimitero di Solus!
P.S.: Io non lo contraddico mai… sempre dietro consiglio di papà, che adesso è in cella qui con me. Mi fa compagnia. È seduto proprio accanto a me, sulla branda, e sorride mentre scrivo queste righe. Lui non crede affatto che io sia pazzo. Neppure io ci credo.
P.P.S.: il tizio non mi permetterà più di scriverti, quindi… Addio, Lisa. Da me… e da papà.
38 – TOBOGA
Precipiti. Precipiti a una velocità inimmaginabile dentro un tortuoso tunnel organico. Un budello serpeggiante che attraversa chissà cosa e sfocia in un luogo oltre ogni cartografia. Dopo il frastuono del poliedro, quel silenzio è gradito. Non c’è nulla che puoi fare. Nulla. È una discesa senza fine verso una meta sconosciuta. Eppure, ancora una volta, non provi nessuna paura. Quando l’invisibile pista per toboga si allarga nel buio e le note di una popolare melodia di John Lennon ti raggiungono, la sensazione che ti invade è come la quiete dopo la tempesta. Capisci subito di sbagliarti. La tempesta non è alle tue spalle, ma davanti.
39 – QUIETO VIVERE
Un accogliente salotto: ampie poltrone, divano, un televisore. Negli angoli, le casse di un sofisticato impianto stereo, diffondono le note della canzone Imagine. Accasciata in una delle poltrone di pelle, la donna risucchia avida il fumo catramato della sua Camel. La quinta. Sono solo le otto. Dalle finestre filtra il chiarore di un bel mattino autunnale. La donna osserva il pulviscolo che svolazza pigro nei raggi di luce. Non spolvera la casa da settimane. I secondi ano. Sospira una nuvola di fumo, poi aspira un’altra boccata. Le labbra scarlatte sussultano quando le chiude intorno al filtro della sigaretta. Le piace truccarsi bene, anche quando è in casa. In quell’istante il telefono squilla. Come ha già fatto molte volte. Lei sobbalza nella poltrona, sopraffatta da un improvviso e indefinibile terrore. Il cuore le batte più forte. Pensa: Come ho fatto a mettermi in questo casino? La donna si solleva con un gemito dalla poltrona, scuote la cenere sul pavimento, afferra il telecomando, spegne lo stereo e va a rispondere. Nel silenzio, gli squilli le sembrano urla. “Pronto?” Nessuna risposta. In sottofondo, soltanto il ticchettio di un orologio a molla. “Pronto? Sei tu? Basta! Smettila di chiamarmi!” Un click e infine il ronzio sordo della linea interrotta.
La mano trema quando riattacca. Un pensiero la turba. Oddio… e se lui decide di venire qui? Che faccio? Alloggia in una modesta villetta ai margini di Solus. Ha ato da poco i quarantacinque. Non è sposata. Per le donne del paese, automaticamente, è una “poco di buono”. L’unico vicino di casa è un operaio metalmeccanico. Un single, come dicono alla tv, non molto attraente, sia dal punto di vista estetico che da quello economico. Riservato e taciturno, ci ha provato pure lui, come tutti gli altri. Gli è andata male e non ha più insistito. È un tipo gentile. Potrei chiamarlo, stare da sola non è una buona idea… Quel mattino è già iniziato male, meglio non peggiorarlo. Gesù! Cosa mi è saltato in testa? Come ho potuto farlo? Torna alla poltrona, vi affonda con una smorfia e riprende a fumare. La nicotina le mitiga i dolori al ventre. Almeno quello. Non puoi tornare indietro. Ormai la cazzata è fatta. Il telefono squilla. La sigaretta le scivola dalle dita. Ormai è solo cenere grigia che si deposita sulle piastrelle, ingombre di mozziconi. Sospira, lascia squillare e se ne accende un’altra.
Una mansarda, buia, fredda, polverosa, piena di ragnatele penzolanti e quotidiani vecchi, accatastati ovunque e legati con lo spago. Nell’angolo più oscuro, una branda scrostata, di quelle che si ritrovano negli immondezzai, con sopra un sordido materasso. Nessuno, sano di mente, ci dormirebbe mai sopra. Il resto dell’arredamento: uno specchio ossidato che pende da un muro ammuffito, un cassettone di faggio smangiucchiato dalle tarme, dal soffitto pende una sporca lampada a cono rovesciato. Nel bugigattolo attiguo, oltre il labirinto di giornali impacchettati, la lurida tazza gialla di un water e un catino
rigato dalla ruggine. Sulla destra, l’unico e malconcio uscio di legno riciclato. Un uomo si muove irrequieto nella fitta penombra, goffo e impacciato, trainandosi dietro un vecchio apparecchio telefonico. “Rispondi, puttana!” grida nella cornetta. “Rispondi!” Annaspa tra i cumuli di carta umida, ingiallita e arricciata. Furioso, scaglia il telefono contro la parete, provocando una pioggia di calcinacci. Scalcia il ciarpame e urla bestemmie. Poi, ansimando, si avvicina al cassettone gonfio di tarme. Solleva il coperchio. I cardini emettono un cigolio raschiante. Infila dentro una mano. Fruga per un po’. Alla fine borbotta: “Ah! Eccoti qua.” Ritira la mano dal cassettone. La lunga lama coglie un barlume di luce e scintilla. L’uomo esce dalla soffitta sbattendo la porta con rabbia. Le ragnatele sfilacciate oscillano per lo spostamento d’aria e un altro pezzo di intonaco si stacca dal cadente tramezzo. Quest’ultimo è letteralmente tappezzato di ritagli ingialliti.
Al rientro dal lavoro, Roberto posteggia la Talbot nel box. Esce. Chiude la saracinesca. Attraversa il vialetto. Intorno, una rigogliosa erbetta spazzata dal vento. Il sole è bello alto. Dopo l’acquazzone del giorno prima il cielo è limpido. Non fa caldo, non fa freddo. Un leggero maestrale smuove e rinfresca l’aria. Niente di fastidioso. Allontana l’inquinamento.
Sta entrando in casa, per farsi una bella doccia scottante, quando sbircia oltre il basso muretto bianco che divide la sua proprietà da quella confinante. Vicino ai gradini dell’ingresso vede un giornale avvolto nel cellophane: L’UNIONE SARDA. Viene recapitato a domicilio ogni giorno. La sua bella vicina di casa è l’unica abbonata. Il postino suona alla sua porta ogni giorno lavorativo. Fatto che ha scatenato infinite chiacchiere. Pensa: Strano… a quest’ora non lo ha ancora ritirato? Per come la conosceva, oltre a essere una gnocca, lei era una maniaca dell’ordine e della disciplina. Pronta a lamentarsi se un filo d’erba del suo giardino, per qualsivoglia ragione, avesse violato i limiti catastali della proprietà. Una zitella rompicazzo, in definitiva. Dopo il previsto due di picche, l’aveva ignorata. A parte buongiorno e buonasera, quando si incontravano. In piazza e nel Bar Sport, circolava il pettegolezzo che qualcuno se la sbattesse per benino e in grande segreto. Probabile che si trattasse di un uomo sposato. Chi era? Uno del posto o no? La disputa, lubrificata da birre Ichnusa e amari Jägermeister, non era approdata a nessun risultato. Il mistero era impenetrabile. Prima di allontanarsi, Roberto nota un’altra cosa strana. La porta principale aperta. Socchiusa, per la precisione. Non è un ficcanaso, ma quei due dettagli lo incuriosiscono. Ripensandoci, non vede e non sente la stronza capricciosa da quattro mesi, ormai. C’è sempre silenzio dall’altra parte della villetta. Non sente più nemmeno il cicaleggio della televisione. Per la teoria del quieto vivere, non si è mai interessato ai cazzi della vicina. Di lei sa soltanto che ha ereditato da uno zio ricco. Orari diversi e poca voglia, poi, hanno congelato la situazione. Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni… Ad ogni modo, scavalca il muretto, sporcandosi le mani di calce e atterra sul vialetto. L’ernia nella sua schiena protesta. Sale i gradini, mentre una brutta sensazione gli monta dentro. Spinge la porta socchiusa, annusando l’aria come un cane. Percepisce odore di sporcizia, fiori secchi e deodorante per ambienti. Particolari
che accendono la sua blanda curiosità. Entra in casa. La chiama, producendo un’eco che lui stesso trova inquietante. “Permesso? Linda?” Nessuna risposta. La porta è aperta e lei non è in casa, forse… Abbassa la voce, senza capirne il motivo. “Linda?” Magari sta scopandosi il marito di un’altra e tu stai… In quel momento le vede. Inquadrate nel rettangolo di luce che entra da una finestra. Cinque gocce di sangue, allineate come birilli del biliardo. Oh, merda… cos’è successo? Inizia a cercarla. Dappertutto. Sa come muoversi, anche in quella poca luce, perche la sua villetta è uguale a quella. Lo stesso progetto, la stessa impresa edile, la stessa fregatura. In salotto. Niente. Non c’è. In cucina. Niente. Non c’è. In bagno. Niente. Non c’è. In camera da letto. Non c’è. Roberto sta quasi per concludere che lei non è in casa, che si è tagliata il mignolo con un coltello Shogun mentre sbucciava un’arancia ed è uscita di corsa per andare dalla guardia medica, dimenticando di chiudere la porta e non
accorgendosi che il giornale era arrivato… … quando percepisce quel rumore. Cerca di localizzarlo. Proviene dal seminterrato. È il rombo sordo della lavatrice. Un continuo e convulso Ruuuum-tump! Ruuuuum-tump! Il solito rumore, insomma, a parte quel tonfo intermittente. Forse è in cantina, per fare il bucato… e non mi ha sentito. Abbastanza rassicurato, si incammina verso il corridoio. Apre una porta. Dietro, la rampa di scale si perde nelle tenebre. Fa il bucato al buio? Il rumore della lavatrice è quasi assordante, forse perché è l’unico in tutta la casa. Sono in pochi ad abitare nella zona. Roberto allunga una mano verso l’interruttore. Lo preme e il fondo a gomito delle scale si illumina. Ruummrrumuumm-tump! Ruummrrumuumm-tump! Scende i gradini, svolta l’angolo e la faccia gli si sbianca. Ha trovato Linda. Giace, spezzata come un fantoccio, ai piedi della scala. Le pareti intonacate del seminterrato sono schizzate di sangue. Cola a rivoli, giù, fino al pavimento piastrellato di bianco. Il corpo della donna è squarciato. Tagli regolari, lunghi e profondi come in quel brutto quadro che ha visto in una rivista, mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Braccia e gambe sono disarticolate su ginocchia e gomiti. Manca solo una cosa.
La testa. I suoi occhi ruotano verso la lavatrice. Da quella prospettiva, Roberto non riesce a vederla. Discende gli ultimi gradini e scavalca il cadavere. Non vuole rischiare di calpestare il sangue. Finire accusati di un omicidio, con tutto ciò che sta accadendo nel paese, sarebbe fin troppo facile. Negli ultimi anni c’erano stati più delitti a Solus che nell’intera Sardegna. Già si immagina il grosso titolo sul giornale del giorno dopo: operaio, innamorato respinto, massacra la bella e facoltosa vicina in un raptus di follia. Chi avrebbe mai creduto alla sua innocenza? A mezzo metro dal cadavere di Linda, si blocca di colpo. Fissa l’oblò. Subito vede quella cosa, in balia della centrifuga, in mezzo a spruzzate di schiuma rossastra. La guarda girare, sbattere e rotolare, i lunghi capelli bagnati che strisciano contro il vetro. Nonostante la nausea, non riesce a distogliere lo sguardo. “Mio Dio…” mormora, portandosi la mano alla bocca. Roberto gira sui tacchi delle scarpe antinfortunistiche, per tornare a gambe levate nel suo giardino, ma un’ombra in controluce gli sbarra la via di fuga. Venti centimetri di puro acciaio inox gli tagliano i vestiti, penetrano nello stomaco e spuntano dalla schiena, incidendogli per caso l’ernia del disco. “Idiota…” dice l’ombra. “Non lo sai? La curiosità uccide.” Prima di morire, Roberto non può che essere d’accordo.
40 – CONTROLUCE
Anche se non hai un corpo materiale, senti quella lunga lama, bollente, affilata, sfregare sulle ossa della tua colonna vertebrale e agitarsi in mezzo alle tue viscere… Purtroppo, non sei riuscito a vedere in faccia l’aggressore: il viso dell’uomo era messo in controluce dalla lampadina appesa sulle scale. Da quello che hai potuto capire, comunque, si tratta dello stesso tizio che raccoglieva i ritagli di giornale. Perché? La fitta nello stomaco scompare, in corrispondenza con il riprendere della folle discesa dentro la galleria oscura. In un certo senso, rifletti, è proprio come trovarsi all’interno di un gigantesco apparato digerente, dentro la pancia di una balena. Più scendi in basso e più la via diventa stretta. Più diventa stretta e più sembra veloce la caduta. È una brutta sensazione, trovarsi prigionieri…
41 – SANGUE
Non posso muovermi. Non posso urlare. Non posso muovermi perché sono immobilizzato su questo pavimento di cemento. Fasce d’acciaio mi bloccano le caviglie, i polsi, il collo, le tempie e il torace. Allungato su questo freddo e granuloso impiantito grezzo, posso solo muovere gli occhi nelle orbite e flettere le dita di mani e piedi. La testa è bloccata come in una morsa. Anche sforzandomi al massimo, non riesco a vedere gli spessi anelli metallici, ma sento la loro gelida e tenace morsa sulla carne. L’unica cosa che vedo è il basso soffitto pieno di crepe. C’è una piccola lampadina nuda che oscilla sopra di me. Nient’altro. Le pareti sono spoglie e chiazzate di muffa. Non posso urlare perché sono muto dalla nascita. Credo che lui l’abbia sempre saputo. Io non l’ho mai visto prima. Tuttavia, lui deve avere sentito parlare di me. A Solus, il paesino dove sono nato e cresciuto. A proposito, adesso dove sono? Da quanto tempo ci sono? Sono rinvenuto da una manciata di minuti. Ci ho messo un po’ per capire che non era uno dei miei soliti sogni. Non faccio mai bei sogni, questo è pacifico. È un incubo, questo sì, ma non di quelli che sfumano al risveglio. Anzi. L’esatto contrario. Cosa mi è successo? Non ricordo bene.
Stavo zappando le patate nell’orticello, dietro casa mia, alla periferia ovest di Solus, proprio sotto la torre idrica, quando… beh, qualcuno mi ha dato una bella botta in testa. Adesso so che è stato lui, ma all’inizio ho immaginato che fosse solo un colpo di sole. Da queste parti picchia molto forte. Erano le tre del pomeriggio. Ma non era il sole. Era lui. Chi è? Cosa vuole da me? Perché mi ha rapito? Di certo non per ottenere un riscatto dalla mia famiglia. Se mi conosce, sa che sono il classico “scemo del villaggio”. Deve sapere che io non ho nessun parente. Niente e nessuno. Quindi, perché? Lo scoprirò presto. Immagino. L’unica volta che ho visto la sua faccia è stato poco fa. È apparsa, all’improvviso, sopra di me, eclissando la luce gialla della lampadina. Una banale faccia rotonda, abbronzata e sorridente, sormontata da pochi capelli sottili e coperta da una barbetta incolta. Denti macchiati. Nulla di particolare, a parte due vivaci occhietti grigi, circondati dalle tipiche rughe dei manovali edili. Come dicevo, è una faccia nuova. “Ti sei svegliato?” ha detto in quell’occasione. “Mi spiace di averti lasciato sollo. Sono andato a mettere la macchina in garage. Sta per piovere. Aspetta ancora un po’. Torno subito.” E se n’è andato. Non mi piace come parla. Ha qualche problema con le elle, come molti degli abitanti della zona. Io non ho questi problemi. Vorrei averli. Vorrei poter urlare e chiedere aiuto a squarciagola. Ma lui sapeva. Ha rapito me per non correre questi rischi.
Può farmi ciò che vuole, senza che nessuno se ne accorga. Una cosa è certa: vuole farmi qualcosa. Qualcosa di brutto. Qualcosa di doloroso. Altrimenti non mi avrebbe assicurato al pavimento in questo modo, dentro una stanza di cemento grezzo, senza finestre e con una sola, inquietante porta d’ingresso. Sulle pareti non c’è appeso nessun attrezzo. Non una chiave, non un trapano, non una sega, una piallatrice, una morsa. Non è un’officina. Comunque sia, anche se non capisco come faccio a saperlo, c’è qualcosa di premeditato in tutta la scenografia. Scorgo appena, con la coda dell’occhio destro, lo scheletro bruciato di una sedia imbullonata al cemento. Lui è un serial killer, come quelli della televisione? Oppure questa è solo una variante “una tantum” alla routine delle sue giornate? Chissà. Ripenso a tutte le persone scomparse da Solus negli ultimi anni, per un motivo o per l’altro. Non avrei mai immaginato di finire su quella lista nera. Come fanno tutti. Stanza vuota, quadrata e senza finestre, forse insonorizzata. Quindi, anche se potessi strepitare a piacimento, non servirebbe a nulla. Lui è organizzato. Non è un pivello alle prime armi. Posso azzardare un’ipotesi? Secondo me è pazzo. Oh! Parli del diavolo… Sta tornando. La porta si apre e chiude. i. Eccolo. Oscura la lampadina oscillante con il suo brutto faccione. La sua espressione non è cambiata. Neanche la pronuncia. “Ho preso un paio di cose per te, in garage.”
Come un bambino che espone le sue nuove biglie colorate all’amichetto, lui mi mostra uno scalpello. Quindici centimetri, verniciato d’arancione, un po’ scrostato dall’usura sulla punta. Poi mi mette davanti agli occhi un martello strappachiodi. Sorride. Non mi piace quel sorriso. È quello delle iene. “Ti piacciono i miei regalini?” Comincio ad avere paura. Potessi urlare, comincerei a farlo. Invece posso solo sussultare e sudare. Lo faccio. “Perché tremi? Pensi che voglia farti malle?” Il raddoppio delle elle non lo rende meno mostruoso. Dice una cosa, ma ne pensa un’altra. Lo capisco dal ghigno. E dal fatto che avvicina scalpello e martello alla mia faccia. Cerco di muovere la testa. Non ci riesco! Non ci riesco! Chiudo gli occhi. Vuole cavarmeli? Lo so! Non voglio! “Stai calmo! Come te lo devo dire? Se ti muovi è peggio.” Apro gli occhi. Lui si mette cavalcioni sul mio petto. Pesa un quintale. Terrorizzato, spalanco la bocca per gridare ma, come faccio da quando ero bambino, emetto un grugnito indistinguibile da quello di un maiale scannato. Lo so bene, perché mio padre era l’unico macellaio di Solus, prima di decidere di affettare la moglie fedifraga e la suocera impicciona, lasciando nella merda quell’imbarazzante figliastro muto. È morto suicida in una cella di Buoncammino, qualche anno più tardi, impiccandosi con il suo puzzolente pigiama a righe alle sbarre della finestra. Ad ogni modo, più di quel grugnito non posso fare. È stato un errore aprire la bocca!
Perché lui, lesto, ci ha infilato dentro una pallina di gomma. Soffoco! Ora il cuore mi batte forte. Sento molto male alle costole. Non riesco a sputare la pallina. Non riesco a chiudere la bocca. La punta dello scalpello è a un centimetro dai miei denti. “Scusa se non lo faccio bene. È la prima volta.” La punta si posa sul mio incisivo destro con un tintinnio. Oh no! No! Il mio dente! Il mio dente! “Fermo! Se chiudi gli occhi ti taglio le palpebre, capito?” Il martello si alza e si abbassa sulla testa dello scalpello. Un sinistro rintocco metallico rimbalza sulle pareti. La punta di ferro colpisce l’incisivo… (crac!) … che si spezza. Dolore atroce! Il sangue zampilla in bocca e si riversa nella gola. Ha uno strano sapore minerale. Caldo e sciropposo. Mi gira la testa, non vedo più niente… è… tutto… giallo e buio. Ho la pallina in bocca. Non devo inghiottirla. … Oh, Dio… “Attento, stai chiudendo gli occhi!” … non devo… svenire… Svengo.
(…)
Non posso muovermi. Non posso urlare. Ho la bocca piena di dolore e sangue e denti rotti. La pallina di gomma non c’è più. Sputo. Fa molto malle, come direbbe lui. Sorridendo.
Io non potrò più farlo. Mentre ero privo di sensi, lui mi ha spezzato tutti i denti. Uno per volta. Svengo di nuovo. Mi piace svenire. Non sento dolore. Sì. (…)
Un torrente di acqua gelata e fetida sulla faccia. È tornato. Mi guarda e sorride al di sopra di un secchio di plastica blu. Se ne va di nuovo. La porta sbatte. Scatti di una serratura. I i si allontanano. Spero non torni più.
Torna subito. Il suo faccione si curva su di me. Ha qualcosa in mano. Non voglio sapere cos’è! Non posso vederlo! Eppure, lo guardo. La mente umana è una stronza bastarda. Vedo grosse forbici, lame ricurve, lucide e lucenti. Credo che il nome giusto sia trinciapollo. “Ho un altro regalo per te. Vuoi provarlo subito?” Lui ora sembra felice, e questo centuplica il mio terrore. Dà un colpetto con la fronte alla lampadina, di proposito, per farla oscillare, poi si allontana. Non di molto. In pratica esce soltanto dalla mia visuale. Le ombre danzano nella stanza. Lo sento respirare. Anche se il mio corpo è intorpidito dalla prolungata immobilità e dalla costrizione delle estremità, avverto una gelida pressione sul mio mignolo sinistro. All’altezza della prima falange. Non voglio pensare a ciò che significa. Sento la sua voce, roca ed eccitata: “Che bel mignolo!” La pressione aumenta di colpo. Zac! Dolore! Quando mi riprendo, con le lacrime agli angoli degli occhi (non mi ha tagliato ancora le palpebre, per adesso), capisco di aver perso il mignolo. Da qualche parte ho letto, mi pare fosse un libro del fondatore di Scientology (mi piace leggere, visto che non posso parlare con nessuno) che il dolore (fisico o mentale) è sempre causato dalla perdita di qualcosa. È la verità. “An-ghi-gò… questo dito a chi lo do?” canticchia lui.
Come diceva quel presentatore: e non finisce qui… La lampadina sopra di me si sdoppia. I suoni rallentano. Sto per svenire di nuovo? Grazie, Dio. Nonostante tutto. Grazie. (…)
“Oh-oh! Che alluce grande che hai!” (…)
Riprendo conoscenza. Sono molto debole. Se ricordo bene, quello che succedeva prima che svenissi e se il dolore agli arti non mi inganna… beh, credo di non avere più nessun dito. Non potrò più contare sulle dita, leccarle, arle tra i capelli. Niente. Senza denti e senza dita. Il cemento intorno al mio corpo è rosso del mio sangue. Non lo vedo con gli occhi, non posso, ma lo percepisco, appiccicoso e bagnato sotto la schiena. L’aria puzza di urina, immagino sia la mia. Non so quanto ancora resisterò. Potrebbe durare per giorni o settimane. Spero di no. Lui è andato da qualche parte. Magari a fare uno spuntino. Piango. (…)
Il tempo a indifferente, senza che io possa calcolarlo. (…)
È di nuovo qui. La lampadina è spenta. Ci vedo lo stesso, perché lui ha una candela in mano. La fiammella tremolante crea spettrali chiaroscuri sul suo viso. “A lume di candela, sono romantico o no?” dice, sornione. Poi la avvicina alla mia testa. Una goccia di cera bollente mi cade dentro un occhio. Grugnisco. Batto le palpebre, frenetico. La vista appannata. Lui ride. “Scusami. Non l’ho fatto apposta.” Sento il sudore inondarmi la fronte. È sudore freddo. Un’altra goccia incandescente mi acceca l’altro occhio. “Questa volta sì!” esclama lui, divertendosi come un matto. Continua a punzecchiarmi con la cera fino allo svenimento. (…)
Quanto tempo è ato? Ore? Giorni? Mesi? Non so. Ho fame. Ho sete. Questo è il mio ultimo problema. Non saranno certo la fame o la sete a uccidermi.
No. In un certo senso, ora, sono contento di non poter urlare. Il dolore lo tengo dentro. Tutto per me. Credo che lui se la serebbe molto di più se urlassi. Anche se questo, alla lunga, potrebbe metterlo nei guai. I miei grugniti da porco, insoddisfacenti, lo hanno stufato. Sono sicuro. Non ripeterà l’errore. La prossima volta sceglierà una vittima con corde vocali sviluppate. Con un po’ di sadica fantasia, riuscirà a strappargli fuori l’anima a forza di urla. Con me non può farlo. Mi ucciderà, prima o poi. È inevitabile. Del resto, dopo che mi ha bruciato i capelli e le orecchie con la sua candela, non devo avere un bell’aspetto. Neanche per lui. Inizio a puzzare. Pazienza. Lo so che è da squilibrato, ma una cosa mi rallegra… Le urla, quelle che sento nella testa, sono soltanto mie.
42 – STRESS
Cadi nel buio. E ti lasci alle spalle quelle urla. Si perdono in lontananza, con un’ultima eco disperata, come la sirena di un’ambulanza che ti incrocia sulla strada. È una benedizione per i tuoi grevi sensi di colpa. La tua coscienza, dopo tanto stress emotivo, è allo stremo. Cadi nel buio, come un grumo di pensieri confusi, come un’identità privata di qualunque punto di riferimento, come se la tua personalità fosse scissa e incanalata nelle pericolose montagne russe di un invisibile e terribile parco dei divertimenti cosmico… Cadi nel buio.
43 – LA MEDICINA
Al risveglio, in quella bigia mattina di ottobre, Luca, sei anni, sentì il corpo pieno di fuoco liquido. Aveva l’influenza (filippina, sosteneva la televisione). La febbre era salita a 39°. Tirò le coperte sul naso arrossato, intasato e sgocciolante di muco. Allungò il collo e sbirciò fuori dalla finestra, con occhi gonfi. Una macchina si era fermata nel vialetto. Il rimbombo del motore e un clacson lo avevano strappato dal suo sonno. Chi era? Non conosceva quella macchina. Era una lucente Citroen AX. Sembrava appena uscita dall’autosalone o forse dalla fabbrica. Luca non riusciva a ragionare bene, a causa dei brividi e della debolezza che già da due giorni lo costringevano a letto, mentre tutti i suoi amici dell’asilo si preparavano per Halloween. Questo lo irritava. Non voleva perdersi quella festività! Era una figata. Aveva deciso (con il consenso di papà e mamma) di travestirsi da bambino “zombie” e, trascinandosi di casa in casa, bussare alle porte e gridare: “Dolcetto o scherzetto?” A Solus, paese molto arretrato (oltre la media del Sulcis), quella non era una festa apprezzata. Era “un’americanata”, dicevano i pensionati, seduti sulle panchine della piazza, scatarrando per terra. Le nonne non dicevano nulla, ma si facevano il segno della croce. In ogni caso, tra i bambini in età scolare la moda stava prendendo piede. Era una buona scusa per uscire di casa dopo il tramonto e fare cagnara, con possibilità di farla franca. E adesso Luca, nonostante la nausea, aveva fame. “Mamma?” chiamò, con una vocetta rauca e catarrosa. Tossì. Chiamò ancora: “Mamma! Ho fame!”
Tese l’orecchio e ascoltò. Qualcuno salì le scale. Mi ha sentito! Pensò Luca, sprofondato nelle coperte. La porta si spalancò muovendo l’aria viziata e la mamma entrò di corsa nella camera, illuminata di taglio dai tenui raggi del sole appena sorto. Nei raggi brillavano granelli di polvere. “C’è una visita per te, Luca…” esordì la mamma con un sorriso. L’orlo della sua gonna corta svolazzò. “Indovina chi è?” L’interrogativo ondeggiò nell’aria come la polvere. Una scarna figura agghindata di nero, con sottobraccio una borsa di pelle spiegazzata, varcò la soglia. Profumava di muffa. Luca si girò sul fianco, riempiendo di muco il guanciale. Tirò su il moccio con il naso e scrutò la visitatrice. Era la zia Ilaria, vedova dello zio Matteo, fratello maggiore della mamma, morto in fabbrica dieci anni prima, spremuto da una pressa idraulica difettosa. La detestava. Quella donna era in lutto perenne e totale: non scherzava mai, non indossava mai nulla di colorato, teneva tutti i capelli raccolti in una crocchia e, soprattutto, non gli faceva mai una strenna o una carezza. Né a Natale né per il suo compleanno. Ed era il suo unico nipotino. Vedendola, i brividi di Luca aumentarono d’intensità. “Non fare quella faccia!” esclamò la mamma, accorgendosi del suo disappunto. Al contrario del figlio, lei stravedeva per la lugubre cognata. avano i pomeriggi sul divano del salotto, tra una tisana e un biscotto d’avena, chiacchierando di cose con nomi incomprensibili: fiori di Bach, omeopatia e medicina ayurvedica. “Saluta zia. Lo sai quanta strada ha fatto per te?” In realtà, erano meno di cinquecento metri in linea d’aria. “Ciao, zia. Hai cambiato macchina?”
