Alla Ricerca Di Padre Sorin 4rx57

Roberto De Giorgi

Alla ricerca di padre Sorin

Indice dei contenuti

L’archeologo, tra ione e fede Archeologia dell’esistenza Messico e padre Sorin, l’eremita Il cartello della coca, la droga del futuro Strani personaggi sulla strada de Las Mitras I nemici occulti e quelli reali Padre Sorin prigioniero di Astarot Il gioco si fa duro Il sentiero di Padre Sorin Il villaggio di Padre Sorin L’incontro con padre Sorin La porta di Oriente Nel mio studio Trilogia di Nelson Bentham Mill Note sull’autore

L’archeologo, tra ione e fede

Scendo le scale non più di corsa, piuttosto le salgo anche con un leggero affanno. Però sono molto lucido, nonostante abbia appena festeggiato con gli amici i settantacinque anni di età con il vecchio Sam, il giornalista reporter, anche lui in congedo e altri ex colleghi della scuola mineraria di El Paso nel Texas.

Sono Nelson Bentham Mill, per chi ha letto le mie memorie precedenti, conosce un po’ della mia storia personale, i nuovi lettori dovranno recuperare gli altri libri o comunque prendere nota dai miei ricordi. I ricordi di un anziano sono sempre più nitidi, specie se il ato è più remoto. Riguardo la mia esperienza di docente, mi chiamarono tre anni fa, ora siamo nel 1970, quando fu finalmente proclamata Università. Sono considerato un professore emerito, ricordato come un personaggio un po’ visionario, ma apprezzato dagli allievi. Soprattutto un fatto avrebbe colpito tutti, accaduto nel 1965, quando per alterne vicende fui scaraventato nell’avventura finale della mia vita professionale con risvolti religiosi. Ma ne parlerò in questo libro.

Mi sono sempre chiesto se valesse la pena scrivere. Ho atteso alcuni anni per parlarne. Anche perché dovevo raggiungere una età importante, dovevo essere fuori dalla scuola, scrivere per me stesso, più che per gli altri. Soprattutto quando l’emozione per le vicende vissute si fossero attenuate e sedimentate nei ricordi. Per poterle richiamarle dalla memoria con serenità. Un pezzo per volta, senza eccedere.

Fino a quel momento la vita era scorsa tranquilla, dopo le burrascose vicende della Guerra e quella avventura che, io e Sam, vivemmo a Napoli.

Per tutta la mia vita avevo dato una sterzata ad una professione, quella di archeologo che mi aveva trasportato dentro la Bibbia. Cosa m’era stato richiesto? Cosa dovevo dimostrare? Era per questo mio assillo professionale o il bisogno di fede del ricercatore? Eppure Napoli, durante la guerra aveva rappresentato un momento importante, di fronte alla delusione professionale che metteva a rogo l’entusiasmo giovanile, e la Croce mi richiamava alla responsabilità personale avuta nella guerra, ai morti che, in parte, erano dipesi anche da me. Ma anche a coloro che erano stati lasciati per strada. Io appartenevo ad una nazione che usciva dal terzo conflitto mondiale, in modo quasi indenne pur considerando i 290 mila commilitoni uccisi, nulla in confronto ai 55 milioni di morti, due terzi dei quali civili; oltre 32 milioni nella sola Europa, di cui 20 milioni i sovietici (il 12% della popolazione) e 5 milioni i tedeschi; in Estremo Oriente 13 milioni di cinesi uccisi e quasi 2 milioni i giapponesi. Europa, Giappone, intere aree della Cina erano distrutte; 25 milioni i senzatetto in URSS. Città rase al suolo dai bombardamenti o cancellate dalla bomba atomica. La Croce sanguinava, era questo il messaggio per me che m’ero portato a casa e sul lavoro. La mia stanza era piena di croci.

Ero tornato in America, nella mia città. Devo dire che, grazie a quello appena scritto, gli anni del dopoguerra in Usa furono migliori che nel resto del mondo. Emergeva la potenza mondiale con una marcia in più. Avevamo vinto la guerra. Non avevamo da ricostruire nulla. Mentre rammentavo Napoli e il disastro delle case distrutte. Il nostro apparato industriale era intatto. Poi avevamo la bomba atomica. Questo era un fatto che non mi piaceva, ma dava al mio paese un potere deterrente incredibile. Con Sam avevo fatto il viaggio di ritorno in una nave portaerei. Per tutto il viaggio il fotoreporter non aveva fatto riferimento ai fatti di Napoli, quando vi accennavo lui ricordava solo la sbornia e si metteva a ridere. Non ne parlammo più.

Per un po’di tempo, rientrati a casa, ci separammo, lui andò a New York e io a El Paso. Ci separavano migliaia di chilometri, ma ancor di più ci separava l’ultima esperienza che avevo praticamente vissuto da solo. Ci separava il lavoro, io sempre dentro l’insegnamento e la ricerca e lui nella cronaca, talvolta frivola e

mondana.

La mia scuola sarebbe diventata università nel 1967, fino ad allora, e ancora oggi, è sempre stata nella periferia nord della città, incastonata come un diamante in mezzo a due colline, con un paesaggio brullo e pietroso tutto intorno che prelude al deserto. Per i veterani militari e studenti avevamo un percorso facilitato di sostegno e aiuto. Io insegnavo storia dell’arte, da archeologo non avevo nulla a che fare con i freddi ingegneri, anche se ogni tanto approfondivo le composizioni dei materiali.

Dal 1945 al 1965 ai venti anni gettandomi nella ricerca e continuando a insegnare. Mentre L’America ava attraverso la corsa agli armamenti, la guerra fredda e la conquista dello spazio. Ogni tanto pensavo alla visione profetica della mia morte, suggeritami dal sogno di Sam nel fiume dei pensieri a Napoli nel 1945.

Sorridevo, in fondo per un credente la morte è un aggio, ma avevo anche un ulteriore motivo per capire, indagare, era un pezzo della mia ricerca.

Ma c’era una cosa che volevo fare, da solo. Ricordavo con amarezza la spedizione del 1930, quando con esimi colleghi andammo nei pressi di Gerusalemme e non trovammo la grotta dalla quale io e Sam eravamo scesi nel 1925.

Cosi nel 1950 mi presi un mese di aspettativa e andai a Megiddo la città che era stata fortificata da Achab 2.900 anni fa, dopo Salomone e sulle cui rovine avevamo recintato le scuderie nel 1925. Il viaggio in aereo fu più veloce, rispetto alle traversate in nave di trenta anni prima, era davvero un’altra cosa. Ero preoccupato, tutto quello che era accaduto nella mia vita non poteva essere solo un grande sogno. Anche se fosse stato fatto anche da Sam, oltre me. Quando

arrivai a Gerusalemme organizzai una troupe del posto dando loro indicazioni. Con un po’ di fatica, a causa delle modificazioni avvenute nel paesaggio, per talune costruzioni, riuscimmo a individuare la strada che costeggia il mare e va verso l’interno. Vidi il posto che rammentavo e ordinai di fermare le macchine. Dovevo andare a piedi da solo. Non saranno stati più di cento metri, eppure mi sembrava lontano. Un effetto ottico dovuto al sole che avevo di fonte. Il paesaggio era come lo ricordavo. Quando fui davanti al cespuglio, dietro il quale c’era stata quella volta la grotta, vidi che il terreno si muoveva. La sensazione che si ha quando si guarda qualcosa che appare sfocato e poi si lentamente si mette a fuoco. Ecco si, l’apertura della grotta c’era. Chiamai quelli che mi avevano seguito e dissi loro di avvicinarsi. Anche loro vedevano la grotta. Arrivai alla conclusione: la grotta c’era per me e per le anime semplici dei lavoratori, non per i supponenti colleghi del 1930. Avevo sbagliato anche io, volendo trarre vantaggio professionale da quella esperienza religiosa.

Stavolta non scesi lì sotto, non c’era ragione di farlo e poi non ero più il trentenne del 1925. Mi bastava questa conferma. Sapevo che non dovevo dimostrare una tesi scientifica, non dovevo raccogliere dati e studiarli per realizzare tesi straordinarie. Dopo tanti anni, nella maturità, avevo capito che il mio ruolo era per me stesso e per quanti, pochi o molti che fossero, avessero potuto leggere le mie storie. Anche se avessi comunque usato il cipiglio del ricercatore e la puntigliosità che meritava l’impresa che si presentava dinanzi a me.

La grotta allora si era chiusa, ora era di nuovo aperta, davanti a me. Avevo avuto la conferma: ero un archeologo di Dio.

Archeologia dell’esistenza

Per molto tempo, tra una lezione e l’altra, mentre con gli allievi navigavo con le immagini proiettate dalla lavagna luminosa contro il muro, nel mondo arcaico dell’arte, riflettevo su me stesso. Come mi percepivano gli altri? Sembravo un pazzo? Ricordo che gli sciamani in Asia Centrale, in India o in Siberia, per essere tali devono manifestare una certa incoscienza. Spesso da tali incoscienze tornano in sé dichiarando di aver viaggiato nell’al di là.

Io spesso nelle mie lezioni usavo allegorie. Una volta, nel 1954, fui efficace nel parlare della pazzia necessaria:

- Quando vedete un opera d’arte, pensate alla casualità dei gesti, delle parole, quel vento di follia che ad un tratto rompe le linee, come si mostra nel Barocco, oppure nelle strutture tragicomiche della letteratura pre-classica, se questo è, ha dunque ragione Erasmo da Rotterdam a elogiare la follia, come tramite più diretto per arrivare a Dio”.

I ragazzi presero appunti e per molti giorni si parlò della mia lezione. Fu un ingegnere, estremamente razionale a fermarmi nel corridoio.

- Nelson, i ragazzi li fai volare, perché non parli dell’architettura e non del significato esoterico delle linee.

- Williams – risposi – i ragazzi mi stimano perché la lezione è interessante, se dovessi scrivere numeri, morirei. Piuttosto fai anche tu qualche digressione e ti ameranno.

Quell’episodio non fu l’unico, tutta l’area razionale della scuola si mostrò ostile al mio modo di insegnare, quella umanistica, gli insegnati di storia e letteratura no. Solite schermaglie sul lavoro, che non mi toccarono profondamente. Ma davano a me la certezza che c’era un nemico arguto da cui difendermi, era la razionalità che crea separazione con la pazzia e la reclude.

Kate, la rossa, è una mia collega, ex dal momento che sono in pensione. Viene spesso a trovarmi. Mi chiama sempre prof. Questo perché nel 1954 era una mia alunna. Fu proprio lei a darmi, all’epoca, lo spunto per una nuova ricerca. Giorni dopo la famigerata lezione sulla pazzia, Kate portò in aula un dipinto in copia. Era un trittico di Bosch con la nave dei folli.

- Da dove hai preso quel dipinto – domandai

- Dall’enciclopedia e sono riuscita a farla ingrandire da mio padre ingegnere.

- Hai fatto bene, la composizione pittorica del Bosch mette in mostra con una sottile ironia, le navi medioevali sulle quali imbarcavano i folli, considerati anche asociali, per metterli in viaggi immaginari verso l’infinito o l’aldilà.

Tentai di spiegare agli altri alunni che mostravano attenzione, come si mostrava quell’insieme di personaggi nudi, donne e uomini, che sembravano già giostre di anime in pena e in partenza.

