Indice Prefazione Intellettuale?! Lou Andreas Salomé La lucidità e l'ardore delle grandi donne La morte dell’Orso Giuseppe, una roccia La nostalgia di Guido Nicoletta e l'esercito Felicemente zitelle Il niente di Amilcare “La vita non mi prende” I gorgheggi di Carla I miei giochi con Cesare Mamma Parafulmini Volano i piatti Mi spacco, ti spacco Ma l'uomo chi è? Il ballo oggi e Freud Ma la donna chi è?
Sentimenti Nostalgia Caro Walter Precarietà La mafia Follia e ignoranza Paolo Borsellino La paura Il miracolo della neve calda La solitudine della morte Casalinga?! Biografia dell’autrice
Prefazione
Casalinga astrologa un poco intellettuale, racconta, con ironia e dolcezza, le vicende, i sogni e le riflessioni di una donna come tante che fa una vita comune: abita in un condominio, fa la spesa col carrello, conversa con le amiche, va al cimitero a trovare i suoi morti, ha rapporti difficili con i figli e riflette sulle relazioni di coppia, sull’uomo, sulla donna, sulla solitudine e sui desideri che aprono le ali della ione, la ione ardente dell’amore, ma anche la ione di conoscere che può essere altrettanto trascinante. Concezioni psicanalitiche e astrologiche fanno parte della sua cultura e del suo pensiero abituale e sono nel libro una chiave di lettura per capire i comportamenti ed entrare nel mondo complesso delle relazioni in una società come quella attuale arrogante nel suo individualismo, ma fragile, affamata di amore e di comprensione. Scopre i valori della vita quotidiana di solito trascurati o considerati banali, i sentimenti profondi che sottintendono le relazioni, la commozione dei ricordi, la nostalgia, la pietà, l’inquietudine che è segno di vita e di speranza. Scopre il valore della comprensione umana alla quale dà un importante contributo la lettura psicologica, ma che è legata alla sensibilità naturale troppo spesso alterata dal narcisismo e dall’individualismo egocentrico diffusi oggi come una malattia contagiosa. Una malattia dalla quale si può guarire. Scopre la poesia delle piccole cose. Torna all'Indice
Intellettuale?!
Penso di essere una intellettuale perché ho sempre usato molto la testa nella sua parte pensante chiamata intelletto: studi letterari, studi scientifici, studi astrologici e il karma e la fisiognomica e la medicina psicosomatica. Non mi sono fatta mancare niente. Ho nutrito il mio cervello di ogni sapere, filosofia, discipline scientifiche e non. Fin da piccola volevo capire cosa accidenti ero venuta a fare in questo mondo che, in chiesa, la maestra di catechismo chiamava valle di lacrime, mentre mia sorella, una bambina precoce, per certi aspetti addirittura una bambina prodigio, diceva e ripeteva a soli sei anni, “ma perché ci hanno messo al mondo che poi bisogna morire… Ecco! Volevo capire… e ho studiato, ma una intellettuale nel senso comune della parola non sono di sicuro, perché in effetti non ho ancora capito niente, non ho verità da comunicare, non ho certezze, non assomiglio a quei santoni della televisione o a quegli scrittori ispirati che hanno una ricetta per tutto e ti dicono pure cosa devi fare per essere felice. Oppure a quegli altri cinici, nichilisti, scettici con il loro vangelo negativo e tante frasi complicate per dire che cerca e ricerca, studia qui e studia là, prova questo e prova quello, non si trova niente e nessuno. Scoperta grandiosa! Eppure tutti costoro sembrano persone speciali e hanno di speciale sicuramente la naturalezza con cui dicono le parole giuste per incantare gli ascoltatori quando parlano e straparlano, mostrando una bella faccia compiaciuta, sottilmente attraente, talvolta quasi affascinante. Esseri superiori, divini. Beati loro! Padreterni! E tutti li invidiano. Oggi l’immagine è la cosa più importante, più importante delle idee e dei fatti. Il Narciso che è dentro ognuno di noi si è fatto così grande e ingombrante che nessuno riesce più a tenerlo a bada. La vita è diventata una gara tra Narcisi più o meno forti e invadenti. Una gara spesso ridicola, ma chi la fa non se ne accorge. L’intellettuale dominante è di solito un Narciso vincente perché usa strumenti linguistici raffinati e una mimica e una postura da attore consumato.
Io certamente no. Se mi intervistassero - e nessuno l’ha mai fatto per fortuna – sorriderei come una stupida, farei smorfie nel tentativo di dire qualcosa di importante, non troverei le parole giuste, dimenticherei pure quelle che uso comunemente e, consapevole della brutta figura, mi vergognerei a morte e diventerei rossa e violetta. Una scena disgustosa da fare concorrenza a Fantozzi. Da spaventare l’intervistatore… che scapperebbe a gambe levate. Il mio Narciso, offeso per la brutta figura, mi punirebbe togliendomi il sonno e la quiete. Per carità! Rimetterci la salute per colpa del Narciso offeso, non mi sembra il caso. Una volta mi è successo qualcosa del genere. Apionata di ecologia, ero riuscita ad avere piccole piante da mettere a dimora sul bordo di una povera strada della periferia di Milano, squallida e spoglia. Con una vanga, io ed altre poche persone con le mie stesse aspirazioni, scavavamo buche, mettevamo dentro le piantine – erano dei prunus nigra e oggi sono fiorentissimi e hanno cambiato faccia alla strada – e coprivamo le radici con la terra, pestando poi bene coi piedi. Era un lavoro faticoso. Io, malvestita e sudata ho visto avvicinarsi un fotoreporter di una televisione locale con una cinepresa professionale, che qualcuno del gruppo aveva chiamato per attirare l’attenzione delle autorità sulla mancanza di verde dell’area.
- Cosa state facendo, ci spieghi? - mi chiese. Io, spaventata dalla cinepresa, con la voce rotta dalla fatica, incominciavo balbettando a dire qualcosa del tipo “ mettiamo un po’ di piante perché non ce ne sono e abbiamo avuto l’autorizzazione… tre mesi che ci lavoriamo per avere le piante e i permessi…”, quando l’operatore si allontanò e rivolse la stessa domanda ad un altro del gruppo bello e imponente che, rilassato e con calma, rispondeva illustrando il progetto e aggiungendo che l’organizzazione era stata curata da me. Lui era incerto se avvicinarsi di nuovo e io che avevo capito tutto, sono esplosa: - E’ evidente quello che stiamo facendo, ci riprenda mentre lavoriamo e riprenda
anche quello che vede intorno, i palazzoni, l’asfalto rotto e il cemento e faccia lei i commenti se è un buon giornalista… Poi se ne può pure andare! Se ne andò e la televisione non trasmise nessun servizio sulla nostra iniziativa con disappunto dei miei amici. - Tu spaventi la gente! Lo avevo spaventato prima con la mia faccia stravolta e poi con le parole. Insomma non sono quello che di solito la gente si aspetta quando viene presentato un intellettuale. Sono grassoccia, un po’ gobba – mio figlio prima degli esami mi tocca sulla schiena – e sono soprattutto impacciata. Mi manca in maniera grave l’orientamento spaziale fin da quando ero piccola. Le conoscenti mi trovavano in giro per Piacenza, la mia città di nascita, negli orari più strani. Io avevo perso la strada. Se nell’andare verso una meta, sbaglio a girare un angolo, poi è finita, non capisco più niente, ma in ato non chiedevo aiuto perché mi vergognavo e giravo e rigiravo fino a che trovavo un riferimento noto e allora mi riprendevo. - Dove vai Lucia? - A casa! - Ma qui siamo in via Calzolari, tu abiti dall’altra parte, proprio dalla parte opposta! - Ho accompagnato un’amica. Adesso torno. Dovevo andare dalla parte opposta. Ecco finalmente! Se non avessi trovato quell’amica di mia madre, sarei ancora lì a girare. Poi mia madre: - L’Enrica ti ha trovato dall’altra parte della città. Io lo so, ti eri persa! Quando imparerai a chiedere! Sei troppo timida! Svegliati! Avevo sei o sette anni. Mia madre non mi ha mai accompagnato a scuola, neanche il primo giorno. Allora non usava. Oggi, se fossi piccola, dovrei lottare
per essere libera e andare da sola in giro e, col mio difetto di orientamento, avrei qualcuno alle calcagna ancora a vent’anni. Allora per fortuna, no. Ho imparato a chiedere, una, due, dieci volte e faccio così ancora adesso a Milano quando vado in posti nuovi, oppure semplicemente in una casa che non conosco. Quando devo uscire finisco dritta in camera da letto e… qualcuno pensa pure male, ma io mi sono abituata a chiedere serafica “Dov’è l’uscita?”. Qualcun’altro pensa che ho l’Alzheimer, ma io, ai cattivi pensieri altrui, mi sono abituata. Non ci faccio caso, anche se il mio piccolo Narciso talvolta si fa sentire: - Quando ti insultano o ti prendono in giro, rispondi per le rime! -, protesta. - Noooo – dico io – loro si offendono, io me ne frego, non mi offendo. Non è il caso Narciso mio, stai buono che sei piccolino tu! Gli altri hanno un Narciso gigantesco. Tu faresti una brutta fine! Stai buonino, bello mio! Sono impacciata non solo perché mi confondo con le strade, ma anche perché sono lenta a capire i rapporti sociali. Sono sveltissima nell’organizzare la mia vita quotidiana, la casa e le faccende varie anche quelle burocratiche. Conosco persone che non riescono a riordinare la loro casa, non si organizzano facilmente quando si spostano e devono rivolgersi ai famosi esperti per risolvere questioni di tasse e faccende simili. Costoro mi invidiano perché io faccio tutto con facilità, capisco al volo e me la cavo. Sono una casalinga quindi senza dubbio: faccio di tutto e di più con angelica pazienza e anche con rapidità. Quando riordino la casa, mentre mi sposto per fare una cosa, ne faccio altre tre e in pochi minuti ho messo a posto, poi esco mezz’ora col cane che con me deve obbedire. Torno, riordino le carte e scrivo un pro memoria e poi finalmente posso fare quello che mi piace e per cui potrei essere una intellettuale e cioè leggere, studiare e scrivere. Se mi perdessi dietro alla polvere, al cane e alle carte degli uffici, non arriverei a fare nient’altro e davvero sarei infelice. Per fortuna no! Riesco a organizzarmi. Sono lentissima nei rapporti con gli altri.
Ho letto da qualche parte che l’intelligenza oggi non è più basata, come in ato, sulle capacità logico-deduttive, cioè sul rigore razionale, ma sulla capacità di intrattenere rapporti. Tra il matematico rigoroso e un buon chiacchierone che sa convincere, è più intelligente il chiacchierone, simpatico, scherzoso, abile nelle battute, rapido nel cogliere le situazioni e nel trovare le parole giuste per attirare l’attenzione e la simpatia. Costui può diventare un leader, un grande manager, un venditore anche se non sa la matematica, mentre il semplice matematico risolve i problemi ma non arriva in alto. Io sono bravina in matematica - ho una superlaurea in fisica! - sono attentissima alla conoscenza profonda del carattere delle persone, sono di animo sensibile e desiderosa di fare del bene e di avere buoni rapporti, ma non ho quell’intelligenza lì e non perché mi manchi l’intuito o perché mi manchino gli strumenti per capire l’animo umano. Semplicemente, mi piace dire la verità o almeno quella che a me sembra essere la verità. Dopo dure esperienze, dimentico tutto e credo ancora di poterla dire la verità, con educazione e delicatezza, certamente, ma perché no? Perché non si dovrebbe dire? Capisco, purtroppo sempre in ritardo, che tutti odiano la verità. Tutti amano la propria menzogna e vogliono sentirla confermare dagli altri. Sono psicologa, nel senso che ho studiato psicologia, ma non mi entra in testa che devo stare zitta, che certe cose non si devono dire. La mia ingenuità mi porta nell’occhio del ciclone sociale, cioè interi gruppi raccolti intorno a un leader mi si mettono contro: divento la vittima predestinata, il capro espiatorio, calunniata e odiata come una nemica pericolosa, da espellere, da tenere lontana, da evitare, da dimenticare. Non solo! Quando mi accorgo di avere sbagliato, di aver urtato la suscettibilità o di avere contrastato gli interessi di qualcuno, dovrei fare rapidamente marcia indietro o spiegare il mio pensiero, alzando magari anche un po’ la voce o sorridere e chiedere scusa. Nooo! Resto paralizzata, come una bambina che viene scoperta dalla mamma con le dita nella marmellata. Un’altra reazione, che vorrei avere e non ho, è l’indifferenza. Dovrei pensare: - Costoro che reagiscono così male non meritano la mia amicizia e neppure la mia stima. Troverò di meglio o me ne starò sola e soletta!
Invece mi torturo per non aver capito prima e previsto. Studio psicologia, psicanalisi, astrologia e pure fisiognomica e poi mi faccio odiare da tutti, senza odiare a mia volta. Sono una intellettuale sfigata, una che potrebbe accontentarsi di fare la casalinga, ma non si accontenta proprio, vuole andare oltre, saperne di più, conoscere a fondo e comunicare con sincerità… Nessuno mi capisce. Sono io fuori posto o è il mondo sbagliato? Sono troppo casalinga per essere intellettuale, cioè ragiono con la semplicità della casalinga e quindi con troppa schiettezza? Oppure sono una casalinga che ha la testa per aria e finisce per essere appena accettabile come casalinga… - andate dove ci sono tanti bambini e lì troverete le casalinghe perfette pure in competizione tra loro a chi è la più brava! intellettualmente invece brutale e inaccettabile. Forse sono semplicemente una donna con un cervello pensante e quindi molto fastidiosa. Sicuramente sono astrologa. Io, se do un po’ di spazio al mio Narciso, riesco addirittura a sentirmi una astrologa d’ingegno(!?). Verso i trent’anni, dopo studi apionati di filosofia al liceo, dopo una laurea e ricerche nel campo della fisica che ho intrapreso delusa dalla filosofia, inconcludente per me che volevo avere qualche idea certa sul mondo, dopo dieci anni di letture in campo psicanalitico iniziate per le delusioni della fisica che si riduce essenzialmente a matematica e perde di vista l’uomo con le sue emozioni e i sentimenti, dopo tutto questo, ho scoperto l’astrologia e sono rimasta fulminata. L’astrologia moderna, l’astrologia di Barbault, di Stephen Arroyo e di Rudhyar, riassume e semplifica la psicanalisi concentrandola in pochi simboli, pregni di significato. Per fare un esempio, quando si dice Saturno in astrologia, si dice ragione e ordine, si dice durezza e legalità, si dice eliminazione di fronzoli e di relazioni superate, si dice sofferenza e perdite necessarie, si dice povertà, fame e freddo, si
dice lavoro organizzato e responsabile, si dice anche aggio doloroso verso la felicità, si può dire anche morte… e si potrebbe andare avanti a elencare altro. Saturno che si realizza nel segno del Capricorno è la Città, l’organizzazione con leggi e regole severe che mette insieme individui e clan o famiglie per l’interesse collettivo e la difesa comune. Il freddo Saturno rappresenta quindi anche la civiltà e la società operosa e organizzata. In Bilancia, dove pure è forte, diventa la forma, il contenitore, l’immagine, l’apparenza e sembra una contraddizione rispetto al Saturno povero, freddo e senza fronzoli, invece il gelido Saturno si occupa, sì, di contenuti, ma esige che siano ordinati, chiari, rigorosi, introdotti in una cornice formale, affinché non nascano dubbi interpretativi. Saturno rifugge dalla confusione nella quale trionfa invece l’altro archetipo, Nettuno, che nuota nel caos e nella follia ed è il re dell’arte e della creatività. Saturno costruisce il futuro attraverso la privazione, Urano innova il presente per un futuro migliore e Nettuno attinge al caos per una rivoluzione totale. Saturno nella visione freudiana potrebbe essere il Super-Io che governa l’Es, l’istinto, e lo controlla, Urano è l’Eros che insorge per uscire dalle secche di Saturno, aprire le ali della libertà e dare un senso più emozionante alla vita, mentre Nettuno è,soprattutto, il disordine psicologico che è alla base della follia, ma anche di un radicale cambiamento: rifiuta l’ordine per un al di là immaginario e difficile che spesso diventa droga o follia, ma può trovare spazio in forme d’ arte, di spiritualità e di genialità. La scoperta dell’astrologia ha rivoluzionato la mia vita. Conosco il segno di nascita e spesso l’intero oroscopo di tutti, parenti e conoscenti, allievi e maestri, politici, attori e artisti. A scuola mettevo la data di nascita a fianco di tutti i miei allievi per studiare, capire e agire di conseguenza. Ho scoperto che l’astrologia è uno strumento insuperabile per conoscere carattere e personalità, motivazioni interiori e stati d’animo. E’ insufficiente, assolutamente insufficiente nella previsione di avvenimenti: si capisce, ad esempio, che una persona avrà un dolore, è già molto se si riesce a capire in quale settore della vita si verificheranno i fatti dolorosi, impossibile prevedere questi fatti. Un politico amico che lavorava bene sul territorio e che da anni era consigliere
comunale, nell’occasione di nuove elezioni mi aveva chiesto di fare una previsione sui risultati. Ho capito che l’esito sarebbe stato per lui disastroso e gli ho detto per non scoraggiarlo: - Tu meriti un buon successo e molti voti, meriteresti anche di ottenere più potere e una carica importante, ma in questo momento ti devi accontentare. Non è un momento del tutto favorevole. Sarai comunque eletto e più avanti farai carriera! Abbi fiducia. Non solo ebbe pochissimi voti (troppo onesto e bravo per fare politica!...), non fu eletto e, arrabbiato, mi disse che avevo cannato (“Lucia, intelligente come sei, come fai a credere nell’astrologia”, le sue precise parole…); non solo non fu eletto, ripeto, ma fu denunciato per presunti imbrogli nella raccolta delle firme, dovette pagare un avvocato per difendersi e si ruppe pure una gamba cadendo in montagna. Riguardando l’oroscopo tutte quelle disgrazie ci stavano, potevano starci: Marte in Dodicesima Casa può significare cadute, oltre che nemici nascosti secondo i testi tradizionali, e Giove in Settima può significare cause legali… Ma non è detto! Non ci avevo pensato. Nessuno ci avrebbe pensato. L’astrologia è vera e affascinante, ma non è un’arte divinatoria.
Allora, in definitiva, mi sento casalinga e astrologa oltre che intellettuale. “Sei tuttologa, ammettilo, sai tutto tu, dalla casa, agli astri, alla fisica e alla metafisica! Tutto!”, sussurra il mio presuntuoso Narcisetto,“ E ti contestano perché sei innovatrice, originale e anticonformista!”. Lo zittisco, naturalmente: “ Narciso mio! Non fare il pallone gonfiato! Mi fai diventare rossa, mi fai vergognare… Smettila!”.
Casalinga astrologa un poco intellettuale, allora può andare? Torna all'Indice
Lou Andreas Salomé
Lou Salomé, una donna di grande fascino e bellezza, vissuta nell’Ottocento, è sempre stata il mio mito anche prima che studiassi astrologia e scoprissi che, in un certo senso, mi assomiglia. Non per le vicende amorose che lei ebbe numerose e con uomini famosi, non per la vita dinamica e piena di successi in campo intellettuale, ma per gli ideali, il pensiero e anche lo stato d’animo che si può ricavare dai suoi scritti. Per chi sa d’astrologia aggiungo che siamo entrambe Uraniane, lei dell’Acquario con anche Venere in Acquario, segno governato da Urano, io con Urano strettamente Congiunto al Sole. Urano come tutti i Pianeti Lenti, ha molti significati per spiegare i quali occorrerebbero numerose pagine che pochi leggerebbero. Urano significa essenzialmente libertà e non libertà come gesto o comportamento, ma libertà che viene dall’animo e che questa donna dell’Ottocento difese sempre strenuamente contro le meschine maldicenze di cui fu oggetto, in tempi nei quali l’indipendenza della donna era considerata un sogno stupido di qualche tipo di donna fuori dal comune come la George Sand o più tardi l’americana Margaret Mead. Per capire il clima dell’epoca basti pensare che quest’ultima, nata cinquant’anni dopo la Salomé in America, ha dovuto lottare, nella sua qualità di antropologa, studiosa sul campo dei popoli primitivi, contro sociologi e filosofi del tempo che affermavano la dipendenza biologica della donna. Ripeto dipendenza biologica! Lei per prima aveva capito, ma tutti la contestavano, che la psicologia del singolo individuo dipende dalla cultura cui appartiene. Ad esempio presso i Ciambùli, una popolazione isolata dal mondo cosiddetto civile e sviluppato dell’ America del Sud, le donne e gli uomini avevano ruoli invertiti: le donne dirigevano e organizzavano e gli uomini obbedivano o se ne stavano inoperosi a chiacchierare e a fare il bagno: le baigneuses (le bagnanti) dipinte in tutti i modi da Picasso e altri pittori il secolo scorso, presso i Ciambùli sarebbero stati i baigneurs…
Ecco, i baigneurs che giocano nell’acqua in mezzo alle fronde, un po’ nudi e un po’ coperti, nel nostro mondo sarebbero ridicoli… ma è solo una questione di cultura! Insomma la donna considerata ancora oggi inferiore, nell’Ottocento per essere indipendente doveva aver una vitalità e una determinazione straordinarie. Lou Salomé (nata nel 1861, morta nel 1937), non si è mai sottomessa. Urano significa libertà e significa anche rifiuto. Congiunto a Venere o quando Venere è in Acquario, come per la giovane Lou, porta all’amicizia fraterna molto sincera e oblativa, ma al rifiuto deciso dell’amore fisico subìto ivamente senza desiderio. Molti giovani uomini come il pastore Gillot, il filosofo Paul Ree e poi il famoso Nietzsche si innamorarono perdutamente di lei che cercava la loro compagnia per l’amicizia e gli studi di filosofia e teologia, ma rifiutava con determinazione qualsiasi approccio amoroso di tipo fisico. Era amica sincera, li ammirava e li ascoltava, ma non li amava. Loro non capivano. La gente non capiva e diceva di lei che era una perfida allumeuse, una cinica seduttrice che infiammava i cuori per poi negarsi. Invece era spontanea e di diverso dalle altre donne aveva la sicurezza con cui difendeva la sua volontà. Negli scritti si dice stupìta, incredula e inorridita di fronte alle manifestazioni ionali di quegli uomini che erano per lei amici e maestri. Dopo le prime esperienze divenne più prudente e attenta a non suscitare interessi nei suoi confronti che non fossero quelli da lei condivisi, ma nello stesso tempo il suo innato desiderio di conoscere ( Urano è anche la ricerca della verità) la portava a girare il mondo per parlare con filosofi, poeti e studiosi che colmassero la sua sete di sapere. Era una intellettuale troppo bella, troppo affascinante. Gli uomini, anche i più intelligenti, anche i Nietsche, i Rilke, i Freud, abituati a vedere nella donna un oggetto di attrazione sessuale, si innamoravano di lei, e lei continuò a rifiutare i compromessi e coraggiosamente a non temere le conseguenze del suo comportamento dettato solo dall’ amore per la conoscenza. Amore della conoscenza travisato da quello che Margaret Mead avrebbe chiamato anni dopo cultura di appartenenza, una cultura maschilista. Si sposò con Carl Andreas perché lui aveva tentato il suicidio e la sua ione la spaventava e temeva potesse rivolgersi anche contro di lei. In sostanza si
sposò perché era stata minacciata, ricattata, costretta… Si difese di nuovo e il loro fu un matrimonio bianco per quarantatré anni, durante i quali lui ebbe una figlia dalla governante e lei numerosi amanti. Lou non era frigida, amava con ardore… quando si innamorava. Al poeta Rainer Rilke che amò intensamente scriveva: - Sono stata per anni la tua donna perché sei stato per me la prima realtà, uomo e corpo inscindibili uno dall’altro… Per questo siamo stati marito e moglie prima ancora di diventare amici, non per scelta ma per l’insondabile mistero di questa unione compiutasi quasi al di fuori della nostra volontà… (Da Autobiografia). Parole che riflettono lo stato d’animo tipico dell’innamoramento e della ione. Rilke, disturbato dai suoi demoni interiori che alternativamente lo esaltavano e lo angosciavano, si era andato legando troppo a lei e minacciava la sua indipendenza. In una lettera della Salomé di qualche tempo dopo leggiamo: - … Ho continuato a evolvermi, fino a giungere, per quanto strano possa apparire, a trovare la mia giovinezza. Perché ora sono giovane, solo ora posso essere quello che le altre donne sono a diciotto anni: veramente me stessa… Quando una donna trova la sua giovinezza, non è più innamorata, vuole essere libera e infatti lei si raffreddò e lui sposò un’altra. Urano per Lou Salomé era davvero incalzante, perché anche la Luna nel cerebrale segno dei Gemelli era Congiunta a Urano. La Luna racconta nell’oroscopo quali sono le condizioni nelle quali la persona si sente bene. Lou stava bene quando pensava (Gemelli) e quando si sentiva libera (Urano). Divenuta a cinquant’anni allieva di Freud, ha potuto approfondire la conoscenza della psiche come aveva sempre desiderato: aveva studiato la teologia, la filosofia e la poesia per capire l’animo umano. Con la psicanalisi aveva trovato il suo pane e divenne una brava psicanalista.
La ione dello studio e la ione amorosa entrambe vive e ardenti fecero di Lou Salomè una donna entusiasta che amava la vita. A settant’anni scriveva (La mia gratitudine per Freud, 1931): - La vita umana… ah! La vita, semplicemente la vita, è poesia. E siamo noi che la viviamo giorno per giorno, frammento per frammento, nella sua inviolabile integrità, inconsapevoli di noi stessi, ed è la vita che ci vive, che ci conduce… Dispiace che questa donna ottimista, piena di vitalità, indomabile nella difesa della sua indipendenza e amata da grandi uomini come poche altre, abbia detto prima di morire: - Se lascio vagare i miei pensieri, non trovo nessuno. Il meglio è dopotutto ancora la morte … Non dice niente, dice nessuno. Si era abituata ad avere qualcuno che la ispirasse che la conducesse lungo il cammino della conoscenza come lei desiderava, un maestro, una guida. A un certo punto non ha trovato più nessuno. Era pur sempre donna, mi chiedo io, abituata a dipendere? La bellezza seducente che mantenne fino a tarda età aveva favorito le sue relazioni, relazioni basate tutte su scambi intellettuali che arricchivano le sue conoscenze e le davano gioia. Arrivata la vecchiaia, non trovò più nessuno? Allora mi chiedo, la sete di sapere non era ancora colmata? Sì! Penso di sì! Difficile colmare quella sete quando è grande. Però nessuno non è niente come alcuni hanno voluto interpretare. Lei aveva ancora la lanterna in mano per cercare una verità che le sfuggiva, ma non era delusa. Aveva ancora entusiasmo e desiderio, le mancava il mezzo che per lei era il “qualcuno”.
Ho raccontato queste poche cose di Lou Salomé perché, nonostante le enormi differenze, non lo nascondo, mi sento simile a lei.
Credo che qualche minuto prima di morire penserò: - Accidenti, mi manca il tempo per ricostruire il karma di quel medico che mi ha visitato prima, con gli occhi dolci e teneri come il mio vecchio cane… E poi non ho ancora capito bene com’è la Luna in Vergine, Mercurio prevale o è oscurato dalla Luna… Non mi ricordo nessuno con la Luna in Vergine!... Devo pensarci con più concentrazione … Tornando alla Salomé, ci ha lasciato scritti ancora oggi d’attualità e interessanti. Ne cito due che io trovo profetici. Nella sua Autobiografia ricca di idee e confessioni sincere, scriveva: - Mentre questi uomini, queste donne, e i vecchi e i bambini mi avano accanto senza sospettare di nulla, la loro vita era già stata determinata, tutti loro possedevano già in quel momento la loro ata giovinezza e la futura vecchiaia, i loro antenati, i loro nipoti… L’idea che presente, ato e futuro possano mescolarsi perché sono già contenuti nell’inconscio e che la vita sia solo un espediente per conoscere e rivivere parti dell’inconscio, riorientando il cammino verso nuove mete possibili, è stata avanzata da Jung ed è oggi ripresa da studi psicanalitici e karmici. Ma se questo della Salomé è solo un pensiero vago, è più concreta l’idea espressa nel saggio intitolato Erotismo nel quale sottolinea la distinzione tra la “divina follia dell’amore sessuale che assieme alla creazione artistica e al fervore religioso fa parte dello stesso slancio vitale” e la “serena pace del matrimonio” che corrisponde invece all’esigenza del porto sicuro in cui trovare pace, sicurezza e rifugio dalla solitudine. Secondo la Salomé le due esigenze dovrebbero trovare spazio entrambe nella vita di ognuno. Sono ati centocinquant’anni, ma questa idea che lei aveva sperimentato coraggiosamente nella sua vita, non ha ancora trovato spazio nella società. Socialmente non viene accettato che il matrimonio e l’amore siano distinti: la famiglia da una parte e l’eros da un’altra. Spesso è così, ma avviene di nascosto. Lei avrebbe voluto che questa distinzione fosse accettata socialmente e potesse
realizzarsi alla luce del sole. Lou Salomè è stata una donna coraggiosa e così vitale da riuscire a sperimentare una vita familiare e sociale rivoluzionaria al punto che forse solo in un lontanissimo futuro potrà essere comunemente accettata, perché più in armonia con la vera natura degli uomini e delle donne. Una grande intellettuale e una grande donna, un esempio per tutte, nonostante quel non trovo nessuno che rivela la sua debolezza Acquario, segno simbolizzato da un uomo che versa acqua da un vaso, l’acqua del sapere senza la quale rimane solo la morte. Torna all'Indice
La lucidità e l'ardore delle grandi donne
Sto rileggendo gli scritti delle grandi donne dell'Ottocento e del Novecento e non mi sorprende e affascina solamente Lou Salomé. Mi colpisce Virginia Woolf, un'altra eccentrica Acquario, con valenze però Nettuniane invece che Uraniane. Se Urano dà il coraggio della libertà e della verità, Nettuno produce scetticismo, insoddisfazione e indifferenza di fronte ai valori comunemente accettati fino all'eccentricità più spinta, all'egotismo spirituale e anche alla droga e alla follia. Nettuno spinge a cercare valori che sono al di là del comune per cui il genio è Nettuniano e anche l'artista. Nella follia c'è sempre Nettuno. Ho avuto a che fare con molte persone con disturbi mentali, perché per circa dieci anni ho fatto volontariato in ospedale e ho potuto constatare che, quando il cervello si ammala, la persona non se ne rende conto. Tutti quanti, se abbiamo il mal di testa o il mal di schiena, cerchiamo un buon medico, vogliamo curarci e guarire. Se abbiamo le allucinazioni, se sentiamo voci di angeli e diavoli che ci dicono di correre chissà dove, se le persone che ci circondano e che fino a ieri ci erano buone amiche, ci appaiono sotto le spoglie di orribili mostri, invece di preoccuparci e correre dal medico, crediamo che sia tutto vero. Crediamo di essere diventati speciali, di conoscere la verità soltanto noi e se i cattivi, da cui ci sentiamo circondati, ci dicono che siamo malati, è perché sono malati loro mentre noi stiamo benissimo! La grande Virginia Woolf sapeva invece di essere malata, lo diceva e ne soffriva. La sua lucidità era impietosa. Prima di tentare per la terza e ultima volta il suicidio, annegandosi con pietre alla
cintola e in tasca nel fiume Ouse, vicino a casa, scriveva una lunga lettera al marito Léonard che aveva molto sofferto per la sua ambiguità sentimentale, ma che l'amava profondamente: - Sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora uno di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore (...) Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita (...) Hai avuto con me una infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono (...) Tutto se ne è andato via da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita... Parole di una sincerità meravigliosa, testimonianza, insieme alle sue opere, di una vita disperata ed eccezionale.
Altra donna straordinaria - straordinaria soprattutto per chi ama coraggio e sincerità - è stata George Sand (1804 - 1876) vissuta in pieno Ottocento. Scriveva meravigliosamente, oltre che con tenacia e dedizione giornaliera: non usciva dal suo studio prima di aver scritto ogni giorno almeno venti cartelle. Ciò che ammiro in lei sono le parole con cui spiega i suoi sentimenti, i desideri, il delirio dei sensi, le attese e le offese subite da un mondo maschile che godeva di una indipendenza sociale che la donna allora non aveva e di una indipendenza sentimentale che forse la donna non avrà mai per una diversità di natura. Scriveva nel 1870 ad una figlia adottiva: - Ricordatevi sempre che, quando l'uomo è superiore, egli è per la donna eccezionale, un amico impareggiabile, ma è lo stesso amante per tutte le donne e spesso il più perfetto per la donna più vile e più sciocca. In queste poche parole c’è una verità che spesso la donna dimentica: l’uomo, anche quello superiore, cerca ovunque il piacere dei sensi, la donna - eccezionale come dice lei - può avere molti amici , ma è devota, anima e corpo, ad un solo uomo. Aveva adottato un nome maschile, George Sand, al posto del vero nome Aurore Dupin, per affermare la sua indipendenza, per proclamare al mondo che lei al
contrario delle altre donne era autonoma, non dipendeva da un uomo. Quando nel 1848 le socialiste si avevano chiesto il suo parere sulla partecipazione delle donne alla vita politica e al voto e, naturalmente si aspettavano un parere positivo da parte sua, lei, deludendole e andando incontro a molte critiche, aveva risposto che no, non sarebbe stato utile far partecipare le donne alla vita politica perché esse non erano autonome: - Le condizioni sociali - diceva - sono tali che le donne non potrebbero mai lealmente e onorevolmente riempire un mandato politico (...) Essendo la donna sotto la tutela dell'uomo è assolutamente impossibile che essa presenti garanzie di indipendenza politica (..) Bisogna cominciare da dove si dovrebbe finire per finire da dove si sarebbe dovuto cominciare ... Lei era partita bene, aveva incominciato proclamando la sua indipendenza. Si era separata dal marito che, come scriveva alla madre nella Correspondance: - ... fa tutto quel che vuole, ha o non ha delle amanti secondo il suo appetito, beve del vino o dell'acqua secondo la sua sete... Io non entro nella sua vita... Ma è ben giusto che questa grande libertà di cui gode sia reciproca... Mi considero dunque pienamente indipendente. Ebbe numerosi amanti dei quali scriveva sempre con la massima sincerità e con un candore sorprendente anche ai nostri tempi. Possiamo immaginare le critiche feroci che la colpirono allora. In un romanzo giovanile (Lélia) descrive così la sua ione associata a impotenza e frigidità: - Accanto a lui mi sentivo divorata da un fuoco inestinguibile, che i suoi baci non riuscivano a spegnere. Il desiderio era per me un ardore dell'anima che paralizzava la sensualità, ben prima d'averla risvegliata; era un furore selvaggio che si impadroniva del mio cervello (...) Quando egli si assopiva, disteso e soddisfatto, restavo immobile e costernata al suo fianco. Ho ato delle ore a guardarlo dormire. Mi sembrava così bello (...) Mi pareva allora di percepire i brividi del desiderio fisico... ero tentata di svegliarlo, di prenderlo tra le braccia, di suscitare le sue carezze di cui non avevo saputo godere... Parole delicate, leggere, disinvolte eppure poetiche, per descrivere i dettagli di uno stato d'animo complesso in una situazione scabrosa, ma naturale. C'è la
volontà di capire "cosa c'è dentro" nei momenti più intimi dei rapporti. Cosa succede alla donna e cosa succede all'uomo. Anche George Sand cercava la verità. La maturità sentimentale e sessuale arriva intorno al 1835 con la ione per Michel De Bourges un uomo infedele e geloso al quale in una lunga lettera spiega che gli uomini, anche quelli più rispettabili, tradiscono migliaia di volte senza confessarlo o trovare giustificazioni e conclude: - Io, se vi fossi stata infedele, vi confesserei il mio errore e sopporterei senza batter ciglio le conseguenze del mio comportamento (...) ma ciò che mi ha preservato da tale atto, frivolo in se stesso, ma incancellabile per chi ama, non è quella che le donne chiamano la loro "virtù", bensì l'amore che sento per voi e che mi fa provare un insormontabile disgusto all'idea d'esser abbracciata da un altro uomo. Aveva capito, superate le illusioni giovanili, che la libertà di cui gode l'uomo non è solo quella sancita dalle regole di una società maschilista, ma forse una libertà più profonda radicata nella stessa natura del maschio. Conclude con amarezza in una lettera a De Bourges. - Mi è odioso pensare che quel corpo così bello e adorato, impregnato dalle mie carezze, tante volte rianimato dai miei baci, dolorante dei nostri deliri e guarito dalle mie labbra, venga sporcato dal ventre di un'altra... Quando mi tuffo attraverso queste belle letture nelle riflessioni che scrittori, scrittrici e filosofi hanno fatto sulla natura dell'uomo e della donna, sui loro rapporti e sul futuro possibile dell'emancipazione femminile, non posso anzitutto dimenticare da dove siamo partiti. Il grande Platone, uno dei miei filosofi preferiti, osava scrivere in lungo e in largo con la massima convinzione della inferiorità della donna utile solo a lavorare e procreare. Gli uomini superiori praticavano ad Atene la pederastia secondo regole che Platone e Socrate avevano accuratamente studiato e spiegato nel Simposio. Scriveva sfacciatamente, ma lui ci credeva:
- Se la natura non avesse voluto donne e schiavi, avrebbe dato alle spole la qualità di filare da sole (Le leggi, libro VII, 350 a.C.). Aristotele era ancora più irritante, nel suo spirito didascalico: - Il maschio è per natura superiore, la donna inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata, poiché le virtù essendo equamente distribuite, nell'uno vi è il coraggio della decisione, nell'altra quello della subordinazione (Politica, libro I, 335 a. C.). Anche il simpatico J. J. Rousseau che credeva nel "buon selvaggio", non vedeva la donna sotto una luce diversa: l'uomo per sua natura sarebbe buono e la donna per sua natura sarebbe al suo servizio. Dice: - Tutta l'educazione delle donne deve essere relativa agli uomini. Piacere ad essi, esser loro utili, farsi amare da essi, allevarli quando sono giovani, curarli quando sono adulti, consigliarli, consolarli, render loro dolce e piacevole la vita, ecco i doveri della donna in tutti i tempi, ecco ciò che si deve insegnare loro fin dall'infanzia (Emile ou de l'éducation, 1762) Bisogna arrivare a Freud per leggere qualcosa di onesto e serio in questo campo, anche se per me l'immagine astrologica dei rapporti tra uomo e donna resta la più completa e convincente. Il Sole, maschile, con tutta la sua ricchezza di energia e di luce trionfa nel cielo di giorno e, di notte, a la sua luce alla Luna, femminile, regina della notte. Il ciclo della Luna, da Nuova (quando si congiunge al Sole in un amplesso simbolico) a Piena (quando si confronta col Sole, splendente come lui in una simbolica gravidanza), fino a Disseminante e poi Vecchia e Vecchissima, è una grande storia d'amore nella quale i due astri, hanno ruoli diversi, altrettanto importanti. La luce abbagliante e rigorosa del giorno, la luce del Sole, mostra la realtà cruda delle cose in maniera impietosa, separa gli oggetti e li distingue, i piccoli, i grandi, i rossi e i verdi. Mostra le differenze, mentre la luce leggera della Luna si diffonde sulle cose confondendo il vicino col lontano, mescolando i colori, rendendo illusoriamente grande ciò che è piccolo.