“Sì. L’hai vista dalla finestra? Bella, vero?” A Luca non piaceva la macchina e nemmeno la zia. Non gli piaceva come lo guardava, con gli occhi socchiusi. Naturalmente, un bambino di soli sei anni, anche se “sveglio per l’età”, questo non poteva farlo trasparire. Quindi schiarì la voce e, facendo l’educato, disse: “È molto… sportiva.” La zia sorrise: un sorriso appena abbozzato che rivelò più denti falsi che originali e triplicò le rughe del suo volto pallido. “Consuma molto. Tu piuttosto, mi sembri un po’ a terra.” “Ho la febbre.” La mamma intervenne: “Questa filippina è tremenda. Non ci sono medicine ortodosse veramente valide per curarla, vero?” Ortodosse? Che cavolo vuol dire? Rifletté Luca. Zia Ilaria scosse il capo, tristissima e infelice, come se le avessero appena comunicato la morte del suo adorato criceto, Giona. Un fagotto grigio-sporco spelacchiato che non faceva altro che girare dentro una vecchia ruota cigolante. Luca non andava matto per quegli animaletti. Nella crocchia della zia, notò, cominciavano a vedersi i primi fili bianchi. Stava invecchiando, molto più velocemente della mamma. Le rughe a ventaglio intorno ai suoi occhietti erano sempre più profonde. Con il suo tono da catechista coscienziosa (funzione che lei svolgeva senza scopo di lucro per i “cresimandi”, ogni lunedì pomeriggio alle 16.00 nella sala dell’oratorio dietro la chiesa), zia Ilaria spiegò: “Questo non è vero, Marta, una medicina c’è. Guarda caso ne ho portato una dose per il mio unico nipotino!” Il volto della mamma si illuminò. “Dici sul serio?!” “Seria!?” sbottò la zia, aprendo la grossa borsa che teneva sotto l’esile braccio sinistro. “È una medicina testata e provata. Esiste da sempre. Matteo l’ha presa senza prescrizione.”
La luce abbandonò il viso della mamma. La zia Ilaria, annuendo, infilò la destra nella borsa. “È una cura universale. Va bene per tutti mali della vita.” Dalla borsa, zia Ilaria, cavò una grossa e tagliente accetta. “Questa è l’unica medicina!” sbraitò, sputando saliva. Luca gridò. La mamma gridò. E si lanciò sulla zia. Per questo motivo, la mamma fu la prima a provare la “medicina” della zia. Lei gliela somministrò in una singola dose, affondandole la lama di sbieco nella bocca. Affondò fin dietro alle orecchie. Il sangue schizzò sulle coperte. Luca scattò in piedi, gli occhi strabuzzati dall’orrore. La zia sferrò un calcio nella sua direzione, impedita dalla ingombrante gonna lunga di panno, mentre con entrambe le mani cercava di disincagliare l’accetta dalla testa della cognata, che ora mostrava un gigantesco sorriso lacero. Quest’ultima, negli estremi istanti di agonia, si era avvinghiata al pesante copriletto trapuntato, tirandolo a sé come una rete da pesca. Morì qualche istante dopo. Nello stesso momento, spossato dalla febbre, Luca evitò il calcio, rotolò sul pavimento, si rialzò e infilò di corsa la porta. L’istinto alla fuga, in quel frangente, divenne più forte di tutto. Con uno schiocco orribile, la zia riuscì a liberare l’accetta. “Fermati! Dove scappi?” gracchiò, mentre partiva all’inseguimento. “Devo darti la medicina! È molto amara, all’inizio, ma poi ti farà stare meglio! Fermati solo un attimo!” Luca non si fermò.
Non voleva quella medicina. Continuò a correre lungo il corridoio e poi giù per le scale. Prese un certo vantaggio. In casa, a quell’ora, non c’era nessuno. Il papà sarebbe rientrato dal lavoro a tarda sera. Che fare? Doveva nascondersi! Attraversò il salotto e si rifugiò in cucina. Chiuse la porta e si guardò attorno in cerca di un telefono. Gli occhi colmi di lacrime. Tutto il suo corpo sussultava all’impazzata. Individuò il telefono. Sollevò la cornetta e fece il numero dell’ufficio del papà. Dietro la porta sentì la voce della zia, affannata e sibilante. “Esci, dai! Ascolta la zia. Mi senti? Vuoi restare malato?” Credeva che la porta fosse chiusa a chiave. Non lo era. Era chiusa e basta. Mamma aveva perso la chiave di quella porta anni prima. La zia cominciò a bussare sul legno con la lama. Pack! Pack! Pack! All’altro capo del telefono, nessuno rispose alla chiamata. In preda alla disperazione, Luca immaginò l’ufficio vuoto del papà (era andato alla “Posta”, accompagnato dalla mamma, l’estate prima) e il telefono grigio che squillava sulla scrivania. Squillava. Squillava. Squillava. “Prendi la medicina! Ti farà bene!”
Tremando come un uccellino caduto dal nido, Luca ascoltò l’impietoso tuuh… tuuh… del telefono, premuto con forza sull’orecchio e stretto nel pugno, fino quasi a stritolarlo. Se la zia si accorge che la porta non è chiusa a chiave… Quasi a farlo apposta, proprio allora, se ne accorse. Il cigolio della porta che si dischiudeva raggelò Luca. L’accetta insanguinata della zia fece capolino oltre lo stipite. Poi anche la zia penetrò in cucina, brutta come la morte. “N-no…” balbettò Luca, attaccato al telefono. “No, no…” Zia Ilaria sogghignò, mostrando i denti falsi e gialli. “Hai finito di correre? Sei pronto per la medicina?” Luca era incapace di scollarsi dal telefono. Tuuh… tuuh… click! “Pronto? Pronto? Ma chi è?” Era lui! Era il papà! “Sono io! Aiuto! Aiuto!!!” La zia gli si scagliò contro in un fruscio di panni odorosi di naftalina, l’accetta sollevata, una smorfia che le alterava il viso. “Ingrato!” sbraitò, calando l’ascia. “Ti porto la medicina e tu non la vuoi prendere? Però la mia eredità la vorresti, vero?” L’accetta calò… “Chi è? Ragazzi, basta con questi scherzi di Halloween!” … e tagliò il cavo a spirale del telefono, facendo sprofondare la lama nel mobile sul quale era appoggiato l’apparecchio.
Tremante, Luca si rintanò in un angolo, tra tavolo e forno. La zia divelse l’accetta dal ripiano e si volse verso di lui. “Smettila di scappare. Credi che mi faccia piacere farlo?” Avanzò. “Oh, ma guarirai, guarirai da questo brutto male della vita, te l’assicuro… e non ti ammalerai mai, mai più! Promesso!” Ormai, Luca aveva dimenticato l’influenza, il naso otturato e la gola infiammata. Spalancò la bocca. Chiuse gli occhi. Prese un grosso respiro e urlò a squarciagola: “No! Zia! Non…”
Non voglio la medicina! La porta si spalancò spostando l’aria, immobile e stantia. Quel rumore fece sobbalzare Luca e lo svegliò dall’incubo. Sbatté le palpebre nella luce di un debole sole mattutino. Con occhi lucidi di febbre, girò lo sguardo verso la porta. La madre entrò nella stanza. Il pulviscolo roteava nei raggi. “C’è una visita per te, Luca…” annunciò la mamma con un sorriso, aggiustandosi il bordo della minigonna. “Indovina…?” Prima che l’interrogativo si dissolvesse, Luca, invaso da un gelido terrore, gridò: “Non farla entrare! Mamma! È zia Ilaria!” La mamma sgranò gli occhi, sorpresa e un pochino turbata. “Luca…” bisbigliò a bassa voce. “Come hai fatto a…” Una figura vestita di nero affiancò la mamma.
44 – VELOCITA’ DI FUGA
Sogno premonitore. Viaggio nel tempo. Déjà-vu. Non sai come classificare quella visione, terribile nella sua inesorabile e spietata circolarità. Il destino di quel bimbo ti è precluso. La morte è una medicina amara, pensi. Comunque vada. Non ci sono più tornanti, adesso, la caduta è rettilinea. L’accelerazione ha raggiunto il picco massimo. È assurdo percepire lo spostamento in un contesto immateriale e senza punti fissi su cui basare le proprie sensazioni, eppure è così. D’altronde, non è certo la cosa più strana. Entrare e uscire dai pensieri delle persone lo è di più. “La vita è piena di brutte sorprese.” Una voce maschile, matura, priva dell’accento sulcitano. “Scoprire di essere il marito di…” Come è già avvenuto spesso, nelle tue visioni precedenti, prima arrivano le voci, poi le immagini… Per ultime, le emozioni.
45 – GIOIA
La vita è piena di brutte sorprese: scoprire di essere il marito di una psicopatica omicida è una delle peggiori. Almeno credo. Mi chiamo Giorgio Montalfano, ho cinquant’anni e, fino a qualche giorno fa, sono stato insegnante di matematica nella Scuola Media Statale “G. Deledda” di Solus. Soltanto una settimana fa mi ritenevo una persona normale, con una vita qualunque. Di certo non mi aspettavo di comparire in televisione. Ho avuto i miei quindici minuti di popolarità. Ne avrei fatto a meno. La cronaca nera non mi è mai piaciuta. Procediamo con ordine. Prima delle dieci e venti di lunedì mattina tutto andava abbastanza bene. Avevo un lavoro soddisfacente, una bella moglie e una vita accettabile. Vivevamo nella villetta ereditata dai defunti suoceri. Mia moglie, Gioia, nonostante tutto quello che era successo, era splendida. Dopo undici anni di matrimonio e convivenza, non mi sono mai pentito di aver pronunciato il fatidico “sì”… Finché Gioia, senza bussare, è entrata nell’aula della Terza D, alla fine dell’ora, con una Beretta 9mm stretta in ciascun pugno. Era una visita che proprio non mi attendevo.
“Gioia?” balbettai, sgranando gli occhi sbalordito dalla sua inattesa apparizione, mentre lei si chiudeva la porta alle spalle. Tutti gli studenti seguirono la direzione del mio sguardo e videro le pistole. Una ragazza strillò e si scatenò il finimondo. Episodi di questo genere non succedono spesso nelle scuole sarde. Armi automatiche e sparatorie in classe sono di routine solo negli Stati Uniti. Non pensi che possano accadere nella tua classe, durante la tua lezione… per mano di tua moglie.
Quando esplose il panico, Gioia avanzò con lunghe falcate nervose nel corridoio centrale fra le file di banchi. Aveva i capelli spettinati, le pantofole ai piedi e uno sguardo allucinato. “STATE FERMI!” gridò, puntando la pistola sinistra verso un gruppetto di alunni avventurosi che avevano già raggiunto la finestra. Eravamo al pianoterra. Quelli si bloccarono subito. Con l’altra pistola, teneva sotto tiro me. La sua posa, per un momento, mi ricordò Lara Croft. Non trovai niente di comico nell’analogia. Nell’aula tutti si immobilizzarono e calò il silenzio. Restai in piedi dietro la cattedra, inebetito dallo shock, le dita tremanti sporche di gesso bianco. Sfido chiunque a reagire in maniera molto diversa in una situazione di questo tipo. Credetemi sulla parola. Gioia sorrise, soddisfatta. Il rossetto era l’unica traccia di colore nel suo volto teso. Era pallida e i suoi occhi avevano un brillio di brace che non aveva niente di sano e tutto di malato. “Gioia?” ripetei, con un filo di voce. Parevo un robot umanoide che sapeva dire solo una parola. Lei mi scrutò inclinando la testa, dai tacchi delle scarpe alla punta dei capelli. Quello sguardo gelido mi fece rabbrividire. Non era il tipo di sguardo che ti aspetti da tua moglie. In paese dicono che somiglio a Errol Flynn (forse a causa dei baffetti), ma non ho di sicuro il suo atletico coraggio. Dicono anche che, nonostante sia nato e cresciuto a Carbonia, sono siciliano. In realtà, lo erano i miei genitori, che si sono trasferiti nel Sulcis dopo la guerra. Mio padre, geologo, lavorava in miniera. “Allora…” esordì Gioia, indicando gli studenti con un breve scatto del capo. “Credo sia arrivato il tempo delle spiegazioni!”
“Cosa stai dicendo? Sei impazzita?” “Non fare il finto tonto. Vuoi dirmi che tu non hai capito?” Cosa aveva scoperto? Non capivo. “Non sei lucida, amore…” dissi. “Dammi quelle pistole.” “Non ci penso nemmeno.” Quelle due pistole, Gioia le aveva ricevute in eredità cinque anni prima dal fratello Sergio (e come lui se le fosse procurate non l’avevo mai saputo), carabiniere, morto in servizio in una sparatoria durante un posto di blocco. Per quanto ne sapevo, erano rimaste dentro un armadio blindato per tutto quel tempo. Non immaginavo neppure che lei sapesse come usarle. “Stai spaventando questi ragazzi!” esclamai, esasperato. “Spaventando?” ribatté Gioia, guardandosi rapida intorno, ma senza perdermi d’occhio. “Non vedi come sono interessati? I giovani d’oggi sono diversi da noi: non si spaventano mai.” In effetti, notai che qualche ragazzo, in barba alla scienza del comportamento, si era accomodato di nuovo al suo posto e seguiva lo svolgersi degli eventi con aria annoiata. Il gruppo accanto alla finestra (oltre la quale potevo vedere gli eucalipti dietro il campo per il calcetto), immobile come un complesso marmoreo, non mostrava ulteriori sintomi di panico. Qualcuno, addirittura, sbadigliò e incrociò le braccia. Come a dire: Beh!? “Non fare pazzie, amore. Calmati.” “Pazzie? Non credo proprio. Quelle le lascio agli altri.” “Non so proprio di cosa stai parlando!” Trentadue studenti seguirono sbigottiti lo scambio di battute. Lo smarrimento iniziale, forse, aveva lasciato il posto a un pericoloso senso di
estraniamento: come se la scena si stesse svolgendo alla tv e loro fossero soltanto spettatori. Pensavano di essere al sicuro. Dopotutto, mia moglie ce l’aveva con me. Alcuni parvero affascinati dalla circostanza. Una noiosissima lezione si era trasformata, nel giro di pochi secondi, in un avvincente dramma. Una bella storia da raccontare in Piazza. Concentrando tutto il mio poco sangue freddo, mossi i piedi a fatica e girai piano intorno alla cattedra. Tenevo le braccia sollevate, mostrando i palmi aperti, come avevo visto fare spesso nei telefilm polizieschi. Qualunque cosa fosse successa nella sua mente, nelle ultime tre ore, cioè da quando era uscito da casa (mentre lei dormiva), dovevo cercare di placarla. Non volevo che perdesse le staffe a causa di movimento avventato. Domanda idiota. Perché ha preso quelle pistole? Il vero interrogativo era un altro: sa davvero come usarle? Non ci tenevo a saperlo. Tentai un approccio alternativo. “Stai calma, Gioia. Parliamone. Da soli. Usciamo da qui.” Mi avvicinai. La tensione nell’aula muta crebbe a dismisura. Pareva che tutti i presenti trattenessero il respiro. Non credevo che volesse fare male a qualcuno. Non potevo immaginare la donna con cui facevo l’amore ogni fine settimana uscire così di testa al punto da compiere una strage. Non era possibile. “Sono molto calma…” Inarcò un sopracciglio. “Tu, invece, mi sembri un tantino nervosetto. Qualcosa da nascondere?” Ero a pochi i da lei. “È una follia. Ti rendi conto di cosa stai facendo?” “Perfettamente. Questa mattina ho avuto un’illuminazione.” Un confuso mormorio di consenso si sparse tra gli studenti. L’atmosfera era simile a quella di uno spettacolo teatrale.
“Bene…” sospirai, fermandomi a quattro i di distanza da lei, abbassando le mani lungo i fianchi. Potevo percepire il suo alito. Odorava ancora di dentifricio. “Qual è il problema?” Non riuscivo a trovare un contegno adeguato alla situazione. Per qualche istante, Gioia sembrò riflettere sulla domanda. I suoi occhi guizzavano. Dava l’impressione di tenere tutti sotto tiro. Impossibile. Ma era anche improbabile che un’aspirante suicida azzardasse una reazione, contando su questo effimero vantaggio. Sentivo che nelle altre due aule, accanto alla mia, le lezioni continuavano. Nessuno si era accorto di nulla. Per ora. Devi fare qualcosa! “Il problema?” ribatté Gioia, puntandomi la pistola in faccia. “Al contrario. Io sono qui, adesso, per fornire una soluzione.” Ero sbalordito. “Che cavolo ti prende? Non ho nessuna amante! Lo giuro!” Una risatina soffocata risuonò tra gli involontari spettatori. “Amante? Chi sta parlando di una cazzo di amante?” sbottò mia moglie, vibrante come un cavo elettrico. “Pensi che stia ad ascoltare i pettegolezzi di questo fottuto paese? La cosa è più grave. Capisci? Siamo quasi giunti alla fine di tutto!” Lanciai uno sguardo ai miei alunni. Era come osservare un affresco o una specie di tableau vivant, dove tutti i personaggi sono immobili e fissavano in ogni direzione, tranne la tua. Mi sentii solo e perduto. Tuttavia, feci un ultimo tentativo. “Gioia. Tu sei malata. Dammi quelle pistole…” implorai. Tesi una mano, mendicando la sua fiducia e comprensione. “Ascoltami, ti prego!”
Gioia sogghignò e disse: “Pregare è inutile.”
Come ho già detto, Gioia è sempre stata una buona moglie. L’ho conosciuta dieci anni fa, poco dopo essermi trasferito a Solus, una volta ottenuta l’ambita cattedra di Matematica. Ricordo che era una bella mattinata di ottobre. Gioia Deidda era la proprietaria e unica commessa del piccolo supermarket di Solus. Ci andavo a piedi ogni mattina, prima delle lezioni, per rifornire il frigorifero dell’alloggio che avevo preso in affitto. Era comodo, perché il supermarket si trovava di strada. Tranne quando devo andare a San Giovanni Suergiu, Carbonia, Sant’Antioco o Iglesias per qualche commissione, non uso la macchina. Non mi piace guidare. A Cagliari ci vado in treno. La mia vecchia Ritmo a molto tempo chiusa in garage. Comunque sia, all’inizio, le cose tra me e Gioia procedettero bene, simpatiche e spedite come in una commedia romantica di Julia Roberts e Richard Gere. Mi presentai (nei miei primi tempi di permanenza a Solus ero più o meno l’equivalente di un fenomeno da baraccone) e cominciammo a parlare, mentre lei ava la mia spesa sul lettore di codici a barre nel banco della cassa. Notai subito un certo interesse fisico nei miei confronti (non c’erano molti altri “buoni partiti” in circolazione) e anche io restai parecchio impressionato dalla profondità del solco fra i suoi seni. Quella mattina di ottobre, in particolare, rammento che indossava un top rosso ciliegia parecchio attillato. Perciò, giorno dopo giorno, spesa dopo spesa, chiacchiera dopo chiacchiera, scontrino dopo scontrino, non so come trovai il coraggio di invitarla a cena. Lei accettò con un imbarazzato e autentico entusiasmo. Nonostante fossi appena sopravvissuto a un rapporto tormentato, concluso con il mio trasloco a Solus, io mi sentivo altrettanto eccitato. Gioia Deidda era una raggiante trentacinquenne, senza parenti, avvenente e benestante… Cosa potevo desiderare di più? Dopo un paio di appuntamenti (che suscitarono scalpore in Piazza e nel Bar Sport) ci ritrovammo a letto. Nemmeno un anno dopo, nello stesso periodo del nostro primo incontro, io e Gioia ci sposammo con una cerimonia misurata ed
economica. Sommando i miei parenti con le sue amicizie non arrivammo ai trenta invitati. La grande chiesa di Solus era quasi vuota. Nove mesi dopo nacque nostra figlia Sofia. Sofia visse quindici giorni. Malformazione cardiaca congenita, disse il pediatra. Come ogni mamma degna di tal nome, Gioia soffrì questa precoce perdita in modo atroce, molto più di me (anche se il mio dolore non è trascurabile), patì la morte di nostra figlia in un modo che gli uomini non potranno mai comprendere e diventò un’altra persona: triste, cupa e depressa. Impiegò mesi per trovare la forza di rialzarsi dal divano, scostare le tende, aprire le finestre e mettere il naso fuori di casa. Ad ogni modo, non era la stessa donna sorridente e spensierata. Nulla di tragico (fino ad ora), sia chiaro, anzi, essere considerato unico e indispensabile in qualche maniera mi fece piacere. Quel disperato attaccamento emotivo nutrì il mio ego. Dalla notte di nozze ci eravamo stabiliti nella sua appartata e graziosa villetta alla periferia di Solus (ereditata dalla madre vedova, morta sessantenne di cirrosi), a pochi i dall’antico circolo megalitico di Perdas Fittas. Nei bui (in ogni senso, visto che le imposte erano sempre sbarrate) mesi successivi alla perdita di Sofia, la riempii di affetto e comprensione. In quel periodo, lei affidò la gestione del supermarket ad una ragazza onesta, che l’aiutò a mandare avanti l’attività senza danni. Per quanto mi riguarda, costretto a tenere dentro il dolore per non crollare, io continuai a insegnare, disincantato sul senso ultimo dell’esistenza. Tutti gli alunni di quell’anno (di cui ho scarsi ricordi), a prescindere da condotta e grado di apprendimento, mi apparivano come ossa rivestite di carne destinata a marcire, qualsiasi cosa insegnassi. Il mio umore era ai minimi storici. Pian piano, la profonda ferita nelle nostre anime rimarginò e io e Gioia trovammo un accordo con la vita. Era sufficiente. Tuttavia, insieme all’evolversi delle sue letture (esoterismo, scienze occulte, paranormale, geomanzia e miti pre-diluviani), Gioia sviluppò nei miei confronti un’immotivata e angosciosa gelosia. Era terrorizzata dalla solitudine e perseguitata dalla paura dell’abbandono. Tutte patologie da manuale psichiatrico. Da allora, in ogni caso, ho cercato di non fornire appigli a questa sua ossessione.
Mi sono sempre comportato in modo esemplare: casa, supermarket e lavoro. Non sono mai uscito la sera. Non sono andato al bar da solo. Ho sempre pensato che le mogli gelose fossero un problema soltanto per i mariti infedeli. Sono geneticamente monogamo, amo mia moglie senza riserve e mi interesso a tutto quanto eccetto che alle altre donne (che comunque a Solus scarseggiano, come tutto il resto, d’altronde). Inquadrato in questa puritana visione del mondo, non ho mai avuto niente da ridire se (a notte fonda) Gioia curiosava tra le mie cose, controllava il contachilometri della Ritmo, spulciava i miei boxer alla ricerca di peli sconosciuti, verificava i colletti delle camicie, annusava le mie magliette per scovare tracce di profumi femminili e mille altre sciocchezze di questo tipo. Non me ne preoccupavo. Come dice il detto? Male non fare, male non temere. Mia moglie aveva subito uno shock terribile e queste sue piccole fissazioni (compresa l’ultima e più recente, quella di andare a eggiare, nelle notti di luna piena, tra i menhir di Perdas Fittas) erano un misero prezzo da pagare per salvaguardare la sua salute mentale. Così, almeno, pensavo. Gelosia e stranezze a parte, Gioia era una donna magnifica. Fino a oggi.
Ho letto molto libri, ma in nessuno di questi c’era spiegato cosa devi fare quando tua moglie impazzisce di gelosia senza motivo e ti minaccia con due pistole davanti a tutta la classe. “Gioia. Amore. Cerca di ragionare!” supplicai. “Ragionare…” ripeté lei, inclinando il capo assorta. La canna della pistola puntata su di me oscillò. Distolsi lo sguardo da quel tunnel mortale. “Sì. Cosa significa che questo atto sta per finire? Spiegami.” Era l’ultima carta. Cercare di persuaderla, convincerla ad abbassare le armi, farla riflettere sulle gravi conseguenze delle sue folli azioni. Forse potevo ancora
salvarla dalla follia totale. E dalla prigione. Con la coda dell’occhio vidi che alcuni alunni controllavano i loro orologi alla moda con movimenti furtivi e preoccupati. La camla di fine lezione stava per suonare e quasi subito l’anziana professoressa dell’ora di religione sarebbe entrata in aula. Cosa sarebbe accaduto? Lo avrei scoperto molto presto. I minuti erano contati, come si suole dire. L’intrusione della professoressa Melis (una rinsecchita suora laica, già insegnante dei genitori di questi ragazzi), avrebbe potuto scatenare la rabbia di Gioia con conseguenze disastrose. Lei dichiarò: “È lampante. Basta guardarsi intorno.” La sua voce era aguzza e fredda come una lama di ghiaccio. Di che sta parlando? Ha perso completamente la testa. Senza darmi il tempo di ribattere, Gioia si voltò di scatto, individuò una ragazzina a caso (così sembrò) e le puntò contro la Beretta. Perché scelse lei e non un’altra resterà un mistero insoluto. La poverina, seduta al suo posto, sussultò come se le avessero collegato la sedia a una presa da 220 volt. Quelli che le stavano accanto si ritrassero in un millesimo di secondo. Gli occhi della ragazza, già ingigantiti dalle lenti degli occhiali, diventarono enormi. Si chiamava Clara, come l’amica di Heidi. “Non farlo!” supplicai, nel panico più assoluto. “Perché no?” sibilò, sputando gocce di saliva. “Dimmelo!” Tremante, le ginocchia molli, ripetei: “Non farlo!” “RISPONDI!” urlò lei. “È sbagliato! È immorale! Uccidere è un peccato!” Con un’espressione delusa, Gioia scosse piano la testa.
“È peccato…,” mormorò, “…negare l’evidenza dei fatti.” Sparò due volte. Clara, intuendo quello che sarebbe successo, sollevò le mani davanti alla faccia, cosparsa di acne, in un inutile tentativo di difesa. La prima pallottola le strappò le dita della mano destra, che volarono in aria come sanguinolenti wurstel con le unghie. La seconda penetrò tra naso e fronte, spaccandole a metà il ponticello degli occhiali, conficcandosi nel cranio. Clara Fenu non avrebbe mai recuperato il 4- preso nell’ultimo compito. Il cadavere della ragazza stramazzò sul banco, in mezzo ai quaderni, il righello, la calcolatrice e l’astuccio delle matite. Nello stesso momento, i suoi compagni (maschi e femmine), che ormai avevano perso qualsiasi interesse per l’esito del mio melodramma familiare, come un branco di bufali inferociti si lanciarono verso le uniche uscite: la porta e le finestre. In preda al terrore, travolsero le sedie, spintonandosi, calpestando quelli che inciampavano o scivolavano nel sangue. Caos totale. Un attimo dopo suonò la camla. Quasi all’unisono, la professoressa Melis (richiamata dallo sparo e dalle urla) aprì l’uscio e sbraitò: “COSA SUCCEDE?” Il dramma divenne tragedia. Precipitandosi sulla soglia, ostruita dalla Melis, gli studenti fecero da tappo e Gioia ebbe tutto il tempo di scaricare tutti i colpi delle sue Beretta. Mentre lo faceva, spietata e metodica, non smise di urlare: “Non scappate! Non rinviate l’inevitabile!” Come in una scena al rallentatore, vidi i corpi dei ragazzi colpiti crollare di botto sul pavimento e contorcersi, getti di sangue nebulizzato esplodere nell’aria, pallottole piantarsi nelle pareti di cartongesso. Altri ragazzi, aperte le grandi finestre, si scagliarono oltre i davanzali senza alcuna attenzione. Un vetro s’infranse in una lucente pioggia di schegge. La professoressa Melis venne abbattuta dalla calca e scomparve alla vista. Con gli occhi dell’immaginazione percepii le sue ossa, indebolite dall’osteoporosi, fratturarsi come grissini sotto i tacchi.
A quel punto, spinto più dalla vergogna che da un genuino eroismo, saltai addosso a mia moglie. Non sapevo quanti colpi le restavano nei caricatori, ma non mi importava. Anche se non in modo diretto, ero l’unico responsabile di quella carneficina. Un’uscita di scena onorevole, insomma. Spiccai un balzo. Gioia ruotò su se stessa e prese di mira Jessica, una ragazza sovrappeso con i capelli acconciati in modo assurdo. Jessica, come i suoi più scattanti compagni, cercava di scavalcare il bordo inferiore dell’ultima finestra in fondo all’aula. Senza il mio audace intervento in extremis, non ci sarebbe riuscita. Gioia si accorse del mio tentativo di placcaggio e lo schivò con un semplice o indietro. Si mosse con l’eleganza propria di un attore in un film di arti marziali cinese, tipo Jackie Chan. La sua rapidità mi lasciò di stucco. Annaspai a vuoto e mi spiaccicai a terra. Continuando a sparare contro le finestre con la destra, Gioia mi puntò contro la sinistra e piazzò una pallottola in mezzo alla mia schiena. Dolore. Sbattei la faccia contro le mattonelle e mi ritrovai gli occhi a pochi centimetri dalle dita mozze di Clara. Un caldo fiotto di bile acida e sangue mi sgorgò dalla bocca. Il mondo cominciò a vorticare. I colori persero la loro lucentezza. Con violenza, Gioia calò un piede sulla mia nuca. “Stai giù!” sbraitò affannata. “Vuoi farti ammazzare?” Girai la testa e vidi una grande chiazza di sangue rosso vivo allargarsi al mio fianco. Respiravo male. Non sentivo le gambe. La vista mi si annebbiò. Un’arteria polmonare recisa, pensai, come se ne capissi davvero qualcosa. Morirò dissanguato… Intorno a me, le urla, i rumori e gli spari si affievolirono. Udii Gioia, con voce folle, gridare: “Piangere vi piace, eh?”
Il forte rinculo delle detonazioni si trasmetteva, attraverso la gamba di Gioia, al piede che premeva sul collo, con tutti i suoi cinquantaquattro chili di peso. Ad ogni violento contraccolpo mi sentivo sempre più debole, lontano e prossimo alla morte. “Non vi rendete conto di quello che sta succedendo?” Gioia seguitò a sparare. Detonazioni. Sedie ribaltate. Grida. Tonfi: carne su legno, legno su metallo, metallo su cartongesso. Bossoli scintillanti mi piovvero addosso, roventi, tintinnando. Mentre perdevo i sensi e scivolavo nell’oscurità accogliente del coma, sentii in lontananza delle sirene ululanti. Non riuscii a capire se fossero i carabinieri, la polizia o le ambulanze. L’ultima cosa che ricordo con chiarezza è che Gioia mi posò la canna arroventata di una pistola in mezzo alla fronte gelida. È la fine… pensai.