- Guardate sono tutti confusamente posti in varie posizioni, ma danno l’idea della follia, del resto cacciati dalla cinta urbana delle città medievali che erano murate, come appestati, i pazzi corrono in campagna o sono affidati a mercanti, pellegrini o marinai incaricati di portarli lontano.

- Ma sono uccisi? - domandò Peter, un ragazzo allampanato di origini tedesche

- Non si sa – dissi io – ma cercate il simbolismo nella pittura che stiamo studiando, è la cultura dominante che cerca di isolare la demenza mettendola da parte, accade anche oggi di recludere i matti in manicomio. Nel medioevo che non aveva riportato la follia come malattia, la temeva come castigo di Dio.

Ringraziai Kate del suo contributo, da quel giorno, venne spesso a trovarmi per fare ricerche. Lo fa ancora oggi che sono trent’anni che insegna in quello che fu il mio stesso corso. Ogni volta che viene vuole la solita limonata e parliamo delle avventure che abbiamo vissuto in Messico quando lei inizio a insegnare. Andavamo alla ricerca di tracce della cultura precristiana, per trovare nessi e soprattutto per incontrare asceti, che come folli erano stati costretti a vivere isolati. Con Kate feci il primo viaggio nell’archeologia dell’esistenza alla ricerca dello Spirito Universale. O meglio avrei dovuto. Abbiate pietà di me alla fine se non capirete molto della mia titubanza a scrivere... ma è sicuramente meglio che ascoltiate i fatti in successione.

Scegliemmo il Messico perché che fu questo paese il primo a essere evangelizzato nel 1533 da sette missionari, agostiniani che provenivano dalla Castiglia. C’erano stati eremiti, staccati dal convento che avevano occupato una zona impervia e aspra. Dovevamo andare là, nel 1965.

Messico e padre Sorin, l’eremita

Nell’aprile del 1965 ero in procinto di andare in pensione. Kate era già stata assunta come docente da sette anni. Giovane e scattante, faceva palestra, la corsa mattutina, e non le mancava nulla, solo il ragazzo, ma era un dettaglio. Fu lei a farmi venir voglia di una nuova inchiesta che si trasformò in avventura. Lei è di origini messicane, difatti il suo patronimico è Solinas. Venne una mattina nell’aula dei professori per parlarmi di una sua idea.

Mi parlò di un certo padre Sorin che viveva appartato da trenta anni in una zona del Messico.

- Dove vive? Domandai

- Ho saputo che vive in una grotta nei presi del Cerro de la Mitras

- Ah si, quella sorta di grande noce che sta al centro di un immensa depressione del suolo dove ci sono innumerevoli quartieri a destra e a sinistra di quell’enorme serra. Una zona affascinante.

- Si, Nelson, come se fosse stato un grande meteorite a scavare quel panorama

- Meteorite? Un pianeta, una luna forse, troppo grande per un meteorite.

- Certo, hai ragione, e davvero immenso.

- Come hai saputo di Padre Sorin?

- Da mia madre che è di Monterrey, si tratta di un gesuita che ha scelto di vivere appartato, e nessuno lo vede da diversi anni. Alcuni pastori dicono che di notte si vedono luci in cielo, dopo il tramonto, soprattutto nel mese di aprile, il mese in genere delle ascensioni.

- E tu Kate, pensi che lo incontreremo?

- Con te certamente, dicono a scuola che sei stato nel ato e che hai incontrato Mosè

Sorrisi. Kate diceva questo col volto pieno di luce sulle sue efelidi rosa. Mi voleva bene come può volerlo una ex alunna che si è innamorata del sapere attraverso il suo maestro.

- Non è vero quello che si dice, non me ne sono mai vantato, però ho fatto ricerche negli scavi di Megiddo per far venir alla luce le scuderie di Re Salomone.

- A me interessa quello che sei prof, non quello che dicono, domani ho una

conferenza stampa e presento il viaggio tu vieni?

- No preferisco che sia tu a essere in primo piano, io ti do il mio aiuto tenendomi lontano non voglio crearti problemi, sai le dicerie, io poi sto andando in pensione.

Tu sei e resti il mio prof – rispose Kate uscendo dalla stanza.

Io rimasi a riflettere. L’entusiasmo di Kate era giovanilmente coinvolgente e le volevo bene per la stima che aveva per me. Sentivo di non meritarla. E poi quelle dicerie erano messe in giro per burlarsi di me, lo sapevo. Pensavo piuttosto al senso di un viaggio alla ricerca di un eremita scomparso. Ripensavo a quello che avevo detto a proposito dei folli che venivano cacciati. Eppure quei versi del Vangelo: “lasciate che i bambini vengano a me.... dovete diventare come bambini.....beati i poveri di spirito che di essi....” riproponeva il discorso della semplicità, dell’umiltà, della perdita dei finti valori mondani, ridursi al nocciolo di un frutto, senza retro-pensieri, farsi piccoli piccoli, ecco l’anima integra, tersa. Era questo il senso del viaggio trovare un padre che era già anima e non corpo, che aveva raggiunto il punto di separazione.

Quella notte dormii agitato. I presentimenti si presentarono come fantasmi che aleggiavano dentro la testa da un orecchio all’altro, pulsando. Mi alzai che era ancora buio. Presi la cuccumella che m’ero portato da Napoli, ero innamorato del caffè italiano. Quel doppio bicchiere assomigliava alle caffettiere americane, ma il cordolo di carta messo sul beccuccio per diffondere l’aroma, tecnica appresa sul posto, dava un tocco di specialismo del quale mi compiacevo.

Era la mattina del 30 aprile e Kate venne presto per la partenza. La sua lunghissima Oldsmobile, già vecchia di dieci anni, era piena di bagagli; lei era in pantaloncini e maglietta, le larghe falde del cappello le mettevano in ombra il

viso sovrastato da vistosi occhiali

- Ehi Kate ti sei mascherata, dove credi di andare?

- Dai prof non fare il vecchio, è la moda.

- D’accordo non fare caso alle noiose moine del vecchio prof, dammi un attimo che raccolgo alcuni strumenti e vengo.

I soliti attrezzi da archeologo, me li portavo appresso, anche se si andava in gita al mare, un vizio professionale. Mentre entravo in auto, girando intorno per conquistare il posto accanto alla guidatrice, vidi un uomo che sbucava dal lato ovest della casa. Un braccio approcciato al muro e l’altro con una macchina fotografica. Stava un po’ sghimbescio sull’angolo come un gatto che tende un salto, ma il graffio era una foto in bianco e nero che fece prima di sparire. Chi era e che voleva?

Entrando in auto mostrai con lo sguardo a Kate l’uomo che stava andando via.

- Fai finta di nulla e guardalo bene, lo conosci?

- Si, è un inserviente della scuola

- E che vuole da noi?

- Non lo so, e poi è da due giorni che lavora, so che è messicano

- Ma stava alla tua conferenza stampa?

- Si, aveva sistemato le sedie

- Dunque, un messicano appena arrivato, ci fotografa mentre partiamo.

Era un pessimo segnale. Cosa voleva documentare? A chi era legato? A chi interessava una semplice ricerca culturale di due studiosi?

Ecco il presagio della notte ora aveva un volto, non ancora un nome. Partimmo con questo assillo. Io più preoccupato, per esperienza. Kate aveva messo il broncio del disappunto, sul suo viso lentigginoso, per quasi trenta minuti non parlò.

La strada costeggiava il confine, il Rio Bravo corre nel suo letto separando due nazioni, confine estremamente caldo, linea di fuoco, andavamo nel punto per are la frontiera, noi americani potevamo entrare, mentre loro dal Messico, per uscire, era una tribolante croce, quotidiana.

Kate non ce la faceva a stare zitta

- Nelson cosa vuol significare quella presenza, ho fatto errori?

- No Kate, non avvilirti, sono incerti del mestiere del ricercatore, qualcuno in questa nostra iniziativa ha intravisto un doppio fine, visto che è stato pubblicato – le mostrai un giornale che stava in auto che aveva nel titolo il Cerro de las Mitras, il luogo della ricerca - .

- Non avrei dovuto – disse la ragazza con disappunto – la conferenza è stata un errore

- Non abbatterti, chi poteva immaginare qualcosa di torbido? Staremo attenti, sta tranquilla.

Dovevo rassicurarla, non volevo avere in questo viaggio un altro Sam “in gonnella”. Poi ero anziano e la ragazza poteva essere una figlia, per quanto massiccia e forte di carattere. Ma davvero non era Sam. Aveva il piglio della ricercatrice, l’avevo cresciuta e poi aveva più di trenta anni ed era nel pieno della maturità femminile. La dote femminile del trovare le soluzioni senza saltare gli ostacoli, ma girandoci intorno. E difatti disse:

- Pensando a quello ha fatto la foto, tra sviluppo e spedizione a chi sa lui, erà una settimana. Non preoccupiamoci ora.

Kate aveva ritrovato il sorriso. ammo il checkpoint militare con gli americani che non ci guardarono nemmeno attraverso gli occhiali scuri. Dall’altra parte i soldati messicani guardarono le gambe di Kate: un altro livello di testosterone.

Poi ci dirigemmo verso il nostro obiettivo, attraversando un pezzo di deserto. Io cercavo di capire il senso del lavoro che dovevamo fare. Kate aveva fatto are la cosa come una ricerca sull’iconografia Maia e altre preesistenze nel mondo cavernicolo. Era il tono ufficiale, come al solito, dovevamo giustificare altro per avere soldi e permessi. In realtà andavamo alla ricerca del padre eremita. Era questo il vero obiettivo. Ma eravamo inseguiti da una forza oscura. Era quello che mi faceva paura, ma a Kate non dissi nulla

Il cartello della coca, la droga del futuro

La periferia di Juárez è attaccata al deserto Chihuahua che da il nome allo stato messicano. Una periferia allucinante, case nel fango, bambini semi nudi, un paesaggio limbo del purgatorio, alle soglie dell’inferno. Kate e io non parlavamo per il forte impatto emotivo che offriva lo spettacolo. al Io pensavo ai missionari . Ruppi il silenzio

- Conosci "gaucho di Dio”?

- No, dimmi – rispose Kate

- Jose' Gabriel del Rosario Brochero, un sacerdote e missionario, vissuto tra 1840 e il 1914, chiamato così perché andava a dorso di una mula e vestito di poncho e cappello

- Interessante

- Eh si, pensavo a lui vedendo questa miseria. Ho letto vecchi scritti di questo prete, lui diceva "Dio e' dappertutto - scriveva - però e' più vicino ai poveri che ai ricchi” . Questo è un modo per sconfessare quanti pensano che la religione abbia solo una casa dove manifestarsi.

- Secondo te questa è una motivazione che spinge all’eremitaggio? – Riprese la mia collega agganciando il discorso al nostro viaggio.

- Si Kate, ho ragionato molto, dopo la tua richiesta di partire.

- Nelson io penso che gli anacoreti che si isolano hanno una sorta di ascetismo. Ho studiato molto di questi fenomeni soprattutto asiatici, molto noti nel Taoismo e nel Buddismo del avanti Cristo.

- Si Kate, ma a mio parere va fatta la distinzione fra anacoreta ed eremita, la tradizione cristiana la vita eremiticaè una prima forma dimonachesimo, uno stare nel deserto, Gesù va nel deserto per meditare, come è scritto nel vangelo: “ Gesù digiuna per quaranta giorni e quaranta notti nel deserto. In questo periodo il diavolo lo tenta per tre volte”. Mentre l’anacoreta è uno che va fuori dalla città recluso e solitario. Quella famosa storia della nave dei folli. Io penso al recupero della dimensione cristiana.