Il Sole separa, divide. La Luna unisce, assimila, avvicina. In una società, in una famiglia dove le diversità, i contrasti, i divari, i conflitti sono all'ordine del giorno, la funzione della Luna, e quindi della donna, sarebbe quella di tenere insieme, di allentare le tensioni e portare alla collaborazione. E' quello che fa tradizionalmente la mamma in famiglia. In società, un tempo, la donna era presente solo nei salotti, ben vestita e abile nell'intrattenere; oggi, può anche svolgere compiti sociali e politici, ma non sembra ispirarsi alla Luna astrologica. Non ha ancora trovato il suo equilibrio e il suo ruolo "lunare". Spesso imita l'uomo nella lotta per il potere. Spesso fa mostra della sua bellezza per attirare l'attenzione del maschio potente e attraverso di lui, arrivare al successo, cioè si fa oggetto e dipende. Avremmo bisogno di grandi mamme, di matriarche come era George Sand o meglio Aurore Dupin (confessava che il nome maschile l'aveva favorita inizialmente presso gli editori e che comunque le faceva comodo perché l'abbigliamento maschile era più pratico e meno dispendioso di quello femminile). Ad una amica giovane che le chiedeva se avrebbe potuto essere felice con il matrimonio e la maternità rispondeva con schiettezza che sicuramente no, non sarebbe stata felice. "E tuttavia l'amore e la maternità sono gli atti più necessari, più importanti e più sacri nella vita della donna". - Al vostro posto - concludeva - non avrei, per me, che un modo di risolvere le difficoltà: non penserei affatto alla mia felicità. Ecco la soluzione: non bisogna pensare alla propria felicità. Invece oggi tutti vorrebbero essere felici, donne e uomini, avere riconoscimenti, sentirsi importanti, avere soldi e successo e una immagine pubblica famosa, salire su un qualche palcoscenico. Essere qualcuno. Eppure la Luna di notte splende ancora, sempre uguale, come secoli fa. Umile e forte cresce fino a raggiungere la pienezza ambita e poi pian pianino si spegne sacrificando tutta se stessa ai figli che cresceranno al posto suo nutriti dalla sua
generosità, fino a morire e rinascere in un ciclo che si ripete rinnovando continuamente cielo e terra. Mi chiedo se tutto questo non abbia più il significato simbolico che ha avuto nei secoli e sia invece soltanto una faccenda astronomica come vorrebbero gli scienziati più aridi. Sarebbe triste. Torna all'Indice
La morte dell’Orso
Gilberto è un bell’uomo sui cinquant’anni e organizza eventi nella zona in cui abito. Insegna nelle scuole medie, dirige il doposcuola in parrocchia, raccoglie fotografie storiche della vecchia Milano che ingrandisce, incornicia ed espone nella sala della biblioteca, corredate da didascalie sintetiche e significative. Mi ha colpito quando l’ho visto la prima volta perché stava in piedi davanti ad alcuni quadri. Stava lì, muoveva un po’ la testa, ma era fermo, non si spostava. Gli altri visitatori giravano intorno, guardavano, commentavano e parlavano. Lui no, sempre lì davanti allo stesso gruppo di quadri. Mi sono avvicinata. Le immagini erano consuete ma belle: balconcini fioriti con uno scorcio d’acqua del Naviglio sullo sfondo, gerani rossi in cassette vecchie di legno scuro, un orto coi solchi ordinati, le verdure dalle foglie lucide e i pomodori rossi maturi. Ho riconosciuto anche una bella villa, vecchia sede del Comune di Crescenzago, un borgo oggi parte di Milano e un tempo autonomo. Mi sono presentata, lodando la mostra che lui aveva organizzato insieme ad altri e lui, incoraggiato dalle mie lodi, mi ha fatto l’elenco di tutti i suoi meriti e delle iniziative di cui era stato l’animatore: corsi di poesia, gare, concorsi, gite culturali anche all’estero, raccolte di racconti storici, corsi di arte e storia all’Umaniter e altro ancora. Pensando che volesse coinvolgermi nelle sue innumerevoli imprese, mi sono messa a disposizione per collaborare nel campo storico letterario. Gli ho chiesto poi il segno astrologico, come faccio sempre con una persona appena conosciuta, ottenendo in generale una pronta risposta. La maggior parte delle persone dice di non credere nell’astrologia e alcuni esprimono un profondo disprezzo per questa disciplina, però tutti sono solerti nel rispondere quando chiedo il segno. - Sono Bilancia! E allora? - disse lui. - Ecco perché rimirava quei quadri! C’è un qualche aspetto formale che non la convince. Per il Bilancia la forma è essenziale. Bilancia vuol dire equilibrio, un
equilibrio prima di tutto formale – osservai… - Quelle fotografie, vede, hanno troppe linee orizzontali e verticali in evidenza, non c’è armonia… Non sono foto professionali. Sono di un dilettante! - Ah! A me non dispiacevano… Mi faccia vedere le sue fotografie! Ci terrei a capirci qualcosa, non mi sono mai interessata di quest’arte. - Brava! Si tratta proprio di un’arte, come la pittura. Io sono anche pittore, ma preferisco la fotografia. Le sue fotografie erano perfette con luci e colori così coordinati tra di loro da impressionare l’osservatore come se uscissero dal quadro e lo investissero. Alcune foto erano provocatorie con spruzzi d’acqua in primo piano, i fiori apiti e un grosso verme su una foglia larga. - Sono due stili diversi - commentai – il dilettante racconta la vita quotidiana nei suoi momenti di poesia e di bellezza dovuta alla cura dell’uomo che si impegna per ornare con gusto un balconcino, far crescere nell’orto verdure belle e buone e guarda anche con nostalgia al ato, un esperto come lei invece produce emozioni più raffinate, mi pare che racconti la perfezione del creato e anche i pericoli che lo minacciano… Mi ascoltava mentre parlavo, con una mano alzata e gli occhi fissi, come se desiderasse fermarmi temendo un qualche giudizio negativo su di lui. Poi proruppe: - Il dilettante non è un artista! Tutti possono fare una foto carina. L’arte è un’altra cosa… Occorrono ore per fare una bella fotografia!... Aggiunse adirato con un mezzo sorriso: - Lei è un’esperta per giudicare? Non ha capito niente. Se uno non è esperto è meglio che stia zitto. Lei come si permette di giudicare? Le mie fotografie sono pubblicate su riviste internazionali. Si informi prima di parlare! Sorpresa di tanta aggressività e intimidita, ho chiesto scusa e me ne sono andata. Avrei dovuto dirgli che sono abituata a esprimere le mie sensazioni quando vedo qualcosa, anche un paesaggio naturale, e che lui non avrebbe dovuto prendersela
perché è spontaneo per un osservatore sensibile raccontare le proprie emozioni. E poi non avevo detto niente di offensivo! - Maleducato! - dovevo dirgli e pure ripetergli. Non l’ho fatto perché sono timida e impacciata e perché l’aggressività imprevista e la maleducazione, sono per me micidiali, un veleno fulminante, tossico che mi paralizza. So che non siamo tutti uguali, che la gentilezza dovrebbe essere alla base dei rapporti, ma per paranoie più o meno patologiche, non è sempre così. Alcuni si difendono da aggressioni immaginarie, mentre io non so difendermi da aggressioni reali. Pazienza! Del resto ho quasi sempre avuto a che fare con Bilancia antipatici e questo famoso Gilberto confermava la regola: un bell’antipatico, bello e antipatico! Secondo lui non solo avrei dovuto lodare il suo lavoro, ma avrei dovuto giudicare negativamente il dilettante. Antipatico, presuntuoso, cattivo! Per un anno evitai di incontrarlo, nonostante amiche e conoscenti parlassero sempre di lui come di una persona colta e importante. Lo rividi ad un incontro, insieme ad altra gente del quartiere, nel quale si parlava di problemi di viabilità. Oggi questi problemi dividono la popolazione che in generale ha scarso senso civico. Nessuno vuole il traffico sotto casa. Tutti vogliono il verde, le piante e i giardini e il traffico caso mai sotto le case degli altri. Interessi meschini producono liti da finire con gli avvocati in tribunale. Secondo il buon senso il traffico andrebbe distribuito in modo da distribuire equamente anche il disagio conseguente. Invece i più furbi utilizzano la presenza sulla loro strada di un monumento o di una scuola per avere isole pedonali sotto casa o almeno zone a 30 km/h con sensi unici e vantaggi simili. Io che amo la giustizia di solito non partecipo a queste assemblee che mettono in luce l’egoismo più bruto e odioso e la grettezza diffusa. Preferisco ascoltare la gente quando è serena e rilassata e non teme per i propri
interessi e quindi si mostra nella sua vera natura. La paura e la rabbia trasformano e incattiviscono, mentre nella realtà di tutti i giorni la maggior parte delle persone sono più buone di quel che sembrano. Quella volta ho partecipato con l’intenzione di stare zitta, ascoltare e divertimi del teatrino che avrebbe sicuramente avuto dei risvolti buffi. Mi sono accorta che il superfotografo di nome Gilberto si era schierato con un gruppo, costituito da una associazione di architetti e famiglie di rilevanza sociale nel quartiere, che per avere un’area pedonale vicino a casa, caricava di traffico la strada sotto casa sua. Non capivo come mai lui che avrebbe avuto più traffico, potesse essere favorevole e io, quando non capisco qualcosa, mi impunto. Il desiderio di capire tutto è troppo grande, così dopo la riunione mi sono avvicinata e gli ho chiesto ragione della sua adesione alla proposta. Se mi avesse risposto con aggressività, non me la sarei presa perché… era già successo. Mi ha risposto evasivamente che avere nel quartiere un’area pedonale sarebbe stato un vantaggio per tutti. - E’ sicuro che i suoi vicini, centinaia di famiglie mi pare, la pensino come lei? Io avrei dei dubbi - osservai… - Lei dice così perché abita un po’ più avanti sulla stessa strada e ha paura che aumenti il traffico anche da lei! - Nooo! Ho già sentito la Vigilanza e non c’è l’intenzione di fare quell’area pedonale, perché tutte le strade intorno sono strette e non sopporterebbero un aumento di traffico. - Lo so, anch’io ho già parlato con la Vigilanza! Aaah tutto chiaro! Sapeva che non c’era il pericolo del traffico sotto casa e non gli costava niente compiacere gli architetti e i loro amici dell’associazione. L’uomo dava valore al rango sociale. Non gli importava il bello, il brutto, il vero e il falso. Si era arrabbiato con me l’anno prima perché io non sono nessuno. Se fossi stata qualcuno mi avrebbe lodato per la mia originale interpretazione. Era un vanitoso, un Narciso, un egocentrico, un leccapiedi chissà con quali interessi nascosti… Io per segnalare la mia diversità, mi sono rivolta, strada facendo, ad uno degli
architetti dell’associazione dicendo con noncuranza: - Il Prof. Gilberto ed io abbiamo già sentito la Vigilanza e l’area pedonale che vi sta a cuore non si può fare. Troppo traffico!… Poi di fronte a me c’è una scuola e si potrebbe chiedere la pedonalizzazione anche lì. Eliminiamo le auto, architetto! In città si va in bicicletta! E’ d’accordo?! Sparirono tutti con o veloce, Gilberto e gli architetti. Incontrai una vicina sotto casa, una cara amica, una che ha le sue idee e le difende con determinazione. Eravamo state insieme alla Vigilanza a informarci e mi disse di sapere per certo che Gilberto sarebbe stato nominato presidente della Associazione Architetti e Cittadini, quella appunto che voleva l’area pedonale. La vecchia presidente una donna equilibrata e saggia era stata costretta a dimettersi.
Quella notte feci per la prima volta uno strano sogno molto significativo che ho fatto altre volte e che oramai so interpretare con grande disinvoltura, anche se non ho imparato a cambiare il mio comportamento al fine di evitare che il brutto sogno si ripeta. Un grosso orso in piedi con gli artiglioni pronti e la bocca aperta, lotta su una specie di palcoscenico luminoso con gradini alti, contro un lupo nero con gli occhi luciferini che emettono luce verde come se fossero due piccoli fari. Nel sogno sono uno di fronte all’altro. Il grosso orso assomiglia un po’ ad un peluche molto grande che avevano regalato a mio figlio quando era piccolo, con il pelo marrone sulla schiena e chiaro sulla pancia. Tutta la scena è a metà tra il cartone animato e una vera lotta tra animali veri. I due si avvicinano, si scontrano e il lupo sparisce. L’orso barcolla, apre disperatamente la bocca, si contorce, si piega sulle ginocchia e poi si corica appoggiandosi ad un alto gradino e si irrigidisce. Solo la sua pancia si muove su e giù: il lupo lo sta divorando dall’interno. Il sogno mi procura una tale sofferenza che mi sveglio e non posso fare a meno di pensare. L’interpretazione può essere più o meno raffinata.
Secondo Freud il sogno avrebbe un significato sessuale. Lui diceva che gli animali feroci nei sogni sono sempre legati alla ione e agli istinti sessuali e la lettura sarebbe del tipo: i due animali si congiungono ma l'amplesso porta sofferenza invece che gioia. Poiché secondo Freud nei sogni si realizzano i desideri insieme alle paure che sempre vi si accompagnano; io avrei sentito attrazione per qualcuno (Gilberto?!) e insieme il timore di soffrire molto per colpa sua. Una storia d'amore insomma, desiderata e temuta e, per quel che ne so, del tutto inconscia. Possibilissimo! L'uomo è un essere complesso e il padre della psicanalisi è riuscito a far luce sui suoi misteri come pochi altri, ma se l'interpretazione deve tener conto, come diceva lo stesso Freud, del contesto in cui il sogno è avvenuto, cambia tutto. Rappresenta chiaramente una lotta nella quale nessuno vince. Una lotta nella quale il nemico è dentro di noi. Una lotta dolorosa con se stessi. Una lotta con un nemico così perfido che tu puoi divorarlo, ma lui ti uccide dall’interno. Il nemico ti mette così dolorosamente alla prova che ti consuma da dentro. Si dice:"Io quello me lo mangio...", invece quando quello ha successo, il rodimento è tale che si è mangiati... I due animali potrebbero essere due aspetti opposti della mia personalità, due "Io" distinti di cui uno inconscio o subconscio. Consapevolmente io sarei forte e possente, superiore e indifferente alle megalomanie dei palloni gonfiati che cercano ossessivamente successo, onori e riconoscimento. In realtà mi fa soffrire il successo immeritato e ottenuto con malizia. Effettivamente faccio questi sogni non quando sono innamorata, ma quando il mio Ego viene messo a dura prova. E’ forte, resiste, elimina l’avversario, lo fa sparire, lo annulla, ma poi soffre. E’ il mio Ego che soffre divorato da un altro Ego. Si contorce e si piega.
Ego, terribile Ego! Io vorrei distruggerlo, abbatterlo, eliminarlo! Come sarebbe più buono l’uomo se non avesse l’Ego! Bisognerebbe tutti fare qualcosa, per rendere inoffensivi questi Ego - sua maestà l’Ego, diceva Freud - che ognuno si porta dentro. Invece non se ne parla. I guru dicono che bisogna pensare positivo, cioè in sostanza bisogna credere che il nostro Ego potrà prima o poi vincere, avere successo, trionfare, rendendoci felici. Ma un Ego che trionfa ne mette in crisi mille altri, perché per trionfare occorrono delle qualità che non tutti hanno, oppure la furbizia, magari l’inganno e chi non trionfa si sente ingiustamente colpito, oppure umiliato, perde l’autostima o è semplicemente invidioso. Soffre e fa soffrire. Povero Orso morire così! Non dovrebbe succedere. Torna all'Indice
Giuseppe, una roccia
C’ho provato a chiamarlo Gep come lo scrittore di La Grande Bellezza, il famoso film di Sorrentino premiato con l’Oscar. Ma lui no! - Mi chiamo Giuseppe io!-, dice quasi offeso. Certo! Giuseppe Gambardella, il protagonista del film, è tutt’un altro tipo. E’ interpretato da Toni Servillo, mimica ironica, faccia fredda, da intellettuale ambizioso e annoiato. Il film racconta che Gep, dopo un primo romanzo di successo, non riesce più a scrivere. E’ venuto a Roma dalla provincia per cercare emozioni più intense: la grande bellezza appunto… Entra nei salotti, studia, interroga e mette in crisi, con la sua mente lucida, uomini di potere e donne senza pudore, scava nelle coscienze, è spietato e si ritrova alla fine nudo e perso, senza meta, come il trenino, allegro per finta, che chiude le feste da ballo mondane di una Roma vecchia e traviata, disperatamente ipocrita. Una Roma tutt’altro che bella! Gep non è meglio degli altri, ha dentro, anche lui, lo squallore di un mondo pieno di soldi rubati e di apparenze che nascondono marciume, un mondo privo di ione e di profondità. Il mio amico Giuseppe no! Non è così. Lui crede in quello che fa. Scrive con ione, pubblica racconti e romanzi, ama l’arte, ha il gusto della forma, cerca la bellezza, come Gep, ma non ha bisogno di andare lontano: un bell’animale, una cascata di glicine, un palazzo storico lo affascinano. Fotografa, descrive, racconta… Gli altri guardano, ascoltano e lo ringraziano. E’ un leader. Lo incontro per strada: - Eeeehi… - dico io - come va?...
- Non mi chiamo “Eeehi”… mi chiamo Giuseppe -, ci tiene a precisare.
Sta scrivendo un romanzo che mi piacerà moltissimo. Parla di un argomento drammatico: la miseria dei contadini, una miseria millenaria vissuta tra atroci carneficine e grandi eroismi nelle terre del Sud, terre dimenticate, calpestate per secoli dai prepotenti e intrise del sangue e del sudore della povera gente. Gli dico: - Quando scrivi tu, non concedi tregua. Se il racconto richiede mezz’ora, il lettore sta lì mezz’ora. Se richiede un’ora, per un’ora il lettore non si stacca… Quando sarà pronto il tuo nuovo romanzo di quattrocento pagine, mi preparerò, panini e coca cola, per qualche giorno. Lui ride, poi, improvvisamente serio, sbotta: - Sono ritornato alle mie radici, anch’io, come nel film di Sorrentino, consigliava la santa vegliarda che mangiava solo radici. Il vuoto interiore dei tempi in cui viviamo è devastante! - Importante è la ione Gep! Pardon, Giuseppe!... tu sei una roccia...-, gli dico e lo guardo negli occhi. E’ diverso dal solito: ha le palpebre abbassate, semichiuse, come quei lucertoloni dalla livrea smagliante, spavaldi in maniera ambigua. Indecisi se esporsi al sole facendo brillare i colori, oppure ritirarsi in un qualche anfratto. Mi chiedo se sogni anche lui qualche volta l'orso col lupo dentro che lo divora, ma penso di no. Forse lui sogna di lottare col lupo: artigliate, morsi, ululati e sangue... Poi si ritira orgoglioso in un angolo a leccarsi le ferite. Per capire gli chiedo quando è nato e guardo le effemeridi. Ha la Luna in Leone. Ha bisogno di essere forte, deve sentirsi vincente per stare bene. Il suo Ego fa marcia indietro ogni tanto per recuperare le energie e tornare sul palcoscenico
più forte di prima. Sogna sempre di dominare i suoi lupi. Soffre meno di me e fatica di più. Inutile la mia sofferenza e inutile la sua fatica, ma non ce ne rendiamo conto. Torna all'Indice
La nostalgia di Guido
Guido ha gli occhi di fuoco. Sembrano due braci. Dice “La giustizia per me viene prima di tutto” e le braci si accendono. L’ho conosciuto per caso. Non so cosa abbia fatto nella vita. Adesso è in pensione. Legge molto, scrive e studia. Aggiunge: - E’ ato tanto tempo, tutto è cambiato. Il comunismo è considerato un’ideologia autoritaria e superata come il fascismo. Io però sono ancora comunista. La giustizia e l’eguaglianza vengono prima di tutto…” - e i suoi occhi brillano. - E l’amore , l’Amore con la A maiuscola, non è importante? - , gli chiedo. - Quando sei così povero che devi scegliere tra la fame e la galera, l’amore è solo una parola. - Hai nostalgia del Sud?… - Il sole, la campagna, la terra… pane e cipolla sul muretto dell’orto, sono un tenero ricordo. Ma non c’era futuro, non c’era speranza. - Le lotte sindacali?… - Tante! Per cinque lire ai poveretti, mentre i ricconi hanno sempre rubato. Non c’è niente da fare! Ci vuole il comunismo! I suoi occhi guardano lontano, pieni di segreta ione e di nostalgia.
Guido, con le sue illusioni - che sono solo illusioni mi rendo conto -, mi ispira fiducia e mi fa sperare. Torna all'Indice
Nicoletta e l'esercito
Nell’esercito un C3 è un comandante di livello molto alto: Comanda, Controlla, Comunica. E’ un’autorità indiscussa. In poche parole gestisce lui l’esercito. Decide i piani di guerra, le tregue e la pace. Comunica con efficacia, convince. Nicoletta non ha a che fare con nessun esercito. E’ una giovane donna, una dolce mammina e una brava scrittrice poetica e fantasiosa. Ha inoltre due occhi molto belli e uno sguardo dolce e seducente. Chissà perché allora sono convinta che sia un C3, nascosto accuratamente, mascherato abilmente e truccato. Stelline di luce negli occhi, un’aureola azzurra tra i capelli morbidi, una cipria fine sul viso che profuma di marzapane e di mandorle dolci cosicché la sua bocca sia pronta al sorriso e alla grazia. Dentro, l’acciaio di un generale di corpo d’armata: un C3. - Nicoletta – le dico – hai scritto un racconto delicato, molto bello con figure che sembrano prese da un quadro di Rénoir! Io amo Rénoir: non potevo farle lode più grande. Lei sorride e mi fa capire che non sono nessuno per giudicare il suo scritto: - Solo il maestro può dire se va bene! Ha indubbiamente ragione. Ha assolutamente ragione. Seguiamo un corso insieme con un bravo maestro. Lei è giovane, io vecchissima. Lei è un soldatino aspirante generale come ero io a trent’anni, io rido e dico quel che mi pare come ai tempi del liceo.
Penso a quello che diceva sempre Picasso quando era vecchio: “ Ci vogliono molti anni per diventare giovani…”, diceva…
Con le sue doti Nicoletta tra qualche tempo, avrà il suo piccolo esercito e le auguro di essere anche in pace. Torna all'Indice
Felicemente zitelle
sca, per tutti Franci, è una giovane di trent'anni allegra e simpatica, sempre un po' su di giri che esplode in risate fragorose e in esclamazioni di gioia con meravigliosa leggerezza e sorprendente spontaneità. E' amica di mia figlia Carolina e quando sono insieme è un piacere ascoltarle e guardarle. Si trasmettono l'allegria l'una con l'altra e sembrano due bambine felici. Abitano entrambe in Liguria in cittadine di mare e, nonostante io non ami le spiagge assolate, i sassi, le rocce, la sabbia e tutte quelle cose che loro invece adorano, le seguo talvolta in spiaggia contagiata dalla loro fresca allegria. - Facciamo il bagno Franci? - Dàaai... bellissimo!... - e la vedi girare su se stessa, facendo roteare i capelli ricciuti, poi prendere per mano Caròl e via verso l'acqua saltellando e ridendo. Vado anch'io in acqua, il bagno mi piace. Siamo in una spiaggetta tra Noli e Spotorno, l'acqua è trasparente, le rocce sono lisce e anche una nuotatrice scarsa come me riesce pian pianino a tuffarsi e a fare una nuotatina. Loro sono lontane. Si vedono appena le testoline. Nuotano insieme ad altre persone e io sono contenta che abbiano trovato compagnia. Quando tornano sono seguite da due giovanotti grandi e grossi. Uno è un ragazzo giovane, forse uno studente, dall'aspetto fine, alto, magro e con gli occhiali, l'altro sui trent'anni si chiama Dan, è robusto, chiacchiera e ride. Sembra un tipo estroverso e semplice. Io mi allontano. Mi seggo al bar, bevo qualcosa e scrivo un racconto. Giorni prima avevo visto a Milano un topo che sulle rive del Naviglio Martesana stava fermo nonostante l'acqua nel suo lento movimento talvolta lo sommergesse completamente. L'acqua era giallastra perché aveva piovuto per giorni e giorni e la terra degli argini aveva ceduto mescolandosi con l'acqua. Avevo guardato a
lungo quel topino paralizzato e avevo pensato che avesse perso qualcosa: o la sua tana che magari era a pelo dell'acqua e dopo i temporali era stata sommersa, oppure la sua compagna. Così ho scritto la storia di un topino innamorato che, abbandonato dalla compagna, si lascia morire nell'acqua. Mentre scrivevo, guardavo i ragazzi. Mia figlia Caròl e il giovanotto con gli occhiali ascoltavano musica con la cuffia collegata a un trasmettitore. Franci e Dan parlavano e ridevano. Mi avvicino, saluto tutti e mi presento. - Abbiamo visto che scrivevi. Leggici qualcosa! - dice Carolina. - Se volete, ma è triste. E' un topolino che muore per amore... - Esagerata! Ti piacciono le tragedie, mamma!... - No! Bellissimo! Legga... poi facciamo un altro bagno... Leggo e durante la lettura, mentre descrivo le pene d'amore del topo, sca prorompe in esclamazioni di giubilo: - "La guardava con amore..."... oh! che bello! - "Le prendeva le zampine e l'invitava timidamente nella sua casetta"... Oooh! Stupendo! - "Tremava in attesa di lei, il desiderio non gli dava tregua!", ooh...ooh sca gioiva e rideva immaginando di essere lei l'oggetto di tanto amore e desiderio, mentre Dan sorpreso, a sua volta rideva delle reazioni di lei: - Ha ragione Caròl, un topo così non l’ho mai visto neppure tra gli uomini! - Sei insensibile! - ribatteva sca imbronciata. La storia finisce col topino disteso nella tana sul lettuccio dove aveva amato la sua bella mentre l'onda, piatta, lucida, giallastra del Naviglio entra e lo copre. Definitivamente.
Disapprovazione generale! - Noooo! Cambi il finale! E' crudele. - Come ti vengono in mente certe cose mamma! - Potrebbe essere un'opera lirica, dove finisce sempre tutto male! - Bisognerebbe comporre la musica e camuffare i cantanti da topi, lei coi riccioli biondi dietro le orecchie e lui con gli occhi languidi e la coda che trema mentre canta.-, diceva Dan. Il ragazzo più giovane lodava il racconto e aggiungeva: - Lei è brava, per carità, ma su di morale!... un po’ di ottimismo! sca sembrava si divertisse un mondo e, ad un certo punto, mi ha buttato le braccia al collo, felice del bel pomeriggio. Durante il ritorno in macchina ho chiesto se i ragazzi erano simpatici e di loro gusto e di cosa avessero parlato e se si sarebbero rivisti in futuro. - Certo, ci rivedremo! Ma non credere mamma, sono ragazzi che vogliono divertirsi, sono milanesi, qui in vacanza -, disse Caròl. - Niente di speciale! - commentò Franci - Nessuno dei due è il mio tipo. Mia figlia mi racconta un po' le sue storie e so che resta regolarmente delusa dagli uomini che conosce e che sca è ancora più esigente di lei. Trova da ridire su tutti i corteggiatori: uno è brutto, l'altro è volgare, l'altro ancora è possessivo e toglie la libertà eccetera. Va a finire che dico: - Voi siete come la topina del mio racconto... Esercitate tutto il vostro fascino sui poveri uomini, ma vi piace la libertà. Resterete felicemente zitelle! Non l'avessi mai detto! Quella pazzerella della Franci si è inalberata come se avesse ricevuto uno schiaffo e, mutata d'umore in un baleno, mi ha sparato in faccia insulti terribili:
- Ho capito perché sua figlia la odia, non la sopporta ed è scappata di casa per non avere a che fare con lei. Dovrebbe aver capito che io e Caròl desideriamo più di ogni altra cosa trovare la persona giusta con cui condividere la nostra vita e ci dice che saremo zitelle. Lei è crudele, spietata, non ha cuore. Povera Carolina con una mamma così!... Era pallida e mi guardava con gli occhi cupi. - Scusa cara Franci, io scherzavo. Era una battuta. Siete due ragazze belle, brave e simpatiche con tante qualità e se volete trovare l'amore, lo troverete. Magari dura poco! E’ normale! Sposarsi anche! Non è il massimo!... Basta volerlo!… - Lei vuol fare la spiritosa, la vecchietta spiritosa che insegna ai giovani. Dice felicemente zitelle per scherzare e intanto dice che siamo zitelle, si dovrebbe vergognare e vuol darci lezioni sull'amore e il matrimonio... Se lei ha fatto degli errori, sono affari suoi. Noi non vogliamo fare questi errori e non li faremo! Ondeggiava le spalle, guardava da un'altra parte e sbatteva i capelli. Arrabbiatissima. - Brave, bravissime -, ho replicato, mentre mia figlia mi diceva che lei non si era offesa e io avevo capito che la povera sca era una bella bisbetica. Portava la maschera di una ragazza fresca e gentile, romantica sognatrice, piena di entusiasmo, invece era un’acida zitella, forse addirittura una isterica. La patologia chiamata isterìa era diffusa nell’Ottocento tra le giovani donne, soprattutto le più sensibili e intelligenti che seguivano le regole sociali dell’epoca e reprimevano la sensualità, vergognandosene. Diventavano talvolta schizofreniche, anche anoressiche, più spesso soggette a forme transitorie di paralisi. Fu Freud a capire l’origine sessuale delle paralisi isteriche. Oggi questa malattia non esiste più. E’ stata cancellata dall’elenco delle malattie di origine nervosa, psichica o psicotica. Non c’è più repressione sessuale, ma la repressione c’è ancora, c’è l’influenza dei genitori, l’influenza di un ambiente culturalmente arretrato che vede ancora negativamente la donna non sposata, la zitella, e ci sono i sogni di grandezza, le illusioni cui alcuni non vogliono rinunciare, l’illusione coltivata nell’infanzia o nell’adolescenza che la vita possa essere felice e senza problemi, in compagnia dell’anima gemella.
sca aspetta con tutto il suo cuore il principe azzurro. Chi non asseconda il suo sogno diventa un nemico.
La vedo vecchietta. Si appoggia a un bastone sottile con l’impugnatura a forma di serpentello, ha gli occhiali sul naso, i capelli tinti e tante rughe. E’ in spiaggia con mia figlia, vecchietta come lei e come lei sorridente. Conversano allegramente sedute sugli scogli e ridono rumorosamente scuotendo i capelli: - Facciamo un bel bagno Caròl, con questo mare divino, meraviglioso!… - Deponi il bastone, ti aiuto io, andiamo… Sarà bellissimo!… Entrano in acqua strillando come due bambine e poi nuotano lentamente ma felicemente intorno agli scogli giocando tra loro, mentre si avvicinano dei vecchietti attratti dalla loro allegria. - Come sono brutti Caròl, non dargli confidenza! Caròl tira l’acqua addosso ai vecchietti che ridono beati. Anche loro ridono… Sempre più felicemente… zitelle! Torna all'Indice
Il niente di Amilcare
Alcuni anni fa lungo il Naviglio Martesana nella periferia nord di Milano si vedeva spesso un pittore che si spostava qua e là con il cavalletto e la cassetta dei colori. Si diceva che fosse un po’ matto o almeno strano. Un giorno che si trovava in piazza Piccoli Martiri a Gorla e guardava verso le belle piante di paulonia e il Ponte Vecchio, mi sono avvicinata. Sulla tela c’erano solo righe colorate sottili. Alcune sembravano graffi, altre erano più ricche di colore. Tutte arrivavano fino al bordo della tela. Azzardai: - E’ pittura astratta? Cosa rappresenta? Mi guardò. Aveva la bocca serrata come se fosse molto concentrato, il mento un po’ tremante, ma gli occhi erano vivi, intelligenti con uno sguardo indagatore. Era sulla difensiva. Forse era abituato a sentire commenti negativi e critiche. - E’ il niente. Il niente. Sto dipingendo il niente! Mi avvicinai un po’. Quelle righe davano un senso di vertigine dolorosa. Un dolore che è dentro e non trova la strada. - Il niente o… forse il dolore? -, chiesi. Sembrava più a suo agio: - Ma lei sa cosa è il niente? Pensi a una donna bellissima che un uomo desidera e poi quando si sveglia tutte le mattine al suo fianco, diventa insignificante. Il niente è ciò che esiste ma non è. Lei che è una donna… a voi piacciono i gioielli. Ecco, pensi a una spilla di diamanti. Qualcuno gliela regala, lei la porta un po’ e poi la mette nel cassetto. Il niente è l’abitudine, la noia, la vicinanza, l’indifferenza. Il dolore è un’altra cosa. Conosce Fontana? Lucio Fontana? Il dolore potrebbero essere quelle righe che fa lui! Colto quest’uomo! Esistenzialista! “Le cose esistono ma non sono”, come dicevano gli esistenzialisti. Pensai allora alle Ninfee di Monet che avevo visto anni prima all’Orangerie di Parigi e che mi avevano messo non poco a disagio.