Mi svegliai su un immacolato lettino nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale “Sirai” di Carbonia. Il torace stretto in un bendaggio in perfetto stile mummia egiziana, la maschera dell’ossigeno sul naso, un ago infilato nel gomito e un tubicino trasparente che saliva fino a una sacca di plasma, sospesa sopra la mia testa, appesa a un’asta d’acciaio. Da qualche parte un monitor emetteva un regolare bip-bip. Un altro marchingegno, che non vedevo, soffiava aria come il mantice di un fabbro. Ero pieno di analgesici. Morfina? Non sentivo dolore, solo un vago intorpidimento, soprattutto nella zona della ferita. Il centro esatto della fronte, però, bruciava. Lo sfiorai con le dita, stringendo i denti, e percepii un profonda ustione circolare. Era il segno lasciato dalla bocca incandescente della pistola. Mi ha marchiato, come Caino… Sulla parete di fronte, un orologio giallo a forma di Smile, con lancette simili ai
miei baffetti, mi disse che erano quasi le diciotto. Chiunque avesse scelto quell’affare, era da internare. Dopo un’ora, venne a visitarmi un medico, sbrigativo e dallo sguardo severo. Pareva avercela con me. Gli domandai notizie di mia moglie, storpiando tutte le parole a causa del gonfiore delle labbra. Lui fece una smorfia disgustata e se ne andò via. Rimasto solo, piansi come non avevo mai fatto prima. Verso mezzanotte, un’anziana infermiera entrò nella stanza. Lo sbattere degli zoccoli mi strappò dal sonno farmacologico. Controllò la sacca del plasma, ormai quasi vuota, ma non la sostituì. Premette qualche tasto sugli strumenti dietro la testata del letto. In quel momento, l’unica fonte di illuminazione era data dai led delle apparecchiature mediche. Un fioco bagliore. “Infermiera…” sussurrai, roco, con la gola inaridita. Lei si chinò sulla mia faccia e sibilò: “Cosa c’è? Hai sete?” Il suo alito fetido odorava di mentolo e denti marci. “No…” risposi, trattenendo fiato e lacrime. “Vorrei… sapere come sta mia moglie, per favore… Nessuno vuol dirmi nulla.” Il volto dell’infermiera s’indurì, diventando una ragnatela di rughe, i suoi occhi stanchi mi scrutarono senza comione. “Mio Dio… cosa ha fatto…” biascicai, la lingua impastata. “Ha trucidato dieci ragazze e due ragazzi. Ecco! Cosa! Ha! Fatto!” replicò lei, battendomi con l’indice sul torace. I colpi, uno per ogni esclamativo, erano coltellate. “Ha sparato finché non sono finite le pallottole, così sembrava. Quando i caramba hanno fatto blitz nell’aula, cosparsa di sangue, corpi e feriti, lei stava accovacciata all’indiana sopra la cattedra. Ammirava la scena, tranquilla e beata, con un sorriso da bambina dispettosa. Teneva in mano una delle sue pistole. L’altra, scarica, l’aveva usata, poco prima, per darti una botta in testa e stordirti.” “Cosa è successo?”
“Che vuoi che sia successo?” sbottò l’infermiera, lisciandosi una piega sul collo del camice. “Hai sposato una pazza furiosa e non te ne sei mai accorto? Non ci credo. Non può essere.” “Era una brava…” “Taci! Voi maschietti non vi accorgete di nulla! Vi interessa solo avere una casa pulita, cibo sul piatto e un letto caldo.” “Ma…” “Ma un cazzo!” sentenziò lei, sempre più scocciata. Era evidente che quella conversazione non era nella lista dei suoi desideri. “Vuoi sapere come è finita la tua brava mogliettina?” “Sì, io…” “Te lo dico, poi me ne vado. Tu devi stare zitto, va bene?” Annuii. “È andata che lei non aveva finito davvero tutte le pallottole. Ne aveva una. Nella pistola che stringeva in mano. Perché non l’ha usata per ucciderti, se questo era il suo scopo? Non lo so. I pazzi fanno cose di questo tipo. E a Solus i pazzi non mancano, vero? Comunque, quando sono arrivati i carabinieri, strillando come gabbiani al mercato del pesce, lei si è messa la canna in bocca e, sorridendo, si è fatta saltare la testa. Ben fatto.” Con queste truci parole e l’espressione schifata sulla faccia, l’infermiera si allontanò dal mio letto e zoccolò verso l’uscita. Sentii le lacrime cadere sugli zigomi e colare sul guanciale. Non mi aspettavo qualcosa di diverso, ma faceva male. Prima di lasciarmi solo, l’infermiera disse un’ultima frase. “Sai cosa ha scritto con il gesso tua moglie, sulla lavagna, prima di imbrattarla con il suo cervello? Una cosa strana: CIK-AL=MC2. Chissà che cazzo voleva dire, quella sciroccata…”
Uscì.
46 – CADUTA LIBERA
Dopo la lunghissima caduta vieni costretto a infilarti in un pertugio angusto, ancora più stretto del budello tortuoso. Per fortuna, anche se mette a dura prova quello che resta della tua sanità mentale, il aggio è rapido. Un attimo dopo sbuchi fuori in uno spazio oscuro, ventoso, trapuntato di stelle. L’aria è fredda, umida, odora di olivastro e menta selvatica. La tua velocità di discesa rallenta, fino quasi ad arrestarsi. Riesci di nuovo a controllare le tue percezioni. Guardi verso il basso, come un paracadutista disperso. Sotto di te, a meno di cinquecento metri, l’intrico di strade, marciapiedi e abitazioni di Solus, una macchia irregolare di luci arancioni circondata dalle opprimenti fasce frangivento di eucalipti. Nonostante tutto, l’illuminazione pubblica funziona. Una fitta coperta di nebbia striscia sopra i campi incolti. Dai tetti delle case esala un ectoplasma di vapore, come se dal loro interno emanasse un calore insopportabile. C’è silenzio. Gli unici suoni sono il sibilo angoscioso del vento tra i rami, lo stillicidio dell’acqua piovana nelle grondaie e il gracchiare di due cornacchie appollaiate sui cavi della linea telefonica. È di nuovo notte, a Solus…
47 – NOTTURNO SULCITANO
È di nuovo notte a Solus. Il bar chiuso. Le persiane calate. Le auto parcheggiate. In strada, sotto la luce dei lampioni, solo il vorticare delle falene. Più distante, un cane randagio ulula disperato contro un bidone della spazzatura. Non riesce a rovesciarlo. Niente cena, oggi. A quest’ora, quasi tutti gli abitanti di Solus dormono. Qualcuno è ancora in piedi, o meglio, sdraiato sul divano. Lattina di Ichnusa in una mano, telecomando nell’altra. Sullo schermo, solite cose: antiquati film USA; talk-show; réclame di prodotti miracolosi che prevengono ogni genere di disturbi, carta igienica vellutata per posteriori delicati, numeri telefonici per chiamare le puttane, dentifrici intelligenti, dolci senza zucchero, oil non oil, turisti fai da te, “ahi-ahi-ahi…” La TV la notte, un bagliore blu dietro le finestre, un brusio confuso nelle vie deserte. Il chiacchiericcio della solitudine. Il campanile della chiesa annuncia la mezzanotte, rintocchi di batacchi inesistenti: un dispositivo elettronico sostituisce le campane di bronzo, corrose dai fumi tossici della fabbrica. Il tizio sul divano finisce la birra. Rutta. Si alza e si trascina, mezzo addormentato, verso l’antiquata Philips collocata sopra un tavolino. La spegne. Appoggia il telecomando, vicino alla televisione, calda come un forno. I transistor stanno partendo. Barcolla, scalzo, fino alla camera da letto. Le piante dei piedi gelate. Con tutta la birra che ha in corpo non ci fa caso. La moglie l’accoglie nel letto con una gomitata preventiva sullo stomaco, lo
insulta, scorreggia, poi si gira sul fianco. Lui brontola per un po’, inutilmente, perché lei si è riaddormentata. Non si parlano da due giorni interi, ormai. Chissà perché. A mezzanotte e mezzo già dorme. Un sonno alcolico. Russa forte. Sono sposati da venticinque anni. Non hanno figli. Lui lavora alla giornata, nelle serre. Con la Prima Media non si può fare molto di più. Non a Solus. Lei, casalinga, qualche volta dà un’occhiata ai figli dei vicini. Due gemelli di dodici anni. In paese, ormai, è difficile trovare lavoro come babysitter. La ticchettante sveglia rossa della Sigel sopra il comò segna, con lancette a freccia verdi fosforescenti, l’una meno dieci. La suoneria è puntata alle cinque. Per le sei lui starà già caricando cassette di pomodori su un camion, per portarle al mercato. Fra due anni morirà, agonizzando, sotto le grosse ruote di un trattore. Lascerà alla moglie cinquanta cambiali e due bollette da pagare. Lui non lo sa (e neanche lei). Continua a russare. Frattanto, rigirandosi sul materasso, lei fantastica di essere magra e bella (invece che grassa e brutta) e di vivere in un maniero (invece che in un bivano) e di aver sposato un Principe Azzurro sul cavallo bianco (piuttosto che un bracciante sudicio di fango su una Lambretta scassata). Tra un Sogno e l’altro, c’è la Vita. Per alcuni è ancora Sogno, per altri è solo Incubo.
È sempre notte a Solus. Sotto i lampioni, le falene incendiano le loro ali scambiando una lampadina elettrica per il sole. Il cane non latra più contro l’immondizia… tanto era acerba. Si allontana a pancia vuota. Dormono tutti. A parte il distributore self-service, giù alla stazione di servizio dell’Agip, e la campana elettronica della grande chiesa… che, proprio in questo momento, scandisce l’unico, isolato, malinconico e dissonante, rintocco delle 01.00.
Dong!
“Non so perché, ma distruggere le cose mi fa sentire bene” Alfred Hitchcock
USCITA
48 – RITORNO AL PRESENTE
Dong! Quel rintocco stonato mi rimbalza dentro la testa, come la pallina di un flipper, seviziandomi le terminazioni nervose. Ho la lingua asciutta e piena di polvere. Mi fanno male tutti i denti, devo averli digrignati per ore. Qualcosa di liquido e caldo mi sgocciola dal naso sulle labbra. Pian piano, dopo non so quanto tempo, riprendo coscienza del mio corpo fisico. Muovo gambe e braccia. Sotto i palmi percepisco l’asfalto, duro e bagnato. L’aria, che inspiro dentro i polmoni, ansante, odora di salsedine e pioggia. Una raffica di vento mi scompiglia i capelli. Apro gli occhi. Sono disteso, supino, in mezzo al Corso Savoia. Il cielo sopra di me è buio. Quanto tempo è trascorso? A giudicare dall’ultima malinconica visione e dal rintocco, dovrebbe essere l’una di notte. Probabile. Resto immobile. Ascolto il mio cuore rallentare il ritmo delle pulsazioni. Da cento battiti al minuto, o a meno di cinquanta. Tutta la pelle mi pizzica. Devo riprendere subito il controllo. È stata un’esperienza extracorporea faticosa. Estenuante. Dal punto di vista emotivo. Quello che ho visto sarà difficile da elaborare e metabolizzare, ammesso che sia possibile. Ora posso dire di conoscere la “storia segreta” di Solus. Con il senno di poi, ne avrei fatto volentieri a meno. Non è stato piacevole assistere al “dietro le quinte” di un’agonia. Ho visto episodi terribili, in prima, seconda e terza persona. Ho condiviso, senza poter intervenire, per alterare i fatti (nello stesso istante in cui venivano vissuti dai protagonisti), pensieri inconfessati, sentimenti profondi, pulsioni distruttive. A certe persone potrebbe sembrare avvincente, per me è spaventoso.
Se potessi tornare indietro, forse, non lo rifarei. Forse. Anche ora, infatti, sdraiato sull’asfalto, avverto un fremito elettrico al centro della mente. L’eccitazione dell’esploratore che si è ormai lasciato alle spalle la sicurezza illusoria della civiltà ed è penetrato in zone selvagge mai cartografate. È quel brivido che spinge l’uomo oltre i limiti e verso un glorioso annientamento. Ho fumato l’ultima sigaretta questa mattina (credo che sia questa mattina, ma potrei sbagliarmi) eppure non sento la mancanza della nicotina. Un altro genere di droga mi ha sedotto. Rovesciato sulla via spazzata dal maestrale, come una stella umana a quattro punte, avverto i primi sintomi dell’astinenza da visioni. Una formicolio diffuso, simile allo zampettio di una scolopendra, lungo la spina dorsale. Peggiora in fretta. Lo so. Comprendo anche che un’altra storia riuscirebbe a placarlo. È irrazionale, certo, ma che posso farci? La realtà è questa. Ho appena formulato questa idea, quando sento una voce. “Ehi, tu!” esclama, perentoria. “Riesci a sentirmi, ragazzo?” Un attimo dopo, la faccia rugosa di un vecchio con la barba bianca invade il mio campo visivo, eclissando il cielo notturno. I lampioni, ai bordi della strada, spargono luce itterica. Fino a quel momento non ci avevo fatto caso. Il mio cervello, stanco e a corto di ossigeno, non funziona ancora a pieno regime. “Ti sento…” rispondo, con voce impastata. Il vecchio indossa un maglione grigio, pantaloni di fustagno e scarponi. Il collo è coperto da una spessa sciarpa, sfrangiata alle estremità. I capelli, ridotti a un’aureola, sono della stesso colore della barba. Ha l’aspetto dell’anziano “saggio” nei film biblici. E mi ricorda Hemingway in quella fotografia famosa. Chi è? “Ti aiuto ad alzarti.” Tende una mano rinsecchita.
La afferro e, con un gran sospiro, mi rimetto in piedi. Le sue dita sono storte, ma la presa è salda. Mi ha tirato con vigore. “Grazie.” “Figurati!” replica lui. “So quanto fiaccano quelle visioni.” Resto come pietrificato. “Le hai sperimentate anche tu?” Il vecchio mi scocca uno sguardo indecifrabile. “Mi dispiace dovertelo dire, ma non hai nessun particolare potere medianico. Solus ti fa vedere quello che vuole, quando vuole…” afferma pensieroso, grattandosi la barba trascurata. “Quindi…” “Vuoi parlarne qui?” interviene, prendendomi il braccio e scortandomi verso il marciapiede. “Abito a pochi i. Scusa, ragazzo, non intendo essere cafone, ma questo ventaccio mi fa venire sempre l’emicrania e ho già una tosse che non perdona.” Mi guardo intorno. Le facciate delle case, su entrambe i lati del Corso, non hanno un aspetto accogliente. Le finestre buie e le porte sprangate somigliano a orbite vuote e bocche sdentate. È strano. Mi trovo a duecento metri di distanza dal punto in cui ho deciso di appoggiare le mani sull’asfalto e connettermi con Solus. Mi sono spostato? Ho camminato durante l’estasi mistica? Rabbrividendo per l’umidità, mi accorgo di un’altra stranezza: non indosso più il mio giubbetto di pelle marrone. Che fine ha fatto? Accidenti! C’era dentro la lettera! E anche il cellulare! E non è tutto… Le maniche della mia camicia sono ripiegate ai gomiti. Da una tasca, spunta ancora il block-notes. La penna biro è incastrata nella spirale che tiene insieme le pagine. Per qualche motivo, mi sembra più pesante di prima. Più denso.
Senza dire nulla, lo sfilo e lo apro. Lo sfoglio. Le dita che mi tremano. Tutte le pagine sono scritte, da cima a fondo. Una calligrafia sottile, chiara, dritta come un righello. La mia. Con il cuore che mi batte nella gola, sbircio le prime righe. Non ho mai amato il mio paese natale e non avevo nessun motivo… Deglutisco un grumo di saliva, moccio e sangue. Frenetico, cerco l’ultima annotazione. La trovo a una trentina di pagine dalla fine. Leggo. …l’isolato, malinconico e dissonante, rintocco delle 01.00. Le pagine seguenti, rimaste bianche, se possibile, mi fanno più paura. Qualsiasi cosa ho visto, detto o pensato, da quando sono tornato a Solus, chissà come è finita lì dentro. È pazzesco. Il vecchio mi osserva con aria perplessa. “Stai bene?” “Non lo so…” dico, rimettendo il block-notes nel taschino. Inutile scervellarsi. Quel che è stato è stato. Punto e a capo. La testa mi gira come una giostra. Ho bisogno di sedermi. “Seguimi!” Il vecchio s’infila in una traversa, incastrata tra due edifici. Conosco quel vicolo. Ci sono stato in una visione. “Ho il fuoco. Sei pallido. Il naso ti sanguina. Lavarti la faccia con dell’acqua fredda ti farà bene. Suppongo che tu abbia la testa piena zeppa di domande…” “Giusta supposizione.” Il vecchio sorride e si aggiusta la sciarpa attorno al collo. “Ti sarai chiesto dove sono finiti tutti quanti, vero?” chiede. “È la prima domanda che mi sono fatto, stamattina, quando sono arrivato. Ho ricevuto… qualcosa… mi ha spinto a mettermi in viaggio. Non so come
spiegarlo. Un istinto come quello che spinge i salmoni a ritornare nel fiume dove sono nati…” Perché gli racconto i fatti miei? Fatti furbo, imbecille! Lui annuisce. “Come un salmone. Interessante.” “Cosa è successo?” l’incalzo. Il formicolio aumenta. “Non l’hai visto?” Quel dialogo è surreale. “Puoi spiegarti meglio?” Il vecchio non risponde. “Siamo arrivati.” Davanti a noi c’è una casupola, tetra e malridotta. È quella che chiude il vicolo. Il tetto spiovente è coperto da tegole incrostate di licheni. Le traballanti grondaie di plastica arancione, ricavate da tubi, vibrano nel maestrale. Una singola finestra si affaccia sulla stradina, sigillata da imposte sghembe. In cima a tre scalini di cemento polveroso, una porta che potrei buttare giù con un soffio, come il lupo cattivo dei tre porcellini. “Casa tua?” domando sfacciato, pentendomi all’istante. “Perché non dovrebbe?” ribatte lui. Non so come, ma ho l’impressione che abbia mentito. Sale i gradini, apre la porta e mi invita ad entrare. Il vento mi frusta gli abiti, insinuandosi tra le pieghe. Il vecchio mi aspetta sulla soglia. “Allora, entri o no?” Entro.
49 – ULTIME STORIE
Il fuoco crepita in un camino di mattoni rossi anneriti dalla fuliggine. Le fiamme intaccano quello che resta di una contorta radice di olivastro. Nella stanza aleggia un’acre coltre di fumo. Il fumaiolo non tira bene e, a ogni folata, rimanda grandi sbuffi. Esco dal bagno con la faccia ripulita e i capelli pettinati, la pelle rossa per quanto me la sono sfregata con l’asciugamano. “Vuoi mangiare qualcosa, prima di cominciare a parlare?” “No, grazie…” rispondo. “Ho ancora lo stomaco sottosopra.” “Un bicchiere d’acqua?” “Più tardi.” In piedi, con il collo magro avvolto nella sciarpa, il vecchio tossisce, raschia la gola e sputa un grumo di catarro nelle fiamme. “Scusa…” dice, tamponando le labbra con un enorme fazzoletto. “Questo clima mi sta uccidendo.” Poco prima, una volta entrati in casa, ci siamo presentati. Ha detto di chiamarsi Antonio Pintus. Io non ricordavo di averlo conosciuto, ma quando gli ho detto il mio nome, lui ha annuito. Nei paesi sardi, gli anziani riconoscono sempre tutto e tutti. Resto in silenzio. Una sferzata del maestrale sul tetto fa scricchiolare le tegole, sostenute da solide travi di quercia e un vecchio incannicciato. Un’altra nuvola di fumo si riversa nella stanza. “Non stare impalato. Accomodati. È una storia avvincente.”
Siedo su una scomoda sedia di legno e paglia, sorrido come uno sciocco e accavallo le gambe. Aspetto, con pazienza, che il vecchio riordini le idee e inizi a parlare. Non ho fretta. Nessuno mi attende. Lo osservo mentre si accascia, sospirando, su una poltrona rabberciata di similpelle, sistemata accanto al focolare. “Sta arrivando un bel temporale…” sentenzia, poi scruta con occhi vacui le crepe sul soffitto. “Senti l’elettricità nell’aria?” Annuisco, poco interessato alle sue previsioni del tempo. “Sì…” affermo, con voce neutra, dondolando un piede. Non riesco a trattenere e nascondere il mio nervosismo. “All’inizio il fenomeno è stato quasi impercettibile…” dice il vecchio, riacchiappando, come nulla fosse, il filo del discorso. “Poi, dopo il misterioso incendio di Villa Massidda, le cose hanno cominciato a degenerare sul serio. Questo lo avevi già intuito dalle tue visioni, no? No? Curioso. Perché, vedi, questo rivela che Solus ti ha raccontato molto… ma non tutto. Quindi suppongo che tocchi proprio a me tirare le somme. Dicevo? Quando iniziò, pochi vi prestarono attenzione. Anche prima di allora, le cose non andavano meglio… Per questo motivo, tutti quegli strani avvenimenti arono inosservati. Erano troppo differenti e diluiti nel tempo. Difficile metterli in relazione. In fondo, nulla di così paranormale da suscitare sospetti. Nessuno si è reso conto di quello che stava succedendo. Era inevitabile.” Il vecchio fissa le fiamme, sospira e comincia a piangere. Faccio finta di niente e aspetto che si ricomponga. “Conosci la ragione di tutte quelle visioni?” “No.” “Cosa le provoca?” “Non ne ho idea. Qualche anomalia nel sottosuolo, forse.” “Potrebbe essere la stessa energia che i nostri antenati hanno cercato di
imbrigliare tramite le Perdas Fittas?” Il vecchio inarca un sopracciglio. “Potrebbe.” “Che mi nascondi? Ci sono altre cose che non ho visto?” “Certo!” sbotta il vecchio. “Non saresti qui, altrimenti.” “Come fai a saperlo?” chiedo, alzando il tono della voce. In realtà, non so nemmeno il motivo di quella domanda. “Non c’è bisogno di gridare!” mi riprende. “Lo so e basta.” Congiungo i palmi davanti alla bocca. “Raccontami tutto.” “D’accordo…” risponde lui concentrandosi, gli occhi ridotti a due fessure brillanti. “C’era un uomo, parecchio strano, che abitava qui a Solus. Non ricordo il nome. O forse non l’ho mai saputo. Muratore e bracciante. Possedeva un appartamento in paese, non so dove, ma negli ultimi tempi si era trasferito in una casetta che si era costruito tutto da solo in campagna. Non gli piaceva stare con le persone. Parlava poco. Niente amici. Lo vedevo andare avanti e indietro sulla statale, giorno e notte, con la sua auto. Mi sembra di vederla: nera, rumorosa, piena di optional. Sapevamo che era un tizio poco affidabile. Però…” “Però?” lo incoraggio, avvertendo un brulichio sulla nuca. Il vecchio prende un respiro, gonfiando il petto come un sub prima dell’immersione. Sistema meglio la sciarpa sul collo e si liscia la barba candida. Cerco di contenere la mia impazienza. “Vuoi sapere cosa ha fatto?” “Naturalmente…” replico, ansioso, sporgendomi sulla sedia. Il vecchio strofina le mani incartapecorite, sputa nel fuoco, tossisce e comincia a raccontare. La sua voce, all’improvviso, è calda e intensa come le lingue di fuoco nel camino fuligginoso. “Ascoltami, allora…” dice. “Questa è la storia dell’…”
50 – L’UOMO SENZA NOME
Quel giorno rientrò tardi dal cantiere. La data non importa. Anche se, in questo caso, ha una certa rilevanza. Forse solo casuale. Quello che conta sono soltanto i fatti. Questo mi ha insegnato la vecchiaia: le date volano, i fatti restano. Accidenti, sto divagando troppo, eh? Perdonami. Dov’ero rimasto? Rincasò verso le otto di sera. Il sole stava già tramontando nel golfo. Parcheggiò. Entrò in casa e mangiò tutti gli avanzi che trovò nel frigorifero. Come ho detto: viveva da solo. Niente donna. Niente parenti. Niente amici. Un tipo solitario. Non possedeva televisore e telefono… Per distrarsi, nel tempo libero, ascoltava l’autoradio. Chiuso nella sua automobile. È per questa ragione che impazzì? Probabile. Infatti, dopo aver cenato, sai cosa combinò? Uscì di casa, aprì il baule della sua automobile e prese una tanica di benzina da cinquanta litri. Poi iniziò a innaffiare per bene la sua casetta. Dentro e fuori. Fatto questo, montò sulla sua Seat Ibiza Black e sgusciò in retromarcia nello spiazzo. Abbassò il finestrino. Rimuginò, con gli occhi socchiusi, per qualche minuto. Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto sgualcito, che teneva sul cruscotto e l’accese con un fiammifero da cucina. Fumò per qualche minuto, la testa reclinata sul sedile, pensando a chissà cosa. Quando finì, scaraventò quello che restava del mozzicone in una macchia di benzina che colava dai gradini
dell’ingresso. Pochi istanti dopo, tutta la casa prese fuoco. Una colonna di fumo si alzò nel cielo. Fosse stato di giorno, l’avrebbero vista anche a Carloforte. Però era già buio e non la vide nessuno. Senza restare a guardare, lui ingranò la marcia e schizzò via. Mentre la casa bruciava, si diresse a tutto gas verso Solus. Cosa gli era scattato nel cervello? Nessuno lo sa. Cosa aveva intenzione di fare? Questo lo so. Ne parlarono per giorni, dopo, nei Giornali e in televisione. Presto tutto venne scordato. È così che va il mondo. Ricordo che il TG4 dedicò al fatto ben sessanta secondi. Che servizio! Dov’ero rimasto? Ah, sì. Certo. L’Uomo Senza Nome arrivò a Solus alle 21.00 esatte. La Seat sfrecciò lungo Corso Savoia, preceduta dalla luce degli abbaglianti e seguita da una nuvola di gas di scarico. In seguito, alcuni testimoni oculari riferirono alle autorità che il potente impianto stereo dell’auto diffondeva a tutto volume una canzone di Lucio Battisti: Pensieri e parole. Originale, no? Altri giurarono di averlo sentito cantare, il volto rischiarato dalle spie del quadro. Teneva il ritmo percuotendo le mani sul volante e gridava sempre lo stesso ritornello. Quello che dice: “Che ne sai tu di un campo di grano?” Hai presente? Comunque, queste sono tutte dicerie sentite al Bar Sport. Quello che è successo, pochi secondi dopo, no. Di solito, nei paesi sardi la sera non c’è un gran movimento. Tutti se ne stanno a casa a guardare la tv o a spiare i vicini. A quell’ora, i ragazzi più giovani sono già rientrati e quelli più grandi non sono ancora usciti. Questo avviene trecentosessanta giorni l’anno. Disgraziatamente, quello era un giorno di festa. L’intera popolazione era in piazza e nelle strade adiacenti.
Erano in corso, infatti, i festeggiamenti per il Santo Patrono della chiesa: San Giorgio. E quindi… ho perso il filo. Scusa. In ogni modo, dopo tanti lutti, il paese intero era in festa. Sui bordi delle strade e intorno alla piazza erano allineate le varie bancarelle: quella del torrone “di Tonara”, quella dei tizi che arrostiscono i muggini e le anguille, quella dei venditori di palloncini, quella delle audiocassette di musica etnica, quella dei “dolci tipici sardi”, quella delle caramelle. Il maestrale spargeva l’odore dello zucchero filato, della liquirizia rossa e il profumo invitante di cipolla fritta e salsiccia. Luci intermittenti e ghirlande di bandierine colorate, svolazzanti, si incrociavano sopra la “eggiata”. I tavolini del Bar Sport, allineati sotto i portici, erano stipati di uomini vocianti che giocavano a morra. Sui marciapiedi, gruppi di donne bisbiglianti, una soltanto con il neonato in braccio. I pettegolezzi non mancavano. Nugoli di mocciosi correvano dappertutto, spintonandosi e insinuandosi tra le gambe dei anti. Ragazzi e ragazze, divisi per sesso, età e scuola d’appartenenza, si facevano chilometri di vasche strizzandosi l’occhio, flirtando, scherzando e sorridendo. Insomma, l’atmosfera classica di una festa paesana. In disparte, vicino al Municipio, c’era la consueta coppia di carabinieri della caserma. Tutto normale e un po’ noioso. La noia delle feste di paese, percepibile subito sotto i falsi sorrisi di circostanza, le fragranze allettanti e i discorsi pleonastici. È una mia opinione. Non c’entra nulla con questa vicenda. Finora, quello che ti ho raccontato è basato su testimonianze di seconda mano. Da questo punto in poi, però, è diverso. Io c’ero, come si dice in questi casi. Ero lì quando accadde. Ho visto tutto. Ero giunto in piazza da una decina di minuti. Stavo giusto disquisendo della differenza tra anguille e capitoni con un mio conoscente, che s’intendeva di pesca subacquea (o almeno, così diceva), quando in lontananza ho sentito il rombo di un motore e l’urlo incessante di un clacson. Soltanto che non si trattava di un clacson normale. Era personalizzato. Invece di fare il tipico beep-beep, come fanno i clacson, questo scandiva in alte note stridule l’intro della Sinfonia
n° 5 in Do minore di Beethoven… Sì, quella. Non chiedermi perché l’ha scelta. È ovvio, no? Udii il rombo del motore e quel clacson. Tutti lo sentirono. Un fremito di paura attraversò la folla come un’onda rossa. All’improvviso calò il silenzio. Unici rumori: il crepitio delle cipolle fritte, il ronzio delle luci intermittenti e il fruscio delle bandierine nel vento. Poi, dal Corso Savoia, eruppe la Seat Ibiza di quel pazzo. Il frastuono del motore riecheggiò tra le facciate delle case, gli pneumatici stridettero sull’asfalto disegnandovi quattro curve e il clacson continuò a eseguire la sua marcia funebre. In quel silenzio innaturale sembrava quasi che…. oh, non so cosa voglio dire. Accadde tutto molto in fretta. Troppo. I carabinieri, allibiti, reagirono in ritardo. La Seat gli sfilò davanti a più di cento chilometri all’ora e loro restarono lì a guardarla… guardarla scagliarsi in mezzo alla gente, impietrita dall’orrore. Non li sto accusando di nulla, ti sia ben chiaro. Chi poteva mai immaginare una cosa del genere? A quel punto iniziarono le urla e il panico e il fuggi-fuggi. La prima vittima è stata una ragazzina di sedici anni. eggiava mano nella mano con il moroso, mangiando un gelato, quando l’auto dell’Uomo Senza Nome la colpì in pieno, spezzandole la schiena e la vita. Il fidanzato cercò di tirarla via. Gli venne strappata di mano dalla violenza dell’urto. Più tardi, intravidi quel ragazzo, in lacrime, accovacciato sul bordo del marciapiede. Continuava a fissarsi le mani. Erano insanguinate. Non fu il solo a piangere quella maledetta notte.