La disquisizione dotta ci aveva fatto are la periferia e stavamo fuori dalla città messicana verso l’interno. Il paesaggio cominciava a muoversi delineando declivi e vallate. Il deserto era del tutto alle spalle e in lontananza si vedeva un massiccio fronte tutto nero, come un muro della natura che sbarrava la strada. Era il cerro de las Mitras. Prende il suo nome dalla mitra dei vescovi. E difatti già da lontano si vedono i vari cappelli vescovili uno accanto all’altro. Occupa una area vasta con quattro grosse città intorno. Noi eravamo forse a qualche decina di chilometri da Monterrey, quando Kate si fermò a un distributore per fare benzina. Mi venne l’idea di prendere qualcosa al Bar. C’era un allettante bicchiere-insegna, che ci invitava.

Quando ripartimmo notai che sul sedile di dietro gli oggetti erano stati spostati. Il giornale di Kate con la foto sua e l’articolo sulla conferenza stampa era

sparito. Non dissi nulla alla ragazza per non allarmarla. Ma ero certo che eravamo seguiti. Lo stesso uomo che faceva benzina forse era stato chiamato descrivendo l’auto, essendo l’unico distributore nell’area. Dunque ora il nemico era alle nostre costole. Prima o poi sarebbe dovuto uscire fuori. Mi sentivo inadeguato, non ero un valido aiuto sul piano fisico. Anche se da vecchio militare avevo grinta. Ma era soprattutto verbale. E poi non sapevo chi fosse questo nemico.

Quando fummo vicino alla città notai artigiani che facevano ceste, e altri mattoni di ceramica. Gente povera, ma dignitosa. La strada senza asfalto al aggio delle auto creava una nuvola di polvere e talvolta non si vedeva nulla. Si andava a o d’uomo. Fu in quel momento che vidi un gruppo di uomini sporchi di bianco, che si pararono davanti a noi. Mentre Kate spaventata suonava il clacson. Quelli non si spostavano, costringendoci a fermarci. Un suono di una sirena sbloccò la situazione. Un poliziotto in moto si avvicinò.

- Bien ¿Qué pasa

- Fuimos atacados – disse Kate che sapeva lo spagnolo

Il poliziotto scese e controllò l’auto. Poi rientrando disse

- Americani dunque, sono anche io di El Paso e mi chiamo Peter.

Fu una piacevole sorpresa trovare un concittadino nel momento di pericolo.

- Venite al centro di polizia vi scorto – disse Peter, rimettendo in moto

Ho sempre pensato che nei nostri gesti ci sia sempre un segnale impercettibile, che solo una attenta osservazione sa cogliere. Cosi il viso di Kate aveva assunto una espressione quasi luminosa, diversa dal solito. Anche quando guardava me c’era una luce negli occhi, riuscivo però a cogliere l’atteggiamento quasi filiale verso il suo vecchio professore. Ora, però, la vedevo diversa. Mi resi conto più tardi che il giovane Peter aveva lasciato stampato negli occhi della mia giovane collega il suo sorriso. Ecco la luce di Kate.

La strada verso il centro di polizia era contorta, il poliziotto faceva cenno con le mani per girare ora a destra, ora a sinistra. Le case tutte basse della cittadina si presentavano tutte uguali, ogni tanto qualche cesta di frutta davanti alla casa ostentava il mestiere dell’inquilino. La strada lastricata di ciottoli, le porte delle abitazioni in legno grezzo, ma sempre con l’elegante timpano triangolare sopra; in una di queste costruzioni c’era un insegna: “policia”. Eravamo arrivati. Peter apri la portella di Kate, la ragazza scese come una piuma che volesse volare, tanto si sentiva leggera. Il poliziotto fece cenno di seguire. Quando fummo dentro per correttezza verso di me la discussione fu in inglese. Peter disse che lui era di origini messicane. Aveva previsto un coinvolgimento degli Stati Uniti a sostegno del Vietnam del Sud. Per non andare in guerra, sfruttando la doppia cittadinanza, aveva trovato posto nella polizia messicana.

- Chi sono questi personaggi che ci stanno seguendo? – domandai

- Sono legati a un cartello nascente del narcotraffico

- Droga?

- Si, dalle piantagioni di coca, si estrae la cocaina, ma c’è anche l’oppio dal quale si ricavano essenze che si fumano o inalano e si estrae morfina

- E che vogliono da noi?

- Non lo so – rispose Peter – dovete dirmi voi chi siete e cosa dovete fare qui per capire.

Fu a questo punto che la rossa Kate, come destatasi da un magnifico sogno, spiegò a Peter non abbandonando i suoi occhi chiari, cosa dovevamo fare, e mentre parlava, Peter sorrideva.

- Ma Sorin dicono che sia morto da più di 40 anni! - la interruppe il poliziotto

- Bene cercheremo il posto in cui è vissuto, per trovare tracce, disegni rupestri – disse Kate

- Una indagine molto dotta, e che cosa vogliano da voi questi cialtroni, lo scopriremo – disse Peter

La discussione non finì lì, ma prese altri percorsi, quelle strade del pensiero che attraversano vissuti e sensazioni, come quando si mescola la marmellata. Ma erano i due giovani a parlare, io li guardavo con tenerezza e pensavo all’amore dei miei genitori persi prima del viaggio a Megiddo, per gli scavi di Salomone. Era come un effluvio che vedevo attraversare la stanza che avvolgeva i due giovani che continuavano a parlare, ma io non li ascoltavo più, leggevo i

movimenti delle loro mani, i sorrisi e gli sguardi strapieni di luce.

La giornata continuò insieme a Peter che ci fece conosce la città. Fondata dagli spagnoli si trova nello Stato del Nuevo León. Monterrey è conosciuta come "Città delle Montagne" per via dello scenario che l’avvolge tutto intorno. Guglie aspre e rocciose esplodevano contro il cielo come braccia sollevate. Come avremmo fatto noi a muoverci in un posto estremo dove possono arrivare solo alpinisti? Fu questo il senso di una domanda che feci a Peter. Lui rispose

- conosco delle vie di accesso facili e percorsi lunghi, ma comodi per arrivare dappertutto.

Confortato da queste informazioni, lasciai subito due giovani da soli. Avevo capito che era nata una simpatica attrazione tra due americani entrambi ispanici che alternavano lo slang a idiomi locali, con un misto di suoni che appena percepivo.

Quella notte andammo in un hotel indicato dal poliziotto. Io avevo capito che Peter e Kate acceleravano e prima di chiudere la mia giornata, feci due i mescolandomi alla serata messicana. Le strade pullulavano di gente colorata, grandi cappelli e musica. In uno slargo suonavano chitarrone e c’era una ragazza che danzava. Si muoveva come l’onda del mare, con gli occhi chiusi ondeggiava ora da una parte e ora dall’altra del cerchio umano che ritmava con le mani. Mi avvicinai come attratto da quella ragazza. La musica diventava avvolgente e la ragazza ora puntava verso di me per poi arretrare, e rifaceva questo movimento sempre aumentando la vicinanza. Non avevo pulsioni di natura ormonale, quella che avvertivo era una sofferenza interiore. Misi una mano in tasca, dove tenevo un piccolo crocifisso e lo accarezzai con le dita. A questo punto la ragazza spalancò gli occhi. Erano di fuoco.

Mi allontanai svelto verso l’hotel. Gli altri continuavano a ritmare come se nulla fosse accaduto. Giunto in camera, pregai a lungo prima di prender sonno. Quella scena di prima era da rimuovere, soprattutto quegli occhi. Ma avevo la mia Croce che mi proteggeva, e con questa certezza mi addormentai, non prima di aver detto tutte le invocazioni possibili, per tenere lontano il maligno.

Strani personaggi sulla strada de Las Mitras

La notte fu agitata, non riuscivo a prendere sonno. Quando lo stremo della resistenza scemò riuscii a sognare. Come spesso accade si sognano cose reali, o anche momenti del proprio lavoro. Mi vennero davanti nuclei di indigeni semi nudi. Dai miei studi sapevo che gli spagnoli che arrivarono qui, a metà del XVI° secolo e videro cacciatori e raccoglitori, le cui comunità indigene erano formate solo da otto o dieci membri. Ogni comunità assomigliava più a un branco animalesco che non a vere e proprie famiglie. Si controllava il territorio, e il gruppo viveva legato solo dalla minaccia di conflitti violenti e le relazioni sociali all'interno della famiglia non avevano alcun legame di natura affettuosa, tanto che entrambi i genitori e bambini potrebbero facilmente e liberamente muoversi in altre famiglie, che mostravano chiaramente una mancanza di attaccamento di individui verso una determinata persona o gruppo. Immaginavo il gravoso compito dei primi missionari a dover penetrare in questo territorio aspro con questi retaggi sociali.

Alle cinque del mattino, era ancora buio, un colpetto alla porta entrò dapprima nel sogno, con un indigeno che batteva una pietra, poi mi svegliai

- chi è?

- Sono Kate

- Che succede? – riuscii a mettere i piedi a terra e quando ebbi la certezza di essere nel pieno delle forze mi alzai per andare alla porta, socchiusi

- Dimmi Kate

- Peter dice che dobbiamo andare

- A quest’ora?

- Non so perché ha anticipato

- Ok, dammi trenta minuti almeno

- Va bene riferirò

Non riuscivo a capire il motivo dell’anticipazione. Non dovevamo fare un lungo viaggio. Quando fui giù vidi i due giovani che parlottavano. Kate era nervosa. Io mi ero messo in tasca un rosario e avevo messo al collo una reliquia della Croce, che ero riuscito a procurarmi in un viaggio in Terra Santa. La mia giovane collega venne da me

- Dice che ci deve accompagnare in un posto per le nostre ricerche e poi deve rientrare subito per problemi di lavoro.

Kate era contrariata e non le volli chiedere se avessero dormito insieme, non era opportuno per il vecchio professore entrare nelle situazioni intime di una ex

alunna, la mia domanda sarebbe stata fraintesa.

Entrammo in auto, io mi misi dietro e Peter si sedette accanto a Kate che guidava.

La vecchia auto si mise in moto con un scoppio roboante e barcollando per la strada sconnessa. Poi prendemmo un percorso.

Peter non parlava e faceva gesti con la mano per indicare la strada. Kate era tesa come una corda di violino.

La strada penetrava in un bosco scuro, a fari accesi si vedeva appena. Si saliva sempre più. A un certo punto la strada sembrava sfociare in una ampia vallata. Ma noi eravamo sopra, come sospesi nel cielo. Ad un certo punto, urlai

- Fermati

Kate frenò. Peter non c’era più. Avevo avvertito che la sua sparizione coincideva con la fine della strada. Scendemmo dall’auto, Kate era tremante e sconvolta. La tenni per mano. Eravamo su un spuntone di roccia la strada finiva lì sopra uno strapiombo che sembrava arrivare al centro della terra. Sotto s’apriva una vallata immensa e lo spettacolo era straordinario e inquietante. Dalla destra si distinguevano bagliorio informi e colorati e si udivano, in modo ovattato un miscuglio di suoni e fracassi che rimbombavano da lontano. Questa massa di luce diventava come una melassa densa e si spostava lentamente come un colata di lava. Sotto di noi c’era uno sprofondo, un enorme abisso nero e a sinistra una massa informe scura da dove giungeva un forte vento caldo che invece di spingere al contrario risucchiava. Io tenevo Kate che sembrava fosse più esposta

a quel vento. Eravamo talmente in alto che ci pareva di osservare tutto da un aeroplano. Quando quel fiume di colori arrivò al buco nero, s’udirono urla disperate, e si sollevò una nebbia che spinta da quel vento veniva assorbita dalla massa nera. Quando riuscii a mettere più a fuoco la visione, nella massa colorata a destra mi parve vedere come nel quadro di Bosch le nave dei folli e delle fanciulle nude che cavalcavano maiali. Era questa umanità deviata che giungeva al buco nero. Davanti a noi sovrastavano le montagne, e al centro dell’incrocio delle due vette, c’era una luce accecante e parte della nebbia sfuggiva al vento nero e veniva attratta dalla luce. Quella luce era confortante. La guardavo respirando profondamente. Tuttavia dovevo tenere con forza Kate che era aspirata da vento, cercai di tornare verso l’auto e la spinsi dentro e chiusi le porte. Riuscii a mettere in moto e misi la retromarcia.