Claude Monet, un genio inquietante, dedicò gli ultimi trenta anni della sua vita alla ricerca del niente e al modo di dipingerlo. Costruì nel suo giardino uno stagno di ninfee. Ci lavorò ogni giorno per anni finché gli divenne indifferente. Allora andò nel suo studio e cominciò a dipingere. Coprì di ninfee 90 metri di tela per due metri di altezza e per ogni pennellata cambiava punto di vista. L’osservatore che si avvicina alla tela vede invece delle ninfee qualcosa come piatti sporchi di maionese e senape in mezzo a virgole blu. Se si allontana compaiono le ninfee, ma si dissolvono subito e cambiano forma per ogni piccolo spostamento della testa. Io alla mostra pensavo: “Un geniaccio questo Monet! Come fa a dipingere da vicino in un modo che poi cambia visto da lontano?”. Raccontai questa esperienza al pittore del Naviglio, che nel frattempo mi aveva detto di chiamarsi Amilcare e aggiunsi: - Lei invece delle ninfee disegna le righe, ma sono ancor più sibilline… Inoltre uno stagno di ninfee, bellissimo certo, è statico, monotono. Il Naviglio è vivo. Guardi quel topolino come corre! Non c’entra per niente il Naviglio con la noia, l’abitudine, l’indifferenza! - Lo dice lei ! Se stesse qua da mattina a sera cambierebbe idea!... Lei ha capito qual è la mia tecnica? Rappresento le cose attraverso la loro immagine riflessa nell’acqua che non è reale. Queste righe verso il basso sono i rami delle paulonie riflessi. Quella è la recinzione. Il amano è in basso perché l’immagine è riflessa. - Cosa rappresenta quella riga bianca di traverso più larga delle altre? - E’ il Ponte Vecchio! - Ma il Ponte Vecchio è meravigliosamente curvo… Lo sa che Monet diceva che il niente è rotondo, curvo e le sue tele sono state esposte incurvate. La curvatura aumenta la vertigine, crea una rotazione, uno sbandamento… svuota ancor più l’immagine… - Quello è impressionismo, impressionismo estremo. Io uso solo le righe. La linea curva collega, dà l’illusione di un legame, di un sentimento… invece l’uomo è solo. Io lo vedo così. Cercai di distrarlo per sondare meglio il suo animo.
- Guardi dietro di lei la chiesa delle Clarisse, è chiamata anche chiesetta dalle finestre spirituali. L’architetto è Muzio. Uno bravo. Quelle finestre piccole con i vetri suddivisi in riquadri. Quasi non si vedono nel grosso muro di mattoni. Sembrano spiragli, feritoie da cui si accede a un segreto, a un tesoro spirituale, ma forse anche materiale… chissà… a un paradiso. Ecco sarebbe bello disegnare quel paradiso! Guardò e il mento gli tremava. Sembrava cercasse delle parole che non gli venivano. Continuai: - E il monumento? Il grande monumento al centro della piazza dove è stata distrutta la scuola il 20 Ottobre del ’44 in seguito a uno spaventoso bombardamento? L’ha fatto un certo Remo Brioschi. Non è famoso, ma in quel monumento c’ha messo l’anima. E’ una grande mamma che prende su di sé tutto il dolore del mondo. E’ grande, com’è grande il suo dolore e ci consola del nostro. Tutto questo non può essere “niente”… Nessun artificio può togliere qualcosa a questi valori che magari non “esistono”, nel senso che non sono reali cioè materiali, ma invece “sono”, hanno un significato al di là della noia e tutto quanto… Non può non essere d’accordo! Si erano avvicinati alcuni anti. Guardavano la tela e dicevano: - Ma chellì! L’è ’l Navili…? Cusa l’è…? - E’ qualcosa di speciale! - dissi e salutai Amilcare che indifferente col pennello spargeva, con piccoli movimenti, del bianco nell’angolo della tela, ma era chiaramente soprappensiero. Il giorno dopo riai per la piazza. Era ancora lì col cavalletto girato e guardava la chiesetta. - Come va Amilcare? Siamo di buon umore oggi? - Ho dipinto la nebbia… non vedo altro… -, rispose. La tela era bianca con righe orizzontali di un pallido grigio. Poiché era una bella giornata di sole, la nebbia era evidentemente una sua immaginazione.
Desiderai andarmene e lo salutai, ma lui mi trattenne. - Aspetti! Estrasse dalla valigetta dei colori una fotografia. Rappresentava una ragazzina dolce e indifesa, con le gambe magre, bianche, bianche, la gonnellina a fiori, le treccine bionde lucenti e gli occhi persi nel vuoto. Assomigliava alla spigolatrice di Rénoir, ma era più vera, più nostrana, quasi una fotografia. - L’ho dipinta vent’anni fa prima che mia figlia morisse. Questa è una foto in bianco e nero del dipinto. - E’ molto bello! Lei usa bene il pennello, mi pare, le gambe sono fragili, ma ben tornite, molto vere. Anche quella luce nei capelli, coi colori… non sarà stato facile! Sorrideva e sporgeva le labbra in una espressione di cruccio, come se non riuscisse più a parlare. - Vengo qua, mi piace… il Naviglio è bello e tutto. I fiori, la chiesetta, ma la mia mano non si muove, il pennello non va più -. Quasi piangeva. Il niente di Amilcare era dolore, dolore e disperazione. Che dire di Monet? Un genio certamente, un virtuoso del pennello. Ricordo i suoi dipinti stupendi: La vela sulla Senna ad Argenteuil, un vela che trema di malinconia nella luce che si spegne dopo gli ultimi fuochi del tramonto, i Dejeuner sur l'erbe con le deliziose bimbe e giovinette perse nei loro abiti vaporosi come lui le vedeva e le sognava. Un pittore visionario che rappresentava coi colori le sue emozioni e a un certo punto ha voluto dimostrare, travolto anche lui dal suo Narciso prepotente, di essere diventato così bravo da riuscire a rappresentare col pennello anche concetti filosofici come il "niente", di cui parlavano nei primi decenni del Novecento gli esistenzialisti. Ha lavorato anni e anni per mettere in evidenza il “niente”. Come se ce ne fosse bisogno! Come se la gente vivesse in mezzo a un’orgia di benessere, felicità e piacere, circondata dall’amore e da ogni bene materiale e spirituale e desiderasse infine, alla fine, finalmente provare l’assenza, la mancanza, la perdita. Finalmente il niente!
Amilcare ci provava con le emozioni, ma il suo cuore si era spezzato. Stupido Monet! Potevi usare meglio il tuo tempo e il tuo genio! Per consolare l’uomo perso nel nulla, trovargli un significato, un valore, un paradiso, un piacere… Ero commossa, volevo abbracciare Amilcare. Gli strinsi una spalla e quasi fuggii via con o veloce. Attraversai il ponte, felice che fosse curvo come la sua immagine nell’acqua e felice poi di guardare quelle finestre spirituali, che portavano il pensiero lontano e sollevavano lo spirito. Stupido Monet! Torna all'Indice
“La vita non mi prende”
Faccio la volontaria al Policlinico. I miei colleghi dicono che aiutano i malati, al Pronto Soccorso e nei reparti, per dare una mano, per essere un poco utili. Io no! Io mi metto in gioco con tutta me stessa. Voglio capire di più della malattia e della morte. E anche della vita. La caposala segnala ai volontari i malati di carattere difficile, quelli che disturbano o che rifiutano le cure. I volontari fanno il possibile per rasserenare l’atmosfera e aiutare. Conosco così tipi strani, patologie che ignoro e malati gravi e inconsapevoli per i quali si può solo pregare. Ho scoperto che i viados, spesso ubriachi, hanno un fascino che non immaginavo. Il loro corpo e anche l’abbigliamento sono uno stimolo al piacere dei sensi. Nelle sale dell’ospedale vengono nascosti dietro tendaggi, ma tutti quelli che ano spiano tra gli spiragli e poi riano, attratti. Per come è fatto l’uomo che sfoggia moralismo e cerca di nascosto le emozioni, costoro possono fare molte vittime… Senza conoscerli non si può capire.
Ho scoperto che gli schizofrenici, in fase acuta, sono la peggior compagnia possibile. ano in un istante dalla simpatia all’odio. Ti abbracciano piangendo e dopo qualche minuto ti farebbero a pezzi se avessero un coltello a portata di mano. Quanto può essere fragile la mente, mi viene da pensare!... e, poiché siamo tutti fatti con gli stessi componenti, com’è difficile stare insieme in questa “valle di lacrime”, senza azzuffarsi, senza litigare, magari volendosi pure bene!… Qualche mese fa la caposala mi aveva segnalato il caso difficile di un uomo, di nome Mario, che non mangiava, non parlava e rifiutava le cure. Era uno stimato
pasticcere che lavorava in centro di Milano e da un giorno all’altro aveva piantato tutto ed era andato a dormire in stazione. La diagnosi: anoressia. Avevo seguito circa un anno prima Agnese, una simpatica anoressica molto mite di sessant’anni. Era colta e parlava un linguaggio fantasioso. Mi diceva con un sorriso buono, quando la rimproveravo perché non mangiava: - La vita mi scivola addosso… E’ sempre stato così. La vita non mi prende… Avevo capito che il soggetto anoressico è caparbiamente attaccato al suo dolore esistenziale, rifiuta l’alimentazione perché essa nutre una vita che lui sente priva di senso. L’anoressico è di una coerenza estrema. Non ha dubbi. E’ arrivato alla conclusione che la sua vita è vuota e rifiuta categoricamente di riempirla a casaccio. Quando ha qualche piccolo dubbio - succede anche a lui - , mangia una noce, quattro piselli, mezzo cucchiaino di gelato e non ci prova neppure gusto perché lo stomaco, abituato al digiuno, non apprezza più i buoni sapori. All’inizio non soffre fisicamente, ma, dopo, anche il dolore fisico aumenta, di solito sopportato in un silenzio angosciante.
Mario era giovane, aveva circa quarant’anni. Bello, un fisico atletico, i capelli un poco lunghi, la barba, la pelle liscia e lucida. Sapevo che gli anoressici nella prima fase del digiuno acquistano un corpo marmoreo con la pelle levigata. Dopo, prima di morire, si afflosciano e invecchiano di colpo. Mario era nella prima fase. Coricato nel letto con le gambe nude, sembrava la statua di Gesù deposto dalla croce, come viene esposto nelle chiese il Venerdì di Pasqua. - Sono una volontaria… -, gli dissi piano, sfiorandogli la mano. Lui si girò dall’altra parte. Mi voltò le spalle. - Lo so che non vuole mangiare! Io voglio solo farle compagnia. Se crede, possiamo pregare insieme. Le chiedo gentilmente di girarsi. Mi guardi! Io non le ho fatto niente di male! Lui non rispondeva e non si girava.
Gli restai vicino in silenzio per circa mezz’ora e, prima di andar via, trovai il coraggio di dirgli: - Lei è un bell’uomo! Ha un fisico straordinario. Dio le ha dato questo dono. Rovinarlo sarebbe uno schiaffo, un insulto per chi vorrebbe avere quello che ha lei e invece è brutto, goffo, zoppo, malato, gobbo… Ringrazi il Signore, preghi e conservi in buona salute questo grande dono di Dio! Si svegli, non stia lì fermo. Reagisca! Lei ha dei doveri, prima di tutto verso se stesso! Avevo alzato la voce. Lui si girò e mi guardava stupito. Tornai dopo alcuni giorni. La caposala mi aveva detto che Mario mi cercava, era migliorato, parlava un poco, mangiava anche qualcosa, ma poi vomitava. - Coraggio Mario - gli dissi - lei ha la buona volontà di stare bene. Questa è la cosa più importante! - e gli presi una mano nelle mie, stringendo forte. Scoppiò a piangere. Mi raccontò con un fil di voce che la moglie lo aveva lasciato, portando con sé l’unico figlio. Lui era andato ad abitare con la madre e anche lei lo aveva invitato aspramente ad andarsene. A sessant’anni aveva trovato un compagno… - Uno non si aspetta di essere tradito dalla madre. Se la mamma ti abbandona non c’è più speranza…- , concludeva, nascondendosi il viso con le mani. So bene che i moribondi e i sofferenti chiamano la mamma. Se in un ospedale si sente qualcuno, anche vecchio, che implora: “Mamma!... Mamma…”, vuol dire che soffre molto. La mamma o il ricordo della mamma ci è vicino nel dolore. Tutti tradiscono nella vita: i figli, gli amici, la moglie, il marito, i fratelli… Possono tradire i padri. Dio ha tradito Giobbe e ha tradito anche Il Figlio sulla croce… perché l’uomo deve sapere che non c’è solo il bene, che il bene è mescolato al male… che troppo bene può produrre il male… Di solito la mamma no! La mamma non tradisce, è parte di noi. - Mario – gli dissi – nella vita talvolta nasce il desiderio. Può travolgere anche una mamma. Una donna soffre, subisce, sta in pena, poi vede qualcosa luccicare e si accende il desiderio. Può succedere anche a una mamma. Si deve capire e
perdonare… Ha conosciuto Giorgio? E’ un volontario generoso. Ha una villa a Como con un grande giardino. Vuota. Mi ha detto che ha bisogno di un guardiano e di un giardiniere. Como è bellissima! Coraggio. Portiamo avanti questo progetto… Mi catturò una mano. Non me la lasciava più. Giorgio è l’uomo più buono e generoso di questa terra. Ha preso con sé Mario.
Oggi ho incontrato il caro Giorgio. - Come sta Mario?… - Benissimo! Un lavoratore indefesso… Aiuta anche mia figlia e mi dice sempre di salutarti… Vieni a Como a trovarci!... Sono corsa via. Giorgio mi considera una donna forte. Non volevo che mi vedesse ridere e piangere insieme. Ecco, ci sono uomini come Giorgio. Torna all'Indice
I gorgheggi di Carla
Chi non ha conosciuto Carla negli anni Novanta si è perso uno dei fenomeni tra i più strani e miracolosi di quegli anni. Non l’unico certamente! In Consiglio Comunale a Milano era arrivato, chissà come, un certo Tinelli soprannominato Atomo, famoso tra i giovani come imbrattamuri, cioè writer, uno che scarabocchiava i muri dei condomìni come tanti altri, allora e ancora adesso, con la pretesa di fare capolavori d’arte. Era giovane, anarchico e difendeva la libertà dei giovani. Un imbrattamuri a Palazzo Marino! Il povero sindaco Greppi che faceva appelli ai milanesi perché imbiancassero spesso i muri della città, si sarà rivoltato nella tomba! Era stato eletto nello stesso Consiglio anche il capo del Leoncavallo, un centro sociale (…alcuni dicono asociale) fracassone, che occupava illegalmente stabili disabitati e faceva baldoria nei dintorni e musica fino a tarda notte, terrorizzando i vicini e mettendo in difficoltà le forze dell’ordine. L’illegalità a Palazzo Marino! Chi l’avrebbe mai detto! Negli anni Novanta si era arrivati anche a questo!
Carla non era né imbrattamuri, né leoncavallina, né fracassona, né anarchica. Era ecologista e voleva far bello il quartiere di Gorla col suo naviglio, il Naviglio Martesana, tanto amato dagli abitanti. La crisi dei partiti, che allora era stata chiamata “tangentopoli”, aveva favorito l’ingresso in politica di cittadini comuni come Carla, una cittadina comune, sì, ma con una personalità fuori dal comune. La sua energia vitale era straripante e si rifletteva nella parlantina del tutto singolare: la voce dolce e acuta non si interrompeva tra una frase e l’altra, ma
incalzava con continuità. A modo suo prendeva fiato, ma l’ascoltatore non se ne accorgeva e le parole si susseguivano indefinitamente con leggerezza, come in un canto, un canto con tonalità acute e poi alte e poi ancora più alte. Le note, cioè le parole, si legavano tra di loro in un crescendo da Flauto Magico… Gorgheggiava: ah, aah, aaah, eeheheh, eh, eh… E via sempre più avanti e sempre più su. Impossibile perdersi una parola! L’uditorio stupito e incantato, invece di applaudire a lungo, come a teatro dopo un gorgheggio da brivido, si commuoveva e divertiva fino al punto di fare quello che Carla chiedeva. Io usavo dire: - Quando Carla parla, anche i sassi si muovono, saltano, vincono la forza di gravità e tutto può succedere! L’accompagnavo in giro per gli uffici. Lei cantava e io facevo il basso continuo, cioè acconsentivo, aggiungevo qualche spiegazione, presentavo richieste scritte, petizioni eccetera, eccetera. - Lo spartitraffico di viale Monza coi fiori? Okay, ottima idea. - Il Parco Martesana: erba e piante? Sarà fatto! - L’apertura dell’alzaia in fondo a via Idro? Se il Magistrato del Po dà l’approvazione, siamo pronti col progetto. - I rottamai? Via tutti i rottamai! - Un giardinetto davanti al Gaetano Pini? Ci stiamo lavorando. Lo faremo! La squillante voce di Carla rianimava gli impiegati e i funzionari più stanchi e svogliati. Quando noi arrivavamo, li vedevi sollevare le teste dalle loro carte, pallidi e smunti, sembravano mummie del paleolitico, ma dopo pochi minuti prendevano colore, sorridevano e si spostavano da sedie e scrivanie verso di noi desiderosi di ascoltarci e di aiutarci.
- Fate così e così!… poi riate! Vi aspettiamo!… Carla gli aveva regalato un po’ del suo entusiasmo. In Consiglio di Zona, dove eravamo state elette, quando si alzava lei a parlare, l’uditorio, abituato ai soliti discorsi di contrapposizione tra i partiti del tipo “tu fai schifo e io invece guarda come sono bravo”, si predisponevano ad assistere a un pezzo di teatro, perché Carla era originale oltre che nel tono, anche nel fraseggio e nel linguaggio: - La mia nonna diceva che il meglio è nemico del bene. Sarà molto bello quando nel Naviglio ci saranno le canoe e si potrà andare da Greco a Trezzo in un paesaggio bucolico tanto suggestivo, ma nel frattempo pensiamo alle piante. Lo sapete che una piccola pianta assorbe in un anno tonnellate di smog? Non lamentiamoci dello smog! Piantumiamo! Piantumiamo! Tanti fiori! Tanti uccelletti! E i prati verdi e i pruni fioriti!... aaah, ah, eeeh, eh, eh, ah, ah.”… Era un piacere ascoltarla, anche se alcuni consiglieri sorridevano e altri nascondevano la testa sotto il banco del Consiglio, per ridere in libertà perché il tipo di discorso troppo diverso dal solito, portava naturalmente al sorriso e anche al riso. Ma quante benedette piante sono spuntate allora in tutto il quartiere!
Oggi Carla non canta più, non gorgheggia, non parla più tutto di seguito senza tirare il fiato col quel fraseggio incantevole che affascinava. La sua vitalità inesauribile sembra spenta e non perché sia invecchiata o perché sia malata o perché le sue corde vocali si siano irrigidite come succede talvolta ai grandi cantanti, ma solo e soltanto per le delusioni. - Mi sono inaridita…, dice. - Perché?! - Ho paura di restare sola, devo stare attenta a quello che dico… non voglio farmi dei nemici. Ne ho già troppi… Carla ha la Luna in Acquario.
Ecco di nuovo l’Acquario e Urano. Ecco di nuovo la sincerità e la verità. Chi ama la sincerità e la verità, finisce con la gola secca e con gli occhi asciutti. Ieri siamo state insieme al cinema a vedere un film molto commovente. Io ho pianto, lei, sensibilissima, no. A me non importa molto di essere sola e di avere nemici. Ne soffro, ma resisto. Lei è fragile come gli artisti e come i fiori. Un giglio bianchissimo, appena lo tocchi si consuma. Maria Callas perdeva la voce se non si sentiva amata. Ultimamente Carla ha incominciato a scrivere: storie fantastiche per bambini e ragazzi. Storie incantevoli, di rara bellezza. Coraggio Carla, abbiamo ancora bisogno di te. Torna all'Indice
I miei giochi con Cesare
Tutti mi dicono che penso troppo. Gli altri nel tempo libero ballano nei centri ricreativi o nelle sale e giocano. A bocce dove è possibile, a scacchi i più sofisticati, a carte la maggioranza degli altri. Il gioco di moda oggi è il burraco, così attraente, a detta di alcuni amici, da sostituire completamente nei pomeriggi festivi la conversazione, il cinema, la lettura e la eggiata. Il ballo mi piacerebbe, ma quando raggiunge un buon livello artistico diventa un raffinato esercizio di attrazione e seduzione che può essere pericoloso. Gli uomini poveretti sono persone semplici e non capirebbero perché una donna si diverte a sedurre e poi non ne vuol sapere. Si diverte e basta? - E’ perfida, ambigua… oppure… cosa vuole? Se fossi bellissima potrei sfidare gli uomini sul loro terreno. - Imparate a resistere alle tentazioni come abbiamo sempre fatto noi! Vi ricordate Anna Karenina? Che brutta fine ha fatto per non avere resistito? Adesso tocca un pochino anche a voi! Non sono bellissima! Mi sfotterebbero! Niente ballo. Il gioco è una forma di competizione. Bisogna vincere, si deve vincere! E’ sempre quel Narcisetto nascosto che vuole specchiarsi, farsi bello, cantare vittoria, sentirsi qualcuno eccetera. Io quotidianamente lo odio, lo schiaffeggio, lo calpesto, non gli do tregua, anche se so che è sempre lì vivo e vegeto e ogni tanto riesce ancora a darmi fastidio. Ma per un gioco, no! Di fronte al gioco tra me e lui (il Narcisetto appunto) vinco io!
Penso al tempo in cui anch’io giocavo e mi vedo davanti la grande stanza dove si svolgeva la vita della mia famiglia quando ero piccola e vivevo alla periferia di Piacenza.
Al centro c’era una stufa e ai lati tre tavoli. In prossimità di una finestra il tavolo di mia madre, sarta, con le sue lavoranti. Appoggiato all’altra finestra il tavolo di studio e gioco mio e di mia sorella. Il terzo tavolo serviva sia per cucinare che per intrattenersi con gli ospiti ed anche per pranzare e cenare. Era una stanza luminosa e calda, piena di vita ed estremamente rumorosa. Le sartine chiacchieravano sempre, in particolare ricordo la vivace Mariuccia che raccontava ogni giorno i fatti della città, fatti tristi in generale, malattie brutte, morti precoci e incidenti tragici. L’ospedale era il luogo che Mariuccia frequentava di più quando non lavorava. La radio era sempre accesa e trasmetteva canzonette, opere liriche per la delizia di mia madre e i giornali radio, durante i quali tutti dovevano stare zitti, e che, anche loro, riferivano notizie drammatiche: alluvioni, omicidi e disgrazie, in maniera non dissimile dai telegiornali attuali. Mia sorella era sorprendente perché sembrava che non riuscisse a studiare, leggere e giocare se non sentiva intorno a sé suoni e rumori, chiacchiere e canzonette. Più rumore c’era e più si concentrava. Leggeva a voce alta i suoi componimenti, talvolta i racconti che doveva commentare e riassumere e ascoltava le osservazioni della mamma sempre stimolanti e spesso di lode perché mia sorella Anna, che aveva solo un anno più di me, era straordinariamente precoce e intelligente - geniale diceva la mamma - e riscuoteva molta ammirazione in famiglia. Quella stanza era come una piccola piazza, piena di voci e movimento. Mancava assolutamente il silenzio. Io ascoltavo tutto, mi commuovevo dei fatti tristi che sentivo, a mio modo riflettevo anche, ma combinavo poco. Troppe le emozioni e gli stimoli e nessuna concentrazione. Spesso mia madre si avvicinava: - Ma cosa fai Lucy? Tua sorella ha già letto un libro e fatto il riassunto e tu? - . - Sono ancora alla prima pagina, ma poi andrò avanti…-, rispondevo. Verso sera infatti mi trasferivo, armata di un vecchio cappotto e di un paio di calzettoni, in un’altra stanza gelida ma silenziosa e concludevo i miei compiti, senza biasimo né lode, perché comunque la maestra era contenta di me. Bisogna dire che nella scuola di periferia che frequentavo i geni erano decisamente pochi e io me la cavavo egregiamente. Talvolta la mamma per scuotermi mi chiamava al suo tavolo ad aiutarla. Infilavo gli aghi per tutti e facevo lavoretti semplici come i sottopunti
tipo zig-zag nelle parti interne dei vestiti. Un personaggio, che spesso ci faceva compagnia, era Cesare, un amico di mio padre. Era malvestito con pantaloni impastati di calce e vecchie scarpe sformate, ma aveva una voce dolce e parlava con un linguaggio colto che mi colpiva. Citava belle frasi di Manzoni e Gramsci. Era comunista e mangiapreti ed era spesso disoccupato. Diceva di vivere in un seminterrato con l’erba che cresceva tra le mattonelle e senza legna per il camino, con la moglie e i figli quasi sempre malati. Mio padre lo faceva lavorare, quando poteva, nella ditta di costruzioni dove era impiegato lui stesso. Gli venivano assegnati i compiti più pericolosi per molte ore e poche lire, poi si trovava di nuovo licenziato e allora andava a lavorare in campagna in condizioni ancora più misere. Tornando alla grande stanza-cucina dove la famiglia ava le sue giornate, aggiungo che le finestre davano su di un magazzino operosissimo. Entravano camion carichi di materiale che veniva depositato, mentre altri camion caricavano sabbia, prefabbricati, piastrelle, binari, putrelle, sacchi vari e fusti di bitume per rifornire i cantieri dove si costruivano case, strade e ponti. Cesare e mio padre raccontavano spesso dei lavori di costruzione. Ricordo di un ponte sul Ticino a Pavia. Cesare lavorava sotto il letto del fiume per costruire le fondamenta dei piloni del ponte. Stava all’interno di botti di legno calate in spazi angusti tra le paratie che impedivano l’entrata dell’acqua a grandi profondità. Questi racconti mi impressionavano e mi affascinavano. Il gioco più frequente mio, di mia sorella e delle amiche all’epoca si svolgeva sul nostro tavolo in cucina e non era competitivo. Consisteva nel costruire bambole e vestirle. Le bambole erano ritagliate nel cartone delle scatole per le scarpe e i vestiti erano fatti con la carta, ma con modellini simili a quelli che usava nostra madre per i suoi vestiti. Ad esempio una gonna aveva il davanti e il dietro e con un filo da imbastire infilato in un ago e ato nella parte alta della gonna si ricavava, arricciando la carta, una cintura che veniva poi allacciata alla vita della bambola. Anche le giacchette erano prima colorate e poi cucite in maniera rudimentale in modo che potessero essere infilate addosso alla bambola. Talvolta usavamo dei ritagli di stoffa scartati dalla mamma per gonne, borsette e cappelli. Era un gioco molto ingegnoso e le nostre bambole vestite a noi sembravano proprio belle. Il mio gioco preferito fin da piccolissima si svolgeva però in legnaia. Era una stanza di media grandezza e fredda dove veniva depositata la legna da bruciare
nella stufa in cucina durante i lunghi inverni. La legna era costituita sia dai ciocchi tradizionali di varia dimensione spaccati da sezioni di tronchi d’albero, sia da rami e rametti e sia da tavolette di legno, spesso sporche di calce, tagliate da assi usate nei cantieri. La mia ione, favorita dal silenzio della stanza, era costruire case e capanne di vario tipo. La facciata era talvolta quadrata o rettangolare, altre volte c’erano gli spioventi che si appoggiavano ad una assicella centrale ben fissata al pavimento. Lo stesso pavimento era costituito da assicelle, tra le fessure delle quali si introducevano le bamboline di cartone. Le facciate delle case venivano chiuse con carta semitrasparente, di quella usata per avvolgere le scarpe nuove o di quella usata dalle sarte come modelli per i vestiti, ritagliata su misura e incollata ai bordi, con colla per carta contenuta in un barattolo di alluminio con la scritta blu Coccoina. Finestre e porte, balconi fioriti e lesene divisorie erano disegnate accuratamente sulle facciate di carta velina, imitando i disegni delle case vere che fin da piccola avevo osservato negli uffici dove mio padre lavorava. Alcune facciate erano di colore rosa o giallo, spesso il colore era bianco con fiori sui balconi e lesene rosso mattone. Col are degli anni si moltiplicavano le casette e le scene intorno ad esse erano sempre più animate con giardini, piante e fiori, tavoli di legno, sedie di carta e personaggi di vario tipo. Un anno insieme a sorella e amiche ho costruito un ospedale con grande ammirazione di Mariuccia e poi un fiume con la famosa carta per lo zucchero che era di color azzurro scuro. Sopra, un bel ponte con piloni bianchi costituiti da tronchetti di legno ricoperti di carta semitrasparente. Io ho voluto che la base dei piloni non poggiasse sulla superficie azzurra del fiume, ma sotto di essa. Ho voluto ritagliare la carta da zucchero in modo che fosse evidente che la costruzione del pilone richiedeva di lavorare sotto l’acqua. Cesare veniva spesso in legnaia a vedere le nostre costruzioni e rideva contento. Quando gli ho mostrato i piloni che entravano sotto l’acqua del fiume, mi ha guardato sorpreso, poi mi ha sfiorato una spalla e se n’è andato di corsa. Mi è sembrato che fosse commosso, mi è dispiaciuto e non l’ho più invitato in legnaia. Anzi credo che dopo di allora i giochi coi legni e le bambole di cartone mi divertissero sempre di meno anche se sono rimasta addolorata quando all’età di circa dieci anni ho saputo che avremmo cambiato casa. Avrei dovuto lasciare quella grande stanza che dava sul magazzino. Basta andirivieni di camion, basta conversazioni delle sartine e degli operai e basta giochi in legnaia. Addio Cesare! Non avrei più sentito la sua bella voce e i suoi racconti tristi e interessanti. La nuova casa era piccola e in centro città. Non c’era spazio per giocare e del
resto lo studio per la scuola era diventato più impegnativo. Quando potevo però tornavo al magazzino per portare qualcosa a mio padre o semplicemente mi ci fermavo per una sosta durante una eggiata in bicicletta. Chiedevo di Cesare. Non c’era mai, occupato a lavorare nei vari cantieri, spesso addirittura a Milano, dove la ditta era impegnata nella costruzione di interi quartieri popolari. Un giorno che lo vidi corsi quasi ad abbracciarlo e felice gli chiesi di raccontarmi del suo lavoro. Sorrideva e mi carezzava con lo sguardo, contento di vedermi: - Oggi si fatica di meno, ci sono nuove macchine che fanno miracoli. Tuo padre ti racconterà. Ma si fanno case brutte con materiali scadenti, case per i nuovi poveri, case per noi operai che dobbiamo avere anche noi un tetto in testa e qualche soldo in mano, così consumiamo. Si chiama consumismo, ci danno qualcosa per farci spendere e far guadagnare i ricchi, quelli che hanno già tanti soldi. Ci fanno star meglio per tapparci la bocca e per guadagnare su di noi. Non è cambiato niente… è tutto fumo negli occhi! Tu vai a scuola, studia! Poter studiare per i figli degli operai è la conquista più grande… Gli ho preso la mano, grossa e screpolata e l’ho guardato negli occhi azzurri, acquosi e penetranti. - Lei capisce tutto senza aver studiato! - Tu studia! Dai retta a me… E’ meglio. Gli scendeva qualche lacrima e non si capiva se era commosso oppure se aveva una infiammazione agli occhi. E’ anche colpa di Cesare se sono diventata un poco intellettuale.
Torna all'Indice
Mamma Parafulmini
Mio figlio Giulietto è del segno della Bilancia. Anche lui! Che persecuzione! Questo segno, mi assedia. Fa parte sicuramente del mio karma: nelle vite ate devo aver torturato numerosi Bilancia e adesso sono loro che torturano me. Il Bilancia è angosciato dai piatti - i piatti della bilancia appunto - che oscillano a lungo alla ricerca del punto di equilibrio. Lui è incerto, non sa cosa pensare; studia il dritto e il rovescio di tutte le questioni, le gira e rigira nella testa e in questo sforzo la forma finisce per essere più importante del contenuto, l’apparenza della sostanza. La bellezza formale può diventare il punto giusto, non certamente la ione e gli ideali e neppure i sentimenti e la determinazione del sacrificio, o la profondità dell’amore. Si è mai sentito di un ionario che cerchi l’equilibrio o di un idealista che contempli l’esteriorità? Insomma Giulietto è bello, ama la bellezza, la forma e l’esteriorità. E’ anche influenzabile, perché nell’incertezza dei piatti che vanno su e giù, un parere forte e deciso è importante. Il consenso sociale poi importantissimo. La cosa più strana di questo mio figlio non è comunque il suo essere Bilancia: un dodicesimo dell’umanità è Bilancia. Lui è nato con Urano, il Pianeta della libertà, dell’anarchia e purtroppo anche del rifiuto, stretto tra Sole e Luna che rappresentano papà e mamma, rappresentano la famiglia e rappresentano la sua identità come esponente di quella famiglia e come figlio di quei genitori. Giulietto rifiuta i genitori, rifiuta la famiglia e rifiuta se stesso. Questa è l’interpretazione. Nettuno, peraltro, che rappresenta la follia, non è per niente forte nell’oroscopo:
il ragazzo non è pazzo, con disturbi della personalità, paranoia, schizofrenia… E allora? Come andrà a finire? Io ho fatto tanti oroscopi. Succede che qualcuno abbia Urano congiunto al Sole e ha difficoltà col padre, oppure abbia Urano Congiunto alla Luna e la cosa è già più grave perché la Luna non è solo la madre, ma è l’identità profonda di un soggetto, come risultato delle molte vite ate (nell’astrologia karmica ci sono anche le vite ate…). Tra le centinaia di oroscopi che ho studiato, solo mio figlio si trova in una situazione così radicale: così radicalmente estraneo alla sua famiglia e a se stesso, almeno secondo le regole dell’astrologia. Regole complesse certamente e di difficile applicazione, ma, nel caso di Giulietto, abbastanza chiare… Quando ho scoperto questa cosa il ragazzo, che adoravo, aveva otto anni e, poiché il nostro rapporto era ottimo, non mi preoccupavo. Mi ricordai che da piccolo con gli estranei raccontava frottole. Diceva di essere di origine russa e che i suoi genitori erano russi, oppure, poiché era biondo, diceva di essere svedese in vacanza in Italia. - Mi sono divertito – mi diceva – ma mi piacerebbe essere russo. Da grande vado in Russia. Non voglio stare sempre qua… e voglio andare anche in Svezia… e in Inghilterra… Io ridevo: la voglia di vivere e di fare non gli mancava certamente e la cosa mi piaceva. Quando il figliolo, durante l’adolescenza, rifiutava di venire in vacanza con noi e organizzava soggiorni e viaggi con i suoi amici, pensavo: “I figli si mettono al mondo, ma poi sono del mondo… I figli devono allontanarsi dal nido come i erotti per imparare a volare da soli. E’ giusto così!”. A 23 anni era già ingegnere. Trovò subito lavoro e cominciò a viaggiare come lui desiderava. Quando era in Italia frequentava un gruppo di giovani avvocati e avevo notato che con loro si sentiva in stato di inferiorità. Spendeva tutto lo stipendio in abiti
firmati. I suoi amici vestivano Gucci e Prada. La sua amica, imponente e agghindata da sembrare la statua della libertà, mi ha mostrato una volta una borsetta: - Un affare signora! Pensi che costa solo mille Euro… Io, una borsetta così l’avrei messa subito nel raccoglitore della Caritas. Piccola, non conteneva neppure un libro. Una cosa inutile e di gusto barocco. Io, abituata ai jeans, alle scarpe di ginnastica e a un sacchetto comodo con libri e altro al posto della borsetta, trasecolavo: - Giulietto ascoltami! Questi tuoi amici sono di un’altra pasta, devi capire. Se avessero fatto gli studi scientifici che abbiamo fatto noi, a cinquant’anni sarebbero ancora lì’ col libro in mano… Sanno fare solo chiacchiere e sanno darsi delle arie. Puntano sull’immagine perché non hanno altro. Nel loro lavoro devono far colpo, impressionare, fare scena. Vanno a gara a mettersi uno più in mostra dell’altro, ma è tutta apparenza. Tu sei ingegnere, sai fare tante cose, puoi portare anche i jeans… Per te sono importanti i contenuti, i risultati. Lui no! Correva nei migliori negozi e mi guardava con disprezzo: - E’ una vita che lavori, avrai i soldi per comprarti qualcosa di decente! Ti vedo quella camicetta da quando sono nato!... - Gli avvocati guadagnano molto più di un ingegnere! - aggiungeva - Noi, mamma, siamo troppo umili! Bisogna puntare in alto, se si vuole arrivare in alto. Tu e papà siete due falliti! Mi zittiva. Voleva fare carriera. Era ambizioso. La Bilancia è ambiziosa. E’ un segno d’aria e l’aria ha bisogno di spazio, tanto spazio, sempre più spazio. Dovevo lasciarlo fare. Un giorno mi dice: - La mia ragazza ti vuole conoscere. Ci troviamo sabato in San Babila -. Avevo un paio di giorni per rimettermi in sesto. Scarpe con un po’ di tacco. Un bel tayeur blu, con la gonna al polpaccio che slancia. I capelli biondissimi. Dimostravo vent’anni di meno. Spesa: cinquecento Euro.