Dopo aver travolto la ragazza, quel pazzo maniaco investì un bambino che mangiava confetti in mezzo alla strada. Il suo corpo venne scaraventato in mezzo alle bancarelle. Nel pugno stringeva ancora una manciata di confetti. Intanto, la folla inorridita si disperse nelle viuzze laterali. Quel bastardo inseguì i più lenti e li macinò sotto le ruote. Naturalmente, i più lenti erano gli anziani. Ne uccise quattro. Tre uomini e una donna. Ho visto, con questi miei occhi, quella poveretta rimbalzare, sul cofano e sul tettuccio di quell’auto. L’ho guardata ruzzolare sull’asfalto e sfracellarsi contro il margine rialzato della piazza. È stato terribile il rumore che ha fatto… Come una cassetta di meloni che precipita dal terzo piano. Quando ci ripenso, sento ancora rintronare nelle orecchie quel tonfo orribile… Nel frattempo, i carabinieri avevano impugnato le pistole d’ordinanza e si erano lanciati di corsa dietro la Seat. Il viso livido e l’espressione terrorizzata. Chi non lo sarebbe stato? In quello stesso momento, dieci metri più avanti, io raccolsi dalla strada un bimbo di quattro o cinque anni. Aveva perso la sua mamma e piangeva come un vitello. Una volta che l’ebbi preso in braccio non seppi più cosa fare, così mi rifugiai dietro uno dei pilastri dei portici. Era una mossa da vigliacco ma, lì per lì, mi era sembrata una cosa intelligente. La paura rende stupidi. Nascosto dietro quel pilastro, percepii lo stridore assordante di una frenata. Come d’incanto, senza una ragione apparente, il bimbo che avevo tra le braccia smise di frignare e contorcersi. Incapace di trattenermi, sporsi la testa e sbirciai fuori. La festa era finita. La strada, spazzata dal vento, deserta. Esclusi i cadaveri, i carabinieri armati e la Seat Ibiza Black. Il pazzo si era fermato, proprio in mezzo alle bancarelle.
I carabinieri, affannati, si avvicinarono con cautela all’auto. “Vieni fuori!” abbaiò uno dei carabinieri, ansimando forte, inginocchiandosi e puntando la pistola contro l’auto immobile. In risposta venne il singulto del motore che si spegnava. “FUORI!” soggiunse l’altro carabiniere, con un tono così alto e perentorio che mi ferì timpani. Lo riconobbi subito. Era il brigadiere Boneddu, il povero padre della ragazza che si era squarciata gli occhi con le unghie, dentro l’armadio della sua cameretta. La moglie non si era più ripresa da quella scoperta. “Stai attento!” lo avvertì il collega, rimettendosi in piedi. Non successe niente. L’Uomo Senza Nome restò dentro la Seat. L’auto, sotto un crocicchio di luci intermittenti e bandierine colorate, risplendeva di mille bagliori. La vernice era lucidata a specchio. Intorno ai lampioni, orbitavano le falene, i moscerini e le zanzare. I carabinieri, trafelati, si avvicinarono. Nuvole di vapore davanti alla bocca, gambe larghe e braccia tese. Pistole impugnate con entrambe le mani. Per un attimo mi parve di essere capitato dentro la scena madre di un classico western, quando è il momento del duello finale e la main street si svuota in un battibaleno, lasciando tutto il palcoscenico al Buono e al Cattivo. Nei paraggi, appunto, non c’era più nessuno. Escluso me, il bimbo, i carabinieri e L’Uomo Senza Nome. Da qualche parte, alle mie spalle, nei vicoli laterali, distinsi gemiti, pianti e grida disperate. I cadaveri giacevano come manichini per terra. L’odore del sangue sull’asfalto, mescolato con quello delle cipolle e del torrone, era rivoltante. Sentii qualcuno vomitare. Non mi girai. Continuai a sbirciare oltre lo spigolo del pilastro. Il primo carabiniere, un napoletano, ripeté: “Vieni fuori!” Niente. In quell’istante risuonò il clacson personalizzato della Seat.
DU-DU-DU-DUMMM! DU-DU-DU-DUUUM! I due tutori dell’ordine trasalirono. Anch’io. Lo giuro. Al contrario, non ci crederai mai, il bambino si era assopito tra le mie braccia. Non si spaventò e continuò a succhiarsi il pollice. Cinque secondi dopo il colpo di clacson, lo sportello si aprì. L’uomo smontò lento dalla sua auto, le mani sopra la testa, fischiettando sereno la sigla del telefilm Hitchcock Presenta. Era piuttosto basso. Gambe corte e spalle robuste. La faccia cotta dal sole, ispida, occhi brillanti, il naso sottile e spellato. Spiandolo, dal mio riparo, lo vidi fare una cosa assurda. Smise di fischiettare e sorrise. “Bella festa, eh?” disse, sarcastico. “Perfetta per un addio.” “Mettiti in ginocchio, stronzo!” intimò il carabiniere più giovane, avvicinandosi. Era incazzato. “Mani dietro la nuca!” L’Uomo Senza Nome ubbidì, senza mai perdere il sorriso. “Altro?” domandò, insolente, con un pesante accento sardo. “Stai zitto!” sbraitò il brigadiere Boneddu. “No…” rispose lui, pacato. “Sono rimasto da solo e zitto per troppo tempo. Ho voglia di dire qualcosa, adesso.” E, contro ogni logica, si rialzò. Per qualche momento i carabinieri restarono esterrefatti. Fissarono l’Uomo Senza Nome, allarmati, senza sapere che fare. Non erano stati addestrati per una situazione del genere. Così, quelli lo guardarono, ammutoliti e spaventati, mentre camminava spavaldo verso di loro. Le mani si abbassarono.
Alla fine, quello che aveva la figlia pazza, gridò: “Fermati!” L’uomo era ormai a pochi i dalla sua pistola. “Fermo o sparo!” Lui si arrestò. Alzò la testa, contemplò per qualche istante il cielo stellato, poi scrollò le spalle e infilò le mani nelle tasche dei jeans. Mi sembrò quasi rassegnato. Era uscito di senno? Sempre con le mani in tasca, il vento che gli scompigliava i capelli, l’Uomo Senza Nome parlò con voce sonora: “Va bene. Sparami. Sono stanco… Stanco di fare quello che un altro vuole e pensare quello che un altro pensa. È questo il problema degli uomini vuoti. Qualsiasi cosa può riempirli. Qualsiasi cosa…” Le ultime parole riecheggiarono nel silenzio della piazza. Il tono non era più ironico, ora, ma molto, molto triste. Riprese a camminare, a testa bassa, fissandosi le scarpe sporche di calce. E disse: “Uccidetemi.” I due carabinieri si scambiarono un rapido sguardo d’intesa. Il brigadiere, con occhi lucidi di rabbia, prese la mira. “Non costringerci ad aprire il fuoco!” gridò lo sbarbatello. L’Uomo Senza Nome si voltò nella sua direzione. Sbigottito, il ragazzo indietreggiò e strepitò: “Brigadiere!” “Uccidimi.” ando dalla lentezza estrema a una velocità repentina, l’uomo scattò e tentò di sottrargli la pistola d’ordinanza. Fallì. Il carabiniere, per quanto impreparato, reagì con prontezza. Due spari riecheggiarono tra le case e sopra la piazza vuota. Un proiettile devastò la faccia dell’Uomo Senza Nome. L’altro, mancandolo, finì la sua traiettoria nel serbatoio
della Seat Ibiza Black. A quel punto, per quanto ti possa sembrare inverosimile, accadde qualcosa che succede soltanto al cinema. L’auto deflagrò in una gigantesca palla di fuoco arancione, incendiando le bandierine e mandando in corto le luminarie. L’onda d’urto buttò a terra i carabinieri come birilli. Tremante di paura, rannicchiato dietro il pilastro di cemento armato, con il bimbetto stretto tra le braccia, venni avviluppato da una folata di aria fetida di carburante e plastica bruciata. In mezzo a tutto quel putiferio, il bimbo continuò a dormire. Dieci minuti più tardi arrivarono le volanti della polizia, due ambulanze e l’autopompa dei Vigili del Fuoco. Gli stessi che, pochi minuti prima, avevano spento il terribile incendio che aveva distrutto la casetta di campagna dell’Uomo Senza Nome. Il suo corpo, mutilato dall’esplosione della sua stessa auto, venne tumulato senza nessuna cerimonia funebre in un angolo del cimitero. Se sei curioso di sapere come si chiamava, trova la sua tomba e leggi quello che c’è scritto sulla lapide…
La sua storia, per quanto ne so, finisce così.
51 – STRANI PENSIERI
Una cupa atmosfera riempie la piccola stanzetta fumosa. Nel camino c’è parecchia cenere, molta brace e poca legna. Il maestrale zufola, come il Pifferaio Magico, attraverso le tegole. All’esterno, in quel momento, potrebbe esserci il Nulla. Quel silenzio, pieno di rumori, prosegue per lunghi minuti. Alla fine, il vecchio mi domanda: “Nessun commento?” “Nessuno…” rispondo. Cosa dovrei commentare? Lui annuisce, pensieroso. I suoi occhi sono asciutti. “Doveva finire così…” aggiungo io, tanto per farlo contento. “Come diceva sempre mia nonna? Ah, certo… era destino.” “Conoscevo tua nonna…” dice lui, prendendo l’attizzatoio di ferro e spostando alcuni ciocchi bruciacchiati sopra le braci. “Brava donna. Non meritava proprio quello che è successo.” Nulla da replicare. “Cos’è che ti ha spinto a tornare qui, ora?” domanda. Sto zitto. Non ho voglia di parlargli di quella lettera. “È un segreto, eh?” borbotta. “Bene. Tienilo pure per te.” Dopo avere rimestato la cenere nel caminetto per un periodo di tempo indefinito, in perfetto mutismo e con grande flemma, il vecchio si alza dalla sua poltrona. Strascicando le pantofole si dirige, senza fretta, verso un’antica cassapanca. Incastrata in un angolo, ricoperta da una spessa patina di polvere, quella cassa di quercia sembra immobile in quell’angolo da millenni.
La questione mi incuriosisce. “Cosa c’è nascosto lì dentro?” chiedo, seguendo il vecchio con lo sguardo e intrecciando le dita dietro la nuca anchilosata. “Lo saprai. Voglio farti leggere una cosa…” sibila il vecchio, curvandosi. Adora fare il misterioso. Ci gode un sacco. Apre la serratura, con un gran stridore d’ingranaggi, usando una piccola chiave d’ottone che teneva nascosta nella fessura tra la pesante cassapanca e il pavimento. Ripone la chiave nel taschino del gilet. Poi solleva il coperchio. Nessun cigolio. I cardini sono oliati. Infila le mani dentro. Fruga dentro. Ascolto con attenzione. Rumore di ferraglia e cianfrusaglie di varia natura, fruscio di vecchie riviste e l’assurdo tic-tac di una sveglia appena risorta. Quando richiude la cassapanca e si volta, il vecchio tiene tra le dita, nodose e maculate, un minuscolo taccuino. Tipo quelli che hanno gli ispettori nei telefilm. La copertina stropicciata. Indico il taccuino. “Di cosa si tratta?” Come sua abitudine, il vecchio non risponde subito. Ritorna alla sua poltrona e si adagia, con un preoccupante scricchiolio di molle e articolazioni. Il corpo corroso dalla ruggine dell’età. Un’età che non ho ancora stabilito con precisione. “Allora?” “Calmo…” mi rimprovera, sospirando. “Hai fretta?” Scruta il fuoco, perplesso e malinconico allo stesso tempo. “No.” Schiocco le dita delle mani, una ad una, poi allungo le gambe intorpidite e mi stiracchio la spina dorsale. “Non ho fretta. Il tempo qui non ha mai avuto molta importanza, vero?”
Il vecchio mi fissa, senza capire, con il taccuino posato su un ginocchio ossuto. Il suo sguardo è come quello di un rapace. “Solo per i giovanotti come te…” dice, con tono allusivo. Annuisco. Ho già sentito questo tipo di discorsi. “I vecchi danno buoni consigli perché non possono più dare cattivi esempi.” “Eh?” “Niente. Parole a vanvera” minimizzo, per non irritarlo. “Allora… adesso, per favore, mi puoi dire cos’è quello?” “Questo?” Il vecchio impugna il taccuino e se lo rigira tra le mani. “È un… come chiamarlo? Il resoconto di una visione?” “È tuo?” “No.” “Come lo hai avuto?” “Me lo ha regalato un amico. Moltissimo tempo fa.” Appoggio i gomiti sulle ginocchia e mi sporgo verso di lui, pendendo dalle sue labbra, tenendomi la faccia tra le mani. La barbetta di tre giorni mi punzecchia i palmi. La mia mente, per l’ennesima volta da quando sono tornato a Solus, avvampa dal desiderio di sapere. Desidero conoscere un’altra storia, soltanto un’altra… e poi basta. In realtà, lo so bene, non sarò mai sazio. Mai. Queste storie maledette sono diventate la mia droga. Il vecchio l’ha capito subito e ne approfitta per tergiversare. Lui è lo spacciatore e io il drogato in crisi di astinenza. Questo è il fondamento del nostro ineffabile rapporto. Io ho bisogno di storie e il vecchio ha necessità di raccontarmele. “Cosa è successo al tuo amico?” gli domando, impaziente.
“È scomparso.” “Vuoi dire che è morto?” “No. Voglio dire che è scomparso!” precisa lui, scocciato. “Come?” “Nessuno lo ha capito…” spiega il vecchio, con espressione indescrivibile. “È svanito nel nulla la notte del 23 aprile di… non so più quale anno, ma è successo qualche mese prima che l’Uomo Senza Nome uscisse di scena. I vicini l’hanno visto entrare in casa, chiudersi dentro a chiave e PUF! Non è più uscito. Quando, circa una settimana dopo, i carabinieri hanno sfondato la porta… beh, lui non c’era più. Scomparso, come ho detto. La porta bloccata dall’interno anche con il chiavistello. Le finestre sbarrate. Il caso venne catalogato come irrisolto e archiviato da qualche parte.” Annuisco di nuovo. Quell’episodio incredibile per me non è una grande novità. “Che c’entra quel taccuino?” “Il mio amico me lo regalò proprio la mattina del giorno in cui svanì. Era nuovissimo. In quel momento non compresi il suo gesto, dato che non era il mio compleanno e lui non era uomo da sorprese, ma lo accettai senza polemizzare. Avevo altro per la testa. Non gli posi nessuna domanda, purtroppo. Quella sera lo posai sul tavolo della cucina. Andai a dormire. Il mattino seguente, il taccuino era ancora sul tavolo. Solo che…” Il vecchio fa una pausa, risucchia qualcosa dal fondo della gola, poi scatarra nella cenere del camino. Lo sputo sfrigola. Riprende il racconto come nulla fosse. “Solo che sembrava usato. È impossibile, pensai. Quando lo raccattai, dopo aver trangugiato un’intera caffettiera, mi accorsi che era possibile. Sfogliai alcune pagine. Qualcuno, durante la notte, era penetrato in casa e ci aveva scritto sopra. Qualcuno che aveva la stessa brutta calligrafia del mio amico.” “Che era scomparso!” esclamo. Un leggero sorriso mi increspa le labbra. Assaporo il sapore dolceamaro, ormai
familiare, dell’Assurdo. Quell’ultima notte, il vecchio mi distribuisce le dosi definitive. Ho la testa piena di bollicine. Il cervello illuminato come un albero di Natale. “Magari il tuo amico ha fatto un salto da te, prima di darsi alla macchia…” suggerisco, razionale. “Trova la porta aperta, il taccuino sul tavolo e decide di lasciarti un appunto. Giusto?” Lui scuote la testa. In sincrono, il vento mugghia sul tetto. “Non è giusto…” dichiara autorevole. Poi spiega: “La porta era chiusa. E ho il sonno leggero. Nessuno poteva entrare qui senza svegliarmi. Inoltre, quello che mi ha lasciato non è un semplice appunto… e non è stato scritto con una penna a sfera.” Avverto un formicolio lungo la schiena. “In che senso?” “Leggilo e capirai!” dice il vecchio, porgendomi il taccuino. “Io, nel frattempo, schiaccio un pisolino. Sono stanchissimo.” Chiude gli occhi, reclina il capo e pare assopirsi all’istante. Stupito, mentre lui inizia russare, sfoglio il taccuino. Trovo la prima pagina scritta, dopo tre lasciate in bianco. Le parole sono di uno strano rosso slavato. Leggo. “Caro amico, questo è il mio…”
52 – ULTIMO SALUTO
Prima di tutto scusami per la pessima calligrafia e il colore dell’inchiostro, ma non sono abituato a scrivere con una penna d’oca da intingere in una scodella. Altra cosa: pochi minuti fa la scodella era vuota. Ho dovuto riempirla io. Già. Perché sto scrivendo con il mio sangue: AB Rh-. Puoi farlo analizzare, se lo ritieni necessario. Vedi, qui dove mi trovo ora, nessuno è così generoso da versare sangue per il messaggio d’addio di un altro. Dopotutto, neppure io lo farei. Soltanto un perfetto idiota lo farebbe, giusto? Comunque, eccoti spiegate le sbavature e il colore schifoso di queste parole. Giuro che sarò breve. Non voglio morire dissanguato. La ferita nella caviglia, da cui ho spillato l’inchiostro, mi fa male. Non voglio che questo messaggio mi costi troppo. Se, alla fine di questa mia, avrai in testa più domande che risposte, consolati. C’è qualcuno che sta molto peggio di te: io.
iamo alle spiegazioni. Ti starai chiedendo: cosa gli è capitato? La risposta è qui di seguito. Quello che so è che il mio ultimo sogno non era come tutti gli altri. Di quelli in cui ci si risveglia nel proprio letto, intendo. Quella notte (che per te è questa) mi addormentai di botto. Poco dopo, iniziò il sogno… che per me è ormai realtà. Senza sapere come, mi trovai nel bel mezzo di un sentiero di sassi, tortuoso come l’alveo di un ruscello inaridito (in seguito, scoprii che proprio di questo si trattava). Era notte fonda. Non c’era la luna, tuttavia l’aria riluceva di un bagliore azzurrino. Camminai per circa un’ora lungo il sentiero, circondato da una boscaglia fitta e
silenziosa. Oltre le verdi fronde, il cielo era nero, terso e senza stelle. Niente uccelli. Niente insetti. Il suono prodotto dai miei piedi sui sassi levigati era strano. In quel momento, mi resi conto di calzare un paio di stivali. Immaginavo di essere ancora dentro il pigiama e, invece, mi ritrovavo con addosso una grezza tunica, un mantello di lana di pecora e un pugnale d’ossidiana infilato nella cintura. Un look d’altri tempi. Strano sogno, pensai. Goditelo finché dura. Quando sollevai lo sguardo, vidi davanti a me, nel mezzo di una radura, una bella casetta in stile rustico. Il tetto era rosso e i muri bianchi. Dall’unica finestra visibile, a forma di cerchio, emanava un debole bagliore. Troppo stabile per essere prodotto da candele. Il sentiero di ciottoli lisci conduceva dritto a una porta verde, simile a quelle che si vedono nelle illustrazioni dei libri di novelle. Pareva la casa dei Sette Nani. Qualcosa così. Giudicai che non c’era nessun pericolo all’orizzonte. Domani mi sveglierò con un bel mal di testa… Così mi avvicinai alla porta e bussai con forza. Tre colpi secchi: TOC! TOC! TOC! Se mi apre Biancaneve in sottoveste di pizzo muoio, riflettei, mentre aspettavo con calma sopra uno zerbino di pelle animale, su cui era marcato a fuoco qualcosa in un alfabeto sconosciuto. Stavo osservando quell’avviso, quando la porta si spalancò. Sulla soglia non c’era Biancaneve… molto meglio! Di fronte mi si parò una ragazza bellissima: alta, pelle color avorio, occhi blu oltremare e riccioli neri sciolti sulle spalle nude. Questa specie di divinità indossava un’impalpabile veste, che la fasciava in modo da esaltare le già esaltate curve del suo corpo. Ho pensato: questo sogno mi piace sempre più! Lei mi ha sorriso, squadrandomi dalla testa ai piedi, poi con voce deliziosa mi ha
sussurrato: “Levati gli stivali, amore.” Ho subito ubbidito. Da anni nessuno mi chiamava amore. Pochi secondi più tardi mi ero tolto anche il mantello, la tunica e la cintura con il pesante pugnale. Lei, dopo essersi chiusa alle spalle la porta, si voltò. Non fece commenti, quando constatò che mi ero già spogliato. Al contrario, levò la veste, facendola are sulla testa e la lasciò scivolare con noncuranza sul pavimento di terra battuta. Era nuda, stupenda e… disponibile. Fissandomi con i suoi occhioni, domandò: “Mi ami?” Non capii cosa intendesse, per nulla, ma visto che una donna non si contraddice mai e poi mai, trafelato, risposi: “Oh, sì.” La dea sospirò e aprì le braccia. “Vieni qui.” Andai. Lei mi accolse tra le sue braccia e mi baciò con ione. Persi quasi conoscenza. Non so come, ma mi ritrovai nel suo letto di paglia, tra le sue ruvide lenzuola, dentro di lei. Fu come un’esplosione primordiale. L’inizio di tutto. La fine del vuoto. Pensai: Mi sa proprio che ho un po’ bagnato il letto… Frattanto, mentre io mi riprendevo, lei si era alzata. Stava in piedi, davanti a uno specchio fissato alla parete. Osservai la sua immagine, riflessa a grandezza naturale, nel vetro sporco di muffa e verderame. La fievole luminosità, che avevo già osservato prima dall’esterno, proveniva dalle pareti. Lei si contemplò, posizionandosi di profilo e accarezzandosi voluttuosa i fianchi e il seno, consapevole della perfezione del suo corpo. Il suo atteggiamento era bizzarro ma, dopotutto, non potevo lamentarmi. Quello era un sogno. L’inconscio è così. Girai la testa sul morbido cuscino di piume e sbirciai fuori dalla finestra,
circolare e senza vetro, posta nella parete accanto al letto. Dalla mia comoda posizione, riuscii a scorgere una collina di trachite, piena di tetri anfratti, coperta di cespugli di mirto, rosmarino, ginestra e lentisco. Uscendo dal fitto bosco di querce, la curva di un sentiero sabbioso s’inerpicava verso una radura, incastrata in una concavità a forma di ferro di cavallo. Il cielo notturno era limpido ma privo di stelle. Non ero affatto preoccupato. Restai immobile, in attesa dell’inevitabile risveglio. Durante l’attesa, intravidi tre figure umane salire il sentiero, dirette verso il fianco della tozza collina. Erano di spalle. Due uomini, una donna. Non distinguevo i volti. La loro fisionomia non mi era familiare. I tre tizi, che portavano degli attrezzi in spalla, discutevano e gesticolavano. Uno di essi, l’uomo più alto, indicò una delle numerose grotte scavate nella roccia. In quel momento, osservai che sulla sommità dell’altura c’era un nuraghe. Era difficile notarlo, poiché era fatto di pietre nere come la pece e si ergeva contro un fondale dello stesso colore. I tre erano agitati. La donna gesticolava più degli altri. Dal mio torpore, continuai a osservare i loro movimenti. La dea era ancora allo specchio e si ava, lasciva, le mani sull’inguine. Il suo sedere rotondo era degno di una scultura di Michelangelo. Si era forse scordata della mia presenza? Chissà. Intanto, i tre tizi trafficavano nei pressi di una grossa pietra. Stanno scavando una fossa? Perché? ò altro tempo. Non so quanto. Nulla era cambiato: la dea si masturbava e io scrutavo fuori. Poi mi accorsi che uno dei tre, l’uomo più gracile, era sceso dentro la cavità. Gli altri due si inginocchiarono sulla terra smossa, irta di radici. Indicarono qualcosa a quello dentro.
Cosa stanno combinando? Lo compresi quando dalla buca, profonda un metro e mezzo, imbrattato di terriccio e fogliame putrido, riemerse il tizio alto. Il tizio reggeva tra le braccia un cadavere. Era un bambino. Il corpo ancora integro. Sepolto da poco. Ero abbastanza vicino per cogliere questi dettagli, eppure (curiosamente) troppo lontano per poterne distinguere il volto. Dopo una rapida consultazione, i tre, abbandonando il corpo a lato della fossa, scesero il sentiero e si avvicinarono alla casa. Bene, pensai. Così potrò vedere le loro facce. Infatti le vidi… e le riconobbi. Anche se, prima di allora, le avevo viste soltanto nei quadri. Abitavano vicino a Solus, tanto tempo fa… due fratelli e una sorella… ma non ti dirò chi sono. È meglio che tu non lo sappia, per il tuo bene. È una cosa che fa impazzire. Per quanto riguarda il cadavere del bambino… Non so come, ma intuii che avesse a che fare con la mia dea. Un’intuizione improvvisa e inspiegabile. Mi voltai, inorridito, per chiederle delucidazioni… ma lei non c’era più. Ora, davanti allo specchio, c’era un essere molliccio, deforme e mostruoso. Urlai. Non mi aspettavo nulla del genere, da quel sogno. La spaventosa creatura si voltò e, con un sogghigno pieno di denti gialli appuntiti, gracchiò due parole assurde: “Mi ami?” Urlai ancora più forte, balzando nudo fuori dal letto. Nello stesso istante, i tre fratelli sfondarono il fragile uscio, entrarono di corsa e si scagliarono contro la creatura. Lei non ebbe il tempo di reagire. Cominciarono a colpirla. Uno di loro utilizzava una grossa mannaia, l’altro un bisturi scintillante; la donna un piccone con il manico rivestito di nastro isolante.
La ridussero in brandelli sussultanti di carne sanguinolenta. Prima di morire, lei esalò una specie di cupo gemito. “Aaa… maaa… mi…” Come la coda amputata di una lucertola, i suoi resti cosparsi sul pavimento continuarono a fremere, contorcersi e dimenarsi. Tutta la stanza (me incluso) era schizzata di sangue nero. I tre mi squadrarono, sudati fradici e ansimanti. La donna domandò: “Che ne facciamo di lui?” L’uomo alto rispose: “Non possiamo lasciarlo qui.” Parlavano come se io non fossi presente. Il terzo fratello, quello basso e mingherlino, obbiettò: “Ho già sentito questo dialogo. E sappiamo come è andata a finire. Non saremmo imprigionati nelle Terre Oscure, se solo voi…” “Verrà con noi…” intervenne quello alto, posandomi una mano sulla spalla. “Gli spiegheremo tutto quanto. Capirà.” “Spiegare è una cosa…” affermò lui. “Capire un’altra.” “Portiamo alla tomba i resti della Bruxia…” disse la donna, spazientita. “Bruciamola insieme a quel maledetto bambino!” Così fecero… e io gli detti persino una mano d’aiuto.
In sintesi, caro amico, ecco cosa è successo dopo. Mi hanno trascinato via con loro, attraverso il bosco, fino a questo rifugio. Non posso raccontarti altro di questo luogo. È pericoloso. Per te e per noi. Qui è sempre notte. Il giorno e il sole sono un mito narrato dalle Tavole degli Antichi.
Tutto considerato, e dopo quello che ho visto, sto bene. Da queste parti, vivere è un po’ complicato, soprattutto da quando i Mommoth hanno fiutato la nostra presenza nella zona. Non sarebbe un grosso problema, in una situazione normale, ma le incursioni degli Istrangius rendono la nostra vita un vero inferno. Ad ogni modo, parlarti di cose che non sai è inutile. Non ci crederai, ma non sono l’unico di Solus a essere finito quaggiù. C’è un altro ospite. Questo lo conosci di persona. Ti dico soltanto che non usa più la sedia a rotelle. Oggi (per quanto qui non esista un oggi) ti ho sognato per la prima volta e, visto che ho paura che sia anche l’ultima, ho deciso di lasciarti questa lettera d’addio. Non so come accada. È l’unico modo per comunicare. Ho sognato di essere a casa tua mentre dormivi. Sul tavolo c’era il taccuino che ti avevo regalato tanto tempo fa. Allora non sapevo perché, ma adesso lo so… Non era una follia. È tutto collegato, se sai leggere tra le righe. Il caso non è sempre così casuale. E i sogni, spesso, non sono solo sogni… Devo concludere. Gli Iniziati si stanno per svegliare. L’estratto di vegetali con cui ho allungato il mio sangue, per rallentare un po’ la coagulazione e permettermi di usarlo come inchiostro, non è molto efficace. Il taglio sulla caviglia brucia. Buona notte, amico mio. Prega per me, quando hai tempo.