Quando fui sicuro, mi fermai.

L’alba arrivò. Quella luce ora s’allargava spalmandosi su tutto il cielo. Kate dormiva. Quando si svegliò ebbe un soprassalto.

- Che è successo?

- Strane presenze

- Peter?

- Non credo . Ma ieri Peter l’hai visto?

- Si abbiamo cenato e poi lui è andato via dandomi l’appuntamento alle otto, poi è arrivato alle cinque e mi ha fatto arrabbiare.

-Ragazza mia, ho la certezza che non fosse lui

- Come sarebbe?

- Il fatto che è scomparso dall’auto, mi fa pensare che siamo di fronte a un nemico formidabile. L’unico che può prendere le sembianze che vuole per portarci nella valle di Giosafat, di fronte al giudizio universale per dimostrare la sua forza.

Kate aveva le mani sulla fronte

- Ora ricordo che ho sognato di essere trascinata in un abisso nero.

- Non era un sogno eravamo là.

Scendemmo dall’auto. Perlustrammo la zona. Eravamo sotto la montagna e non c’era nessun abisso. Era chiaro che eravamo entrati in un'altra dimensione . Il sole era alto. A un certo punto si sentì il rumore di una moto. Era Peter. Arrivò sgommando in una nuvola di polvere

- Siete partiti senza di me?

Lo sguardo di Kate era crucciato e lo rivolse a me. Peter non capiva. Feci a Kate un cenno di si con la testa. E i ragazzi parlarono. Sentivo che la voce di Kate da rugosa ora si ammorbidiva.

Prima di muoverci dissi a Peter se, per caso, avesse una catena con il crocifisso. Me la mostrò. Strizzai l’occhio a Kate. Quel giorno decidemmo di non fare nulla. Ero scosso e dovevo capire. Avevo negli occhi quell’immagine stupefacente, la grande potenza del male, la sua suggestione, e la straordinaria luce di Dio che vinceva su tutto.

La serata fu dedicata ai chiarimenti. Fu Peter il primo a chiarire

- Io sono arrivato alle otto e non v’ho trovato e mi sono ricordato del tragitto che v’avevo consigliato.

- Ma allora chi era quello delle cinque – disse Kate con voce inquieta

- Non lo so Kate – rispose Peter – guarda questo giornale serale cosa dice, io ero dall’altra parte della città perché c’è stata una sparatoria.

A questo punto dovevo offrire io il mio chiarimento

- Ragazzi non v’e dubbio che siamo osservati da forze occulte. Tu Kate stamattina non ha visto cose strane nel finto Peter?

- Si era freddo e distaccato

Peter sorrise e prese una mano della ragazza.

- Si davvero non poteva essere lui – disse Kate immergendosi nel sorriso di Peter come un biscotto nel latte.

Il sole stava tramontando dietro le mitra vescovili della natura. Io continuai a osservare i ragazzi che parlavano con gli occhi e i sorrisi. Avrei voluto parlare loro su come organizzarci per lottare contro il male. Ma non volevo rompere quel magico cerchio in cui erano avvolti. E in cuor mio mi auguravo che forse quello era un formidabile alleato contro il maligno. Perché l’amore è lo specchio di Dio

I nemici occulti e quelli reali

La mattina seguente mi alzai presto e i feci una eggiata nel cuore di Monterrey. Case basse, un po’ fatiscenti, quale e là, ogni tanto un paio di piani, senza pretese. La strada lastricata a chianche di pietra calcarea e poche auto in giro. Davanti alle case, come espressione del suo contenuto, c’erano ceste o di frutta o verdura. Camminando mi ritrovai davanti a uno slargo senza case. La strada usciva fuori dall’abitato: il nostro Hotel era in periferia dunque. Sullo sfondo e anche a destra le cime delle montagne. Eravamo avvolti. La larga strada era dedicata a Padre Mier, un avventuroso sacerdote e medico spagnolo della fine del settecento, che si batté per l’indipendenza del Messico dal giogo della madre patria. Io pensavo al Gaucio di Dio Jose' Gabriel del Rosario Brochero che odorava di pecore, che si fece povero tra i poveri, che lottò sempre per stare vicino a Dio e alla gente e mori cieco e lebbroso ritiratosi trai monti argentini. Ero già all’università, nel 1914 quando mori in odore di santità.

Ero immerso in questi pensieri quando rividi quei personaggi che ci avevano fermato il primo giorno. Venivano verso di me, sul lato opposto della strada. Non li avvertivo minacciosi. Mi arono di fianco e solo uno mi fissò con attenzione. Quando furono lontani si fermarono e si girarono per guardarmi di nuovo. Presi la strada di ritorno con ò veloce, a correre sarei stato goffo, piuttosto lento e impacciato. Vedevo l’hotel sulla mia destra e sentivo i multipli di gente che correva alle mie spalle. Feci in tempo a entrare e chiudere la porta dell’hotel. Sentii una mano poggiarsi sulla spalla sinistra, era Peter, mi spostava leggermente di lato e apriva la porta con la pistola in mano, i personaggi erano già schizzati lontano. Dissi a Peter di non dire nulla a Kate dell’episodio. E quella mattina restai in camera trovando la scusa di un mal di testa. E lo feci nei giorni a seguire.

Volevo pensare da solo. Sapevo che in quella situazione solo io ero il bersaglio delle forze misteriose, e volevo anche esserlo di quelle malavitose. Darmi in pasto ai delinquenti non era per me un problema, volevo che la dolce Kate restasse fuori dal gioco perverso che si stava proponendo. Lei sarebbe stata più a rischio di me con i bruti, mentre se restava con Peter, era protetta.

Cosi Kate e Peter cominciarono a fare delle ricerche, nei ritagli di tempo del poliziotto. La giovane collega raccoglieva reperti, cocci, faceva foto istantanee che incollava nel suo diario di bordo. Ogni tanto mi faceva visita per raccontarmi le sue scoperte, delle tracce di antiche civiltà di nomadi. E parlavamo degli oggetti e storie che potevamo mettere in una tesi finale e quello che doveva essere scartato.

Ma una sera accadde una sorta di corto circuito dell’impianto elettrico e restammo completamente al buio. Io ero solo in hotel. Ad un tratto avverti solo un fruscio e poi subito quattro mani che mi presero infilandomi in un grosso sacco di canapa. Stavo per gridare, sentii solo un dolore alla nuca per poi non sentire più nulla.

Nella perdita dei sensi, restai con la corteccia cerebrale accesa e immaginai di stare su una nave che ondeggiava sotto un cielo giallo, color sacco. Sentivo vociare in spagnolo stretto, forse un idioma dialettale interno, ma non vedevo marinai. Quando arrivammo al porto senti tutta la nave sfracellarsi sugli scogli. E come un naufrago restai immobile con gli occhi chiusi.

Quando dopo molto tempo gli aprii non ero più nel sacco ma in una stanza buia. Doloravo in ogni punto del corpo, il viaggio non doveva essere stato comodo.

Sentivo un acre e dolciastro odore di erba bruciata o fumata. Un odore persistente che mi faceva girare la testa. Quando riuscii a sollevarmi cercai di

sbirciare attraverso le fessure della casupola di legno.

Il paesaggio era tutta campagna con erba, tanta erba. Che cosa avesse di strano quella coltivazione non capivo. Era canapa, una pianta usata in tutto il mondo. La conoscevo quella pianta che veniva studiata in una sezione della scuola. Si sapeva che il fusto costituiva la materia prima per la produzione di carta, fibre tessili in genere (corde, abbigliamento, ecc.), fibre plastiche, e concimi naturali; nella medicina umana e veterinaria le foglie e soprattutto i fiori erano molto utilizzati, sostituendo alcuni dei medicinali industriali presenti oggi in commercio, specialmente come antinfiammatorio. Con la canapa, come con tanti altri vegetali si possono produrre anche cosmetici come creme, shampoo e saponi. Tutta quella produzione che si perdeva a vista d’occhio era certamente di un ricco proprietario terriero. Ma che voleva da me? Cercavo di ricordare il collega a scuola che studiava queste piante, ma l’avevo perso di vista da tempo e non sapevo cosa stesse ricercando.

Ad un tratto la porta si spalancò entrarono due nerboruti e mi presero da entrambe le braccia per portarmi fuori.

C’era un signore che stava seduto su una sedia fatta di legno e corda.

- Chi sei?

- Chi siete voi – risposi con voce rauca e secca

- Amici

- Cosi tratterebbero amici?

- Tu stai ricercando sulla canapa, perciò stai qui

- Io non sto ricercando nulla, avete sbagliato persona

- Noi sappiamo che i servizi segreti americani hanno chiesto consulenza alla tua scuola su quello che stiamo facendo noi

- Avete sbagliato persona.

La conversazione mi aveva fatto capire l’errore involontario di Kate. L’aver dato pubblicità alla nostra iniziativa aveva fatto pensare a quelli che era una copertura della Cia per controllare loro. Ma cosa controllare poi?

- Si avete sbagliato persona, io non mi occupo di chimica, ma di storia dell’Arte e archeologia

- Non ci prendi in giro, dalle tue parti è proibito coltivare questa roba e volete dare fastidio a noi

Ora ricordai il senso delle cose; loro erano convinti che si stesse tramando qualcosa contro di loro. Come convincerli? Si, in quel momento mi venne in mente che dal 1937 in Usa c’è la legge di Roosevelt che vieta la coltivazione di canapa indiana dalla quale loro fanno la Marihuana, cosi chiamata nel tipico

linguaggi messicano e quindi credono che siamo in conflitto con loro. Rammentai anche di quell’omino che ci vide alla partenza che Kate ricordava quale neo assunto da pochi giorni. Forse preso dalla conferenza non aveva capito chi fosse il “loro” professore. Ero in dubbio sul da fare, poi mi convinsi che io ero in pericolo e il mio collega no. Allora dissi:

- Il vostro uomo a El Paso, se sta ancora a scuola, ora dovrebbe sapere chi è il professore, fate una telefonata.

- Più tardi viene qua e lo sapremo, ora portatelo in gabbia – disse l’uomo sulla sedia, sputando a terra un pezzo di sigaro.

Mi chio in quella stanzetta di legno. Non avevo alcun bisogno fisico, ero molto contratto, preoccupato e stanco. A sessantacinque anni non si riesce a riposare se non per pochi minuti. E cercai di farlo.