Quando mi vede: - Mamma come ti sei conciata! Che disastro… Non ti posso portare. Sembri una dell’esercito della salvezza… nooo! Una commessa… Non hai stile. Fatti un giro e poi vai a casa! - Sei sicuro Giulietto? Forse la gonna è un po’ lunga… ma non ha così tanta importanza. Io vengo, saluto i tuoi avvocati, così li guardo e imparo un po’ di stile, poi con una scusa me ne vado. Non volle. Tornai a casa. I piedi mi facevano male e lo specchio non aveva pietà della mia immagine: la giacca troppo corta o la gonna troppo lunga?... Booh… chi lo sa? Misi tutto in un sacchetto di plastica, lo chiusi bene e lo portai in pattumiera, quella della scala che va direttamente nel locale rifiuti, per non avere ripensamenti. Cinquecento Euro in fumo, ma era chiaro. Il destino era arrivato. Mio figlio mi rifiutava. Potevo tranquillamente tornare ai jeans. Da quel giorno sono ati quindici anni. Mio figlio è andato a vivere da solo, poi si è sposato con una avvocatessa avvenente e odiosa, maleducata, arrogante, perfida e scaltra. Pochi giorni prima del loro matrimonio, sono caduta da un metro di altezza e mi sono rotta il braccio destro in vari punti. L’ingessatura era molto voluminosa, mi arrivava dalla mano al collo e mi teneva il braccio in una posizione che poteva sembrare quella del gestaccio dell’ombrello, tanto più che, secondo l’indicazione medica, dovevo tenere il braccio sollevato in aria. La mia futura nuora, avvocato, ma originaria del profondo sud e forse superstiziosa o forse più semplicemente stronza, stronza e basta, sentenziò: - Tua madre mena gramo con quel braccio, non può venire al nostro matrimonio! - Hai ragione! Al matrimonio sono tutti avvocati, mamma, quelli che tu chiami avvocaticchi. Stai a casa, non ti divertiresti!
Così fu. Un’altra mamma si sarebbe disperata. Io di meno. Io avevo le spiegazioni dell’astrologia. Adesso ci vediamo due o tre volte all’anno. Prima telefonavo spesso a mio figlio. Inventavo qualche problema per sentire la sua voce. A un certo punto lui che non sopporta i problemi, non quelli scientifici, ma quelli della vita di tutti i giorni, mi ha detto che meno gramo e che, quando gli telefono io, gli va storta tutta la giornata. Per lungo tempo non gli ho più telefonato. Ultimamente ho letto che, da studi statistici, risulta che le persone fortemente segnate da Urano, nell’oroscopo, attirano i fulmini. Finiscono spesso fulminate. - Povero figlio mio! Forse io sono il suo parafulmini! Gli telefono allora tutte le settimane. Qualche volta a anche a salutarmi. Io lo coccolo e gli raccomando di non dire niente alla moglie. Un po’ funziona… Chissà! Torna all'Indice
Volano i piatti
Mi capita di essere nervosa, di cattivo umore e arrabbiata per motivi apparentemente futili: il marito che ti dice tre volte al giorno “ma chi ti ha dato la laurea?!...” - lui è un mago del computer e spiega le cose con un linguaggio arrogante e difficile come tutti i genietti e io faccio finta di capire per quieto vivere -, i figli che non sanno che esisti e, quando tu gli telefoni, hanno mille impegni e non ti ascoltano, i vicini che ti fermano sulle scale per dirti che il cane abbaia troppo perché tu non l’hai educato, l’amica che ti chiede dei favori e quando tu hai bisogno non ha tempo… Piccole cose, per carità. Si sa che bisogna avere pazienza perché ognuno ha il suo carattere e tutti oggi abbiamo un sacco da fare e poco, pochissimo tempo. Ma com’è che io trovo sempre tempo per tutti? Perché non riesco a dire di no a nessuno, sono sempre gentile e gli altri no? - Lucy, mi dai un’occhiata all’oroscopo? Poi ti racconto. Questa sera vengo due minuti… - Lucia, scriviamo una lettera in Comune: hanno abbattuto delle piante sanissime. Poi nel giardino all’angolo non tagliano l’erba da un mese… Scrivi tu che sei brava! - Lucia, scriviamo all’Amministratore del condominio! - Lucy, mi aiuti a calcolare le tasse? Io potrei dire di no, ma mi sembra una cattiveria, perché mi piace essere informata sulle tasse, mi piace guardare l’oroscopo e capire, quando ci sono difficoltà, se si riesce a leggerle nelle effemeridi... Mi piace tener viva l’attenzione degli amministratori della città e dell’amministratore del condominio sui problemi che ci sono: lo considero un dovere segnalarli e curare che vengano risolti. Tutte cose che mi costano poca fatica e che faccio volentieri. Non riesco a dire di
no, mentre molti altri hanno la tendenza opposta: non riescono a dire di sì.
Quel sabato ero nervosa. Mi telefona alle dieci Giulietto: - Vengo a pranzo perché sono solo e devo fare un lavoro al computer con papà. Quando vengono i figli, mi faccio in quattro per preparare un buon pranzetto, così sono uscita a fare la spesa di corsa e poi ho cucinato, mentre mio marito era fuori col cane. Ho fatto i salti mortali per sistemare bene la casa e all’una era tutto pronto. Giulietto è sempre lui, il Bilancia con la moglie paranoica che mi odia. Quando viene, io non parlo della moglie e, se ne parla lui, ascolto e non dico nulla. Avevo però notato negli ultimi tempi che lui diceva le stesse cose che avrebbe detto la moglie nelle medesime circostanze. Avevo pensato preoccupata che stesse diventando il ventriloquo della moglie. Costei riusciva a condizionarlo a tal punto da spersonalizzarlo. La moglie parlava attraverso di lui. Un grande dispiacere. Io non volevo vedere la nuora per non sentire le sue cattiverie e me le diceva Giulietto, tali e quali. - Se faccio carriera devo ringraziare Mara perché tu non hai stima di me e mi demoralizzi. - Se avessi dei figli non te li farei neppure vedere perché non mi va che crescano umili come sono cresciuto io. - Non ti chiedo favori perché tu me li faresti pesare. - Quando hai pulito la mia vecchia casa, mi hai telefonato che io stavo facendo una gara di sci per dirmi che la casa era sporca. Mi hai rovinato la giornata. - E’ inutile che insisti, decidiamo io e Mara. Tu informami, poi parlo con Mara e decidiamo noi. Quando ne avevo parlato con Mario, mio marito, lui mi aveva gentilmente risposto che io meritavo quel comportamento. Io non vorrei sentirmi dire certe
cose, invece secondo lui, dovrei accettarle e imparare a portare pazienza. - Tu dovresti far la pace con Mara, faresti felice il figliolo! -, concludeva. Quel sabato, mentre condivo l’insalata in una grande zuppiera, Giulietto diceva che aveva molte spese perché la moglie avvocato aveva poco lavoro e avrebbe avuto bisogno di danaro, ma non si rivolgeva a me perché lo aiutassi ad affittare la sua vecchia casa, in quanto io poi avrei fatto pesare il mio aiuto. - Tu mamma sei il tipo che vuol essere ringraziata e riverita! Fai pesare anche di aver fatto la mamma. Non era farina del suo sacco. Il suo pensiero poteva aver senso per altre mamme, ma lui conosceva la mia spontaneità e le mie idee. Le mamme fanno tanti sacrifici per i figli, ma non per questo devono essere ringraziate, perché magari i figli non sono per niente felici di essere venuti al mondo. I genitori hanno voluto i figli ed è giusto che facciano i sacrifici per loro. Io non ho mai preteso ringraziamenti da nessuno, meno che meno dai figli. Voglio essere trattata con educazione e gentilezza. Dai maleducati sto alla larga, nuora compresa! Verso i figli ho comprensione invece e sopporto molto. Solo la malafede di mia nuora poteva aver messo quelle parole in bocca a Giulietto. La rabbia mi è salita alla testa. Sono diventata un furia. La grande zuppiera che avevo tra le mani è volata per aria in direzione di Giulietto che l’ha respinta. E’ tornata verso di me e io l’ho respinta di nuovo come se fosse una palla ed è caduta in mezzo alla tavola, facendo andare in pezzi un po’ di piatti. I cocci sono schizzati dappertutto insieme all’insalata e io ho urlato: - Bastardo! Vai via che non ti voglio più vedere! Parole di fuoco. “Non avresti mai dovuto dirle! Te ne pentirai…”, mi rimproverò dopo, Mario. Avevo deciso che se mio figlio era diventato uguale a mia nuora, non volevo più
vedere né lei né lui. La zuppiera è rimasta intatta. La guardo spesso quando sono in cucina e penso che se è rimasta integra ci dev’essere un motivo. Niente succede per caso. Una grande zuppiera assomiglia a una famiglia: dentro si mescolano tanti ingredienti per ottenere un buon cibo e non sempre il risultato è quello voluto, ma la zuppiera è lì pronta per altre insalate. La prossima volta potrebbe andar meglio. Ho rivisto Giulietto dopo due mesi. Stava sempre zitto. Poiché non era morto nessuno, parlavo io, raccontando di quell’altra figlia che ha dieci anni meno di lui, vive lontano da casa e io vorrei che i due fratelli si frequentassero, mentre non si telefonano mai, come due estranei. - Sai Giulietto, penso che tua sorella Carolina soffra di horror vacui, da mattina a sera non ha un attimo di tempo libero. E’ un’avia matta, come diceva la nonna col suo linguaggio mezzo dialettale. Hai presente quelle vespe che sfrecciano senza meta e se ti trovi malauguratamente sul loro cammino, ti pungono pure e all’improvviso finiscono contro un vetro e schiantano? Ho paura per lei, ma non c’è niente da fare. Ogni tre mesi cambia fidanzato. Resta sempre delusa e li molla. Tu sei il contrario: un esempio di costanza e fedeltà. Sei un uomo d’altri tempi. Sei un uomo raro di questi tempi e non hai neppure i figli che ti condizionano. Sono contenta per te! Io non vado d’accordo con Mara, ma salutamela e falle tanti complimenti. Anche lei è una donna rara, costante e fedele. Giulietto zitto mi guardava col viso smagrito e gli occhi grandi e persi. Aveva in evidenza una vena blu sella tempia che batteva. Mi sembrava fosse a disagio e avrei voluto tranquillizzarlo. Continuai: - Un tempo c'erano delle regole ferree. I figli obbedivano ai genitori e la donna all'uomo. Lo schema era quello. Ci sono state donne ribelli e figli rivoluzionari e il progresso, i cambiamenti nella società sono venuti proprio da loro, dai giovani e dalle donne più anticonformisti, per cui oggi è cambiato tutto, ma è aumentata l'inquietudine. Un giovane tende a differenziarsi dai genitori, a trovare argomenti per contrapporsi e affermare la sua personalità. La donna fa lo stesso con l'uomo
e si rischia di andare allo scontro senza buoni motivi. Per restare nel giusto occorre ragionare, capire le posizioni di tutti, mediare. Non è facile, capisco che non è facile. Al limite si dovrebbe fare come i personaggi di Pirandello che cambiavano personalità secondo l'ambiente e le persone. Tu potresti provare ad essere gentile con me e anche con tua moglie, assecondando i nostri gusti e facendo i tuoi interessi. Noi non siamo mai tutti insieme e nessuno si accorgerebbe del doppio gioco. Cosa ne dici? - Anche tu potresti fare lo stesso. Assecondare Mara... - Nooo, non è così. Voi siete giovani. Viene un'età in cui dopo sacrifici, molti sacrifici si arriva alla meta, dove si aveva deciso di arrivare. Io sono nata pensando che mi sarei sposata e avrei avuto dei figli. Ero ancora ragazza e già mi vedevo sposata coi figli. Se ho studiato e lavorato è perché i miei professori a scuola insorgevano quando mia madre diceva che avevo studiato abbastanza e che avrei fatto la sarta come lei e la donna di casa. Ho studiato, lavorato, mi sono sposata e ho cresciuto due figli. Adesso faccio quello che voglio finalmente. Sono orfana, celibe – io e tuo padre facciamo quel che vogliamo liberamente – e senza figli piccoli. Non è più come prima, sono finalmente me stessa, libera, senza padroni. I figli sono padroni della mamma, sappilo, fino a che non son cresciuti! La mamma vive in funzione dei figli per il loro bene. Quando i figli sono grandi - tu hai quarant'anni, tua sorella trenta - possono chiedere ancora a una mamma oltre all’affetto, qualche disponibilità di tempo. Quello che non possono chiedere è che si adatti al loro stile di vita, che subisca rimproveri immeritati, che pieghi la testa ai loro capricci e che obbedisca. Io ho obbedito ai miei genitori e adesso dovrei obbedire ai figli e ascoltare pazientemente le loro critiche?... Giulietto sorrideva incerto, ma non sembrava convinto. Ho continuato: - Quando ero ragazza e mio padre tornava dal lavoro con le scarpe sporche di calce perché era assistente nel settore dell'edilizia e seguiva i muratori nel lavoro, in piedi tutto il giorno in mezzo ai mattoni, le betoniere e i secchi di malta, non ho mai pensato che ero povera, figlia di operai, mentre al liceo le mie compagne avevano il padre ragioniere o imprenditore, avevano bei vestiti e belle case. Non ho mai pensato che mio padre fosse un fallito e che mia madre fosse costretta a lavorare per mantenerci agli studi. I valori erano altri: lo stare
insieme, le eggiate, i racconti, i gesti affettuosi, le chiacchierate a tavola ci univano e non pensavo che mi mancasse qualcosa. I tempi sono certamente cambiati per tutti. Io stessa con voi ho dato più importanza ai soldi e alla carriera, ma senza togliere valore alle tradizioni e agli affetti. Oggi a che punto siamo arrivati? C'è solo la carriera? Ci sono solo i soldi?... - Purtroppo sì! -, annuiva tristemente Giulietto… - Tu lo credi, ma, a dire il vero, non è proprio così. La cosa più importante che sprona l'uomo, quando è giovane, è l'amore di una donna, il desiderio di essere forte per lei, per conquistarla. La carriera e i soldi sono desiderati da un uomo per essere sicuro di possedere una donna. La donna è affascinata dal potere e dal danaro e si innamora più facilmente di un uomo ricco e potente. Questa è la verità: una verità triste, illusoria, malefica, ingannatrice... Un ragazzo intelligente non dovrebbe cascarci, ma invece tutti in qualche modo ci cascano: grande carriera e grandi soldi per avere una grande donna e le donne scaltre ne approfittano. Si atteggiano a grandi donne così gli uomini sono ai loro piedi. Vero!?... - Io sono povero e non faccio carriera, Mara dovrebbe essere stufa di me e invece mi vuole bene, mi sprona a farmi valere e mi aiuta... Non posso non volerle bene! - Hai ragione e sono contenta anch'io. Io però sono sfigata e anche rassegnata, ma ho anch’io un piccolo Ego che, quando viene preso a martellate, si arrabbia e reagisce... Cerco con tutte le mie forze di tenerlo a bada, sappilo! Ma succede, fattene una ragione! Stava zitto, poi ha abbassato la testa. Ho notato che i suoi bei capelli ricci che hanno sempre addolcito il viso e dato agli occhi neri un'espressione vivace e buona, erano diventati radi e lasciavano sguarnito il volto col mento più accentuato e gli occhi stralunati di persona insicura. - Mi dispiace solo che mi hai detto bastardo, anche Mara è rimasta molto male... Lui stava per piangere. Un ragazzo debole, l'ho sempre saputo... Mara lo spronava, ma era inutile, lo faceva solo soffrire. Ognuno di noi ha i suoi limiti più o meno insuperabili. Riusciva ad essere forte solo con me. Aveva il coraggio di dirmi le cose che la moglie diceva per tenerlo, lei possessiva, lontano da me. Adesso, dopo la lite, avrebbe dovuto temere anche me.
Allora gli ho dato la mano e l'ho portato verso la madia. Ho preso la famosa zuppiera e ridendo gli ho detto: - La nostra famiglia è come questa zuppiera. Infrangibile! E' volata di qua e di là, ma non si è rotta. Siamo tutti fortissimi! Mara compresa, diglielo a Mara! Sorrideva un poco e intanto io pensavo che non aveva capito niente dei miei ragionamenti. Tutti ragionamenti inutili! Il suo era un altro mondo: la comunicazione impossibile. Urano è rifiuto inesorabilmente. Lui si sentiva vittima della famiglia e lo sosteneva la speranza, il grande sogno Uraniano, di allontanarsene verso un futuro bello nel quale ancora credeva. Lui aveva le ali aperte per volare alto, per volare lontano e io, senza capire e pensando solo al mio amore di mamma tradito, avevo cercato brutalmente di tagliargli le ali. Ero stata cattiva. Mi sono ripromessa di tenere più energicamente sotto controllo il mio Ego, il mio Narcisetto ribelle, pestarlo, soffocarlo, combatterlo con tutte le mie forze e lasciare spazio alle lamentele e ai sogni di Giulietto, senza sceneggiate, senza accuse e senza ragionarci su. “Vincerò definitivamente il mio Ego il giorno in cui accetterò di stare in compagnia di mia nuora per tutto il tempo che lei vorrà, zitta, compiacente e sorridente”, pensavo. Era una sfida difficile, perché io amo la sincerità. Una sfida che avrei vinto, che posso vincere e che vincerò per amore di Giulietto, un amore grande, un amore immenso. Un amore che non mi ha impedito di dirgli quella brutta parola, bastardo, una parola cattiva, piena di rabbia. Giulietto ne ha sofferto perché anche lui mi vuole molto bene. E, forse, mi vuole bene anche Mara. Torna all'Indice
Mi spacco, ti spacco
Sono in viaggio, mi porto dietro un quintale di bagaglio per un trasloco che ho in corso e decido di are da mia figlia che vive a Savona, una piccola città che lei ha preferito a Milano perché, lì, c’è il mare. - A Milano mi manca la natura! -, dice e ripete, quando mi rammarico per la lontananza. Sa che sto arrivando, mi apre la porta, si lascia abbracciare, è distratta. In tutta la casa risuona una musica rock al massimo volume. “Non rock, dark dolce”, dice lei. “Sono i Linkin Park - aggiunge - ti dà fastidio?”… - Noooo… Io vorrei parlare delle cose che ho fatto, delle innumerevoli fatiche del trasloco, dei progetti, delle vicende di casa a Milano, ma lei è concentrata sulla musica e segue con voce spezzata, veloce e incalzante il ritmo e le parole inglesi del pezzo che viene continuamente ripetuto. Finisce e ricomincia. Finisce e ricomincia. - Capisci cosa dice?..., arrischio. - Mi spacco, ti spacco… più o meno dice così. Ci sono due voci che si inseguono sullo stesso ritmo, una veloce e una lenta. Io studio la parte veloce. Michele fa la parte lenta. So che nelle serate libere canta e balla in qualche locale della riviera. Evidentemente si sta preparando. Sto zitta, ano due ore. Con tutti quei decibel, il mio cervello dà segni di malessere, mi sembra di vederci doppio e che i colori si sovrappongano. Ho deciso che uscirò. Lei parla: - Mamma calma! Me la sparo ancora una volta e poi basta… Mi rallegro:
- Spiegami! Perché mi spacco, ti spacco?... - E’ un modo per dire ti amo, mi ami. - Aaaah, ho capito! - Lo so che tu capisci tutto… e subito! Spegne il computer, la musica usciva da lì. - Mamma, recito, poi vado in piscina. Recitare per lei vuol dire pregare. Nella sua camera c’è una specie di altarino che si chiama Gonzon. Per i buddisti come mia figlia, questo simulacro riceve le preghiere e le trasmette all’universo che le rimanda positivamente a chi le ha recitate. La preghiera è sempre la stessa: si chiama Sutra del Loto ed è Nam mioho renge chiò. Viene recitata centinaia di volte dai buddisti di fede Soka Gakkai. Il Loto è il fiore più bello che nasce nella melma e dimostra che anche chi è brutto, povero e sporco può arrivare alla bellezza e alla felicità. Dopo un’ora di preghiere accompagnate da scamlii, variazioni nel tono di voce, brevi implorazioni eccetera, viene in cucina dove io ho cotto un po’ di riso e dei piselli. Le chiedo: - Il Padre Nostro è la preghiera più antica. Sono sette preghiere in una perché sette è sempre stato un numero sacro. In ato si conoscevano solo sette pianeti e quindi il mondo materiale arrivava a sette. Mi capisci? La tua preghiera che ripeti tante volte, cosa chiede? - Ooooh… tu la fai lunga. Il sette non c’entra. Il Padre Nostro dice: sia fatta la Tua volontà, con la T maiuscola, il Daimoku dice: sia fatta la mia volontà. - Aaaah… ho capito! - Tu capisci tutto al volo e… adesso vado in piscina. - Ma sei sicura – la inseguo io – che quella mia volontà a furia di girare per l’universo, non diventi la Tua volontà con la T maiuscola?…
- Ah lo sapevo che tu, se potessi, faresti scuola anche al Budda! – ride – Sappi che io prima facevo trenta vasche e mi stancavo, adesso ne faccio sessanta e oggi voglio farne settanta… Sono i miracoli del Daimoku.
Esco anch’io. Non mi sono ancora affezionata a Savona. Mi sembra noiosa e provinciale. Oggi la piazza del Municipio, che mi piace, è occupata da una grande giostra dorata. Decine di bambini schiamazzano. Vado da Mantero, il miglior salumiere a comprarmi quattro fettine sottili di salame, quel che posso permettermi per non far salire alle stelle il mio colesterolo. E’ sabato e c’è gente. Davanti a me una bambina con la faccia paffuta e i riccioli biondi fa i capricci: “Voglio, voglio, voglio… ancora, ancoraaa…”, piagnucola, pesta i piedi e si agita come un gatto tirato per la coda. Mi infastidisco e non riesco a trattenermi: - Piantala – esplodo – se fossi tua mamma ti avrei già legata e imbavagliata! Tutti mi guardano male. La bambina si blocca spaventata con gli occhi sbarrati. Spiego che cent’anni fa, nelle migliori famiglie, i bambini venivano costretti a stare dritti e fermi da croci di ferro inserite all’interno degli abiti e potevano parlare solo se erano interrogati. Freud condannava questa repressione, ma condannava anche la gratificazione. - Questa bambina andrebbe messa imbavagliata in una gabbia… con le rotelle, magari, per non far faticare la madre -, concludo e me ne vado. Ho speso meno di un euro con le mie quattro fettine di salame e ho messo in subbuglio tutto il negozio.
Penso a mia figlia. Lei da piccola era seria e obbediente. A vent’anni ha cominciato a dire: “E’ una scelta di vita!...” e, di scelta in scelta, si è allontanata da me. Oppenheimer, Bruno Oppenheimer curava i bambini autistici, cioè quei bambini che vivono concentrati sui propri bisogni e ignorano il mondo. Sono bambini che
non comunicano, fortezze vuote, come le chiamava lui che, con le sue cure, otteneva risultati strepitosi. Si dice, con disapprovazione, che usasse talvolta la violenza. Lui diceva che la maggioranza dei piccoli autistici avevano una madre intellettuale. I bambini vogliono attenzione, possono sopportare anche le botte, ma vogliono attenzione. Mia figlia da piccola prendeva i libri che leggevo e li scarabocchiava pagina dopo pagina. Non le davo attenzione come avrebbe voluto lei. Adesso è lei che non presta attenzione a me. E’ giusto così. Da sola ha trovato la sua strada. Lontano da me. Bravissima. Vado verso la spiaggia. Il mare che mia figlia adora, non mi piace. Tutta quell’acqua cosa nasconde? Cosa c’è dentro? Chi usa troppo la testa vuol sapere, sempre e di tutto, cosa c’è dentro. E’ un fatto di testa!... L’intellettuale è fatto così: vuol sapere cosa c’è dentro. Mi seggo in un angolino tra le cabine, con le spalle al mare e tiro fuori un libro. I figli mi hanno lasciato, mi sono rimasti i libri. “Care Memorie” di Margherite Yourcenar. Parla dei suoi antenati, qualche centinaio di antenati con zii, figli e nipoti, luoghi, dimore e oggetti. Una confusione terribile, peggio della musica dark… Io voglio sapere cosa c’è dentro e questa scrittrice, altrove incantevole, descrive tutto quel che c’è fuori e intorno, sfoggiando peraltro una memoria e una cultura enciclopediche. - Poveretta, se avesse avuto figli, sarebbero stati tutti autistici! Almeno secondo le teorie di Oppenheimer…-, penso e, stanchissima, mi appoggio alla parete della cabina e chiudo gli occhi. Vedo un bel cortile luminoso e grande, un cortile d’altri tempi. Tutt’intorno gerani rossi festosi e al centro un vecchio pozzo di pietra. Un contadino vestito in costume alza il coperchio e cala un secchio. Il secchio scende, scende, scende e finalmente , ciak, ecco l’acqua. L’uomo manovra ruotando all’incontrario il verricello, il secchio sale e arriva su, lui guarda dentro e resta allibito. Dentro c’è un grosso topo di colore rosa coi peli radi a forma di aculei. Gli occhi
sembrano due piccole luci azzurro verdi e la bocca è aperta in un sorriso ironico. Il ragazzo chiama a gran voce e arriva una contadina anche lei in costume. E’ lei che deve uccidere il topo. Entra con uno zoccoletto nel secchio, ma lo ritira inorridita: - Non ce la faccio!... -, grida e si gira. Ha la faccia larga con gli occhi sbarrati della bambina che faceva i capricci in salumeria. Sento la voce di mia figlia: - Mamma, cosa fai, lì? Ti avevo scambiato per una barbona! Vedo che piace anche a te il mare! Qui in spiaggia è bellissimo, c’è il profumo del mare… - Stavo sognando un topo rosa, forse quello di Freud… - Cioè?... - Ma sì, il sesso! Le donne hanno sempre dovuto uccidere loro il topo rosa! Ma oggi non ce la fanno più! Chissà se è meglio così?!? - Io lo uccido tutti i giorni, senza pietà! Meglio settanta vasche. - Povero topino!- dico inorridita - Io quando lo sogno non ho mai il coraggio di ucciderlo. Sentire le ossicine scricchiolare… non potrei. - Sei vecchia, sei antiquata, io non sogno il topo rosa, sogno gli scorpioni neri… velenosi! L’accarezzo: mi dispiace che ami quella musica assordante, dark... nera, come dice lei, che reciti continuamente il Daimoku, che sia condannata a settanta vasche al giorno e che sogni gli scorpioni neri. Mi dispiace perché le voglio bene e faccio fatica a capire che lei, nella sua diversità, è felicissima. Torna all'Indice
Ma l'uomo chi è?
Siamo abituati a osservare uomini e donne ciascuno separatamente e a farne valutazioni approssimative sulla base della nostra esperienza: Tizio è buono, un pezzo di pane, Caio è presuntuoso, paranoico, crede di essere Napoleone, Sempronio è pigro, un pasticcione eccetera, eccetera, quell'altro poi è mezzo matto chissà come mai... Effettivamente siamo tutti diversi nel fisico e nello spirito, ognuno di noi è un unicum con caratteristiche proprie, con impronte digitali e DNA diversi per ciascuno: corpo e mente personali e inimitabili, unici nell'universo. A me però piace semplificare e allora se è possibile, come fa l'astrologia, suddividere le persone sulla base dei dati di nascita, cioè essenzialmente del Segno dello Zodiaco, se è possibile, ripeto, capire qualcosa di una persona semplicemente dal suo Segno, vuol dire che un po' si può generalizzare. Facciamo un esempio. Uno è nato ai primi di dicembre ed è quindi un Sagittario, segno di Fuoco, Mobile, come si studia in astrologia. Di solito costui è vivace, vitale e con le cosce robuste (tutta la muscolatura fianco-coscia è governata dal Sagittario e lo si capisce bene pensando alla grande forza della “valanga azzurra” Alberto Tomba, tipico Sagittario). Manifesta la sua energia nel movimento e nella comunicazione. In generale è pure ottimista, onesto e ama la giustizia perché il Sagittario è il Segno di Giove. Insomma quando io incontro una persona sempre un po' su di giri e tutto muscoli, che allegramente parla delle sue imprese, di viaggi e peripezie varie, con un sorriso raggiante e gli occhi luminosi, penso subito che abbia una componente Sagittario e... di solito non sbaglio. Mi rendo conto ovviamente che un dodicesimo dell'intera umanità è dello stesso segno, cioè Sagittario. Sono milioni di persone tutte diverse tra di loro, e di Alberto Tomba ce n’è uno solo, eppure io sono convinta che tracce di Sagittario si possano trovare in tutti quei milioni di esseri diversi. Chi pensa che io stia sragionando o strologando come dicono i milanesi, non vada avanti a leggere. Per gli altri che hanno deciso di seguirmi in questo mio
tentativo di sintesi, aggiungo che, leggendo la storia e anche la preistoria per quel poco che se ne sa attraverso lo studio dei resti che ci sono arrivati, si evince abbastanza chiaramente che gli uomini hanno mostrato, nei secoli e millenni ati, caratteristiche comuni soprattutto dipendenti dalle condizioni socioeconomiche. L'uomo del Paleolitico, soprattutto in seguito alla scoperta del fuoco, aveva a disposizione una tale abbondanza di cibo che, dopo poche ore giornaliere di caccia per il maschio e di raccolta di frutti ed erbe commestibili per la donna, poteva divertirsi, riposare, viaggiare alla ricerca di nuovi territori, costruire utensili per migliorare le sue condizioni di vita, vivere insomma in maniera abbastanza tranquilla. I prodotti della caccia e della raccolta erano così abbondanti che non c'era competizione. Per difendersi dagli animali gli uomini si aiutavano tra di loro e i territori a disposizione erano talmente ampi, in rapporto alla esiguità della popolazione, che c'era posto per tutti. L'uomo del Paleolitico sapeva già che le piante nascevano dai semi, ma si guardava bene dal raccogliere i semi e coltivare. Troppa fatica! Preferiva muoversi verso nuovi territori inesplorati ricchi di piante e selvaggina e utilizzare tecniche di caccia sempre più raffinate con l'uso del fuoco oltre che delle armi. Accendere il fuoco tutt'intorno ad un elefante e farlo precipitare in un dirupo, era poco faticoso e assicurava cibo abbondante. Gli uomini del Paleolitico non si facevano la guerra, erano pacifici, vivevano bene, lavoravano poco, ma consumavano grandi quantità di risorse naturali per nutrire una popolazione in crescita. Cresceva il benessere e cresceva la popolazione fino a che le risorse cominciarono a scarseggiare. Divenne necessario cambiare vita: coltivare i campi e allevare il bestiame con tutte le fatiche collegate a queste attività. I campi dovevano essere soleggiati e in prossimità di corsi d'acqua e il bestiame doveva trovare erba fresca in tutte le stagioni con la necessità di transumanze, cioè spostamenti da un versante all'altro delle montagne, mentre in pianura il foraggio doveva essere raccolto e conservato. Incominciarono le lotte, lotte dure e selvagge per occupare i terreni più fertili e ricchi d'acqua e, all'interno di ogni comunità, gli uomini più dotati di forza fisica,
di resistenza e di coraggio incominciarono a distinguersi, a ottenere riconoscimenti, fino a diventare capi con un potere più o meno grande secondo i casi. In alcune società si ebbe una stratificazione sociale molto articolata come nell'antico Egitto, mentre altrove la società primitiva rimase paritaria per secoli. Questo stato sociale di tipo egualitario sembra si sia verificato preferibilmente nei luoghi dell'Europa centrale e dell'Italia settentrionale, ad esempio, dove non correvano grandi fiumi come il Nilo in Egitto o il Po in Italia. I grandi fiumi erano per i territori circostanti una ricchezza che doveva essere regolata e spartita da una classe sociale di livello superiore che decideva le leggi e riusciva a convincere il popolo della loro bontà. Dove non c'erano i grandi fiumi la ricchezza era distribuita dal Padreterno attraverso le piogge e non serviva la burocrazia. I capi del villaggio erano in questo caso gli uomini più forti e coraggiosi ai quali toccava affrontare pericoli e nemici. Nella cosiddetta Cultura dei campi di urne dell'Europa centrale i corpi di tutti i morti, senza distinzione, venivano bruciati e le ceneri dei maschi erano deposte in urne rovesciate con all'interno armi spezzate, mentre le urne delle donne erano diritte e contenevano monili come collane e orecchini. L'auspicio era per i maschi di un cambiamento di vita (una vita più facile senza armi), mentre la vita della donna era considerata piacevole e poteva continuare anche nell'al di là e in una eventuale reincarnazione. Si trattava certamente di un punto di vista maschile perché gli uomini più forti fisicamente, in tempi in cui la forza fisica era fondamentale per la sopravvivenza, dominavano sulla donna e decidevano loro come dovevano essere le tombe. E' certamente così ma è anche indubbio che la vita dei guerrieri del tempo non dovesse essere invidiabile e si può ben comprendere che fosse considerata migliore la vita delle femmine. Nella Cultura Palafitticola intorno al fiume Po e nell'Antica Cultura Egizia intorno al Nilo, la differenza nella sepoltura non era tra maschi e femmine, ma tra la gente del popolo e i grandi capi, come i faraoni con i loro illustri cortigiani e i sacerdoti. Schiavi e contadini dopo morti finivano ammonticchiati in fosse comuni. I capi, considerati semidei, invece erano inumati imbalsamati in grandi tombe
con arredi preziosi perché dovevano conservarsi e reincarnarsi tali e quali. Guai se si fossero reincarnati nei panni di uno schiavo o di un contadino! In definitiva da questo semplice confronto si ricava un certo modo di pensare dell'uomo che nelle società primitive si esprimeva con evidenza nei riti funebri: la sepoltura in una cultura paritaria è la stessa per tutti, in una cultura stratificata cambia, perché il privilegiato vuole godere dei suoi privilegi anche nell'al di là e pure nella vita futura. Ecco l'uomo! Questo è l'uomo: si piega e lavora duramente se non ha scelta, ma appena riesce a godere di un qualche privilegio, non pensa ai poveretti, fatti come lui che avrebbero i suoi stessi diritti e invece piegano la schiena con fatica anche per lui, ma si convince e riesce pure a convincere gli altri che quei privilegi sono un suo diritto e teme di perderli non solo in questa vita, ma addirittura nell'al di là in cui crede e nelle vite future, se crede nella reincarnazione. Prega e auspica di restare privilegiato! Può un essere intelligente - e l'homo sapiens lo era certamente come si ricava dallo studio del suo modo di vivere pur in tempi lontanissimi - avere tanta ingenuità da illudersi di essere superiore, simile a un dio che comanda, e da credere di avere il diritto di essere servito e di non faticare? Penso che il terrore, il panico, la paura, l'angoscia che suscitava la vita misera dei poveri, schiavi e contadini, dovevano essere così grandi che l'uomo, appena poteva cercava di ottenere privilegi e potere e si rifugiava nella speranza e nell'illusione di essere diverso, non soggetto a quei terribili mali. Non soggetto a quei mali per l'eternità! E finiva per crederci sul serio, senza ripensamenti, senza sensi di colpa. Non scriveva il geniale (?!) Platone secoli dopo "Se la natura non avesse voluto donne e schiavi avrebbe dato alle spole la qualità di girare da sole…"? L'uomo, anche quando è particolarmente intelligente, anche quando impegna la mente nella ricerca del vero come nel caso dei filosofi, tipo Platone e Aristotele, difende prima di tutto il suo stato sociale, il benessere suo e degli altri come lui. La sua mente è condizionata da due fattori basilari che non può mettere in
discussione, senza mettere in crisi la sua stessa sopravvivenza. Il primo fattore riguarda le risorse naturali che non sono sufficienti per il benessere di tutti. Occorre quindi fare una selezione, anche attraverso lotte intestine e guerre, e chi perde, cioè è più debole, diventa schiavo, obbedisce, si sacrifica, lavora senza tregua, va in guerra, si ammala e muore anzitempo. Il secondo fattore è la religione - la parola vuol dire, in maniera molto chiara, leggi del re, cioè insieme di leggi assolute decise dai capi del gruppo sociale - , religione che tutti i componenti di una comunità devono rispettare pena il carcere, l'espulsione o la morte. Socrate era stato condannato a morte anche perché i suoi insegnamenti erano sembrati in contrasto con la religione degli dei della città di Atene. La religione è sempre stata intoccabile nelle società primitive, Medioevo compreso, fino a non molti decenni fa ed è sempre stata espressione delle classi dominanti. Particolarmente significativo in questo senso, cioè per guardare in profondità nel cuore e nella mente dell'uomo, è proprio lo studio del Medioevo durato, nel nostro Occidente, ben quindici secoli e governato non dall'idea cristiana di amore del prossimo - in contrasto con consuetudini e ipocrisie diffuse in tutte le comunità asservite ad una classe dominante privilegiata e spietata coi deboli -, ma dalla ideologia cristiana , una ideologia studiata per favorire il potere e la prepotenza dei signori della Chiesa e dei signori delle Città, in contrasto con lo spirito del Vangelo. Chi osava predicare secondo lo spirito evangelico e soprattutto chi osava affermare che gli uomini sono tutti uguali e hanno tutti gli stessi diritti era eretico, veniva processato dai tribunali dell'Inquisizione, torturato e bruciato, ben spalmato di pece - così soffriva di più e la sua sofferenza era di lezione per gli altri, ma la teoria era che il fuoco vivo purificasse la carne dal peccato. I contadini stavano peggio degli schiavi i quali vivevano vicino ai padroni, vestiti e nutriti da loro. I contadini dispersi nelle campagne, con la schiena piegata nei campi di giorno, assediati dagli animali, come lupi e cinghiali, nel buio della notte, malnutriti e spesso ammalati di malnutrizione, non solo dovevano consegnare ai signori buona parte del raccolto, ma dovevano spesso assistere impotenti alla distruzione da parte di insetti e topi della parte riservata a loro perché le cascine erano in
generale fatiscenti, in posizioni umide senza magazzini adeguati per la conservazione. Inondazioni o siccità con conseguenti carestie ed epidemie come la peste e la tubercolosi, completavano il quadro drammatico di una vita sempre sull'orlo della disperazione. Eppure se qualcuno osava dire "ho fame", gli cavavano tutti i denti così avrebbe imparato cosa era realmente la fame e se osava dire "lavoro troppo", gli bruciavano i polpacci così non avrebbe più lavorato e avrebbe dovuto chiedere la carità o morire di fame. Torture terribili! Torture terribili per chiunque osava ribellarsi. Questa era la carità cristiana nel Medioevo. Questo era l'uomo. Questo è l'uomo.