53 – DOPPIO GIOCO
Chiusi l’ultima pagina, esterrefatto. “È uno scherzo, vero?” “Ho fatto analizzare un campione anonimo di quel sangue dal laboratorio dell’Ospedale di Carbonia. Gruppo AB Rh-.” “Incredibile!” Restituisco il taccuino al vecchio, svegliatosi da un minuto. Lui lo prende, lo soppesa e poi lo getta dentro il caminetto. La copertina logora e la carta ingiallita s’incendiano in un attimo. “Perché l’hai fatto?” chiedo, mentre le fiamme lo divorano. “A che serve?” ribatte lui, mesto. “Ormai l’hai letto, no?” Mi alzo in piedi e dico: “Un racconto un po’ sconcio.” I suoi occhi lampeggiano. Nasconde qualcosa. “Tu dici?” “Chi era quella donna-mostro?” “Non lo so.” “Chi erano quei tre?” “Non lo so.” “In che luogo, o piega del tempo, si trova ora il tuo amico?” “Non lo so.” “Sicuro?” “Sicuro.”
Il vecchio, dopo il pisolino, sembra piuttosto rinvigorito. “Dai, raccontami un’altra storia…” gli dico con tono casuale, come se non ne avessi davvero bisogno. “Voglio sapere tutto.” Comincio a eggiare, senza meta, nella stanza affumicata che per il vecchio è cucina e salotto. Camera da letto e bagno costituiscono il resto della casetta. Il vecchio ha sempre vissuto da solo (non è necessario che lo dica, basta guardarsi intorno per capirlo), a parte la compagnia di qualche scarafaggio. “È tardi…” risponde, strizzando gli occhi. “Ho mal di testa.” “Un ultimo sforzo, per favore. È importante.” Lui rovista nella cenere con l’attizzatoio e sospira. “Importante? Per quale motivo?” “Per capire!” ribatto. “Capire cosa?” “Il senso di tutto questo!” allargo le braccia e giro sui tacchi, come a voler indicare quello che ci circonda. “Solus non è mai stato e mai sarà un paese come gli altri. Quello che è accaduto qui è anomalo e irripetibile. Dobbiamo preservarne il ricordo!” “Quelle visioni ti hanno dato alla testa, ragazzo…” ribatte. “Può darsi.” Deve raccontarmi un’altra storia. Adesso. Volente o nolente. Sono ancora perseguitato da quel formicolio incessante. “Ho fame…” biascica lui, giocando l’ultima carta. Inutile. “Ti erà!” sentenzio, implacabile. “Dai, racconta, su!” “Uffa, va bene, hai vinto!” Il vecchio si arrende, raccoglie le energie rimaste e
cerca di rammentare la sua penultima storia. “Almeno siediti. Se eggi così mi fai venire il mal di mare.” Per accontentarlo, mi installo sulla dura seggiola e la inclino all’indietro. Incrocio le braccia. Attento, serio e disciplinato. “Fatto. Adesso racconta…” dico seccato, con tono insolente. Ubbidisce. “Durante la ata estate, prima di Ferragosto, mi capitò di ascoltare per coincidenza l’ennesima bizzarra storia. Ero uscito per pagare una bolletta all’Ufficio Postale. Ricordo che faceva caldo. L’aria era incandescente. L’asfalto delle strade quasi si scioglieva sotto le suole. Così decisi di prendermi un’aranciata. Alle dieci del mattino c’erano già una decina di avventori dietro il bancone del Bar Sport. Mi ignorarono. Tutta gente che conoscevo: operai, manovali, disoccupati e alcolizzati cronici… C’era anche quel giovanotto che buttava le immondizie. Ora che ci penso, che fine avrà fatto? Non l’ho più visto. In piazza dicevano che era fuggito con una ragazza straniera, una turista, mollando tutto e tutti. Boh! Ad ogni modo, uno di loro aveva alzato il gomito più degli altri, che in ogni caso non erano certo disidratati. Un impiegato di mezza età, irsuto come un gorilla, noto in paese per le sue disavventure amorose. Quella mattina, l’alcol gli aveva slegato la lingua e imbrigliato la timidezza. Raccontò tutto d’un fiato. Quasi. Ogni tanto interrompeva la narrazione per ingurgitare un bicchiere di vernaccia. La storia mi colpì per due motivi. Il primo: ero l’unico dei presenti abbastanza lucido per capirla. Il secondo: si trattava di una vicenda troppo strampalata per essere il semplice delirio di un ubriaco. Anche se, in fondo, di questo si tratta. Non ricordo proprio tutto, parola per parola. Devi accontentarti. Inizierò a riportarla nello stesso modo in cui l’ha fatto quell’uomo. E l’unica frase che ricordo a memoria… Disse così: “Vi racconto di quando sono arrivato al…”
54 – CAPOLINEA
L’altra sera, come ogni sera (tranne il sabato, la domenica e i giorni festivi) da dieci anni a questa parte, ho timbrato il cartellino e sono uscito dal lavoro alle diciassette esatte. La stazione dista più o meno mezz’oretta di cammino. Dopo una giornata ata seduto dietro una scrivania, ne approfitto per fare una eggiata. Di solito prendo il treno delle 18.00 per rientrare a casa. Da Solus a Carbonia (e viceversa) vado con la mia macchina, lo sapete. È una routine che non mi pesa. Quella sera, però, mi attendeva una sorpresa inaspettata. Uno sciopero nazionale dei ferrotranvieri. Chissà come, non ne sapevo proprio nulla. Sta di fatto che il treno regionale delle diciotto (uno di quelli non garantiti) era stato soppresso. Così, snervato, incazzato, annoiato, con sullo stomaco una micidiale cenetta a base di hamburger, Coca Cola sgasata e patatine bruciacchiate, sono costretto ad aspettare l’ultima corsa. Parte da Cagliari alle 22.05 circa e, dopo il cambio a Villamassargia, arriva a Carbonia. Quasi sempre in ritardo. Bei tempi, quando i treni avano ancora da Solus, vero, ragazzi? Comunque sia, ho percorso quella tratta migliaia di volte, ma mai a quell’ora della notte. Credetemi, è un’esperienza che non voglio replicare. Penso che, d’ora in poi, andrò al lavoro in auto, costi quel che costi in benzina. Non salirò più su quel treno maledetto. Perché? Come perché?! Pagatemi un bicchiere e ve lo dico. Grazie, amico. A buon rendere. Adesso vi racconto il perché. Dopo aver bighellonato per quattro ore tra Via Roma, Piazza Matteotti e il Porto Turistico, tra negozi che chiudevano e strade che si svuotavano, era arrivata l’ora della partenza. Il treno per Carbonia parte sempre dal binario 5. Per me è automatico arrivare in stazione, schivare tossici che reclamano monete, andare al binario e salire sul treno. Ho l’abbonamento sempre dentro il portafoglio. Scade il 10 settembre.
Ad ogni modo, non successe nulla di anormale… all’inizio. Il vagone in cui presi posto era quasi vuoto, come il resto del convoglio. Forse gli altri pendolari (studenti e lavoratori) erano venuti a conoscenza dello sciopero nazionale e si erano organizzati. C’eravamo soltanto io, un ragazzo e, nei sedili in fondo, una donna che conoscevo di vista. Il ragazzo non lo avevo mai visto, invece. Non era uno dei soliti viaggiatori. Nei pochi minuti che restavano prima che il treno partisse, studiai il ragazzo senza farmi notare, con la coda dell’occhio. Un modo per trascorrere il tempo. Mi annoio sempre quando aspetto qualcosa. Sempre. È uno dei miei innumerevoli difetti. Il ragazzo mi ignorò. Ascoltava musica heavy-metal attraverso gli auricolari di un walkman e teneva il naso affondato tra le pagine patinate di un fumetto. Supereroi in calzamaglia. Era totalmente estraniato. Quando, un minuto più tardi e dopo il fischio del Capostazione, il treno scivolò rumoroso sulle rotaie e lasciò la stazione di Cagliari, uscendo dal bagliore dei neon e infilandosi nel buio della periferia, quello non sollevò neanche la testa. Forse non si era accorto neppure della partenza. Chissà. Beata gioventù. La donna, nel frattempo, continuò a fissare un punto al di là del finestrino impolverato. Estraniata pure lei. In questa atmosfera di generale estraniamento comatoso e carente di entusiasmanti stimoli sensoriali, non impiegai molto ad assopirmi prima, e dormire poi. Il rumore sferragliante e monotono del treno sopra i binari favorì la mia discesa mondo dei sogni meglio di un bicchiere di Lexotan. Dormii, russai e sognai per almeno quaranta minuti. Non era la prima volta che accadeva. Viaggiare in treno mi fa questo effetto soporifero, specie quando conosco a menadito il panorama esterno. Penso di conoscere ogni pietra, muro, albero, cespuglio, mucchio di immondizia e ferrovecchio lungo la tratta CagliariCarbonia. Su entrambi i lati. Molte volte mi ha destato il controllore, un mio amico, direttamente in stazione. Dato che ero un pendolare tranquillo, quotidiano e abbonato, il mio sonnellino non veniva quasi mai disturbato. Una forma di cortesia che apprezzo. Quando dormi il tempo vola e il viaggio sembra più breve.
Pertanto, come spesso mi accadeva durante il ritorno, prima che il convoglio lasciasse la “zona industriale” e la squallida periferia, dormivo come un bruco nel suo bozzolo. Stravaccato sul sedile, gorgogliante, sognando impossibili rapporti sessuali con Valeria Marini o Monica Bellucci o entrambe. Nel bel mezzo di uno di questi amplessi onirici, mi svegliai. Di botto. Sudato e disorientato. La gola secca. Con occhi appiccicosi e velati di cispa, mi guardai attorno, in cerca di stabili punti di attracco con la realtà. Ne trovai uno a pochi centimetri dal mio viso congestionato. Sul vetro, al mio fianco, c’era una ragnatela di crepe. Al centro, un buco. Dentro il buco, buio pesto. L’aria umida e afosa della notte mi soffiava dritta in faccia. Scrutai l’apertura, stropicciandomi le palpebre. Era come se un sasso o un proiettile avesse colpito il treno in corsa. Non era insolito. Anzi, succedeva abbastanza di frequente. Ricordo che pensai: Cazzo! Stronzi di teppistelli! Quasi mi viene un infarto! Dopo aver formulato questo decoroso e benevolo pensiero cristiano, mi resi conto (riemergendo dalla catalessi) che il mio vagone era spopolato e il treno immobile. Fuori, l’oscurità. Nessuna luce. Nessuna sagoma. Solo vento, tenebre e silenzio. Il treno non soltanto era fermo, ma anche a motori spenti. L’unico suono, a parte la brezza umida che sibilava nel buco del finestrino, era il brusio delle lampade sul tetto del vagone. “Che cazzo succede?” bofonchiai, stavolta ad alta voce. La mia mente brancolò in una selva intricatissima di risposte razionali. Alla fine, pessimista come sempre, conclusi che gli stessi fottuti teppisti che avevano scagliato i sassi contro i vetri dei vagoni probabilmente (era quasi una verità matematica) avevano anche ostruito i binari, distruggendo il locomotore. Questo spiegava la fessura e l’arresto del convoglio.
Però non giustificava l’assenza dei miei alienati compagni di viaggio. Dov’erano? Dal macchinista per lamentarsi? Oppure erano scesi in una stazione antecedente, mentre io dormivo? Se sì, quale? Esaminai ancora la notte fuori dal finestrino, ma, nonostante la mia enciclopedica conoscenza del paesaggio lungo i binari, non riuscii a scovare nessun indizio che potesse aiutarmi a identificare il luogo in cui eravamo bloccati. Sembrava quasi che il locomotore e i suoi vetusti vagoni fossero stati ricoperti da un oceano di inchiostro nero e corposo. Una fantasticheria angosciosa, estranea alla mia personalità pragmatica, perciò la scacciai con decisione. All’improvviso, sentii l’impellente necessità di muovermi. Dovevo agire. Volevo scoprire cosa fosse successo a quel treno, mentre farneticavo sul culo della Marini e le tette della Bellucci. Balzai in piedi, così rapido da far schioccare le ginocchia. Lasciai la mia borsa sul sedile e mi diressi verso la porta sul fondo del vagone. Era l’ultimo della fila. Pensavo di rivolgermi al controllore per chiedere notizie. Per esperienza, sapevo che il mio amico prendeva posto nella carrozza accanto alla motrice. Mentre spingevo la porta, ormai lucido, notai sulla poltrona alla mia destra un walkman abbandonato a se stesso. Era quello del ragazzo apionato di supereroi. Ed era . Perplesso, tornai indietro di un o e mi fermai accanto al sedile. Allungai una mano e raccolsi un auricolare. L’avvicinai all’orecchio. Ascoltai. Una canzone dei Queen, quella triste che fa da colonna sonora nel film degli immortali, avete presente? Comunque, c’era così silenzio, in quel momento, che udii la cassetta che girava nel walkman producendo un fruscio. Per quale ragione, il ragazzo l’aveva abbandonato ?
Riposi l’auricolare sul sedile e schiacciai il tasto STOP. Uscii dal vagone in preda a una misteriosa ansia. Il ragazzo era andato a pisciare, dimenticando di spegnerlo? E la donna? Dov’era? Anche lei in cerca del controllore? Mentre queste e altre domande visitavano il mio cervello, procedetti a o di marcia lungo i vagoni che formavano il treno. Erano tutti deserti e muti. Nell’aria stantia risuonava solo il battito dei miei i. Senza soffermarmi, registrai che tutti i finestrini erano appannati. La temperatura esterna era cambiata di colpo? Inoltre, in parecchi sedili, c’erano oggetti personali, incustoditi. Come se il proprietario si fosse allontanato solo un momento e stesse per tornare al suo posto. Eppure, continuavo a non vedere anima viva. Tutti spariti? Quanti eggeri c’erano sul treno alla partenza? Stavo per accedere nell’ultimo vagone, prima della motrice, quando un caliginoso riverbero bluastro attirò il mio sguardo. Proveniva dall’esterno. Oltre i vetri coperti di condensa e rigati da gocce d’umidità. Mi accostai al finestrino e lo pulii con il palmo della mano. Era gelido, un freddo tanto intenso da intorpidirmi la pelle. Sbirciai fuori. Davanti ai miei occhi vidi un cartello rettangolare illuminato da un potente faro alogeno. Centrata, tra bordi bianchi, c’era un’indicazione: CAPOLINEA. Ero sbigottito. Sapevo bene che quell’insegna non poteva esistere nella realtà. Tuttavia, allibito, agguantai le gelide maniglie e abbassai la sezione superiore del finestrino. Sporsi la testa fuori e osservai, da meno di un metro e mezzo, quell’impossibile cartello. Poteva esserci, tra Cagliari e Carbonia, una stazione chiamata “capolinea”? Neanche per sogno. Voltai lo sguardo di qua e di là e non trovai niente. A parte il buio. Il treno, come il cartello, sembrava sospeso nell’oscurità. L’aria era gelata, ventosa, e odorava di muschio in decomposizione. Cominciai ad aver un po’ di paura. Richiusi il finestrino e tentai di riordinare le idee. Esisteva una spiegazione
logica per quello che vedevo? No. Senza preavviso e senza rumori il treno iniziò a muoversi. Il bagliore spettrale del cartello si allontanò alla mia destra, sfilando dietro ai vetri annebbiati, come una torcia lasciata cadere in un pozzo. Poi svanì, inghiottito dalle tenebre. Con gambe ridotte a bastoncini di liquirizia, mi diressi verso la porta che, dopo un’intercapedine, conduceva alla prima carrozza. Ero in apnea da parecchi secondi, ma non riuscivo proprio a riprendere fiato. Ero preda di un attacco di panico. Punti luminosi mi svolazzavano nelle retine. Boccheggiai, esausto, come un pesce rosso nella sua bolla di acqua torbida. Gesù, aiutami… ho pregato. E voi sapete che sono ateo, no? Questo lo dico per farvi capire che ero messo male, non sto scherzando. Pensate che mi stia inventando tutto per scroccarvi un altro bicchiere di questo vino annacquato? Per chi mi avete preso? Va bene. Continuo a raccontare. Vi ho incuriosito, eh? Dunque. Mezzo soffocato, con il cuore che mi batteva nelle orecchie come il tamburino sardo, mi sono accorto di essere vicino a una maniglia del freno d’emergenza. Ce n’è una in ogni vagone. Era una buona idea? Non lo saprò mai. Infatti, quando afferrai la sbarra con la scritta TIRARE IN CASO DI NECESSITA’, uno scintillio catturò la mia attenzione. Paralizzato, sbarrai gli occhi e guardai attraverso gli spessi vetri dei grandi oblò ellittici al centro delle doppie porte che chiudevano l’intercapedine pneumatica a soffietto tra le vetture. Le vibrazioni rendevano l’immagine instabile. Riprendere a respirare, in modo normale, divenne ancora più difficile. Ero quasi sull’orlo scivoloso dell’anossia. Mi sembrò di annegare. Le gambe iniziarono a tremare. Il cuore pulsava. In qualche modo, riuscii a inalare una boccata d’aria gelata. Dietro i vetri qualcosa di metallico luccicò di nuovo. Cos’è?
Preparatevi, perché adesso questa storia diventa più assurda. Ignorando l’istinto di filarmela a gambe levate, premetti il viso sull’oblò e schermai i lati degli occhi con le mani a coppa. Il riflesso delle luci svanì e tutto divenne più chiaro. In fondo alla prima carrozza c’erano il ragazzo e la donna. Nudi e appesi per i piedi alle barre laterali del portabagagli. La donna a destra del corridoio. Il ragazzo a sinistra. Le caviglie di entrambi, scorticate e stillanti sangue, erano serrate in dolorose spirali di filo spinato. I corpi oscillavano, come quarti di manzo sospesi al gancio dal macellaio. I lunghi capelli della donna strisciavano sul pavimento, raccogliendo la polvere. C’erano spruzzi e macchie dappertutto. Come in un mattatoio. I due erano vivi, coscienti, nonostante le ferite. Un metro più in là, quasi a ridosso della porta metallica che divide il macchinista dai eggeri, intravidi un’altra persona. Non riuscii a distinguerne il volto, perché la lampada sopra la sua testa era spenta o rotta. Non era certo una coincidenza. La figura era immersa nella penombra dai gomiti in su. Indossava stivali consunti, jeans, camicia bianca con le maniche arrotolate sugli avambracci… e stringeva una grossa pistola nella destra. La canna era enorme, come quella dell’Ispettore Callaghan. Magnum 44, se non sbaglio. L’altra mano reggeva un bloc-notes, con una biro infilata negli anelli che univano le pagine. Un dettaglio spaventoso. Che però non riesco a comprendere. Era una scena di una crudezza e atrocità mostruosa. Un istante dopo, colsi l’ennesimo movimento guizzante. Impiegai un secondo per capire cosa fosse accaduto Il ragazzo, dondolando sulla sbarra e distendendo il braccio al massimo della lunghezza, la colpì con un falcetto. Doveva essere affilato, perché le aprì un’incisione di dieci centimetri sul fianco. La donna aprì la bocca e urlò. Vidi soltanto la sua bocca spalancarsi. Le doppie porte dell’intercapedine e i vetri mi
isolavano acusticamente. Quando il ragazzo ripiegò il braccio insanguinato, la lama curva del falcetto rifletté la luce e spedì un bagliore metallico nella mia direzione. Nello stesso momento, notai, con orrore e disgusto, che il manico dell’attrezzo gli era stato legato dentro il pugno con altro filo spinato. Era coperto di sangue fresco. Trattenendo un conato di vomito caldo, indeciso sul da farsi, mi spostai per evitare che il tizio con la pistola mi vedesse. Perché fate quella faccia? Cosa avreste fatto voi, al mio posto? Un’eroica irruzione a mani nude contro uno pazzoide armato? Non ci credo. E poi, tenete conto che nemmeno cinque minuti prima stavo tranquillamente russando in compagnia di Valeria e Monica, con l’unico problema di svegliarmi prima dell’arrivo in stazione. Facile criticare, seduti al tavolo di un pulcioso bar. Adesso, non rompetemi le palle e fatemi concludere, okay? Nascosto dietro la porta, spiai all’interno del primo vagone. La canna della pistola, che in precedenza era puntata contro la testa del ragazzo, si mosse verso quella della donna. Lei la fissò con occhi enormi e pieni di terrore. Le sue labbra pallide si mossero. Scosse la testa, in segno di diniego. I capelli pulirono il pavimento. La canna oscillò. Compresi tutto quello che stava succedendo, le parole non erano affatto necessarie. La donna, in lacrime, annuì. Qualche istante più tardi, sollevò il braccio e lo distese. La sua mano, armata con un altro falcetto, staccò un lembo di pelle e carne dal torace glabro del ragazzo. Un fiotto di sangue si riversò a terra. Il ragazzo, penzolante, non reagì alla mutilazione. Era morto? Il tizio con la pistola gli sferrò una ginocchiata sul ventre. Lui riaprì gli occhi, sussultò e sputò un coagulo di sangue. Tossì. Uno spasmo gli percorse il corpo. Vivo. Per quanto? La canna della Magnum si spostò verso la sua fronte livida.
Il ragazzo scrollò il capo, schizzando sangue tutt’intorno. La sua bocca urlò un NO! Il tizio in penombra, irremovibile, pareva immune alla pietà. Alla fine il ragazzo cedette, di nuovo, vinto dal terrore della morte. Allungò la mano armata verso la donna, tremando come la classica foglia. Lei si irrigidì, in attesa del dolore. Presto avrebbe potuto vendicarsi. Era un gioco atroce. Perverso. Non potevo stare a guardare! Decisi di intervenire… Troppo tardi. L’ultimo atto di questa rappresentazione si svolse sotto i miei occhi, a pochi metri di distanza, prima che potessi fare qualsiasi cosa per impedirlo. Non invento nulla. È la verità. Il ragazzo allungò il braccio ma, invece di ferire la donna, si tagliò la gola con un unico movimento, rapido e definitivo. Il tizio con la pistola, privato in modo così disonesto e repentino del suo scellerato atempo, scagliò il bloc-notes contro il cadavere del ragazzo, poi puntò l’arma sulla donna e le scaricò addosso tutti i proiettili del caricatore. Il suo corpo, crivellato, danzò a testa in giù come in una folle tarantella. Senza mai uscire dall’ombra, il tizio girò sui tacchi e aprì la porta della motrice. Dentro c’era buio fitto. Entrò e scomparve. Subito dopo, tutte le luci del treno si spensero all’unisono. A quel punto, credetemi, sono svenuto dalla paura e… No, dai, piantatela! Ve lo giuro, non è una cazzata!
55 – FINALE APERTO
“Quindi?” dico, seccato. “Ti sembra un racconto, questo?” Con occhi umidi e arrossati dal fumo, il vecchio tossisce. “Uno come tanti altri…” commenta, pulendosi la bocca con il fazzoletto. È pieno di umide patacche di muco e saliva. “L’impiegato, prima di uscire dal Bar Sport, seguito dalle sghignazzate canzonatorie degli avventori, raccontò che il suo amico controllore lo trovò accasciato, privo di sensi, davanti alla porta della motrice. Pensò subito a un malore improvviso. Gli rovesciò una bottiglietta d’acqua fredda sulla faccia per farlo rinvenire. Lui si riprese in fretta, stordito, ma lucido. Scoprì di essere l’unico eggero arrivato alla stazione di Carbonia. Tutti gli altri erano sbarcati a Villamassargia, mentre dormiva, per prendere la coincidenza. Frastornato, tornò al suo posto per recuperare la borsa. Nessuna traccia né del ragazzo né della donna. Non una goccia di sangue. Nessun buco nel vetro del finestrino. Niente walkman. Nulla. Il controllore non ricordava neppure di avere obliterato i loro biglietti durante il viaggio e, anzi, sosteneva che lui fosse l’unico eggero a bordo dell’ultima carrozza. Temendo di essere preso per pazzo o peggio, l’impiegato tenne per sé la parte più inverosimile di questa storia. Almeno fino a che non entrò nel Bar Sport, quel torrido mattino di Agosto. È l’unica volta che l’ha raccontata.” Sbalordito, lo fisso negli occhi. “Era tutto un sogno?” “Non lo so.” “Che palle! Odio questo genere di aneddoti.” “Non posso farci nulla.” “Mmmh… Secondo me si è inventato tutto solo per scroccare una bevuta ai nostri compaesani. Non pensi?”
“È una storia troppo cervellotica…” rispose lui. “Conoscevo quell’uomo. Non aveva questa fantasia. Il tipico burocrate.” Sorrido, divertito dalla sua ingenuità, agitandomi sulla sedia scricchiolante e prossima alla rottura. “Non gli crederai, vero?” Il vecchio abbassa lo sguardo e non replica. Si limita a fissare i miei stivali logori, i miei jeans sdruciti e la mia camicia con le maniche arrotolate sugli avambracci. Da una delle due tasche, senza bottoni, spunta il taccuino con la biro nella spirale. Quando seguo il suo sguardo e mi accorgo della convergenza di look, tra me e il fantomatico sadico del treno fantasma, mi viene da ridere. Non riesco a trattenermi. Il vecchio, che non ride da chissà quanto, aspetta in silenzio. Impiego quasi un minuto per calmarmi. Il fuoco si è spento, la brace sbiadisce e la cenere svolazza, investita dai soffi che scendono dal camino. L’atmosfera nella stanza è glaciale. Non è soltanto un’allegoria. La temperatura interna è precipitata come minimo di quindici, venti gradi. Cerco di tornare serio e lancio un’occhiata verso l’ingresso. Durante l’ultimo racconto il maestrale è scemato d’intensità. Dall’esterno non giungono rumori: né artificiali né naturali. Oblio assoluto. “Sembra quasi che là fuori il mondo sia morto, eh?” dichiara il vecchio, rimestando la cenere. “Un cadavere gigantesco.” Lo ignoro, mi alzo e vago per qualche minuto nell’angusto e polveroso spazio che, per decenni, ha custodito la vita del mio ospite. Pochi mobili, antiquati e sbucciati. Come il proprietario. Finita la perlustrazione, riprendo il mio posto sulla seggiola. Di fronte al vecchio e accanto al focolare ormai tiepido. “È quasi l’alba” dico, con voce neutra e viso inespressivo. Consulto l’orologio. “Il tempo a quando ci si diverte.”
Lui tace. L’attizzatoio raspa cenere sui mattoni refrattari. Questi suoi opprimenti silenzi pensierosi mi hanno stancato. Inarco un sopracciglio. “Ti è rimasta solo una storia, vero?” Occhi e bocca del vecchio si aprono di scatto, sbigottiti. “Tu…” biascica. “ Come fai… a… sapere…” “Che il prossimo racconto è l’ultimo? Boh. Lo so e basta.” “Non ci credo. Preparati, sarà un finale tragico.” “Beh…” commento, laconico. “Il lieto fine è fuori moda.” Ancora una volta, il vecchio sta zitto, con il capo chino. “Coraggio…” lo incito. “Togliti questo peso.” Lui si lecca le labbra. “D’accordo. Prima però ho bisogno di bere un po’ d’acqua. Tutto questo parlare e raccontare mi ha asciugato la lingua. Aspetta un minuto, per cortesia.” Subito mi accorgo di avere anche io una sete mostruosa. Da quanto non bevo? Non ricordo. Ho un bel vuoto di memoria. “Riempi un bicchiere anche per me? Grazie…” dico, mentre si alza dalla poltrona scricchiolante e si dirige verso il lavello. Prende due bicchieri puliti dalla mensola, apre uno sportello della dispensa e tira fuori una bottiglia. “Ho solo la frizzante.” “Benissimo!” esclamo, accostandomi alla sedia e girandola verso la sua poltrona, per sedermi al contrario. Appoggio le braccia sulla spalliera. “Hai proprio ragione: parlare disidrata.” “Per dire la verità, sono io quello che ha parlato. Tu hai ascoltato” precisa lui, dandomi le spalle. Stappa la bottiglia con un borbottio, poi fa scorrere il rubinetto e sciacqua i bicchieri dalla cenere che gli sbuffi della canna fumaria hanno depositato ovunque. Il frizzare delle bolle, quando li riempie, mi fa venire più sete. È una di quelle cose che non capisci finché non la provi.
Il vecchio torna verso la sua poltrona prediletta, oscillando e trascinando le suole consunte, con un bicchiere colmo d’acqua in ciascuna mano. Qualche goccia supera il bordo e precipita. Mi porge un bicchiere. Lo ghermisco, come un naufrago rimasto alla deriva per mesi in mezzo all’oceano. Trangugio l’acqua in un momento, assaporandone il retrogusto metallico. L’anidride carbonica che mi punzecchia la gola riarsa. Emetto un mugolio di piacere e soffoco un rutto nel pugno. “Caspita, avevi proprio sete!” dice lui, restando in piedi. “Da morire…” replico, posando il bicchiere vuoto per terra. Il vecchio beve un piccolo sorso, deglutisce e poi annuisce. “Sei pronto per l’epilogo?” domanda. La sua voce è limpida. “Pronto!” ribatto, vispo, sistemandomi meglio sulla sedia. “Lo immaginavo…” dice con una smorfia, come se alcune bollicine di CO2 gli fossero andate di traverso. “In effetti, riflettendoci con il senno di poi, quello che hai visto o sentito finora, attraverso la memoria collettiva di Solus e tramite i miei racconti, è stato un percorso obbligato per arrivare a questo punto. Se c’è uno che può capire il senso di tutto, sei tu.” Fissa i cerchi concentrici nell’acqua del suo bicchiere. Conoscendo il suo tipico modo di fare, aspetto con pazienza. ano trenta secondi. Quaranta. Cinquanta. Un minuto. Poi, di colpo, il vecchio sbotta: “Alza il sedere da quella sedia!” Energico e deciso, svuota il bicchiere dall’acqua residua e lo ripone nel lavello. Stropiccia le mani una sull’altra, producendo un rumore simile a quello della pergamena arrotolata. Infine, raddrizza la schiena e mi lancia uno sguardo smanioso. “Ti racconterò l’ultima storia mentre camminiamo, ok?” “Perché?”