Intanto Kate e Peter erano preoccupati. Dopo il block out erano entrati nella mia stanza, che aveva la porta spalancata non mi avevano trovato. Vedendo occhiali da sole, agenda sul tavolo si allarmarono e Peter avverti la centrale di polizia del mio rapimento.

Nella solitudine della casetta di legno, fui preso dai pensieri. Ricordavo di aver letto, nel 1937, un articolo pubblicato sull'American Magazine sull’erba del diavolo, citando il caso di un giovane, normalmente tranquillo, che dopo aver fumato marijuana ammazzò a colpi di scure padre, madre, due fratelli e una sorella. Trovai il nesso che mi portava sempre alle soglie del male. Allora ero giovane e vedevo in questa propaganda una sorta di allarmismo e oscurantismo che portava ad arbitrarie "reinterpretazioni" di notizie di cronaca nera. Ora però ero a diretto contatto con il luogo originario del problema. Ero nell’occhio del ciclone.

La mattina dopo mi fecero uscire e mi portarono della frutta su di un tavolo. Il sole bagnava un campo di erba alta, un mare di verde che s’increspava a tratti per il vento. Compresi subito che non ero più un prigioniero pericoloso: era arrivato il chiarimento. Anche se ero controllato a vista da gente armata. Provai a camminare e arrivai dietro una serie di baracche. C’erano tanti filari di foglie messe a seccare, in terra sopra lenzuola stese, c’erano mucchi di foglie. Qualche anziano fumava guardando fisso davanti a se. Sentii una mano sulla spalla.

- Professore, vedi il nostro lavoro? Siamo gente della natura noi, diamo solo un po’ di inebrio che serve per superare difficoltà. Vuoi provare? - cosi dicendo mi mostrò una sigaretta un po’ grossolana.

- Non ho mai fumato, grazie – poi aggiunsi - Perché mi tenete ancora prigioniero?

- Perché vogliamo capire se puoi darci fastidio

- Io faccio solo ricerche archeologiche, che fastidio posso darvi?

L’uomo si scostò da me e mi disse di seguirlo. Camminammo in mezzo all’erba per un po’, poi l’uomo si fermò e mi mostrò una pietra sulla quale c’erano disegni e delle scritte. La pietra era stata portata lì, come per nasconderla.

- Dove l’avete trovata?

- E’stata sempre qui

Il disegno quasi impercettibile mostrava un monaco che aveva le mani giunte e un animale indecifrabile. Un disegno lugubre e inquietante. La scritta era in una lingua strana a metà tra sumero e spagnolo.

- Un vecchio del posto dice che quello è il sigillo del diavolo. Dice che porta sfortuna per questo ne stiamo lontani, se tu riesci a capire qualcosa, ti liberiamo.

- Ora lo vedo bene, dietro al monaco è la figura di un demonio nelle sembianze di un toro dalle cui orecchie escono fiamme di fuoco: questo nel medioevo si diceva che fosse Astaroto è ritenuto un diavolo esperto di teologia e filosofia, pronto a prestare i suoi servigi.

Avevo davanti una testimonianza importante. Il monaco era forse padre Sorin che era in forte disquisizione teologica con questo personaggio e quello, più che essere il sigillo del diavolo era un messaggio per me. Avevo trovato il nemico occulto. Molto astuto. Ancora una volta avevo a che fare con un personaggio biblico, stavolta era Aštarôt, connesso con il culto di Astarte, una dea pagana accomunata dai Romani ad Afrodite, ma presente nel culti fenici legati alla prostituzione. Nella bibbia legato al male, a Sodoma e Gomorra.

Dopo pranzo mi portarono fuori dalla loro “azienda”. Stavolta ero solo bendato. Mi lasciarono su una strada solo. Ero legato e stavo immobile. Stetti fermo come un salame, cercando di ascoltare i rumori della strada. Sentii un mezzo che arrivava:

- que el éxito - disse un autista che scese e mi liberò dai legacci.

Era un camionista. Dissi solo “ Polizia, por favor” E mi portò via.

Padre Sorin prigioniero di Astarot

Era pomeriggio, quando arrivai al posto di polizia c’erano Peter e Kate. La collega mi buttò le braccia al collo in lacrime.

- Nell quanta pena!

- Lo so Kate, ma abbiamo un nemico in meno ora – dissi cercando di non soffocare per l’abbraccio della ragazza.

Spiegai a Kate e Peter quello che m’era capitato. Il poliziotto disse che loro tolleravano queste coltivazioni che non creavano problemi di ordine pubblico, anche perché era solo erba e quasi tutta finiva negli Usa. Erano ancora piccoli coltivatori e non ancora un cartello di narco-trafficanti.

Rivolto a Kate dissi

- Ho trovato un messaggio di Sarin

- Dove?

- Sopra una pietra

Descrissi alla collega il disegno e la simbologia. Kate mi disse

- Andiamo in camera mia e ti mostro qualcosa.

Peter intanto era andato via chiamato via radio. Kate mi mostrò alcune foto scattate in qualche grotta.

- E’ lo stesso disegno che ho visto sulla pietra nel campo di canapa – esclamai

Non c’era dubbio. Oramai m’ ero convinto che padre Sorin stesse diffondendo un messaggio per me. Forse era in pericolo. Lui era soggiogato da Astarot. Ma c’era una cosa che occorreva capire: quei messaggi a quale epoca appartenevano? Magari erano anche lontani dal nostro presente, visto che il boss della marijuana aveva parlato di “dicerie di anziani”.

Quella sera andai presto a letto. L’urgenza di lavarmi e togliermi di dosso quella puzza di fumo acre e dolciastro, mi costrinse a chiudere prima la giornata. Pensai all’analogia con Napoli. Allora la camorra fu il primo impatto e poi scoprii, invece, che il nemico era un altro. Ora capitava la stessa cosa. Padre Sorin, me lo cercavo di immaginare. Il prete era andato a ritirarsi in montagna o vi era stato trascinato? I cambiamenti di Astarot e la sua astuzia erano pericolosi. Nell’immaginario collettivo il maligno è rappresentato come un mostro e nessuno rammenta che fu un angelo. Anzi Lucifero è portatore di luce nel suo etimo. Per il mondo dei latini era Venere, l’ultima stella a ritirarsi che porta la stessa luce del mattino. Per questo il mondo spesso è affascinato dalle sue performance, sia nelle disquisizioni teologiche, sia nelle efferatezze dei

comportamenti. La sua superbia, che gli fu fatale, la riversa nel mondo. Spesso noi assistiamo a questa superbia, alle persone vanesie, piene di ammirazione per loro stessi. Nella mia vita, stetti per cadere nella sua trappola, quando volli tornare per mostrare ai miei colleghi americani, i risultati del viaggio biblico della mia gioventù a Megiddo, e fui punito. Gli anni mi avevano insegnato a perdere la superbia e puntare all’ammirazione, più all’affetto che alla devozione, più alla complicità creativa che alla accondiscendenza supina. Così avevo superato ogni rammarico e nell’età che diventava sempre più importante, accumulavo tesori che erano rappresentati dai ricordi. Di un archeologo; dovevo mettere in sequenza indizi, trovare riscontri, come un detective che scandaglia nel tempo, dovevo trovare il gesuita disperso. Era una battaglia contro un nemico fortissimo. Ma eravamo sullo stesso terreno, lui portava una luce, ma la Luce. che avevo alle spalle non ammetteva confronti: era la vita contro il nulla.

La mattina dopo Kate e io decidemmo di andare alla congregazione dei gesuiti per recuperare informazioni su Padre Sarin. Peter s’ era visto a colazione e s’era fermato con l’auto della polizia e poi era andato via, dopo averci dato indicazioni. Quelle strade tutte uguali di case basse rendevano difficile orizzontarsi senza avere punti di riferimento, era un girare a destra e a manca, come un labirinto. Ogni tanto sull’uscio qualche vecchina muoveva la mano, per un saluto. La sede dei gesuiti era una costruzione a due piani, un palazzo più austero, grigio scuro. Il portone di legno aveva dei fregi dorati sui lati, rappresentanti delle file di angioletti. Al centro un battente tondo e lucido. Bussammo. Si aprì una porticina. Un vecchio prete senza denti aprì quel tanto che bastasse a mettere il naso e ci chiese: - che cercate!. Appena pronunciammo la parola Sorin, il vecchio aprì la porta e si mise a piangere. Ci fece accomodare in una stanzetta semi buia. Nell’oscurità vidi un mutamento nel volto di Kate. Era stranamente accigliata

- Che posto lugubre – disse

- E’ un convento, non una discoteca, Kate

Ma non era chiaro. Kate non avrebbe mai fatto quella domanda. Entrò un gesuita più giovane, con un leggero contorno di peli bianchi sul mento. Le fogge degli abiti talari erano antichi. Tutto appariva molto vetusto

- Allora cercate notizie sul nostro confratello Sorin?

- Si, vorremmo sapere dov’è – risposi io, perché notavo Kate quasi del tutto assente

- Il nostro confratello Sorin è sparito da una decina d’anni. Sapevamo che aveva voglia di ritirarsi in meditazione. Tutto era cominciato durante un ritiro spirituale. Per diversi giorni padre Sorin non aveva mangiato nulla ed era rimasto nella sua cella come in estasi sotto il crocifisso. Poi la cosa divenne nei giorni seguenti preoccupante. Un medico che lo visitò disse che trovava straordinario che un corpo che non si alimentasse e non bevesse fosse integro, senza alcun segno né di deperimento e né di disidratazione.

Un giorno il padre sparì. Lo cercammo sulla montagna in qualche grotta e poi nulla.

Il racconto del prete era interessante. Mostrai al gesuita le foto dei disegni trovate nelle grotte e soprattutto la scritta. Il gesuita fece un balzo indietro, buttando la sedia di traverso e segnandosi la fronte nervosamente.

Kate cominciò a tremare e sbavare. Ora era chiaro per me che Astarot si era messo di traverso e aveva preso possesso di Kate. Ma era ancora all’inizio della sua opera e perciò trascinai la ragazza sotto un crocifisso. La ragazza cessò il suo tremore e perse i sensi. Il gesuita mi aiutò a sistemarla sopra un poltrona e

quando si riebbe disse

- Nel, dove siamo?

Le feci una carezza

- Siamo nel convento di Sorin

Dopo il recupero della collega, il gesuita ci accompagnò nella stanza di padre Sarin. Era una stanzetta sobria con un letto che era solo una panca di legno con un cuscino che era una coperta ripiegata. Un breviario su un tavolo e un biglietto dove c’era scritto: “ vado “ . Una sola parola. Andare dove? Il gesuita ci confermò che questa domanda se la son fatta anche loro mille volte.

Una cosa mi colpì, era un segno nel muro quasi impercettibile, emetteva una luce. Lo mostrai a Kate.

- Cos’è – disse la ragazza spalancando gli occhi.

- Non lo so, sembra una frattura nel muro.

Il gesuita non vedeva nulla e ci guardava meravigliato.

Ci avvicinammo sempre di più. Era una fessura che mostrava qualcosa come una sorta di opalescente nebbia che faceva intravedere una montagna. Poi la fessura sparì

Kate e io ci guardammo stupiti

- E Sorin che ci chiama – dissi

E uscimmo di corsa dal convento.

Il gioco si fa duro

Kate e io non potevamo correre, per via della mia età che non lo consentiva. Ma ero io, più che altro, a trascinare la ragazza. Quando fummo dietro a un angolo mi fermai col fiatone. Kate non mi diede la possibilità di parlare per primo

- Perché corriamo Nel?