L'industrializzazione ha cambiato le cose, i contadini sono diventati operai e poi consumatori e le cose sono nettamente migliorate. Chi si lamenta oggi dovrebbe leggersi la storia socioeconomica del Medioevo di Marc Bloch o di Jacques Le Goff, per fare un piccolo confronto e capire come avrebbe vissuto se fosse nato anche solo un secolo fa perché la grande Storia è ata attraverso le più svariate vicende in quei quindici secoli (il Rinascimento, l'Illuminismo, il Romanticismo ecc ...), ma la piccola Storia del popolo delle campagne si è andata ripetendo sempre uguale, combinando magari in proporzioni diverse sfruttamento, sacrifici e malattie, ma con lo stesso risultato finale. Basti pensare che a fine Ottocento nel Milanese la vita media era di ventisette anni e nelle campagne della Bassa Ticinese di soli diciotto anni (tenendo conto, come è giusto, della elevatissima mortalità infantile). Divertentissima la disputa tra due intelligentoni vissuti sul finire del Settecento, Pietro Verri storico, letterato e polemista con tendenze socialiste e Domenico Berra, letterato e agronomo considerato più conservatore. In quell'epoca il comportamento dei signori verso il contado, sempre trascurato in ato e considerato un bene da sfruttare e non un investimento, era un poco cambiato perché i grandi guadagni sulle vendite dei prodotti agricoli e dei loro derivati attirava l’attenzione dei più colti che spesso si improvvisavano agronomi.
Pietro Verri scriveva che le terre bagnate che andavano crescendo nel Basso Milanese erano dannose per la salute e facevano ammalare e morire i contadini. Una sua indagine nella quale metteva a confronto la mortalità a Milano e nelle terre asciutte della Brianza e del Comasco, con quella nelle zone bagnate di Pavia e Lodi aveva evidenziato una mortalità superiore di circa il 30% in queste ultime con la conclusione che l’aumento delle marcite ( prati leggermente digradanti sui quali veniva fatta scorrere l'acqua lentamente per tutto l'anno) portava ad un aumento cospicuo delle mucche da latte ma ad una diminuzione proporzionale della popolazione perché diminuivano i campi seminati a grani indispensabili per l’alimentazione di base dei contadini. Berra che aveva sviluppato lo studio delle marcite, contestava la teoria di Verri con molti argomenti sicuramente validi: nel Ticinese ci sono le risaie con acque stagnanti, mentre le marcite hanno acque in movimento, inoltre gli anni tra il 1816 e il 1818 avevano visto una produzione così alta di grani che il loro prezzo era diminuito per cui la produzione di grani era più che sufficiente per tutti eccetera, eccetera. Nessuno dei due sembrava che avesse capito la vera differenza tra i dintorni di Milano, la Brianza e il Comasco, dove l'economia era più libera e i contadini vendevano direttamente i loro prodotti ai signori che venivano in vacanza in quelle campagne, rispetto al Ticinese dove la produzione era intensiva, e intensivo era anche lo sfruttamento della manodopera. Litigavano tra di loro esibendo teorie conservatrici o apparentemente più favorevoli ai lavoratori, ma non dicevano la verità e cioè che i contadini stavano meglio e morivano di meno, non per merito dell'asciutto o del bagnato, ma se potevano guadagnare qualcosa di più e fare una vita un po' meno povera e faticosa.
Oggi è cambiato tutto. L'eguaglianza e la giustizia sono valori diffusi. Nessuno oserebbe dire che un essere umano ha meno diritti di un altro. Questo succede perché viviamo in una società sviluppata, secondo la definizione dello storico Ruggero Romano, cioè il cui benessere non dipende dal numero di persone che la compongono (in ato i periodi di maggior sviluppo si avevano dopo una epidemia grave che aveva falcidiato la
popolazione). Oggi cresce la popolazione e non cambia il tenore di vita. Però l'uomo ha paura. Gli è rimasta dai millenni ati, la paura. Paura della fame. Paura di perdere i privilegi. Paura di perdere il potere. Con l'emancipazione femminile il maschio è diventato insicuro e cattivo. Paura di perdere la roba, le cose, i beni. Paura di perdere il rispetto e la considerazione sociale. Poiché è sempre successo che chi è considerato socialmente di rilievo, goda di rispetto e privilegi, la paura di avere un Ego debole, nella attuale società di massa nella quale è difficile distinguersi, è diventata una specie di epidemia contagiosissima che incattivisce e distrugge i rapporti. Sua maestà l'uomo oggi è un essere ben pasciuto, con molte sicurezze materiali, con un tetto sulla testa e qualche soldo in tasca per i suoi piaceri, ma continua ad avere paura, come nel suo ato lontano o più recente, paura di perdere. Quando perde la salute e si avvicina la morte, talvolta ha meno paura, ma non sempre si verifica. Alcuni a un o dalla morte, telefonano alla banca per verificare la consistenza dei beni e sentirsi più sicuri.
La conclusione potrebbe essere che l'uomo è un essere mortale. Sa che perderà la vita e vuole inconsciamente rifarsi su tutto il resto. Vuole morire pensando e dicendo: " Ho fatto questo... ho fatto quello... ho costruito... ecc... ", non: "Ho perso... sono stato debole... non sono nessuno...". A ben pensarci, i valori sarebbero altri. Un valore sarebbe forse quella eredità d'affetti di cui parlava il Foscolo, ma... sembra essere ata di moda. Meglio lasciare in eredità un bel conto in banca?! Nooo, non è detto, anche la riconoscenza pesa... e divide.
Mio marito è preso dallo sgomento quando perde piccole cose come un ombrello, un mazzo di chiavi o un pacchetto con qualche indumento dentro. Mi dice "E' colpa tua, mi hai distratto!". - Ma perché ti dispiace tanto, il valore è minimo. Comprerai un ombrello nuovo, magari più allegro. - No, io voglio il mio! Un giorno ho perso i miei occhiali da vista. Erano appesi al collo con una cordicella e correndo col cane si sono sfilati. Ho una decina di occhiali simili in giro per casa, ma ero disperata, mi sembrava che solo quelli persi, fossero belli, eleganti e, come dico io, "ci vedessero bene". Dopo qualche giorno noto un grosso cane, in un'area riservata ai cani, con in bocca i miei occhiali. Mi sono precipitata dentro il recinto e a gran voce ho cercato di riaverli: - Bello cane - era un boxer brutto e bavoso... - bello cane, dammi quella cosa lì che hai in bocca!... Niente, lui scappava e quando, in cambio di un biscotto, li mollò per terra, erano mezzi distrutti con le stanghette rotte. Mio marito, prezioso segno della Vergine, li sistemò sostituendo le stanghette. Bellissimi, seminuovi, ma oramai mi ero abituata agli altri occhiali che avevo incominciato a portare e non li ho più usati. Non so neppure dove siano finiti. Oramai sono insostituibili gli occhiali che sto portando adesso. L'uomo è abitudinario. Si abitua, non vorrebbe cambiare. Invece il cambiamento fa parte del nostro destino. Solo cambiando si impara, ma è faticoso e l'uomo non ama la fatica. Cambia, quando è costretto. Il timore di perdere e la paura del cambiamento sembrano essere alla base della maggior parte dei comportamenti sociali dell’uomo. Un uomo consapevole dovrebbe avere come obiettivo il superamento di questi timori.
E la vita insegna, perché nella vita ogni giorno si perde qualcosa: se ne va la gioventù, se ne va la bellezza, se ne vanno i genitori in un modo e se ne vanno i figli in un altro. Anche gli amici ci lasciano. Il cambiamento è importante perché solo col cambiamento possiamo uscire dalle strettoie dove spesso la vita ci porta e essere più felici. Bisognerebbe poi imparare il distacco, molto difficile, ma indispensabile per la serenità. Il distacco che non è l’indifferenza, fredda come la morte, ma è l’arte di non separare mai il cervello dal cuore e dalle impressioni. Restano purtroppo le emozioni che sono un’altra cosa; sono, per definizione, fuori dal controllo della mente, sono vicine alla follia. Per questo l’essere umano è così complicato. Perché è un po’ pazzo! Avesse solo cuore e cervello sarebbe tutto più facile!
Ciò che io non vorrei mai perdere è la pace. E possibilmente anche la libertà. Mi vien da dire: - Coloro che non mi amano, mi lascino in pace e se ne vadano subito! Mi vien da dire: - Quelli che mi amano è meglio che mi dimentichino, perché voglio essere libera adesso, nell'al di là e nella prossima vita. Poi ci sono le emozioni e la realtà è un’altra cosa. Torna all'Indice
Il ballo oggi e Freud
Mia figlia Carolina è una apionata ballerina. Ha seguito e segue corsi di tutti i tipi: ballo da sala, latino americano, tango argentino, danza del ventre e altre cose più attuali come la chizomba, una danza sensualissima con molte figure, giravolte e abbracciamenti che mimano una seduzione travolgente tenuta a stento sotto controllo. Quando arriva in una sala dove si balla, osserva un po' le coppie in pista. Se nota qualche ballerino bravo, va da lui a chiedergli se vuole ballare con lei. Non le interessa se il tizio è accompagnato e la compagna magari è gelosa. Non ci pensa neanche. Incomincia con uno, poi a ad altri e va avanti ore. Torna a casa alle tre del mattino, talvolta più tardi e non si è mai fermata. Lei dice che il ballo è ginnastica, movimento, divertimento e che la sua gioia consiste nel trovare ballerini bravi che le diano il senso della perfezione e della massima armonia di coppia. Freud diceva che il ballo, ma anche le pedalate in bicicletta o le cavalcate sul dorso di un cavallo, sono tutti sostitutivi della attività sessuale e io non so cosa pensare. Carolina balla quasi tutte le sere e non ha il fidanzato: una erotomane mancata, oppure Freud è superato? Alcuni giorni fa, io e Mario siamo andati con lei ad una sagra in Toscana dove eravamo in vacanza. Al centro di una pineta c'era una balera, come si sarebbe chiamata ai miei tempi, cioè un ampio spazio cementato dove si ballava, mentre sul palcoscenico un gruppo musicale suonava e tutt'intorno giovani e intere famigliole consumavano bibite e chiacchieravano ai tavoli. Carolina piroettava instancabile in pista e io la guardavo con piacere. Mario stava frequentando a Milano una scuola di ballo da sala. Tra gli anziani è oggi di moda frequentare scuole di ballo e poi ballare appena possibile (satirìasi repressa, direbbe Freud…). Ogni ballo ha i suoi i secondo un ritmo a due, tre o quattro tempi. Lui, da
buon Vergine, segue scrupolosamente le regole. Quella sera si è messo con un gruppo di anziani che al bordo della sala ballavano insieme. Erano bravi, si muovevano a tempo e in armonia tra di loro. Prima, tutti in avanti, poi uno spostamento a destra, gambe incrociate con piegamenti leggeri delle ginocchia, poi tutti indietro e via... Ma che bravi! Io non ci riuscirei mai, forse perché mi manca l'orientamento nello spazio. "Come fanno a decidere tutti insieme di andare a destra invece che a sinistra?", mi chiedevo. Mio marito era particolarmente elegante: si muoveva con delicatezza ed elasticità. Suonavano una mazurka e mi ha chiesto di ballare. Io quando ero giovane ballavo valzer e mazurke allegramente senza pensare ai i, invece lui, da buon Vergine, mi ha fatto notare qual'era il ritmo e quali dovevano essere i i. Io l'ho seguito un po', poi ho cominciato a girare trascinandolo con me. Avevo voglia di girare! Lui mi ha mollato in mezzo alla sala, tornando al tavolo. Non è stato al gioco, da buon Vergine un po' Scorpionico, cioè prepotente, come è lui, mi ha lasciato girare da sola. Sono abituata a sopportare le incomprensioni dei miei simili, marito e figli compresi, ma l'altro giorno mi sono arrabbiata: il mio piccolo Narciso si è ribellato. "Fagliela pagare!", mi ha detto. Ho fatto allora un giro della sagra per calmarmi. A una bancarella mi sono comprata una collana con sette o otto file di pietre colorate e quando ho sentito che suonavano una danza scatenata tra il rock, la samba e la chizomba, sono andata in pista, quasi al centro e ho cominciato a muovermi ondeggiando a suon di musica come avevo fatto certe volte da giovane ai tempi del rock and roll. Gli altri ballavano in coppia, ma non si capiva, perché ognuno si contorceva per conto suo e solo ogni tanto la ballerina si appoggiava al cavaliere per una giravolta o un casché. Ai tempi, avevo imparato che chi non era particolarmente abile nel saltare e piroettare, acquistava disinvoltura e slancio alzando le braccia come a voler prendere qualcosa che stava in alto. Lo facevo con disinvoltura a suon di musica e mi divertivo pensando di are inosservata in mezzo a una
folla di ballerini giovani molto più scatenati di me, quando ho sentito una signora seduta ad un tavolo vicino che diceva indicandomi:"Quella è una professionista, si vede!". Incoraggiata mi sono lanciata e ad un certo punto mi sono trovata circondata da un bel numero di baldi giovanotti che si davano tutti un gran da fare intorno a me per farsi notare. Anche il ballerino di mia figlia si era avvicinato e ho sentito Carolina che diceva: "Ma guarda la mamma!?!"... Ridendo, sono tornata al tavolo dove Mario imbarazzato teneva gli occhi bassi. Conoscendolo, non era pentito della sua arroganza, ma, da buon Vergine un po' Scorpionico, si vergognava della mia esibizione e condannava il mio comportamento. - Vedi come ballo io? Non faccio unduetré, perché non impari anche tu? -, gli ho detto. Lui mi ha guardato come se fossi il diavolo: - Se andassi a scuola di ballo, impareresti che è l'uomo che guida e la donna lo deve seguire. Almeno nel ballo comanda l'uomo. Anche oggi! - Sarà! Ma se leggessi Freud impareresti che il ballo è una alternativa al sesso e se molli una ballerina, se la prende qualcun altro! Era paralizzato, non diceva più nulla. Avrebbe potuto dirmi "Sei una vecchia carampana, chi vuoi che ti prenda" e cose simili. E' stato educato, non l'ha detto. L'ho invitato a ballare un foxtrot, ma non siamo riusciti, gli tremavano le gambe.
Poveri uomini! Erano i padroni del mondo e oggi le donne gliene fanno e gliene dicono di tutti i colori. Mia figlia li usa per ballare, perfezionarsi e divertirsi. Io, che mi considero una mezza santa, li strapazzo e li umilio. Poi odio mia nuora che ha preso possesso di mio figlio. Poveri uomini. erà molto tempo prima che Mario se la senta di venire ancora a ballare con me.
Torna all'Indice
Ma la donna chi è?
Ho letto alcuni piccoli romanzi di Susanna Tamaro, nel libro dal titolo Rispondimi, romanzi che raccontano fatti drammatici con donne protagoniste: donne infelici, tradite dall’uomo e dalla società, sole, costrette a sottomettersi e a subire terribili ingiustizie. La figlia di una prostituta resta orfana quando è bambina, sogna di essere adottata da una buona famiglia, invece viene accolta da due vecchi zii poveri, ignoranti e pieni di pregiudizi verso la mamma di lei. La trattano con durezza, pretendono che lavori instancabilmente e non la amano. Fugge, trova lavoro presso una bella famiglia, ma alla fine viene ingannata, resta incinta, sola e disperata. Chiede aiuto al padreterno e lo supplica: Rispondimi! In un altro racconto, una bella fanciulla semplice e di buon cuore, cresciuta in campagna, è scelta in moglie da un ricco giovane in carriera che è sadico e possessivo, la sottomette, non le dà spazio, le fa paura e arriva a uccidere un loro figliolo che lui rifiuta temendo di non esserne il padre. La terza storia sembra diversa perché l’uomo è buono, servizievole e soccorrevole verso una donna timida e depressa che dipende totalmente da lui, ma quando la donna guarisce dalla depressione e acquista sicurezza e indipendenza, è lui che entra in crisi e perde talmente la testa che finisce per ucciderla. Il libro è un atto d’accusa all’uomo che seduce la donna per sottometterla e sopprimerla moralmente fino ad arrivare talvolta alla soppressione fisica. La donna ingenua, desiderosa di essere amata, cade nel tranello e finisce vittima in un modo o nell’altro, sia quando l’uomo appare forte e le toglie la libertà, sia quando appare gentile e generoso la seduce e l’abbandona, sia quando sembra debole, dipendente da lei fino alla morte. L’uomo, sembra dire la Tamaro, ha qualcosa che non va. Si diverte mettendo incinta le donne e poi sparisce. Quando si sposa, nel caso migliore, tradisce la moglie. In generale esercita su di lei il potere, talvolta fino al sadismo.
In ato si sapeva che l’uomo comune è un tipetto un po’ irresponsabile e prepotente. Era normale allora che lui frequentasse le case di tolleranza, dove poteva esercitare i suoi vizietti impunemente poiché tutto, lì, era organizzato per soddisfarli senza conseguenze personali e sociali. Le donne virtuose che si sposavano avevano dei vantaggi economici o sociali, poiché allora la donna non lavorava e si maritava con un uomo che godeva di benessere e di una buona condizione sociale. Lei in cambio ubbidiva, sopportava, si sottometteva e… procreava. Nei racconti della Tamaro c’è una vivace contrapposizione tra la città e la campagna. In città le donne studiano e lavorano, mentre in campagna funzionano ancora i vecchi schemi: lavori duri in fattoria per la donna di famiglia povera, mentre la signorinetta di buona famiglia cuce e ricama in attesa di trovare un buon marito. Oggi, ovunque, la donna lavora o aspira al lavoro e all’indipendenza economica. L’uomo non può in generale mantenere una famiglia senza la collaborazione della donna, anzi, preferisce la donna che lavora e che lo aiuta economicamente. E allora può ancora l’uomo esercitare un ruolo dominante come in ato, fare il prepotente, umiliarla come si era abituato a fare, vantarne il possesso, comportarsi da irresponsabile e padrone come nei racconti di Susanna Tamaro? No, non può. In generale non può. Deve cambiare, adattarsi a un ruolo nuovo e diverso. “Il sciur padrùn dalle bele braghe bianche…” della canzone delle mondine, che le mondine ammiravano e da cui aspettavano la sera la paga della dura giornata di lavoro prima di andare a casa a riposare, il sciur padrùn dalle bele braghe bianche - diciamolo chiaro - è in mutande, non ha più le braghe, è nudo! E per lui è una situazione durissima da tollerare. Lui è sulla difensiva. Talvolta, disperato, uccide la donna che non lo vuole, i figli e se stesso. Più spesso è rassegnato o lo sembra, in realtà è in crisi, in crisi di identità - “ma io chi sono, che ruolo ho se non sono il capo né in società né in famiglia?”, si chiede - e non sa cosa fare. Prova a ribellarsi, ma di fronte ai fallimenti - separazioni e divorzi - diventa un cagnolino, segue la compagna
ovunque, nei negozi, sulle piste da ballo o in giro per il mondo. Va dallo psicologo, cambia compagna: ci prova con la madonnina infilzata, con la disinvolta e disinibita, con quella ricca e con quella povera, ma la delusione, l’amarezza, la nevrosi lo perseguitano. L’errore è sempre lo stesso, è lo stesso errore che gli uomini hanno sempre fatto: prima la vittima era solo la donna, ora ne sono vittime loro stessi. La corda è l’emancipazione femminile che essi hanno tenuto lontana finché hanno potuto, ma adesso è arrivata e potrebbe essere usata per fare un bel fiocco con cui festeggiare una vita felice, invece loro stupidamente ci si impiccano. L’errore è il desiderio di possesso: la donna oggetto da possedere. L’errore ancora più grave è la mancanza di conoscenza: l’uomo non sa chi è la donna. Vuole possederla e non sa cosa è. La donna, lo abbiamo già detto, è come la Luna regina della notte. La notte rappresenta il buio, l’assenza di luce naturale, il tempo del riposo e del sonno. Durante la notte l’uomo, per vivere tranquillo e dormire, deve avere la coscienza a posto, non avere nemici, sentirsi in pace. Se teme agguati o aggressioni è agitato, non dorme, ha paura, chiude porte e portoni e prepara le armi. Di giorno si esibisce forte e baldanzoso, sfida i nemici, fa il gradasso. Di notte si nasconde, si sente debole, ha gli incubi. Trema. La Luna fa un po’ di luce, fa coraggio, non ha paura, veglia il sonno, dà sicurezza. Con la sua forma che varia da un giorno all’altro indica che l’ umore cambia, la vita cambia, le cose cambiano, ma lei è sempre là che protegge e sostiene, invita alla pace. La notte è bella per chi vive in pace e la Luna è la pace diversa di ogni notte diversa. Senza la Luna non ci sarebbe pace. La Luna nel cielo danza intorno al Sole. Una danza d’amore e per amore. Lei prende luce da lui per donarla alla terra, di notte quando sulla terra c’è buio e paura. La Luna ama e generosamente dà. E’ il tramite tra il Sole e la terra nei momenti più bui.
Credo che l’uomo capisca bene il grande valore della donna che lo ama, gli dà i figli e lo rasserena quando è turbato. Penso anzi che lui ne sia così profondamente convinto che non vorrebbe perderla mai. Amore, pace, serenità, figli, aiuto, sorriso, famiglia: tutto questo è la donna e lui lo sente anche se non ne è pienamente consapevole e si oppone quando lei vuole andarsene o rivendica giustamente la sua libertà. Mette in campo tutta la sua autorità di maschio per non perderla. Ma non è così. Una donna demotivata è già persa. Non c’è più niente da fare. La Luna è misteriosa. Mostra ora una parte ora l’altra, ma le due parti hanno un significato diverso. Una parte cresce regalando sempre più luce fino al massimo del fulgore, poi dona i frutti del suo amore e compare l’altro aspetto, l’altra parte che si ritira fino a scomparire perché ha bisogno ancora di amore e di ione per rigenerarsi. Solo un nuovo incontro col Sole può riaccenderla. E’ la ione che si rinnova periodicamente e solo questo rinnovamento può dare alla Luna la luce, che è amore e gioia, per rischiarare la notte. La donna è così. E l’uomo dice: - Mi aveva promesso di amarmi per l’eternità, fino a che morte non ci separi e si è innamorata di un altro, la bastarda. - Va a so con le amiche, a cinema e a teatro, invece di occuparsi della casa e quando è con me è sempre nervosa. - Non ha voglia di far niente, sempre seduta a leggere, chissà cosa ci trova nei libri! - Con la scusa che senza amore non fa sesso, non mi vuole più! E’ una bella stronza. Eccetera, eccetera.
In realtà l’uomo fa i suoi comodi, non si interessa di lei, non tiene vivo il suo entusiasmo. Spesso la rimprovera col desiderio di mostrare la sua superiorità, essere un po’ capo, umiliarla, metterla a tacere – “questa si mette in testa di comandare lei, vuoi vedere, ma è una povera donna, devo ricordarglielo, qui l’uomo sono io! In ufficio devo obbedire e devo obbedire anche in casa. Eeeh no!” – eccetera. Quando alla fine la donna è demotivata, stanca, annoiata, insoddisfatta, depressa, muore lei nello spirito, muore la famiglia e muore anche lui. A quel punto è meglio che se ne vada, libera. Libera lei e libero lui. Meglio! Queste idee si stanno facendo strada: ci sono separazioni e divorzi, ma le vittime sono ancora tante: donne perseguitate, torturate e uccise e uomini depressi carichi di odio o di risentimento. Penso che in un lontano futuro la donna in società sarà considerata allo stesso livello dell’uomo come intelligenza e capacità anche se in alcune attività, nelle quali la forza fisica è importante, potrà avere solo ruoli marginali o di tipo organizzativo. In famiglia e nell’ambito della coppia però la donna sarà una vera e propria regina. L’uomo che vuole avere una compagna, una famiglia e dei figli, dovrà prodigarsi, sacrificarsi per lei e circondarla di quelle mille attenzioni necessarie per mantenere alti in lei il desiderio, l’amore e la gioia di vivere. Ciononostante dovrà rassegnarsi ai suoi cambiamenti di umore, ai suoi abbandoni e alle sue follie d’amore. La donna per mantenere l’entusiasmo che è il focolare intorno a cui si riscalda tutta la famiglia ha bisogno di rinnovarsi, riaccendersi, ravvivarsi. Ha bisogno di incontrare di nuovo il Sole, come la Luna. Naturalmente, mentre per la Luna si tratta di un processo naturale, astronomico che avviene senza ostacoli, per la donna il percorso è molto complesso. Implica sacrifici, sofferenze e complicazioni di ogni genere e l’uomo evoluto dovrebbe favorire questo percorso invece di ostacolarlo. Ma non è certamente facile.
Il segno dei Pesci è considerato il più evoluto tra i dodici segni dello Zodiaco. Si festeggia tra parenti e amici un compleanno e un buon Pesci, sensibile e dolce, il caro Giacomo, da alcuni mesi assiste impotente all’amore che è nato in maniera chiara tra la giovane moglie Grazia e un amico comune vedovo, un tipo serio, forse frustrato e ambiguo, di nome Enrico. Giacomo non ha buona salute, ha il pace maker e varie disfunzioni. Grazia lo cura premurosa e Enrico è sempre accanto a lei e tutti e due insieme lo assistono. Lui ha capito tutto. E’ contento che Grazia sia più allegra e vivace del solito. Li incoraggia a eggiare insieme e a fare in montagna quelle camminate che per lui sono troppo faticose. Ha capito tutto e finisce più spesso di prima all’ospedale: scompenso cardiaco. Io lo sento soffrire. Lo guardo mentre, nell’allegria generale, discorre piano col vicino, mangia un poco e, senza farsi notare, guarda di sfuggita Grazia e Enrico che parlano fitto fitto di fronte a lui. Penso alla canzone piena di ione di Massimo Ranieri: “Perdere l’amore” e soffro un po’ anch’io. … quando si fa sera, quando tra i capelli un po’ di argento li colora rischi d’impazzire, può scoppiarti il cuore, perdere una donna e avere voglia di morire… Provi a ragionare,
fai l’indifferente fino a che ti accorgi che non sei servito a niente…
Giacomo si guarda in giro con un mezzo sorriso cercando di partecipare agli scherzi e all’allegria degli amici in festa, ma non è certamente dell’umore giusto e io, rivolta a lui, canticchio, con la mia povera voce strozzata, la canzone della Vanoni “Domani è un altro giorno si vedrà…”, poi lo chiamo: - Giacomo! Mi sembri malinconico come nella canzone della Vanoni, …è uno di quei giorni che ti prende la malinconia… ma non finisce così! Alla fine … Domani è un altro giorno, si vedrà… Mi sorride con gioia : - E’ una bella festa sono contento. - Ti innamorerai forse non di me, aggiungo canticchiando un’altra canzone famosa di Marco Masini senza il timore di essere fraintesa perché io ho almeno una diecina d’anni più di lui e poi sono nota come una mezza intellettuale un po’ stravagante. - Dice anche – aggiungo ridendo –…ti innamorerai del bastardo che ti dirà bugie per portarti via da me…Il mondo è pieno di donne! Ne troverai una anche tu che ti lascerà fare il bastardo…Non credi? Lui non sembra abbia capito, ma serio si alza, fa il giro del tavolo, mi viene vicino e mi bacia sulla guancia, tra gli evviva degli altri convitati sorpresi dei miei canti stonati. Poi si allontana: - Cammino un po’ – dice - devo prendere una boccata d’aria. Grazia e Enrico continuano a parlare e a ridere tra di loro. Non si sono accorti di nulla. ione e indifferenza insieme! Sembra un controsenso, ma può essere così. Giacomo si accorgerà prima o poi che Grazia non va bene per lui: e’ troppo
insensibile. Meglio perderla! Cosa succederà quando Grazia si accorgerà che Enrico è il solito bastardo? Soffrirà e capirà. La vita è fatta così. Piena di illusioni! Ma… ci sarebbe vita senza illusioni? Torna all'Indice
Sentimenti
Sogno spesso una piazza bianca spazzata dal vento. Tutt’intorno piccoli alberi a distanza uguale delimitano il quadrato della piazza e, alla base degli alberi, un fazzoletto quadrato di terra è recintato da un sottile e basso muretto di pietra bianca. Una piazza metafisica alla De Chirico? No, più naturale, una piazza vera. Ce n’è una simile nel quartiere Bicocca a Milano, animata dagli studenti durante la settimana e vuota la domenica pomeriggio presto, quando mi capita di are. Mi sembra che una piazza così assomigli alla vita quando tutto va bene, c’è ordine e razionalità. Con la mente abbiamo risolto i problemi e abbiamo imparato ad aspettare. Il bianco si ottiene mescolando tutti i colori tra di loro. Se i colori sono le emozioni, vuol dire che si annullano reciprocamente: il rosso della ione, col blu della rivolta, col giallo dell’odio, col verde dell’indifferenza… Le emozioni sono sotto controllo, e ci sentiamo vivi: le piante fiorite e rigogliose lo testimoniano e hanno i rami protesi come si volessero abbracciare e proteggere l’un l’altro. Ma c’è quel vento. Le braccia sono aperte, si tendono nel desiderio di raggiungersi, ma c’è quel vento che sconvolge la piazza, rende la pietra ancora più bianca, getta polvere sulle piante e spezza i rami. Ci sono nel sogno la tenerezza, il sentimento che nasce spontaneo nel cuore come un fiore sull’albero, i sentimenti di simpatia, di partecipazione, di commozione, un augurio profondo di bene, un amore, una forma di amore – ce ne sono tante - ma il vento spazza via tutto e spezza le braccia tese. Quel vento! Impedisce l’abbandono e l’abbraccio. E cosa è? La libertà? Allora la libertà è desolazione, una piazza bianca sconvolta tra polvere e rami
spezzati. Allora la libertà è malinconia, una piazza vuota e polverosa. Allora la libertà è rabbia e furore. Ti attacchi a qualcosa di solido per non volare via. Io mi attacco a questo tavolo dove scrivo, dove scrivendo ho l’illusione di collegarmi al mondo.
In montagna ho due care amiche. Arianna è molto anziana, segno del Capricorno ha parecchi malanni ma è piena di vitalità. Mi parla ore e ore di sé, del marito che la opprime, dei vicini zotici e di quelli benevoli, mi racconta tutta la sua vita confinata estate e inverno in un piccolo paese di montagna. Quando si accorge che non sa nulla di me, mi chiede, temendo di avere accentrato la conversazione su di sé, ma io non riesco quasi a parlare. Lei è un fiume in piena e io l’ascolto volentieri. Voglio bene ad Arianna e quando a fine Agosto l’ho salutata ero commossa. Anche lei era commossa. Invece mi ha detto: - Non ti invidio che vai a Milano, qui ci sono quattro anime, ma si sta meglio che a Milano. E non telefonarmi tutti i giorni! Che io non ho tempo di ascoltarti! Da buona Capricorno ha fatto la dura per non mostrarmi, credo, i suoi sentimenti.