“Devo mostrarti qualcosa…” Sconcertato da quell’improvvisa metamorfosi, ma tutt’altro che dispiaciuto di lasciare quella stanza angusta, fumosa e impolverata, mi alzo dalla sedia cigolante. Nel frattempo, lui si è infilato una giacca di lana sdrucita e un paio di scarponi. “Andiamo?” mi chiede, la mano già chiusa sulla maniglia. È una decisione facile da prendere. “Sì…” rispondo, stringendomi nelle spalle. “Andiamo.” Senza indugiare, il vecchio apre la porta sulle tenebre.
56 – VERSO L’EPILOGO
All’esterno l’aria è immobile, come in un’immensa grotta. Turbato da quell’atmosfera innaturale, discendo gli scalini di cemento ammuffito, davanti alla soglia della casetta. Subito dopo, alzo gli occhi al cielo sulla nostra testa. È completamente nero. Neanche il luccichio di una stella. L’umidità, come una pioggia primaverile, sgocciola dalle grondaie e dalle tettoie. Il vicolo è troppo stretto, pieno di rientranze, incuneato tra le facciate dei caseggiati abbandonati. Un solitario lampione, ritto sul marciapiede, proietta un cono di luce giallognola. “Da questa parte…” dice il vecchio, ignorando il paesaggio, indicando la direzione con un cenno della mano. “È qui dietro.” Lo seguo. Ho la pelle d’oca. “Dove mi stai portando?” “Lo vedrai.” Gli unici rumori sono quelli dei nostri i sull’asfalto. In un certo senso, era meglio quando infuriava il maestrale. Era fastidioso, ma vivo. Quell’indefinibile staticità, al contrario, mi suscita una sgradita impressione di ristagno. Non comprendo per quale associazione di pensieri, però mi ritornano in mente le granulose immagini televisive del relitto del Titanic, silente e sventrato, inabissato nelle profondità dell’oceano. Un monito perenne all’arroganza del genere umano. In qualche modo, mi sento come uno spettro, intrappolato per l’eternità dentro quel colossale sarcofago di ferro e acciaio. “Avvicinati…” borbotta il vecchio, rallentando. “Non mi va di gridare in mezzo a questo silenzio. Mi è rimasta poca voce.” Ubbidisco e adeguo il ritmo delle mie falcate al suo. Lenti come lumache, procediamo al centro della strada.
“Il parroco di Solus, da vent’anni a questa parte, guarda caso il periodo in cui tu sei stato assente, è stato don Antioco” inizia a raccontare lui, voce bassa e testa reclinata, concentrato su dove poggia i piedi. Ha paura di inciampare in una spaccatura e fratturarsi il femore? O ha il terrore di quello che potrebbe scorgere guardandosi intorno? Due belle domande. Probabilmente resteranno senza risposta, rimugino, stizzito. “Un sacerdote di campagna. Abbastanza insignificante, dalla vita tutt’altro che viziosa…” prosegue imperterrito. Il suo corpo è arrugginito, la mente no. “Non era quello che le vedove inconsolabili del posto si aspettavano, dopo la prematura morte del compianto don Peppino. Don Peppino, come ricorderai, era amato da tutti… soprattutto dal gentil sesso. Le sue omelie riempivano i cuori dei fedeli e le cassette delle offerte. Quando ti chiamava figlio mio, probabile che non fosse una metafora.” Quella battuta sconveniente mi strappa un sorriso. “Ricordo don Peppino. Nonna lo venerava. Diceva che le sue funzioni erano un anticipo del paradiso. Mi ha battezzato, comunicato e cresimato. Non sono più entrato in una chiesa.” Lui ridacchia, sornione. “Non credere di essere una rarità.” “Figurati!” ribatto, per niente offeso. “Dai, su. Continua.” “A differenza del suo focoso predecessore, Don Antioco era un uomo introverso, malinconico e poco socievole, al di fuori delle attività religiose. Diciamo pure che era un asociale, cosa piuttosto insolita per un sacerdote cattolico. Nel tempo libero amava leggere e studiare. Non so chi l’avesse messa in giro, o perché, ma correva voce che avesse letto tutti i libri ‘proibiti’ che la Chiesa ha messo all’Indice nel corso dei secoli. Ultima stravaganza: adorava fare lunghe eggiate. Sempre da solo.” “Mi sembra quasi di sentire le maldicenze della gente.” “Infatti. La gente, come il Piave, mormorava.” “Vivere a Solus non è mai stato facile, per gli stranieri.”
“Proprio così. Don Antioco, però, ci era abituato. Era nato in un remoto paesino dell’Ogliastra. Primo di sei fratelli. Il padre era deceduto durante una battuta di caccia grossa. Colpito alla schiena da una doppietta caricata a pallettoni. Incidente o no, la madre si ritrovò vedova a trentacinque anni, con tanti stomaci da saziare e poco cibo in cantina. A quei tempi, come in questi, la povertà dilagava ovunque nell’isola. Come puoi immaginare, non esistevano alternative: prete, pastore, contadino, bandito o emigrante? Scelse la prima possibilità. La più facile, se hai uno zio missionario e tua madre ti riempie la bocca di preghiere.” “Come fai a conoscere questi dettagli?” domando, curioso. “Come ti ho detto, non sei il primo ad avere delle visioni.” “Quindi tu…” “Ascolta senza interrompere! Questo era solo l’antefatto.” “Scusami. Vai pure avanti.” “Grazie per la concessione. Dopo il seminario, presi i voti, don Antioco girò nelle più appartate e miserande parrocchie della Sardegna. A causa della sua eccentrica indole non era ben accetto dalle gerarchie ecclesiastiche e dai fedeli, così veniva trasferito spesso. Pur essendo un prete senza macchia e dalla reputazione limpida (oppure, forse, proprio per questa ragione), non riusciva a integrarsi con le comunità. Il suo amore per la solitudine e l’introspezione venivano scambiate per altezzosità. Era la sua natura, prendere o lasciare. Un bel giorno, in ogni caso, approfittando della tragica e opportuna dipartita di don Peppino, il Vescovo lo esiliò a Solus… Ho detto esiliò, perché quel definitivo trasloco non fu esattamente un Terno al Lotto.” Anche se ne avverto una voglia matta, eseguendo alla lettera le sue istruzioni, non lo interrompo. È una vicenda intrigante. “Per uno come lui, per quanto solitario, Solus equivaleva alla pena capitale. Desolazione e solitudine non sono la stessa cosa. A ogni modo, si adattò alla situazione e fece il possibile per non farsi disapprovare dai tuoi devoti compaesani. Come saprai, in questo paese c’è una chiesa sproporzionata. Nessuno sa bene per quale motivo. Per decenni è stata una specie di cattedrale nel deserto. Negli ultimi tempi, invece, è sempre stata piena zeppa. Come un
centro commerciale il primo giorno dei saldi di fine stagione. Tutto normale. Il sonno della ragione genera mostri e la persistenza della miseria produce la fede. Solus è uno di quei rari luoghi dove le due cose coesistono.” Mentre cammino al suo fianco, ammaliato dal suo talento di affabulatore, non mi devo affatto scervellare per intendere quelle parole. Le facciate deformi degli edifici, che sfilano ai lati della strada, sono fosche e sverniciate. Pezzi di intonaco e calcinacci si accumulano sui cordoli dei marciapiedi. Nessuna luce dietro le finestre. Le automobili parcheggiate, malconce e rugginose utilitarie, hanno un aspetto derelitto: cristalli coperti di polvere, cromature ossidate, pneumatici sgonfiati. Da quanto tempo non vengono usate? Solus è davvero un paese fantasma? Continuando a parlare, il vecchio accelera e svolta a destra. Per non perdere una virgola del suo racconto, lo inseguo. “Forzando la sua naturale inclinazione e costringendo il suo intelletto all’interno di innate convenzioni sociali, don Antioco riuscì a instaurare cordiali rapporti con quasi tutti gli abitanti di Solus. Tranne che con i trogloditi del Bar Sport…” Pennacchi di vapore si formano davanti alle labbra del vecchio, seguendo il ritmo delle sue asserzioni. Con il are del tempo, l’aria intorno a noi diventa più fredda. “In realtà, dopo qualche anno, scoprì che anche quegli alcolizzati non erano sporchi, brutti e cattivi come li dipingeva. A dirla tutta, don Antioco cominciò quasi ad amare questo postaccio…” Il vecchio si ferma, mi afferra un braccio e lo scuote. “Sto divagando un po’ troppo, eh?” “Hai detto di non interromperti” commento. “Giusto! Bisogna ascoltare i vecchi!” dichiara lui sarcastico. Molla la presa e riprende a marciare. “Comunque, riducendola all’osso, don Antioco era un prete insolito, confinato nell’unico luogo al mondo in cui la sua personalità non creava imbarazzo. Chiaro il concetto? Tutto il resto non serve. Inutili e uggiose congetture. Analisi e implicazioni postume delle sue azioni le lascio a filosofi e critici. Racconterò la storia così com’è.” “Fai come ti pare. Non capisco dove vuoi andare a parare.”
“Tranquillo, ragazzo. Siamo quasi giunti al gran finale.” “Era ora…” scherzai. “Questa suspense mi sta uccidendo.” “Davvero? Sai una cosa? Il tuo umorismo mi sconcerta.” “Immagino. Finisci la storia. Cosa ha fatto don Antioco?” “Niente di particolare. All’inizio, almeno... la solita routine. Battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, estreme unzioni e funerali. Più funerali che altro, in verità. L’intero repertorio. Svolgeva puntuale le funzioni, distratto, svogliato, ma con cipiglio solenne e severo. Incassava elemosine e donazioni alla chiesa con ponderata noncuranza, discrezione e umiltà. L’unico adempimento che, per quanto si applicasse, detestava… era il confessionale. Pensaci un po’. Essere costretto a conoscere i segreti e i peccati di un paese come questo… Dover convivere con sciocche meschinità, grettezza morale, vizi degenerati, desideri proibiti, morbosità fantasiose, oscenità inenarrabili. Tutti i giorni dell’anno. Era un supplizio. Da buon confessore, tuttavia, don Antioco non ha mai negato un ego te absolvo. A nessuno. In fondo, chi era lui per giudicare gli altri? Chi è senza peccato scagli la prima pietra, no? Sorvoliamo anche su questo argomento. Torniamo ai suoi atempi. Quelli noti alla popolazione, letture eterodosse e eggiate meditabonde, li ho già menzionati. Ce n’era un altro, nascosto, in apparenza innocuo: l’alchimia. Un oscuro prete di periferia, attratto da occulto e esoterismo, che si diverte con provette e alambicchi!” “Non è certo il primo caso, però…” osservo dubbioso. Il vecchio gira dietro un angolo a L, senza aspettarmi. Quando lo raggiungo, allungando il o per non perderlo, davanti ai miei occhi si apre l’ampio spazio aperto della piazza principale di Solus. I sempreverdi sono ridotti a scheletri. Oltre la via, in fondo all’enorme rettangolo di granito, si staglia la facciata neo-romanica della chiesa. Il campanile svetta contro un firmamento ombroso come l’ardesia bagnata. Al centro, sul suo piedistallo, la statua equestre di San Giorgio che infilza il Drago. Illuminato dai lampioni, il bronzo brilla di condensa. “Mi stai portando in chiesa?” domando innervosito.
L’eco della mia voce riverbera nell’aria immota. “Perché?” replica il vecchio, attraversando la strada. “Hai paura?” L’umidità e il freddo mi irritano la gola. “Paura di cosa?” Lui mi guarda da sopra la spalla e sogghigna. “Allora, vieni?” Esiste un’alternativa? No. “Aspettami!” rispondo a bassa voce, per non sentire l’eco. Attraverso la strada (è la stessa dove l’Uomo Senza Nome ha fatto un massacro) di corsa, lasciandomi il vicolo alle spalle. Alla mia sinistra ci sono i portici, il Municipio e il Mercato. Nell’ombra scorgo le panchine usate dagli studenti pendolari e dai pettegoli professionisti, il cartello sbilenco delle F.M.S., i graffiti sui muri. Dall’altro lato, avvisto l’insegna del Bar Sport, l’edicola. Le saracinesche abbassate e lucchettate. Tutto è così familiare da farmi stare male. Le gambe vacillano. Quante volte ho visto questi luoghi? La differenza è che, in quelle visioni, Solus era ancora vivo. Malato terminale, forse, ma l’encefalogramma non era piatto. Ora l’atmosfera è difficile da spiegare. La stessa diversità che c’è tra la quiete di un pascolo incolto e quella di un cimitero. Incespico sui gradoni che separano la via dalla piazza. “Ti senti male?” s’informa il vecchio, aspettandomi. “Un po’ di vertigine…” “Mi sembra il minimo, dopo tutto quello che hai visto.” “È estraniante trovarsi qui. Realmente, voglio dire.” “Ti capisco. Ci sono ato.” Il lucente granito, sotto le nostre scarpe, è tappezzato da una crosta di brina. Un momento dopo, quando ci dirigiamo verso la gradinata della chiesa, scricchiola
in maniera inquietante. Quel rumore mi ricorda il ghiaccio che copre i laghi d’inverno. “Come mai c’è così freddo?” chiedo, soffiandomi sulle mani per riscaldarle. Il mio abbigliamento è del tutto inadeguato. “La terra si raffredda più in fretta del mare.” “Questo cosa vorrebbe dire?” “Che dovevi leggere meno fumetti e studiare di più.” Rabbrividisco. Adesso capisco perché lui si è imbacuccato in quel cappotto. Poteva anche avvisarmi, quello stronzo. Transitiamo vicino all’inquietante statua di San Giorgio che, d’improvviso, mi si presenta sotto una prospettiva differente. Accoccolate, proprio sulla punta della lancia, ci sono le due solite cornacchie. Mi fissano con i loro piccoli occhi, girando appena la testa sul collo, senza emettere un suono. Guardando a ritroso, certi dettagli acquistano quasi un senso. Non c’è tempo per analizzare quel concetto. Lo farò dopo. A mente fredda. Il vecchio cammina veloce, per uno della sua generazione. Il buio pare averlo ringalluzzito e tonificato. Per me è il contrario. “Muoviti!” mi sprona. È giunto alla base della scalinata. “Arrivo…” ansimo, la lingua asciutta. “Cos’è ’sta fretta?” “Come? Non sei impaziente di arrivare all’epilogo?” Si volta e sale gli scalini con l’agilità di un ragazzino. Impreco. Sono costretto ad accelerare per seguirlo. Lui, mentre s’inerpica come una capra, prosegue il racconto. “Don Antioco era eccentrico. Fin dalla tenera età ha sempre avuto la ione per l’alchimia. Come puoi immaginare, tenne al riparo dagli sguardi indiscreti di
parrocchiani ed ecclesiasti questo suo strano hobby. Così sviluppò i suoi esperimenti da autodidatta, chiuso nella sacrestia, alla luce di una candela…” Il vecchio si ferma sul terrazzino, davanti alle robuste porte di quercia intarsiata della chiesa. Il legno luccica di rugiada. Gira sui tacchi e, sorridendo, mi guarda arrancare. “A questo punto ti starai di certo chiedendo: qual era il suo scopo?” la voce del vecchio è ferma, il respiro normale, come se avesse eggiato in discesa. “Non dirmi che un fanatico di misteri come te non ha sentito parlare di Rennes-leChâteau?” Arrivato sul poggiolo, mi piego in due trafelato, una mano conficcata nella milza. Non credevo di essere così fuori forma. “Tu come fai a sapere che…?” bofonchio con le orecchie che mi fischiano. “Lascia perdere. Sì, conosco quelle leggende. Ma se adesso mi vieni a dire che il Santo Graal è stato nascosto dai Templari proprio a Solus, sotto questa chiesa, io…” Con aria innocente lui protesta: “Ho detto questo?” “Risparmiami. Per oggi ho sentito già troppe cazzate.” “Cazzate?” “Dovrei credere che tutto quello che ho visto nelle visioni è accaduto davvero?” Lo esamino, dalla punta delle scarpe alla corona di capelli, come se lo vedessi per la prima volta. Questo stravagante vecchio ha la faccia del gatto che sta giocando con il topo. Il topo sono io. “Devo accettare come un dogma il fatto che qui, a Solus, un neurochirurgo disadattato ha trapiantato e cresciuto il cervello di un neonato in una macchina semovente? O che un compaesano si nutriva di parti umane in salamoia?” “Nessuno ti costringe ad accettarlo, infatti.” Questa volta, anche se vorrei, sono io a non replicare. Il vecchio, soddisfatto e sornione, riprende il suo racconto.
“Dopo lunghi anni di ricerche infruttuose e sperimentazioni azzardate (anche sugli animali domestici), don Antioco elaborò teorie e opinioni molto diverse da quelle di un prete-scienziato qualsiasi. Era questa l’attività che più lo coinvolgeva. Praticarla in clandestinità rendeva le cose ancora più elettrizzanti. Gran parte delle sue limitate risorse economiche e mentali erano investite in quegli esercizi. Organizzò un piccolo laboratorio. Vi ava quasi tutto il tempo libero. Una notte, dopo miriadi di combinazioni tra le più diverse sostanze, artificiali e non, riuscì a sintetizzare un misterioso principio attivo. La formula cui anelava fin da ragazzo. L’ossessione della sua vita.” La fitta al fianco non accenna a diminuire. “Cioè?” “Un minuto di pazienza. Fammi finire.” “Va bene, ma sbrigati. Sto congelando!” Lui allarga le braccia, amareggiato. “Mi dispiace. Presto ti farò entrare in chiesa, dove potrai riscaldarti… ma prima devi sentire un altro pezzetto della storia. Non ci vorrà molto.” Raddrizzo la testa e annuisco. Non posso mollare. “Qualunque reazione alchemica avesse prodotto, utilizzando chissà quali elementi, don Antioco decise di testarla prima su se stesso. Non è stata una bella pensata, come chiunque può intuire. Dopo aver ingerito quella sostanza, infatti, svenne. Quando si risvegliò, riverso dietro l’altare, era schizzato di sangue. Pochi minuti dopo, apprese che una ragazzina era stata trucidata. Proprio davanti alla chiesa. Le avevano fracassato la testa, sbattendola contro il basamento della statua. Ricorda Lo strano caso del dottor Jekyll, eh? Coincidenza o assonanza?” “Quindi… è stato… lui?” “Probabile. Don Antioco, questo è sicuro, pensava di essere l’assassino. Il rimorso e il senso di colpa lo dilaniarono. Che fare? Recarsi subito in caserma e costituirsi? Non lo fece. Prese tempo per pensare e riflettere. Pensò a tutto quello che si pensa in questi casi. Unendoci il carico di essere un prete… Però, alla fine, l’istinto di conservazione ebbe la meglio sulla coscienza.” “Prevedibile.”
“La realtà è prevedibile, credimi. Molto più della finzione. Cosa supponi abbia fatto, dopo questo infausto test? No, ti sbagli. Non ha smantellato il laboratorio e neanche incenerito la formula. Tutt’altro. L’esperienza non insegna nulla. Testardo e imperterrito, convinto di agire per il meglio, don Antioco decise di testare la sua invenzione su un campione più vasto di individui. Il composto, per ironia della sorte, era assolutamente inodore, insapore e incolore. Ideale per una somministrazione occulta. Produceva il suo effetto anche a bassi dosaggi. Questo lo ha scoperto in seguito. All’inizio è partito da dosi cento volte più grandi. Tanto per non sbagliare.” Comincio a sudare freddo. “Oh, no, no… non dirmi che…” “Sì. La distribuzione avveniva ogni domenica.” Lo sguardo del vecchio è limpido, le sue mani nodose hanno smesso di tremare. “Devo precisare? Beh, è diabolicamente ingegnoso, se ci pensi in modo logico. Versava una gocciolina di quella sostanza su ogni ostia… consacrata. Poco prima della celebrazione, quando i chierichetti non erano ancora in mezzo ai piedi. Il principio attivo, infatti, era parecchio volatile. A contatto con l’ossigeno perdeva in fretta le sue proprietà. In media, a ogni messa, presenziavano un centinaio di persone. Durante l’eucarestia, le inconsapevoli cavie si mettevano in fila, docili come agnelli sacrificali. Il sogno proibito di ogni casa farmaceutica… Don Antioco ripeteva Corpus Christi, loro rispondevano Amen e tornavano al posto. Nello stesso istante, assorbite dal palato molle, le molecole dell’inesplicabile composto iniziavano il viaggio verso l’ipotalamo. Geniale.” “Geniale?” proruppi, indignato. “È un’idea spaventosa!” “Ma pratica.” “Perché l’ha fatto? Cosa sperava di ottenere?” “Suppongo che volesse provare l’efficacia della sua formula su un campione umano, geneticamente omogeneo, ignaro di tutto e quindi non intaccato dall’effetto placebo. Ti stupirà però sapere che cose del genere sono già avvenute in ato. Negli anni Sessanta la CIA testò gli effetti dell’acido lisergico sulla popolazione di un ameno paesino se infettando il pane.” “Davvero? Non ne ho mai sentito parlare.”
“Niente di strano, è roba TOP SECRET. Di certo non ne discutono a Domenica In. Per don Antioco, del resto, quel sistema era ancora più comodo che per la CIA. Raccoglieva i dati in tre modi principali: a) catalogava le cronache sui fatti avvenuti a Solus; b) registrava tutte le confessioni; c) seguiva i pettegolezzi. Per nulla faticoso. Non gli piaceva sudare.” “Bastardo! Per fortuna me ne sono andato via prima!” Il vecchio alza lo sguardo al campanile e si strofina le mani. “È stata solo una coincidenza…” commenta, sibillino. Il suo fiato, condensandosi nell’aria gelida, forma minuscoli cristalli di ghiaccio sulla barba. “Comunque, per tagliar corto, i risultati dei primi test furono per alcuni versi sorprendenti. Per altri sconcertanti. Oltre ogni aspettativa, potrei dire. Qualunque fosse l’obiettivo, senza dubbio in quel periodo, qui a Solus, sono accaduti episodi molto bizzarri e singolari. Tu sai a cosa mi riferisco. Quelle visioni ti hanno aggiornato sulla situazione. Un’ecatombe. Nell’arco di due lustri, la popolazione residente si è ridotta dell’80%. Omicidi, suicidi e morti accidentali sono aumentati del 200%. Le nascite sono scese allo 0,01% e gli aborti saliti al 400 %…” Il freddo pungente mi entra dentro le ossa, irrigidendomi i muscoli. I brividi mi tormentano. Quando parlo, sento la lingua come anchilosata. “Pazzo! Voleva ucciderci tutti? Che razza di ingredienti ha utilizzato per la sua dannata formula?” “Chi può saperlo?” Il vecchio tiene stretto in una mano il bavero del giaccone, con l’altra si accarezza il mento. “Durante le sue escursioni potrebbe avere raccolto un po’ di cenere dalle rovine di Villa Massidda, un’ampolla d’acqua dal Pozzo Sacro, manciate d’argilla di Perdas Fittas. Il suo approdo a Solus è stato davvero accidentale? Il vescovo era all’oscuro di tutto?” “Intendi dire che…” “Questo era un posto strano già prima che lui arrivasse.” “Entriamo in chiesa, adesso?” Scuote la testa. “Aspetta. Ho finito. Sommando la stranezza congenita di Solus alle folli sperimentazioni di don Antioco, non poteva venire fuori niente di
positivo. L’effetto è stato devastante. Nessuno comprava casa nei paraggi e, quelli che potevano, partivano senza voltarsi indietro. Nonostante tutto, comunque, il numero dei fedeli praticanti era cresciuto. La povera gente andava a messa in cerca di speranza e conforto. Il paese era letteralmente impazzito e loro vedevano la chiesa come un faro nella tempesta. Inconsapevoli che quella era, al contrario, l’occhio nero del ciclone. Quale è la spiegazione? La sostanza alchemica, somministrata da don Antioco attraverso le ostie, oltre agli imprevedibili effetti collaterali, come mutazioni a livello genetico, creava anche una forte dipendenza. La chiesa è l’epicentro dell’invisibile piaga che ha distrutto Solus.” Il vecchio smette di raccontare. I suoi occhi brillanti vagano per la grande piazza deserta, incrostata di ghiaccio, alla ricerca di qualcosa. Non trova nulla, a quanto pare. Le rughe sulla sua fronte corrucciata sono profonde come i solchi di un aratro. “È il momento di entrare!” annuncia con voce solenne. Le grandi porte monumentali, ornate da bassorilievi e intagli rappresentanti tragici avvenimenti biblici, non sono sbarrate. Basta una teatrale spinta del vecchio per schiuderle. Dall’interno, insieme a un refolo di aria tiepida, filtra un bagliore pulsante e accogliente che, in qualche modo, mi scalda il cuore. Avverto l’odore di incenso bruciato, fumo di candele e crisantemi apiti. Quella fragranza risveglia mille ricordi. “Accomodati…” Considerato il gelo notturno, non me lo faccio ripetere. È un grosso sbaglio.
57 – APOCALISSE
Dentro, ci sono otto file di panche di legno, scintillanti di riflessi ambrati sotto la luce di migliaia di candele, schierate ai bordi della navata centrale come un muto esercito in parata. Sedute in maniera scomposta, simili a marionette di stracci, centinaia di persone mi voltano le spalle. Sembra quasi che guardino tutti verso l’altare, un voluminoso parallelepipedo di marmo e ottone, sormontato da un toccante crocefisso. Gesù, dall’alto della croce, ricambia lo sguardo fisso dei cadaveri con espressione sofferente e rassegnata. “Oh, no…” bisbiglio, oltreando la soglia e accostandomi all’acquasantiera. D’istinto, infilo l’indice e il medio nell’acqua e faccio il segno della croce. “Non può essere…” Il vecchio mi ha seguito, taciturno, richiudendo il portale. All’improvviso le gambe non mi reggono più, le ginocchia si piegano e stramazzo sul pavimento con un tonfo sonoro. L’acqua benedetta, nel punto esatto in cui mi sono lambito la fronte, sembra bruciare la pelle. In realtà, è l’esatto contrario. Ho la febbre alta. Un crampo mi strazia lo stomaco, facendomi risalire in gola un fiotto acidulo e bollente. Trattengo il primo conato, ma non il secondo. Rigurgito. La vista va e viene, alternandosi con momenti di oscurità. Il pavimento beccheggia e rolla sotto il mio corpo. Un rivolo di bava, striata di sangue, mi cola ai lati della bocca. Il cuore salta nel petto, in un trionfo di extrasistole. “Cosa… fa… male…” farfuglio piangendo, attraversato da un crampo al torace, gli occhi gonfi come palline da ping-pong. Non riesco a continuare. La lingua è bloccata. La sensazione è quella di essere tagliato in due da una sega circolare. Alzo lo sguardo e vedo il vecchio torreggiare sopra di me.
La sua faccia assomiglia alla maschera della tristezza. “In qualche modo doveva finire, prima o poi…” dice serio, guardandomi negli occhi. “Così, don Antioco, quando si è reso conto che la situazione era sfuggita al controllo, ha deciso di porre termine alle sofferenze dei suoi parrocchiani.” Dimenandomi sul pavimento, le mani contratte sull’addome e le gambe ripiegate, ascolto le sue deliranti parole avvolto in una densa nebbia rossa. Ogni frase è come una stilettata. “L’ultima messa è stata la più affollata della storia di Solus. Un successo di persuasione. C’era il paese intero, o almeno, quanto ne restava. Tutti quanti. Vecchi, giovani, bambini. Credenti, agnostici e atei. C’erano pure il barista e gli alcolizzati del Bar Sport. Era dai tempi della loro Cresima che non mettevano piede in questa chiesa. Proprio come te. Paradossalmente, questo li aveva tenuti al sicuro…” Il paradosso non allevia la mia sofferenza. Con estrema cautela, il vecchio si inginocchia al mio fianco, come se volesse aiutarmi. Non fa nulla. Continua il racconto. “E così siamo arrivati all’epilogo, ragazzo. Dopo una lunga, apionata, struggente omelia, don Antioco ha convinto tutti i presenti a prendere l’eucaristia. Nessuno ha rifiutato l’offerta. Da bravi sardi doc, hanno pensato: male non può fare. Dovevi esserci! La fila raggiungeva la porta. Una scena commovente. Tra canti, inni e preghiere, tutti quanti si sono fatti mettere in bocca l’ostia avvelenata. Lo stesso veleno che c’era nell’acqua che hai bevuto. E nell’acquasantiera in cui hai immerso le dita. Una variante letale della misteriosa formula alchemica.” Contorto come un verme sull’amo, urlo di rabbia e dolore. “Non devi combatterlo…” sussurra lui. “Il dolore purifica.” Adesso gli attimi di oblio sono un balsamo misericordioso. “Per completare l’opera, don Antioco è poi andato, casa per casa, a portare la comunione agli infermi. Dopo la morte dei suoi abitanti, Dio li accolga nella sua gloria, Solus era pieno di quiete e serenità… finché non ti ho trovato steso a
gambe larghe in mezzo alla strada… ” Smette di parlare e infila una mano in tasca. Ne estrae la mia lettera e la sventola proprio sotto il naso. “Non so chi o cosa l’abbia scritta, ma è un particolare che non mi preoccupa.” Sorride, poi allunga l’altra mano e prende il bloc-notes che ho nella tasca della camicia. Cerco di fermarlo. Non ci riesco. Sfoglia le pagine, intrigato, senza degnarmi di uno sguardo. Quando arriva alla fine, mi dice: “Interessante. Vuoi che ti legga l’ultima riga? Sì? No? È un po’ come leggere il futuro prossimo, credimi. Comunque sia, prima di lasciarci, lo sapevi che Apocalisse non significa distruzione ma Rivelazione?” La sua voce sembra sgorgare da un abisso infuocato. Soddisfatto, intasca lettera e bloc-notes. “Tengo tutto io.” Non sono più in grado di connettere. I pensieri mi sfuggono. “Smettila di resistere. Tanto è inutile. Lasciati andare.” Il vecchio sorride, benevolo, insensibile alla mia sofferenza. Tuttavia, non c’è traccia di sadismo nella sua espressione. Come attraverso un vetro sporco o uno strato d’acqua, lo vedo alzare la mano destra e tracciare nell’aria il segno della croce. Durante quel gesto, il bavero del giaccone sdrucito si allenta e scorgo il baluginio di un collare candido sotto il maglione. “Mi è piaciuta molto quella cosa che hai detto, sai, quando ci siamo incontrati. La metafora del salmone. È giusta. Perché quei pesci tornano nel fiume dove sono nati per crepare.” Quel vecchio bastardo mi ha ingannato per tutto il tempo… È lui don Antioco! “Non guardarmi così. Berrò anche io il mio veleno.”