- Kate dovevamo uscire dal convento, tu non l’ahi capito perché sei stata in trance per colpa del maligno che si è impadronito di te, e non so come, anche del convento. Ecco perché padre Sorin è sparito e ci chiama

- Nel ho paura, stiamo combattendo contro un nemico che non conosciamo – biascicò Kate con un filo di voce

- E invece lo conosco, è astuto, ci darà dimostrazione di cosa è capace di fare, è potente, ma noi abbiamo fede e siamo scienziati, lo debelleremo.

Tornammo in hotel senza dire altro. Kate doveva digerire le mie riflessioni. E devo dire che gli altri miei pensieri non erano affatto confessabili. Stavo pensando alla analogia con Napoli. Nella città partenopea dovevo liberare una ragazza, qui, in Messico era un padre gesuita che aveva capito che per liberarsi dal maligno ci inviava messaggi. Cercavo di capire le lacrime del vecchio prete e il salto sulla sedia di quello più giovane e l’attacco schizofrenico di Kate. Tanti

elementi da valutare. Il gioco si faceva duro.

Quando fummo in hotel, chiesi due tisane calde al bar, e domandai a Kate come mai le fosse venuta in mente questa ricerca su Sorin. Lei mi parlò di una lettera di sua madre che l’aveva sognato. Stavo davvero comprendendo che era davvero una richiesta. E nel mio intimo pensavo da Chi arrivasse tutto. E questo mi dava conforto.

Ma il nemico era subdolo, in agguato. Io lo temevo, perché era capace di tutto. Quale fosse il suo intento non riuscivo a intuirlo, o forse non volevo ancora pensarci, tanto mi terrorizzava. Dalla finestra della mia stanza si vedeva una ampia distesa di campagna da un lato, dall’altra l’inizio della città con le sue prime case, sullo sfondo c’era il massiccio insieme di montagne scure. La mia fronte era sempre scavate da rughe di espressione, ora più che mai sembrava uno di quegli attrezzi che si usano per lavare i panni. Un ticchettio alla porta mi svegliò dal torpore dei pensieri vaghi. Un fattorino dell’albergo mi diede un biglietto. Lo presi e mi accostai alla finestra per leggere meglio. Era di Kate: “ Caro Nel, sono dovuta partire all’improvviso perché mia madre sta molto male, non potevo dirtelo a voce perché pensavo riposassi e non volevo svegliarti. Un abbraccio Kate”.

Un biglietto? Era molto strano. Kate avrebbe bussato per rendersi conto che stessi davvero dormendo, prima di prendere una decisione così repentina. Scesi nella hall dell’hotel e chiesi di telefonare in Usa. Chiamai a casa di Kate e mi rispose la madre

- Ciao Mary sono Nel come stai?

- Bene, Nel, come mai questa telefonata?

- Kate sta venendo da te.

- Una pausa del lavoro?

- Si – dissi, per tutta la telefonata feci in modo di non mostrare incertezze

- Quando arriva dille di chiamarmi qui in Hotel, è urgente.

Finita la telefonata, uscii dall’hotel, ero sbiancato in volto, non sapevo a che pensare e presi la strada verso la Polizia, avevo bisogno del nostro poliziotto, sia per la lingua, non conoscevo lo spagnolo, e poi dovevo assolutamente creare il sistema di difesa, ora era davvero chiaro che il nemico mi aveva isolato ed ero sotto attacco.

Sulla strada vidi un vecchio che stava seduto vicino a una porta di una casa modesta. Se ne strava col capo chino sopra una cesta di vimini, vuota. Nel argli vicino cercai con lo sguardo di vedere dentro la cesta: c’era una immagine di un santo, era Sant’Ignazio di Loyola fondatore della Compagnia di Gesù.

Un altro messaggio!

Forse voleva dirmi di non proseguire perché, mentre stavo ancora guardando il vecchietto, che ora aveva alzato la testa e mi guardava con uno sguardo atterrito: mi trovavo sul ciglio di un burrone. Agitando le braccia all’indietro evitai di

piombare nel dirupo.

La strada era sparita, davanti c’era solo il vuoto. Io stavo su un piccolo frammento di strada, dove sostavano i miei piedi e basta. Girai leggermente la testa per guardare dietro, il vecchietto era scomparso. In quella situazione non sapevo che fare, la paura di cadere era fortissima. Dal fondo del burrone vidi una nebbia sollevarsi che si raggrumò in una sorta di volto, orribile, e una voce sottile come soffio sentii dire: “ sei mio!”.

In quel momento mi sentii sollevare dalle spalle. Ero caduto e avevo battuto la testa che ora mi girava come una trottola. Era Peter, il nostro poliziotto che mi rialzava. Incubo o realtà che fosse, ero ormai convinto che dovevo combattere un nemico potente. Peter mi fece entrare in auto e mi portò in ufficio.

Raccontai a Peter del biglietto di Kate e della telefonata alla madre:

- Strano – disse il poliziotto – con Kate avevo appuntamento oggi a pranzo da me, e non mi aveva detto nulla.

Nel frattempo arrivò la telefonata di Kate, arrabbiata, per quello che immaginava un terribile scherzo. Aveva avuto un telegramma, portato a mano da una postina in bicicletta.

- Postina? – disse Peter – qui non ci sono donne portalettere -

Mi feci are il telefono e raccontai a Kate delle disavventure. Concordai che

se ne stesse un po’ a casa della madre. In quel momento dovevo stare da solo.

Più tardi in stanza, presi i miei libri sulla magia esoterica, sui demoni e me li misi sul tavolo insieme a un crocefisso posto su un piedistallo di creta davanti. Era cominciato il ballo? E balliamo dissi al nemico nascosto “ ti farò capire io, di chi sono!”

Andai a dormire, dopo aver letto parecchio. Nel sonno mi ritrovo nella mia scuola. Nella stanza c’è un collega che conosco. Percepisco dal suo sguardo qualcosa di inquietante. Voglio uscire dalla stanza e lui me lo impedisce. Con una scusa riesco a guadagnare l’agognata uscita e scendo frettolosamente le scale della scuola. Mentre scendo sento delle voci che mi dicono che Antony, questo il nome dell’amico è morto e che nella stanza c’è un diavolo con le sue sembianze. Riesco a guadagnare l’uscita. Eccomi per strada davanti alla scuola ed ecco altri insegnanti ai quali riporto l’accaduto e li vedo preoccupati.

Mi sveglio tutto sudato ed inquieto.

Ritorno a sognare e stavolta sono davanti a un presepe. Tra le statue c’è una statua che raffigura mio padre. Ad un tratto un ombra alle mie spalle sostituisce furtivamente la statua con un altra fatta di merda. Ancora quella presenza inquietante.

Mi sveglio. Stavolta mi alzo e vado a bere un po’ acqua. Dico un pater noster e mi dico mentalmente "stavolta nel sogno mi porto un crocifisso".

Riprendo a sognare e stavolta... sono in una società di import-esport. Ci sono dei pacchi davanti alla mia scrivania. Sembra una situazione tranquilla. Ad un certo

punto chiedo alla segretaria la natura di una spedizione e lei mi risponde che devono partire per l’America Latina. Per il Messico. Non mi dice chi è il cliente. Spinto dalla curiosità scendo nel deposito e vedo tanti pacchi pronti per la spedizione, apro i pacchi e con mia sorpresa scopro che ogni pacco contiene... un crocifisso. Il burlone me li voleva portare via, con quello stratagemma.

Il sentiero di Padre Sorin

Il giorno seguente al sogno feci colazione oramai da solo, neanche Peter si faceva vivo, del resto lui aveva interesse per Kate e non per un vecchio professore. Uscii dall’hotel che erano ancore le sette del mattino. L’aria le mattino, fresca e frizzante, sostava sui peli del viso. Chiesi in un incerto spagnolo a un ante di indicarmi le zone estreme dell’abitato. Mi indicò un tragitto lungo e contorto. Attesi un taxi. Quando arrivò rifeci all’autista la stessa domanda, quello non rispose, ma annuì col capo.

Dopo una buona mezzora di auto si fermò, pagai e scesi.

Davanti a me c’era una periferia desolata, la strada era fatta di fanghiglia e c’erano bambini che giocavano. Il fango che s’ asciugava sulle loro gambette assumeva un colore violaceo. Le case erano in parte di tufi con tetti di foglie e legno. Fili di corda attaccati ad alberi avevano stracci, più che vestiti, messi a cavallo.

Un odore acre di escrementi e di sudore si mescolava a quello dei vari focolari accesi. Gli uomini che venivano dai campi con dei muli, portavano legna, alcuni ceste di frutta e verdura. C’era una aria dimessa ma serena, i volti dei bimbi sorridenti. Una povertà che non mostrava sofferenza. La gente mangiava e viveva senz’ altro che quello che la natura provvedeva, tranne l’acqua, poca e misurata, per il resto non mancava nulla. Era quello il posto di padre Sorin, lo immaginavo. Trovai una casupola abbandonata con un tavolo, una croce e un messale. Il gesuita era ato da qui, anzi forse aveva scelto di stare con i poveri.

Una anziana era venuta intanto nella capanna e s’era inginocchiata su dei cenci. Pregava, una preghiera sommessa. Ecco perché Sorin era venuto qui. I poveri sono quelli che accolsero Gesù, che era povero. I poveri aprono la loro anima semplice e genuina, la offrono cosi senza fronzoli e danno tutto senza pensarci. I ricchi pregano col senso del dovere e pensano alla solidarietà come una sorta di baratto, per giustificare il loro benessere. Ecco trovato un percorso, se padre Sorin era ato da questo posto, era questo il sentiero da seguire. Beati i poveri di spirito, loro hanno una via preferenziale. Si confermavano le mie teorie, ora era tutto chiaro.

Per prima cosa dovevo raccogliere indizi. Il rudimentale altare era l’ultima cosa lasciata. La donna pregava. Quando terminò, le sussurrai a mò di domanda e indicando il messale: “Sorin?”

La donna annuì col capo e poi disse:

- Un hombre santo!

Avevo scoperto il punto di partenza. Presi il messale. Era in pessime condizioni, qualche margine roso da topi. Lo sfogliai piano, perché aveva fogli sottili. Era in spagnolo, la liturgia de la palabra era la parte iniziale della messa, il rito della lettura. Ma il foglio seguente della liturgia era sparito. Proprio il testo del vangelo. Come se fosse stato strappato. Controllai tutto il messale, mancava solo quel foglio. Presi il messale con me.

La sera telefonai a Kate e dissi di raggiungermi. Ora avevo bisogno della mia collega spagnola. Nei due giorni che arono prima dell’arrivo di Kate, feci solo qualche eggiata intorno all’hotel. Non volevo addentrarmi nell’interno.

Il non avere un auto mi bloccava. Però c’era un fatto nuovo. O meglio una sensazione che provavo. Era come se la protezione di padre Sorin avesse creato uno scudo attorno alla mia persona, mi sentivo protetto e l’astuto Astarot non faceva nulla. Sicuramente il prete, non so come, era a conoscenza del fatto che avevo raggiunto il suo villaggio, forse l’ultima postazione prima di sparire. C’era il mistero della pagina mancante e avevo bisogno di un altro messale per fare il controllo e capire il motivo della pagina mancante.