L’altra amica Luisa è più giovane e piena di guai. Segno dei Pesci ha un grande cuore e quattro figli adulti con problemi di lavoro e di famiglia. Mi sono affezionata a lei e quando l’ascolto mi commuovo. Quello che riesce a trasmettermi con intensità è il suo immenso amore per la famiglia, l’ottimismo, la volontà di aiutare e far felici i figli. Mi guarda con un sorriso festoso: - Il mio figlio più grande, Gianni, è fallito con la ditta, te lo avevo detto l’anno scorso, ma vendendo tutto quello che aveva, macchine e case, è rimasto povero in canna, ma ha pagato i debiti. E’ a posto, sai come sono felice! Guido, l’altro
ragazzo - ti ricordi? - aveva la depressione, ma è andato alle sedute dello psichiatra accompagnato da me e da tutti i fratelli e col nostro aiuto è riuscito a venirne fuori… Andrea, il più piccolo, è disoccupato, ma ha scritto un libro. Bellissimo. Devi leggerlo anche tu! Massimo poi, un tipo chiuso di carattere, te ne ho parlato l’anno scorso che aveva poco lavoro… ebbene è andato all’estero e si sta rifacendo. Mi sembra che la moglie si comporti male, lei è rimasta qua… Speriamo che Massimo non se ne accorga… poveretto! -, eccetera, eccetera. Intanto che mi racconta, osservo che la sua figura si è notevolmente ingrossata, le gambe sono gonfie, gli occhi colpiti dal glaucoma sono cisposi e hanno lo sguardo fisso, le mani con il morbo di Dupuytren sono chiuse a pugno e per aprire la borsetta e mostrarmi le foto dei nipoti, la devo aiutare. Con tutti questi malanni mi meraviglio che sia sola in montagna. - Non voglio dar fastidio ai miei figli, mi arrangio… sto benino, faccio tanta ginnastica e vado bene -, dice. Butterei le braccia al collo di questa santa mamma. Non lo faccio. Ho il timore che si accorga della mia pena? Oppure non voglio legarmi, per amore della libertà? Oppure vorrei fare qualcosa per aiutarla che non ho concretamente la possibilità di fare? Forse semplicemente mi metterei a piangere e non ho il coraggio di mostrare i miei sentimenti. Sarebbe bello invece abbracciarsi. Piangere insieme. Ridere insieme. Consolarsi. Quando nasce nel cuore un sentimento, non averne pudore. Esprimerlo. Liberamente, tutti insieme. In generale non si fa. Solo l’attrazione fisica, la ione prevedono lo slancio dell’abbraccio e di tutte quelle frasi che si dicono o che ci si aspetta si dicano in questo caso, del tipo “ti amo”. Se l’amante dice “ti voglio bene”, frase che, se fosse sincera, sarebbe la più bella, è una offesa: “Mi vuole bene, capirai che roba! Si vuole bene anche a un cane …”, …
Mancano le parole per definire i sentimenti, quelli dolci di trasporto e commozione reciproca. Come dovrei definire i miei sentimenti per Arianna e per Luisa? Un incontro intorno al focolare, nel cuore dell’inverno? Sarebbe una metafora. Un pianto silenzioso e senza lacrime in mezzo ai sorrisi? Un’altra metafora. Un trovare insieme il coraggio per la vita che continua? Sarebbe una spiegazione, non una definizione. Quando la ione incendia il cuore e travolge i sensi, le parole ci sono. Poesia e prosa le usano con chiarezza e precisione. Si parla di amore, di desiderio, di delirio dei sensi, di divina follia dell’amore sessuale, di slancio vitale che sostiene la creazione artistica o il fervore religioso. Tutto ciò che è ione, entusiasmo, eccitazione e vitalità viene scritto e descritto da poeti e scrittori. Per gli altri sentimenti più comuni non ci sono le parole. Andrebbero inventate e io non ci riesco. Ci penso spesso e poi faccio quel sogno: una piazza bianca spazzata dal vento con gli alberi intorno. Ma è solo un’immagine, non sono parole.
Ho un cane bassotto di nome Jonny. E’ buffo con le zampe corte e storte, il muso lungo sempre in avanti e le orecchie che strisciano per terra. Ha capito che mi dà fastidio sentire sulle mie guance il suo naso umido e freddo, allora mi appoggia le zampe alle ginocchia e piega la testa su un lato. Io lo bacio ripetutamente sul pelo liscio tra la bocca e le orecchie, poi lui gira la testa e io ripeto baci e carezze dall’altra parte. Alla fine tende il muso, scodinzolando fitto fitto, verso il mio viso come a cercare un contatto più vivo. Io non mi sposto. Lui si tende eccitato e tremante, ma non mi tocca. Quali sono le parole per descrivere quello che lui prova e che provo anch’io? Se penso che un giorno soffrirà e morirà, mi vengono le lacrime. Non trovo le parole, ma quella piazza bianca spazzata dal vento, che sia
desolazione, che sia malinconia, che sia furore, è forse un Destino, una fatalità per tutti. Torna all'Indice
Nostalgia
Mi inquieta ricordare il ato. Assomiglia a un paesaggio in bianco e nero avvolto nella nebbia. La nebbia qualche volta si apre e compare un viso, un corpo, ma i contorni sono sbiaditi. E’ più facile ricordare le sensazioni e le emozioni che ho provato, anche queste sepolte nella memoria. Le persone cui ho voluto bene sono immagini consumate dal tempo e se guardo le fotografie polverose raccolte tutte insieme sul tavolino del salotto o quelle gualcite e ingiallite tenute a lungo nel taschino della borsa, mi sembrano spiriti che stanno riposando dopo una vita intensa e che non vogliono essere disturbati. Se concentro l’attenzione nel ricordo, ho l’impressione che loro soffrano, che non vogliano essere rianimate e ravvivate. Preferiscono restare una immagine nebbiosa, sfumata, lontana. Mi chiedo se siano loro - cioè la loro anima che da qualche parte sarà pure, magari vicino a me - che mi dissuadono dal visitare il ato come se fosse ancora presente, oppure se sono io che non lo voglio veramente. Capisco che quello che non voglio è rivivere le emozioni di allora, le tensioni, le inquietudini, le incomprensioni che ci sono state nonostante l’affetto che ci legava e poi il dolore e la rassegnazione per la loro scomparsa. Concentro ancora l’attenzione e le vedo muoversi, le sento parlare e le sensazioni cambiano. Diventano desiderio e nostalgia. Mia madre, spesso triste, parlava a lungo soprattutto con me. Esponeva i suoi pensieri lentamente e a bassa voce come se stesse riflettendo per conto suo. Mentre parlava pensava e si concentrava, aggiungendo, durante il discorrere, nuovi argomenti che chiarivano mano a mano l’ idea iniziale e la approfondivano. Raccontava la sua vita: la madre di lei vedova a 35 anni con 5 figli, senza provvidenze sociali e con tutti i parenti che dopo la disgrazia si erano allontanati per non condividere la sua pena.
Raccontava di questa madre che alla sera si inginocchiava piangendo, a pregare il Signore di toglierle pure, per punirla dei suoi peccati (?!), gli ultimi due figli che non avrebbe potuto mantenere e che erano sempre malati, ma di lasciarle gli altri già grandicelli… Raccontava i sacrifici e le pene di questa povera donna morta in giovane età dopo essere riuscita a dare una speranza di vita a tutti i figlioli eccetto la maggiore, la più sensibile, la più sacrificata che si era ammalata di tubercolosi. Si soffermava volentieri sui sentimenti: la fiducia tradita, le vittorie inaspettate dovute, secondo lei, al coraggio nelle idee e nell’azione, le speranze per il futuro che ancora nutriva, i timori, le valutazioni attente dei fatti e delle persone. Ragionava su tutto con coerenza, con intelligenza nonostante la poca istruzione, interpretava, intuiva le ragioni nascoste, prevedeva con una logica così serrata che aveva quasi sempre ragione. Nonostante il successo nelle previsioni, non pretendeva di essere ascoltata. “Quando si è giovani si sbaglia – sussurrava – ho fatto tanti errori anch’io”. Lei preferiva parlare di errori, non credeva nel Destino. Ragionava sempre per cercare gli errori. - Quanti errori! – diceva – eppure basterebbe riflettere, pensare, ragionare… e non si farebbero. Da anziana stava quasi sempre seduta, anche per colpa mia che, irritata dalla sua lentezza, le imponevo di sedersi e facevo tutto io rapidamente, dimenticando le mille cose che lei riusciva a fare pur lentamente, nel tempo in cui io non ero in casa. Ora guardo la sua sedia coi braccioli in un angolo della cucina e vorrei che lei fosse ancora seduta lì. La imboccherei, la laverei, ma vorrei sentire la sua voce, le sue idee, il pensiero che aveva così lucido. - Mamma cosa ne dici della crisi economica, ne usciremo? O torneremo come ai tuoi tempi quando i poveri raccattavano la buccia delle mele per terra e facevano festa con polenta e strutto? - Cosa pensi dei mussulmani che vogliono imporre il loro credo con la violenza? Dicevi che la religione inganna le anime semplici, i poveri di spirito per sottometterli, adesso i poveri di spirito non ci sono più, sono tutti arroganti,
presuntuosi e ipocriti e la religione potrebbe essere utile alla giustizia e alla pace, ma sono arrivati costoro che se ne servono per fare la guerra. Ci capisci qualcosa? - Mia figlia Carolina è buddista, canta e balla e non si sposa. Giulietto, l’altro figliolo, fa lo schiavetto della moglie. Te lo saresti aspettato? Chissà cosa direbbe lei. Forse, nonostante la sua bella mente e la sua lunga esperienza, sarebbe confusa. Forse si muore perché a un certo punto i cambiamenti intorno a noi sono tali e tanti che non si riesce più a capire, i criteri di valutazione sono troppo diversi rispetto a quelli che si sono formati in noi in tempi lontani e ci si perderebbe, si finirebbe per impazzire. La demenza senile, forse, è una difesa per non cambiare, per non adattarsi al nuovo che sarebbe troppo sconvolgente. “Non comprendo”, diceva spesso un mio nonno ottuagenario peraltro lucidissimo e ripeteva ancora “Non comprendo”. Penso conoscendola che lei non direbbe così, ma ci ragionerebbe su. Vecchissima riusciva ancora a capire il mondo. - Per capire bisogna partire dall’uomo che è sempre lo stesso dentro, anche se esternamente si adatta o deve adattarsi -, era la sua idea. Insieme parleremmo a lungo. Noi ci intendevamo. Sarebbe bello. Ricordo con tenerezza quando mi facevo male da piccola e correvo tra le sue braccia che mi stringevano con amore. Mi manca! Ma se aumenta la nostalgia, sento che lei non è d’accordo. Quando disapprovava, incurvava la bocca verso il basso, prima di emettere la sua sentenza. Certi suoi giudizi per me erano sentenze che io apparentemente rispettavo, ma prima di essere d’accordo, volevo le prove concrete e lei soffriva della mia indecisione. Mi pare che adesso dica: - Mi ascoltavi, ma poi facevi a modo tuo. Io ti spiegavo, ma tu non capivi, volevi provare a sbagliare. I tuoi figli fanno lo stesso. La vita è così. I vecchi a un certo
punto non servono più. Lasciami in pace! Prendo la sedia coi braccioli e la sposto nella camera ripostiglio. Poi mi pento e la riporto in cucina. Con l’olio rosso la lustro ben bene. Lego un cuscino bianchissimo alla base della sedia e finalmente decido di spostarla al tavolino del computer. Mi ci seggo io. D’ora in poi scriverò le mie sentenze sul mondo, dall’alto di quella vecchia seggiola. Sei contenta mamma? Adesso tocca a me! Tu riposa, cara. Torna all'Indice
Caro Walter
Vado spesso al cimitero dove ho le tombe dei miei cari e di qualche amico. E’ il bel cimitero di Greco, a Milano, con un ingresso stile liberty, in mattone rosso e pietra grigia che invita al raccoglimento. Non è cupo, non è lussuoso, non è imponente, con marmi policromi e scritte in latino come altri. Quando si entra, sembra di are attraverso una cortina di nuvole leggere e trasparenti che separano con delicatezza il mondo dei vivi da quello dei morti. Si entra in quell’ altro mondo con il o leggero e lo spirito sereno e si ha l’impressione che le anime dei defunti ti vengano incontro di buon umore, contente della tua visita, dimentiche delle loro sofferenze, sorridenti, quasi festose. Si percorre un vialetto alberato e lo stormire delle foglie insieme al canto degli uccelli in quel luogo ai margini della città, quasi in campagna, sembra un chiacchiericcio vivace di amici accoglienti. Guardo le tombe con le fotografie e mi sembra di sentire intorno a me, nell’aria, le presenze discrete di quelle figure simpatiche e sorridenti. Vecchi, giovani, bambine e bambini danzano con leggerezza, alcuni volano in alto, poi scendono e mi girano intorno, altri in lontananza camminano veloci saltando la corda come tanti ragazzini, poi si voltano e mi sorridono. - Grazie a tutti! Ma che bella festa! Non trattenetemi, lasciatemi andare… Grazie, grazie! Se qualche vaso di fiori è stato rovesciato dal vento, lo rimetto a posto e guardo la fotografia del defunto: un vecchio signore con molti capelli e un sorriso smagliante. Accarezzo la foto: - Bella la vita Gualtiero (si chiama così!), dài coraggio la prossima volta andrà ancora meglio! - e mi sembra di sentire un buffetto sulla guancia.
Quando arrivo da Walter il mio umore cambia. o sempre da lui. Non so perché. Non è un parente, non è stato un innamorato, non sono stata legata a lui in nessun modo. Il sentimento che provavo e che continuo a provare per lui non si può esprimere: non ci sono le parole. Bisognerebbe inventarle e io non ci riesco. Sulla sua tomba non c’è nessuna fotografia. Lui odiava le fotografie. Diceva che l’esteriorità non è importante, anzi toglie valore e distrae. - Si fotografa la maschera, – diceva – la persona quale è veramente si può solo cogliere con la sensibilità o attraverso le parole. Quelle sincere. Avevo capito che mi voleva bene e io volevo bene a lui. Ma Walter aveva un’anima così sensibile e delicata che voleva bene a tutti. Se io esprimevo con energia il mio disappunto verso qualcuno che si comportava male, mi portava poesie e letture che potessero illuminarmi e farmi capire la mentalità e l’idea della persona con cui avevo discusso. Voleva intenerirmi, farmi comprendere, farmi accettare, rendermi consapevole del pensiero altrui, addolcirmi. Lui capiva, comprendeva, giustificava tendenzialmente tutto e tutti e voleva che io, più impulsiva e ionale, fi altrettanto. Erano i tempi del ’68 e i fermenti sociali forti e diffusi alimentavano opposti estremismi. Io a scuola accettavo critiche e discussioni, ma non tolleravo la pigrizia e la mancanza di impegno nel lavoro e nello studio. Lui era un poeta, aveva una cultura eccezionale, quando parlava affascinava giovani e amici, era sempre circondato da piccole folle adoranti ed era buono. Guardava le persone nel cuore: - Vedi quel ragazzo non ha voglia di studiare e neppure di lavorare. Se fosse un uccellino, farebbe come gli altri, felice di volare e di mangiare quei semini che trova qua e là. Ma è un ragazzo, col tempo troverà la strada. Bisogna sperare e bisogna rispettarlo, nella sua diversità… La sincerità di Valter e la sua eccezionale bontà mi commuovevano. Finivo per adeguarmi al suo pensiero, ma senza convinzione, per farlo contento e con la speranza che avesse ragione, con la speranza che la sua profondità di sentimenti e di idee portasse a risultati positivi anche se avevo dei dubbi.
Lui voleva bene a tutti. Un grande cuore. Non c’è la fotografia sulla tomba e ricordo a fatica i suoi lineamenti. Gli occhi chiari erano un lago di pace, le sue parole un campo brinato che si scioglie al sole, al primo sole del mattino che riscalda anche nel cuore dell’inverno e fa brillare i colori freschi del nuovo giorno. Segno dell’Acquario, era freddo e trasparente come il ghiaccio e il suo ragionamento colto e raffinato incideva solchi precisi nei quali faceva fluire la volontà, la ione, l’amore, il desiderio di pace, la bellezza della vita, l’armonia… Vicino a lui il mondo e la vita diventavano belli e nuovi, una sfida tutta da giocare, importante, eccitante, piacevole. Ragionamento e ione insieme esercitavano un potere positivo e il desiderio di stare con lui era diffuso. Tra amici ce lo litigavamo. Raccolti intorno a lui nel suo salotto, andavamo in estasi. Una volta, dopo un lungo affascinante discorrere, aveva detto: - Oggi mi sento Gesù Cristo, ma non voglio la Croce, non voglio la Croce come Lui… La moglie ce lo sottraeva spesso. Forse per gelosia, forse per coccolarlo lei, forse per la paura della Croce. Scriveva romanzi. I suoi miti erano Emilio Gadda e James Joyce. Io lettrice e pure un poco scrittrice, non tolleravo questi autori così terribilmente oscuri, così illeggibili, così odiosamente colti, decisamente troppo intelligenti, ma lui no. - Sono speciali, sono geniali. Il realismo alla Giovanni Verga che a te piace tanto, non rappresenta più il mondo attuale. I Malavoglia sono il ato, un ato che riempie il cuore di emozioni ancora oggi, ma è ato. Oggi l’uomo deve confrontarsi con l’arrivismo sociale, con l’individualismo asociale, con l’egocentrismo, con il vuoto di ideali e di valori. Resta poco. Restano solo le
cose materiali, i piaceri, il cibo e il sesso. Non puoi sfuggire a questo confronto. Si salva forse la bellezza. Qualcuno mi critica per il mio vestire ricercato, il foulard di seta, l’ombrello col bastone di castagno, il cappello adatto alla stagione e al tempo. Dobbiamo salvare la bellezza e anche la forma. Gadda riesce a scrivere 200 pagine di bella forma dove il significato si può solo intuire da qualche parola, ma sono pagine di musica e se le leggi bene sono musica. Joyce è grandissimo, dice tutto e niente perché lo zero e l’infinito sono la stessa cosa e tu che hai studiato matematica lo sai bene. Oggi scrivere il solito romanzo non ha più senso… Prendo un libro di Gadda “più musica che racconto” come diceva lui. Si intitola Eros e Priapo. Non capisco assolutamente niente. Lo leggo a voce alta ed effettivamente si coglie una cantilena musicale, ma niente di decente rispetto a Mozart, ma anche rispetto a Lucio Battisti e cantautori simili. Apro il libro a caso e trascrivo un pezzo, uno qualsiasi, tanto è tutto incomprensibile. Leggendo a voce alta si sente una specie di ninna nanna: “Te tu fumi, pùf pùf, dandoti di grand’arie per questo. E allor che vai a bottega di tabacchi, o entri, pavone, il caffè, là dove c’è la tu’ nicchia ad accoglierti, con il nimbo di fil di ferro già predisposto a nimbare la santità gloriosa d’i’ccervellone d’un tanto piccio, be’ te tu t’ha mai noverato tutti l’omìni che vi stanno? …” (Pag 26, 2° capoverso). Ogni pagina sottintende un oceano di cultura, enciclopedie intere lette e studiate, tutta l’Iliade, l’Odissea e la Divina Commedia a memoria, un cervellone megagalattico, ma il povero lettore di normale buona cultura cosa capisce? Come si diverte? Cosa impara? Io, quando ho cercato di leggerlo, capivo qua e là qualcosa, ma alla fine disperata ho rinunciato. Troppa fatica! Sono ata a James Joyce. E la disperazione è aumentata perché costui riesce a scrivere sciocchezze, non distinguibili da quelle dei malati psichiatrici, non per 200, ma per 1200 pagine e alcuni studiosi – pochi a dire il vero – si sono cimentati a individuare, in tutte quelle pagine, una traccia di trama con dei personaggi che giocano, forse, un ruolo. Leggiamo un pezzo a caso dell’Ulisse.
Nei capoversi precedenti si parla confusamente di giovani donne (pag. 508, ed. Mondadori) e poi dice: “Non ti farò del male. Meglio ora si capisce che in altri tempi. Strade di campagna. Ti bucavano le budella per quattro soldi. Anche oggi ti puoi imbattere in due tipi. Musone o sorridente. Pardon. Di niente. Il miglior momento per spruzzare le piante anche è all’ombra dopo il tramonto. Ancora un po’ di luce. I raggi rossi sono i più lunghi. Vance ci aveva insegnato ragvaiv: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco, violetto. Ecco una stella. Venere? Non si sa ancora. Due, quando ce n’è tre è notte…”. Schizofrenia non letteratura! Io rispetto gli schizofrenici. Per certi aspetti hanno una marcia in più rispetto alle persone comuni perché, in loro, i sogni e le allucinazioni si confondono con la realtà e le cose reali si caricano di significati simbolici, come in questo pezzo il colore rosso (ione?) che è l’ultimo dello spettro luminoso a lasciare la terra al tramonto, o il punto interrogativo su Venere. La frase più umana e consapevole resta la prima “Non ti farò del male…”, anche se un malato psichiatrico potrebbe dire le stesse cose e allora valeva pena? Vale la pena? Tanta cultura, studi, letture, pensieri su pensieri per arrivare a quello che lui chiamava “flusso di coscienza”, cioè dire e scrivere tutto ciò che si affaccia alla coscienza senza riordinare, sintetizzare, dare un senso, chiarire per essere capiti, tradurre in un linguaggio comprensibile ai più. Parole una dietro l’altra fuggevoli come i tanti pensieri che percorrono la nostra mente in ogni momento. Non mi piaceva, ma non lo dissi a Walter. Gli chiesi invece di darmi in lettura un suo romanzo. Titolo: Vita di un impiegato Il protagonista era un tipo tra l’ipocondriaco e l’anale trattenuto, avrebbe detto Freud, che ava intere giornate, cioè pagine e pagine del romanzo, nell’incertezza tra un riso bianco senza olio, un riso bianco con l’olio oppure un té al limone per risolvere il mal di pancia sordo e costante che lo affliggeva, insieme ad una stitichezza patologica. La liberazione quando alla fine riesce a scaricare l’intestino bloccato, in ufficio, sulla scrivania del capo. C’erano belle pagine: frasi armoniose, aggettivi che riuscivano a creare
l’atmosfera, descrizioni poetiche che rappresentavano bene lo stato d’animo del protagonista, uomo generoso e idealista che diventava volgare e misero di fronte alle necessità materiali e ai problemi della vita quotidiana. Stupenda una pagina sulla neve (avrei dovuto fotocopiarla!). La neve volteggia nel silenzio perché, man mano che si forma il manto bianco che avvolge case e giardini, i rumori vengono attutiti. Sembra di dormire e sognare e la neve non è reale: se la tocchi sparisce, si scioglie, non c’è più. Quando nevica, l’ovatta che ci avvolge ci porta in un’altra dimensione, in un altro mondo dove la bellezza e l’amore sono sovrani. La neve copre e trasforma la realtà, ne nasconde le miserie. Triste tornare poi al quotidiano. Gli dissi che il romanzo mi piaceva, anche se avrei preferito una rappresentazione della realtà più blanda, meno estremista. In generale e per fortuna sono rare le persone che risolvono i loro problemi cagando sulla scrivania di un odioso capufficio. Perché essere così estremisti e così volgari? Era proprio necessario? Lunghe discussioni.
Cambiai casa. arono alcuni mesi. Io gli telefonavo, la moglie non me lo ava dicendo che era indisposto. Colite. Sotto natale mi telefonò: “… ci vediamo dopo le feste” e a metà Gennaio seppi che era caduto dal balcone del quinto piano in una giornata di grandi nevicate. Morto il giorno dopo. Un colpo al cuore e anche sensi di colpa. Nella vita ci sono i sensi di colpa. Avevo detto qualcosa che lo aveva ferito? Lui così buono, così sensibile, così fragile,? Lui così speciale, così diverso? Forse per lui avrei dovuto rinunciare al mio amore per la verità, per conoscerla e dirla, come mi piace tanto? Sì, certo, avrei dovuto. Da allora quasi ogni mese gli porto una margherita bianca. Non ho più sentito la moglie dopo la disgrazia, ma lei non toglie la mia margherita anche se è
apita o secca. La sostituisco io quando torno e insieme alla nuova margherita, sempre bianca col cuore giallo - per me è il giallo della sofferenza e della rabbia che scolora nel bianco del distacco, freddo e silenzioso come la neve -, gli dico: - Vedi, io resisto, si può resistere. Caro Walter, non dovevi lasciarci… Non riesco a chiedergli perdono, perché gli ho voluto bene, perché vorrei che lui fosse ancora tra noi, vorrei discorrere, ammirarlo, ascoltarlo, incontrarlo e mi dico che non posso avergli fatto del male. Lui mi ha fatto del male, andandosene e concludo dentro di me, in maniera molto banale, con la solita frase “era destino”, anche se il timore di avere avuto una parte piccolissima in quel destino mi scuote ancora oggi. Non gli chiedo perdono, ma sul comodino a fianco del mio letto dove tutte le sere leggo un poco, non mancano né l’ Ulisse di Joyce, né il Pasticciaccio… di Gadda e, quando mi ci dedico adesso, li capisco di più, riesco persino a commuovermi e penso che alcuni uomini sono così eccezionali che andrebbero protetti come le specie rare della natura, delicate e a rischio di estinzione. Travolti dalla volgarità e dalla superficialità di un’epoca che loro hanno cercato di interpretare e di amare, non sono stati capiti e amati a loro volta se non da pochi eletti. Vorrei poter dire a Walter queste cose che penso ora, ma che avevo intuito anche allora. Lui ne gioirebbe. Perché non l’ho fatto prima?
Mi guardo intorno per distrarmi, ma gli spiritelli giocosi che mi avevano seguito non ci sono più, sono tornati indietro ad accogliere altri visitatori. Non vogliono saperne di ricordi tristi. Torna all'Indice
Precarietà
Precarietà è il contrario di sicurezza. La vita è precaria e lo è sempre stata. Chi l’ha inventata o si è sbagliato – capita anche ai cervelloni – oppure l’ha voluta così. Basta un virus un po’ più cattivello, un colpetto anche leggero sulla nuca, un fulmine che viene giù dal cielo attratto dal nostro ombrello, un piede che scivola e la testa che casca male, Jack lo Squartatore che gira dalle nostre parti… e siamo già spacciati. Addio vita: morti in quattro e quattr’otto. L’uomo per far fronte al problema della precarietà, si è molto industriato, nel senso proprio della parola. Grandi industrie sono state create per aumentare la sicurezza: medicinali e vaccini per scongiurare i pericoli per la salute, caschi di ogni tipo per la nostra testa delicatissima, parafulmini, salvavita e altri congegni elettrici. E poi regole su regole per chi si muove a piedi, in bicicletta o in macchina. I pericoli restano. Un tempo la popolazione era falcidiata dalla peste, dalla tubercolosi, dal fuoco di sant’Antonio e da quello di San Lorenzo, fuochi terribili che bruciavano, tra atroci dolori, gli arti di coloro che ne erano colpiti ( la causa sembra che fosse la segale cornuta, una segale contaminata da un fungo velenoso che rendeva più scuro il colore del pane, il pane nero, il pane maledetto, il pane dei contadini affamati, mentre sulle tavole dei signori c’era, allora, solo pan bianco). Un tempo si moriva torturati e scannati per un nonnulla. Giovanni Maria Visconti, niente popò di meno che duca di Milano dal 1402 al 1412, aveva addestrato i suoi cani mastini a sbranare uomini vivi. I suoi nemici, anche i nobili delle migliori famiglie milanesi, ricordo tra i più sfortunati i Pusterla, finivano in bocca a questi cani e quando il popolo stremato da guerre e miseria, al aggio del duca, invocava la pace, i suoi soldati catturavano i più coraggiosi che poi venivano squarciati dai cani.
Finì a sua volta assassinato a 23 anni davanti alla Chiesa di San Gottardo in Corte, dietro all’Arcivescovado allora palazzo dei Visconti. San Gottardo era protettore dei malati di gotta e Azzone Visconti, antenato di Giovanni Maria, che aveva fatto costruire la chiesa dall’architetto Pecorari nel 1330, soffriva appunto di gotta. L’ingresso della chiesa, famosa per il suo campanile considerato il più bello di Milano, fu poi demolito dal Piermarini per costruire lo scalone d’onore del Palazzo Reale e il punto dove era caduto questo duca malvagio non è più visibile, ma pare che nei secoli precedenti si trovassero di frequente in quel punto cani mastini uccisi e sanguinanti. Erano tempi di crudeltà e violenza estreme. Erano tempi in cui contavano solo il potere e la ricchezza, perché chi non aveva né l’uno né l’altra, viveva così miseramente che la vita era peggio della morte e allora per il potere e la ricchezza si uccideva e torturava giorno e notte. In definitiva la vita non è solo precaria. Può essere peggio della morte. Nel lungo Medioevo la morte, soprattutto tra i contadini, era desiderata e talvolta invocata! I regnanti facevano uso della tortura, perché se avessero semplicemente ucciso chi protestava, avrebbero avuto le schiere di protestanti alle porte che imploravano di morire. - Chi non lavora ventiquattr’ore al giorno per un pezzo di pane (quando c’è… altrimenti niente!) sarà ucciso! La forca è pronta! Se questo fosse stato il proclama dei signori e padroni, i poveretti avrebbero fatto festa. Tutti in fila per andare sulla forca prima che i padroni cambiassero idea! - Tocca a me, sono più debole, non ce la faccio più, io vado per primo! - No, io! Sono cinquant’anni che lavoro! Mi hanno strappato le unghie, i capelli, ho un occhio solo… il diritto è mio! - Io subito dopo! Mi hanno già bruciato un polpaccio, non riesco a lavorare. - E io? Se cambiano idea che fine faccio?! Lavorare senza mangiare, non ce la faccio. Eccetera, eccetera.
Se i capoccioni, duchi, conti e visconti, si fossero limitati a uccidere quelli che si ribellavano, non avrebbero più avuto servitori. Tutti morti. La Chiesa aveva vietato il suicidio e scomunicava i parenti dei suicidi per evitare la rincorsa alla morte dei più sfruttati che allora erano i contadini. La tortura invece faceva paura. Povera gente!
Il mio vecchio nonno Severino nato sul finire dell’Ottocento, quello che diceva spesso “Non comprendo” e invece era lucido e intelligente, si rivolgeva al Padreterno che lui chiamava Dio Padre. - Dio Padre s’è addormentato, - diceva - ma appena si sveglia e vede quel che succede su questa terra, tutto lo spreco che c’è, tutto il bengodi, l’abbondanza inutile, il consumo senza senso, il dolce far niente con la pancia piena, succede il finimondo, si rivolta contro di noi, contro di voi… Io ho sempre avuto la pancia vuota… Aveva il mito della pancia vuota. Non si metteva a tavola se non dopo che tutti i figli e i nipoti avevano mangiato e raccoglieva gli avanzi che erano rimasti nei piatti. Mangiava solo quelli e poi andava a lavorare in officina anche in tarda età. A 92 anni ha deciso di non mangiare più nulla e di morire. Gli ho portato un piccolo gelato: - Senti che buono nonno! -, gli ho sussurrato. Ne ha preso un poco con un cucchiaino: - Buono! Mangialo tu! Io voglio morire con la pancia vuota. Nonno Severino, la tua pancia vuota è stato un sacrificio inutile! Dicevi che da giovane, per calmare la fame, mangiavi i fiori e le bacche, le radici e le erbe e che i tuoi amici mangiavano le formiche dopo avergli tolto le zampine per non sentirle camminare nello stomaco… C’erano povertà e fame, bisognava accontentarsi per sopravvivere, ma oggi, avendo pastasciutta e lasagne, torte, panna montata e gelato… perché rinunciare? Nonno, cosa ti sei perso!!
Sembrava che lui avesse paura della vendetta divina, in realtà aveva un ricordo così vivo e profondo dei genitori, dei fratelli e di tanti amici che erano morti malnutriti e affamati, che per rispetto verso di loro si conteneva. Era l’amore e non la paura che in lui era più forte della fame e della golosità. Non se la sentiva di cambiar vita rispetto al ato. Avrebbe tradito parenti e amici morti giovani nella miseria, probabilmente con grande dignità, quella che anche lui, nonostante le privazioni, ha avuto fino all’ultimo giorno. Forse si manteneva col cibo al minimo, per essere libero, per non essere schiavo del benessere, per non avere paura di perderlo. Infatti la precarietà non riguarda solo la vita. Si può morire da un momento all’altro inaspettatamente, così come dell’altro può succedere inaspettatamente. Càpita di bruciare l’arrosto per distrazione mandando in fumo la cucina, càpita di cadere e rompersi un braccio, càpita un corto circuito e ti brucia la casa, càpita di perdere le chiavi e di dormire tutta la notte sulle scale perché non si trova una soluzione migliore, càpita di ammalarsi gravemente, magari di ritrovarsi su una sedia a rotelle o in un letto in uno stato di deprivazione grave. Possono capitare tante cose. Perdere la vita è solo una delle tante e neppure la peggiore. Se si pensa a queste disgrazie si vive nella paura e invece, secondo me, bisognerebbe pensarci, sì, ma per diventare indifferenti, distaccati, tranquilli. La consapevolezza della precarietà rinforza lo spirito. In tempo di guerra, quando c’erano i bombardamenti, tutti erano consapevoli che avrebbero potuto perdere la casa e, se succedeva, si rassegnavano, trovavano soluzioni di emergenza, si adattavano. La famiglia di una mia zia aveva avuto distrutta la casa ed era venuta ad abitare con noi. Io dormivo con una cuginetta che stava dall’altra parte del mio stesso letto. Ci scontravamo coi piedi e ridevamo. Quando c’era freddo ci scaldavamo i piedi una sotto la pancia dell’altra e non ci siamo accorte che fosse una disgrazia perdere la casa. Invece se si ha paura, si sta male anche se non succede niente. Chi ha paura perde la libertà. Dice sempre di sì per non irritare i prepotenti e subire conseguenze, fa mille calcoli da mattina a sera per evitare di sbagliare, quando succede un imprevisto perde la testa e, se gli capita qualcosa di grave,
impazzisce, parla solo dei suoi guai e non si rassegna. Chi ama la libertà, non ha paura, usa la ragione con una visione ampia del futuro – “al massimo vengo calunniato e ci sono abituato, se perdo soldi non è grave, è già successo anche questo e se mi sparano ho finito di tribolare…”, pensa. Il Padreterno o il Dio Padre oppure il Destino tende purtroppo a fregarci, mette alla prova ancor più le persone forti e coraggiose, quelle che appunto amano la libertà e non hanno paura. Riesce a scuoterle dalla loro imibilità, le piega, le mette in crisi, le destabilizza. - Tu sei fiero della tua indipendenza? Allora ti metto su una sedia a rotelle per qualche annetto e vediamo come te la cavi!… - A te piace essere sempre un po’ malato così tutti si occupano di te e ti stanno intorno? Faccio morire i tuoi parenti, resti solo e poi mi racconti… - Vorresti essere stimato e onorato? Tutte le calunnie saranno per te! - Sogni soldi a palate? Te li darò e saranno la tua maledizione! Eccetera. Si potrebbe pensare che questi non sono pensieri del Padreterno, considerato da alcuni un Padre Buono, ma del Diavolo. Non è così: o la vita è tutta un imbroglio e l’ingiustizia trionfa quotidianamente senza alcun motivo sensato, oppure serve come una dura lezione per la nostra anima che di vita in vita, reincarnandosi, si evolve nel tentativo di avvicinarsi alla perfezione divina. Questa naturalmente è una teoria, una delle tante che l’uomo ha inventato per cercare di capirci qualcosa in questa strana vicenda umana dove tutti hanno una buona dose di sofferenza e i più miti e generosi spesso stanno peggio degli altri. Gli antichi dicevano che l’anima deve ar attraverso il cerchio delle necessità per purificarsi ed è famosa la frase di Platone conoscere vuol dire ricordare nel senso che l’anima dopo la morte, in quello che lui chiamava l’iperuranio, viene a
conoscere dei modelli di ragionamento e degli schemi matematici che non fanno parte del mondo materiale e di cui si ricorda - talvolta… non sempre - quando si incarna. Platone è stato uno dei primi teorici della reincarnazione. Il Cristianesimo rifiuta questa teoria anche se alcuni i del Vangelo parlano di profeti che ritornano e l’idea del paradiso e dell’inferno può essere capìta più facilmente pensando alla legge del karma: il paradiso e l’inferno potrebbero essere vite future nelle quali si è premiati o puniti secondo il comportamento tenuto in quella attuale. Inoltre, cosa è la Pasqua se non una rinascita, una evoluzione spirituale, un risveglio dell’anima dopo il martirio della Croce? La croce appunto! Ognuno ha la sua croce si dice spesso con leggerezza, ma purtroppo è vero! E la croce può essere molto pesante! E, dico io, a qualcosa dovrebbe pure servire nell’ipotesi che il mondo sia governato da leggi che hanno un senso seppure misterioso… Gli Indù nei giorni di festa si tuffano in massa nel fiume Gange, uno dei più inquinati del mondo per tutti gli scarichi fognari che vi si sversano, si lavano e pregano che sia loro concesso, dopo quel lavaggio simbolico, di non avere più in sorte una futura reincarnazione. Nel Gange galleggiano gli escrementi ma, per loro, il fiume è sacro, è la grande madre che prende tutto ciò che i figli le danno e tutto purifica miracolosamente. In realtà si ammalano, i bambini muoiono, ma loro continuano a credere nella divinità del fiume e nel miracolo. Sembra un controsenso: si lavano in mezzo ai rifiuti, sfidando quel poco che hanno, vita e salute, per chiedere una morte senza rinascita. Eppure l’uomo debole, povero, disperato, ha sempre sfidato la precarietà della vita con l’aiuto della fede e questo uomo di fede, a ben pensare, non è meno saggio di chi, per sfidare la precarietà, accumula invece ricchezze (il pensiero mi va al Griso dei Promessi Sposi che ruba al padrone malato di peste e si ammala a sua volta). Raccontavo queste cose ad un’ amica l’altro giorno e lei mi ha detto serafica: - Io non credo nella reincarnazione, ma sarei felice di vivere altre vite dopo questa. Non mi va di morire, morirei più volentieri se fossi sicura di rinascere!