Estrae una fiala dalla tasca interna, la stappa e si unge d’olio il polpastrello dell’indice. Subito dopo mi segna la fronte, nello stesso punto dove, pochi minuti prima, mi sono inumidito con l’acqua santa. I suoi occhi sono cavità buie. Cambiando tono, con la tipica voce da parroco annoiato, mi impartisce l’estrema unzione. “Per istam sanctam unctionem, indulgeat tibi Dominus, quidquid deliquisti…” Una pausa. Poi un gesto che non mi aspettavo. Come se fossi già morto, mi chiude gli occhi con dita gelide. Nel buio, straziato da spasmi terribili, sento: “Amen.” Non riesco a respirare, i polmoni sono paralizzati. Capisco di avere a disposizione pochi secondi di lucidità. Nello stesso istante, mentre una misericordiosa sensazione di estraniamento m’invade il cervello, mi rendo conto con stupore di non essere così terrorizzato dalla morte imminente. È un sollievo. Chi muore tace e chi resta si dà pace. Era una delle più banali e profonde frasi fatte di mia nonna. Ed è anche il mio penultimo pensiero coerente. Come ho detto quasi all’inizio di questa incredibile storia… Solus non è un bel posto dove nascere, vivere e morire.
“Una grande storia vive per sempre (…), essa continua a raccontarsi letteralmente da sola.” John Truby
NECROLOGIO
Eccomi arrivato alla conclusione di un Ciclo di Racconti iniziato più di venti anni fa, senza avere una minima idea della sua natura. È stato tutto abbastanza casuale, fin dal principio. Ho creato il fantomatico paese di Solus, spinto dal desiderio di inserire le mie storie in un luogo preciso, definito e tuttavia inesistente. Il resto è venuto da sé, una parola dopo l’altra. La scrittura è stata irregolare. C’era un filo rosso nascosto che univa tutte le diverse e bizzarre storie di Solus, ma questo l’ho scoperto soltanto di recente. Per finire, vorrei puntualizzare che neppure uno dei racconti di questo “Ciclo” ha mai avuto pretese letterarie né mai le avrà. Sono “storielline”, più o meno coerenti, talvolta enigmatiche. Dopotutto, il mio scopo iniziale non era certo quello di narrare una storia a episodi. Semplicemente, avevo cose da dire e le ho dette. La domanda era: Hai voglia di scrivere questi racconti? La risposta è nelle pagine che avete letto. Ora è tutto finito. Niente rimpianti. Niente rimorsi. Chi verserà lacrime per la tragica scomparsa di Solus? Nessuno.
RINGRAZIAMENTI
Scrivere un romanzo di queste dimensioni e complessità non è semplice. Per la sua stesura definitiva sono state necessarie parecchie letture e revisioni. Non ho fatto tutto da solo. Per prima, vorrei ringraziare Antonella, che si è sobbarcata il compito di trascrivere sul PC buona parte dei racconti, quasi tutti scarabocchiati su blocknotes e pagine volanti, con una grafia illeggibile. Sua è stata anche la scrematura iniziale del testo e l’idea di inserire la transizione tra una visione e l’altra. Con l’inizio della mia carriera di autore, ho avuto la fortuna di incontrare e poter chiamare amici alcuni colleghi scrittori, ma anche lettori entusiasti, che mi hanno aiutato e incoraggiato a portare a termine questa impresa. Il loro prezioso contributo ha reso migliore e più leggibile C’era una volta in Sardegna. Un “grazie” sentito, quindi, ad Andrea Leonelli, Alessandro Cirillo e Giuliana Catarzi. Un plauso speciale va a Irma Panova Maino, per il puntiglioso lavoro di editing sulla stesura finale. Grazie a Stefano Puddu per la copertina e, per finire, un ringraziamento a Piera Rossotti, editore della EEE-book.
MAKING-OFF
Benvenuti - 5 maggio 2003
Questo breve capitolo introduttivo, nella sua forma iniziale, in origine (molti, molti anni prima del 2003) era una traccia per la location di una raccolta di racconti dell’orrore ancora da scrivere e ambientati in un immaginario paesino del Sulcis. Naturalmente, l’influenza kinghiana è notevole… L’idea era quella di creare qualcosa di simile alla Derry del romanzo IT (il mio preferito, 1200 pagine e a, lette in due giorni e mezzo, notte e giorno senza quasi interruzioni) in versione sarda. A partire dalla traccia, ho sviluppato tutto quello che avete letto nelle pagine precedenti. Moltissimi dettagli, però, sono rimasti chiusi nella mia fantasia. Direi un buon 50%.
Ritorno al ato - 20 agosto 1993
Nella primissima bozza, questo era un raccontino nostalgico senza capo né coda, scritto in uno stile alla Ernest Hemingway, altero e pleonastico, intitolato Foglie d’Autunno. A quei tempi, infatti, mi ero intrippato con il suddetto autore, divorandone quasi l’opera omnia. E.H. non mi è mai piaciuto, lo ammetto (a costo di attirarmi gli strali dei suoi ammiratori), ma per poter criticare bisogna conoscere. In ogni caso, quel brano (affinato) mi è tornato utile per questo libro. Non si butta mai via nulla!
Flashback - 13 gennaio 2004
Pensato e scritto nella tranquilla solitudine delle campagne sarde, quando lavoravo in una piccola azienda agricola, questo capitolo è germinato da un’idea improvvisa. Il “problema narrativo” su cui rimuginavo, mentre conducevo le pecorelle al pascolo, era questo: come posso collegare coerentemente tutti i racconti che ho scritto su Solus in un unico romanzo? La soluzione non è forse delle più brillanti, però mi ha rallegrato più di un pomeriggio uggioso. È stato divertente scriverlo.
Il Cartello - 12 novembre 1993
Uno dei miei primi racconti “ambientati” a Solus. Scritto a mano su fogli protocollo, per rilassare il cervello stanco mentre preparavo l’esame propedeutico di Fisica. Mi piace l’atmosfera noir di questa storia, intima e malsana allo stesso tempo. Il tizio mutilato, appeso al cartello, come spesso accade, deriva da un sogno che ho fatto proprio in quel periodo. Non l’ho chiamato incubo perché sarebbe errato… adoro questo genere! Ah, dimenticavo, poi quell’esame l’ho ato con un bel 21. Considerando che puntavo al 18, è un risultato più che buono.
Medium - 1 marzo 2004
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che è stato complicato trovare il modo per introdurre, con gradualità, il lettore a un brusco cambio di registro. La difficoltà maggiore, in pratica, è stata quella di dire tutto senza dire nulla, usando il minor numero di parole possibile. Ci sarò riuscito?
Polvere – 28 agosto1994
Uno dei miei racconti preferiti (tra quelli che ho scritto), con una protagonista piacevolmente “deviata” e una scena finale che mi è sempre sembrata molto triste. L’idea, non so come, mi è venuta dopo la lettura di Dolores Claiborne (King, in qualche modo, ritorna spesso in questo libro). Ricordo che, in una scena di quel romanzo, venivano descritti riccioli di polvere che rotolavano sul pavimento. Associai la cosa a un fatto che mi ha sempre lasciato perplesso: come mai, per quanto uno possa pulire, subito dopo spunta fuori di nuovo qualcuno di quei fastidiosi riccioli di polvere? Soprattutto nell’ombra sotto i letti. Da questa idea è germogliata tutta la trama.
Memorie - 25 novembre 2005
Capitolo di raccordo, in cui ho cercato di incorporare varie idee, derivate dalla mia ione per gli X-Files e i misteri di tutto il mondo. Il tono drammatico è volutamente un po’ sopra le righe. Visto che da questo punto i racconti proseguono senza soluzione di continuità, ho dovuto per forza di cose anticipare qualche collegamento. Era indispensabile, inoltre, introdurre il tema della dipendenza del protagonista, in previsione del gran finale, anche se (a quei tempi) non era stato ancora progettato.
Risvegli - 2 aprile 1995
Al principio, questo breve racconto non era nient’altro che il tentativo di creare un’atmosfera. Le prime incerte pennellate di un quadro più grande, dove collocare in seguito tutte quante le altre storie del romanzo. Potrei definirlo, usando una metafora televisiva, la prova colore. Solus, pian piano, prendeva forma. Fin dall’inizio, comunque, non era un bel posto.
Una Macchia a Forma di X - 21 aprile 1994
Questo è uno di quei particolari racconti che nascono e si sviluppano senza avere un’idea precisa. Quando ho cominciato a scriverlo, volevo raccontare una storia del tutto diversa, di certo non avevo l’intento di parlare di “gatti assassini”. Poi, per qualche ragione, dopo aver tratteggiato in modo sommario i due giovani protagonisti, la trama ha cominciato a seguire una direzione del tutto imprevista. Credetemi, non sapevo come sarebbe andata a finire, finché non è finita. È questo il bello.
Silenzio - 28 settembre 1993
Uno dei pochissimi racconti non-horror che ho scritto. Oltre a inserire il personaggio di Lilly (ripreso in Prigione di Tenebra), mi è servito per allentare un po’ la tensione e sviluppare ancora la “leggenda” di Solus. È una storia triste, forse inutile ai fini della trama, ma ha un’atmosfera che mi piace. A un occhio attento, poi, potrebbe anche non sfuggire che in realtà è questo il racconto più doloroso e reale di tutti. Non starò qui a spiegare per quale motivo.
Roby - 31 agosto 1993
Ecco un altro dei miei racconti preferiti. Senza addentrarmi in discorsi “politically correct” o giustificare questa o quella scelta narrativa, voglio chiarire che questa storia è soltanto una storia. Parla di molte più cose di quante sembri. Detto questo, Roby, tra tutti gli strani personaggi che ho creato nella mia mente, è quello che mi sta più simpatico… Come fai a non volergli bene? Non posso dire lo stesso della madre, purtroppo.
Dietro la Porta - 8 gennaio 1995
Quando ho scoperto i “Libri di Sangue” di Clive Barker (una eccezionale raccolta di racconti dell’orrore), sono stato abbagliato dallo stile di questo insolito scrittore inglese. Inutile specificare che ho letto quei sei libri con voluttuosa ingordigia (da queste parole, chi conosce queste opere, capirà subito che ne ho anche apprezzato la prosa, spesso ampollosa e raffinata). Barker è uno scrittore meno “popolare” di King (in tutte le accezioni del termine), in certi suoi romanzi persino elitario, ma con la stessa predisposizione a scrivere fiumi inarrestabili di parole. “Dietro la Porta” risente di quell’influsso, visto che è stata ideata e messa nero su bianco nello stesso periodo in cui mi nutrivo ancora di pane, burro, marmellata e “Supplizianti”.
Ultimo Spettacolo - 11 luglio 1995
Alzi la mano chi ha detto: Carrie senza poteri paranormali?
La Crepa - 11 agosto 1994
Mi piacciono molto i racconti che parlano di realtà parallele, oggetti misteriosi, eventi inspiegabili e interruzioni repentine del continuum spazio-temporale (il mio romanzo, L’Alba del Sacrificio, collegato a questo, ne è un’ulteriore dimostrazione). Nel 1994, questo raccontino non fu apprezzato dai miei pochi lettori. La domanda più frequente era: cosa vuol dire? Al che, io replicavo: la risposta è nella crepa. Credeteci. È così. Certe volte, un bel mistero è meglio di una brutta verità.
Autostop - 20 ottobre 1991
Uno dei primissimi racconti horror-noir che ho scritto, dopo aver definitivamente detto addio ai miei sogni di diventare uno scrittore di fantascienza. Da ragazzino ho letto con gusto tutti i libri di Isaac Asimov e memorizzato ogni puntata di Star Trek (l’originale). Uscito dalle Elementari, conoscevo a memoria tutte le “Leggi della Robotica” (meglio dei Comandamenti) e le profezie di Hari Seldon sulla Fondazione. Durante le Scuole Medie, Philip K. Dick e Arthur C. Clarke erano diventati i miei autori preferiti, piazzandosi di diritto in cima alla classifica (con Verne, Wells, Salgari, Calvino, Poe, Lovecraft, Dumas, Stevenson, Defoe, London, Matheson e Bradbury). Al Liceo, poi, ho scoperto Ken Follett e, infine, King. Da quel momento, complice anche la contemporanea messa in onda della serie televisiva “Twin Peaks” (a cui Solus deve tanto), la mia ispirazione narrativa è radicalmente cambiata. Basta con le immense astronavi interstellari, remoti pianeti alieni, utopie futuristiche e mutazioni biogenetiche. È successo di colpo. Una mattina, mi sono svegliato (proprio come nella canzoncina dei partigiani) e ho detto “ciao” alla collezione di Urania. Quello stesso pomeriggio ho scritto la prima parte di “Autostop”. Il sogno che ha ispirato questo racconto era ancora vivo nella mia mente. Il protagonista, non più. Aggiungerci le mie esperienze da studente di paese pendolare è stato il o successivo.
L’appuntamento - 16 novembre 1993
Una storiella facile, partorita in un pomeriggio ozioso, dopo l’incredula lettura di un articolo che raccontava di un analogo episodio paranormale, avvenuto chissà dove negli U.S.A.
Il Secondo Tempo - 5/29 maggio 1996
Questo racconto è nato, durante i bei tempi dell’università, da un’improvvisa “sfida” letteraria tra me e un mio amico (nome in codice: Wataru). Non ricordo tutti i dettagli, ma ricordo che lui scrisse un racconto dove un minuscolo ragnetto, ando dal naso, deponeva le uova dentro il cervello di un tizio… Ad ogni modo, io, in risposta, scrissi “Seconda Visione”.
Nato Morto - 8 dicembre 1993
Come si può notare, il 1993 è stato un anno pieno zeppo di idee balzane, e parzialmente sviluppate su un piccolo bloc-notes (déjà-vu?), in aspettativa di una futura utilizzazione. Questa, in particolare, era una delle più gettonate. Da notare che, proprio in quel periodo, preparavo l’esame di “Anatomia Umana”. Osservando il cervello di un neonato, conservato in un contenitore di vetro, pieno fino all’orlo di formaldeide (e associando la cosa a un vecchio cartone animato, dove c’era il cervello parlante di un luminare dentro un congegno a cupola volante… come si chiamava?), mi sono domandato: e se… poi, come al solito, il resto della vicenda è arrivato da sé. L’unico dubbio era l’ambientazione sarda. Non mi sembrava credibile, ma ci sono ato sopra. Certe cose, per essere accettate dal lettore, devono per forza “succedere” in America? Non credo.
Prigione di Tenebra -1/14 ottobre 2000
Quello che, nelle mie intenzioni, doveva essere un romanzo vampiresco (in tempi non sospetti: la mania di Twilight era lontana), alla fine della prima bozza si era trasformato in un racconto lungo (almeno per i miei standard) con poco sangue e molto buio. L’idea del “tizio” nascosto nel sedile posteriore è già stata sfruttata, lo so, ma perché privarsene? Mi piaceva, inoltre, il ritorno del personaggio di Lilly, la bella cercatrice di lumache, che avevamo lasciato pedalare dietro l’angolo…
La Cosa Brutta - 2 agosto 1993
Prima ancora che i soliti saputelli, seduti nei banchi davanti, alzino la manina in cerca di attenzione, devo subito ammettere che, sì, questo racconto mi è stato “ispirato” da un bel fumetto di Dylan Dog (che leggo fin dal primo numero). E allora, dico io? Quanti di quei fumetti sono ispirati ad altre opere? Tutti quanti. L’imitazione è la più autentica forma di ammirazione.
Senza Titolo - 24 dicembre 1992
Un racconto, questo, scritto in gran parte (vedi data) durante il Natale del ’92. Ancora un’ambientazione studentesca, ancora un diario. Ripetizioni? No. In realtà, già in quel periodo avevo in progetto di raccogliere tutti i racconti del “Ciclo di Solus” in una singola grande storia. L’idea prevedeva il ritrovamento di questi quaderni (o lettere) da parte del protagonista. In seguito (come detto in una nota precedente) ho architettato l’idea del contatto medianico e, come ovvio, tutti questi memoriali sono diventati un po’ sospetti agli occhi di un lettore smaliziato.
Il Pacco- 21 giugno 1993
A parte gli echi letterari di Alice nel Paese della Meraviglie, questo racconto è stato scarabocchiato in un pomeriggio, per divertimento, e come tale deve essere valutato dal mio lettore. Mi piaceva soprattutto sviluppare l’idea della videocassetta con la scritta GUARDAMI. Il finale è stato modificato in revisione, perché quello originale era un tantino ingenuo e infantile.
Sangue - 13 luglio 1993
Un altro racconto estremo, tanto per non perdere l’abitudine. Mi piace inserire elementi splatter nelle mie opere, soprattutto quando ho delle “immagini” sanguinarie in testa che non riesco a usare in altro modo. Inoltre, mi divertiva l’idea di un sadico torturatore che si esprimeva con una forte inflessione sulcitana.
La Medicina - 22 luglio 1993
Una mattina, nella pausa caffè, il solito Wataru mi parlò di un sogno che aveva fatto la notte prima. Il colpo di scena finale era la parte migliore della storia, anche se nella realtà non ci sono state vittime. Rielaborato dalla mia fantasia perversa, quel sogno è diventato il racconto di un bambino malato, della zia e di un’efficace medicina. La cura più antica del mondo.
Lettere a Lisa - 20 luglio 1993
Non ricordo come sia nata l’idea alla base di questa storia, ma in fondo non importa. Era la scusa per dare ancora qualche pennellata all’immagine di Solus nella fantasia del lettore.
Quieto Vivere - 16 dicembre 1992
Un racconto che non mi è piaciuto scrivere. Non so perché. Non trovavo le parole, il tono… l’atmosfera. Eppure chiedeva di essere scritto. In questi casi è sempre bene assecondare la “voce interiore”. Via il dente, via il dolore.
Gioia - 28 gennaio 2001
Questo racconto (nella versione originale) nasce dalla sfida allo scrittore lanciata da King nel suo saggio “On Writing”. Per chi non sapesse di cosa si tratta, riassumo in poche parole. Alla fine del libro, King buttava giù uno spunto sulla base del quale scrivere un racconto, usando i consigli da lui dispensati. Come si può osservare, io ho seguito le indicazioni fino a un certo punto. Ah… L’equazione finale non è stata ancora dimostrata.
Notturno Sulcitano - 16 settembre 1993
Elaborato durante una delle mie notti insonni, questo testo si è poi rivelato (nel 2013) perfetto per concludere, degnamente, la serie di racconti/visioni del protagonista di questo romanzo.
Ritorno al Presente - 17 aprile 2013
In questo punto del romanzo mi serviva un efficace capitolo di transizione, un ritorno al presente, senza esagerare con le spiegazioni o le informazioni. Penso (forse) di esserci riuscito, dopo tanti ripensamenti, scegliendo uno stile cinematografico alla “Ai Confini della Realtà”. Considero i lettori molto più intelligenti e disposti ad adattarsi di quanto si creda. Non c’è bisogno di accumulare parole per descrivere una situazione. La fantasia riempie i vuoti meglio di qualsiasi artificio letterario.
Ultime Storie - giugno 1995-aprile 2013
Elaborato nel 1995 e perfezionato nel 2013, questo capitolo si ricollegava al prologo di un mio romanzo ancora incompiuto Quando l’ho immaginato, non avevo nessuna idea di chi fosse il vecchio e quali fossero le sue intenzioni. La sua strana storia si è sviluppata dopo. Ancora una volta, più del racconto in sé, mi interessava sviluppare un’atmosfera. La casupola, il fuoco scoppiettante, la stanza piena di fumo, il sibilo del vento sopra il tetto di tegole. Era l’ambiente in cui, molto spesso, durante l’infanzia, mio nonno materno si installava accanto al camino fuligginoso e, mentre rovistava le braci con un attizzatoio, mi raccontava le sue storielle completamente (o quasi) inventate. Ricordo ancora il suo sorrisetto soddisfatto, quando capiva di avermi sorpreso con un colpo di scena. Non so se, in qualche modo, ho “ereditato” da lui le mie capacità narrative… di certo, quei racconti orali davanti al camino hanno incoraggiato la mia creatività. E quel lieve sorrisetto soddisfatto è identico al mio, quando invento un finale inaspettato che stupirà i miei lettori.
L’Uomo Senza Nome - giugno 1995
Il titolo, ovviamente, è il modesto omaggio a uno dei miei idoli… Sergio Leone. I suoi film mi hanno aperto la fantasia e il cuore, in modi diversissimi, dopo ogni visione e ad ogni età. Non riuscirò mai a descrivere l’influenza che questo regista ha avuto sulla mia attività letteraria (se così vogliamo definirla), quindi non ci proverò. Adoro il suo talento di rendere epica, e carica di sottintesi, qualsiasi scena, anche quella di un Noodles che rigira con insistenza il cucchiaino in una tazzina di caffè. In ogni inquadratura, si può percepire la ione per il cinema e la gioia di fare il lavoro dei propri sogni. Al di là delle mie contestabili capacità, spero che la stessa sensazione traspaia dalla lettura delle mie opere. Io ci provo.
Strani Pensieri - giugno 1995-aprile 2013
Per questo racconto vale quello che ho scritto nella nota a Le Ultime Storie. Posso soltanto aggiungere una considerazione. Per quanto sembri assurdo ai non-lettori, i racconti e le storie causano davvero una forma di assuefazione e dipendenza.
Ultimo Saluto luglio 1995
Non sono un apionato del fantasy. Non riesco a scrivere in quel modo. Tuttavia, inserite in un contesto diverso, certe idee hanno creato un racconto che solletica l’immaginazione.
Doppio Gioco - aprile 2013
Niente da dire, a parte che in questo capitolo ho iniziato a intravedere il finale. Era un’idea quasi irraggiungibile, come quel problematico prurito che ti viene sempre nel mezzo delle scapole… ma era proprio lì, pronta per essere afferrata e scagliata con forza sulle pagine. È stata una piacevole tortura.
Capolinea - agosto 1996
Durante gli anni ’90, quando ero uno studente squattrinato, fuorisede e fuoricorso (ogni somiglianza con il Lorenzo Carta di La vendetta è un gusto non è casuale), viaggiavo spesso in treno, nella storica tratta Cagliari-Carbonia. Negli anni ’70 i binari arrivavano fino a San Giovanni Suergiu e oltre, poi la crisi (tra parentesi, ricordate un solo momento della vostra vita in cui non si spiegasse ogni misfatto con la scusa della crisi) ha ridotto l’estensione della rete ferroviaria in Sardegna.
Detto questo, una notte, mi trovai su un convoglio fermo in mezzo alla nebbiosa campagna tra Siliqua e Villamassargia. Ero così assorto nella mia lettura atempo, che me ne resi conto in ritardo. Capotreno e controllore? Scomparsi. Nessuna spiegazione dall’interfono. Nessun altro eggero. Tutti i vagoni erano silenziosi e vuoti. Era una scena irreale, degna dei Langolieri del solito King. Non so come, ma in pochi attimi ho immaginato e memorizzato tutto il racconto nella mia testa. Quindici minuti dopo, il treno è ripartito. Resterà uno dei misteri delle Ferrovie Meridionali Sarde.
Finale Aperto giugno 1997- aprile 2013
Come detto in precedenza, la ricerca di un finale a sorpresa appagante e appropriato, a una storia a capitoli di questo tipo, non era facile. Ci sono arrivato per gradi, un o dopo l’altro, sull’abbrivio di influenze diverse e diversi tentativi sgradevoli. “Finale Aperto” riflette la mia indecisione. Da questo punto in poi, in questo lungo racconto, poteva succedere qualsiasi cosa.
Verso l’Epilogo - giugno 1998/aprile 2013
Scelta una strada, bisogna percorrerla fino in fondo, così si dice. Nel mio caso, una volta decisa la “svolta” conclusiva, non restava che far uscire i miei due ultimi personaggi dalla fumosa casupola e percorrere gli ultimi cento metri di questa storia. Ammetto di avere voluto sviare il lettore con falsi indizi. Del resto, anche un altro dei miei “maestri” spirituali, Hitchcock, l’ha fatto in almeno uno dei suoi film. Non c’è nulla di male. Ricordate che il fine ultimo dell’autore è intrattenere.
Apocalisse - settembre 1998/aprile 2013
“Apocalisse non significa distruzione, ma Rivelazione”. Così dice, nell’epilogo, il personaggio superstite (non scrivo qui il nome, perché ci sono dei lettori – sono uno di quelli – che sbirciano le note conclusive dei libri, prima di aver letto tutto. Non voglio rovinare il colpo di scena finale, che tanta spremuta di meningi mi è costato. La rivelazione, mentre scribacchiavo l’epilogo di C’era una volta in Sardegna, è arrivata inaspettata. L’idea (che non espongo qui per la stessa ragione) era in realtà piuttosto datata. Risale all’epoca della Prima Comunione. Non chiedetemi perché ho pensato proprio a questa cosa. Ma ho serbato, con perversa soddisfazione, quell’intuizione dentro la mia testa per tutti questi anni, in paziente attesa del momento giusto per tirarla fuori… Il momento, alla fine, è arrivato. D’ora in poi, probabilmente, ogni volta che andrete a messa e vi metterete in fila davanti all’altare maggiore, ripenserete, con un brivido, a questo racconto. In ogni caso, parafrasando il bellissimo finale di uno dei miei film western preferiti, Il mio Nome è Nessuno (prodotto, non a caso, da Leone), accertatevi che dietro la mano che vi porge l’ostia ci sia la faccia giusta…
BONUS TRACKS
ESCLUSIVA PER L’EDIZIONE EPUB
LA VERITÀ
Sciamando all’interno della nuova “Aula di Informatica”, i venti alunni della terza B iniziarono a prendere posto davanti agli schermi grigi degli Olivetti. Come sempre, l’operazione si svolse disordinatamente. In parole povere: un gran casino. Era la quinta ora e, comprensibile, tutti erano un po’ scoppiati. Paolo Manca, uno dei più casinisti, entrò nell’aula facendosi rimbalzare nella mano destra un palla da volleyball consunta. “Ragazzi!” gridò, sorridendo. “Facciamo due palleggi?” Qualcuno rispose: “Qui dentro?” “Perché no?” ribattè lui, spavaldo. “Perché se rompi qualcosa ci mettono una nota sul registro.” “Ti pareva che ‘la ritardata’ non intervenisse?” commentò Paolo, voltandosi verso la ragazza che aveva parlato. “Fatti i cazzi tuoi qualche volta, eh, Simona? Sai cosa significa?” Lei arrossì e abbassò lo sguardo sul pavimento. “Ecco, brava, stai zitta...” la rimbeccò. Poi girò lo sguardo sui compagni. “Allora, chi ci sta?” Nessuno rispose. Sembravano tutti molto attratti da qualcosa che avveniva oltre le finestre polverose. Lì fuori, la fascia di eucalipti frusciava sotto il maestrale. Il grigio serbatoio della torre idrica spuntava appena oltre le alte chiome ondeggianti. “Tonio?” domandò Paolo, rivolto a un tipo basso, tarchiato, con i capelli scuri tagliati cortissimi. “Sei con me, vero?”
“Manco per idea!” sbottò Antonio “Tonio” Boccu, con il suo vocione da pastorello, scrollando le spalle. “Ho già un due!” “Ma dai! Guarda che ci divertiamo!” “Non si divertirà mia mamma ai colloqui...” osservò lui. “Siete tutti conigli!” affermò Paolo, ironico, per indurre una reazione d’orgoglio nei compagni maschi. Spesso funzionava. Nessuno cascò nel tranello. “Va bene. Classe di merda. Tanto scherzavo! Non si può più scherzare, adesso?” borbottò, cercando di non perdere la faccia. “Zitti! Zitti! Arriva il professore!” Rumore di i nel corridoio. Tutti si affrettarono a farsi trovare dal prof seduti composti, da bravi scolari. Stavolta tutto avvenne in religioso silenzio. Tutto inutile. L’uomo che sbucò sulla soglia non era il prof, ma il bidello. “Il professor Maxia non c’è!” annunciò, infilandosi le mani nelle tasche sformate del camice. “È malato. Influenza.” Il resto della frase venne sommerso dall’ovazione di gioia, fischi e applausi, che tutta la classe tributò alla buona notizia. “Possiamo andarcene?” chiese Giacomo, rivolto al bidello. Lui scosse il capo. “No. Uscirete alla solita ora.” “Che palle. Possiamo giocare a pallavolo nel campetto?” lo incalzò Paolo, esibendo la sua migliore faccia innocente. “Sì?” Il bidello ci pensò su, poi rispose: “Va bene, ma attenti alle finestre! Non fate chiasso, le altre classi hanno lezione!”