Quando arrivò Kate fu una festa, lei era ancora arrabbiata per lo scherzo, aveva fatto il viaggio in macchina con il cuore in subbuglio e la mente che correva nel vuoto, pensando alla madre morta. Una brutta avventura e una rabbia poi per aver capito il raggiro. Ma era opera del demonio che potevamo farci?

Illustrai a Kate la scoperta e fu raggiante e le parlai del messale. Lei disse subito:

- Andiamo in chiesa.

Andammo nella chiesa che stava dietro l’angolo, dedicata a l’Asunción. Il prete stava in preghiera in un angolo della chiesa, gli mostrammo il messale e lui disse in spagnolo che quello era una edizione molto vecchia e non si potevano fare confronti. Ma ci indicò un vecchio prete che viveva dalla sorella, che faceva la collezione dei messali. Andammo dal vecchio prete. Abitava poco distante dalla chiesa in una casupola senza pretese. Fuori c’era un gelsomino con i fiorellini bianchi che profumava delicatamente. La sorella del prete era molto aziana, sembrava senza tempo e ci condusse in una stanza dove in un letto giaceva un uomo anche lui molto vecchio. Era molto malato, disse la sorella, e non parlava più.

Mostrammo al prelato il messale. Lui lo guardò con gli occhi di traverso, senza muovere il capo, poi lo prese con una mano. Emise un gemito come se aspirasse

l’aria, ebbe un sussulto. Con le mani tremanti aprì il libro nel punto in cui mancava la pagina. Poi indicò, muovendo il dito come il battente di una campana, il cassetto del comodino e ci fece prendere una bustina di carta da visita, dentro c’era la pagina mancante, nello spazio in basso, bianco c’era un messaggio scritto in spagnolo, Kate lesse:

“Caro fratello il messaggio che ti porterà un campesino, Armando, tienilo con te e mostralo solo a chi ti porterà il messale da cui manca questa paginetta. L’umanità è in pericolo, Astarot è tornato agguerrito, vuole conquistare il mondo, ha già diversi umani suoi adepti nei posti chiavi del potere, e sta per distruggere la Chiesa, io vado a combatterlo con tutto me stesso, ma ho bisogno di preghiere...

Era certamente di Sorin. Il messaggio finiva all’improvviso, forse il prete non aveva avuto il tempo di completare la frase e mancava la firma. Il vecchio prete, nel letto, fu come sollevato da un problema grave che lo tormentava, ora si distese di nuovo, come se avesse raggiunto lo scopo, chiuse gli occhi e si lasciò andare e morì davanti a noi. La sorella non piangeva, accarezzava dolcemente quel viso che s’era ad un tratto illuminato. Uscimmo dalla casa che eravamo inebetiti, con gli occhi pieni di luce e una scia di profumo di gelsomino dietro.

Il villaggio di Padre Sorin

Nei giorni che seguirono la morte del vecchio prete, ci mettemmo in giro a fare compere. Tende, attrezzature da campeggio, cibo e tutto l’occorrente per andare a vivere nel villaggio di Padre Sorin. Kate aveva portato la notizia che l’Università bloccava ogni finanziamento per la ricerca, perché la stessa aveva mutato obiettivo; lei s’era preso un periodo di ferie, io ero nell’anno sabbatico che precede la pensione. Eravamo liberi. Nel giro di mezza giornata ci trasferimmo nel villaggio, di sera. Le casupole erano illuminate dai fuochi intermittenti, non esisteva la luce elettrica, si percepivano profumi di arrosti e altri odori misti a puzze di latrine all’aperto.

Cercammo uno spiazzo vicino alla capanna chiesa e ci accampammo. La nostra tenda era sufficientemente grande, stile militare, aveva due posti letto distanziati da un tavolino. Io avevo l’abitudine di leggere, prima di addormentarmi, alcuni brani del messale del nostro Sorin mi conciliarono il sonno. Sognai di trovarmi sempre su quello spuntone, nel vuoto, sulla valle di Giosafat. Sempre quel posto dove, secondo la tradizione, si dice che si raduneranno tutte le nazioni nel giudizio universale. Io vedevo solo buio e nebbia. Il posto dove poggiavo i piedi si riduceva. Saltai appena vidi un altro pezzo di roccia. Ma anche questo si riduceva. Saltai ancora su una piattaforma di roccia che apparve davanti a me. Barcollavo, ma non cadevo. Nel sogno non avverti il peso del corpo. La piattaforma vagava come una sorta di zattera sospesa nel vuoto. Non c’era alcuna luce, ma la nebbia riportava una luce diafana che faceva vedere le cose appena erano vicine. Nel mentre la piattaforma vagava vedevo la nebbia diventare rosa. Mano a mano che si andava si sentiva un calore che veniva dal fondo. La piattaforma stessa si stava riscaldando. Ad un certo punto s’apre davanti a me una voragine, sotto c’è il magma del centro della terra, tutto è infuocato e intorno sbuffano effluvi di zolfo, di colore rosso fuoco con striature di verde. Un paesaggio indescrivibile. La piattaforma si piega ed io sto per cadere. Mi aggrappo con le mie braccia alla roccia per non cadere. Ma la roccia

stessa ora precipita nel magma.

Mi svegliai. Ero agitato, Kate s’era svegliata anche lei perché mi aveva sentito gemere. Presi dalla borraccia un sorso d’acqua e m’alzai. Il villaggio dormiva, si ascoltava qualche anziana che pregava. Sorin doveva aver lasciato qui una eredità religiosa notevole. Si percepiva che c’era devozione in quelle preghiere di gente povera. Il Gesuita aveva certamente lasciato una situazione di pericolo per rifugiarsi qui. Oramai il nemico era noto, era comune. Ora entrava nei miei sogni per inquietarmi. Ma ero più forte di lui. Sentivo di avere la protezione di Mosè, la piccola pietra l’avevo portata con me.

L’indomani feci da solo un giro del villaggio, a tutti quelli che incontravo chiedevo di Armando. Tutti a quella domanda fuggivano. Tornai nella tenda e dissi a Kate che s’era svegliata

- Armando non lo troviamo facilmente

- Perché?

- Tutti scappano appena pronuncio quel nome

- Forse hanno paura, deve essere successo qualcosa

- Eh si, dobbiamo scoprirlo se vogliamo uscire sani da questa storia

Verso il tardi della mattinata un ragazzetto tutto sporco arrivò da noi con un pezzo di lana e pronunciando il nome del campesino indicava con l’indice una collina a ovest. Era chiaro che voleva dire che Armando pascolava le pecore là. E appena pronti ci dirigemmo verso quella collina. Procedendo verso un sentiero ci alzavamo rispetto al villaggio. Ora vedevo quelle straduzze di fango e le casette appena abbozzate dell’abitato. C’era una signora che tornava da un piccolo torrente con dei panni bagnati, un'altra li aveva già stesi, qualcuna con una scopa fatta di rami toglieva sporcizia da dentro la casupola. Pensavo a questi gesti semplici pieni di una grande dignità. L’essere poveri non fa perdere la dimensione umana. Ognuno si accontenta di quello che ha e porta meno fardelli al cospetto di Dio. Mentre i ricchi sono appesantiti dai pensieri terreni e fanno fatica anche a battersi il petto, in Chiesa.

Il luogo dove stavano le pecore era una sorta di terrazzamento naturale e ampio. Si vedevano sul fondo le montagne e spirava un vento tiepido. Il campesino stava lontano e veniva verso di noi con il bastone levato in alto. Io tenni bene in vista il messale con la mano destra. Mentre Armando giungeva verso di noi, il suo o rallentava, gli occhi diventarono fessure, perché cercava di capire cosa tenessi in mano. Quando fu ad appena dieci metri s’inginocchiò e si mise a piangere.

Armando non era anziano, ma il tempo s’era presa la sua gioventù e il sole la sua pelle. Era scuro e rugoso, gli occhi infossati per malnutrizione. Era chiaro che non mangiava per penitenza. Tremava per l’emozione. Forse una sorta di profezia ora s’avverava, eravamo annunciati. Quando notai una sorta di distensione, dissi a Kate di parlare in spagnolo al pecoraro.

Armando raccontò:

Padre Sorin arrivò qui che io ero bambino. Lo accolsi come un padre. Per tutti gli anni che lui fu qui, fu il nostro prete, il medico, il falegname, l’amico. Tutto questo villaggio divenne una famiglia. Dopo trent’anni è arrivato qui un

personaggio strano. Si faceva chiamare Il Viaggiatore. Non si sapeva da dove venisse. Con Sorin pareva andare d’accordo. Solo che il padre non stava più con noi. Si sentiva discutere molto, anche qualche volta a voce alta. Poi il mattino il padre se andava laggiù verso quella montagna e tornava la sera. Noi restavamo qui ad aspettarlo. Eravamo diventati tristi e infelici. Qualche anziana recitava il rosario. Una sera tornò che era agitato e il mattino non lo vidi più e trovai quel messale con l’indicazione di portare una pagina da lui sottoscritta al suo amico prete. Ora sono due anni che non sappiamo più niente. Ma il prete che non voleva morire mi disse che dovevano arrivare due archeologi dall’America. Per questo sono rimasto cosi colpito dopo aver visto il messale e voi due.

Il racconto del pastore ci aveva convinto e anche costernati. Eravamo diventati pedine di un gioco che non conoscevamo e quella circostanza sembrava una vera e propria investitura. Aiutai ad alzarsi e diedi al campesino un pezzo di pane e gli ordinai di mangiare, ora che era stato raggiunto il suo scopo la sua penitenza era finita. Ora era finito anche il nostro impegno nel villaggio. Lo lasciammo la stessa sera, mentre tutti s’apprestavano a dormire, perché in assenza di luce elettrica è il sole che spegne la giornata. Caricammo sull’auto le nostre cose. Io vedevo all’orizzonte il sole che aveva bagnato di rosso la costa del monte, e proprio sotto il posto dove era scomparso padre Sorin, c’era un gioco di luci e ombre e mi parve di vedere una Croce. Strinsi nella tasca la mia pietra e partimmo.

L’incontro con padre Sorin

Nei pochi giorni che seguirono, Kate e io ci separammo. Lei si vedeva con il poliziotto e io riflettevo sul da farsi. Avevo la sensazione d’essere di fronte ad una cosa troppo importante, vitale. Ogni tanto pensavo alla scena del fiume di Napoli, con la visione di Sam del futuro che mi sapeva morto. E davvero questo tarlo mi girava nella mente. Allora distoglievo il pensiero. La pietra che avevo tolto dalla campana di vetro la tenevo con me. Pensavo ai miei colleghi, che mi sfottevano per quella pietra. Un frammento delle tavole di Mosè. Questo io sapevo, ma le prove non le avevo più cercate. Ora era un reperto di fede. Nulla più.

A metà settimana ci vedemmo in tre e decidemmo di fare un escursione sul luogo dov’era scomparso il gesuita.

La strada non arrivava fino a quel punto. Proseguimmo a piedi. Un percorso contorto e in salita. Impiegammo un ora fino a trovarci su una sorta di altopiano proprio sotto il monte. Manco dovevamo cercarlo. In fondo, proprio sotto il monte, c’era il frate. Era incredibile la sua figura, sembrava incartapecorito come uno spaventaeri, con le vesti dell’abito talare che svolazzavano facendo un sordo rumore di ali sbattute al vento. Quando fummo a poche decine di metri, una voce disse:

- Solo uno può venire

Ci guardammo e mentre il poliziotto faceva un cenno di movimento verso il

frate, io lo bloccai ponendogli una mano sulla spalla

- No, Peter, tocca a me

Mi misi a camminare lentamente verso il frate, mentre una nebbia mi inghiottiva. Il frate ora era meno rigido, ma non muoveva la testa che ne stava reclinata al lato. Tutto intorno era diventato un paesaggio grigio e diafano e la figura scura del gesuita sembrava un ombra sfocata.