- Allora sii felice, perché sembra, dagli studi, che più si desidera vivere e più facilmente si rinasce…- e dentro di me pensavo che mediamente gli Indù che si lavano nel Gange non sono più evoluti spiritualmente di noi occidentali, fanno semplicemente una vita diversa e molto povera. Ciononostante non le ho detto: - Cara, sappi che potresti rinascere nei panni di una contadina dell’India profonda… magari una intoccabile, che vive in una misera capanna insieme agli animali, si sposa col primo che la vuole e muore bruciata sul suo carro funebre, se resta vedova… Non gliel’ ho detto. Scrivo queste cose e intanto penso che la vita è bella, che è un’esperienza affascinante, con momenti meravigliosi e che siamo circondati da una natura governata da leggi rigorose eppure ovunque stupenda… Solo che non bisogna prenderci gusto, illudersi che sia sempre così. Bisogna ricordare ogni giorno che siamo precari, che non c’è sicurezza.
Oggi si parla molto della precarietà economica. I nostri giovani sono cresciuti nella bambagia, con la convinzione che il problema della vita fosse quello di emergere, essere belli, avere successo, andare alla televisione, riuscire a far colpo e ad avere tanti soldi. La maggior parte non si sono sacrificati e non si sono abituati al sacrificio. Hanno anche loro il mito della pancia vuota, ma non come regola di vita per un sentimento o un bisogno di libertà, ma semplicemente per mantenersi in buona forma, magri e asciutti. La dieta giusta è una delle ossessioni più diffuse oggi tra i giovani e i meno giovani. Arrivano a trent’anni e poi a quaranta, talvolta senza avere appreso un mestiere in tempi di crisi economica, in tempi di globalizzazione quando nel sud-est del mondo si lavora dodici ore al giorno per un piatto di riso e nelle campagne si muore ancora di fame. Per questi giovani c’è anche la precarietà economica. I genitori li aiutano, ma quando i genitori non ci saranno più, cosa faranno?
Nonno Severino forse aveva intuito tante cose, forse aveva temuto che sarebbe successo prima quello che si sta verificando ora e ha perso la buona occasione di godersi un po’ la vita, di assaggiare il gelato, la panna montata, il marzapane, le ciliegie grosse e nere, Il cioccolato con le nocciole, il ciambellone col vino frizzante, i tortelli col burro e i funghi… (lasciamo ai raffinati le ostriche, il caviale e lo champagne che sicuramente non gli sarebbero piaciuti...). Poveretto. I giovani invece hanno goduto e dovranno soffrire? E’ possibile. Secondo la dura legge dell’economia: non esiste il pasto gratis. Molti economisti stanno cercando di dimostrare che non è vero e speriamo che abbiano ragione perché in Occidente per anni si è mangiato a sbafo… Torna all'Indice
La mafia
Ci penso spesso. Se mi fosse capitato di vivere, invece che in Emilia o a Milano, in qualche posto della Sicilia, della Calabria o del Napoletano, sincera e sfigata come sono, sarei già morta da un pezzo, morta ammazzata. Roberto Saviano racconta che la Camorra, ma non credo sia diversa la regola per le altre associazioni a delinquere, spara alla testa quando uccide persone che rispetta, come cittadini illustri o capimafia non traditori. Spara al torace quando si tratta di cittadini comuni ( la morte è dolorosa in questo caso e avviene per soffocamento quando il sangue ha riempito tutti i polmoni, però il torace è più facile da colpire) e spara alla pancia per fermare i traditori e poi torturarli con una morte lenta. E’ un rituale. Le mafie erano un antistato ai tempi di Totò Riina, il macellaio, e stanno diventando sempre di più uno stato parallelo cioè sono organizzate come uno Stato con regole che tutti devono rispettare, ma mentre lo Stato ufficiale scrive migliaia di leggi che poi non vengono applicate se non in casi rari e i cittadini che le rispettano sono una minoranza, le mafie sono inesorabili. Crudelissime ai tempi di Totò Riina, hanno cercato sempre più di allearsi con le classi dirigenti, i politici più potenti, gli amministratori, anche i poliziotti e i magistrati per cui partendo dal Sud tutta la società italiana ne è stata invasa. Le mafie si sono integrate: sono di meno i morti ammazzati rispetto agli anni Ottanta e Novanta, ma la situazione è peggiorata perché non si sa chi decide, chi comanda e chi governa. Le mafie sono diventate una grande ombra che incombe su tutto il Paese. Io sono sospettosa e dubito sempre. Ho notato che chi dice bugie o è ipocrita in maniera recidiva e grave, ha spesso gli occhi sbarrati. Nei casi più gravi ha un occhio semichiuso e uno sbarrato. Secondo le regole della fisiognomica si aprono esageratamente gli occhi quando si ha paura e si socchiudono quando non si vuol vedere il male che si è fatto e si sta comunque sulla difensiva.
La coscienza del male e del bene può essere rifiutata dalla mente, ma il corpo ne porta le tracce in vari modi, soprattutto negli occhi. Chi è crudele e nello stesso tempo ha paura, ha degli occhi terribili. Quando i politici e i funzionari dello Stato parlano in televisione, li guardo e capisco che tipi sono. Molti sono delinquenti. Sono pochi i magistrati e i poliziotti onesti che dovrebbero fare pulizia e la fiducia che la criminalità organizzata possa essere sconfitta è sempre più debole. La gente l’ha capito e non sa cosa fare. Alcuni hanno paura, altri si associano per promuovere i loro interessi personali. Si chiama omertà e connivenza. Lo Stato ufficialmente proclama a gran voce di combattere le associazioni criminali, ma non lo fa veramente. Lascia soli i magistrati e i poliziotti più combattivi che ne diventano vittime in vario modo e intanto in alcune regioni la mafia è cresciuta fino a sostituirsi completamente allo Stato. Si potrebbe dire che non è una cosa così grave perché nei tempi attuali gli uomini di Stato, anche quelli non sospettabili di essere conniventi con la criminalità, parlano del bene comune, del bene dell’Italia e degli italiani, ma in realtà costoro, cioè i governanti insieme ai loro amici, i politici di ieri e di oggi, le nuove leve e i vecchi tromboni, tutti quanti pensano ai loro interessi. Vogliono ricchezza e potere e quando hanno ottenuto l’una e l’altro, non si rassegnano proprio a perderli, restano attaccati a qualche sedia muniti di una potentissima ventosa e non se ne vanno più. Mi vien da pensare alle signorie del Medioevo, alle famiglie che prendevano il dominio delle città e delle regioni con guerre, tradimenti, delitti, anche fratricidi, uxoricidi, parricidi, complotti di ogni genere, congiure: i Visconti, gli Estensi, i Gonzaga, gli Scaligeri, i Borgia… Attraverso matrimoni, combinati spesso anche tra cugini, aumentavano ricchezze e potere e poi con le armi conquistavano nuovi territori; morivano in seguito avvelenati o assassinati, spesso da un parente ambizioso; gli eredi perdevano tutto e la storia si ripeteva daccapo. Seguire le imprese di costoro è impossibile. In pochi anni gli stessi territori venivano persi e riconquistati più volte e i morti ammazzati non si contavano. I nostri governanti non sono molto diversi: il potere a da una mano all’altra, ma chi l’ha perso, trama nell’ombra per recuperarlo. Solo che non si ammazzano e il loro numero cresce indefinitamente, tutti sulle spalle dello Stato che li
mantiene nel lusso e ne è così gravato che da anni sembra prossimo al crollo. Lo Stato fa debiti su debiti per tenersi attorno questi parassiti sempre più numerosi e il popolo è impotente perché periodicamente è chiamato al voto. Deve esprimere un giudizio: chi è degno di governare? La gente non avrebbe più nessuna voglia di votare per vedere solo aumentare il numero di costoro, ma, se non votasse, sarebbe uguale e i mantenuti a spese dello Stato sarebbero comunque innumerevoli, tutti a caccia di soldi e poltrone. Non ammazzano e crescono. Vecchi e nuovi, trombette e tromboni, uno più ridicolo dell’altro, con le facce odiose, ma sempre lì inesorabili a raccontare frottole per imbonire il popolo bue. “Mandiamo avanti un po’ di giovani”, dice qualcuno, così lo Stato si carica di altri pesi. Inutili. Questa è la democrazia oggi: una gigantesca zavorra sulle spalle dei più deboli. C’è di bello che non ci sono più i delitti dei Visconti e dei Borgia. Al loro posto ci sono le mafie che ammazzano ancora, si ammazzano pure tra di loro e sono affamatissime: si attaccano alle mammelle dello Stato succhiando a più non posso, peggio di tutti gli altri. Sono ati secoli, e il potere tende ad agire sempre nello stesso modo: lusso, ricchezza e violenza. Politici, burocrati e mafiosi tutti intrigati tra di loro, tutti delinquenti, falsi, sfruttatori. Cavallette. Spolperanno lo Stato. Lo uccideranno. Se lo Stato, cioè il popolo, non è ancora morto, deve ringraziare il mercato. Non il buon senso, lo spirito cristiano, i buoni sentimenti. No! Il mercato. Il cittadino consuma, compra. Solo per questo è tenuto in vita. E’ la triste verità. Se non fossimo tutti consumatori, saremmo morti di fame come i contadini fino a cent’anni fa, fino a quando l’industria ha iniziato a produrre una quantità
enorme di merce che qualcuno deve pur comprare.
Ho letto una piccola atroce storia di Sicilia raccontata da quel grande giornalista che fu Giuseppe Fava. Erano i primi anni Ottanta del 1900 e a Camporeale, provincia di Palermo, c’era un sindaco democristiano di nome Pasquale Almerico che era anche medico condotto del paese. Un democristiano onesto che essendo segretario comunale della Dc, rifiutò la tessera di iscrizione al partito, ad un patriarca mafioso di nome Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, quattrocento persone: quattrocento tessere. Almerico sapeva che se lui avesse concesso quelle tessere, quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza e avrebbero saccheggiato il comune. Il segretario provinciale della Dc, Giovanni Gioia, impose al sindaco di accettare quelle iscrizioni, ma il galantuomo Almerico disse ancora di no. Allora i mafiosi gli fecero semplicemente sapere che lo avrebbero ucciso se non avesse accettato la loro iscrizione, ma Almerico, che era un uomo con i coglioni e credeva negli ideali della Dc, rifiutò di nuovo. Fu allora sospeso dal partito che concesse le quattrocento tessere ai malviventi e il buon sindaco Almerico cominciò a vivere in attesa della morte dopo aver scritto un memoriale alla direzione del partito nel quale raccontava la storia e indicava addirittura il nome e il cognome di coloro che lo avrebbero assassinato. Nessuno gli aveva risposto ed era rimasto solo, considerato un pazzo visionario. Solo, in attesa della esecuzione. Una sera di Ottobre mentre usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza furono sparati contro di lui, povera ombra solitaria, cinquantadue proiettili di mitra e due scariche di lupara. I mafiosi divennero i padroni di Camporeale e, come dice Pippo Fava, questa piccola storia spiega come può il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da protagonista. Per quattrocento voti lo Stato si era consegnato alla mafia e il protagonista eroe è stato dimenticato e considerato non un eroe alla memoria, ma un pazzo alla memoria. Lo scritto di Giuseppe Fava con questa piccola drammatica storia, I Siciliani, è stato pubblicato nel 1983 e il 5 Gennaio del 1984 il giornalista fu ucciso dalla
mafia pochi giorni dopo una intervista televisiva con Enzo Biagi nella quale diceva: - I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in parlamento, a volte sono ai vertici della nazione - (Assedio alla toga, Di Matteo-Mazzetti). Ci penso spesso. Io amo la verità e la coerenza e, soprattutto di fronte ai prepotenti, mi nasce dentro una forza indomita e incoercibile che non si quieta facilmente. Se penso a Gesù Cristo e a Giordano Bruno concludo che nei loro panni avrei lasciato perdere. Hanno seguito entrambi il loro tragico destino dovuto a grandi ideali irrinunciabili e hanno scelto il martirio per dare una lezione al mondo: io, più dubbiosa, non sarei stata sicura di essere figlio di Dio - neppure in senso figurato -, in un caso, e non sarei stata sicura della assoluta bontà delle mie idee, nell’altro. Il loro grande sacrificio non ha purtroppo cambiato il mondo. Galileo Galilei, condannato a morte da quella stessa chiesa che il buon Gesù aveva fondato, era sicuro delle sue teorie convalidate dalle prove sperimentali, ma umilmente ha abiurato salvando la pelle e ha ato i restanti anni della sua vita a scrivere libri geniali e rivoluzionari di meccanica, ottica e fisica che hanno cambiato, quelli sì, la storia del mondo. In Sicilia però, avrei fatto come il dimenticato Pasquale Almerico e come Giuseppe Fava, vittime forse inutili in un mondo profondamente corrotto, ma uomini veri, onesti fino alla morte. Roberto Saviano si è forse dimenticato di scrivere che la mafia quando ha di fronte un grande uomo, un vero uomo, un uomo di spirito, ha paura, anche se nella realtà costui è solo e debole. Usa migliaia di pallottole per ucciderlo, non pensa più alla testa, al petto o alla pancia; ha paura e si confonde. I picciotti sparano e sparano e forse contemporaneamente se la fanno sotto. E’ la coscienza. Tutti hanno una coscienza. Quella che vorrebbe portarci in alto verso la pace e l’amore, quella che troppi non vorrebbero esistesse. Invece c’è ed è ingombrante. Torna all'Indice
Follia e ignoranza
Chi studia astrologia e fa oroscopi si accorge ( beh… chi non crede nell’astrologia deve farsene una ragione perché in campo psicologico l’astrologia funziona!...), si accorge che la follia nel mondo attuale è aumentata e diffusa. La gente dice tante cose: tende a dare la colpa ai genitori se un ragazzo è strano e troppo ribelle, oppure alle cattive compagnie che frequenta; se una persona anziana è intollerante e bisbetica si dice che ha l’arteriosclerosi o che beve alcol, oppure che gli è scoppiata dentro l’infelicità per la vita che ha vissuto o la rabbia per la morte ormai vicina. Effettivamente molti giovani hanno l’aria dei bambini viziati che vogliono a tutti i costi fare la bella vita che hanno sognato. - Alberto hai una magnifica camicia bianca. L’hai stirata tu?… - Nooo! Cosa dici! Mia madre…. - Cosa fai? Lavori?… - Sto cercando. L’ultima volta mi volevano dare quattrocento Euro per otto ore di segretario tutto fare… Non mi sarebbero bastate neanche per le sigarette!… - Potevi cominciare, poi chissà… piuttosto che non fare niente… - A fare niente, come dici tu, sto benissimo… - Io, se fossi tua madre, non ti stirerei la camicia e non ti preparerei da mangiare… Dimmi quando sei nato! Sto facendo studi astrologici sui giovani… Prossimo ai quarant’anni sembrava un bellimbusto viziato, invece aveva l’oroscopo di un tipo intelligente e sveglio, ma di una indolenza costituzionale, patologica. Viene chiamata in psichiatria autismo psicologico: il tipo vede solo se stesso e i suoi bisogni, dà la colpa agli altri se non ha voglia di far niente, spesso accusa la madre di non averlo accudito da piccolo, scappa di casa, riesce
a far paura così da sottomettere tutti ai suoi bisogni. E’ il peggior figlio che possa capitare! Si può educare solo lasciandolo in povertà assoluta anche senza cibo, ma chi ha il coraggio oggi? Forse la mamma di Alberto lo serve e non gli fa mancare nulla per non avere un figlio ladro e delinquente. Povera madre! Difficile non capirla.
Altri giovani hanno accessori costosi, il telefonino Touchscreen, le cuffie per sentire la musica, ridono e mandano in continuazione fotografie agli amici con il tablet. - Serena tu fai il liceo, mi pare?… - No! Ho smesso di studiare… Non ne posso più della scuola. I professori sono tutti stronzi… Voglio andare in Africa. Mi piace la natura. Qui, è un mondo matto, senza senso… - In Africa non hanno il telefonino o il tablet che fa le fotografie e con WhatsApp ti tiene tutto il giorno in contatto con gli amici… Lo sai?… - Intanto che sono qua, mi diverto! E’ un peccato divertirsi? Mi devo buttare dal settimo piano!? L’oroscopo di Serena metteva in rilievo un sensibilità elevata, molta emotività e una tendenza spiccata ai disturbi dell’umore e anche alla sindrome bipolare. Povera figliola! Dura la vita con un bagaglio così pesante sul gobbo.
Poi ci sono gli anziani. Rarissimo trovare un anziano con la faccia distesa e sorridente e con quell’aria pacifica e bonacciona che avevano i nostri nonni. Nonno Severino, quello che si vantava della sua pancia vuota, aveva sempre un sorriso un po’ ironico, come se lui con tutti gli anni che aveva dietro le spalle, ne sapesse di più.
Gli brillavano gli occhi quando vedeva i giovani. - Ti piacerebbe tornare giovane nonno? Vivere giovane oggi! Non ai tuoi tempi quando si faceva la fame. - I giovani sono belli. I miei nipoti sono tutti belli e vigorosi. Vorrei che fossero felici. Alla mia età, però, non si soffre più, non tornerei indietro… - e sorrideva sornione. Gli anziani di oggi hanno le facce terrorizzate, stravolte, rughe strane che piegano la bocca verso il basso, mentre gli occhi sembrano uscire dalle orbite con espressioni esaltate e sguardi cupi. Sembra che abbiano appena assistito a un disastro ferroviario con treni accartocciati uno sull’altro e feriti e morti appesi alle ferraglie. - Ti è successo qualcosa Ines?… - No! Perché?”, risponde dilatando gli occhi grigi e vuoti. - Niente. Chiedevo… Sono così, spaventati dalla vita e dalla morte. Molti sono soli, ma quelli che non sono soli stanno anche peggio, disturbati da convivenze difficili, trascurati dai figli, ossessionati dai problemi di salute, in lotta coi vicini nei grandi condomìni dove tutti vogliono comandare e essere rispettati e riveriti, invidiosi di chi è stato, oppure è, più fortunato di loro, ansiosi per la loro sorte e alla ricerca dell’ultima occasione per riscattare una vita che forse giudicano inutile e fallita. Un tempo c’erano i ricchi e i poveri. Di questi ultimi nessuno si occupava. Loro se ne stavano in un angolo rassegnati e si accontentavano di un pezzo di pane. I pochi ricchi erano impegnati a tempo pieno nella difesa di ricchezza e potere. Adesso ci sono i pensionati. Non hanno il problema del pane quotidiano, non sono né ricchi né poveri, ma sono insoddisfatti. Si sentono stupidi e inutili. Tutti quanti vorrebbero essere qualcuno. Non si preoccupano di fare qualcosa magari al servizio di un ideale, ma vorrebbero però essere qualcuno. Molti hanno il cane che è una compagnia discreta e affettuosa, ma anche i cani
litigano e possono diventare una causa di lite per i padroni. La signora che abita al piano terreno del mio condominio non sopporta che i cani si scrollino davanti alla sua porta in attesa dell’ascensore ed esce tutti i momenti a rimproverare i malcapitati con la voce alterata. Probabilmente sta dietro la porta ore e ore a guardare dallo spioncino per cogliere i vicini sul fatto e poi, zàchete, balza fuori e urla. Qualcuno risponde male e le discussioni incattiviscono la povera donna che ha sempre più la voce stridula e gli occhi fuori dalle orbite. La stessa cosa succede con la vicina che abita sotto di me. Io sto alzata la sera a scrivere e può succedere che mi caschi una matita o che sposti lievemente la sedia. Una gragnuola di colpi parte dal basso per impormi il silenzio, per impormi di andarmene a letto. “Cosa fa quella matta fino a mezzanotte?”, si chiede disperata, mentre lei non ha assolutamente niente da fare - infatti anche il pomeriggio, dalle due alle quattro, picchia ferocemente il soffitto per impormi il silenzio necessario al suo riposino postprandiale, perché probabilmente non sa cosa fare tutto il giorno ed è invidiosa se appena appena avverte che io sono ancora viva e addirittura oso muovermi. E’ una donna relativamente giovane con un marito goffo e spiritato del quale lei vanta l’aggressività per far paura ai vicini. - State attenti che mio marito, se si arrabbia, diventa cattivo -, dice. Una volta che ero nervosa sono stata alzata a lungo fino a notte inoltrata, facendo piccoli rumori come è nel mio diritto e lui il giorno dopo mi ha aggredito e minacciato - sembrava il mostro di Franchenstein! -, si è avvicinato a me col petto fino a sfiorarmi mentre diceva che io ero un pezzo di… L’ ho spinto vigorosamente con entrambe le mani e lui è stranamente finito per terra. Da allora mi odia di sicuro e mi fa anche un po’ paura, però cambia marciapiede quando mi vede. Che abbia paura lui di me? I grandi condomìni, i palazzoni con decine di famiglie, sembravano all’inizio, quando hanno cominciato a diffondersi, un modo positivo di contrastare la solitudine della famiglia nucleare, invece sono diventati dei manicomi. La malattia mentale più comune è il delirio di onnipotenza. Tutti si sentono oltraggiati per un nonnulla.
- Lei alle dieci di sera deve andare a letto, altrimenti è obbligata a mettere i tappeti dappertutto! Ha capito?! - Il suo cane abbaia! Lo faccia star zitto! Ha capito!? - Il suo cane si scrolla davanti alla mia porta! Mi molla i peli sulla porta! Le sembra giusto!? - Ero sul balcone e mi è caduta una goccia sulla schiena … La signora del pian terreno che non vuole che i cani si scrollino davanti alla sua porta, lascia in compenso posteggiati sul pianerottolo la carrozzina e la bicicletta dei nipotini. Qualcuno protesta e lei: - Vergogna prendersela con dei bambini! C’è proprio gente cattiva! Eccetera. Quando sono riuscita ad avere i dati e a fare gli oroscopi ho scoperto che incredibilmente tra gli anziani è diffusissimo il delirio di onnipotenza. Tutti palloni gonfiati, anzi mongolfiere, che si sgonfiano per un nonnulla e diventano cattivi, rabbiosi, scorbutici con quelle facce orribili e spaventate che fanno pena. I palloni gonfiati, oggi così diffusi, sono causati in generale, dalla Luna in Leone e da un Giove forte. E’ mai possibile che quasi tutte le persone anziane oggi abbiano la Luna in Leone e Giove forte? Eppure è così! Se costoro fossero nati cent’anni fa si metterebbero la Luna in Leone nelle tasche vuote e starebbero zitti e il bel Giove servirebbe loro a sentirsi fortunati è risaputo che Giove porta fortuna! -, fortunati di trovare nel pollaio qualche uovo la sera per non mangiare l’insalata da sola con un pezzo di pane. Oggi pretendono. Appena può, l’uomo pretende. Vuole il potere e vuole usare il potere per controllare gli altri, avere qualcuno che obbedisce ai suoi ordini, che ha paura di
lui e che si sottomette. In psichiatria si parla addirittura di sadismo, ma può essere anche ignoranza: l’uomo non capisce che deve accettare i suoi limiti; vorrebbe essere più grande, più importante e più potente. Potrebbe invece capire e cambiare. Si stava meglio cent’anni fa? No! Penso che il cammino per imparare sia lungo e faticoso. In questa fase di transizione, il mondo è un grande manicomio, ma tra qualche secolo, forse qualche millennio, potrebbe essere un paradiso. Io vorrò esserci e vedere intorno a me facce distese, occhi sereni e finalmente la pace. Torna all'Indice
Paolo Borsellino
Il nome di Paolo Borsellino è sempre associato a quello di Giovanni Falcone, due magistrati di grande onestà e coraggio che lavorarono insieme per combattere la mafia in Sicilia negli anni Ottanta e Novanta, due eroi, entrambi vittime di Cosa Nostra a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: 57 giorni. Leggendo la storia di Borsellino, non si può non restare commossi, sconvolti e ammirati di fronte ai suoi ultimi 57 giorni, giorni durante i quali egli dovette assistere disperato e impotente al tradimento di tutte le istituzioni, istituzioni pubbliche ate al nemico, ate alla mafia che aveva appena ucciso Falcone e che lo ucciderà; lo ucciderà, ma stavolta non per calcoli suoi, ma per incarico proprio di quelle istituzioni. Lui, uomo tutto d’un pezzo, uomo integro, uomo fedele agli ideali che gli avevano già portato via tanti amici e collaboratori, non avrebbe mai accettato accordi con la criminalità, mentre lo Stato, sì, lo Stato aveva deciso di tradire e di accordarsi con il nemico dichiarato, la mafia. Dopo l’assassinio di Salvo Lima, avvenuto nel marzo dello stesso anno, si sapeva che Cosa Nostra aveva nel mirino parecchi uomini politici e lo Stato per salvarli aveva deciso di cambiare strategia e di fare accordi, quelli che il collaboratore del Presidente Napolitano, Loris D’Ambrosio, pochi giorni prima di morire (morte naturale?) chiamerà poi “indicibili accordi”. Cinquantasette terribili giorni per il giudice eroe che non solo dovrà assistere impotente al fallimento di una vita di lavoro contro i criminali, non solo dovrà disperarsi per la morte inutile di tanti colleghi, come Falcone o Rocco Chinnìci o Basile abbandonati dallo Stato dopo che gli avevano dato tutto. Dovrà morire anche lui. Con dignità come sempre. Tradito, abbandonato, isolato e ucciso da quelli che considerava compagni di lotta. Nino Di Matteo, il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia – la
famosa Dda di Palermo – suo giovane collaboratore nei primi anni Novanta e attualmente pm nel processo sulla sua uccisione, lo descrive come un uomo calmo e concentrato che si accendeva di ione quando parlava coi colleghi di indagini di mafia, ione che sfiorava il furore nei momenti più delicati delle indagini quando qualcuno sembrava scoraggiato e pessimista. Nino Di Matteo racconta che lui, giovane, idealista e sprovveduto, aveva però capito subito quanta ostilità e diffidenza circondassero il difficile lavoro dei magistrati in una terra rassegnata da secoli alla sfiducia verso le istituzioni e al malaffare. Dice che molti degli stessi magistrati del pool antimafia credevano che i più valorosi, come Falcone e Borsellino che vivevano blindati e in una attività febbrile, fossero alla ricerca di protagonismo e notorietà e nascondessero ambizione e carrierismo. Non avevano veramente fiducia. Ma Borsellino non mollava, non aveva mai dubbi e il suo sacro furore finiva per coinvolgere tutti. Fino alla strage di Capaci, fino alla morte dell’amico Falcone. Dopo, quella bellissima e terribile terra di Sicilia gli è crollata addosso, giorno per giorno, un pezzo alla volta, senza pietà. I fatti si sono chiariti solo diciassette anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, e cioè quando la moglie Agnese decise di raccontare, tra il 2009 e il 2010 (morirà nel 2013), le confidenze che gli aveva fatto il giudice negli ultimi giorni di vita. E si possono ricostruire così. - Dopo la tragica morte di Falcone il 23 Maggio, Borsellino si recava spesso a Roma a interrogare il pentito di Cosa Nostra Gaspare Mutolo. Da lui ebbe la conferma che gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, indagati da tempo per aver favorito la latitanza, per ben 43 anni, di Bernardo Provenzano, erano servitori infedeli dello Stato, ma soprattutto venne a sapere che anche il loro capo, il generale Antonino Subranni, comandante dei Ros, era punciuto, apparteneva cioè a Cosa Nostra. Questa notizia lo aveva sconvolto e riferì alla moglie che quando lo aveva saputo aveva vomitato ed era stato male tutta la notte. I Ros sono un corpo speciale dei carabinieri che utilizza personale preparatissimo e mezzi avanzati di indagine contro la criminalità organizzata. Avrebbero dovuto affiancarlo
nella lotta e i vertici invece erano tutti dall’altra parte. - Verso la metà di Giugno Liliana Ferraro che all’epoca, con Claudio Martelli ministro della Giustizia, era direttrice generale del ministero, e Salvo Andò ministro della Difesa, in una saletta riservata dell’aeroporto di Fiumicino gli dissero che sapevano, da fonte confidenziale, che lui sarebbe stato ucciso mediante l’uso di esplosivo provocando una strage. Gli dissero che la Procura di Palermo era stata informata e si meravigliarono che lui non ne sapesse niente. - Si recò il giorno dopo dal procuratore capo di Palermo Giammanco e, di fronte alla sua indifferenza, perse le staffe, batté violentemente un pugno sul tavolo e si fece male alla mano. Giammanco gli aveva fatto un bello scherzetto: aveva informato non lui ma la magistratura competente di Caltanisetta. Aveva fatto il suo dovere, il suo dovere formale! Non era tenuto formalmente a informarlo… che volevano ucciderlo e fare una strage… - Verso la fine di Giugno Borsellino chiese alla questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre dove poi sarebbe avvenuto l’agguato mortale. Ma la domanda era rimasta inevasa nessuno sa ancora oggi chi fosse il funzionario responsabile della sua sicurezza e se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze - la domanda restò inevasa appunto: caso, disorganizzazione o un preciso calcolo? - All’inizio di Luglio venne a sapere che due suoi giovani collaboratori, Gioacchino Natoli e sco Lo Voi, erano come lui minacciati di morte. Li chiamò e li sollecitò ad allontanarsi, ad andare in vacanza, a munirsi di una pistola e poi a chiedere il trasferimento. Disse più o meno:”Abbiamo creduto a ideali che in questo momento, qui in Sicilia e forse in tutt’Italia, sono troppo pericolosi.” Pensò alla salvezza degli amici, ma lui restò a Palermo dove erano caduti tanti colleghi che avevano creduto nel loro lavoro e ai quali si sentiva indissolubilmente legato. Se fosse fuggito li avrebbe traditi. - Il giorno stesso della morte, il 19 Luglio, disse alla moglie, eggiando abbracciato a lei sulla spiaggia di Villagrazia di Carini, e senza accennare alla sua morte ormai sicura: “Sai Agnese ho appena visto la mafia in
faccia…” . Un paio d’ore prima aveva raccolto le ultime confidenze del pentito Gaspare Mutolo sui magistrati venduti, sulle forze dell’ordine che spiavano, su quella borghesia siciliana fatta di avvocati, medici, ingegneri, commercialisti al servizio dei boss della mafia. Era amareggiato, ma aveva ancora tante cose da fare; il giorno dopo sarebbe andato a Caltanisetta in Procura a lavorare e poi ancora a Roma a risentire Mutolo eccetera.
Morirà subito dopo invece, davanti alla casa della madre, insieme alle guardie del corpo. La successione dei fatti è tragica non tanto perché l’uomo Borsellino acquisisce ogni giorno in maniera più sicura la consapevolezza della morte vicina, ma per l’isolamento in cui viene a trovarsi, l’abbandono, il degrado sociale, la viltà, il tradimento, l’indifferenza, l’ipocrisia, la malvagità diffusi in tutti gli ambiti intorno a lui. Dovrà capire suo malgrado che la mafia non è solo Cosa Nostra, la mafia può essere lo Stato, la mafia può essere la borghesia, la borghesia siciliana o un’altra. Eppure continuerà a lottare. Un uomo onesto resta sempre onesto e lui lo è stato con dignità e coraggio. Quanta sofferenza! Come Gesù sul Calvario. La Chiesa fa santi i papi (seduti sui loro scranni dorati, circondati da folle adoranti e… a fianco dello IOR che chissà che cosa fa…), ma allora Borsellino e Falcone cosa sono?
Dobbiamo ricordarci di questo giudice. Sapere che l’onestà costa, costa molto e essere pronti a pagarne il prezzo, con tutta la consapevolezza necessaria, senza lamentarci. Come lui. Sapendo che non diventeremo santi. Sapendo che saremo dimenticati.