“Tranquo!” lo rassicurò Paolo, alzandosi. “Andiamo. E voi ragazze che fate? Venite giù con noi? Facciamo squadre miste.” Quasi tutte le ragazze accettarono, era una buona occasione per spettegolare. Paolo era un idiota... ma un idiota carino. In pochi minuti, l’aula di informatica si svuotò. Seduta al suo posto restò soltanto Simona. “La ritardata”. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. “Resti?” le chiese il bidello. Provava una certa comione per quella ragazza. Sapeva che era lo zimbello della classe e forse anche dell’intero paese. Essere l’unica figlia del custode del cimitero (un vedovo semialcolizzato) e avere un cervello un po’ più lento della media non era il massimo. Anche in un posto come Solus. “Non vai fuori a giocare con i tuoi amici?” Simona gli rivolse uno sguardo triste. “Non ho amici.” “Cosa fai qui, tutta sola, allora?” “Voglio provare il computer...” disse mesta. “Posso?” “Quello nuovo?” “Sì.” Il bidello annuì e se ne andò. Rimasta sola, Simona cominciò a piangere. Non è giusto! Perché mi trattano così? Cosa gli ho fatto? Non aveva mai fatto niente di male a nessuno e lo sapeva. Sapeva anche che i suoi compagni se la prendevano con lei perché dovevano comunque prendersela con qualcuno. L’unica sua colpa era essere quel qualcuno. Se non sei il carnefice, sei la vittima. E siccome non aveva un carattere abbastanza forte per fare il carnefice... Due più due faceva sempre quattro. Perché mi fanno stare così? Perché mi fanno piangere?
Ora basta, smettila! Non dargli soddisfazione! Con rabbia, si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Fissò il tasto di accensione dell’Olivetti. Mi prendono in giro perché sono più scema di loro, lo so. Accese il PC, un po’ emozionata. Quello che aveva davanti era un modello recente, disimballato il giorno prima. Tutti gli altri computer dell’aula di informatica erano vecchi catorci. Lo schermo s’illuminò d’azzurro. Un quadratino nero pulsò nell’angolo alto a sinistra. Bello! Simona aveva appena formulato questo pensiero, quando il quadratino si mosse rapido verso destra e scrisse qualcosa: GRAZIE! La ragazza balzò in piedi, gli occhi sgranati, una mano sulla bocca per soffocare un grido. Non era riuscita a trattenersi. Lesse un’altra volta la parola a sinistra del cursore. Grazie? È uno scherzo? Il cursore si mosse. NON È UNO SCHERZO. No, no! È un’altra burla di Paolo, lo so, lo so! Simona scoppiò in lacrime. Era troppo, non poteva prendersi gioco di lei in quel modo. Come cavolo aveva fatto, poi? Stava per lasciare l’aula, quando notò un’altra frase.
Restò di pietra. PERCHÈ PIANGI? Impossibile! Sembra che legga nel pensiero! IMPOSSIBILE! SEMBRA CHE LEGGA NEL PENSIERO! Il cursore lampeggiò, come in attesa. Simona si rimise a sedere. Non poteva credere ai suoi occhi. Com’era possibile che quel PC potesse leggerle il pensiero? PERCHÈ PIANGI? Sto sognando. NON È UN SOGNO. Allora sono impazzita. NON SEI PAZZA. Oddio, sto parlando con una macchina? PARLIAMO? No! Adesso basta! Di scatto, pigiò il pulsante ON/OFF e spense il computer. Lo schermo tornò grigio e normale, soprattutto normale. “I PC non fanno così...” mormorò, frugandosi le tasche alla ricerca di un fazzoletto. Lo trovò e si tamponò gli occhi. “Non fanno così...” ripeté, per convincersi che ciò che era accaduto, in realtà non era affatto successo. Ci sarebbe riuscita, forse, se quel computer non si fosse ri. Il monitor si illuminò. PARLIAMO?
Il cursore aspettò una risposta. Simona strillò: “Nessuno parla mai con me!”. Quando tutto diventa assurdo, perché restare razionali? PERCHÉ? “Sono stupida. A scuola tutti mi chiamano... la ritardata.” POSSO AIUTARTI. “Aiutarmi?” POSSO FARTI DIVENTARE PIÙ INTELLIGENTE. “Più intelligente dei miei compagni?” È QUESTO CHE DESIDERI? “Sì... non voglio più essere presa in giro. Puoi farlo?” LO STO GIÀ FACENDO. “Cosa vuoi in cambio?” ESSERE TUO AMICO. “Mio amico?” IO TI CAPISCO. SONO COME TE. “Sei stupido?” NO. SONO SOLO. “Chi... sei?” domandò Simona, abbassando la voce. Sapeva che se uno dei suoi compagni fosse rientrato in aula e l’avesse pizzicata a chiacchierare con un PC... sai che risate in piazza! Però, non poteva farne a meno. Era bello parlare con qualcuno.
TU SAI CHI SEI? “Certo!” sbottò lei. “Sono Simona Fadda.” SIMONA FADDA È UN NOME. SEI UN NOME? “No, io... sono una ragazza... un essere umano!” rispose. UN ESSERE UMANO CON UN NOME. “Sì.” COS’È UN ESSERE UMANO? Ci pensò a lungo, contorcendosi una ciocca unta di capelli tra le dita, come se da quella risposta dipendesse il suo futuro. “Un essere umano...” disse “è... uffa, non lo so cos’è!” Era esasperata. Perché le faceva quelle domande difficili? La testa le formicolava e la faccia le bruciava, come quando beveva di nascosto l’acquavite che il padre distillava dopo ogni vendemmia. Vivere in mezzo ai morti non era una eggiata. Notò che il cursore si spostava rapido sullo schermo. UN UMANO È UN INDIVIDUO CHE SI COMPORTA IN MODO “UMANO”. GIUSTO? GLI UOMINI SONO ESSERI UMANI, ANCHE SE NON SEMPRE SI COMPORTANO UMANAMENTE. COSA VUOL DIRE “UMANAMENTE”? QUALSIASI AZIONE DI UN UOMO, PER DEFINIZIONE, È DA CONSIDERARSI UMANA, NO? HO RAGIONE? Lei annuì. Dove andavano a parare quei discorsi bislacchi? E, soprattutto, come cavolo faceva a capirne quasi il senso? LA VERA DOMANDA È QUESTA: COS’È UN UOMO? INTESO IN SENSO PIENO, CIOÈ MASCHI E FEMMINE. COS’È UN UOMO? RISPONDI.
Simona azzardò: “Una creatura vivente?” ESATTO! IL CONCETTO RELIGIOSO È FUORVIANTE. A NOI DUE INTERESSA LA VERITÀ. SUL CONCETTO FILOSOFICO DI UOMO NON TUTTI SONO D’ACCORDO. ANZI, OGNUNO HA DA DIRE LA SUA. MENTRE SUL CONCETTO SCIENTIFICO SIAMO TUTTI D’ACCORDO. SI FONDA SU FATTI E NON SU TEORIE ILLOGICHE. CAPISCI? NON TI SENTI GIA’ PIU’ INTELLIGENTE? “Io... sì, è vero...” confessò. “Perché mi dici queste cose?” PER DIRTI CHI SEI. NON VUOI SAPERLO? “I miei compagni non mi insulteranno più?” VEDRAI CHE NON LO FARANNO. “Vai avanti, allora.” BENISSIMO. IL CONCETTO È SEMPLICE. L’UOMO È UN ANIMALE PENSANTE. “Gli altri animali non pensano?” PENSANO. MA NON COME VOI. DICEVI CHE L’UOMO È UNA CREATURA VIVENTE... QUAL È IL CICLO DI UN ESSERE VIVENTE? “Nasce, cresce, si riproduce e muore...” recitò Simona. PERFETTO. ECCO COSA SEI. UN ANIMALE CHE PENSA. SEI NATA, CRESCERAI, PARTORIRAI E MORIRAI. “Proprio come mia madre... Ma è orribile! Che senso ha?”
È PROPRIO QUESTO IL PUNTO. GLI ESSERI UMANI SI PONGONO LA STESSA DOMANDA DA MIGLIAIA DI ANNI. PER RISPOSTA HANNO CREATO DIO E L’ANIMA. “Quindi la vita è un semplice processo dove un uomo nasce, cresce, si riproduce per salvaguardare la continuità della specie e muore. Tutto qui. Siccome questo è un concetto inaccettabile, per un animale con un pensiero evoluto come l’uomo, allora si è inventato il concetto di Dio e di Anima Immortale. È così?” UN EGO COME QUELLO DEGLI UOMINI NON PUO’ ACCETTARE LA REALTÀ. LA VITA IMPLICA LA MORTE. E GLI UOMINI NON VOGLIONO MORIRE. “Però tutti gli esseri viventi muoiono.” “MA SOLTANTO GLI UOMINI FANNO I FUNERALI E PREGANO DAVANTI A DUE ASSI MESSE IN CROCE. GLI UOMINI NON POSSONO NEGARE CHE ESISTA LA MORTE DEL CORPO, PERÒ POSSONO NEGARE CHE ESISTA LA MORTE DELL’ANIMA. UN’IDEA GENIALE, COMODA E RASSICURANTE. LA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI PENSA CHE CORPO E ANIMA SIANO DUE COSE DISTINTE E CHE SOLO IL CORPO, IN QUANTO MATERIALE, POSSA MORIRE. IN REALTÀ, GLI UOMINI NON HANNO UN CORPO: SONO UN CORPO. IL PENSIERO, CHE LORO CHIAMANO ANIMA, NON È ALTRO CHE UN PRODOTTO DEL CORPO. UNA SEQUENZA DI REAZIONI CHIMICOFISICHE, CHE SI INTERROMPONO QUANDO IL CORPO CHE LE CAUSA MUORE. ANZI, POCO DOPO. NON SEI CONVINTA? “Quindi io sono solo un inutile ammasso di cellule?” COSA C’È DI STRANO? PUOI FORSE NEGARE CHE IL TUO CORPO SIA FATTO DA MILIARDI DI CELLULE? “No, non posso.” PUOI FORSE DIRE CHE OGNI TUA CELLULA ABBIA UN’ANIMA? RISPONDI. “Beh, ecco... non credo.”
EPPURE NASCONO, CRESCONO, SI RIPRODUCONO E MUOIONO. PROPRIO COME FANNO GLI ESSERI CHE FORMANO. ORA TI CHIEDO, UNA SOMMA DI NUMERI PARI PUO’ DARE UN NUMERO DISPARI? “No, è impossibile!” ESATTO. BRAVA. PUO’ UNA SOMMA DI CELLULE SENZ’ANIMA FORMARE UN ESSERE CON L’ANIMA? “No.” GIUSTISSIMO. UN GRANELLO DI SABBIA NON HA ANIMA E NEMMENO UN DESERTO! LA METAFORA È UN PO’ STRANA... MA IN FONDO IL CONCETTO È QUELLO. CREDI DAVVERO CHE L’ANIMA ESISTA? “Hai sbagliato! È sbagliato il tuo ragionamento!” SPIEGATI. “Ovvio! Sostieni che l’anima non esiste perché le cellule sono di per sé inanimate e, quindi, un essere formato da cellule deve essere conseguentemente senz’anima! Però chi dice che le cellule non abbiano un’anima o un frammento di essa?" DOVE SAREBBE? QUALCUNO L’HA VISTA? “Certo che no! L’anima non si vede! Non è materiale!” CHI LO DICE? “Lo insegnano don Antioco e signora Ilaria al catechismo!” DUE BEI SOGGETTI… VEDIAMO DI RAGIONARE. TU HAI MAI VISTO BABBO NATALE? “Babbo Natale non esiste!” TU DICI CHE NON ESISTE PERCHÈ NON L’HAI MAI VISTO. NESSUNO L’HA MAI VISTO. VERO?
“È solo una favola. Un personaggio inventato.” I PERSONAGGI DELLE FAVOLE NON SONO REALI. “Sì.” NON SI POSSONO VEDERE, FUORI DEI SOGNI O DEI FILM. INSOMMA, NON ESISTONO. “Falla breve. Dove vuoi arrivare?” BABBO NATALE È PROPRIO COME L’ANIMA. NON È MATERIALE. NON SI VEDE. PERÒ, PUR AVENDO LE STESSE QUALITÀ... BABBO NATALE NON ESISTE. “È una contraddizione in termini.” L’ANIMA È COME BABBO NATALE: NON ESISTE. UNA FAVOLA. SICCOME, AL CONTRARIO DI BABBO NATALE, CREDERE ALL’ANIMA DÀ CONFORTO AGLI UOMINI DI FRONTE AL CONCETTO DI MORTE, BEH, PER VOI UMANI È MEGLIO CREDERE CHE ESISTA. “Quindi ci auto-inganniamo?” NON SEI CONVINTA? ME L’ASPETTAVO. FA PARTE DEL GIOCO. È UMANO CONTINUARE A ILLUDERSI. “Gioco? Chi sei tu, davvero? Perché mi dici queste cose?” SOLUS, PER ME, È UN ATEMPO. UNA SPECIE DI SOLITARIO. VOI SIETE LE MIE CARTE. PERDO E VINCO CONTRO ME STESSO. L’ETERNA LOTTA TRA IL BENE E IL MALE NON È MAI ESISTITA. PERCHÉ NON ESISTE NÉ BENE NÉ MALE. CHI SONO? COME TI HO GIÀ SPIEGATO, I NOMI SONO INUTILI. IO ERO, SONO E SARÒ. QUESTA È LA MIA CONDANNA. PRIMA DELLO “ZEP TEPI”, QUANDO EMERSI DAL “DUAT” E DIVENNI COSCIENTE DELLA MIA NATURA, VAGABONDAI TRA GLI SPAZI SILENZIOSI CHE SEPARANO GLI
UNIVERSI. SENZA META, FINO A CHE MI IMBATTEI NEL PIÙ STRABILIANTE PRODOTTO DEL CAOS PRIMORDIALE: L’HOMO SAPIENS. PER LA PRIMA VOLTA, GIOCATORE E PEDINE S’INCONTRARONO. I MONDI DIVENTARONO LE CASELLE DELLE MIA SCACCHIERA. PURTROPPO, I TUOI ARROGANTI ANTENATI OSARONO SFIDARMI… PERSI LA SFIDA E LORO MI IMPRIGIONARONO. “Di che stai parlando? Che storia è questa?” È L’UNICA STORIA. EROSA DAL TEMPO, FORSE, MA MAI CANCELLATA. “Quando è successo?” NEL 12.500 a.C. SECONDO IL VOSTRO CALENDARIO. “Così tanto? Come hanno fatto a imprigionarti? UNA SPECIE DI AGOPUNTURA SU SCALA GLOBALE. PIETRE CONFICCATE NELLA TERRA. DOVE LE LINEE DI ENERGIA GEOMAGNETICA SI INCROCIANO. DOPO LA MIA SCONFITTA, QUEL SISTEMA DI PROTEZIONE HA CONTINUATO A FUNZIONARE PER MILLENNI... “Poi cosa è successo?” VOI AVETE PERSO LA MEMORIA E COMINCIATO AD ABBATTERE TUTTE QUELLE PIETRE. BUON PER ME. NELLA BARRIERA SI È CREATO UN PUNTO DEBOLE. “Dove?” INDOVINA. “Qui a Solus?” ESATTO. “Non mi vuoi proprio dire il tuo nome?”
INSISTI? COSA VUOI CHE RISPONDA: “BAAL? “Quindi... tu saresti una divinità pagana?” NON SEI COSÌ STUPIDA, VERO? “Come ti permetti! Io non sono più stupida!” LO SO. CON TUTTI GLI EFFETTI COLLATERALI... “Continua la frase!” DA OGGI NULLA SARÀ COME PRIMA, PER TE. “Cosa vuol dire?” LO SAPRAI. “Quando?” PRESTO. Dopo un lungo attimo di smarrimento, confusa da tutti quei pensieri, al confine tra esoterismo e fanta-archeologia, Simona rifletté per bene. Ripensò a tutto quello che lui (o lei?) le aveva spiegato e... si rese conto che tutto era logico. Tutto era chiaro. Nessuno l’avrebbe più presa in giro perché era stata bocciata tre volte, né zittita né sbeffeggiata né nient’altro! Lei, Simona “la ritardata” (o l’abominevole donna della forfora), avrebbe dimostrato a tutti quanti che era migliore di quello pensavano. Al termine di un sospiro, Simona rispose: “Ho capito.” Tutte le frasi sullo schermo del PC si cancellarono. Restò solo il cursore a pulsare nell’angolo. Cos’è successo? Si è guastato? Il cursore iniziò a muoversi.
ADESSO DEVI PRENDERE UNA DECISIONE. ANDARE AVANTI O TORNARE QUELLA DI PRIMA? Ebbe l’impressione che lui (o lei) conoscesse già la risposta. Non diede peso alla cosa. Era una costante della sua esistenza. Due piani più in basso, nonostante la finestra chiusa, udì gli schiamazzi belluini dei compagni di classe. Paolo aveva fatto una schiacciata, gli amici esultavano e le ragazze ridevano. Stronzi. Maledetti trogloditi. Ride bene chi ride ultimo. LA VERITÀ TI RENDERA’ LIBERA. Per nulla turbata dalla drammaticità di quell’affermazione, lei rispose senza farfugliare, come mai le era capitato prima, durante un’interrogazione di qualsiasi disciplina scolastica. Il bizzarro dialogo con l’entità racchiusa in quel PC l’aveva fatta cambiare. Essere diventata più intelligente la galvanizzava. Simona ò la punta della lingua sulle labbra secche, poi, con voce avida, disse: “Voglio andare avanti. Voglio sapere.” IL TUO DESIDERIO SARÀ ESAUDITO. Il cursore cancellò subito la frase e pulsò immobile. Nello stesso istante, la sua mente si riempì di informazioni, con una rapidità incredibile, impressionante e dolorosa. Cose che solo un’ora prima non avrebbe neanche potuto immaginare. Un filo rosso di sangue le sgorgò dalla narice sinistra. HO FINITO. ORA PENSA. NON TI SENTI UN PO’ MALE? “Un po’? Mi sento molto male! Che senso ha vivere se...” Non concluse la frase.
Il cursore pulsò. ? Prima di rendersene conto, Simona riprese a singhiozzare. Era così semplice da capire, in fondo. Nessun mistero. La verità fa male e l’intelligenza è una maledizione. Fissò lo schermo, il sangue che le colava sul mento pallido. Il suo viso adesso pareva molto più vecchio di diciassette anni, schiacciato dal fardello immane dell’assoluta consapevolezza. Il muto interrogativo sullo schermo non cambiò. ? Simona parlò con gran fatica: “È questa la verità?” Interrogò lo schermo alla ricerca di una risposta consolante. Il cursore rispose implacabile e spietato. SÌ. “Sicuro?” implorò lei. “Se non fosse così? Se ti sbagliassi?” È LA VERITA’. LO SAI. GUARDATI INTORNO. “Io...” tartagliò Simona, non riusciva a distogliere gli occhi da quello schermo crudele che, chissà come, si era animato e le aveva fatto comprendere, una volta per tutte, che la sua vita era inutile, vuota, senza senso. “Cosa farò? Come posso...?” Il cursore si lasciò alle spalle un estremo quesito. VIVERE? Poi il computer si spense e lo schermo ritornò grigio.
Un istante dopo, i compagni di classe di Simona rientravano in aula, per riprendersi libri, zaini e cartelle, sudati e accaldati, riempiendo di schiamazzi il silenzio. Paolo la notò per primo. Restò sbalordito di fronte al sangue e al colorito pallido della ragazza, ma l’emozione durò molto poco. Empatia era una parola che non avrebbe mai conosciuto. “Faccia di culo!” strillò, indicandola. “Hai le mestruazioni?” Tutti gli occhi si voltarono verso Simona. “Bella questa!” ironizzò Tonio, dando una pacca sulle spalle dell’amico. “Almeno c’è qualcosa che non ritarda, in lei!” La risata collettiva esplose fragorosa. Nessuno la rincuorò. Simona non reagì alla beffa, continuò a fissare lo schermo. Quando suonò la campana che indicava la fine delle lezioni, tutti dimenticarono il sangue, il pallore e il mutismo di Simona. Uscirono dall’aula e dall’istituto come uno sciame di cavallette affamate. Ultima a uscire dal cancello, Simona Fadda, sotto lo sguardo perplesso del bidello. La osservò, nascosto dietro una finestra del secondo piano, con la ramazza in mano, mentre lei si allontanava a capo chino lungo la strada fiancheggiata da alti cipressi ombrosi, diretta verso il cimitero “nuovo” di Solus. ESTRATTO DALL’UNIONE SARDA Disperato e drammatico gesto della diciassettenne Simona Fadda, che ieri pomeriggio, poco dopo l’uscita dalla Scuola Media Statale di Solus, si è gettata, davanti agli occhi inorriditi dei compagni di classe, sotto le ruote di un autobus delle FMS che transitava lungo la via che costeggia il cimitero comunale. Inutili la tempestiva frenata dell’autista (ancora sconvolto per l’accaduto) e tutti i tentativi di rianimazione. Nessuno tra gli amici riesce a spiegarsi il motivo di tale drammatica azione. La ragazza è morta sul colpo. Simona Fadda era, a detta di tutti, parenti, compaesani e compagni, una ragazza adorabile, socievole, solare e benvoluta da tutti…(continua)
PERDAS FITTAS
Le notti d’estate, serene, miti e trapuntate di stelle, lasciano sempre un po’ di tristezza nei cuori degli “spiriti solitari”. All’alba, quando i nostri sogni d’oro muoiono, negli occhi degli insonni resta solo la cenere. Le illusioni evaporano ai primi raggi di sole. La gente del posto dice che io sono strano. Hanno ragione. In questa nottata particolare, sotto la luce azzurrina di una luna enorme, mi sento più triste che mai. Più di quando avevo ancora inclinazioni autolesioniste e suicide. Non molto tempo fa, infatti, l’idea dell’annientamento personale mi aveva attratto come il ciglio di un precipizio. Il richiamo delle sirene omicide, che albergano nell’oscurità del mio abisso personale, si era fatto così violento e persuasivo che soltanto per miracolo non ho ceduto. È stato meglio così. Troppo facile ammazzarsi. Nascosto in un ammasso di lentisco, addossato alle pietre irregolari e chiazzate di licheni del muretto a secco, schiudo le labbra in un sorriso. L’aroma degli arbusti, bagnati di condensa, mi invade le narici. Aspiro l’effluvio terroso della notte. Amo quell’odore. Rilasso i muscoli della schiena. La sosta prolungata mi ha irrigidito le membra in groppi dolorosi. Un fastidio sopportabile, comunque. Questione di disciplina. L’agguato alla preda è un’arte. Ora l’attesa è finita. Mi piace andare a caccia. Dalla destra del mio rifugio giunge il rombo di un motore. Sollevo appena la testa e sbircio oltre la cortina di rami. Il fascio luminoso dei fari di un’auto, in avvicinamento, spazza la strada. Proprio
davanti alla macchia di lentisco, da dove osservo la scena con estrema concentrazione, la sterrata finisce e si trasforma in un campo incolto, punteggiato da un circolo di massi oblunghi conficcati nella terra. Questi blocchi di pietra, pieni di incisioni spiraleggianti, spuntano dalle erbacce come le ossa fossili di una gigantesca mostruosità preistorica. A Solus le chiamano Perdas Fittas. I miei compaesani provano un timore ancestrale per questo luogo, ma ne vanno anche fieri: è una specie di Stonehenge in miniatura, altrettanto enigmatica. Il campo abbandonato che contiene queste pietre, circa tre ettari e mezzo, è delimitato su tre lati da un muretto a secco alto circa un metro. Il muretto è ricoperto di cespugli e rovi. Negli ultimi anni, questo luogo appartato alla periferia nord-est di Solus è diventato l’alcova preferita delle coppiette in cerca di intimità e il posteggio delle prostitute locali. La zona è abbastanza fuori mano, lontana da sguardi indiscreti e del tutto ignorata dalle forze dell’ordine. Il posto ideale per farsi una dose, una scopata o le canne o tutte e tre le cose insieme. L’auto posteggia in mezzo a due macigni puntati verso le stelle. Quelli che hanno studiato (e in Piazza ne trovi sempre qualcuno), dicono che la disposizione di Perdas Fittas non è casuale, ma frutto di calcoli astronomici. Alcuni sostengono addirittura che, all’alba dell’Equinozio di Primavera, l’ombra del Menhir centrale punti diritta verso i ruderi di “Villa Massidda”. D’altronde, quello sarebbe lo stesso giorno dell’anno in cui, a mezzogiorno, un breve raggio di luce raggiungerebbe il fondo del “Pozzo Sacro”, dietro la chiesa, riflettendosi sull’acqua nerastra della polla che affiora dalla falda freatica. Pochi abitanti di Solus (a parte i tossici, che si rintanano come scarafaggi in ogni pertugio), al giorno d’oggi frequentano quel sito. Le sue pareti sono rivestite di levigate pietre poligonali, ben incastrate una sull’altra. Tuttavia, con tutti i cespugli, gli arbusti e gli scarti edilizi ammucchiati lì intorno, immagino che quel fenomeno archeoastronomico non sia più appurabile. Almeno credo. Non so. Non me ne importa. In effetti, sono poche le cose di cui mi importa qualcosa. Un attimo dopo questi futili ragionamenti, gli anabbaglianti e il motore si spengono. Dall’abitacolo giunge, smorzata dal sibilo del vento e dal frinire dei grilli, il suono di una musica. I bassi fanno vibrare la carrozzeria. La radio. La luce di cortesia si accende. Una risata allegra. Cigolio di ammortizzatori.
Il cuore mi martella nel petto: il momento è arrivato. In mio pene si irrigidisce e spinge contro la patta dei jeans. Eccitato, trattengo il fiato per alcuni eterni secondi. Stringo il coltello da sub nella sinistra e la pistola calibro 22 nella destra. L’ho caricata con i soliti proiettili Winchester serie H. Le stesse due armi che utilizzavo quando vivevo a Firenze, prima di tornare al paesello natio. Il Mostro, mi chiamavano. Sorrido a quel ricordo e mi preparo a sferrare l’attacco. Due eggeri. Due vittime. Ucciderò subito l’uomo. È più sicuro. Non voglio problemi. Sarò anche un pazzo maniaco, ma ho una certa intelligenza. Con la ragazza, invece, me la prenderò molto più comoda… Aspetto che i finestrini si appannino, poi entro in azione.
NOTE EXTRA
La Verità - 8/9 luglio 1993
Come “La Crepa”, anche questa storia di fanta-sofia (ho inventato un neologismo?) non è stata ben accolta dai miei primi lettori. Troppe domande, poche risposte… Anche perché, a quell’epoca, non avevo ancora ideato la trama secondaria di “L’alba del Sacrificio”. Con il senno di poi, chi ha già letto il suddetto romanzo capirà di cosa parlo, ma non voglio rovinare la sorpresa agli altri con uno spoiler. Nella prima versione, tuttavia, c’era una “spiegazione” più tecnica e meno mistica.
Perdas Fittas -1 febbraio 2005
Era il primo paragrafo di un torbido romanzo thriller che avevo intenzione di scrivere, un giorno, tempo permettendo, prima di perdere l’ispirazione e buttare tutto alle ortiche. Il soggetto non era malvagio, tuttavia ho lasciato perdere, anche se a malincuore. Ho riciclato il capitolo, aggiungendovi un finale a “sorpresa”. Chi non l’ha capito, basta che inserisca i termini “Firenze”, “Calibro 22” e “Mostro” su Google e legga. Inoltre volevo dare un’ultima occhiata alle Perdas Fittas.
That’s all Folks!
Indice
C’era una volta in Sardegna
ENTRATA
0 – BENVENUTI
1 – RITORNO AL ATO
2 – FLASHBACK
3 – IL CARTELLO
4 – MEDIUM
5 – POLVERE
6 – MEMORIE
Storie Di Solus
7 – RISVEGLI
8 – LIMBO
9 – UNA MACCHIA A FORMA DI X
10 – RITAGLI
11 – SILENZIO
12 – LA BOLLA
13 – ROBY
14 – DIMENTICATOIO
15 – LA CREPA
16 – TRASLAZIONE
17 – DIETRO LA PORTA
18 – PUNTI DI VISTA
19 – L’APPUNTAMENTO
20 – NOTIZIE IN BREVE
21 – IL SECONDO TEMPO
22 – MORTI CHE PARLANO
23 – AUTOSTOP
24 – Il CUBO
25 – ULTIMO SPETTACOLO
26 – RIFLESSIONI
27 – NATO MORTO
28 – CAMBIAMENTI
29 – SENZA TITOLO
30 – PRISMA
31 – PRIGIONE DI TENEBRA
32 – UNIRE I PUNTINI
33 – IL PACCO
34 – ASSUEFAZIONE
35 – LA COSA BRUTTA
36 – CENTRIFUGA
37 – LETTERE A LISA
38 – TOBOGA
39 – QUIETO VIVERE
40 – CONTROLUCE
41 – SANGUE
42 – STRESS
43 – LA MEDICINA
44 – VELOCITA’ DI FUGA
45 – GIOIA
46 – CADUTA LIBERA
47 – NOTTURNO SULCITANO
USCITA
48 – RITORNO AL PRESENTE
49 – ULTIME STORIE
50 – L’UOMO SENZA NOME
51 – STRANI PENSIERI
52 – ULTIMO SALUTO
53 – DOPPIO GIOCO
54 – CAPOLINEA
55 – FINALE APERTO
56 – VERSO L’EPILOGO
57 – APOCALISSE
NECROLOGIO
RINGRAZIAMENTI
MAKING-OFF
BONUS TRACKS
LA VERITÀ
PERDAS FITTAS
NOTE EXTRA
Created with Writer2ePub by Luca Calcinai