- Perché non mi guardi padre?

- Perché sono un anima persa – rispose Sorin

- Che cosa è accaduto padre?

- Ascarot mi ha tratto in inganno, svegliando in me la malsana curiosità di vedere l’al di là, ha fatto venir meno il mio atto di fede, e ora mi trovo privato del perdono di Dio.

- Padre, guardami – dissi io

-Nooo!!! – urlò il padre - se io ti guardassi sarei catapultato alla fine dell’ inferno e non avrei più la possibilità di parlarti, non posso guardare la luce.

La situazione era davvero strana. Mi girai intorno e chiamai i miei amici. Nessuna risposta.

- Non serve chiamare – disse il gesuita, sempre con il capo reclinato – andiamo.

- Dove?

- Nel mondo degli spiriti inquieti.

Cominciammo a camminare. Il gesuita si spostava a zig zag volando a pochi centimetri da terra, anzi i suoi piedi non li vedevo al di sotto della tonaca. Solo nebbia fitta e una luce tenue. Ogni tanto si vedevano ombre che si trascinavano come se fossero nella polvere. Anche loro con il capo ricurvo piegato di lato per non vedere. I miei i lasciavano un impronta luminosa e questa luce a queste ombre dava terrore.

- Dove siamo? - dissi al gesuita che stava sempre avanti a me

- Nell’antinferno

- Questo è l’inferno?

- Si, cosa credevi che fosse la privazione di Dio, assenza della luce, negazione della mente. Chi non ha fede non ha vita, o la chiami vita quello scivolare nella polvere?

Era incredibile. Incontravo padre Forin nell’aldilà. Mi toccavo per capire se ero vivo. Eppure ero là. Vedevo ombre sempre più numerose, gruppi che apparivano come legati.

- Sono famiglie che scelgono di stare insieme anche se non c’è nessuna gioia – disse il gesuita che leggeva nella mente - ci sono anche quelli – riprese Sorin – che dicevano di esser cristiani ma si comportavano al contrario pensando che con i soldi si potevano comprare il perdono –

Mi sembrava tutto strano. Se padre Sorin era qui perché tutte quelle visioni, quei richiami? E che funzione aveva un archeologo qui?

Non avevo una risposta. Il padre non leggeva questo pensiero. A un certo punto arrivammo davanti a una porta. Chiamarla porta è un eufemismo. Era una montagna alta più di mille metri. Però era davvero un enorme portone di roccia di ferro. Noi eravamo come due minuscole formiche di fronte a quella immensa struttura. Ci mettemmo parecchio per sederci sopra un cordolo di ferro a rimirare questa cosa davvero incredibile.

- E la porta di Ascarot – disse il padre – oltre quella porta c’è la vita.

- La porta di Ascarot?

- Si, Nel, il demone ha messo una porta che priva me e tutte le anime che avevano il bisogno del perdono di Dio. Vuole che ci disperiamo, fino a insultare il Padre e dannarci per sempre.

Non so quanto tempo ammo a guardare quella porta. Stavo con il viso in su come quando si guarda un grattacielo e non si vede la fine del portone. Poi ad un tratto domandai

- Ma non c’è nessuna speranza di uscire? Perché mi hai chiamato?

Il padre andò avanti e indietro, poi si fermò è disse

- Nessuno ci può privare del perdono di Dio, in questa area ci sono persone che sono state imbrogliate dal demone anche in buona fede come me o comunque senza una grande consapevolezza. Quella porta è del demone. Tu puoi distruggerla.

- E come?

- Hai un pezzo della tavola di Mose su cui è impresso il nome di Dio.

Cercai nella tasca il frammento di pietra. Si, c’era. Emanava una luce. Mi avvicinai alla porta, ma camminai per una mezzora prima di arrivare vicino alla immensa struttura. Scagliai la pietra contro la roccia. Il frammento entrò dentro il minerale di ferro come se fosse burro. E non accadde nulla.

La porta di Oriente

Per diverso tempo non accadde nulla. Il padre non parlava e io ero inquieto. Eppure la pietra l’avevo vista entrare e perdersi dentro la roccia. Mi ero privato dell’oggetto più importante e ora non accadeva nulla. Non avevo coscienza del tempo, in quella dimensione non esiste, tuttavia posso dire che successivamente si cominciò a sentire un sordo crepitio. In lontananza, su in alto, si vedevano degli sbuffi di calore, come un vapore che usciva a mo di zolfatare, piccoli o più potenti sbuffi. Con il are, di quelli che potevano sembrare giorni gli sbuffi aumentavano. L’enorme portone sembrava vivo. Piccoli terremoti che smuovevano l’aria. Le ombre piano piano s’erano tutte radunate sotto alla porta. Tante formichine sotto una montagna di roccia nera- Tutte con il capo reclinato. Un ombra s’avvicinò a me, alzò il capo e mi guardò. Era una bella donna.

Nooo! – s’udi un grido tutto intorno.

Lo sguardo della donna diventò ceruleo e assunse un ghigno terrorizzato, mentre veniva risucchiata e spariva. In quel mentre si vedeva da quella stessa area avanzare una striscia di fuoco.

- I demoni! - dissero le ombre come una sol voce.

La porta ora cominciava a tremare sempre più con un fragore assordante, con sommovimento di massi, pietre e terremoti. Le pietre, prima piccole e poi più grosse avano sopra la nostra testa verso la striscia di fuoco. Una pioggia di massi che aumentavano la velocità fino a sembrare cancellare o spegnere la

striscia di fuoco. La porta di Ascarot era crollata, la porta dell’inferno era chiusa. Davanti a noi ora c’era un sentoero di luce. Appena varcata la soglia il padre, usci la testa e si tolse il cappuccio. Mi guardò con i suoi occhi raggianti di gioia

- Padre – dissi io

-Figlio mio - rispose il gesuita abbracciandomi stretto e a lungo.

Il padre mi prese la mano e cominciammo a camminare. Le altre anime ci seguivano. Ora li vedevo erano usciti dalla polvere. Ogni volta che varcavano la porta alzavano la testa. Anche se l’antinferno era stato cancellato, c’era il timore di perdersi. Anche se il paesaggio non era molto diverso, sempre nebuloso, si percepiva una diversa sofferenza, più di penitenti che di dannati.

Un gruppo aveva anche una donna con loro che pareva triste. Era la donna che mi aveva guardato. Il crollo della porta l’aveva salvata. Appena in tempo.

La strada era un selciato di pietre luminescenti e noi sembravamo una sorta di processione. Una specie di magma benefico. Girandomi indietro vedevo questo fiume di anime che uscivano dalla porta e mi chiedevo se davvero ero stato io l’artefice di tutto questo.

Il padre era tornato il gesuita di sempre, salutava e benediceva con la mano quelli che incontrava. C’erano altre presenze in quel posto, camminavano tutte col viso leggermente alzato a guardare in alto. Uno portava un piccolo cane in braccio.

- Anche animali, qui? – domandai

- Tutte le creature di Dio – fu la laconica risposta del gesuita

Nel mentre stavamo camminando, senti il suono dei i sul selciato mentre le ombre si dipanavano, e vedevo una strada urbana e tanta gente. Vidi Kate che piangeva sorretta da Peter, i miei alunni, i miei colleghi.

- Dove siamo? Dissi

- Al tuo funerale – rispose il gesuita.

Fui preso dallo sconforto. Allora la visione di Sam era giusta. Mentre stavo pensando a questo il corteo funebre si allontanava e spariva nella nebbia, anche il rumore dei i sul selciato svanì. Io continuai a comminare in silenzio. Cercavo di non pensare al funerale. Anche se, come tutti i ricercatori, c’è sempre la voglia di raccontare quello che gli è accaduto. Mi rammaricava, ora che ero morto, di non poterlo fare.

La Porta di Oriente era davvero lontana, appariva come un piccolo buco, mentre stavamo salendo su un monte. Quando fummo sopra vidi lo spettacolo della valle di Giosafat. Ma stavolta non c’erano demoni, c’era tanta umanità che attraversava il fiume del tempo. In quella grande apocalisse del giudizio universale.

Avevo salvato Padre Sorin, attraverso una ricerca archeologica diversa, come

quelle che avevano interessato tutta la mia vita. Dal 1925 a Megiddo, nel 1945 a Napoli e nel 1965 in Messico erano stati tre momenti epocali, quaranta anni centrali in una vita di un settantenne.

Io stetti a lungo ad ammirare questa valle piena di luce e non mi rammentai più del funerale. Ora vedevo il mio punto di arrivo dell’archeologo di Dio.

Nel mio studio

Non so cosa direte ora. Di questa storia che appare senza un costrutto, con una trama assurda, piena di soprannaturale. Fatto sta che quando arrivammo sopra il monte, padre Sorin m’ abbracciò e mi disse semplicemente:

- Grazie

Un ringraziamento che voleva anche essere un “chiudere la porta del cielo”. Difatti, subito dopo mi ritrovai nella mia stanza. La mia pietra sacra era nella mia teca di vetro, sul mobile del soggiorno. Tutto era come l’avevo lasciato. Sulla scrivania c’era la lettera dell’Università che mi metteva in pensione con la qualifica di docente emerito, ormai sulla strada della vecchiaia insonne.

Avevo anche una lettera di Sam, il fotografo, che s’era risposato e aveva una bambina adottata dall’Egitto, tanto per non cambiare. E io mi sono messo a scrivere questo racconto lungo. Un po’ per chiudere la trilogia della mia vita, ma anche per raccontare di questo straordinario padre Sorin.

A proposito Kate mi fece visita il giorno dopo. Mi voleva coinvolgere in un viaggio in Messico per una ricerca sui Maia. Rifiutai...per raggiunti limiti di età. Le chiesi, invece, notizie di Padre Sorin. Con mia grande meraviglia mi rispose:

Padre Sorin? Non lo conosco.

Poi aggiunse:

- però se non ricordo male, me ne ha parlato mia madre che è messicana

Detto questo, andò a prendere un’enciclopedia latino americana e trovò scarne notizie sul padre. Allora vediamo: " è stato presente in Messico nel 1600 in un piccolo villaggio vicino a Juárez, lo ricordano perché sparì misteriosamente nel nulla... ".

Trilogia di Nelson Bentham Mill

Alla ricerca dell’esodo biblico (Le scuderie di Re Salomone) La Croce insanguinata Alla ricerca di Padre Sorin - Archeologo di Dio

Note sull’autore

Roberto De Giorgi

Vice Direttore del quotidiano on line Agorà Magazine, vive e lavora a Taranto, da sempre impegnato nella politica ambientale e sociale

Ha scritto anche

FUGA DALLA CITTA’

Gioventù, ioni e fermenti sociali della Taranto degli anni 60/70

ROMANZO ( già pubblicato nella collana i libri di agora in formato e book )

1)Cira e le altre – Braccianti e caporali – romanzo sociale 2)Il lavoro che non c’è – Indagine tra i disoccupati 3)Una storia invisibile - un percorso di fare impresa sociale in un paesino del sud Italia 4)Delirio di un condannato a morte 5)Città e Campagna – quale futuro per le città?