Sapendo che qualcuno non ci avrà capito (Leonardo Sciascia, persino lui, aveva accusato Borsellino di essere un carrierista!!). Sapendo che il male fa parte della vita. Sapendo che i veri uomini soffrono più degli altri. Sapendo anche che non è stato inutile e che altri uomini onesti partiranno da dove siamo arrivati noi, avendo gli stessi nostri ideali. Torna all'Indice
La paura
o col carrello della spesa pieno davanti a una rete metallica oscurata per un tratto da ondulux verde fratturato in vari punti, poi da lastre sconnesse di vetroresina con buchi e spiragli e, nell’ultimo tratto, da vecchie assi di legno. Al di là della rete sterpaglie e rifiuti accumulati. E’ una parte della periferia di Milano dove da decenni dovrebbe essere costruita una grande strada ad alto scorrimento, la famosa Gronda Nord, prevista fin dal 1934 dal Piano Albertini, un grande progetto di viabilità studiato dopo che i borghi prima autonomi, come Gorla, Turro e Crescenzago, erano stati aggregati al comune di Milano, ampliandone il territorio. Questa grande strada, in prossimità dei confini della città, con andamento trasversale, doveva servire a tenere lontano dalle case la circolazione dei veicoli pesanti collegando tra di loro nello stesso tempo le strade dirette al centro. Non fu mai costruita, ma il territorio ad essa destinato è sempre stato mantenuto sgombero, mentre, intorno, nel dopoguerra sono cresciuti palazzoni gremiti di abitanti, scuole, ospedali, grandi strade, le linee metropolitane sotterranee ed altro ancora. Oggi, quando l’amministrazione, tiranneggiata dai costruttori che vorrebbero riempire la città di sempre nuove case e bersagliata di critiche per il traffico al collasso, tira fuori il vecchio progetto, la popolazione si solleva. - Una strada ad alto scorrimento sotto casa? Non se ne parla! - C’è vicino l’ospedale! - Ci sono anche le scuole! - Con tutte le strade che già ci sono, ne verrebbe un groviglio invivibile. Non sia mai! - Si deve fare sotto terra come diceva Leonardo da Vinci seicento anni fa! Sotto
terra i carri, sopra le persone con le loro attività… E se costa troppo perché c’è già la metropolitana e si deve andare sotto un bel po’… si prendano i soldi dall’Europa! Eccetera. Non si è mai fatto niente. Così la brutta recinzionecoi suoi buchi è ancora lì. Vicino c’è un supermercato economico dove io vado spesso a fare la spesa, ci sono magazzini recintati e capannoni con le attività più strane e misteriose, tetti in rovina ad altezza d’uomo molti dei quali sembrano di amianto, vecchie case fatiscenti occupate da stranieri e cestini colmi di ogni sorta di rifiuti. Ho chiesto controlli sui tetti e mi hanno risposto che non sono di amianto, ma io non mi fido e quando o davanti mi allungo involontariamente qualcosa davanti al naso per proteggermi. Telefono spesso all’Amsa, la municipalizzata milanese che raccoglie i rifiuti, perché tenga pulito e oggi, mentre o a fianco della rete, un camion dell’Amsa circola rumorosamente nella strada avvicinandosi al marciapiede. Da sotto una macchina parcheggiata escono tre gatti: due piccoli bianchi corrono verso la recinzione e si infilano sotto. Il terzo è bianco e nero, grosso, forse vecchio, forse è una femmina. - Pocciolina, gattona bella, ciao, ciao!… Non aver paura, gattonissima, pissi pissi -, le dico con voce dolce e carezzevole. Mi guarda girando la testa verso di me e quatta quatta, quasi strisciando per terra, torna sotto la macchina parcheggiata. Il camion dell’Amsa si allontana. Non ci sono rumori e io continuo ad attirare con versetti e vocalizzi la gattona, forse un gattone. Cerco nel carrello il pacchettino del prosciutto, ne prendo una bella fetta e la sventolo davanti al suo naso dopo essermi inginocchiata. Ha due occhi bellissimi, verdi con riflessi dorati, due occhi profondi che guardano me, non la fetta di prosciutto, due occhi indagatori che sembrano gettar luce da lontano nella mia anima. C’è Dio in quegli occhi, c’è tutta la Storia, millenni di Storia, la Vita e i
Sentimenti frutto di tutti quei millenni. Mi giudica, vuol capire se può fidarsi, se deve lanciarsi sulla fetta di prosciutto, tentare di prenderla e scappar via; se invece può fidarsi di me e avvicinarsi pian pianino; oppure se c’è un trucco ed è meglio che rinunci al boccone prelibato. Mi guarda dentro serissimo, concentrato, quasi arrabbiato, gli occhi attenti e la bocca serrata. Aspetta. Nessuno mi ha mai guardato così e allora gli parlo. - Tu non hai studiato l’Iliade e l’Odissea, la Divina Commedia e I Promessi Sposi, non ne hai bisogno, tu sai tutto, sai cosa è la guerra perché hai fatto tante guerre in vita tua e in ato; sei stato furbo come Ulisse e come lui hai amato le avventure; certe volte sei finito male e hai capito che non bisogna ascoltare il canto delle sirene e che è meglio resistere alle tentazioni. Non hai scritto la Divina Commedia, ma hai sognato che il tuo Dio punisse i malvagi e premiasse i buoni, hai sperato nella Divina Provvidenza come i poveretti dei Promessi Sposi. Sai tante cose, eppure vorresti ancora sognare, sperare; hai paura, non ti fidi… e hai ragione! Fai bene ad avere paura, ma questa volta fidati! - e ho disteso il prosciutto sulla mano aperta, sporgendola in avanti verso di lui. Si avvicina lentamente, mette il musetto nella mia mano con delicatezza e velocemente scappa via con una parte del prosciutto. Prendo un pezzetto di carta, vi appoggio la parte restante della fetta, l’appoggio per terra e me ne vado col carrello della spesa al seguito e con quegli occhi nel cuore così speciali, così divini, così diabolici, gli occhi del Mondo, gli occhi del Cielo, gli occhi del Tutto. Mi guardo intorno per attraversare la strada e vedo - miracolo! - il gattone bianco e nero dietro di me a un paio di metri di distanza. Ha gli occhi diversi, miti, dolci. Hanno cambiato colore: grigi con un puntino nero. Ha il musetto disteso, da femmina. - Gattona bella, paciocchina… vorresti venire con me, ma ho un cane bassotto a casa, gelosissimo… fareste la guerra. Ti ricordi il piè veloce Achille che aveva nei piedi la sua dote più grande e anche la sua più grande debolezza? Il mio bassotto è uguale, ha le gambe cortissime e agilissime. Tu cosa gli faresti? Lo
graffieresti alle gambette o al muso? No, cara, ciao, domani ci vediamo. Ti porto ancora il prosciutto. Non seguirmi bella! Mentre la guardo, si arrampica tra le assi, si infila in una apertura e scompare. Ha capito tutto. Intanto uno straniero, nero come il lucido delle scarpe, con gli occhi furbi e ironici mi a vicino. Mi ha visto parlare col gatto e non sa cosa pensare. “Questi italiani sono tutti matti, adorano i gatti… Costei si meriterebbe che le rubassi il carrello pieno di roba, ma chissà quanti strilli …” e allora mi chiede qualche euro dicendo che ha fame. Prendo un pacchetto di riso dal carrello e glielo porgo. - Dio ti aiuti! Mi dice grazie con dolcezza e mi si mette a fianco, parlottando, ma io lo saluto e filo via. Ripenso a quella piazza spazzata dal vento che spesso mi compare in sogno. Apriamo le braccia per accogliere, stringere, unire, sentire il mondo vicino, ma c’è sempre quel vento che allontana e spezza, un vento di paura e di libertà. La gatta lo aveva negli occhi. Ci salviamo, sempre più bianchi e freddi come quella piazza. Le braccia restano tese, ma la speranza diminuisce. Ci sarà un’altra volta? Torna all'Indice
Il miracolo della neve calda
La Galleria Vittorio Emanuele è, fra i monumenti di Milano, il mio prediletto. La progettò nell’Ottocento l’ ingegnere e architetto Giuseppe Mengoni che, tormentato dalle critiche dei soliti borghesi all’antica polemici verso l’uso di materiali nuovi come vetro e ferro e angosciato da molti dubbi - il re malato non si era fatto vivo all’inaugurazione - finì per morirne. A opera ultimata si buttò giù o precipitò – non si può sapere - dalle impalcature. Invece aveva costruito un’opera d’arte, un capolavoro di rara bellezza: i mosaici del pavimento prendono luce dall’alto tetto a cupola di vetro e acciaio e le misure degli spazi sono così armoniosamente combinate che sembra di essere nel salotto di una reggia, una reggia dove anche il popolo può eggiare. Le strutture, forse per effetto delle misure ben studiate, attutiscono i rumori e, anche se in tanti vi si muovono, non si ha la sensazione di chiasso o confusione. Talvolta nell’Ottagono c’è musica per un piccolo concerto o per un collegamento con il Teatro alla Scala e l’acustica è ottima. eggio gioiosamente in Galleria e ci vado spesso. Una sera mi sono trovata lì non so come e l’Ottagono era animato da innumerevoli personaggi in costume. Costumi strani: alcuni avevano la forma di grandi palle colorate collegate attraverso bretelle alle spalle di donne e uomini. La palla copriva il corpo dal petto fino alle ginocchia. Sotto alle ginocchia, stivali luccicanti di strass dello stesso colore. Questi personaggi “a palla”, diciamo, una ventina in tutto, occupavano il centro della scena e alla loro destra si trovavano altri tipi, una decina, che avevano intorno al corpo cinture a cui erano collegati nastri di seta e raso di vari colori in parte sciolti e in parte trattenuti all’interno di grandi tasche, mentre sulla sinistra c’era un’altra decina di figuranti vestiti di bianco dalla testa ai piedi con il costume costituito da tanti piccoli gomitoli di soffice lana bianca legati l’uno all’altro. Tutti questi meravigliosi personaggi portavano in testa una corona di lampadine.
Sul fondo c’era un tizio con la faccia rubiconda, grande, grosso e piuttosto vecchio, tutto immerso in una palla d’oro. Sosteneva con la testa, invece delle piccole lampadine, un lungo tubo a forma di stella cometa con una lampada intorno alla quale si muovevano strisce luminescenti che sembravano di vetro o di cristallo o di plastica trasparente. A un certo punto costui portò alla bocca una tromba d’oro e diede il là: una musica divina accompagnata da canti dolcissimi esplose in tutta la galleria misteriosamente vuota. Solo io vedevo e ascoltavo, seduta sul davanzale di una finestra al primo piano tra i manichini vestiti di rosso di una famosa casa di mode. Ero sola e soletta in mezzo ai manichini e dall’alto mi godevo la vista degli strani musicanti e mi beavo di quella musica sacra, avvolgente, commovente, solenne. Tra i fasti della splendida Galleria, suoni e canti fantastici tutti per me. Forse erano i Carmina Burana…, non riuscivo a capire. Mentre io rapita chiudevo gli occhi, i musicanti scomparvero e il bel suono si udiva appena. Erano fuggiti in piazza, in piazza Duomo e io volai veloce dietro di loro. Ohhh meraviglia! Si erano appollaiati su un grande albero di Natale, un abete non altissimo di per sé, ma che arrivava in alto perché poggiava su di una costruzione verde, una collinetta con cespugli e fiori sparsi qua e là. L’albero sopra la collinetta era largo, tutto illuminato e animato da quei personaggi fantasiosi che cantavano e suonavano mentre gli edifici della piazza, anche il Duomo, si piegavano in avanti verso l’albero come se volessero prendere luce, riscaldarsi e sentire meglio la musica. Poi si ritiravano e cominciavano a girare intorno: il Duomo ruotava verso la Galleria, l’Arengario arrivava al posto del Duomo e lentamente tutto si muoveva. Un incantesimo o un effetto di specchi che ruotavano con l’albero? Non capivo. Mi avvicinai confusa portandomi proprio sulla collinetta sotto l’abete. C’era una scaletta a chiocciola con varie diramazioni che portava su. In basso i personaggi “palla” suonavano, alcuni il violino, altri il flauto, arrivando quasi a metà altezza. Sopra, i tipi con i gomitoli bianchi, sembravano fatti di neve,
grandi fiocchi di neve, e cantavano con voci che si alternavano dai soprani, ai contralti fino ai baritoni e ai bassi. Ancora sopra i personaggi “nastro”. Avevano liberato dalle tasche i lunghi nastri che volavano intorno riflettendo le luci e suonavano trombe e trombette. Su di una piattaforma rotante in cima, la Stella Cometa, il gran vecchio rubicondo tutto d’oro che suonava la tromba, ma aveva intorno anche camli, piatti sonanti e tamburelli che maneggiava con abilità e rapidità. Le luci erano accese e il faro sulla testa di Stella Cometa ruotava lentamente illuminando la “coda” fatta di cristalli e stelline trasparenti, proiettando nella piazza luce con tutti i colori dello spettro. “Un albero di Natale vivente”, pensai, “un albero di Natale speciale, con suoni e canti. Il nostro Sindaco ha avuto una idea meravigliosa. Tutta Milano verrà in piazza e ci sarà una grande festa”… Invece mi guardavo intorno e c’ero solo io. Non solo, la piazza continuava a girare lentamente, ma girava, inchinandosi ogni tanto in avanti verso quell’albero così speciale. Una vocina proveniente dall’albero mi distrasse: - Fiocco di Neve Tre, smettila di tirarmi i nastri! Ho capito che sei tu! Smettila!… - Non faccio certo apposta, Nastro Sette, i tuoi nastri mi arrivano sulla faccia mentre canto. Tienili a bada!… - Fiocco di Neve Tre, ecco i miei nastri, puoi tirarli fin che vuoi, io non sono pignolo come Nastro Sette - , commentava Nastro Cinque e nel frattempo, mentre gli attori dell’albero erano in pausa e cercavano di divertirsi un poco prima di ricominciare, troppi nastri colorati venivano lanciati intorno alla povera Fiocco di Neve Tre che era una bella ragazzina bionda e attirava l’attenzione. Finì che lei si mise a piangere e gli altri a ridere. Tutte le ragazze soprano intervennero in difesa di Fiocco di Neve Tre con urletti, male parole e lanci di nastri e fiocchi.
I giovani Nastri facevano ondeggiare le strisce di seta e raso legate alle loro cinture sulle teste delle soprano che gettavano verso l’alto le file di gomitoli legati tra di loro fino a che riuscivano a catturare le trombe dei Nastri o le loro teste e quando Stella Cometa diede il là per ricominciare a cantare ci fu un gran tramestio, nastri strappati e gomitoli lanciati. Le soprano iniziarono a cantare titubanti con qualche mugolio e suoni trascinati e rotti dal pianto, mentre le trombe tremolavano, scosse da sussulti di riso. Poi tutto riprese a meraviglia. Erano i canti di Natale più dolci di questo mondo. Mi divertivo, ridevo per le innocenti liti e intanto le meravigliose note, insieme allo spettacolo della piazza, mi rallegravano e mi stupivano. Venne freddo e cominciò a nevicare fitto fitto: neve che sembrava ghiaccio. Guardavo l’albero che si riempiva di questo gelido nevischio e mi sentivo in pena per i cantanti e i suonatori che si agitavano a suon di musica e gonfiavano il petto e i muscoli trascinati dall’instancabile Stella Cometa: suonava i suoi mille strumenti con la stessa ossessiva rapidità con cui Chaplin girava i bulloni nel famoso vecchio film. Era iniziato l’Inno alla gioia della Nona di Beethoven e lui sembrava indemoniato: strombettava, scamlava e batteva i piatti senza tregua. A un certo punto arrivarono gocce di acqua calda anche su di me che mi ero rifugiata ben bene sotto l’albero. - La neve è calda! -, disse qualcuno. - E’ un miracolo! -, disse un altro e tutti ripeterono - E’ un miracolo! Presero a suonare con più entusiasmo ancora, seguendo Stella Cometa che, arrivato alla fine del pezzo, ricominciava daccapo con più energia su di un tono più alto e via e via sempre più su con le voci che si inseguivano sulle tonalità basse e poi alte e poi mescolando, mentre i violini salivano e le trombe trionfavano. Intanto la piazza, prima vuota, si riempiva. La gente arrivava da tutte le parti, da corso Vittorio Emanuele, da via Orefici e da piazza Diaz e i palazzi si allontanavano per dare spazio alla folla che cresceva e cresceva e si accalcava intorno all’albero in religioso silenzio accecata da una luce folgorante che veniva
dall’alto, mano a mano che la piazza si apriva, e affascinata da quella musica divina, miracolosa…
Io ero felice, ma un brusco rumore di tapparelle che venivano sollevate mi disturbò. Accidenti, stavo dormendo? L’Albero Vivente era tutto un sogno? Un bel sogno? La neve calda non era un miracolo, ma forse la pipì del grande vecchio rubicondo, Stella Cometa, che col freddo e la concitazione non era più riuscito a trattenere il bisogno? Nooo! Quei suoni emozionanti riscaldavano anche la neve! Ecco la verità. Un miracolo, sì, proprio un miracolo perché la ione del bel canto e della grande musica scalda così tanto il cuore che può trasformarsi in calore e sciogliere tutta la neve di questo mondo e arrivare a scaldarla e poi moltiplicare l’entusiasmo, trasformarsi in ardore, fino a che nessuno ha più freddo e la gioia nasce ovunque e trabocca inarrestabile arrivando in tutti gli angoli ad accendere gli animi più afflitti. Se il sogno non fosse terminato così bruscamente con quel rumore di tapparelle, avrei visto la gente prendersi per mano e girare intorno all’albero come girava la piazza. E cantare tutti insieme. Un sonoro, canterino, gigantesco girotondo sotto la neve calda di Natale… Calda, caldissima: un miracolo! Ridevo felice. Poi ho cominciato a riflettere e cercavo di capire il sogno. Mi chiedevo perché la piazza girasse, si chinasse e poi si aprisse intorno all’albero. Che cosa significava? Freud aveva spiegato che tutti i sogni hanno un significato, esprimono un desiderio o la paura che quel desiderio non possa realizzarsi.
Probabilmente, pur nel sogno, avevo capito che piazza Duomo avrebbe dovuto girarsi e rigirarsi e i grandi palazzi avrebbero dovuto inchinarsi e poi rialzarsi, cambiare di posto e fare molti giri della piazza, prima che un qualsiasi sindaco decidesse di festeggiare un Natale con un Albero Vivente, un albero che canta, suona e attira a sé tutta la città, mentre la neve scende ed è Natale… Insomma, un sogno irrealizzabile? Ma dài Sindaco! Tu non sei un sindaco qualsiasi, perché non ci pensi tu? Cosa ci vuole? Dei costumi, un abete, una scaletta a chiocciola e una bella orchestrina col coro… Tutte le sere prima di Natale un’ora di buona musica e… Milano rinasce proprio come dovrebbe succedere a Natale… no?! Qualche giorno di allegria in tempi di crisi e auguri fatti col cuore alla cara Milano, non possono essere impossibili. Grazie Sindaco! Torna all'Indice
La solitudine della morte
Quando non c’è più speranza, la solitudine è totale. Tutti hanno conosciuto la solitudine del dolore che i poeti descrivono con parole indimenticabili. “Forse sarei più sola senza la mia solitudine”, scrive Emily Dickinson in una delle sue bellissime poesie. A 23 anni aveva scelto una vita solitaria e appartata, suscitando sorpresa e incomprensione intorno a sé, non per delusioni d’amore o per invalidità fisica, ma, credo, per difendere la sua fragilità emotiva, la sua profonda estenuante sensibilità, dal dolore: senza la solitudine, cioè l’isolamento dal mondo, avrebbe sofferto ancora di più e sarebbe stata ancora più sola… Scrive: Per un istante d'estasi noi paghiamo in angoscia una misura esatta e trepidante proporzionata all'estasi. Per un'ora diletta compensi amari d'anni, centesimi strappati con dolore, scrigni pieni di lacrime. Ancora: Non avessi mai visto il sole avrei sopportato l'ombra
ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita.
Il poeta Rainer Maria Rilke non è meno tragico. Egli vive nel dolore una vita nella quale è nato, come dice lui, fuori luogo e deve lottare e soffrire per trovare il suo luogo nel quale rinascere di giorno in giorno più compiutamente e conclude la sua ricerca con parole molto tristi: il bello è solo l’inizio del tremendo, l’uomo lo sa e ciononostante continua a cercarlo, cioè cerca il bello e trova la sofferenza. E’ una grande verità anche se è difficile capirne le motivazioni. Il bello è come il sole di Emily Dickinson, se non lo conoscessimo non lo cercheremmo, ma l’assenza del bello e del sole accresce la tristezza. Perché il Padreterno ci ha dato il sole per farci sentire più gelida e oscura l’ombra? Perché il bello e, poi, il dolore tremendo? Rilke afferma anche che le opere d’arte sono di una solitudine infinita. Chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto. Chi crea vive nella solitudine. Torna questa idea, ma la solitudine creativa è una benedizione in confronto con la solitudine del dolore. La solitudine non è sempre triste: può essere un appartarsi per riflettere, per creare, con una porta aperta verso gli altri e verso il futuro. Chi scrive, come me in questo momento, si isola per pensare, ma coltiva l’idea, che spesso è un’illusione - non importa! - che altri leggano e traggano piacere e interesse e magari divertimento dalla lettura. E’ solitudine quindi, ma non isolamento. Che dire invece de’ Il ero Solitario di Leopardi? O de’ La quiete dopo la tempesta? Leopardi sensibile e intelligente ava le giornate sui libri e rifuggiva le compagnie allegre dei giovani che festeggiavano e si divertivano. Lui, con le sue elevate qualità intellettuali e l’ambiente familiare chiuso, freddo e severo in cui
si è trovato a trascorrere la gioventù, è ovvio che si sentisse simile al ero solitario del campanile di Recanati. Aveva come unico divertimento il pensare, il leggere e lo scrivere e quando ha provato a cambiare ambiente per cambiare vita, si è trovato emarginato, ha sofferto e ha elaborato la sua famosa Teoria del Piacere : il piacere non esiste nella realtà, ma solo nel desiderio, cioè è immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre verso il futuro (come il “diman” ne’ Il sabato del villaggio) e sempre destinato ad essere deluso (Diman tristezza e noia recheran l’ore). L’unico piacere è la cessazione del dolore (Piacer figlio d’affanno). Non è quindi il dolore che è mancanza di piacere, secondo lui, non è l’ombra più dolorosa per la mancanza del sole o la sofferenza che è più tremenda perché viene dopo il bello. Poiché il piacere non esiste, non è reale, l’unico piacere reale è l’assenza di dolore: Uscir di pena è diletto tra noi, dice mirabilmente ne’ La quiete dopo la tempesta. C’è di più. Nel pensiero di Leopardi, che ha anticipato Schopenhauer, questo piacere negazione del dolore diventa alla fine noia che è disperazione e angoscia. La vita oscilla tra dolore e noia e la natura apparentemente bella e benefica, ci tradisce: i nostri occhi brillano solo di lacrime, conclude. Così ne’ La sera del dì di festa: Io questo ciel, che sì benigno appare in vista a salutar m’affaccio… E l’antica natura onnipossente… a te la speme nego mi disse, anche la speme; E d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto… La speme, la speranza. Al di là del pessimismo leopardiano, in un angolino del
nostro cuore c’è sempre un po’ di speranza. Il dolore diventa più cupo e sfiora il desiderio di morte quando la speranza si affievolisce. Questi momenti della vita accompagnati di solito dal silenzio, da una solitudine interiore piena di lacrime e dalla ricerca angosciosa di una fine del nostro io nel quale non crediamo più, sono in realtà momenti benefici. Dopo che uno ha vissuto momenti così, di che cosa ancora dovrebbe avere paura? Chi ha desiderato, bramato la morte, che cosa dovrebbe ancora temere? Quale dolore sarebbe più grande di quello che ha già provato? Quel sant’uomo del Padreterno o la natura madre-matrigna di Leopardi ci manda questi momenti di disperazione perché dobbiamo ricordarci che siamo mortali, che moriremo, che ci attende la grande solitudine della morte.
Agnese, anoressica da anni, quella paziente del Policlinico che diceva spesso “La vita non mi prende, è sempre stato così”, aveva in realtà una ione segreta per il marito della sorella. Era gravissima quando lui è venuto a trovarla all’ospedale, ma, dopo l’incontro, nascondeva un sorriso sul viso tirato, pelle e ossa. Poi si è riparata con lo scialle e non ha più parlato, né aperto gli occhi: con la forza che le restava, ha continuato fino alla morte a nascondere il viso sotto lo scialle o sotto il lenzuolo.
Molto diverso il caso di Silvana. Aveva il tumore ai polmoni, ma era convinta di avere una broncopolmonite cronica. Entrava e usciva di continuo dall’ospedale. Mi raccontava che marito e figlie per i quali si era molto prodigata in ato, mostravano, ora, fastidio di fronte alle cure e all’assistenza di cui lei aveva bisogno: - Non mi vogliono bene – diceva – e io li ho amati tanto, ma li capisco: con la mia malattia cronica sono di peso. Io la incoraggiavo, lodavo il suo aspetto fisico, la fine pelle rosata, gli occhi chiari e lodavo la dolcezza dei suoi modi sempre delicati e comprensivi con tutti. - Ho ascoltato le tue figlie, ti vogliono bene, sono solo un po’ nervose per le loro piccole vicende… ma tu non far caso, fai le cose che ti piacciono, non
preoccuparti per gli altri! E’ venuto il momento di pensare a te stessa! -, la spronavo. - Hai ragione! Sai cosa vorrei fare? Lo desidero tanto. Andare al mare! Camminare sulla sabbia vicino all’acqua con le onde che mi bagnano i piedi. Sola, al mattino presto, quando la spiaggia è vuota… Voglio proprio andare! Forse guarirei - e sorrideva beata. Un giorno mi hanno telefonato. Silvana era moribonda e voleva vedermi. L’ho trovata in uno stato di grave agitazione sia per la mancanza di respiro che trasformava le parole in grida strozzate, sia per la tensione che manifestava attraverso gli occhi freddi e dilatati. Il marito e le figlie erano fuori in corridoio perché lei non voleva vederli e quando io mi sono avvicinata e le ho preso una mano, mi ha respinto: - Bugiarda, non mi hai detto niente!... non mi hai detto che muoio… Ho studiato e ho capito tante cose difficili in vita mia, ma non ho ancora capito come ci si dovrebbe comportare con chi ha una malattia ormai senza speranza. La morte fa parte dell’anima è tua e basta, un estraneo non può interferire, le parole non hanno più senso; di fronte alla morte l’anima è sola con se stessa, il mondo scompare. La solitudine della morte è totale e respinge chiunque come un invasore al di là della pietà e delle migliori intenzioni. Secondo me è giusto che l’estraneo, forse anche il familiare, ignori o faccia finta di ignorare e non entri in quel rapporto con la morte che è personalissimo. Mi sono comunque sentita in colpa di non avere in qualche modo avvertito Silvana del suo reale stato di salute e le ho detto “Perdonami! ” , restando poi in silenzio al suo fianco, emozionata, ma apparentemente calma. Prima di morire si è tolta con veemenza la maschera per l’ossigeno, ha ripetuto a lungo “Grazie, grazie, grazie…” e intanto piangeva singhiozzando e tossendo. Silvana non era pronta a morire, sognava il mare, le onde, i piedi sulla sabbia morbida e la morte se l’è presa mentre lei aspettava ancora la vita. Però ha finito per capire, ha perdonato, non si è chiusa al mondo, è riuscita a dire persino grazie.
Di solito non è così. Il morente è assente dal mondo. Si allontana da tutto e da tutti. In un primo momento piange e talvolta saluta, poi si chiude in se stesso. Forse sogna e ha delle visioni se la sua mente è disturbata dalla malattia e il suo stato è semicomatoso. Se la mente è lucida e capisce che non c’è speranza, non è più di questo mondo, è un angelo, più spesso uno spettro, ha gli occhi cupi, vuoti, senza espressione. Fa paura a guardarlo e anche un estraneo che non lo ha mai conosciuto si blocca, non ha parole, vorrebbe solo allontanarsi: nessuna comunicazione è più possibile. La morte è vissuta come l’ultimo definitivo fallimento? Ci prepariamo una vita intera alla morte e poi non l’accettiamo? Oppure chi sta morendo rivede nella sua mente tutta la vita trascorsa, è insoddisfatto, ma l’infelicità è totale perché non ha più il tempo per rimediare? Chi muore invidia chi è ancora in vita?
Tolstoi racconta in Guerra e Pace la morte del giovane principe Andreij Bolkonski che, gravemente ferito nella battaglia di Borodinò coi si di Napoleone, viene trasportato a Mosca in casa dei Rostov e curato con amore e totale dedizione dalla giovane fidanzata Natascia Rostova e, dopo, dalla dolcissima sorella Maria. Nella infermeria del campo di battaglia a Borodinò aveva visto l’odiato nemico Anatolij Kuraghin - colui che per divertirsi aveva cercato di portargli via Natascia – che urlava di dolore e non aveva più le gambe perse in battaglia. Andrea aveva sentito nascere dentro di sé un grande amore che lui chiama amore divino e pensa: “Amare la creatura umana che ci è cara si può con amore umano, ma soltanto il nemico si può amare con amore divino… Amando di amore umano, si può dall’amore are all’odio; ma l’amore divino non può mutare”, un pensiero di profonda spiritualità. Parla dentro di sé di felicità: “Una felicità che si trova al di fuori delle forze materiali, al di fuori delle influenze materiali ed esterne sull’uomo, la felicità della sola anima, la felicità dell’amore!…”. Nonostante lo stato di serenità spirituale e di distacco nel quale egli si trova,
quando la certezza della morte lo prende, diventa irriconoscibile. Dice Natascia alla sorella di lui Maria arrivata da lontano al suo capezzale: - Due giorni or sono ad un tratto è accaduto questo… vedrete come è diventato… - Si è indebolito? E’ dimagrito?- chiedeva la principessina Maria. - No, non è questo, ma peggio… Più avanti: Vedendo la sua faccia e incontrando quello sguardo, la principessina Maria di colpo moderò la rapidità del suo o e sentì che le lacrime all’improvviso si erano inaridite e i singhiozzi erano cessati. Avendo colta l’espressione del volto e dello sguardo di lui ad un tratto si fece timida e si sentì colpevole. “Ma di che cosa sono colpevole?” si domandò. “Perché tu vivi e pensi alla vita, ed io…”, rispondeva lo sguardo di lui freddo e severo. In quello sguardo profondo, che guardava non fuori di sé ma in sé stesso, era quasi un’espressione ostile, quando egli lo posò lentamente sulla sorella e su Natascia. Anche le parole che dice sono fredde, scostanti, stanche, distratte e alla fine senza pietà, prive di quella delicatezza con la quale da vivo usava esprimersi. Tolstoi non parla di solitudine, ma di distacco totale da ogni cosa terrena, terribile in un uomo vivo e di fatica nel comprendere ciò che è vivente. Ecco perché Agnese si copriva il volto. Ecco perché chi col suicidio è stato a un o dalla morte e si è salvato in condizioni fisiche spesso di grave disabilità, non cerca di nuovo la morte. Quando la vita ci sembra vuota, noiosa o dolorosa, non facciamo come Leopardi che rifiutava il piacere breve e ingannevole, ma godiamoci il bello e il sole di quei momenti pur fuggevoli. Godiamo la frescura dell’acqua, la eggiata in campagna, la poltrona comoda, il sorriso degli amici, il cane che scodinzola, l’abbraccio di un bambino, la soddisfazione di un lavoro ben fatto… Godiamo di queste piccole cose!
Non aspettiamo di morire per rimpiangerle.Torna all'Indice
Casalinga?!
Scrivo, leggo, scrivo ancora, rileggo e i pensieri mi si affollano nella mente insieme ai ricordi e voglio scrivere ancora. Non capisco perché mio figlio Giulietto sia scoppiato a piangere quando gli ho detto che un medico era preoccupato per una brutta radiografia di papà. Sono sorpresa perché Carolina nella stessa circostanza mi ha consigliato freddamente di essere indifferente: - Ad una certa età la malattia e la morte sono inevitabili, mamma! Ma non avevo creduto che mio figlio fosse indifferente alla famiglia perché lui, con Sole e Luna Uraniani secondo le teorie astrologiche, rifiuterebbe il padre e la madre? E non avevo creduto che mia figlia, del segno del Cancro, sensibilissima ed emotiva, non avrebbe retto alle perdite familiari? Altra cosa inaudita: telefono ripetutamente a Giulietto e lui lascia cadere la telefonata. “Chissà dov’è! - penso io - apionato di scalate e maratone, starà correndo a perdifiato da qualche parte, per arrivare primo!”. Vengo a sapere il giorno dopo che lui non era in gara, ma in casa; però non ha il mio numero sul cellulare, rifiuta di rispondere quando non sa chi lo chiama, e per questo non mi ha risposto. Non ha il mio numero sul cellulare?! Il numero della sua mamma!? Quanti figli non hanno il numero della mamma sul cellulare? Credo solo gli orfani ahimé… e allora concludo che non posso essere stata una casalinga, una mamma, una donna che si è dedicata alla famiglia e alla casa, al marito fino a un certo punto e, molto di più, ai figli, se sono finita così. Sono stata, a mia insaputa, una donna distratta, fuori di testa, una intellettuale per usare un eufemismo, che si è occupata della famiglia soprappensiero, cioè
pensando ad altro? Pensavo, leggevo e scrivevo e poi mi alzavo come una sonnambula e accudivo casa e figli. Insomma la famiglia è stata per me una occupazione di second’ordine: mentre pensavo a Freud e a Platone, mi occupavo dei figli? Ci rifletto a lungo. Cerco l’aiuto dell’astrologia. Quando la ione prende, si vive intensamente e distrattamente nello stesso tempo. L’attenzione è concentrata su quell’oggetto che ci emoziona e che appare importante, assolutamente importante, l’unica cosa veramente importante nella vita. Quella cosa lì è al centro dei pensieri, ci torniamo su continuamente. Quando abbiamo altro da fare per necessità, entriamo in uno stato di sonnambulismo diurno: mettiamo a riposo le belle emozioni momentaneamente e facciamo quello che dobbiamo fare senza essere del tutto svegli. Per svegliarci occorre qualcosa di forte: una scossa, quasi un trauma, un accadimento speciale che ci riporti alla base, mentre noi siamo in uno stato eccitato, siamo un po’ esaltati. Ecco che, quando Giulietto viene a sapere che suo padre potrebbe essere malato, si scuote dal suo stato di esaltazione - insegue la moglie che lo sprona verso grandi mete, sogna qualche vittoria che plachi il suo Ego insoddisfatto… - e scoppia a piangere, ma normalmente trascura tutto, anche la vecchia madre e concentra invece la sua attenzione sulle ioni che lo attraggono e lo assorbono quasi per intero. Carolina, segno del Cancro che vuol dire poi granchio, per vincere la debolezza che l’affligge e che vuole nascondere, si arma di una spessa corazza e poderose chele e ci prova gusto a sembrare diversa, forte e imprevedibile come l’animaletto del suo segno che vive tra gli scogli e cammina di traverso, un po’ indietro e un po’ avanti, per sorprendere e spaventare. “La malattia e la morte sono inevitabili a una certa età…”, dice con durezza. La corazza, ormai dopo anni, fa parte di lei, è diventata la sua seconda pelle. Persino io, la sua mamma, faccio fatica a riconoscerla, tutta corazzata come appare, ma so anche che, quando sogna, si entusiasma e si emoziona, la corazza sparisce e lei è tenera, morbida e fragile come una ranocchietta piccola piccola.
Quanti salti pericolosi e quante delusioni ranocchietta mia!
Anch’io sono ionale, ma la mia ione, nel corso della vita, ha avuto obiettivi vari e, il mio realismo Toro non mi ha mai permesso di trascurare la realtà, mi scuote sempre con forza e mi riporta continuamente alla base. Mi alzo in volo spinta dal vento come un aquilone, ma c’è sempre un vento contrario o semplicemente la forza di gravità che mi riporta giù. Così mi abbasso, guardo in faccia le cose pratiche, faccio tutto quello che devo fare, non sento più il vento anche se lo aspetto e, appena arriva, torno in alto di nuovo, ci provo ancora a volare e poi ancora e ancora. Talvolta ho volato dietro ad un sogno d’amore, talvolta attratta da una ricerca, come Lou Salomè, per capire il mondo e l’uomo. I voli più belli ad ali spiegate, verso l’alto più alto, accecata dal sole, sono stati quelli per dare ai miei figli tutto ciò che potevo dare loro per una vita felice. Accecata dal sole appunto, in pratica facendo tanti errori, ma con amore, con ione infinita. Diceva mia sorella, una bambina geniale morta giovane, “perché ci hanno messo al mondo se poi si deve morire?” e una mamma che sente, forse inconsciamente, questa colpa, è pronta a distruggere se stessa per dare felicità ai figli. Poi, ci pensa la Vita a fare quello che deve fare secondo il destino di ognuno. La mamma ci prova a dare la felicità, ma la ione che ci mette, la allontana in generale dalla realtà e può essere anche dannosa, perché il destino è inesorabile, non ammette eccezioni, è implacabile, non c’è mamma che tenga. Il troppo amore può addirittura guastare i rapporti… però resta nel cuore, è forte e il distacco causa immensa sofferenza. Carolina, non dire più che “bisogna essere indifferenti…”.
eggio lungo il Naviglio a Milano e vedo un Germano Reale che segue la femmina con una nidiata di cuccioli. A un certo punto si alza in volo. E’ fortissimo, non sapevo riuscisse a volare così alto!
Va su, sembra che voglia posarsi sulla cima di un tiglio secolare, invece sale ancora e lo perdo di vista. Dove va così lontano? Dimentica la femmina e i cuccioli? E’ un padre degenere? Un altro sonnambulo? Un mistero. Inutile indagare. Ciascuno vive in un suo mondo misterioso, però con o senza ali, più in alto o più in basso, come l’aquilone o come il Germano Reale tutti voliamo. Quando torniamo a terra è perché il volo è impedito, c’è un ostacolo, qualcosa che ci chiama giù, un cambiamento che dobbiamo affrontare, un trauma, la ione che si è esaurita o i problemi terreni che sono cresciuti. Appena possiamo ripartiamo in volo.
Ed è Urano che ci mette le ali. Quando transita su Venere è un sogno d’amore che fa palpitare il cuore e i sensi, su Mercurio, grandi progetti trovano improvvisamente spazio nella nostra mente, sul Sole, riusciamo a pensare ad una vita diversa e, sulla Luna, proviamo a cambiare la nostra casa interiore: un salotto di velluto blu per i nuovi amici spiritosi, una grande finestra aperta sul parco, musica, allegria… evviva, si cambia! Poi, di solito, tutto torna come prima e, spesso, la delusione si tramuta in odio. Odiamo chi avevamo creduto di amare, odiamo chi ci ha ingannato, chi ha approfittato della nostra buona fede per farci credere chissà che cosa. Per capire la trasformazione che Urano produce quando transita sul nostro cielo osserviamo attentamente i nativi dell’Acquario che è il segno di Urano: spesso sono bruttini, niente di speciale, ma hanno una freschezza, un entusiasmo, una vivacità interiore sorprendente e contagiosa, “romantici come ragazzini anche in tarda età” dice di loro Barbault. Insomma i sogni e le ioni finiscono. Aveva ragione Rilke “il bello è solo l’inizio del tremendo”. Eppure io, che non sono masochista, quando consulto le effemeridi, mi concentro su Urano. Tornerà ancora? Quando tornerà?
Ah ecco, il prossimo anno, in Giugno, arriva su Mercurio! Forse riuscirò a pubblicare qualcosa. Che emozione! E aspetto giorno per giorno che i il tempo e che arrivi quel Giugno lì. Dopo tante delusioni, voglio ancora volare. Fosse pure l’ultima volta. Torna all'Indice
*************
Biografia dell’autrice
Lucia Fava studiosa di fisica, filosofia, psicanalisi e astrologia ha insegnato fisica e ha scritto centinaia di oroscopi. Sono in corso di pubblicazione: Pesci e Scorpioni, romanzo su base astrologica, Celeste, romanzo sui giovani e la corruzione, Il Naviglio della Martesana, racconti per ragazzi. e-mail:
[email protected]
In copertina La seggiola e la sfera magica, un dipinto di Elena Guerrisi, valente pittrice monzese, dedicato all’autrice nel 1989. Torna all'Indice